• «Se muoio riportate il mio corpo in Guinea»
    https://www.meltingpot.org/2024/04/se-muoio-riportate-il-mio-corpo-in-guinea

    «Si je meurs jaimerais quon rianvoi mon corps en Afrique, ma mère serait ravie(…)les militaire Italien ne conait rien saufe largent,mon Afrique me manque beaucoup et ma mère aussi. Il ne faut que pleure a cause de moi, paix á mon âme que je repose en paix» Aveva lasciato un messaggio di addio su una parete della sua camerata: un suo autoritratto e qualche riga in francese, poi Ousmane Sylla, detenuto nel CPR di Ponte Galeria di Roma, muore. Solo 10 giorni dopo, attraverso le reti sociali, la famiglia apprende la triste notizia e fin da subito dichiara di non

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • Une rapporteuse de l’ONU accuse Israël de commettre plusieurs « actes de génocide » à Gaza
    25 mars 2024
    https://www.france24.com/fr/moyen-orient/20240325-%F0%9F%94%B4-en-direct-le-conseil-de-s%C3%A9curit%C3%A9-de-l-onu-

    La rapporteuse spéciale des Nations unies pour les territoires palestiniens affirme dans un rapport publié lundi qu’il « existe des motifs raisonnables » de croire qu’Israël a commis plusieurs « actes de génocide », évoquant aussi un « nettoyage ethnique ».

    « La nature et l’ampleur écrasante de l’assaut israélien sur Gaza et les conditions de vie destructrices qu’il a causées révèlent une intention de détruire physiquement les Palestiniens en tant que groupe », indique Francesca Albanese, dans le rapport qu’elle doit présenter mardi au Conseil des droits de l’Homme à Genève.

    • https://www.youtube.com/watch?v=n8igCKFvv4Y&t=171s


      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Questa è l’ora der fomento

      Quando Serpico morì ero lì,
      fuori da scuola
      Sette colpi di pistola
      Abbiamo avuto, il piombo, il fango e tutto quanto
      Ciò che sognavamo era un altro mondo mica l’altro mondo
      Chiamo a casa, faccio tardi ma
      Tra ambulanze e sirene corro qua e di là
      In quell’età che non fa rima con paura
      Ventotto maggio dell’ottanta, chiamo la questura

      Lacrime di cenere, celere e grida
      Occhi di ragazza fra questa cortina
      In questa guerra lei che cura ogni mia ferita
      Otto e dieci di mattina questa è la mia vita

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Questa è l’ora der fomento

      Quando Serpico morì stavo lì, banco di bambino
      C’era Francesco, Egidio e Federico
      Oggi la campanella suona prima che c’è un fatto grave
      Evangelista cade
      Dice la maestra e poi mia nonna, roba da grandi
      Sì, va a casa, mamma, che si è fatto tardi
      Fabio non ci sta, lui non salta un pranzo
      Dieci anni più di me e sembra così alto
      Dopo arriva pure pa’, urla corri mano (?)
      A casa c’è la polizia, quando arriviamo
      Mia madre piange dice, «Non ha fatto niente
      Mio figlio non mente, è solo uno studente»

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Di colpo come pioggia hanno sparso l’erba
      Da Villa Ada a Val Padana e l’Africano intero
      Fiamma dello squaglio, conca di cucchiaio
      Sangue sul divano ricordo operaio

      In rivolta perduta
      generazione dissolta, illusa rivoluzione
      Mentre Serpico controlla a colpi di pistola
      Ucciso una mattina così, fuori da scuola

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Se c’avessi diciott’anni
      Co quer fuoco che c’hai dentro
      Je direi a tutti quanti
      Me ne vado cor fomento

      Questa è l’ora der fomento

      #Serpico #terrorisme #Italie #musique #chanson #musique_et_politique #Francesco_Evangelista #Nuclei_Armati_Rivoluzionari (#Nar) #Piotta

  • Ferrara, manifestazione regionale contro l’apertura del CPR
    https://www.meltingpot.org/2024/02/ferrara-manifestazione-regionale-contro-lapertura-del-cpr

    Manifestazione regionale a Ferrara contro i C.P.R. promossa per sabato 2 marzo alle ore 15 da una variegata rete di oltre 50 associazioni e organizzazioni della società civile ferrarese che in questi mesi si sono mobilitate contro l’ipotesi di apertura di un nuovo Centro di Permanenza per il Rimpatrio, chiedendo nel contempo la chiusura di quelli esistenti. Una protesta a cui hanno aderito realtà sociali da tutta l’Emilia-Romagna che stanno condividendo un percorso regionale “No CPR” che, partito lo scorso ottobre con la manifestazione di Bologna, ha promosso diversi appuntamenti di mobilitazione e approfondimento. Ferrara, guidata dal leghista Alan (...)

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • Pas de la dynamite mais du tabac

    Transcription intégrale, accompagné d’une introduction, du dossier contenant les interrogatoires des anarchistes en Suisse romande (parmi lesquels Jean Grave, Élisée Reclus et Jean-Louis Pindy) dans le cadre de la première opération de la police suisse contre les anarchistes. Ce livre est plus amusant qu’il n’y paraît du fait que la police et la magistrature cherchent de la dynamite et trouvent du tabac mais aussi des réponses ironiques et des moqueries des militants les plus expérimentés parmi les interrogés...

    https://www.editions.federation-anarchiste.org

    –—

    Quelques citations :

    « La Confédération helvétique était alors considérée comme une terre de refuge par toute l’Europe. Sa relative tolérance est particulièrement notable par l’absence presque totale de sources de police concernant des villes comme Genève avant les années 1880, ce qui indique l’application d’une vraie démarche libérale, selon laquelle aucun résidant n’était surveillé ni inquiété tant qu’il ne commettait pas un délit de droit commun. La police ne s’occupait donc pas a priori de la surveillance des exilés politiques, même s’ils professaient les idées les plus radicales. » (p.15)

    « Cependant, les réfugiés en Suisse ne se sentent plus à l’abri des persécutions, et les épisodes d’expulsions se multiplient : l’un des cas les plus célèbres est celui du décret fédéral du 19 janvier 1895, qui décrète l’expulsion de 18 Italiens ’indésirables’ parmi lesquels un anarchiste très connu, #Pietro_Gori (1865-1911), et dont une grande partie échappaient aux lois spéciales du gouvernement réactionnaire de #Francesco_Crispi. A partir de cet épisode, Gori écrit la plus célèbre chanson anarchiste italienne, Addio a Lugano, dont le texte retranscrit précisément la déception des expulsés quand à la fin du mythe de la ’libre Helvétie’, en accusant la Suisse d’agir pour le compte d’autrui :
    Elvezia il tuo governo schiavo di altrui si rende
    di un popolo gagliardo la tradizione offende
    e insulta la leggenda del tuo Guglielmo Tell. » (p.28)

    #anarchisme #livre #Suisse #fédéralisme #histoire #Internationale_antiautoritaire #Saint-Imier #Addio_a_Lugano #Addio_Lugano_bella

  • «Siamo vite sotto minaccia»
    https://www.meltingpot.org/2024/02/siamo-vite-sotto-minaccia

    di Monica Serrano Sul ciglio della strada lungo via Casilina, nel quartiere di Torpignattara, si sentono rumori laboriosi. È in corso la ristrutturazione dell’Associazione Dhuumcatu, in bengalese “Stella cometa” – un gruppo di persone straniere attive da più di un decennio in questo quartiere periferico di Roma, prima all’Esquilino e ancor prima ad Anagnina. Una lunga storia che tocca le zone della città più abitate dalle persone migranti e dove la ricerca di lavoro, il diritto alla casa e alla vita famigliare si uniscono alla lotta per un pezzo di carta che fa la differenza, il permesso di soggiorno. (...)

    #Approfondimenti #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • Cronache di resistenza a Milano
    https://www.meltingpot.org/2024/02/cronache-di-resistenza-a-milano

    di Luna Selimovic e Sofia Mele Nel pomeriggio di giovedì 8 febbraio il grido dellə attivistə della città di Milano si è unito al coro delle proteste indette a Roma a seguito del suicidio di Ousmane Sylla nel CPR di Ponte Galeria. Numerose sono state le persone solidali accorse alla chiamata del presidio indetto dalla Rete Mai più Lager – No ai CPR per esprimere la rabbia e il dolore e rileggere ancora una volta insieme le parole di Ousmane scritte sul muro del CPR. Dopo la notizia dell’ennesima morte, il presidio sostiene ancora più fermamente l’importanza di denunciare la

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

    • https://www.youtube.com/watch?v=5g4arkqC8gM

      Destinazione lager!
      Partono vagoni notte e giorno
      il biglietto è solo andata e non c’è ritorno
      nei tuoi bellissimi occhi neri
      non c’è domani non c’è oggi e non ieri

      Dentro il carro merci il tempo si è fermato
      è passato tanto tempo e tu non sai quanto hai viaggiato
      lacrime e sudore fame sete tosse e scarpe rotte
      il tempo non esiste e non distingui più il giorno dalla notte

      Alla stazione dove arrivi la neve danza tutto intorno
      alla stazione dove arrivi è sempre notte e non è mai giorno
      alla stazione dove arrivi la neve gira gira gira come impazzita
      e allora pensi che vita è già finita

      Destinazione lager!
      le ciminiere affondano nel cielo

      Destinazione lager!
      e nei tuoi occhi grandi passa un velo
      solo paura nel tuo viso e nel tuo cuore
      non c’è più tempo per parlar d’amore

      Destinazione lager!
      le ciminiere si infilzano nel cielo

      Destinazione lager!
      e nei tuoi occhi belli cala un velo
      solo sgomento nel tuo cuore e nel tuo viso
      non hai più voglia di carezze non hai più voglia di un sorriso

      #Francesco_Pais #histoire #musique #guerre #chanson #musique_et_politique #WWII #camps_d'extermination #shoah #seconde_guerre_mondiale #deuxième_guerre_mondiale #nazisme #lager

  • ​​Tra le macerie del CPR di Milo: voci da un’indegna reclusione, mentre la CEDU condanna l’Italia
    https://www.meltingpot.org/2024/02/tra-le-macerie-del-cpr-di-milo-voci-da-unindegna-reclusione-mentre-la-ce

    Un testo congiunto di ARCI, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Borderline Europe, Campagna LasciateCIEntrare, Maldusa, Mem.Med – Memoria Mediterranea: “La Corte Europea dei Diritti Umani ha ordinato al Governo italiano l’immediato trasferimento dal CPR di Trapani di una persona trattenuta in condizioni materiali degradanti. Una sentenza che riguarda quanto accaduto al CPR di Milo nell’ultima settimana di gennaio e che riteniamo indispensabile ricostruire e condividere grazie alle voci delle persone trattenute”. Un cittadino tunisino richiedente asilo, insieme a numerose altre persone, a seguito dell’incendio del 22 gennaio, era trattenuto in condizioni degradate e totalmente inadeguate, senza alcuna (...)

    #Approfondimenti #CPR,_Hotspot,_CPA #Francesca_Reppucci #Nicoletta_Alessio

  • #Francesca_Albanese, UN Special Rapporteur oPt sur X :
    https://twitter.com/FranceskAlbs/status/1752523189102530861

    Western governments have suspended #UNRWA funds due to serious ALLEGATIONS agst 12 staff.

    Same governments have not suspended ties with the state whose army has killed 26k ppl in Gaza in 3.5m,though ICJ said it may plausibly constitute #GENOCIDE.

    Double standards? Yes, big time.

    #communauté_internationale
    #nos_valeurs

    • « Israël ne peut pas invoquer la légitime défense lorsque les menaces émanent d’un territoire qu’il occupe », appuie Francesca Albanese.

      Il y a une voix qu’on n’entend presque pas en francophonie depuis le début de la nouvelle guerre entre Israël et le Hamas. Celle de la rapporteuse spéciale des Nations unies sur la situation des droits de l’homme dans les territoires palestiniens occupés depuis 1967, Francesca Albanese.

      Avocate spécialiste du droit international et chercheuse à l’Université de Georgetown aux Etats-Unis, l’Italienne a pourtant une connaissance fine du terrain, notamment pour y avoir vécu lorsqu’elle travaillait pour l’agence onusienne pour les réfugiés palestiniens (UNRWA).

      Désormais interdite d’entrée en Israël et en territoires palestiniens par l’État hébreu, la quadragénaire a rendu son troisième rapport en juillet, documentant les « crimes de guerre » israéliens, la « ségrégation », le « régime d’apartheid », le « nettoyage ethnique », les détentions d’enfants et les « prisons à ciel ouvert » que sont — selon elle — devenus tous les territoires palestiniens, Cisjordanie comprise.

      Ce jeudi, Francesca Albanese, en poste depuis mai 2022, dénonce : l’opération militaire d’Israël à Gaza est « illégale ». Elle ne parle en revanche pas de « génocide » comme le président brésilien Lula, mais comprend l’utilisation du mot. « Les crimes les plus atroces commencent par la déshumanisation […], lâche-t-elle dans cette interview, menée lundi entre New York et Lausanne. Ce qui est en train de se passer [à Gaza] est clairement dangereux. »

      Francesca Albanese, vous appelez à un cessez-le-feu immédiat à Gaza. Comment expliquez-vous que les pays occidentaux ne fassent pas de même ?
      Je ne comprends pas ce qui dissuade des pays d’appeler à un cessez-le-feu dans une situation où l’usage de la force n’est pas en ligne avec le droit international.

      Vous dites que l’action militaire israélienne est illégale ?
      Israël a décidé de lancer une guerre en invoquant l’article 51 de la Charte des Nations unies (ndlr : le droit à la légitime défense en cas d’agression armée) contre le peuple qu’il occupe militairement. Je suis désolée, mais c’est illégal du point de vue des Nations unies.

      Pourquoi ?
      Cette façon de faire suit la doctrine étasunienne de légitime défense, mais pas la Charte des Nations unies et la jurisprudence de la Cour internationale de Justice.

      Israël a le droit de se défendre, non ?
      Bien sûr. Israël a le droit de se protéger, de protéger ses citoyens, etc. Mais le droit d’utiliser la force contre un autre État n’est reconnu que dans deux cas.

      Lesquels ?
      Premièrement, lorsqu’il y a une attaque ou une menace sérieuse d’une attaque émanant d’un autre État, et non d’un groupe armé faisant partie dudit État. Or Israël n’a jamais dit avoir été attaqué par l’État palestinien. Israël a toujours dit être en guerre contre le Hamas. Deuxièmement, comme l’écrit la Cour internationale de Justice dans un arrêt de 2004, Israël ne peut pas invoquer la légitime défense lorsque les menaces émanent d’un territoire qu’il occupe. Précisément parce qu’Israël occupe ces territoires, imposant un régime d’oppression et de répression à la population.

      « L’entier du territoire palestinien est une prison, contrôlée de l’intérieur par Israël, un panoptique »Francesca Albanese, rapporteuse spéciale de l’ONU pour les territoires palestiniens occupés

      Une population sous occupation qui a le droit de résister, insistent les Palestiniens.
      Le droit international reconnaît le droit de résister à un régime d’oppression et à une occupation étrangère. Mais est-ce que ça justifie ce que le Hamas a fait ? Jamais de la vie ! Non, non, non et non. Ce que le Hamas a fait ne relève pas de la résistance légitime. Les civils sont des civils et ne devraient jamais être visés, que ce soit par des acteurs étatiques, des militaires ou des groupes armés. Ce qu’a fait le Hamas est épouvantable.

      Concrètement, qu’aurait dû faire Israël ?
      Israël était autorisé à repousser l’attaque, à arrêter ou à neutraliser ceux qui devaient être repoussés. Dans le même temps, Israël aurait dû demander aux Nations unies de l’aider à démilitariser le Hamas, parce que c’est une cible militaire légitime, tout en réclamant une enquête pour que les auteurs soient traduits en justice. C’est ce que dit le droit international.

      En parlant de l’ONU, le secrétaire général Antonio Guterres s’est attiré les foudres d’Israël en disant que les événements du 7 octobre ne venaient pas de nulle part. Dans l’un de vos rapports, vous soulignez que la Cisjordanie, au même titre que Gaza, est une prison à ciel ouvert pour les Palestiniens.
      L’entier du territoire palestinien est une prison, contrôlée de l’intérieur par Israël, un panoptique. Mon rapport, présenté en juillet devant le Conseil des droits de l’homme, porte sur la privation arbitraire de liberté. Il montre ce que veut dire vivre sous un régime d’occupation, où l’occupant est là pour coloniser le territoire. Le nombre de personnes arrêtées et détenues — y compris des enfants de 12 ans — arrachées au milieu de la nuit au confort de leur lit est immense. Depuis 1967, environ 800’000 Palestiniens ont été arrêtés et détenus par Israël sur la base d’une loi martiale, écrite par des militaires, appliquée par des soldats qui se considèrent en guerre avec la population locale. Les décisions sont ensuite rendues par des cours militaires. C’est ça, la réalité : il n’y a pas de vie civile pour les Palestiniens.

      « La plupart des enfants arrêtés par Israël le sont parce qu’ils jettent des cailloux sur des tanks »Francesca Albanese

      Concrètement, qu’est-ce que ça représente ?
      Si vous êtes Palestinien, vous pouvez par exemple vous faire arrêter si vous participez à un rassemblement politique de plus de dix personnes non autorisé par l’armée. Ce qui peut mener à dix ans en prison. Encore davantage si vous êtes associé à une organisation qu’Israël considère comme hostile. Or Israël considère comme hostile des partis politiques palestiniens et des associations philanthropiques. Même les organisations de défense des droits humains les plus reconnues sont considérées comme terroristes.

      Pourquoi des enfants sont-ils arrêtés ?
      La plupart des enfants arrêtés par Israël le sont parce qu’ils jettent des cailloux sur des tanks. Je ne dis pas que lancer des cailloux est un geste gentil. Mais la réalité du terrain montre qu’un enfant peut être arrêté chez lui au milieu de la nuit par 25 soldats armés. L’ONG israélienne de vétérans Breaking The Silence dit que l’armée le fait pour terroriser une population entière.

      Que se passe-t-il ensuite ?
      Ensuite, ces enfants sont placés en isolement, maltraités et même torturés, selon l’ONG Save The Children. C’est féroce.

      « Il est impossible de dire que la population gazaouie jouit d’une quelconque liberté ou qu’elle soutient le Hamas »Francesca Albanese

      Que fait l’Autorité palestinienne ?
      Dans les faits, l’Autorité palestinienne contrôle tout au plus les municipalités de Cisjordanie, pas le reste du territoire (ndlr : sous contrôle militaire israélien).

      Quid du Hamas ?
      Le Hamas fait aussi partie du problème parce qu’il gère la bande de Gaza de manière très autoritaire. La jeunesse de Gaza a essayé durant les printemps arabes et à d’autres moments de se révolter et de renverser le Hamas. Pour obtenir un régime plus démocratique et pour s’unifier avec ceux qui vivent en Cisjordanie. Sans succès. Par ailleurs, il ne faut pas oublier que le Hamas est une coconstruction d’Israël.

      Pourriez-vous développer ?
      Dans les années 1980, et probablement encore avant, le Hamas — une extension des Frères musulmans qui gouvernent comme des religieux — était fortement soutenu par les Israéliens dans le but de créer une faille au sein de la population palestinienne, traditionnellement laïque. Aujourd’hui, il est impossible de dire que la population gazaouie jouit d’une quelconque liberté ou qu’elle soutient le Hamas. Alors pourquoi punir une population entière pour les actes du Hamas ?

      Israël demande l’évacuation du nord de la bande de Gaza. Qu’est-ce que c’est si ce n’est pas du nettoyage ethnique ?Francesca Albanese

      Depuis le début de votre mandat, vous n’hésitez pas à parler de crimes de guerre commis par Israël.
      Je cite souvent ce chiffre : durant mon mandat, avant le 7 octobre, 60 Israéliens avaient été tués, contre 460 Palestiniens. Cette violence est caractéristique de la présence militaire et civile israélienne sur territoire palestinien. Depuis 1967, le Conseil de sécurité de l’ONU demande à Israël de s’en retirer. Non seulement Israël ne l’a pas fait, mais il a renforcé sa présence et a commencé à construire des colonies. Il y a actuellement 300 colonies illégales en Cisjordanie. Chacune de ces colonies est un crime de guerre.

      Pourquoi ?
      Parce que c’est un transfert de population civile de la force occupante vers le territoire occupé. Ce qui a mené à des confiscations de territoire et à des déplacements forcés de la population palestinienne.

      C’est pour cela que vous parlez de nettoyage ethnique ?
      Jusqu’ici, la population palestinienne a été déplacée en masse à deux reprises. Entre 1947 et 1949, 750’000 Palestiniens ont été déplacés et n’ont jamais été autorisés à revenir. En 1967, 350’000 Palestiniens ont été chassés de Cisjordanie, de la bande de Gaza et de Jérusalem Est, et n’ont jamais eu le droit de revenir. Et maintenant, ça continue : Israël demande l’évacuation du nord de la bande de Gaza. Qu’est-ce que c’est si ce n’est pas du nettoyage ethnique ?

      Et ces derniers temps ?
      Pendant que nous discutons, des communautés entières, des bergers et des Bédouins sont déplacés de force par des colons violents et armés. C’est une réalité depuis des années en territoire palestinien. Donc les Palestiniens font face à la violence de l’occupation, qui est ségrégationniste et avide de nouveaux territoires, mais aussi à celles commises par les soldats et les colons armés. Sans parler de la violence des attaques méthodiques sur Gaza. N’oublions pas que Gaza a été violemment bombardée en 2008, 2012, 2014, 2021 et 2022. La guerre de 2023 est une guerre sans commune mesure : plus de 8000 morts annoncés, dont 3500 enfants.

      « Ce dualisme légal est la colonne vertébrale d’un apartheid qui se traduit par des abus, de la violence et des humiliations quotidiennes »Francesca Albanese

      Vous parlez ouvertement de ségrégation. Parleriez-vous d’apartheid ?
      L’allégation d’apartheid est rejetée par certains États membres des Nations unies, qui font preuve de myopie stratégique pour des raisons politiques. Mais dans les territoires occupés, les Palestiniens évoluent sous la législation militaire alors que les colons, installés illégalement, répondent de la loi civile. C’est injustifiable. Ce dualisme légal est la colonne vertébrale d’un apartheid qui se traduit par des abus, de la violence et des humiliations quotidiennes. Je parle aussi de ségrégation parce que les Palestiniens sont séparés et isolés dans des enclaves. Gaza en est l’exemple le plus extrême. Mais même en Cisjordanie on compte 400 kilomètres de routes où les Palestiniens n’ont pas le droit d’aller, des barrières, des murs, des colonies fermées, des bases militaires, … Et puis, il y a la bureaucratie de l’occupation : une autre forme de confinement invisible pour les Palestiniens.

      Vous voulez parler des permis…
      Les Palestiniens ne peuvent rien faire sans la permission de l’armée. Ils ne peuvent pas construire une maison ou une école, ne peuvent pas travailler, cultiver leurs terres. Et ils sont continuellement surveillés et contrôlés à travers des systèmes d’intelligence artificielle et de surveillance numérique. C’est une prison hautement surveillée. Et un apartheid.

      Le terme de « génocide » est utilisé pour qualifier l’opération militaire d’Israël à Gaza, notamment par le président brésilien de gauche Lula. Est-ce un abus de langage ?
      J’ai lu la lettre signée par plus de 800 chercheurs et experts spécialisés dans l’étude de l’Holocauste et des génocides. Le 15 octobre, alors que le nombre de morts était bien inférieur à celui d’aujourd’hui, ils avertissaient sur le risque de génocide. Ils utilisent ce mot notamment parce qu’ils constatent le langage utilisé par les leaders israéliens. Les Palestiniens sont traités d’animaux. Naftali Bennett (ndlr : à la tête du parti nationaliste israélien Yamina) a même dit qu’il n’y avait pas de civils à Gaza. Les crimes les plus atroces commencent par la déshumanisation et ce genre de langage. Ce qui est en train de se passer est clairement dangereux. Et je comprends que ces chercheurs et le président Lula, comme d’autres, aient utilisé ce mot. Je suis inquiète.

      Mais vous, vous utiliseriez ce mot ?
      Je veux mener une enquête factuelle sur le terrain. Mais je souligne que le nombre de personnes tuées à Gaza a déjà dépassé celui de Srebrenica (ndlr : où 8372 Bosniaques avaient été massacrés en 1995 par les forces armées serbes de Bosnie), sans même compter les 4200 Palestiniens tués à Gaza dans les cinq guerres précédentes (ndlr : depuis 2008) ou ceux qui ont été tués durant la Grande marche du retour en 2018, manifestation largement pacifique à la frontière avec Israël. La situation est très, très, très sérieuse.

      Parlons de votre job. Vous n’êtes pas autorisée à entrer en territoires occupés puisque Israël vous l’interdit…
      C’était la même chose pour mes prédécesseurs Michael Link, Makarim Wibisono et Richard Falk. Ce dernier avait même été arrêté alors qu’il était en chemin pour les territoires occupés. Tout ceci dépasse les prérogatives d’une force d’occupation. Ceci dit, Israël ne délivre pas non plus de visas au staff international du Haut-Commissariat aux droits de l’homme.

      « Il y a eu une campagne publique et diffamatoire contre moi au début de mon mandat, qui s’est intensifiée au fil des ans »Francesca Albanese

      Comment travaillez-vous dans ces circonstances ?
      J’ai vécu sur place par le passé, j’ai une connaissance assez spécifique du terrain. J’ai notamment travaillé comme avocate pour l’UNRWA (ndlr : Office de secours et de travaux des Nations unies pour les réfugiés palestiniens au Proche-Orient). Et même après avoir quitté l’ONU, j’y suis retournée en tant que chercheuse. Depuis le début de mon mandat de rapporteuse spéciale, j’ai approché, de manière créative, tous les acteurs concernés sur le terrain. Les autorités israéliennes n’ont pas donné suite, mais j’ai, disons, des contacts plus informels avec des officiels. Je suis aussi en contact quotidien avec les associations de défense des droits humains, tant israéliennes que palestiniennes. J’ai aussi organisé des groupes de discussion en ligne, réunissant des centaines de personnes, des victimes et des experts. Pour mon rapport sur les enfants, j’ai interviewé des jeunes en Cisjordanie — à Masafer Yatta, à Jérusalem, à Hébron — et dans différentes parties de Gaza. Je ne sais même pas si ces gamins sont encore en vie.

      Vous subissez des pressions ?
      Israël et les sources pro-israéliennes disqualifient mon travail parce qu’ils me considèrent comme biaisée. Alors qu’ils me montrent ce qui est faux dans mes rapports et essayons ensemble de travailler à la construction d’une meilleure réalité pour les Palestiniens et les Israéliens, qui ont le droit de vivre en paix et dans la dignité, en bénéficiant de tous leurs droits. Il y a eu une campagne publique et diffamatoire contre moi au début de mon mandat, qui s’est intensifiée au fil du temps. Des mensonges, comme l’allégation selon laquelle je serais antisémite. Une allégation d’ailleurs rejetée par de nombreux chercheurs juifs de renom, qui ont pris ma défense sans même me connaître. On m’accuse aussi d’inciter à la violence simplement parce que je dis que la situation est si essentiellement violente qu’elle va forcément générer de la violence en retour. Ce sont de vieilles tactiques pour détourner l’attention de la réalité du terrain.

      « Je ne crois pas qu’exclure Israël de l’ONU serait nécessairement la meilleure option »Francesca Albanese

      On tire sur la messagère ?
      Oui, mais la messagère a le cuir solide.

      Est-ce que l’ONU sert encore à quelque chose aujourd’hui ? Personne ne semble l’écouter…
      C’est une question légitime et j’aurais aimé pouvoir amener une réponse positive. Mais je crois que nous avons atteint le point de rupture. Ce n’est pas seulement que les Nations unies ne sont pas écoutées. C’est qu’il y a un schisme au sein de l’ONU. Regardez le vote de l’Assemblée générale sur le cessez-le-feu. L’Assemblée générale a dû se réunir en urgence parce que le Conseil de sécurité n’a pas été capable de se mettre d’accord sur une résolution qui condamnait les événements du 7 octobre et qui appelait toutes les parties à se montrer responsables et à observer un cessez-le-feu pour laisser entrer l’aide humanitaire. Tout cela à cause du véto des États-Unis.

      Vous êtes précisément aux Etats-Unis en ce moment. Comment percevez-vous le débat politique autour de cette question ?
      En ce moment, c’est un anathème d’appeler à un cessez-le-feu parce qu’on considère que ce serait limiter le droit à la légitime défense d’Israël.

      Selon vous, est-ce qu’Israël, qui rejette les résolutions des Nations unies à son encontre, a toujours sa place au sein des Nations unies ?
      Je ne crois pas qu’exclure Israël serait nécessairement la meilleure option. Beaucoup de membres ont des bilans catastrophiques en matière de droits humains. Personne n’est complètement blanc. Reste que, selon moi, il devrait y avoir plus de pression pour qu’Israël respecte le droit international. Mais aujourd’hui, Israël affiche son orgueil au grand jour. L’ambassadeur israélien a demandé la démission du secrétaire général de l’ONU parce qu’il a dit qu’il fallait replacer les attaques du Hamas dans un contexte, qui est indiscutable et documenté. Celui d’un apartheid.

  • Mediterranea denuncia il Governo: «Ci ordinarono di deportare le persone in Libia»
    https://www.meltingpot.org/2023/11/mediterranea-denuncia-il-governo-ci-ordinarono-di-deportare-le-persone-i

    Illegittima fu la pretesa del Governo Italiano di consegnare alle “autorità libiche” le 69 persone soccorse a bordo e illegittime sono la sanzione e il fermo che ha colpito la Mare Jonio. È stato depositato venerdì 3 novembre al Tribunale di Trapani il ricorso contro i ministeri degli Interni, delle Infrastrutture e Trasporti, e dell’Economia e Finanze finalizzato a ottenere la cancellazione del verbale di “fermo amministrativo nave”, notificato al Comandante e all’armatore della Mare Jonio lo scorso 18 ottobre. Lo comunica Mediterranea Saving Humans che illustra i motivi del ricorso redatto dalle avvocate Cristina Laura Cecchini, Giulia Crescini (...)

    #Notizie #In_mare #Redazione #Approfondimenti #Francesca_Reppucci

  • #Francesco_Sebregondi : « On ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme »

    Après avoir travaillé pour #Forensic_Architecture sur les morts d’#Adama_Traoré et de #Zineb_Redouane, l’architecte #Francesco_Sebregondi a créé INDEX, pour enquêter sur les #violences_d’État et en particulier sur les violences policières en #France et depuis la France. Publié plusieurs semaines avant la mort de Nahel M., cet entretien mérite d’être relu attentivement. Rediffusion d’un entretien du 22 avril 2023

    C’est en 2010 que l’architecte, chercheur et activiste Eyal Weizman crée au Goldsmiths College de Londres un groupe de recherche pluridisciplinaire qui fera date : Forensic Architecture. L’Architecture forensique avait déjà fait l’objet d’un entretien dans AOC.

    Cette méthode bien particulière avait été créée à l’origine pour enquêter sur les crimes de guerre et les violations des droits humains en utilisant les outils de l’architecture. Depuis, le groupe a essaimé dans différentes parties du monde, créant #Investigative_Commons, une communauté de pratiques rassemblant des agences d’investigation, des activistes, des journalistes, des institutions culturelles, des scientifiques et artistes (la réalisatrice Laura Poitras en fait partie), etc. Fondé par l’architecte Francesco Sebregondi à Paris en 2020, #INDEX est l’une d’entre elles. Entre agence d’expertise indépendante et média d’investigation, INDEX enquête sur les violences d’État et en particulier sur les violences policières en France et depuis la France. Alors que les violences se multiplient dans le cadre des mouvements sociaux, comment « faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents » ? Si la vérité est en ruines, comment la rétablir ? OR

    Vous avez monté l’agence d’investigation INDEX après avoir longtemps travaillé avec Forensic Architecture. Racontez-nous…
    Forensic Architecture est né en 2010 à Goldsmiths à Londres. À l’origine, c’était un projet de recherche assez expérimental, pionnier dans son genre, qui cherchait à utiliser les outils de l’architecture pour enquêter sur les violations des #droits_humains et en particulier du droit de la guerre. La période était charnière : avec l’émergence des réseaux sociaux et des smartphones, les images prises par des témoins étaient diffusées très rapidement sur des réseaux souvent anonymes. La quantité d’#images et de #documentation_visuelle disponible commençait à augmenter de manière exponentielle et la démocratisation de l’accès à l’#imagerie_satellitaire permettait de suivre d’un point de vue désincarné l’évolution d’un territoire et les #traces qui s’y inscrivaient. La notion de #trace est importante car c’est ce qui nous relie à la tradition de l’enquête appliquée plus spécifiquement au champ spatial. Les traces que la #guerre laisse dans l’#environnement_urbain sont autant de points de départ pour reconstruire les événements. On applique à ces traces une série de techniques d’analyse architecturale et spatiale qui nous permettent de remonter à l’événement. Les traces sont aussi dans les documents numériques, les images et les vidéos. Une large partie de notre travail est une forme d’archéologie des pixels qui va chercher dans la matérialité même des documents numériques. On peut reconstituer les événements passés, par exemple redéployer une scène en volume, à partir de ses traces numériques en image.

    Quels en ont été les champs d’application ?
    À partir du travail sur les conflits armés, au sein de Forensic Architecture, on a développé une série de techniques et de recherches qui s’appliquent à une variété d’autres domaines. On commençait à travailler sur les violences aux frontières avec le projet de Lorenzo Pezzani et Charles Zeller sur les bateaux de migrants laissés sans assistance aux frontières méditerranéennes de l’Europe, à des cas de #violences_environnementales ou à des cas de violences policières… L’origine de notre approche dans l’enquête sur des crimes de guerre faisait qu’on avait tendance à porter un regard, depuis notre base à Londres, vers les frontières conflictuelles du monde Occidental. On s’est alors rendus compte que les violences d’État qui avaient lieu dans des contextes plus proches de nous, que ce soit en Grande-Bretagne, aux États-Unis ou en Grèce, pouvaient bénéficier d’un éclairage qui mobiliserait les mêmes techniques et approches qu’on avait à l’origine développées pour des situations de conflits armés. Tout cela est en lien assez direct avec la militarisation de la #police un peu partout dans le Nord global, le contexte occidental, que ce soit au niveau des #armes utilisées qu’au niveau des #stratégies employées pour maintenir l’ordre.

    La France vous a ensuite semblé être un pays depuis lequel enquêter ?
    Je suis revenu vivre en France en 2018 en plein milieu de la crise sociale autour du mouvement des Gilets jaunes et de son intense répression policière. Dès ce moment-là, il m’a semblé important d’essayer d’employer nos techniques d’enquête par l’espace et les images pour éclairer ce qui était en train de se passer. On en parlait aussi beaucoup. En 2020, j’ai dirigé les enquêtes sur la mort d’Adama Traoré et de Zineb Redouane pour le compte de Forensic Architecture depuis la France avec une équipe principalement française. C’était une période d’incubation d’INDEX en quelque sorte. Ces enquêtes ont initié notre travail sur le contexte français en rassemblant des moyens et une équipe locale.
    On est aujourd’hui dans un rapport de filiation assez clair avec Forensic Architecture même si INDEX est structurellement autonome. Les deux organisations sont très étroitement liées et entretiennent des relations d’échange, de partage de ressources, etc. Tout comme Forensic Architecture, INDEX est l’une des organisations du réseau international Investigative Commons qui fédère une douzaine de structures d’investigation indépendantes dans différents pays et qui travaillent à l’emploi des techniques d’enquêtes en sources ouvertes dans des contextes locaux.

    Il existe donc d’autres structures comme INDEX ?
    Elles sont en train d’émerger. On est dans cette phase charnière très intéressante. On passe d’une organisation reconnue comme pionnière dans l’innovation et les nouvelles techniques d’enquête à tout un champ de pratiques qui a encore beaucoup de marge de développement et qui, en se frottant à des contextes locaux ou spécifiques, vient éprouver sa capacité à interpeller l’opinion, à faire changer certaines pratiques, à demander de la transparence et des comptes aux autorités qui se rendent responsables de certaines violences.

    On utilise depuis toujours le terme d’enquête dans les sciences humaines et sociales mais l’on voit aujourd’hui que les architectes, les artistes s’en emparent, dans des contextes tous très différents. Qu’est-ce que l’enquête pour INDEX ?
    On emploie le terme d’#enquête dans un sens peut-être plus littéral que son usage en sciences humaines ou en recherche car il est question de faire la lumière sur les circonstances d’un incident et d’établir des rapports de causalité dans leur déroulement, si ce n’est de responsabilité. Il y a aussi cette idée de suivre une trace. On travaille vraiment essentiellement sur une matière factuelle. L’enquête, c’est une pratique qui permet de faire émerger une relation, un #récit qui unit une série de traces dans un ensemble cohérent et convaincant. Dans notre travail, il y a aussi la notion d’#expertise. Le nom INDEX est une contraction de « independant expertise ». C’est aussi une référence à la racine latine d’indice. Nous cherchons à nous réapproprier la notion d’expertise, trop souvent dévoyée, en particulier dans les affaires de violences d’État sur lesquelles on travaille.

    Vos enquêtes s’appuient beaucoup sur les travaux d’Hannah Arendt et notamment sur Vérité et politique qui date de 1964.
    On s’appuie beaucoup sur la distinction que Hannah Arendt fait entre #vérité_de_fait et #vérité_de_raison, en expliquant que les vérités de fait sont des propositions qui s’appuient sur l’extérieur, vérifiables, et dont la valeur de vérité n’est possible qu’en relation avec d’autres propositions et d’autres éléments, en particuliers matériels. La vérité de raison, elle, fait appel à un système de pensée auquel on doit adhérer. C’est à partir de cette distinction qu’Arendt déploie les raisons pour lesquelles #vérité et #politique sont toujours en tension et comment la pratique du politique doit s’appuyer sur une série de vérités de raison, sur l’adhésion d’un peuple à une série de principes que le pouvoir en place est censé incarner. Ainsi, le pouvoir, dépendant de cette adhésion, doit tenir à distance les éléments factuels qui viendraient remettre en cause ces principes. C’est ce qu’on essaye de déjouer en remettant au centre des discussions, au cœur du débat et de l’espace public des vérités de fait, même quand elles sont en friction avec des « #vérités_officielles ».
    Du temps d’Hannah Arendt, le politique avait encore les moyens d’empêcher la vérité par le régime du secret. C’est beaucoup moins le cas dans les conditions médiatiques contemporaines : le problème du secret tend à céder le pas au problème inverse, celui de l’excès d’informations. Dans cet excès, les faits et la vérité peuvent se noyer et venir à manquer. On entend alors parler de faits alternatifs, on entre dans la post-vérité, qui est en fait une négation pure et simple de la dimension sociale et partagée de la vérité. Si on veut résister à ce processus, si on veut réaffirmer l’exigence de vérité comme un #bien_commun essentiel à toute société, alors, face à ces défis nouveaux, on doit faire évoluer son approche et ses pratiques. Beaucoup des techniques développées d’abord avec Forensic Architecture et maintenant avec INDEX cherchent à développer une culture de l’enquête et de la #vérification. Ce sont des moyens éprouvés pour mettre la mise en relation de cette masse critique de données pour faire émerger du sens, de manière inclusive et participative autant que possible.

    L’#architecture_forensique, même si elle est pluridisciplinaire, s’appuie sur des méthodes d’architecture. En quoi est-ce particulièrement pertinent aujourd’hui ?
    L’une des techniques qui est devenue la plus essentielle dans les enquêtes que l’on produit est l’utilisation d’un modèle 3D pour resituer des images et des vidéos d’un événement afin de les recouper entre elles. Aujourd’hui, il y a souvent une masse d’images disponibles d’un événement. Leur intérêt documentaire réside moins dans l’individualité d’une image que sur la trame de relations entre les différentes images. C’est la #spatialisation et la #modélisation en 3D de ces différentes prises de vue qui nous permet d’établir avec précision la trame des images qui résulte de cet événement. Nous utilisons les outils de l’architecture à des fins de reconstitution et de reconstruction plus que de projection, que ce soit d’un bâtiment, d’un événement, etc.

    Parce qu’il faut bien rappeler que vos enquêtes sont toujours basées sur les lieux.
    L’environnement urbain est le repère clé qui nous permet de resituer l’endroit où des images ont été prises. Des détails de l’environnement urbain aussi courants qu’un passage piéton, un banc public, un kiosque à journaux ou un abribus nous permettent de donner une échelle pour reconstituer en trois dimensions où et comment une certaine scène s’est déroulée. Nous ne considérons pas l’architecture comme la pratique responsable de la production de l’environnement bâti mais comme un champ de connaissance dont la particularité est de mettre en lien une variété de domaines de pensées et de savoirs entre eux. Lorsqu’on mobilise l’architecture à des fins d’enquête, on essaye de faire dialoguer entre elles toute une série de disciplines. Nos équipes mêmes sont très interdisciplinaires. On fait travailler des vidéastes, des ingénieurs des matériaux, des juristes… le tout pour faire émerger une trame narrative qui soit convaincante et qui permette de resituer ce qui s’est passé autour de l’évènement sous enquête.

    L’historienne Samia Henni qui enseigne à Cornell University aux États-Unis, et qui se considère « historienne des environnements bâtis, détruits et imaginés », dit qu’apprendre l’histoire des destructions est aussi important que celles des constructions, en raison notamment du nombre de situations de conflits et de guerres sur la planète. Quand on fait du projet d’architecture, on se projette en général dans l’avenir. En ce qui vous concerne, vous remodélisez et reconstituez des événements passés, souvent disparus. Qu’est-ce que ce rapport au temps inversé change en termes de représentations ?
    Je ne suis pas sûr que le rapport au temps soit inversé. Je pense que dans la pratique de l’enquête, c’est toujours l’avenir qui est en jeu. C’est justement en allant chercher dans des événements passés, en cherchant la manière précise dont ils se sont déroulés et la spécificité d’une reconstitution que l’on essaye de dégager les aspects structurels et systémiques qui ont provoqué cet incident. En ce sens, ça nous rapproche peut-être de l’idée d’#accident de Virilio, qui est tout sauf imprévisible.
    L’enjeu concerne l’avenir. Il s’agit de montrer comment certains incidents ont pu se dérouler afin d’interpeller, de demander des comptes aux responsables de ces incidents et de faire en sorte que les conditions de production de cette #violence soient remises en question pour qu’elle ne se reproduise pas. Il s’agit toujours de changer les conditions futures dans lesquelles nous serons amenés à vivre ensemble, à habiter, etc. En cela je ne pense pas que la flèche du temps soit inversée, j’ai l’impression que c’est très proche d’une pratique du projet architectural assez classique.

    Vous utilisez souvent le terme de « violences d’État ». Dans une tribune de Libération intitulée « Nommer la violence d’État » en 2020, encore d’actualité ces temps-ci, l’anthropologue, sociologue et médecin Didier Fassin revenait sur la rhétorique du gouvernement et son refus de nommer les violences policières. Selon lui, « ne pas nommer les violences policières participe précisément de la violence de l’État. » Il y aurait donc une double violence. Cette semaine, l’avocat Arié Alimi en parlait aussi dans les colonnes d’AOC. Qu’en pensez-vous ?
    Je partage tout à fait l’analyse de Didier Fassin sur le fait que les violences d’État s’opèrent sur deux plans. Il y a d’une part la violence des actes et ensuite la violence du #déni des actes. Cela fait le lien avec l’appareil conceptuel développé par Hannah Arendt dans Vérité et politique. Nier est nécessaire pour garantir une forme de pouvoir qui serait remise en question par des faits qui dérangent. Cela dit, il est important de constamment travailler les conditions qui permettent ou non de nommer et surtout de justifier l’emploi de ces termes.

    Vous utilisez le terme de « violences d’État » mais aussi de « violences policières » de votre côté…
    Avec INDEX, on emploie le terme de « violences d’État » parce qu’on pense qu’il existe une forme de continuum de violence qui s’opère entre violences policières et judiciaires, le déni officiel et l’#impunité de fait étant des conditions qui garantissent la reproduction des violences d’État. Donc même si ce terme a tendance à être perçu comme particulièrement subversif – dès qu’on le prononce, on tend à être étiqueté comme militant, voire anarchiste –, on ne remet pas forcément en question tout le système d’opération du pouvoir qu’on appelle l’État dès lors qu’on dénonce ses violences. On peut évoquer Montesquieu : « Le #pouvoir arrête le pouvoir ». Comment faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents ? Il s’agit a minima d’interpeller l’#opinion_publique sur les pratiques de l’État qui dépassent le cadre légal ; mais aussi, on l’espère, d’alimenter la réflexion collective sur ce qui est acceptable au sein de nos sociétés, au-delà la question de la légalité.

    Ce que je voulais dire c’est que Forensic Architecture utilise le terme de « violences d’État » ou de « crimes » dans un sens plus large. Sur le site d’INDEX, on trouve le terme de « violences policières » qui donne une information sur le cadre précis de vos enquêtes.
    On essaye d’être le maillon d’une chaîne. Aujourd’hui, on se présente comme une ONG d’investigation qui enquête sur les violences policières en France. Il s’agit d’être très précis sur le cadre de notre travail, local, qui s’occupe d’un champ bien défini, dans un contexte particulier. Cela reflète notre démarche : on est une petite structure, avec peu de moyens. En se spécialisant, on peut faire la lumière sur une série d’incidents, malheureusement récurrents, mais en travaillant au cœur d’un réseau déjà constitué et actif en France qui se confronte depuis plusieurs décennies aux violences d’État et aux violences policières plus particulièrement. En se localisant et étant spécifique, INDEX permet un travail de collaboration et d’échanges beaucoup plus pérenne et durable avec toute une série d’acteurs et d’actrices d’un réseau mobilisé autour d’un problème aussi majeur que l’usage illégitime de la force et de la violence par l’État. Limiter le cadre de notre exercice est une façon d’éprouver la capacité de nos techniques d’enquête et d’intervention publique à véritablement amorcer un changement dans les faits.

    On a parfois l’impression que la production des observateurs étrangers est plus forte, depuis l’extérieur. Quand la presse ou les observateurs étrangers s’emparent du sujet, ils prennent tout de suite une autre ampleur. Qu’en pensez-vous ?
    C’est sûr que la possibilité de projeter une perspective internationale sur un incident est puissante – je pense par exemple à la couverture du désastre du #maintien_de_l’ordre lors de la finale de la Ligue des champions 2022 au Stade de France qui a causé plus d’embarras aux représentants du gouvernement que si le scandale s’était limité à la presse française –, mais en même temps je ne pense pas qu’il y ait véritablement un gain à long terme dans une stratégie qui viserait à créer un scandale à l’échelle internationale. Avec INDEX, avoir une action répétée, constituer une archive d’enquêtes où chacune se renforce et montre le caractère structurel et systématique de l’exercice d’une violence permet aussi de sortir du discours de l’#exception, de la #bavure, du #dérapage. Avec un travail au long cours, on peut montrer comment un #problème_structurel se déploie. Travailler sur un tel sujet localement pose des problèmes, on a des difficultés à se financer comme organisation. Il est toujours plus facile de trouver des financements quand on travaille sur des violations des droits humains ou des libertés fondamentales à l’étranger que lorsqu’on essaye de le faire sur place, « à la maison ». Cela dit, on espère que cette stratégie portera ses fruits à long terme.

    Vous avez travaillé avec plusieurs médias français : Le Monde, Libération, Disclose. Comment s’est passé ce travail en commun ?
    Notre pratique est déjà inter et pluridisciplinaire. Avec Forensic Architecture, on a souvent travaillé avec des journalistes, en tant que chercheurs on est habitués à documenter de façon très précise les éléments sur lesquels on enquête puis à les mettre en commun. Donc tout s’est bien passé. Le travail très spécifique qu’on apporte sur l’analyse des images, la modélisation, la spatialisation, permet parfois de fournir des conclusions et d’apporter des éléments que l’investigation plus classique ne permet pas.

    Ce ne sont pas des compétences dont ces médias disposent en interne ?
    Non mais cela ne m’étonnerait pas que ça se développe. On l’a vu avec le New York Times. Les premières collaborations avec Forensic Architecture autour de 2014 ont contribué à donner naissance à un département qui s’appelle Visual Investigations qui fait maintenant ce travail en interne de façon très riche et très convaincante. Ce sera peut-être aussi l’avenir des rédactions françaises.

    C’est le cas du Monde qui a maintenant une « cellule d’enquête vidéo ».
    Cela concerne peut-être une question plus générale : ce qui constitue la valeur de vérité aujourd’hui. Les institutions qui étaient traditionnellement les garantes de vérité publique sont largement remises en cause, elles n’ont plus le même poids, le même rôle déterminant qu’il y a cinquante ans. Les médias eux-mêmes cherchent de nouvelles façons de convaincre leurs lecteurs et lectrices de la précision, de la rigueur et de la dimension factuelle de l’information qu’ils publient. Aller chercher l’apport documentaire des images et en augmenter la capacité de preuve et de description à travers les techniques qu’on emploie s’inscrit très bien dans cette exigence renouvelée et dans ce nouveau standard de vérification des faits qui commence à s’imposer et à circuler. Pour que les lecteurs leur renouvellent leur confiance, les médias doivent aujourd’hui s’efforcer de convaincre qu’ils constituent une source d’informations fiables et surtout factuelles.

    J’aimerais que l’on parle du contexte très actuel de ces dernières semaines en France. Depuis le mouvement contre la réforme des retraites, que constatez-vous ?
    On est dans une situation où les violences policières sont d’un coup beaucoup plus visibles. C’est toujours un peu pareil : les violences policières reviennent au cœur de l’actualité politique et médiatique au moment où elles ont lieu dans des situations de maintien de l’ordre, dans des manifestations… En fait, quand elles ne touchent plus seulement des populations racisées et qu’elles ne se limitent plus aux quartiers populaires.

    C’est ce que disait Didier Fassin dans le texte dont nous parlions à l’instant…
    Voilà. On ne parle vraiment de violences policières que quand elles touchent un nombre important de personnes blanches. Pendant la séquence des Gilets jaunes, c’était la même dynamique. C’est à ce moment-là qu’une large proportion de la population française a découvert les violences policières et les armes dites « non létales », mais de fait mutilantes, qui sont pourtant quotidiennement utilisées dans les #quartiers_populaires depuis des décennies. Je pense qu’il y a un problème dans cette forme de mobilisation épisodique contre les violences policières parce qu’elle risque aussi, par manque de questionnements des privilèges qui la sous-tendent, de reproduire passivement des dimensions de ces mêmes violences. Je pense qu’au fond, on ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme en France.
    Il me semble aussi qu’il faut savoir saisir la séquence présente où circulent énormément d’images très parlantes, évidentes, choquantes de violences policières disproportionnées, autour desquelles tout semblant de cadre légal a sauté, afin de justement souligner le continuum de cette violence, à rebours de son interprétation comme « flambée », comme exception liée au mouvement social en cours uniquement. Les enquêtes qu’on a publiées jusqu’ici ont pour la plupart porté sur des formes de violences policières banalisées dans les quartiers populaires : tirs sur des véhicules en mouvement, situations dites de « refus d’obtempérer », usages de LBD par la BAC dans une forme de répression du quotidien et pas d’un mouvement social en particulier. Les séquences que l’on vit actuellement doivent nous interpeller mais aussi nous permettre de faire le lien avec la dimension continue, structurelle et discriminatoire de la violence d’État. On ne peut pas d’un coup faire sauter la dimension discriminatoire des violences policières et des violences d’État au moment où ses modes opératoires, qui sont régulièrement testés et mis au point contre des populations racisées, s’abattent soudainement sur une population plus large.

    Vous parlez des #violences_systémiques qui existent, à une autre échelle…
    Oui. On l’a au départ vu avec les Gilets jaunes lorsque les groupes #BAC ont été mobilisés. Ces groupes sont entraînés quotidiennement à faire de la #répression dans les quartiers populaires. C’est là-bas qu’ils ont développé leurs savoirs et leurs pratiques particulières, très au contact, très agressives. C’est à cause de cet exercice quotidien et normalisé des violences dans les quartiers populaires que ces unités font parler d’elles quand elles sont déployées dans le maintien de l’ordre lors des manifestations. On le voit encore aujourd’hui lors de la mobilisation autour de la réforme des retraites, en particulier le soir. Ces situations évoluent quotidiennement donc je n’ai pas toutes les dernières données mais la mobilisation massive des effectifs de police – en plus de la #BRAV-M [Brigades de répression des actions violentes motorisées] on a ajouté les groupes BAC –, poursuivent dans la logique dite du « contact » qui fait souvent beaucoup de blessés avec les armes utilisées.

    Avez-vous été sollicités ces temps-ci pour des cas en particulier ?
    Il y aura tout un travail à faire à froid, à partir de la quantité d’images qui ont émergé de la répression et en particulier des manifestations spontanées. Aujourd’hui, les enjeux ne me semblent pas concerner la reconstitution précise d’un incident mais plutôt le traitement et la confrontation de ces pratiques dont la documentation montre le caractère systémique et hors du cadre légal de l’emploi de la force. Cela dit, on suit de près les blessures, dont certaines apparemment mutilantes, relatives à l’usage de certaines armes dites « non létales » et en particulier de #grenades qui auraient causé une mutilation ici, un éborgnement là… Les données précises émergent au compte-goutte…
    On a beaucoup entendu parler des #grenades_offensives pendant le mouvement des Gilets jaunes. Le ministère de l’Intérieur et le gouvernement ont beaucoup communiqué sur le fait que des leçons avaient été tirées depuis, que certaines des grenades le plus souvent responsables ou impliquées dans des cas de mutilation avaient été interdites et que l’arsenal avait changé. En fait, elles ont été remplacées par des grenades aux effets quasi-équivalents. Aujourd’hui, avec l’escalade du mouvement social et de contestation, les mêmes stratégies de maintien de l’ordre sont déployées : le recours massif à des armes de l’arsenal policier. Le modèle de grenade explosive ou de #désencerclement employé dans le maintien de l’ordre a changé entre 2018 et 2023 mais il semblerait que les #blessures et les #mutilations qui s’ensuivent perdurent.

    À la suite des événements de Sainte-Soline, beaucoup d’appels à témoins et à documents visuels ont circulé sur les réseaux sociaux. Il semblerait que ce soit de plus en plus fréquent.
    Il y a une prise de conscience collective d’un potentiel – si ce n’est d’un pouvoir – de l’image et de la documentation. Filmer et documenter est vraiment devenu un réflexe partagé dans des situations de tension. J’ai l’impression qu’on est devenus collectivement conscients de l’importance de pouvoir documenter au cas où quelque chose se passerait. Lors de la proposition de loi relative à la sécurité globale, on a observé qu’il y avait un véritable enjeu de pouvoir autour de ces images, de leur circulation et de leur interprétation. Le projet de loi visait à durcir l’encadrement pénal de la capture d’image de la police en action. Aujourd’hui, en voyant le niveau de violence déployée alors que les policiers sont sous les caméras, on peut vraiment se demander ce qu’il se passerait dans la rue, autour des manifestations et du mouvement social en cours si cette loi était passée, s’il était illégal de tourner des images de la police.
    En tant que praticiens de l’enquête en source ouverte, on essaye de s’articuler à ce mouvement spontané et collectif au sein de la société civile, d’utiliser les outils qu’on a dans la poche, à savoir notre smartphone, pour documenter de façon massive et pluri-perspective et voir ce qu’on peut en faire, ensemble. Notre champ de pratique n’existe que grâce à ce mouvement. La #capture_d’images et l’engagement des #témoins qui se mettent souvent en danger à travers la prise d’images est préalable. Notre travail s’inscrit dans une démarche qui cherche à en augmenter la capacité documentaire, descriptive et probatoire – jusqu’à la #preuve_judiciaire –, par rapport à la négociation d’une vérité de fait autour de ces évènements.

    Le mouvement « La Vérité pour Adama », créé par sa sœur suite à la mort d’Adama Traoré en 2016, a pris beaucoup d’ampleur au fil du temps, engageant beaucoup de monde sur l’affaire. Vous-mêmes y avez travaillé…
    La recherche de la justice dans cette appellation qui est devenue courante parmi les différents comités constitués autour de victimes est intéressante car elle met en tension les termes de vérité et de justice et qu’elle appelle, implicitement, à une autre forme de justice que celle de la #justice_institutionnelle.
    Notre enquête sur la mort d’Adama Traoré a été réalisée en partenariat avec Le Monde. À la base, c’était un travail journalistique. Il ne s’agit pas d’une commande du comité et nous n’avons pas été en lien. Ce n’est d’ailleurs jamais le cas au moment de l’enquête. Bien qu’en tant qu’organisation, INDEX soit solidaire du mouvement de contestation des abus du pouvoir policier, des violences d’État illégitimes, etc., on est bien conscients qu’afin de mobiliser efficacement notre savoir et notre expertise, il faut aussi entretenir une certaine distance avec les « parties » – au sens judiciaire –, qui sont les premières concernées dans ces affaires, afin que notre impartialité ne soit pas remise en cause. On se concentre sur la reconstitution des faits et pas à véhiculer un certain récit des faits.

    Le comité « La Vérité pour Adama » avait commencé à enquêter lui-même…
    Bien sûr. Et ce n’est pas le seul. Ce qui est très intéressant autour des #comités_Vérité_et_Justice qui émergent dans les quartiers populaires autour de victimes de violences policières, c’est qu’un véritable savoir se constitue. C’est un #savoir autonome, qu’on peut dans de nombreux cas considérer comme une expertise, et qui émerge en réponse au déni d’information des expertises et des enquêtes officielles. C’est parce que ces familles sont face à un mur qu’elles s’improvisent expertes, mais de manière très développée, en mettant en lien toute une série de personnes et de savoirs pour refuser le statu quo d’une enquête qui n’aboutit à rien et d’un non-lieu prononcé en justice. Pour nous, c’est une source d’inspiration. On vient prolonger cet effort initial fourni par les premiers et premières concernées, d’apporter, d’enquêter et d’expertiser eux-mêmes les données disponibles.

    Y a-t-il encore une différence entre images amateures et images professionnelles ? Tout le monde capte des images avec son téléphone et en même temps ce n’est pas parce que les journalistes portent un brassard estampillé « presse » qu’ils et elles ne sont pas non plus victimes de violences. Certain·es ont par exemple dit que le journaliste embarqué Rémy Buisine avait inventé un format journalistique en immersion, plus proche de son auditoire. Par rapport aux médias, est-ce que quelque chose a changé ?
    Je ne voudrais pas forcément l’isoler. Rémy Buisine a été particulièrement actif pendant le mouvement des Gilets jaunes mais il y avait aussi beaucoup d’autres journalistes en immersion. La condition technique et médiatique contemporaine permet ce genre de reportage embarqué qui s’inspire aussi du modèle des reporters sur les lignes de front. C’est intéressant de voir qu’à travers la militarisation du maintien de l’ordre, des modèles de journalisme embarqués dans un camp ou dans l’autre d’un conflit armé se reproduisent aujourd’hui.

    Avec la dimension du direct en plus…
    Au-delà de ce que ça change du point de vue de la forme du reportage, ce qui pose encore plus question concerne la porosité qui s’est établie entre les consommateurs et les producteurs d’images. On est dans une situation où les mêmes personnes qui reçoivent les flux de données et d’images sont celles qui sont actives dans leur production. Un flou s’opère dans les mécanismes de communication entre les pôles de production et de réception. Cela ouvre une perspective vers de formes nouvelles de circulation de l’information, de formes beaucoup plus inclusives et participatives. C’est déjà le cas. On est encore dans une phase un peu éparse dans laquelle une culture doit encore se construire sur la manière dont on peut interpréter collectivement des images produites collectivement.

    https://aoc.media/entretien/2023/08/11/francesco-sebregondi-on-ne-peut-pas-dissocier-les-violences-policieres-de-la-

    #racisme #violences_policières

    ping @karine4

    • INDEX

      INDEX est une ONG d’investigation indépendante, à but non-lucratif, créée en France en 2020.

      Nous enquêtons et produisons des rapports d’expertise sur des faits allégués de violence, de violations des libertés fondamentales ou des droits humains.

      Nos enquêtes réunissent un réseau indépendant de journalistes, de chercheur·es, de vidéastes, d’ingénieur·es, d’architectes, ou de juristes.

      Nos domaines d’expertise comprennent l’investigation en sources ouvertes, l’analyse audiovisuelle et la reconstitution numérique en 3D.

      https://www.index.ngo

  • Ci risiamo: il ministro Lollobrigida ha detto che non esiste una “razza italiana” ma “un’etnia italiana” da tutelare, soprattutto attraverso le nascite.

    Dopo la “grande sostituzione”, eccoci qui con un’altra teoria di estrema destra – quella del “differenzialismo”.

    l tentativo è chiarissimo: evitare le accuse di razzismo evitando l’impronunciabile “razza” e usando il più neutro “etnia”.

    Lo usa anche la Treccani!

    In realtà, come ha scritto Pierre-André Taguieff in diversi libri, “etnia” è un modo ripulito di dire “razza”.

    Questa innovazione linguistica la si deve ad Alain De Benoist, l’ideologo della “Nouvelle Droite”.

    Invece che fondarsi sull’inservibile razzismo “biologico-scientifico”, De Benoist si è concentrato sulle “differenze etnico-culturali”; da qui la definizione di “differenzialismo”.

    La faccio breve: siccome ogni “etnia” è “culturalmente” diversa, la convivenza è impossibile.

    Per vivere in pace, dunque, è meglio stare separati e non “contaminarsi”.

    È una forma di “razzismo politicamente corretto”, diciamo così, che ricorda sinistramente l’apartheid.

    Il pensiero di De Benoist non è affatto marginale, almeno all’interno di questo governo.

    Matteo Salvini anni fa ci faceva i convegni insieme.

    Ora invece è stato elogiato pubblicamente dal ministro della cultura Sangiuliano, e sarà ospite al Salone del Libro di Torino.

    Lollobrigida dice anche che occuparsi di natalità è un modo di “difendere la cultura italiana” e il “nostro modo di vivere”.

    Tradotto brutalmente: devono esserci più bambini bianchi.

    Altrimenti arrivano quelli «diversi» e si finisce con la “sostituzione etnica”.

    Insomma: dopo tutte le polemiche delle scorse settimane, rieccoci qui.

    Magari anche questa volta si tirerà in ballo “l’ignoranza”, o si accamperanno scuse di vario genere.

    Ma la realtà è che si tratta di precise scelte lessicali – e dunque politiche.

    https://twitter.com/captblicero/status/1656718304273104910

    #race #racisme #ethnie #terminologie #mots #vocabulaire #Lollobrigida #Italie #grand_remplacement #ethnie_italienne #différentialisme #Alain_De_Benoist #Nouvelle_Droite #extrême_droite #ethno-différentialisme #Francesco_Lollobrigida

    • Lollobrigida, l’etnia italiana e la leggenda della nazione omogenea

      Ci risiamo con una pezza che è peggiore del buco. Agli #Stati_generali_della_natalità (già il titolo meriterebbe un trattato filologico) l’irrefrenabile Lollobrigida, dopo avere detto, bontà sua, che è evidente che non esiste una razza italiana, ha dovuto colmare questa insopportabile lacuna, affermando che: “Esiste però una cultura, una etnia italiana che in questo convegno immagino si tenda a tutelare”. Esisterà dunque anche un’etnia francese (lo dica a bretoni e corsi), una spagnola (lo spieghi a baschi e catalani), una belga (l’importante che lo sappiano fiamminghi e valloni) o una inglese (basta non dirlo a scozzesi, gallesi e irlandesi). Ma forse no, lo stabordante ministro dell’Agricoltura sostiene il principio della purezza indicato peraltro nel punto 5 del Manifesto della razza: “È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici”.

      La cultura italiana sarebbe dunque completamente autoctona. In un libretto scritto nel ventennio dal fondatore del Museo di Storia Naturale di Torino, c’era un capitolo (credo fosse d’obbligo) sull’elogio della razza italiana, che si era conservata pura “nonostante qualche invasione”. Quasi commovente quel “qualche”, i nostri libri di storia sono pressoché un elenco di invasioni, ma forse, proprio per questo la cultura italiana ha toccato punte di eccellenza (non adesso) come nel Rinascimento. Proprio grazie alla sintesi di culture diverse, che si sono fuse in una proposta originale fondata sull’incontro con la diversità.

      Siamo tutti d’accordo che il pensiero occidentale deve molto (non tutto, ma molto) a quello dell’antica Grecia, ma nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel sostiene, giustamente, che “gli inizi della cultura greca coincisero con l’arrivo degli stranieri”. Il tratto costitutivo per la nascita della cultura greca è quindi l’arrivo degli stranieri, di cui i greci avrebbero mantenuto “memoria grata” nella propria mitologia: Prometeo, per esempio, viene dal Caucaso, e lo stesso popolo greco si sarebbe sviluppato a partire da una “#colluvies” , termine che originariamente significava fango, immondizia, accozzaglia, scompiglio, caos.

      Gli Stati si differenzierebbero da quelle che chiamiamo “tribù” o etnia, perché contengono diversità, non omogeneità. Per quanto riguarda l’etnia, vale una celebre affermazione dell’antropologo britannico Siegfried Nadel: “L’etnia è un’unità sociale i cui membri affermano di formare un’unità sociale”. I Greci, peraltro, non associavano il concetto di #ethnos a un territorio, si poteva infatti essere greco anche in terre lontane, come volle esserlo Alessandro. L’etnicità di un popolo sta nel progetto.

      La storia viene spesso manipolata dalle élite, e l’identità evocata da chi sta al potere si fonda spesso sulla storia, o meglio su una storia, quella storia. Perché, come affermava Ernest Renan, per costruire una nazione ci vuole una forte dose di memoria, ma anche un altrettanto forte dose di oblio: “L’oblio, e dirò persino l’errore storico costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione (…) Ora l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose. Nessun cittadino francese sa se è Burgundo, Alano, Visigoto; ogni cittadino francese deve aver dimenticato la notte di San Bartolomeo, i massacri del XIII secolo nel Sud”.

      Dobbiamo fingere di ricordare ciò che ci unisce e dimenticare quanto invece, del nostro passato, ci divide. Oppure accettare, come sostengono Julian S. Huxley e Alfred C. Haddon che: “Una nazione è una società unita da un errore comune riguardo alle proprie origini e da una comune avversione nei confronti dei vicini”.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/05/12/lollobrigida-letnia-italiana-e-la-leggenda-della-nazione-omogenea/7158926

      #nation #homogénéité #diversité #culture #culture_italienne #ethnicité #identité

  • Diritti umani in Palestina. La presentazione in Italia del primo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite, #Francesca_Albanese

    In questo dossier -disponibile in formato digitale e scaricabile gratuitamente- abbiamo raccolto gli atti del convegno organizzato a Roma il 13 gennaio 2023 per presentare anche in Italia il primo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese.

    Si tratta di contributi di straordinaria importanza, lampi di coraggio, onestà intellettuale e documentata informazione nel buio più tetro che caratterizza invece il dibattito pubblico italiano sulla questione. Perché sì, nel nostro Paese si fa una fatica bestiale a parlare della Palestina e della situazione dei diritti umani nei Territori occupati dal 1967. A farlo in maniera seria, approfondita, libera.

    Per noi di Altreconomia, invece, è stato e continua a essere importantissimo farlo. Ci tenevamo a organizzare il convegno in Parlamento, nella casa di tutte le cittadine e i cittadini. Non smetteremo perciò di ringraziare il senatore Tino Magni, che da subito ha raccolto la proposta e l’ha difesa, con coraggio. Grazie naturalmente alle relatrici e ai relatori, ad Amnesty International Italia e ad Anna Maria Selini per la moderazione.

    Questo lavoro è dedicato a Jana Zakarneh, ragazza di 16 anni uccisa dall’esercito israeliano mentre era sul tetto di casa a Jenin, l’11 dicembre 2022. L’anno più letale in Cisgiordania da quando, nel 2005, le Nazioni Unite hanno iniziato sistematicamente a contare le vittime.

    https://www.youtube.com/watch?v=eM1SLhtdw_c&embeds_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&feature=em


    https://altreconomia.it/prodotto/dossier-palestina

    #droits_humains #droits_fondamentaux #Palestine #rapport #nations_unies

  • L’Italia cede alla Libia altre 14 navi veloci per intercettare le persone. Il ruolo di Invitalia

    La commessa è stata aggiudicata definitivamente per 6,65 milioni di euro. A curare la gara è stata l’agenzia del ministero dell’Economia che dovrebbe in realtà occuparsi di “attrazione degli investimenti e sviluppo d’impresa”. Intanto 40 Ong danno appuntamento a Roma il 26 ottobre per opporsi al rinnovo dell’accordo con Tripoli

    L’Italia fornirà altre 14 imbarcazioni alle milizie libiche per intercettare e respingere le persone in fuga nel Mediterraneo. La commessa è stata aggiudicata definitivamente nella primavera di quest’anno per 6,65 milioni di euro nell’ambito di una procedura curata da Invitalia, l’agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia che sulla carta dovrebbe occuparsi dell’”attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa” e che invece dall’agosto 2019 ha stipulato una convenzione con il ministero dell’Interno per garantire “supporto” tecnico anche sul fronte libico. La copertura finanziaria dei nuovi “battelli” è garantita, così come tante altre, dalla “prima fase” del progetto “Support to integrated Border and migration management in Libya” (Sibmmil) datato dicembre 2017, cofinanziato dall’Unione europea, implementato dal Viminale e inserito nel quadro del Fondo fiduciario per l’Africa (Eutf).

    Si tratta in questa occasione di 14 mezzi “pneumatici con carena rigida in vetroresina” da 12 metri -come si legge nel capitolato di gara-, in grado di andare a una velocità di crociera di almeno 30 nodi, con un’autonomia di 200 miglia nautiche, omologati al trasporto di 12 persone e destinati a “svolgere i compiti istituzionali delle autorità libiche” (è la seconda tranche di una procedura attivata oltre tre anni fa). Quali non si poteva specificarlo. Anche sull’identità dei beneficiari libici c’è scarsa chiarezza da parte di Invitalia, il cui amministratore delegato è Bernardo Mattarella. Negli atti non si fa riferimento infatti né all’Amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) né alla Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), che opera sotto il ministero dell’Interno libico, quanto a una generica “polizia libica”.

    Chi si è assicurato la commessa, con un ribasso del 5% sulla base d’asta, è stata la società B-Shiver Srl con sede a Roma. B-Shiver è la ragione sociale del marchio Novamarine, nato a Olbia nel 1983 e poi acquisito negli anni dal gruppo Sno. “È uno dei must a livello mondiale perché ha fatto una rivoluzione nel campo dei gommoni, con il binomio carena vetroresina e tubolare”, spiega in un video aziendale l’amministratore delegato Francesco Pirro.

    B-Shiver non si occupa soltanto della costruzione dei 14 mezzi veloci ma è incaricata anche di “erogare un corso di familiarizzazione sulla conduzione dei battelli a favore del personale libico”: 30 ore distribuite su cinque giorni.
    Nell’ultima versione del capitolato sembrerebbe sparita la possibilità di predisporre in ogni cabina di pilotaggio dei “gavoni metallici idonei alla custodia di armi”, come invece aveva ipotizzato il Centro nautico della polizia di Stato nelle prime fasi della procedura di gara.

    Le forniture italiane alla Libia per rafforzare il meccanismo di respingimenti delegati continuano, dunque, a oltre cinque anni dal memorandum tra Roma e Tripoli in fase di imminente rinnovo. Un accordo che ha prodotto “abusi, sfruttamento, detenzione arbitraria e torture”, come denunciano oltre 40 organizzazioni per i diritti umani italiane promotrici il 26 ottobre di una conferenza stampa e una manifestazione in Piazza dell’Esquilino a Roma per “chiedere all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e non rinnovare gli accordi con la Libia” (dall’Arci all’Asgi, da Msf a Emergency, dalla Fondazione Migrantes a Intersos, da Sea-Watch ad Amnesty International Italia).

    “Se entro il 2 novembre il governo italiano non deciderà per la sua revoca -ricordano le Ong-, il memorandum Italia–Libia verrà automaticamente rinnovato per altri tre anni. Si tratta di un accordo che da ormai cinque anni ha conseguenze drammatiche sulla vita di migliaia di donne, uomini e bambini migranti e rifugiati”. Dal 2016 all’ottobre 2022 sono infatti oltre 120mila le persone intercettate in mare dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia (fonte Oim). “Un Paese che non può essere considerato sicuro”.

    I contorni dell’abisso libico li ha descritti più volte, tra gli altri, la Missione indipendente sulla Libia delle Nazioni Unite che a fine giugno 2022 ha presentato una (ennesima) relazione sul punto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu. “Diversi migranti intervistati dalla Missione hanno raccontato di aver subito violenze sessuali per mano di trafficanti e contrabbandieri, spesso con lo scopo di estorcere denaro alle famiglie, nonché di funzionari statali nei centri di detenzione, datori di lavoro o altri migranti -si legge-. Il rischio di violenza sessuale in Libia è tale e così noto che alcune donne e ragazze migranti assumono contraccettivi prima di partire proprio per evitare gravidanze indesiderate dovute a tali violenze”. È una violenza istituzionale. “Il carattere continuo, sistematico e diffuso di queste pratiche da parte della Direzione per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim) e di altri attori coinvolti riflette la partecipazione di funzionari di medio e alto livello al ciclo della violenza sui migranti”.

    La brutalità non scompone i promotori della strategia di respingimento per procura, condotta nella totale mancanza di trasparenza sull’utilizzo complessivo dei fondi. Ad esempio quelli del Fondo di rotazione ex legge 183/1987, nel quale è previsto anche un “subcapitolo” dedicato alle spese per iniziative progettuali “a favore dello Stato della Libia”.

    Quando quest’estate abbiamo chiesto all’Ispettorato generale per i rapporti finanziari con l’Unione europea (Igrue) del ministero dell’Economia l’elenco dei pagamenti liquidati, dei beneficiari, delle causali di pagamento e degli estremi e del contenuto della voce di spesa in Libia, quest’ultimo ha rinviato al Viminale, sostenendo che la trasparenza fosse in capo a quell’amministrazione, “titolare del programma”. Il ministero dell’Interno ha però negato l’accesso perché “l’estrapolazione delle voci richieste comporterebbe un carico di lavoro tale da aggravare l’ordinaria attività dell’amministrazione”. La tipica cortina fumogena replicata anche per la convenzione del 2019 tra Invitalia e il Viminale, di cui ci è stato trasmesso il testo con cancellazioni sopra gli importi finanziari e orfano degli allegati, cioè della sostanza.

    https://altreconomia.it/litalia-cede-alla-libia-altre-14-navi-veloci-per-intercettare-le-person

    #Italie #Libye #navires #externalisation #frontières #contrôles_frontaliers #migrations #réfugiés #Méditerranée #Invitalia #Support_to_integrated_Border_and_migration_management_in_Libya (#Sibmmil) #fonds_fiduciaire #Bernardo_Mattarella #Amministrazione_generale_per_la_sicurezza_costiera (#Gacs) #Direzione_per_la_lotta_all’immigrazione_illegale (#Dcim) #police #police_libyenne #B-Shiver #Novamarine #Sno #Francesco_Pirro

    ping @isskein

  • Efféminons-nous
    https://laviedesidees.fr/Effeminons-nous.html

    À propos de : Marie-Frédérique Pellegrin, Pensées du corps et différences des sexes à l’époque moderne. #Descartes, Cureau de la Chambre, Poulain de la Barre et Malebranche, Lyon, ENS Éditions,. La #Philosophie moderne à partir de Descartes possède des ressources insoupçonnées pour penser la question du sexe et du genre : il est possible de les exploiter encore aujourd’hui, montre Marie-Frédérique Pellegrin.

    #Société #féminisme #femmes
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202206_pellegrin-2.docx

    • Excellente idée !

      Il faudrait inviter en France #Angela_Ferraro et #Francesca_Francoeur de l’Université Laval (Québec, Canada), dés qu’elles auront fait le tour des commissariats de la SQ, Sécurité Canada, afin que ses policiers cognent un peu moins fort sur les Canadiennes et Canadiens, et las habitant.e.s de Laval, banlieu pauvre.
      N’oublions pas le les actions des valeureux membres de la police canadienne envers les membres des Nations autochtones, entre autres.

      En France, ces deux universitaires feraient la tournée des commissariats, et de nos élus afin de féminiser les moeurs qui y règnent, aprés avoir discuté avec madame #élisabeth_borne.
      – Gazage aux lacrymogènes des voyageurs dont les trains sont en retard.
      – Cartons sur les automobilistes et autres.
      – Traitement des migrants.
      – Oeils crevés en membre arrachés des manifestantes et manifestants.
      – Mépris total, sans distinction de sexe, de la population du pays, la France, et d’ailleurs.

      N’oublions pas une tournée dans les éhpad français, afin d’expliquer qu’un seul pépito pour dessert, c’est assez peu, c’est même du violent.

      Que ces 2 dames ne s’attardent pas trop dans les diners des beaux quartiers parisiens, on y fait parfois de mauvaises rencontres.

      Qu’elles ensuite fassent un détour par l’Ukraine, afin de faire quelques conférences aux 6 millions de réfugiés ukrainiens

  • Storia. Colonialismo italiano, superare il mito della «brava gente»

    Le radici del razzismo di oggi affondano in un passato violento con cui si stenta a fare i conti. Un saggio di #Francesco_Filippi sfata luoghi comuni e apre una riflessione

    Le radici del razzismo in Italia sono profonde. Si alimentano con una spessa coltre di ignoranza rafforzata dalla rimozione del passato coloniale e dei suoi effetti. Secondo un calcolo di Angelo Del Boca – il giornalista e storico recentemente scomparso che per primo negli anni 60 avviò il revisionismo storico del periodo coloniale – almeno una famiglia italiana su cinque tra militari, coloni e impiegati pubblici ha avuto un componente nell’Oltremare italico. Eppure nel dopoguerra il tema venne espulso dalla pubblicistica e vennero oscurati i coloni rimpatriati. Anche a livello popolare c’è un vuoto. Chi ha mai visto film o fiction sulla guerra d’Etiopia, sulla Libia o sull’Oltremare italiano?

    La vulgata dominante è quella autoassolutoria da cui prende il titolo l’agile saggio di Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Boringhieri, pagine 200, euro 12,00), luogo comune che da decenni imperversa in tanti discorsi pubblici e privati sulle colonie italiane d’Africa. Secondo questa versione, quella italiana sarebbe stata un’esperienza diversa, più umana rispetto a quelle francesi, britanniche e belghe perché gli italiani “brava gente” sapevano farsi voler bene dalle popolazioni locali. E il fatto che furono gli inglesi a sconfiggerci e a cacciarci dell’Africa nel 1941, sostiene Filippi, ha agevolato l’opera di rimozione e l’autoassoluzione di nostalgici o neocoloniali. Rimozione evidente nella toponomastica italiana ad esempio. La piazza dei Cinquecento a Roma, davanti alla stazione Termini è dedicata ai soldati italiani morti nella battaglia di Dogali nel 1887, combattuta durante una delle guerre di aggressione condotta contro l’Etiopia. O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore #Vittorio_Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.

    Senza spingersi agli eccessi della cancel culture, una riflessione su quella memoria perduta pare necessaria. Il libro di Filippi si fa carico di avviarla. Veniamo da una stagione che ha rivelato incrostazioni razziste mai ripulite dalla società italiana, oggi evidenziate quasi come un merito da discorsi di odio e da montagne di fake news su social e media premianti in termini elettorali. Filippi si è specializzato nella rivisitazione di luoghi comuni e della mitologia fascista dopo aver distrutto le bufale sui presunti progressi del regime e sulla figura del duce come buon governante (vedi il suo Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri). Qui ricostruisce con sintesi efficace e una buona compilazione storica cosa accadde veramente nelle colonie dove l’Italia è rimasta 60 anni, tre generazioni, passando dal tentativo di espansione in Etiopia al relativo disimpegno della Prima guerra mondiale e infine al nuovo impulso fascista che intendeva ricreare i fasti dell’Impero romano. Filippi illustra la definitiva rimozione politica del colonialismo italiano nell’Italia repubblicana dovuta all’imbarazzo per i crimini contro l’umanità commessi in Libia e poi durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia con l’uso dei gas tossici. E i metodi repressivi spietati di cui poco sappiamo in Libia e in Etiopia per domare i ribelli con stragi, pubbliche esecuzioni, deportazioni e lager. Il 19 febbraio in Etiopia è il giorno del ricordo delle 19mila vittime delle rappresaglie italiane del 1937 sulla popolazione civile per l’attentato al viceré Rodolfo Graziani, che già in Libia si era costruito la solida fama di “macellaio del Fezzan” e al quale Affile, il comune natio, ha pensato bene di dedicare 10 anni fa un discutibile e assai discusso sacrario. Interessante l’analisi della propaganda coloniale.

    Filippi sottolinea che il radicato concetto razzista della missione italiana di andare in colonia a liberare i popoli abissini dalla schiavitù e a conquistare bellezze esotiche dai facili costumi (spesso poco più che bambine vendute per sfamarsi da famiglie in miseria) è prefascista. Fu ideato dai governi dell’Italia liberale per attirare le masse dei territori più depressi in Africa. Gli italiani crearono l’Eritrea che ancor oggi si rifà ai vecchi confini coloniali, ma vi perfezionarono un vero e proprio apartheid. Le leggi razziali del 1938 diedero il colpo di grazia vietando le unioni miste e creando una legione di figli di nessuno, i meticci. Altro tabù, il silenzio sulla voragine provocata nel bilancio statale dall’esperienza coloniale. L’Italia unita volle buttarsi per ultima nella corsa all’Africa spinta dai circoli di industriali e imprenditori nazionalisti per aprire nuovi mercati e dare terra da coltivare alla manodopera in esubero delle campagne creando consenso politico. Meglio il Corno dell’America Latina, recitavano la propaganda liberale e poi quella di regime. Ma non fu molto ascoltata, né le colonie raggiunsero la sostenibi-lità, come diremmo oggi. Anzi.

    Insomma le strade vennero costruite bene, ma per farle usare dagli italiani, conclude Filippi. Non tutto è da buttare, aggiungiamo. È rimasto in Africa un pezzo di cultura italiana, si parla ancora la lingua, esempi di architettura razionalista caratterizzano Asmara, Addis Abeba, scuole e comunità di italiani d’Africa con o senza passaporto resistono anche se non hanno più voce. Molti imprenditori e lavoratori che scelsero di rimanere in Etiopia ed Eritrea soprattutto portarono le loro competenze. La Libia ha una storia più complessa. Resta da indagare l’opera umanitaria in campo sanitario, scolastico e agricolo di missionari e Ong mentre la cooperazione pubblica come sappiamo ha luci e ombre. Ma questa è un’altra storia.

    https://www.avvenire.it/agora/pagine/italiani-in-africa-il-mito-della-bont

    #mythe #italiani_brava_gente #brava_gente #colonialisme #colonialisme_italien #Italie #Italie_coloniale #histoire #violence #racisme #ignorance #passé_colonial #déni #statue #Parme #Parma #mémoire

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953
    ping @cede

    • Citation tirée de l’article ci-dessus autour de la statue en l’honneur de Vittorio Bottego à Parme:

      «O nei monumenti. Davanti alla stazione di Parma campeggia quello all’esploratore Vittorio Bottego, uomo con idee precise sulla superiorità dei bianchi, con due africani in posa sottomessa. La città ne ha discusso la rimozione recentemente.»

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      Il consigliere Massari: «La statua di Bottego esalta il colonialismo»

      Nel dibattito, Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua.

      Una mozione presentata in Consiglio comunale dal consigliere Marco Maria Freddi a favore dell’istituzione di una giornata a ricordi delle stragi del colonialismo italiano e di una strada intitolata ha fatto emergere una clamorosa proposta del consigliere Giuseppe Massari (Parma protagonista).

      Nel suo intervento, a favore della mozione, Massari ha proposto una riflessione sull’opportunità di togliere dalla sua collocazione il monumento all’esploratore parmigiano Vittorio Bottego “in quanti rappresenta un’esaltazione del colonialismo italiano con la presenza di due guerrieri africani in posizione sottomessa. Personalmente - ha concluso Massari - provo un pugno nello stomaco ogni volta che passo di lì e una riflessione andrebbe aperta”.

      Il presidente Tassi Carboni ha sottolineato che “il monumento andrebbe contestualizzato con una spiegazione , ma non rimosso , perché viene vissuto ormai come parte del paesaggio urbano e non come esaltazione del colonialismo “. Sulla mozione si è diviso il gruppo di maggioranza di Effetto Parma, con il capogruppo Salzano e Bozzani che hanno dichiarato la propria contrarietà e Fornari e Quaranta favorevoli.

      In un successivo intervento di Vito a favore della mozione Massari ha chiarito che “la rimozione del monumento a Bottego capisco sarebbe difficoltosa ma lancia un messaggio di supremazia che andrebbe contestualizzato e quindi spiegato con un cartello il significato della statua”.

      Dopo un intervento di Laura Cavandoli che lo criticava per la proposta di rimuovere la statua di Bottego Massari ha chiarito che non intendeva proporre la rimozione della statua. La mozione è passata con 23 si e 5 no espressi da Lega e dai 2 consiglieri di Effetto Parma Salzano e Bozzani.

      https://www.gazzettadiparma.it/parma/2021/11/23/news/il-consigliere-massari-la-statua-di-bottego-esalta-il-colonialismo-3

      –-

      #pétition:
      Giuseppe Verdi al posto di Vittorio Bottego

      Cari parmigiani

      E se rimuovessimo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della stazione?

      Prima di accusarci di iconoclastia, fermatevi un momento a pensare.

      Cosa rappresenta la statua nel piazzale di fronte alla stazione di Parma?
      La statua ci mostra un trionfante e fiero colonialista, Vittorio Bottego, un bianco, che si erge su due persone abbattute a terra, prostrate ai suoi piedi. Due neri.

      Questa statua celebra e racconta un’epoca del nostro passato relativamente recente, in cui anche noi abbiamo massacrato gli africani, la loro cultura, la loro identità per aumentare ed imporre il nostro potere politico ed economico e la nostra cultura. La nostra presunta supremazia.

      A Bristol, Inghilterra, le manifestazioni per il #blacklivesmatter hanno raggiunto l’apice della protesta simbolica con l’abbattimento della statua in bronzo dedicata ad Edward Colston, politico inglese e mercante di schiavi.

      E la nostra statua dedicata a Vittorio Bottego dove si trova?
      I parmigiani lo sanno: si trova esattamente davanti alla stazione, in piazzale Dalla Chiesa.
      Quella statua è quindi la prima cosa che Parma - città della musica e capitale europea del cibo - offre ai turisti e ai lavoratori che giungono in treno nella nostra città.

      La storia recente, i fatti di ieri e di oggi ci dicono che questo simbolo, questa narrazione che mostra una civiltà annientarne un’altra, non ha più ragione di esistere.

      La società sta cambiando, ed ogni epoca di cambiamento si lega necessariamente a nuovi simboli. I simboli infatti sono strumenti di traduzione di concetti complessi in strumenti di comunicazione e diffusione di tali concetti, semplificati.

      E se a questo momento di cambiamento associamo il fatto che Parma2020, l’evento che vedrà Parma nel ruolo di capitale italiana della cultura, siano state spostate di un anno a causa della pandemia, quale occasione migliore per Parma stessa per trasmettere a tutt’Italia e a tutt’Europa un messaggio dal forte contenuto simbolico?

      Lo proponiamo ufficialmente.

      Togliamo la statua di Vittorio Bottego dal piazzale della Stazione.
      Riponiamola in un museo. La storia non va distrutta.

      Ma la storia va verso il futuro.
      Ed il futuro sta accadendo ora. In tutto il mondo.
      Non perdiamo questo appuntamento con la storia.

      Installiamo una statua dedicata al Maestro Giuseppe Verdi.

      Pensateci.
      Il turista, il visitatore, il lavoratore che giunge a Parma e scende dal treno, appena esce dalla stazione si troverebbe davanti la statua della personalità forse più importante della storia della nostra città.

      Verdi è un simbolo mondiale di musica, cultura, di bellezza.
      Perché non dare il benvenuto a chi viene da fuori con una piazza ed una via a lui dedicata, che conduca i turisti nel cuore di Parma?

      Ci rivolgiamo in primis ai cittadini di Parma.
      Senza di voi, senza il vostro supporto, questa proposta non passerà mai.

      Se invece, come speriamo, dovesse raccogliere adesioni, a quel punto potremo rivolgerci anche al Consiglio Comunale, che crediamo potrebbe accogliere in larga maggioranza questa proposta.

      Quanto sarebbe bello togliere quella statua, simbolo di oppressione e di un passato che ha caratterizzato la sofferenza di milioni di persone, e ridare identità e quindi valore a quella Piazza e alla città stessa?

      «Benvenuti a Parma, città della Musica»
      Non ci sarebbe nemmeno più bisogno di dirlo.
      Qualsiasi turista, di qualsiasi nazionalità, lo capirebbe immediatamente, scendendo dal treno e ritrovandosi davanti non più un simbolo di oppressione, ma un simbolo di cultura universale.

      Si può fare?

      Ci proviamo?

      ParmaNonLoSa

      https://www.change.org/p/consiglio-comunale-di-parma-da-piazza-bottego-a-piazza-giuseppe-verdi?recrui

    • Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie


      Tra i molti temi che infiammano l’arena pubblica del nostro Paese ne manca uno, pesante come un macigno e gravido di conseguenze evidenti sulla nostra vita qui e ora. Quando in Italia si parla dell’eredità coloniale dell’Europa si punta spesso il dito sull’imperialismo della Gran Bretagna o su quello della Francia, ma si dimentica volentieri di citare il nostro, benché il colonialismo italiano sia stato probabilmente il fenomeno più di lunga durata della nostra storia nazionale. Ma è una storia che non amiamo ricordare.

      Iniziata nel 1882, con l’acquisto della baia di Assab, la presenza italiana d’oltremare è infatti formalmente terminata solo il primo luglio del 1960 con l’ultimo ammaina-bandiera a Mogadiscio. Si è trattato dunque di un fenomeno che ha interessato il nostro Paese per ottant’anni, coinvolgendo il regno d’Italia di epoca liberale, il ventennio fascista e un buon tratto della Repubblica nel dopoguerra, con chiare ricadute successive, fino a oggi. Eppure l’elaborazione collettiva del nostro passato coloniale stenta a decollare; quando il tema fa timidamente capolino nel discorso pubblico viene regolarmente edulcorato e ricompare subito l’eterno mito autoassolutorio degli italiani «brava gente», i colonizzatori «buoni», persino alieni al razzismo. Siamo quelli che in Africa hanno solo «costruito le strade».
      Se la ricerca storiografica ha bene indagato il fenomeno coloniale italiano, a livello di consapevolezza collettiva, invece, ben poco sappiamo delle nazioni che abbiamo conquistato con la forza e ancora meno delle atroci violenze che abbiamo usato nei loro confronti nell’arco di decenni.
      In questo libro Francesco Filippi ripercorre la nostra storia coloniale, concentrandosi anche sulle conseguenze che ha avuto nella coscienza civile della nazione attraverso la propaganda, la letteratura e la cultura popolare. L’intento è sempre quello dichiarato nei suoi libri precedenti: fare i conti col nostro passato per comprendere meglio il nostro presente e costruire meglio il futuro.

      https://www.bollatiboringhieri.it/libri/francesco-filippi-noi-pero-gli-abbiamo-fatto-le-strade-9788833937
      #mensonges #amnésie
      #livre

  • Dans la famille Covidiots, il te manquait Booba :
    https://twitter.com/booba/status/1477690923018760193

    Vaccins, masques, tests (payants) distanciation sociale et toujours des vagues des malades des morts des top Covid à 200k/J. Soit vous êtes cons soit c’est volontaire ! Ayez au moins l’honnêteté de reconnaître votre incompétence et laissez nos enfants vivre leur innocence !!!

    https://video.twimg.com/ext_tw_video/1477690799731224588/pu/vid/848x400/xyaKnPPQZb3n4CeP.mp4


    • À la longue, la répétition des hommages appuyées à la mouvance covidiote, les déclarations négationnistes d’à peu près toute la bande, je crains que ça devienne difficile à défendre comme simplement « maladroit ».

    • une peu de #collectif_BonSens #Florian_Philippot #Yvan_Le_Bolloc’h #Bruno_Gaccio #Didier_Raoult #FranceSoir #Antivax

      NON AU PASS VACCINAL ! NON à la discrimination des Français !
      https://web.archive.org/web/20211230161940/https://www.leslignesbougent.org/petitions/non-au-pass-vaccinal-5503

      revendique "plus d’un million de signataires" (non démontrés). elle été lancé par un « aventurier de la santé naturelle de 34 ans » (c’est ainsi que Rodolphe Bacquet se définit). elle sert par ailleurs à développer un fichier client et à engranger des données pour une boite nommée Santé Nature Innovation et... une plateforme de pétitions (LesLignesBougent.org.) qui lui est liée.

      la petite fiche de Bacquet telle que rédigée par Ration : Mensonges et gros business : qui se cache derrière la pétition anti-pass vaccinal lancée par Rodolphe Bacquet ?

      https://justpaste.it/52o34

    • Macron a la même stratégie depuis la trouille causée par les Gilets Jaunes. la question c’est de trouver du monde qui aura envie d’être manipulé par lui pour échapper à des adversaires qui serait redoutés en raison de tares aussi évidentes (spectacularisées) que dangereuses, des adversaires suffisamment irrationnels (selon les canons de la respectabilité politique dont il faudrait alors le parer, lui, même à reculons, suffisamment quant au besoin) pour apparaître comme un « recours », malgré tout. et rester dans le game. On sait qu’il ne gagnera pas cette fois juste en étant moins pire que le RN, que son bilan de président des riches arrogant et ultra répressif le fait détester. Depuis que cette stratégie a été adoptée, plus que le spectacle Zemmour (exploitable pour que Macron puisse jouer au président recours), la candidate LR est à cette heure la seule menace sérieuse (ça doit brainstormer à ce sujet, j’ai rien vu de spécial).

      ils trouverons d’autres manières d’"animer la campagne" (dont tout le monde se fout) mais ils lâcheront pas le canasson : s’agit de polariser le champ un minimum autrement qu’à son détriment en tenant jusqu’au bout la posture « on mène la guerre contre la pandémie pour le bien de tous » (comment débarque-t-on un chef de guerre ?), « vous avez bien vu que c’est pas facile, la pandémie, pas facile non plus même pour moi (qui la préside, tellement je suis grand ! attention) de redonner à l’Europe sa grandeur malgré tous les efforts communs faits lors d’une lutte contre la pandémie qui a renforcé la coopération à ce niveau ». Gageons qu’il y aura des touches d’humanisations du profil. Pourquoi pas un « il nous est arrivé de nous tromper, mais nous avons montré qu’à l’écoute des scientifiques et des français nous savions tirer des leçons de nos erreurs. en Marche, servir la France et bliblablo »

      aujourd’hui ils ont fait parler à l’A.N. un député en marche atteint de graves séquelles à vie après avoir été covidé, une façon de défendre la vaccination un peu risky pour eux, puisque cela met en lumière une réalité fort peu visible : il ne suffit peut-être pas pas de ne compter que les morts (que l’on continue à mettre sous le tapis), peut-être faut-il voir parmi ceux ont été covidés (et ça, ça ne sera pas bon pour sa campagne si ça vient trop tôt et trop fort).

    • errata j’ai sucré des erreurs publiées sur mon seen précédent car à parcourir le verbatim de la séance A.N. du 3 janvier je découvre que les deux personnes qui ont évoqué la pétition dont il est question ici sont Wonner et une députée de droite (et non pas la voix LFI masculine que j’étais certain d’avoir entendu...).
      #LFI persiste à cavaler après les #non_vaccinés plutôt que de contribuer à ce qu’ils puissent prendre une position éclairée, comme on dit, mais lors de cette séance ils ont aussi fait des topos assez précis sur les mesures non pharmaceutiques nécessaires (FFP2, UV-C, reprise du séquençage, etc).

    • Je ne m’épuise pas à faire leur SAV, mais oui, j’ai écouté Mélenchon sur ses dernières interventions publiques et quelques autres, et leurs communications sont sans ambiguités, ils ont une communication correcte. Mais on ne retient que ce qui va permettre de les mettre minable. L’autre fois, Mélenchon pose la question des traitements. Il demande où ça en est, il demande pourquoi il y a eu des communications cocorico et pourquoi on n’en parle plus. Et tu as tous ceux de nos réseaux qui adorent le Mélenchon-bashing qui n’ont retenu que ça, et qui ont fait comme si évoquer la question des traitements, c’était en faire la promotion.

      Pour en revenir au sujet, oui, je suis persuadé que leur équipe de campagne souhaite jouer des différentiels d’audience pour toucher du monde. Les puristes comme on a sur nos réseaux, ça les consterne, avec l’air entendu « je le savais bien que ces faux-gauchistes sont des pourris, et je le savais bien que je n’allais pas voter une fois de plus ». Et de mon côté, ni je n’approuve, ni je condamne. Je constate juste que là, la FI, ils semblent suivre une stratégie qui a plus à voir avec les audiences et la notoriété qu’avec la crise sanitaire.

      J’ajoute néanmoins un point que je trouve important et qu’un Twittos a exprimé bien mieux que moi ce matin :

      StructuresMinimalistes sur Twitter
      https://twitter.com/Minimaliste13/status/1478671752075038729

      Cette phrase, c’est le témoignage nu du mépris le plus brutal : vos vies ne valent rien. Le principe opérant de celui qui détient le pouvoir sans partage.

      Je supplie celles et ceux qui me lisent de comprendre que cela implique quelques compromis pour le vaincre électoralement.

      Il n’y a pas des milliers de possibilités de prendre le dessus actuellement, il n’y a pas des milliers de programmes électoral aussi complet et aussi ambitieux, et aussi en conflit avec le système qu’on conspue...

      Bref.

    • je ne suis pas en désaccord avec ce que tu dis @biggrizzly, malgré des divergeances profondes avec LFI (travail/chômage, forme d’organisation, étatisme, chauvinisme, industrialisme,...), j’aimerais juste qu’il ne m’empêchent pas d’éventuellement voter pour eux en faisant trop de merdre (j’ai un pince nez pour ces choses, pais pas une combinaison étanche). qu’un programme opposé au libéralisme soit audible, le moins marginalisé possible, peut compter dans ce théâtre, et cela peut avoir des effets hors scène, contribuer à donner de l’allant à tou.tes celleux qui n’osent pas, ne savent pas ou plus agir pour leur compte (si cela arrivait, LFI serait un obstacle). si ils ne font pas d’efforts, je rejoindrait la majorité proportionnelle réelle, plus que composite, des abstentionnistes. Mais faut élargir la palette depuis laquelle un refus de l’existant se manifeste : qu’est-ce qui reste « de gauche » sur cette scène là : LFI, NPA, LO, Révolution permanente (si ils ont leurs parrainages). voter (ou pas) je n’en fait pas une affaire religieuse, pour moi, ce n’est pas être d’accord avec un programme (impossible !) ni nécessairement soutenir l’existence de la démocratie représentative (ce dont il est pas question)

    • Merci @biggrizzly pour ces mots justes et réconfortants en ces temps sombres !

      Il n’y a pas des milliers de possibilités de prendre le dessus actuellement, il n’y a pas des milliers de programmes électoral aussi complet et aussi ambitieux, et aussi en conflit avec le système qu’on conspue...

      C’est tellement difficile de convaincre les abstentionnistes que je comprends largement par ailleurs mais là on n’a plus le choix que de le vaincre électoralement par un programme de rupture.

      @colporteur j’ai pas tout compris...

      https://seenthis.net/messages/942412#message942617

    • @marielle : on est bien d’accord que quand je dis « aussi complet », j’entends « comparativement aux autres programmes ». De même pour l’ambition et pour le « en conflit ». Du côté des écolos, ils en sont encore à tergiverser sur l’Europe ceci-cela (et je ne dirais pas forcément la même chose si ça avait été Rousseau en candidate...). Du côté des communistes, ils manifestent avec l’extrême-droite, en faveur des éborgneurs. Etc. LFI, ils ont des défauts, et j’entends totalement Arno* ou Colporteur, ou Lehmann, ce dernier étant particulièrement remonté de ce point de vue. Mais si on ne veut pas verser dans le nihilisme et s’enfermer collectivement dans la même prison à perpétuité, faut à un moment tâcher de pousser dans la même direction, quand l’opportunité semble se présenter. Surtout quand le pire qu’on risque, c’est que les vrais rapports de force vont peut-être enfin être mis à l’ordre du jour. Peut-être que ça n’aboutira pas. Mais ça ouvrira enfin des fenêtres... d’Overton de notre bord.

  • Facebook Files : Frances Haugen ou la révolte d’un pur produit de la Silicon Valley
    https://www.marianne.net/societe/big-brother/facebook-files-frances-haugen-ou-la-revolte-dun-pur-produit-de-la-silicon-

    C’est cette agence de communication qui l’a aidée à préparer ses interventions publiques, et notamment l’émission de télévision américaine « 60 minutes », lors de laquelle son identité a été révélée au grand public. Pour ajouter un étage à cette fusée pensée pour tenir la dragée haute au colosse qu’est Facebook, une dernière institution est venue la soutenir : l’ONG Luminate, fondée par le milliardaire franco-américain Pierre Omidyar. Un personnage intrigant, fondateur d’Ebay, épinglé par le scandale d’évasion fiscale Paradise Papers, et mécène de médias ayant servi de plateformes aux révélations d’Edward Snowden, le lanceur d’alerte qui a révélé les programmes de surveillance de masse aux États-Unis. Selon Le Monde, c’est une structure financée par l’ONG de Pierre Omidyar qui règle la facture de la tournée de Frances Haugen. On est donc loin de la caricature de David contre Goliath, ce qui témoigne d’une mutation dans le profil et les méthodes des lanceurs d’alerte.

    « Cette organisation lui permet d’imposer son agenda à Facebook, qui ne peut pas attendre que le soufflé retombe. Ils sont donc obligés de répondre et c’est ce qui peut entraîner un changement dans les pratiques de la plateforme », juge le chercheur Olivier Ertzscheid, auteur du Monde selon Zuckerberg (C & F, 2 020), interrogé par Marianne. « Il est aussi intéressant de noter une évolution dans le domaine dénoncé par les lanceurs d’alertes. Cela a commencé dans les années 1990 par la santé, puis Snowden ou Julian Assange ont dénoncé les dérives liberticides des États, et désormais les alertes émanent de l’intérieur des géants du numérique », observe auprès de Marianne Olivier Alexandre, docteur en sociologie et chargé de recherche au CNRS.
    Crise morale

    La Silicon Valley est désormais attaquée par ses enfants. « Frances Haugen partage avec les leaders de la Silicon Valley de nombreuses similarités sociologiques. Elle a le même âge que Mark Zuckerberg (37 ans : N.D.L.R.), ils sont de cette génération qui a été aux premières loges en grandissant en même temps que les réseaux sociaux. Elle est américaine et blanche dans un milieu qui se présente comme très ouvert mais qui discrimine les étrangers et les latinos et les Afro-Américains. Elle est ingénieure en informatique avec une solide culture scientifique qui fonde une croyance dans le fait que les nouvelles technologies sont une source de progrès. Et enfin, comme la plupart des cadres de la Silicon Valley, elle est issue d’un milieu social très favorisé », décrypte le sociologue Olivier Alexandre.

    #Facebook #Frances_Haugen #Olivier_Ertzscheid #Olivier_Alexandre

  • Facebook Files : les leçons de Frances Haugen sur le plus grand réseau social du monde - L’Express L’Expansion
    https://lexpansion.lexpress.fr/high-tech/facebook-files-les-lecons-de-frances-haugen-sur-le-plus-grand-re

    « Ce que révèle Frances Haugen est plutôt une confirmation. Les experts, les chercheurs se doutaient des effets de polarisation, des modérations qui n’étaient pas effectuées comme elles l’étaient. Ce qu’amène Frances Haugen c’est la preuve, la documentation de ces dysfonctionnements algorithmiques, humains, éditoriaux », explique Olivier Ertzscheid, enseignant-chercheur en sciences de l’information et de la communication à l’Université de Nantes et auteur de l’ouvrage : « Le monde selon Zuckerberg : portraits et préjudices » (C&F Editions, 2020).

    #Facebook #Olivier_Ertzscheid #Frances_Haugen