• #Frontex, Cutro è un ricordo sbiadito: sorvegliare dall’alto resta la priorità

    Un anno dopo la strage, l’Agenzia europea della guardia di frontiera investe ancora su velivoli per sorvolare il Mediterraneo. Dal 2016 a oggi la spesa supera mezzo miliardo di euro. Una strategia dagli esiti noti: più respinti e più morti

    Frontex è pronta a investire altri 158 milioni di euro per sorvegliare dall’alto il Mediterraneo. A un anno dal naufragio di Steccato di Cutro (KR), costato la vita a 94 persone, la strategia dell’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee non cambia. Anzi, si affina con “occhi” sempre più efficaci per rintracciare e osservare dall’alto le imbarcazioni in difficoltà. “Si continua a pensare che Frontex sia un’innocua gregaria degli Stati, senza responsabilità -spiega Laura Salzano, docente di diritto dell’Ue presso l’Università di Barcellona-. Ma in mare, sempre di più, le sue attività hanno conseguenze dirette sulla vita delle persone”.

    Lo racconta, in parte, anche la strage di Cutro del 26 febbraio 2023. Alle 22.26 della sera prima infatti fu l’Agenzia, attraverso il velivolo “Eagle 1”, a individuare per prima la “Summer love” e a segnalarla, quand’era a circa 40 miglia delle coste crotonesi, al Frontex coordination centre. Da Varsavia le coordinate della nave furono girate alle autorità competenti: tra queste anche l’International coordination centre (ICC) di Pratica di mare (RM) in cui, allo stesso tavolo, siedono le autorità italiane e la stessa Agenzia che ha il dovere di monitorare quello che succede. “Nonostante fosse noto che c’erano persone nella ‘pancia della nave’ e il meteo stesse peggiorando, si è deciso di attivare un’operazione di polizia e non di ‘ricerca e soccorso’ -spiega Salzano-. Questa classificazione a mio avviso errata è responsabilità anche dell’Agenzia”. Un errore che potrebbe aver inciso anche sul ritardo nei soccorsi.

    Lo stabilirà la Procura di Crotone che, a metà gennaio 2024, non ha ancora chiuso le indagini sulla strage. Qualcosa di quanto successo quella sera, però, si sa già, perché il processo contro i presunti manovratori dell’imbarcazione è già in fase di dibattimento. “La prima barca della Guardia costiera -spiega Francesco Verri, avvocato di decine di familiari delle vittime- arriva sul luogo del naufragio alle 6.50, quasi tre ore dopo il naufragio: salva due persone ma recupera anche il cadavere di un bambino morto di freddo. Perché ci hanno impiegato così tanto tempo per percorrere poche miglia nautiche? Sulla spiaggia la pattuglia è arrivata un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. Da Crotone a Cutro ci vogliono dieci minuti di macchina”. Domande a cui dovranno rispondere le autorità italiane.

    Al di là delle responsabilità penali, però, quanto successo quella notte mostra l’inadeguatezza del sistema dei soccorsi di cui la sorveglianza aerea è un tassello fondamentale su cui Frontex continua a investire. Con importi senza precedenti.

    Quando Altreconomia va in stampa, a metà gennaio, l’Agenzia sta ancora valutando le offerte arrivate per il nuovo bando da 158 milioni di euro per due servizi di monitoraggio aereo: uno a medio raggio, entro le 151 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza (budget di 100 milioni), l’altro a lungo raggio che può superare le 401 miglia di distanza (48 milioni).

    https://pixelfed.zoo-logique.org/i/web/post/658926323750966119

    Documenti di gara alla mano, una delle novità più rilevanti riguarda i cosiddetti “Paesi ospitanti” delle attività di monitoraggio: si prevede infatti espressamente che possano essere anche Stati non appartenenti all’Unione europea. In sostanza: il velivolo potrebbe partire da una base in Tunisia o Libia; e, addirittura, si prevede che un host country liaison officer, ovvero un agente di “contatto” delle autorità di quel Paese, possa salire a bordo dell’aeromobile. “Bisogna capire se sarà fattibile operativamente -sottolinea Salzano-. Ma non escludere questa possibilità nel bando è grave: sono Paesi che non sono tenuti a rispettare gli standard europei”.

    Mentre lavora per dispiegare la sua flotta anche sull’altra sponda del Mediterraneo, Frontex investe sulla “qualità” dei servizi richiesti. Nel bando si richiede infatti che il radar installato sopra il velivolo sia in grado di individuare (per poi poter fotografare) un oggetto di piccole dimensioni a quasi dieci chilometri di distanza e uno “medio” a quasi 19. Prendendo ad esempio il caso delle coste libiche, più la “potenza di fuoco” è elevata più il velivolo potrà essere distante dalle coste del Nordafrica ma comunque individuare le imbarcazioni appena partite.

    La distanza, in miglia nautiche, che l’ultimo bando pubblicato da Frontex nel novembre 2023 prevede tra l’aeroporto di partenza del velivolo e l’area di interesse da sorvolare è di 401 miglia. Nella prima gara riguardante questi servizi, pubblicata dall’agenzia nell’agosto 2016, la distanza massima prevista era di 200 miglia

    Frontex sa che, oltre alla componente meccanica, l’efficienza “tecnica” dei suoi droni è fondamentale. Per questo il 6 e 7 settembre 2023 ha riunito a Varsavia 16 aziende del settore per discutere delle nuove frontiere tecnologiche dei “velivoli a pilotaggio remoto”. A presentare i propri prodotti c’era anche l’italiana Leonardo Spa, leader europeo nel settore aerospaziale e militare, che già nel 2018 aveva siglato un accordo da 1,6 milioni di euro per fornire droni all’Agenzia.

    L’ex Finmeccanica è tra le 15 aziende che hanno vinto i bandi pubblicati da Frontex per la sorveglianza aerea. Se si guarda al numero di commesse aggiudicate, il trio formato da DEA Aviation (Regno Unito), CAE Aviation (Stati Uniti) ed EASP Air (Spagna) primeggia con oltre otto contratti siglati. Valutando l’importo delle singole gare, a farla da padrone sono invece due colossi del settore militare: la tedesca Airbus DS e la Elbit System, principale azienda che rifornisce l’esercito israeliano, che si sono aggiudicate in cordata due gare (2020 e 2022) per 125 milioni di euro. Dal 2016 a oggi, il totale investito per questi servizi supera i cinquecento milioni di euro.

    “La sorveglianza è una delle principali voci di spesa dell’Agenzia -spiega Ana Valdivia, professoressa all’Oxford internet institute che da anni analizza i bandi di Frontex- insieme a tutte le tecnologie che trasformano gli ‘eventi reali’ in dati”. E la cosiddetta “datificazione” ha un ruolo di primo piano anche nel Mediterraneo. “La fotografia di una barca in distress ha un duplice scopo: intercettarla ma anche avere un’evidenza digitale, una prova, che una determinata persona era a bordo -aggiunge Valdivia-. Questa è la ‘sorveglianza’: non un occhio che ci guarda giorno e notte, ma una memoria digitale capace di ricostruire in futuro la nostra vita. Anche per i migranti”. E per chi è su un’imbarcazione diretta verso l’Europa è vitale a chi finiscono le informazioni.

    Nell’ultimo bando pubblicato da Frontex, si prevede che “il contraente trasferirà i dati a sistemi situati in un Paese terzo se è garantito un livello adeguato di protezione”. “Fanno finta di non sapere che non possono farlo -aggiunge Salzano- non potendo controllare che Paesi come la Tunisia e la Libia non utilizzino quei dati, per esempio, per arrestare le persone in viaggio una volta respinte”. Quello che si sa, invece, è che quei dati -nello specifico le coordinate delle navi- vengono utilizzate per far intervenire le milizie costiere libiche. Per questo motivo i droni si avvicinano sempre di più alla Libia. Se nel 2016 l’Agenzia, nella prima gara pubblicata per questa tipologia di servizi, parlava di area operativa nelle “vicinanze” con le coste italiane e greche, fino a 200 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza, dal 2020 in avanti questa distanza ha superato le 401 miglia.

    Lorenzo Pezzani, professore associato di Geografia all’università di Bologna, ha esaminato giorno per giorno i tracciati di “Heron”, il più importante drone della flotta di Frontex: nel 2021 l’attività di volo si è concentrata tra Zuara e Tripoli, il tratto di costa libica da cui partiva la maggior parte delle barche.

    “Il numero di respingimenti delle milizie libiche -spiega Pezzani autore dello studio “Airborne complicity” pubblicato a inizio dicembre 2022- cresce all’aumentare delle ore di volo del drone e allo stesso tempo la mortalità non diminuisce, a differenza di quanto dichiarato dall’Agenzia”. Che tramite il suo direttore Hans Leijtens, entrato in carica a pochi giorni dal naufragio di Cutro, nega di avere accordi o rapporti diretti con la Libia. “Se è così, com’è possibile che un drone voli così vicino alle coste di uno Stato sovrano?”, si chiede Salzano. Chi fornirà il “nuovo” servizio per Frontex dovrà cancellare le registrazioni video entro 72 ore. Meglio non lasciare troppe tracce in giro.

    https://altreconomia.it/frontex-cutro-e-un-ricordo-sbiadito-sorvegliare-dallalto-resta-la-prior
    #migrations #réfugiés #frontières #militarisation_des_frontières #complexe_militaro-industriel #business #Méditerranée #mer_Méditerranée #Cutro #surveillance_aérienne #Leonardo #Elbit_System #Airbus #host_country_liaison_officer #radar #technologie #DEA_Aviation #CAE_Aviation #EASP_Air #Libye #gardes-côtes_libyens

    • Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere

      Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano.

      https://seenthis.net/messages/1039671

  • Militariser les frontières et entraver l’accès au territoire européen : L’exemple de Ceuta

    En somme, à Ceuta, les exilé·e·s n’ont pas d’autres moyens que d’entrer dans l’#enclave espagnole par des postes frontières non-habilités, et cela au péril de leur vie.

    https://www.canva.com/design/DAF0FmOmnU8/A2tAC7ccKWfyFVbhi0AXGA/edit

    #infographie #visualisation #Ceuta #Espagne #Maroc #frontières #militarisation_des_frontières #cartographie

  • Algérie : près de 2 000 migrants expulsés vers le « Point zéro » au Niger en deux semaines - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/54862/algerie--pres-de-2-000-migrants-expulses-vers-le-point-zero-au-niger-e

    Actualités
    Algérie : près de 2 000 migrants expulsés vers le « Point zéro » au Niger en deux semaines
    Par Charlotte Boitiaux Publié le : 30/01/2024
    Entre le 1er et le 17 janvier, 1 939 migrants ont été expulsés par l’Algérie dans le Sahara à la frontière nigérienne, une zone appelée « Point zéro ». Du jamais vu, selon le collectif Alarme Phone Sahara qui a effectué le recensement. Parmi les exilés expulsés, se trouvent majoritairement des Subsahariens et des Africains de l’Ouest. Certains habitaient en Algérie, d’autres avaient déjà été expulsés des pays frontaliers comme la Tunisie, la Libye ou le Maroc.
    « L’année 2024 a commencé avec des expulsions au Niger », a tweeté le collectif Alarme Phone Sahara sur les réseaux sociaux. Et les chiffres sont « alarmants », selon Azizou Chehou, le coordinateur du collectif, contacté par InfoMigrants : 1 939 migrants ont été renvoyés illégalement d’Algérie dans le désert nigérien en un peu plus de deux semaines. « Du jamais vu », affirme-t-il.
    C’est en plein Sahara aux portes du désert du Ténéré que sont envoyés les exilés. La zone frontalière est aussi appelée au « Point zéro ». Selon les équipes d’Alarme Phone Sahara - basées à Agadez, Assamaka, Arlit, Niamey, dans la région de Kawar (sur la route vers la Libye) - les migrants expulsés ces deux dernières semaines viennent du Sahel et d’Afrique de l’Ouest principalement.
    « Les mesures de l’UE pour retenir les migrants sur le continent africain sont en grande partie responsables de la situation », juge Azizou Chehou, d’Alarme Phone en évoquant les partenariats migratoires signés entre Bruxelles et le Maroc, la Tunisie, la Libye. « Ils font tout pour que les pays africains empêchent les départs, donc les migrants sont bloqués puis renvoyés plus au sud ».
    Alarme Phone Sahara évoque aussi la reprise des rafles par les autorités algériennes dans les villes du pays. « Ces arrestations arbitraires ont toujours existé mais leur fréquence varie. Aujourd’hui, on arrête les Noirs dans leur appartement, dans la rue, sur leur lieu de travail, sur les terrains de sport et puis on les envoie vers Point zéro », explique-t-il.
    Il existe aussi des renvois transfrontaliers. Depuis des mois, par exemple, la Tunisie expulse illégalement des Subsahariens vers l’Algérie. « Quand les autorités algériennes constatent que des Noirs ont traversé la frontière, ils les arrêtent ». Les migrants qui viennent de Tunisie « se reposent généralement quelques jours » puis « sont expulsés à leur tour », détaille Azizou Chehou. Ces renvois sont loin d’être nouveaux. Entre les mois de juillet et octobre 2023, environ 5 000 migrants avaient été expulsés vers « Point Zéro ». En 2021 déjà, de nombreuses expulsions avaient eu lieu. Et les dangers sont réels. Les exilés sont généralement abandonnés à la tombée de la nuit. Lorsqu’ils sont lâchés, ils sont livrés à eux-mêmes. Sans eau ni nourriture, ils doivent parcourir 15 kilomètres à pied pour rejoindre le village nigérien le plus proche, Assamaka. C’est là que se trouve le centre de transit de l’Organisation internationale des migrations (OIM), le bras de l’ONU qui assiste les retours volontaires des migrants vers leur pays d’origine. Chaque année, de nombreux exilés disparaissent aussi sans laisser de trace dans le Sahara. Ils peuvent se perdre, mourir de déshydratation, ou être victimes de groupes mafieux. Amadou, un migrant contacté par InfoMigrants en juillet 2020, racontait avoir vu trois personnes mourir sous ses yeux dans le désert. « Ils étaient tellement fatigués qu’ils se sont effondrés au sol », avait expliqué le jeune Africain qui travaillait depuis deux ans en Algérie avant d’être arrêté

    #Covid-19#migrant#migration#niger#algerie#assamaka#sahara#routemigratoire#OIM#frontiere#expulsion#libye#agadez#arlit#niamey#sante

  • « Jetzt erst begreiff ich, dass ich offiziell eine Kroatin bin, die in europäischen Städten noch immer allen möglichen Jugoslawen hinterhergeht, um ihre Stimmen zu hören und ihre dazugehörigen Wörter wie weitgereiste Vögel zu erspähen, die mehr oder weniger unversehrt überlebt haben, ganz gleich, ob in Paris, Lissabon, Frankfurt oder Berlin. Und auch begriff ich, wie absurd es eigentlich ist, ein Passbesitzer zu sein, etwas so Ausseres sein zu müssen und es zu werden, weil man hier auf dieser Erde ein Jemand ist, wenn man sich irgendeiner ausgedachten Grenze als Einheit von Gesicht und Name ausweisen kann. »
    #porte-parole #diaspora #yougonostalgie #yougoslavie #communauté #nous #post-yougoslave #transnational #frontière #identité #national #diaspora

    Sterne erben p. 72

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Aux Etats-Unis, la question migratoire, entre urgence sécuritaire et blocage politique
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/01/30/aux-etats-unis-la-question-migratoire-entre-urgence-securitaire-et-blocage-p

    Aux Etats-Unis, la question migratoire, entre urgence sécuritaire et blocage politique
    Par Piotr Smolar (Washington, correspondant)
    Washington, le 24 janvier 2024. J. SCOTT APPLEWHITE / AP
    Un gouverneur, au Texas, qui refuse d’appliquer une décision de la Cour suprême. Le favori des primaires républicaines, Donald Trump, qui incite les élus de son camp à rejeter tout compromis avec les démocrates. Le président, Joe Biden, qui annonce son intention de fermer la frontière avec le Mexique en cas d’urgence, si le Congrès lui en donne les moyens. Une opinion publique gagnée par l’inquiétude. Les foyers d’incendie se multiplient aux Etats-Unis sur la question migratoire.
    En cette année d’élection présidentielle, elle s’impose au cœur du débat public et constitue l’une des vulnérabilités de Joe Biden. Mais elle expose aussi les calculs politiques des républicains, prêts à attiser le feu à des fins électorales et à bloquer tout nouveau paquet d’aide à l’Ukraine, un dossier devenu connexe.Cette question migratoire n’est ni un fantasme ni une manipulation. La pression est forte à la frontière avec le Mexique. Ses raisons sont multiformes, en amont, sur le reste du continent américain – répressions politiques, catastrophe économique et climatique, etc. –, poussant des millions de personnes sur les routes de l’exil vers le nord. Elle est due aussi à l’impossibilité, de longue date, de refonder les dispositifs fédéraux de traitement des migrants et de revoir le droit d’asile américain de façon bipartisane.
    « Le système est cassé », reconnaît Joe Biden. Pendant les deux premières années de son mandat, ce dernier a voulu détricoter les politiques controversées de son prédécesseur, avant d’être confronté aux flux croissants de migrants. Depuis janvier 2023, il a tenté de reconfigurer son approche. L’idée de la Maison Blanche était d’obliger les candidats à l’asile à déposer leur demande dans les pays de transit, ou à prendre rendez-vous par une application, avant d’arriver aux Etats-Unis.Mais la pression s’est accrue. Au cours du mois de décembre, près de 302 000 migrants sans papiers ont été interpellés, avec des pics réguliers à 10 000 par jour. Des chiffres sans précédent. Entre octobre 2022 et septembre 2023, la police aux frontières a contrôlé 2,4 millions de personnes, après un nombre similaire l’année précédente. Parmi eux figuraient 169 individus inscrits sur la « terrorist watchlist », un fichier de près de deux millions de personnes considérées comme nécessitant un intérêt particulier de la part des services américains. La crainte que des terroristes en puissance s’infiltrent par une frontière poreuse est abondamment relayée par les élus républicains.
    L’un des acteurs de cette crise politique et sécuritaire est Greg Abbott, le gouverneur républicain du Texas. L’an passé, il s’était fait remarquer en organisant le transfert de plus de 90 000 sans-papiers vers de grandes villes administrées par les démocrates – telles Los Angeles, Chicago ou New York –, prétendument au nom d’un partage du fardeau. Greg Abbott a récemment ordonné l’installation en urgence d’un mur de barbelés le long du Rio Grande, autour de la ville d’Eagle Pass. Déployés sur près de cinquante kilomètres, ces barbelés devaient décourager les candidats au franchissement, du côté mexicain. Mais ils empêchaient l’accès à la frontière aux forces fédérales, dont c’est pourtant la prérogative.
    Le 22 janvier, la Cour suprême a donné raison au gouvernement fédéral. En réponse, Greg Abbott a accusé la Maison Blanche de ne pas assumer ses « devoirs constitutionnels ». Ayant déclaré une « invasion » du Texas, le gouverneur invoque le droit de son Etat à « se défendre et à se protéger ». Cette révolte étatique contre le gouvernement fédéral inspire d’autres gouverneurs. Ils sont vingt-quatre républicains à avoir signé un texte de soutien à leur collègue du Texas, expliquant que les Etats pouvaient se substituer à Washington si le pouvoir fédéral n’assumait pas ses responsabilités.
    A Washington, les élus républicains se retrouvent dans une position inconfortable. Eux qui depuis des mois accusaient la Maison Blanche d’inaction sont dorénavant décidés à faire de l’obstruction, pour bloquer un accord sénatorial bipartisan, négocié depuis quatre mois. A la Chambre des représentants, le speaker Mike Johnson, sous la pression permanente des élus trumpistes, a estimé que le texte du Sénat serait « mort-né » en arrivant à la Chambre, alors même qu’il n’a pas encore été rendu public.
    Ce projet prévoit de compliquer significativement la voie vers l’asile et d’accroître la sécurisation de la frontière et les capacités de rétention avant expulsion. Il représente pourtant un compromis difficile pour les démocrates. Il suscite déjà une vive hostilité dans l’aile gauche du parti. « Ce qui est négocié serait, si cela prenait force de loi, la plus forte et juste série de réformes pour sécuriser la frontière qu’on n’ait jamais eues dans notre pays, a expliqué Joe Biden dans un communiqué assumant sa volte-face, le 26 janvier. Cela me donnerait, comme président, une nouvelle autorité d’urgence pour fermer la frontière lorsqu’elle deviendrait submergée. Si cette autorité m’était accordée, je l’utiliserais le jour même où je promulguerais le texte de loi. »
    Le sénateur républicain James Lankford (Oklahoma), qui conduit les négociations au Sénat, dénonce les « rumeurs sur Internet » et rappelle ses propres collègues à leurs responsabilités en matière de sécurité nationale. Il jouit du soutien du chef de file républicain, Mitch McConnell. Mais ce dernier a reconnu, lors d’une réunion derrière des portes closes, que Donald Trump rejetait tout compromis bipartisan. « Un mauvais accord sur la frontière est bien pire que pas d’accord », a expliqué l’ancien président, samedi, sur son réseau Truth Social. L’argument des trumpistes consiste à dire à présent que Joe Biden peut agir sans nouveau cadre législatif. Depuis plus de deux ans, ils prétendaient le contraire.
    La crise migratoire représente pour Donald Trump un angle d’attaque privilégié contre l’administration Biden. Il préfère entretenir la crise par ses pressions sur les élus, plutôt que d’offrir un répit politique à son successeur démocrate. Il emploie aussi ce sujet comme un argument contre sa dernière rivale pour l’investiture républicaine, Nikki Haley, présentée comme une « mondialiste profrontières ouvertes ».Les chaînes conservatrices, elles, en font un motif d’angoisse, confondant volontiers la question migratoire avec celle de la criminalité et de la drogue, plus précisément du fentanyl, cet opioïde de synthèse qui ravage les villes américaines.
    De leur côté, les républicains à la Chambre, dominés par un courant MAGA (« Make America Great Again ») hostile par principe et posture à la notion de compromis, ont l’intention de lancer, mardi 30 janvier, la procédure d’impeachment contre le secrétaire à la sécurité intérieure, Alejandro Mayorkas. Peu importe que ce règlement de comptes politique ne repose sur aucune accusation crédible. Pour le mouvement MAGA, il s’agit d’un coup d’éclat sans autre fin que le bruit engendré.
    Balançant entre passivité et déni, la Maison Blanche n’est pas exempte de responsabilités dans la crise actuelle, qui, par association, met en danger un pan majeur de sa politique étrangère. Confrontée à l’épuisement de l’aide militaire à l’Ukraine fin septembre 2023, elle a subi les convulsions républicaines à la Chambre des représentants. Début octobre, Kevin McCarthy a été évincé du poste de speaker par son propre groupe, après avoir accepté une extension temporaire du financement du gouvernement fédéral. Pour assumer cet acte responsable, il avait abandonné les discussions sur un nouveau paquet d’aide pour l’Ukraine.
    Par la suite, Joe Biden a appelé de façon solennelle les républicains à voter une enveloppe globale de 111 milliards de dollars (102 milliards d’euros), dont 61 milliards de dollars pour l’Ukraine et 14 milliards de dollars pour Israël. Mais les élus du « Grand Old Party » (GOP) ont décidé de lier cyniquement cette aide – qui met en jeu la crédibilité américaine et la vitalité de ses alliances dans le monde – à la question migratoire. Et ce alors que le paquet de 111 milliards de dollars comprenait aussi 14 milliards uniquement destinés à renforcer les moyens policiers et judiciaires à la frontière.
    Les proches de Joe Biden, à commencer par le conseiller à la sécurité nationale, Jake Sullivan, n’ont cessé de prétendre qu’il existait toujours une majorité bipartisane en faveur d’une aide massive à Kiev, face à l’agression russe. Ils semblent avoir sous-estimé l’emprise de Donald Trump sur le GOP et la montée dans la base militante – au poids déterminant dans les primaires républicaines – d’un isolationnisme fort, d’une priorité exigée pour les affaires intérieures. A commencer par l’urgence migratoire. Mais, aujourd’hui, une seule urgence semble dominer chez les trumpistes et elle n’a rien à voir avec la sécurité nationale ou les intérêts américains : battre Joe Biden en novembre.

    #Covid-19#migration#migrant#etatsunis#crisemigratoire#politique#frontiere#asile#mexique#migrationirreguliere#sante

  • Un article qui peut sembler peu critique par rapport à ce qui se publie habituellement dans la revue AfriqueXXI. Mais cette question des "méharistes" permet de réfléchir aux successions et imbrications des périodes (avant, pendant, après la colonisation), autrement dit cette troupe de police du désert relève-t-elle du leg ou de l’héritage colonial ?

    Mauritanie. Sur les traces des « sentinelles du désert »

    https://afriquexxi.info/Mauritanie-Sur-les-traces-des-sentinelles-du-desert

    Une brigade spécialisée, les méharistes, sillonne à dos de dromadaire la région frontalière avec le Mali. Au plus près des populations, ces militaires recueillent des renseignements, prodiguent des soins et tentent ainsi de prévenir d’éventuelles incursions armées. Mais cette stratégie peut-elle expliquer à elle seule l’absence d’attaques dans le pays depuis 2011 ?

    Marco Simoncelli > Maria Gerth-Niculescu > 26 janvier 2024

    Dans la région du Hodh Ech Chargui, le vent et le sable modèlent à leur guise les paysages desséchés de l’est de la Mauritanie. Ici, le soleil fait parfois grimper les températures à plus de 50 °C. Mais pour Mohamed Salem Ould Salem, les dunes et les acacias épineux n’ont rien de menaçant. À dos de dromadaire, ce sous-officier patrouille dans le désert depuis vingt-huit ans. « Nous pouvons parcourir jusqu’à 70 kilomètres par jour dans des zones inaccessibles aux véhicules. Nous portons des armes légères pour nous déplacer avec agilité », confie le militaire mauritanien, assis à l’ombre d’un acacia et en pleine préparation du traditionnel ataya (thé vert).

    Les cheveux grisonnants et le visage rond, Mohamed Salem fait partie de la brigade des méharistes, membre du Groupement nomade (GN), une unité de la Garde nationale mauritanienne. Il raconte avec sérieux son amour du désert et son sens du devoir. Aussi appelées « les sentinelles du désert », les patrouilles du GN effectuent des déplacements pouvant durer plusieurs semaines afin d’atteindre les zones les plus reculées.

    En ce mois de novembre 2023, leur destination est le petit village de Mekhezin, où les habitants les attendent sous une grande tente dressée pour l’occasion. Les dromadaires et leurs cavaliers sont accueillis avec des cris de joie. Plus que militaire, l’action des méharistes s’apparente à un service de proximité, qui propose une assistance médicale, mais aussi une aide administrative ou encore une distribution de matériel scolaire. Assis en tailleur sur un tapis coloré, Famouri Keita, méhariste infirmier, ausculte des femmes et des enfants qui se pressent en nombre. « Nous sommes parfois à des dizaines, voire des centaines de kilomètres de tout centre de santé », explique-t-il.❞

    (Suite à lire sur le site d’Afrique XX1 afin notamment d’accéder aux photos)

    #Mauritanie #LegColonial #Police #armée #terrorisme

  • Decoding #Balkandac : Navigating the EU’s Biometric Blueprint

    This report, authored by the Border Violence Monitoring Network with support from Privacy International, investigates the development of interoperable biometric databases, akin to Eurodac, in the Western Balkans, referred to as the “Balkandac” system. It highlights a lack of transparency in current regional data-sharing systems and underscores the significant role of EU institutions in their creation.

    The report employs a comprehensive methodology, combining grassroots observations, open-source research, and Freedom of Information Requests (FOI) submissions to address human rights violations.

    This report aims to contextualise recent developments towards the digitalisation of biometric data collection in the Western Balkans into wider shifts in migration policy and data-sharing frameworks at the EU level. In order to achieve this, the report first unpacks the key regulations envisioned under the EU’s New Pact on Migration and Asylum and how these are envisioned to operate within EU Member States. Collectively, they establish a system whereby people on the move are prevented from entering the territory of Member States, subjected to expedited procedures, and returned directly to “safe third countries”. This manifests as a legalisation of the pushback process; individual claims will undergo insufficient scrutiny within compressed timeframes and procedural rights, such as access to free legal aid and the suspensive effect of appeals against inadmissabiliy decisions, are not yet guaranteed at the time of writing. These legal shifts unequivocally obstruct access to the right to asylum within the new regulatory framework.

    A key ongoing development in this line is the development of biometric data collection systems that are modelled off the EURODAC system, allowing for seamless interoperability in the future. Funding from the EU’s Instruments for Pre-Accession Assistance and bilateral agreements with Member States have supported these data systems in the Western Balkans, mirroring Eurodac. Critiques arise from increased interoperability of EU databases, which blur immigration and criminal law purposes, lack anti-discrimination safeguards, and bypass key data protection principles.

    The core issue lies in the balance between personal data protection and fundamental rights, contrasted with the use of biometric systems for mass surveillance and data analysis. The report emphasizes the merging of migration and security discourses, underscoring the potential for unjust criminalisation of migrants, making it harder for them to seek asylum and international protection.

    https://borderviolence.eu/reports/balkandac
    #biométrie #Balkans #rapport #Border_Violence_Monitoring_Network (#BVMN) #interopérabilité #données #base_de_données #Balkans_occidentaux #données_biométriques #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile #migrations #asile #réfugiés #frontières #pays-tiers_sûrs #accès_à_l'asile #eurodac #Instruments_for_Pre-Accession_Assistance #droits_fondamentaux

  • Mort de Blessing Matthew : la justice européenne ne permet pas de rouvrir le dossier

    La CEDH a rendu sa décision jeudi 18 janvier : elle estime irrecevable la requête de la sœur de la Nigériane retrouvée morte noyée dans la Durance, près de Briançon, en mai 2018. Elle souhaitait une réouverture de l’enquête.

    C’estC’est la fin d’un long combat en quête de justice et de vérité. Jeudi 18 janvier, la Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) a statué dans l’affaire dite « Blessing Matthew », du nom de cette exilée nigériane retrouvée morte noyée dans la Durance, à la frontière franco-italienne, près de Briançon (Hautes-Alpes), le 7 mai 2018.

    La Cour a jugé, à l’unanimité, que la requête était « irrecevable », coupant court aux derniers espoirs nourris par Christiana, la sœur de Blessing Matthew, par l’association locale Tous Migrants, mais aussi par Hervé, le seul témoin, dont Mediapart a révélé l’existence. Son témoignage, quatre ans après les faits, pointait le rôle des forces de l’ordre dans la mort de la jeune femme.

    À seulement 20 ans, elle tentait d’échapper aux gendarmes qui cherchaient à l’interpeller au petit matin, après qu’elle eut franchi la frontière franco-italienne accompagnée de deux hommes. La justice française avait estimé qu’il n’y avait « aucun témoin ». Hervé avait d’ailleurs disparu un temps après avoir été refoulé en Italie. Une juge d’instruction indépendante avait aussi rendu un non-lieu en 2020, après une plainte déposée par Christiana.

    Lorsqu’Hervé est sorti de l’ombre pour donner sa version des faits, après des années d’errance, les avocats de Tous Migrants ont décidé de demander la réouverture du dossier. Ils n’ont pas été entendus. Pour Me Vincent Brengarth, cette décision de la CEDH cause une « déception très claire » chez tous les intervenants qui ont pu participer à ce « combat judiciaire » au cours des dernières années.

    « Il y a le sentiment que la décision de la CEDH n’est pas à la hauteur de la mobilisation exceptionnelle qu’il y a eue autour de cette affaire, pour que toute la lumière soit faite sur les circonstances de la mort de Blessing », explique l’avocat, joint par Mediapart. Il ajoute qu’il ne s’agit pas d’une irrecevabilité « classique », qui pourrait laisser entendre qu’il pouvait y avoir des vices de forme ou des irrégularités dans la procédure.
    Une décision sur le fond

    « Non, un juge a bien regardé le dossier au fond mais a rejeté la requête en considérant que les autorités françaises avaient fait le nécessaire de façon raisonnable dans ce dossier. » Un point de vue que ne partagent pas l’avocat ni l’association Tous Migrants.

    « On constate que malgré une analyse de fond, la décision donne crédit à la manière dont les autorités ont agi dans cette affaire, regrette Agnès Antoine, membre de Tous Migrants. Ni les autorités françaises ni la CEDH n’auront répondu à la demande de justice et de vérité pour Blessing depuis 2018. »

    Le contraste avec le volume et la qualité du travail produit par la communauté d’acteurs est, selon elle, saisissant. « Il y avait une intensité d’éléments fournis par le témoin, Tous Migrants ou encore Border Forensics [qui regroupe chercheuses et chercheurs, architectes et cartographes et mène des investigations sur les morts aux frontières – ndlr]. Que faut-il de plus aujourd’hui pour espérer que la justice soit rendue à une personne exilée ? », abonde Vincent Brengarth, qui évoque un « rendez-vous raté avec la justice ».

    Dans ses motivations, la CEDH justifie sa décision ainsi : « Le témoignage ne contenait pas d’allégation plausible ou crédible qui aurait permis l’identification, la poursuite et éventuellement la condamnation de l’auteur d’un homicide, et n’était de nature à remettre en cause ni le sérieux ni les conclusions de l’enquête initiale. »

    Le nouveau témoignage d’Hervé, à la fois « précis et inédit » selon Me Brengarth, aurait pourtant dû mener à de nouvelles investigations. « Il pointait des gendarmes à l’identité connue à travers les éléments de l’investigation. On a l’impression aujourd’hui que tous ces éléments ont été piétinés. » Sans parler des risques pris par Hervé en accusant des gendarmes dans une affaire aussi sensible, et qui a été menacé d’expulsion, peu de temps après avoir livré son témoignage à la presse.

    L’avocat tout comme l’association Tous Migrants prennent acte de la décision de la CEDH malgré tout. Mais ils promettent que le combat ne s’arrêtera pas là : d’autres victimes des frontières, ou proches de victimes, « ont besoin d’un espace pour être entendues dans leur quête de vérité et de justice », conclut Agnès Antoine. La mort de la jeune femme avait secoué le tissu associatif local, déjà fortement mobilisé pour venir en aide aux exilé·es en situation de détresse dans la montagne.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/180124/mort-de-blessing-matthew-la-justice-europeenne-ne-permet-pas-de-rouvrir-le

    #Blessing_Matthew #CEDH #justice (well...) #cour_européenne_des_droits_de_l'homme #asile #migrations #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #décès #frontière_sud-alpine #Alpes

    • Communiqué de presse Tous Migrants - Border Forensics, 19.01.2024 :
      LA CEDH ne répond pas à la demande de vérité pour Blessing Matthew

      [EXTRAIT] Depuis la mort de Blessing Matthew le 7 mai 2018, suite à sa chute dans la Durance alors qu’elle était poursuivie par la police, sa famille ainsi que l’association Tous Migrants ont inlassablement poursuivi leur combat pour que la justice fasse toute la lumière sur ce drame, en ne négligeant aucune voie judiciaire. Des plaintes ont ainsi rapidement été déposées auprès du Procureur de la République en 2018, avant que, en 2019, des plaintes avec constitution de partie civile soient déposées devant le Doyen des juges d’instruction après le classement sans suite de l’affaire. En dépit de l’ensemble des éléments produits au cours de la procédure, une ordonnance de non-lieu était rendue puis confirmée.

      –—
      Texte complet :

      Depuis la mort de Blessing MATIHEW le 7 mai 2018, suite à sa chute dans la Durance alors qu’elle était poursuivie par la police, sa famille ainsi que l’association Tous Migrants ont inlassablement poursuivi leur combat pour que la justice fasse toute la lumière sur ce drame, en ne négligeant aucune voie judiciaire. Des plaintes ont ainsi rapidement été déposées auprès du Procureur de la République en 2018, avant que, en 2019, des plaintes avec constitution de partie civile soient déposées devant le Doyen des juges d’instruction après le classement sans suite de l’affaire. En dépit de l’ensemble des éléments produits au cours de la procédure, une ordonnance de non-lieu était rendue puis confirmée.

      Des éléments nouveaux sont par la suite intervenus, dont un témoignage de M. H. S., contredisant formellement les déclarations des gendarmes et faisant état de ce que Blessing MATIHEW s’était débattue avec l’un d’eux, entrainant sa chute dans l’eau, de ce que personne ne lui a porté secours avant qu’elle ne disparaisse dans la rivière et trouve la mort.

      La cohérence de ces déclarations a été confirmée par l’analyse minutieuse menée par Border Forensics, après plusieurs mois de travail. https://www.borderforensics.org/fr/enquetes/blessing

      C’est dans ces conditions qu’une demande de réouverture de l’information judiciaire a été introduite par les parties civiles le 13 juin 2022.

      Malgré les éléments nouvellement communiqués, qui n’avaient, de fait, jamais été étudiés par la justice, et en dépit de la gravité des accusations portées, le Procureur Général n’en a tiré aucune conséquence, se contentant de rejeter la demande de réouverture formulée en adoptant une motivation expéditive.

      Compte tenu de cette décision contestable, la famille de Blessing MATTHEW et l’association Tous Migrants ont fait le choix de se tourner vers la CEDH en 2022, en dernier recours.

      Par une décision communiquée ce jour, plus d’un an après la requête, la Cour Européenne des Droits de l’Homme a constaté que la demande de réouverture de l’information pour charges nouvelles formulée était bien étayée par un élément nouveau, à savoir le témoignage de M. H.S. livré postérieurement à la clôture de l’instruction, mais que, selon elle, rien ne pouvait permettre de remettre en cause l’appréciation de cet élément par le procureur général.

      La CEDH refuse par conséquent d’invalider l’enquête menée par les autorités françaises.

      Cette décision n’est absolument pas à la hauteur des enjeux, des éléments produits et du travail fourni par les parties civiles pour palier la défaillance de la justice française, s’agissant d’une affaire qui, doit-on seulement le rappeler, concerne le décès d’une personne exilée et ce consécutivement à l’intervention des gendarmes.

      Les soussignés ne vont pas cesser le combat, ni dans cette affaire ni dans d’autres. Ils entendent au contraire tirer tous les enseignements de cette décision de la CEDH, intervenue à l’ issue de l’épuisement des voies de recours internes, afin que, par la suite, les autorités n’aient plus l’occasion de trouver des échappatoires pour ne pas rechercher toutes les responsabilités.

      L’impunité qui persiste pour la mort de Blessing MATIHEW perpétue après sa mort le traitement discriminatoire et inhumain dont elle a été l’objet durant sa vie. L’absence de réponse aux demandes de vérité et de justice de la famille de Blessing de la part des institutions judiciaires françaises et maintenant la CEDH rendent le travail de la société civile encore plus essentiel.

      Nous nous engageons à continuer à chercher à éclairer les circonstances qui ont mené à la mort de Blessing et les responsabilités impliquées, et à les faire connaître publiquement.

      Nous nous engageons à continuer à soutenir d’autres victimes de la violence des frontières Alpines, dont la liste continuera de s’allonger tant que l’impunité pour les morts et les violations est perpétuée, et que les politiques qui y mènent structurellement sont maintenues.

      https://tousmigrants.weebly.com/communiqueacutes-de-presse.html

    • Noyade de Blessing Matthew : la Cour européenne des droits de l’homme déclare la « requête irrecevable »

      En octobre 2022, la sœur de Blessing Matthew et Tous migrants avaient déposé une requête contre la France devant la Cour européenne des droits de l’homme. La jeune migrante, originaire du Nigeria, était décédée en mai 2018, en tombant dans la Durance.

      (#paywall)
      https://www.ledauphine.com/societe/2024/01/18/noyade-de-blessing-matthew-la-cour-europeenne-des-droits-de-l-homme-decl

  • Balkans : en Slovénie, les arrivées de migrants ont doublé en un an - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/54515/balkans--en-slovenie-les-arrivees-de-migrants-ont-double-en-un-an

    Actualités : Balkans : en Slovénie, les arrivées de migrants ont doublé en un an
    Par La rédaction Publié le : 15/01/2024
    En 2023, plus de 60 000 exilés ont été détectés dans ce petit pays alpin, contre environ 30 000 l’année précédente. La plupart de ces personnes sont originaires d’Afghanistan, du Maroc et du Pakistan.
    Le nombre de migrants interpellés a quasiment doublé en 2023 sur un an en Slovénie. Selon les statistiques de la police consultées par l’AFP, 60 587 personnes sont arrivées l’an dernier dans le petit pays alpin, contre 32 024 en 2022, soit une hausse de 89%.
    La plupart sont arrivées en Slovénie via la Croatie voisine, entrée récemment dans l’espace Schengen. Environ 30% étaient originaires d’Afghanistan, 15% du Maroc et 9% du Pakistan. Le nombre de citoyens russes a également doublé, passant de 1 816 à 3 675.
    Presque toutes ces personnes ont émis le souhait de déposer une demande d’asile en Slovénie, avant de poursuivre leur chemin vers l’ouest et le nord de l’Europe le plus souvent. L’Allemagne, souvent le pays d’installation des migrants syriens, turcs et afghans notamment, a de son côté vu grimper les demandes d’asile de plus de moitié l’an passé.
    En 2023, les entrées d’exilés en Slovénie, pays de la route migratoire des Balkans, se sont multipliées. En réaction, les autorités ont introduit le 21 octobre des contrôles à ses frontières, dans le sillage d’autres pays de la Hongrie et de la Croatie. Dix jours plus tard, le 2 novembre, le ministre de l’Intérieur Davor Božinović a convenu avec ses homologues italien et croate de patrouilles conjointes.Dans ce contexte, la police slovène a détecté au cours des deux derniers mois une augmentation des tentatives de passage vers l’Autriche par des cols montagneux peu habités, selon l’agence de presse slovène STA. Au mois de juin pourtant, la Slovénie avait pris une décision à l’encontre de ses récentes décisions : la destruction de sa clôture anti-migrants, le long de la frontière avec la Croatie. Selon le chef du gouvernement slovène Robert Golob, « la clôture n’a pas rempli son but déclaré, qui était de décourager ceux qui voudraient franchir la frontière », avait-il dit devant les journalistes. Le mur a donc être démantelé « pour des raisons humanitaires et parce qu’il a échoué à atteindre son objectif ».
    Une « hostilité » même dans la mort
    Cette barrière, érigée en 2015 lorsque plus d’un demi-million d’exilés avaient transité par le pays, forçaient, d’après les associations, les migrants à emprunter d’autres chemins en pleine nature, plus dangereux. En décembre dernier 2021, une fillette de 10 ans est morte dans la Dragonja, la rivière qui sépare la Croatie de la Slovénie. Elle était sur les épaules de sa mère, qui tentait de gagner l’autre rive, lorsqu’elle a été happée par le courant. Le même mois, le corps d’un Bangladais avait déjà été retrouvé au même endroit. Le 1er janvier 2020, un autre cadavre avait été retrouvé près de là, à Socerb, à la frontière slovène : celui d’un Algérien de 29 ans, décédé après une chute dans un précipice.
    Il n’existe aucun chiffre officiel du nombre de victimes sur la route des Balkans. D’après une enquête de Lighthouse Reports, en collaboration avec d’autres médias et des universités britanniques, « l’hostilité à laquelle les gens sont confrontés aux frontières de l’Europe de leur vivant perdure également lorsqu’ils sont morts. Les autorités nationales ne font que peu ou pas d’efforts pour tenter d’identifier les migrants décédés ou pour informer leurs familles ».
    « Les cadavres non identifiés finissent entassés dans des morgues ou enterrés sans laisser de traces », d’après l’enquête. « Certains corps ne sont jamais retrouvés ».

    #Covid-19#migrant#migration#slovenie#croatie#balkan#routemigratoire#mortalite#frontiere#cadavre#sante

  • Panorama des #mesures régissant l’entrée et le séjour des étrangers en #France (1972-2023)

    A l’heure de l’adoption de la révoltante « #loi_Darmanin », le #collectif_Ruptures publie une #recension de toutes les #lois régissant l’entrée et le séjour des étrangers en France. Loi après loi, #décret après décret, dispositif après #dispositif, année après année, ce panorama de la « #gestion_des_flux_migratoires » sur la période 1972-2023 vient compléter la brochure Lois répressives et autres bagatelles (France, 1974-2022) que nous avons édité au printemps.

    Ce tome 2 de Bagatelles est intégralement téléchargeable ici, et son introduction est lisible ci-dessous :
    https://collectifruptures.files.wordpress.com/2024/01/brochure_bagatelles2.pdf?force_download=true

    –---

    Introduction

    Le 27 décembre 2023, Didier Leschi, directeur général de l’Office français de l’immigration et de l’intégration (OFII) s’exprime dans Le monde sur la dernière loi votée huit jours plus tôt.
    Selon lui, « les mesures adoptées en France demeurent plus ouvertes que dans les principaux pays de l’Union européenne », et « la prise en charge de la santé des sans-papiers bien meilleure comparée à l’Allemagne, l’Autriche, la Suède, le Danemark, aux Pays-Bas ou à l’Espagne ».
    On veut bien le croire. Et le remercier de nous confirmer que la montée de la gestion comptable de l’humain et de son traitement comme un simple rouage qu’on peut utiliser ou jeter selon les besoins économiques n’est pas propre à la France. En effet tous les pays cités par le directeur de l’OFII sont gérés depuis des décennies par de « bons pères de familles », tout à fait démocratiques, libéraux et propres sur eux. Remercions donc Didier Leschi pour cet éclaircissement.
    Mais pour mieux comprendre quelles sont ces « mesures », nous proposons ici de prendre un peu de recul historique, à l’échelle des cinquante dernières années.

    C’est pourquoi cette brochure recense l’ensemble des lois migratoires régissant l’entrée et le séjour des étrangers en France mises en place de 1972 à 2023.
    Elle constitue le deuxième volet d’un travail destiné à comprendre la montée d’une société de #surveillance_généralisée, mais sans les oripeaux du #fascisme historique, de façon libérale-autoritaire (1). La première partie, publiée en mai 2023, était consacrée aux lois, #arrêtés et décrets régissants la créations de fichiers informatiques et le travail de la police. Une troisième partie suivra, qui sera une recension de l’inflation technologique qui s’articule avec l’inflation juridique.
    Si le sort des Français et des étrangers est intimement lié, ils subissent un traitement différencié de la part de l’Etat. Nous avons décidé de consacrer une partie spécifique au traitement des étrangers en France pour une raison très pragmatique : la quantité très importante de lois visant spécifiquement l’entrée et le séjour des étrangers en France (d’où l’épaisseur de cette brochure : 128 pages !).

    Pourquoi avons-nous mené un tel travail ? Rappelez-vous l’été 2021 et la mise en place du pass sanitaire. Cette mesure, qui a motivé la création de notre collectif, nous est apparue comme la « goutte de trop ». Il nous a alors paru logique de nous livrer au travail de recension de toutes les gouttes précédentes, afin d’offrir un panorama de l’évolution de la législation et de mettre en perspective historique les mesures sanitaires de 2020-2021. En effet, toute personne qui s’intéresse à la surveillance, au contrôle, à la répression et la limitation de circulation des individus ne peut que constater qu’il est difficile – quasi-impossible – de suivre l’inflation de l’arsenal juridique qui régit les pratiques policières, les fichiers de collecte de données et les lois sur le séjour des étrangers. Dans nos sociétés prétendues « libérales » et « démocratiques », en matière de restriction de libertés et de répression, une loi s’empile sur la précédente, ce qui est annoncé comme un « simple projet » devient souvent rapidement une proposition de loi, puis une réalité juridique… et en route pour la suivante ! Cette brochure se veut donc une mise en perspective historique pour mieux comprendre les lois du présent.
    Précisons que nous ne proposons pas ici d’analyse, ou très peu, mais une simple #chronologie qui permet à chacun et chacune d’avoir accès à ces informations dispersées (2).

    Ruptures
    décembre 2023

    (1) Lire Grégoire Chamayou, La société ingouvernable, La fabrique, 2018.
    (2) Nos analyses sont quant à elles développées dans le journal La nouvelle vague, que nous publions régulièrement depuis décembre 2021. Voir en particulier « Réflexions sur l’autoritarisme et l’extrême-droite » (dans La nouvelle vague n°4).

    https://collectifruptures.wordpress.com/2024/01/01/loi-darmanin-et-avant
    #histoire #lois #dispositions #migrations #asile #réfugiés #séjour #frontières #ressources_pédagogiques #répression #liste

    via @karine4

  • Palestinians desperate to flee Gaza pay thousands in bribes to ‘brokers’

    Fixers with alleged links to Egyptian intelligence are making a fortune in ‘fees’ from people hoping to exit through the Rafah crossing

    Palestinians desperate to leave Gaza are paying bribes to brokers of up to $10,000 (£7,850) to help them exit the territory through Egypt, according to a Guardian investigation.

    Very few Palestinians have been able to leave Gaza through the #Rafah border crossing but those trying to get their names on the list of people permitted to exit daily say they are being asked to pay large “coordination fees” by a network of brokers and couriers with alleged links to the Egyptian intelligence services.

    One Palestinian man in the US said he paid $9,000 three weeks ago to get his wife and children on the list. The family have been sheltering in schools since the 7 October attacks. On the day of travel, he was told his children’s names were not listed and he would have to pay an extra $3,000. He said the brokers were “trying to trade in the blood of Gazans”.

    “It’s very frustrating and saddening,” he said. “They are trying to exploit people who are suffering, who are trying to get out of the hell in Gaza.” His family have yet to leave.

    According to the UN, 85% of Gaza’s population is now displaced. Most people are packed into the southern city of Rafah as Israeli air and ground assaults push them out of central and northern parts of the territory.

    Egypt, a key regional player in negotiations on Gaza, has long resisted opening the Rafah crossing, fearing that millions of people would flee into the neighbouring Sinai peninsula. The influx, Cairo claimed, could pose a security threat. Egypt’s president, Abdel Fattah al-Sisi, also said a mass influx of refugees from Gaza would set a precedent for displacing Palestinians from the West Bank into Jordan.

    A network of brokers, based in Cairo, helping Palestinians leave Gaza has operated around the Rafah border for years. But prices have surged since the start of the war, from $500 for each person.

    The Guardian has spoken to a number of people who have been told they would have to pay between $5,000 and $10,000 each to leave the strip, with some launching crowdfunding campaigns to raise the money. Others were told they could leave sooner if they paid more.

    Facebook pages that offer news from the Rafah crossing are filled with posts from Palestinians asking for help to get on the list.

    Everyone interviewed said they had been put in touch with brokers through contacts in Gaza. Payments are made in cash, sometimes through middlemen based in Europe and the US.

    Belal, a US citizen from Gaza, was told he would need to raise $85,000 to get 11 family members out of the territory, including five children under three.

    “I’m only considering this option because the US government is not responding to me. If I had any hope about my father’s case, I wouldn’t be,” said Belal, who has spent the past three months appealing to the US state department taskforce to put his diabetic father on the exit list.

    “I’m in this situation because the US doesn’t want to help its own citizens,” he said.

    Belal’s 70-year-old father was briefly detained in December by Israeli forces. He was one of a group of men who were stripped to their underwear, had their hands zip-tied and were taken to a secret location.

    Even before his father’s detention, Belal had spent weeks seeking help, spending hours on the phone to Washington or the US embassy in Jerusalem and emailing reams of information to the state department.

    US state department policy initially specified that it would only assist immediate family of US citizens to exit Gaza but it subsequently said it would expand its assistance to include parents of US citizens and siblings.

    “Since mid-December I’ve received no email from them, and I followed up six times – they can only communicate by email,” he said. “By contrast, I see other people who pay money to leave, and they’re able to exit within a day or two.”

    The state department said it was unable to comment on individual cases, with a spokesperson adding it was unaware of the broker system that some are using to pay to exit Gaza. “We have assisted over 1,300 US citizens, US lawful permanent residents and family members in departing Gaza,” the spokesperson added.

    Mohannad Sabry, an expert on the Sinai peninsula and author of Sinai: Egypt’s Linchpin, Gaza’s Lifeline, Israel’s Nightmare, said the brokers “target the most vulnerable people”.

    “If a family has a member who is injured or sick so they can’t wait, those are the perfect victims; they can squeeze any amount and the family has to come up with the money. It’s a complete racket.”

    Sabry described the Egyptian authorities’ public justifications for not opening the borders as “cover for the corruption happening on the ground”. The head of Egypt’s State Information Service declined to comment when contacted by the Guardian.

    Sabry added: “This is not low-level corruption – this is state-enabled corruption.”

    With very few ways to get out of Gaza, especially for those without citizenship of another country, Palestinians in the territory and their relatives abroad said they had little choice but to put their trust in the broker network.

    One Palestinian living in the UK, who has lost members of their family in Israeli airstrikes, said: “People are making money off the misery of others. They’re desperate to get out to save their lives and instead of helping they’re trying to make money. If there’s a way to get people out, then why not just help?”

    The Palestinian said they were told it would cost $4,000 to help each of the family’s nine young male members to leave in early December. They are now being quoted between $6,000 and $10,000.

    The family turned to the brokers after failing to get help from the British government or humanitarian organisations.

    “I’m not sure why no schemes have been introduced, nothing to evacuate people. I don’t even hear humanitarians talk about this any more,” the Palestinian said.

    “It’s like they’re saying: ‘We’re not going to protect you or give you safety, we’re just going to give you some food and water while you are bombed.’”

    The UK Foreign Office said it had evacuated 300 British nationals and their dependants – defined as children and parents – who were its priority.

    Not all people are willing to pay, however, even if they have the resources. “Every moment threatens their lives and my life,” said one Palestinian in Gaza trying to get out with their family. But they added: “I won’t pay a penny in bribes.”

    https://www.theguardian.com/global-development/2024/jan/08/palestinians-flee-gaza-rafah-egypt-border-bribes-to-brokers

    #frontières #Gaza #Egypte #migrations #fuite #exode #Israël #réfugiés

    • Bande de Gaza : 100 jours de désespoir au cœur d’une guerre trop longue

      À Rafah, aux portes de l’Égypte, un million de personnes campent jusque sur la #plage. Youssef, Asma et tant d’autres sont prisonniers de la bande de Gaza, où, d’#évacuation en évacuation, ils survivent avec leurs familles, des enfants aux personnes âgées. Témoignages.

      « Je suis encore en vie, et tu sais quoi ? Je vais aller habiter sous une tente à Rafah. » Après plusieurs jours sans connexion Internet, Youssef* envoie ce premier message vocal sur Facebook. Une note qu’il termine par un ricanement cynique et nerveux à la fois. C’est donc une tente collée à la frontière égyptienne qui sera le dernier refuge pour Youssef, sa femme enceinte de cinq mois et leurs deux enfants.

      Cent jours après le début du conflit entre Israël et la bande de Gaza, 23 968 personnes, principalement des enfants et des femmes, ont été tuées dans des frappes aériennes, selon le ministère de la santé du Hamas. Des milliers d’autres sont encore portées disparues sous les décombres. Les personnes blessées, pour la plupart privées de soins, se comptent aussi par milliers. Plus de la moitié des hôpitaux de l’enclave palestinienne ne fonctionnent plus, selon l’ONU. Au tableau de ce désastre humanitaire, il faut ajouter les 136 otages israéliens dont on ignore le sort exact.

      Pris au piège du siège total imposé par Israël et de la fermeture du point de passage vers l’Égypte, Youssef et sa famille, dont ce n’est pas le premier déplacement, ne pourront aller plus loin. Déjà, en octobre, ils avaient rejoint le camp de réfugié·es de Nuseirat, dans le centre de la bande de Gaza. Une frappe aérienne avait anéanti en quelques secondes l’appartement où elle vivait à Gaza City. Youssef avait juste eu le temps de récupérer quelques affaires et de sauver sa voiture, dans laquelle il avait fait monter tout le monde.

      Direction donc Nuseirat, une des #safe_places (« #lieux_sûrs ») établies par l’armée israélienne. Mais début janvier, ce camp de réfugié·es est à son tour pris pour cible par cette même armée. Elle demande aux milliers de personnes installées là de quitter au plus vite leurs habitations, assurant que des combattants du Hamas s’y cachent.

      « Ils ont jeté des tracts sur le quartier où on était en disant qu’on devait évacuer, alors on est tous partis. » Mais cette fois, plus de carburant dans la voiture. La fuite de Youssef et de sa famille se fait dans une petite carriole. « Je ne pouvais plus acheter de fuel. Avant, c’était 7 shekels [1,70 euros] le litre, maintenant c’est 120 shekels [30 euros] », explique le père de famille gazaoui.

      Sur Facebook, les messages audio se succèdent, noyés dans un brouhaha immense en arrière-fond. Les cris, les pleurs d’enfants se mêlent aux voix de femmes et d’hommes. « Pour le moment, on est dans une école de l’ONU à Rafah. On partage une salle de classe avec 25 autres personnes mais je pense qu’une tente, ça sera plus sain pour ma femme enceinte et les enfants », poursuit Youssef.

      Tout au sud de l’enclave palestinienne, des centaines de milliers de familles s’entassent désormais derrière les barbelés qui marquent la frontière avec l’Égypte. La bande de Gaza était avant la guerre une prison à ciel ouvert. Rafah en est désormais la dernière cellule.

      Un million de personnes arrivées à Rafah

      « Les gens sont partout ! Il y a trop de monde dans la ville. Les déplacés vivent dans les mosquées, sous des tentes, voire dans la rue. Mais il pleut, et il fait froid », raconte Asma dans un français parfait. La Palestinienne, enseignante de 42 ans, s’était promis de ne pas quitter son appartement de Khan Younès, mais le 21 décembre, elle a dû se résoudre à tout abandonner. « Les soldats israéliens nous ont demandé d’évacuer en lançant des tracts. »

      Asma est donc partie avec son père, âgé de 90 ans, et sa mère, 77 ans. « On a mis presque une heure pour leur faire descendre les trois étages de notre immeuble. On a juste pu prendre avec nous des choses essentielles : de la farine, du sel, des boîtes de sardines, des couvertures. Je ne voulais pas partir, j’ai tellement pleuré. »

      Selon le maire de Rafah, un million de personnes sont arrivées dans sa ville depuis le 7 octobre, et l’afflux se poursuit. Rafah est désormais un immense camp. Les tentes s’alignent partout, même sur le bord de la mer. Sur les images transmises par des journalistes palestiniens sur place, partout des enfants. Des petites filles et des petits garçons qui jouent dans la boue et au milieu des déchets.

      La ville n’est pas à l’abri des frappes aériennes israéliennes. Ces dernières semaines, des familles entières ont été décimées dans le bombardement de leur immeuble. La guerre du ciel n’a jamais épargné personne dans la bande de Gaza. Le 12 janvier, devant le Conseil de sécurité de l’ONU, le secrétaire général adjoint aux affaires humanitaires, Martin Griffiths, l’a répété : « Il n’y a pas d’endroit sûr à Gaza, où une vie humaine digne est quasi impossible. »

      Le 13 janvier, après une semaine de silence, Asma reprend contact et envoie une série de messages audio sur WhatsApp. Sa voix est fatiguée, son souffle coupé. Elle suffoque presque, comme étouffée par l’angoisse. « Les nouvelles sont mauvaises, dit-elle. L’armée israélienne est proche de ma maison. J’ai peur. » Asma marque une pause, puis reprend. « J’ai perdu l’école où je travaillais, je ne veux pas qu’on me prenne aussi ma maison. Je ne peux pas tout perdre. Cet appartement, c’était mon lieu de paix. C’est trop, je n’ai plus d’espoir. »

      Dans un dernier message audio, la Palestinienne se souvient que ce mois de janvier aurait dû se dérouler autrement. Loin de la violence et de la terreur. « On devait venir en France avec d’autres professeurs gazaouis. Cet été, je voulais aussi aller en Égypte pour y passer quelques jours. J’avais un amoureux et maintenant... je ne sais plus où j’en suis. Lui aussi n’a plus de maison. Tout cela s’est fini. Il n’y a aucun avenir pour moi. »

      L’Égypte, juste derrière les barbelés

      Début janvier, plusieurs responsables israéliens ont évoqué un possible déplacement de la population de la bande de Gaza vers d’autres pays. Une option portée par Bezalel Smotrich et Itamar Ben-Gvir, deux ministres ultranationalistes du gouvernement Nétanyahou. Parmi les pays évoqués, l’Égypte mais aussi le Congo. Un plan rejeté en bloc par la communauté internationale.

      Au cœur de l’enclave, de nombreux Palestiniens cherchent à partir à tout prix. Depuis le début de la guerre, Youssef le répète quasiment dans chaque discussion : « Trop c’est trop. » Il espère pouvoir rejoindre l’Europe et offrir une vie stable à ses enfants. Mais comment sortir de ce siège, de ce piège qui se referme chaque jour un peu plus sur lui ?

      Il faut imaginer que pour les familles qui sont à Rafah, l’Égypte est toute proche. Leur sécurité est à portée de vue, juste derrière des barbelés. Mais le poste-frontière entre l’enclave palestinienne et le territoire égyptien est ouvert seulement aux camions humanitaires autorisés à entrer dans la bande de Gaza. Depuis le début du conflit, Le Caire s’oppose fermement à tout déplacement massif de population vers le désert du Sinaï.

      En temps normal, un Palestinien peut traverser ce point de passage après avoir payé 450 euros. Désormais, en faisant appel à des réseaux de trafic d’êtres humains, il faut débourser 4 000 à 5 000 dollars par personne, selon une source palestinienne locale. C’est la seule solution pour être inscrit sur la liste des personnes qui ont un permis pour sortir.

      « Je ne veux pas quitter la bande de Gaza comme cela et aller dans n’importe quel pays. Je veux que l’on me donne une autre nationalité, un travail. Le droit d’avoir une autre vie », explique Asma. Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, des centaines de milliers de Palestiniens et Palestiniennes ont été contraint·es à l’exil au Liban, en Jordanie ou en Syrie, où pour la majorité elles et ils vivent encore dans des conditions très précaires.

      Sa terre, Rami Abou Jamus s’y accroche avec conviction. « On se retrouve sur la plage à Gaza. » C’est l’une de ses phrases préférées. Chaque jour, le journaliste palestinien partage son quotidien à Rafah. C’est là qu’il survit avec sa femme et son fils, âgé de deux ans et demi. Il s’appelle Walid. Son père le filme régulièrement. À chaque nouvelle vidéo, les traits du petit garçon se creusent un peu plus. Son visage d’enfant porte l’empreinte d’une guerre qui dure depuis cent jours. Une guerre déjà trop longue.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/150124/bande-de-gaza-100-jours-de-desespoir-au-coeur-d-une-guerre-trop-longue

      #safe_place

  • 21.09.2023 : #Pratiques_policières & préfectorales illégales en réponse à la demande de places d’hébergement d’urgence.

    La semaine dernière, la préfecture des #Hautes-Alpes a annoncé l’arrivée, dès le jeudi 21 septembre, de 84 effectifs supplémentaires dédiés au #renforcement des contrôles à la frontière franco-italienne. Depuis, des #interpellations se multiplient autour de la frontière, jusque dans la ville de #Briançon, et même au-delà, où la #police traque les personnes exilées pour les chasser de l’#espace_public. Or, si la préfecture se targue de respecter la loi, il n’en est rien et ces pratiques policières et préfectorales sont illégales et dangereuses.

    Les pratiques en matière de contrôles des personnes exilées dans la ville de Briançon ont changé depuis jeudi dernier : chaque jour, plus d’une dizaine de personnes ont été retenues au poste de police, parfois une nuit entière, suite à des contrôles d’identité dans la ville même, fait plutôt rare jusqu’ici. Les exilé.e.s sont poursuivi.e.s au-delà même de Briançon, dans le train, les bus, et jusqu’à Paris, où vendredi matin (29 septembre) une armada de policiers les attendaient à la descente du train de nuit à la gare d’Austerlitz. La présence policière est également renforcée à Marseille, Gap ou Grenoble.

    Ces contrôles ciblent les personnes racisées, et sont suivies par des retenues au commissariat pouvant aller jusqu’à 24 heures, qui se soldent par des #mesures_d’éloignement : des #OQTF (obligation de quitter le territoire français) sans délai, parfois suivies par des placements en #CRA (centre de rétention) dans des villes éloignées, comme Toulouse.

    Dans la ville frontalière de Briançon, ces vagues d’interpellations dissuadent les personnes exilées de circuler, elles ne sont donc à l’abri de ces contrôles que dans le seul lieu d’accueil actuellement ouvert, un bâtiment occupé en autogestion. La société publique locale Eau Service de la Haute Durance, dont le président n’est autre que le maire de Briançon, M. MURGIA, a coupé l’approvisionnement en eau courante de ce bâtiment le 17 août 2023. Aggravant la précarité des personnes accueillies, cette décision a de fortes répercussions pour la santé et le respect des droits fondamentaux des personnes. (Le lieu accueillant l’association Refuges solidaires a fermé fin août, ne pouvant assurer seul l’hébergement d’urgence à Briançon.)

    Des ordres ont été donné par le préfet pour augmenter la #présence_policière dans la ville de Briançon. L’augmentation des #contrôles_d’identité viserait à prévenir la recrudescence des « #incivilités » liées au contexte de pression migratoire. Les forces de l’ordre répètent que les contrôles qu’ils opèrent dans la ville de Briançon sont des contrôles dits « Schengen », possibles dans une bande de 20 km après la frontière, visant à rechercher et prévenir la #criminalité_transfrontalière.

    Or, le fait de franchir une frontière irrégulièrement, ou de se maintenir sur le territoire français irrégulièrement ne sont pas des infractions permettant de justifier un contrôle d’identité. En aucun cas, la police ne peut déduire que la personne est étrangère à cause d’un critère inhérent à la personne contrôlée (couleur de peau, d’yeux, de cheveux, vêtements, etc..). Ces contrôles sont restreints dans le temps : pas plus de douze heures consécutives. Or, ils sont permanents dans la zone frontalière briançonnaise. Dans les faits, ce sont bien des #contrôles_au_faciès qui sont menés, car ce sont bien les personnes racisées qui sont la cible de ces contrôles, qui ne semblent justifiés par aucun motif précis. A moins que le simple fait de dormir dans la rue soit considéré cyniquement comme une infraction par l’État, ou une « incivilité » alors même que celui-ci se place dans l’illégalité en n’ouvrant pas de places d’hébergement d’urgence dans le département ? Ces contrôles au faciès font plutôt penser à une réelle volonté du préfet de supprimer la présence des personnes exilées de l’espace public.

    Par ailleurs, la CJUE (Cour de justice de l’Union européenne) a bien rappelé dans sa décision du 21 septembre que la France met en place des pratiques illégales en termes de contrôles et d’enfermement aux frontières intérieures, et qu’elle est tenue de se conformer aux textes européens, ce qu’elle ne fait pas.

    Ces pratiques répondent à la même logique que celle dénoncée par nos associations depuis maintenant plusieurs années à la frontière : une volonté politique d’empêcher tout prix les personnes exilées de circuler, en faisant fi des textes de loi qui encadrent à la fois les contrôles d’identité et les procédures de non-admissions sur le territoire. Aussi, la réponse de l’Etat est une fois de plus de faire croire qu’il est possible « d’étanchéifier » la frontière, en déployant pour cela des moyens dispendieux.

    Or, Médecins du Monde et Tous migrants ont mené une enquête sur une semaine à la fin du mois d’août, et les résultats de nos observations confirment ce que nous documentons depuis plusieurs années : ce dispositif de contrôle de la frontière met en danger les personnes. Il n’empêche absolument pas les personnes exilées d’entrer en France, mais accroît par contre leur vulnérabilité en rendant le passage plus difficile, plus dangereux.

    Les récits des personnes qui traversent la frontière sont édifiants : contrôles par surprise, courses-poursuites par les forces de l’ordre, qui provoquent des chutes, avec des fractures, des entorses ou encore des pertes de connaissance. Marchant en moyenne 10 heures depuis l’Italie pour atteindre Briançon, les personnes font état de leur extrême #fatigue, de #déshydratation, et du #risque_de_se_perdre en #montagne. Certain.es ont passé plus de 48 heures en montagne, parfois sans boire ni manger. Cette énième traversée de frontières avec des tentatives de passage souvent multiples s’ajoute à un parcours migratoire extrêmement éprouvant et crée de plus des #reviviscences_traumatiques susceptibles ensuite de se traduire par des altérations de la #santé_mentale. Les #récits recueillis ces dernières semaines et les observations de Médecins du Monde lors des permanences médicales confirment ces pratiques.

    La plupart des personnes qui traversent la frontière sont originaires des pays d’Afrique sub-saharienne, et plus récemment du Soudan, et relèvent du droit d’asile ou de la protection subsidiaire. Les refouler en Italie de manière systématique et collective ignore le droit d’asile européen. De même, prendre à leur encontre des mesures d’éloignement (OQTF) vers leurs pays d’origine, où elles risquent la mort ou la torture, est contraire au principe de non-refoulement (article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés).

    https://www.medecinsdumonde.org/actualite/pratiques-policieres-prefectorales-illegales-en-reponse-a-la-demand

    #asile #migrations #réfugiés #frontières #France #Italie #frontière_sud-alpine #Alpes #contrôles_frontaliers #squat #refoulements #push-backs

  • Un mémoriel pour les mort·es aux frontières (région de l’Evros, Grèce) détruit

    Thread de Lena K. sur X :

    In August 2011, activists of the Welcome to Europe network & solidarians built a memorial for people who died while crossing the #Evros border: a water fountain at the village of Provatonas. The fountain now lies in ruin - visual proof of local hostility to border crossers.

    I found out about the fountain online, by chance. Like many aspects of the past of the local border regime and resistance to it, it’s been forgotten. I didn’t have time to investigate when, how and why it was destroyed (next time!) but one source suggests it was by locals:

    “Here we had built a fountain, as Greek tradition would have it, for travellers. To drink water, wash and rest before continuing their journey. Today this tap has been destroyed, they don’t even want the refugees to pass through here. On the one hand, I understand them

    A lot of people crossed then and never stopped crossing. People are tired. On the other hand, however, with what various people say and do, they have made people lose its humanity. I hope this broken fountain reminds us that we were human."

    https://www.avgi.gr/politiki/344653_ebros-thraysmata-pliroforisis

    The names of people who died crossing the #Evros were inscribed on the fountain. Its destruction erased them, rendering the dead nameless, dehumanising border crossers once again.

    https://athens.indymedia.org/post/1329456

    https://twitter.com/lk2015r/status/1692824778153787769

    #monument #mémoriel #mémoire #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #Grèce #frontières #destruction #Welcome_to_Europe #Provatonas

    • Μια βρύση-μνημείο των χαμένων μεταναστών-ριών στον Προβατώνα/Τυχερό Έβρου

      Όνομα και Αξιοπρέπεια για τους νεκρούς μετανάστες των συνόρων Μια βρύση-μνημείο των χαμένων μεταναστών-ριών στον Προβατώνα Έβρου

      Την Τρίτη 30 Αυγούστου με πρωτοβουλία του πανευρωπαϊκού δικτύου Welcome to Europe και πολλών αλληλέγγυων ανθρώπων, δημιουργήσαμε ένα μνημείο για τους χαμένους μετανάστες στα σύνορα του Έβρου. Για την Τζέιν και τον Μπασίρ που πνίγηκαν τον περασμένο χρόνο στο ποτάμι, αλλά και για τους εκατοντάδες άλλους, ανώνυμους νεκρούς και αγνοούμενους των συνόρων και των ναρκοπεδίων. Θελήσαμε να δώσουμε πίσω το Όνομα και την Αξιοπρέπεια, το σεβασμό που πρέπει σε κάθε νεκρό. Θελήσαμε, σε πείσμα των καιρών, να εκφράσουμε την Φιλοξενία και την αγωνία μας για τις διαστάσεις του εγκλήματος που λαμβάνει χώρα στα ευρωπαϊκά σύνορα. Θελήσαμε να πούμε όχι σε μια Ευρώπη που οχυρώνεται πίσω από το φόβο και χτίζει τείχη, σε μια Ευρώπη που μετατρέπει τους μετανάστες και μετανάστριες σε αποδιοπομπαίους τράγους της κρίσης. Να πούμε όχι σε μια Ευρώπη που μετατρέπει τους χιλιάδες νεκρούς των συνόρων σε αριθμούς και στατιστικές και που εξακολουθεί να τους μεταχειρίζεται ως ανεπιθύμητους ακόμη και μετά θάνατον. Όπως ανακαλύψαμε το 2010, υπάρχει ένας χώρος ταφής στο Σιδηρώ, που σε καμιά περίπτωση δεν μπορεί να χαρακτηριστεί νεκροταφείο, που προσβάλει τους νεκρούς και τους συγγενείς τους που έρχονται να τους αναζητήσουν. Από το 1995 μέχρι και το 2009, 104 άνθρωποι έχασαν τη ζωή τους από νάρκες και 187 ακρωτηριάστηκαν. Μόνο το 2011 έχουν σκοτωθεί στα σύνορα του Έβρου 70 άνθρωποι, 47 από τους οποίους δεν έχουν ταυτοποιηθεί. Λίγες ημέρες πριν, ένας ακόμη μετανάστης έπεφτε νεκρός όταν περιπολία της συνοριοφυλακής και της Frontex άνοιξε πυρ εναντίον ομάδας που διέσχιζε το ποτάμι. Πρόκειται για ένα έγκλημα που μένει ατιμώρητο, για μια βαρβαρότητα που ωστόσο δικαιολογούν και υποθάλπουν κυβερνήσεις και αξιωματούχοι. Στις 30 Αυγούστου βρεθήκαμε μαζί με συγγενείς και αγαπημένους δύο ανθρώπων που έχασαν τη ζωή τους στην περιοχή του Έβρου, με κατοίκους της περιοχής, με αντιρατσιστές-ριες που ήρθαν έπειτα από το Νο Border camp της Βουλγαρίας. Φτιάξαμε μια βρύση και τοποθετήσαμε μια επιγραφή με τα ονόματα των νεκρών, ένα μνημείο για όλους και όλες που έχουν χαθεί άδικα στα σύνορα. Η βρύση βρίσκεται στον Προβατώνα, στο δρόμο για το Τυχερό. Δίκτυο Welcome to Europe

      https://athens.indymedia.org/post/1329456

  • À la frontière italo-slovène, les migrants oubliés de la route balkanique

    L’extrême nord-est de l’Italie est la porte d’entrée dans le pays des migrants qui ont traversé l’Europe par la route des Balkans. Des centaines d’entre eux se retrouvent à survivre dans la rue. Les associations dénoncent un abandon de l’État.

    La Piazza della Libertà s’illumine des halos jaunes des réverbères. À mesure que les heures s’égrènent dans la nuit, de petits groupes d’hommes s’installent près des bancs verts. Ils sont presque tous afghans ou pakistanais, emmitouflés avec les moyens du bord, contraints de vivre à la rue depuis quelques jours pour les plus chanceux, quelques mois pour les autres. Juste en face, c’est la gare et ses promesses de poursuivre la route à bord d’un wagon chaud plutôt qu’à pied.

    S’y croisent ceux qui sont montés à bord à Ljubljana ou à Zagreb, les capitales slovène et croate, direction Trieste, et ceux qui poursuivent leur voyage vers l’Europe du Nord, avec Milan ou Venise comme étapes suivantes.

    Ce soir-là, une quinzaine d’Afghans arrivent tout juste de la frontière slovène, à moins de dix kilomètres du centre-ville de Trieste. Ils sont venus à pied. L’un d’eux, visiblement heureux d’être arrivé, demande à son ami de le prendre en photo, pouces vers le haut, dans l’air gelé des températures à peine positives. Demain ou après-demain, promet-il, il continuera sa route. En attendant, les autres lui indiquent le Silos, un ensemble de grands entrepôts de l’époque austro-hongroise s’étendant derrière la gare et devenus le refuge insalubre et précaire d’environ quatre cents migrants.

    Aziz Akhman est l’un d’eux. Ce Pakistanais de 32 ans a fui les attentats aux voitures piégées, l’insécurité et les rackets qui gangrènent sa région d’origine, à la frontière avec l’Afghanistan. Quand son magasin a été incendié, il est parti. « J’ai mis quatre mois à arriver en Italie, explique-t-il. J’ai déposé une demande d’asile. » Chaque nuit, seule une fine toile de tente le sépare de la nuit glacée qui enveloppe le Silos. Les heures de sommeil sont rares, grignotées par le froid de l’hiver.

    « La vie ici est un désastre », commente Hanif, un Afghan de 25 ans qui passe, lui aussi, ses nuits au Silos. Son rêve, c’est Montbéliard (Doubs), en France. « Tous mes amis et certains membres de ma famille vivent là-bas. J’y ai passé six mois avant d’être renvoyé en Croatie », raconte le jeune homme, qui avait donné ses empreintes dans le pays et y a donc été expulsé en vertu des accords de Dublin. À peine renvoyé en Croatie, vingt jours plus tôt, il a refait le chemin en sens inverse pour revenir en France. Trieste est juste une étape.

    « Ici convergent aussi bien ceux qui sont en transit que ceux qui restent », explique Gian Andrea Franchi. Ce retraité a créé l’association Linea d’Ombra avec sa femme Lorena Fornasir à l’hiver 2019. « On s’est rendu compte que de nombreuses personnes gravitaient autour de la gare et qu’une bonne partie dormait dans les ruines du vieux port autrichien, se remémore-t-il en pointant la direction du Silos. Ils ne recevaient aucune aide et vivaient dans des conditions très difficiles. » Depuis, l’association distribue des vêtements, des couvertures, des tentes, offre des repas et prodigue des soins médicaux.

    Sur l’un des bancs, Lorena Fornasir a déployé une couverture de survie dont les reflets dorés scintillent dans la pénombre. « Quand ces hommes arrivent, ils ont souvent les pieds dans un tel état qu’on dirait qu’ils reviennent des tranchées », explique cette psychothérapeute à la retraite qui panse, soigne, écoute chaque soir ceux qui en ont besoin.

    « Ceux qui dorment au Silos sont tous tombés malades à cause des conditions dans lesquelles ils vivent, c’est une horreur là-bas : ils ont attrapé des bronchites, des pneumonies, des problèmes intestinaux, et beaucoup ont d’énormes abcès dus aux piqûres d’insectes et aux morsures de rats qui s’infectent », poursuit Lorena Fornasir, avant d’aller chercher dans sa voiture quelques poulets rôtis pour les derniers arrivés de la frontière slovène, affamés et engourdis par le froid. Les soirs d’été, lorsque le temps permet de traverser les bois plus facilement, ce sont parfois près de cinq cents personnes qui se retrouvent sur celle que le couple de retraités a rebaptisée « La Place du Monde ».
    Une crise de l’accueil

    Dans les bureaux de l’ICS, Consortium italien de solidarité, Gianfranco Schiavone a ces chiffres parfaitement en tête et ne décolère pas. Derrière l’écran de son ordinateur, il remonte le fil de ses courriels. Devant lui s’ouvre une longue liste de noms. « On a environ 420 demandeurs d’asile qui attendent une place d’hébergement ! », commente le président de l’ICS, fin connaisseur des questions migratoires dans la région. « Depuis un an et demi, ces personnes sont abandonnées à la rue et ce n’est pas à cause de leur nombre, particulièrement élevé… Au contraire, les arrivées sont modestes », explique-t-il en pointant les chiffres publiés dans le rapport « Vies abandonnées ».

    En moyenne, environ quarante-cinq migrants arrivent chaque jour à Trieste. Le chiffre est plutôt stable et pourrait décroître dans les semaines à venir. La neige a souvent ralenti les départs en amont, le long des passages boisés et plus sauvages de la route balkanique.

    Selon les estimations de l’ICS, entre 65 et 75 % des migrants qui arrivent à Trieste repartent. Le quart restant dépose une demande d’asile. Selon les règles en vigueur en Italie, les demandeurs d’asile sont hébergés dans des centres de premier accueil, le temps que les commissions territoriales examinent leur demande. L’ICS gère deux de ces centres, installés à quelques centaines de mètres de la frontière slovène. Les migrants devraient y rester quelques jours puis être redispatchés dans d’autres régions au sein de centres de plus long accueil.

    Faute de redistribution rapide, les centres d’accueil temporaire sont pleins et les nouveaux arrivants se retrouvent à la rue, dépendant uniquement du système d’hébergement d’urgence, déjà sursollicité par les SDF de la ville. À Trieste même, les près de 1 200 places d’hébergement à long terme disponibles pour les demandeurs d’asile sont toutes occupées.

    « On ne se retrouve pas avec quatre cents personnes arrivées en une journée qui ont mis en difficulté le système d’accueil, regrette Gianfranco Schiavone, mais avec de petits groupes volontairement laissés à la rue dont l’accumulation, jour après jour, a fini par donner ce résultat. » Il livre l’analyse suivante : « Ces conditions de vie poussent ces personnes vers la sortie. Le premier objectif est de réduire au maximum le nombre de demandeurs d’asile que l’État doit prendre en charge. Le deuxième, plus politique, est de créer une situation de tension dans l’opinion publique, de donner l’image de centaines de migrants à la rue et d’entretenir l’idée que les migrants sont vraiment trop nombreux et que l’Italie a été abandonnée par l’Europe. »

    Interrogée, la préfecture n’a pas souhaité répondre à nos sollicitations, renvoyant vers le ministère de l’intérieur. Le cabinet du maire, lui, renvoie aux prises de position déjà exprimées dans la presse locale. La position de l’édile de la ville est sans appel : il ne fera rien.
    L’accord Albanie-Italie suspendu

    Récemment, un important dispositif policier a été déployé dans la région. Le 18 octobre, après l’attentat contre des supporteurs suédois à Bruxelles, le gouvernement de Giorgia Meloni a décidé de fermer sa frontière avec la Slovénie. Le traité de Schengen a été provisoirement suspendu pour prévenir d’éventuelles « infiltrations terroristes » via la route balkanique.

    « C’est nécessaire, en raison de l’aggravation de la situation au Moyen-Orient, l’augmentation des flux migratoires le long de la route balkanique et surtout pour des questions de sécurité nationale », a justifié la cheffe du gouvernement. 350 agents ont été déployés dans le Frioul-Vénétie Julienne, le long des 230 kilomètres de la frontière italo-slovène. Initialement prévus pour dix jours, les contrôles aux frontières ont déjà été prolongés deux fois et sont actuellement en vigueur jusqu’au 18 janvier 2024.

    Avec ce tour de vis sur sa frontière orientale, l’Italie tente de maintenir une promesse qu’elle ne parvient pas à tenir sur son front méditerranéen : verrouiller le pays. Car après l’échec de sa stratégie migratoire à Lampedusa en septembre, Giorgia Meloni a redistribué ses cartes vers les Balkans. À la mi-novembre, la cheffe du gouvernement s’est rendue en visite officielle à Zagreb pour discuter, notamment, du dossier migratoire. Mais son dernier coup de poker, c’est l’annonce d’un accord avec l’Albanie pour y délocaliser deux centres d’accueil pour demandeurs d’asile.

    L’idée est d’y emmener jusqu’à 3 000 personnes, immédiatement après leur sauvetage en mer par des navires italiens. Sur place, la police albanaise n’interviendra que pour la sécurité à l’extérieur du centre. Le reste de la gestion reste entièrement de compétence italienne. La mise en service de ces deux structures a été annoncée au printemps. Le dossier semblait clos. À la mi-décembre, la Cour constitutionnelle albanaise a finalement décidé de suspendre la ratification de l’accord. Deux recours ont été déposés au Parlement pour s’assurer que cet accord ne viole pas les conventions internationales dont est signataire l’Albanie. Les discussions devraient reprendre à la mi-janvier.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/080124/la-frontiere-italo-slovene-les-migrants-oublies-de-la-route-balkanique
    #Slovénie #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #route_des_Balkans #Balkans #Trieste #sans-abrisme #SDF #hébergement #réfugiés_pakistanais #réfugiés_afghans #Silos #Linea_d’Ombra #solidarité #ICS

  • Le #lobbying sans #frontières de #Thales
    (publié en 2021, ici pour archivage)

    Pour vendre ses systèmes de surveillance aux confins de l’Union européenne, l’entreprise use de son influence. Indirectement, discrètement, efficacement.

    Ce 23 mai 2017, au sixième étage de l’immense tour vitrée qui héberge les locaux de #Frontex à Varsovie, en Pologne, les rendez-vous sont réglés comme du papier à musique. L’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes reçoit des industriels pour des discussions consacrées à l’utilisation de la biométrie aux confins de l’Union. Leonardo, Safran, Indra… Frontex déroule le tapis rouge aux big boss de la sécurité et de la défense. Juste après la pause-déjeuner, c’est au tour de #Gemalto, qui sera racheté deux ans plus tard par Thales (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), de déballer pendant quarante-cinq minutes ses propositions. Un document PowerPoint de 14 pages sert de support visuel. L’entreprise franco-néerlandaise y développe diverses utilisations de la reconnaissance faciale aux frontières : en collectant un selfie grâce à son téléphone avant de voyager, en plein vol dans un avion ou dans un véhicule qui roule. Oubliant de s’interroger sur la légalité et le cadre juridique de cette technologie, la présentation conclut : « La reconnaissance faciale en mouvement n’a pas été testée dans les essais de “frontières intelligentes” mais devrait. » Une manière à peine voilée de dire que Frontex devrait coupler des logiciels de reconnaissance faciale aux caméras de surveillance qui lorgnent les frontières extérieures de l’Europe, afin de mieux identifier et surveiller ceux qui tentent de pénétrer dans l’UE.

    Ce document est l’un des 138 dévoilés le 5 février dernier par les « Frontex Files », enquête diligentée par la chaîne de télévision publique allemande ZDF, en collaboration avec l’ONG européenne Corporate Europe Observatory. Ce travail lève le voile sur des réunions menées par Frontex avec 125 lobbyistes, reçus entre 2018 et 2019… ainsi que sur leur opacité, puisque 72 % d’entre elles se sont tenues très discrètement, en dehors des règles de transparence édictées par l’Union européenne.

    Depuis 2016, Frontex joue un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Son budget atteint 544 millions en 2021

    Fondée en 2004 pour aider les pays européens à sécuriser leurs frontières, Frontex est devenue une usine à gaz de la traque des réfugiés. Depuis 2016 et un élargissement de ses fonctions, elle joue désormais un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Alors qu’il plafonnait à 6 millions d’euros en 2005, son budget atteint 544 millions en 2021. Pour le prochain cycle budgétaire de l’UE (2021-2027), la Commission européenne a attribué une enveloppe de 12,7 milliards d’euros à la gestion des frontières et de 9,8 milliards à la migration.

    Thales et Gemalto trônent dans le top 10 des entreprises ayant eu le plus d’entretiens avec l’agence européenne : respectivement trois et quatre réunions. Mais les deux sociétés devraient être comptées comme un tout : en rachetant la seconde, la première a logiquement profité des efforts de lobbying que celle-ci avait déployés auparavant. Pour le géant français, l’enjeu des frontières est majeur, ainsi que nous le racontions précédemment (lire l’épisode 6, « Thales police les frontières »). #Murs, #clôtures, #barbelés, #radars, #drones, systèmes de reconnaissance d’#empreintes_digitales biométriques… Chaque année, les marchés attribués se comptent en millions d’euros. L’ONG Transnational Institute parle de « business de l’édification de murs », du nom d’un de ses rapports, publié en novembre 2019. Celui-ci met la lumière sur les trois entreprises qui dévorent la plus grosse part du gâteau : l’espagnole #Leonardo (ex-#Finmeccanica), #Airbus et bien sûr Thales. Un profit fruit de plus de quinze années de lobbying agressif.

    Thales avance à couvert et s’appuie sur l’#European_Organisation_for_Security, un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents

    Flash-back en 2003. Le traumatisme des attentats du 11-Septembre est encore vif. L’Union européenne aborde l’épineuse question de la sécurisation de ses frontières. Elle constitue un « groupe de personnalités », dont la mission est de définir les axes d’un futur programme de recherche européen sur la question. Au milieu des commissaires, chercheurs et représentants des institutions s’immiscent les intérêts privés de sociétés spécialisées dans la défense : Thales, Leonardo, mais aussi l’allemande #Siemens et la suédoise #Ericsson. Un an plus tard, le rapport suggère à l’UE de calquer son budget de recherche sur la sécurité sur celui des États-Unis, soit environ quatre dollars par habitant et par an, raconte la juriste Claire Rodier dans son ouvrage Xénophobie business : à quoi servent les contrôles migratoires ? (La Découverte, 2012). En euros, la somme s’élève à 1,3 milliard par an. La machine est lancée. Les lobbyistes sont dans la place ; ils ne la quitteront pas.

    Au sein du registre de transparence de l’Union européenne, Thales publie les détails de ses actions d’influence : un lobbyiste accrédité au Parlement, entre 300 000 et 400 000 euros de dépenses en 2019 et des réunions avec des commissaires et des membres de cabinets qui concernent avant tout les transports et l’aérospatial. Rien ou presque sur la sécurité. Logique. Thales, comme souvent, avance à couvert (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales ») et s’appuie pour faire valoir ses positions sur l’#European_Organisation_for_Security (EOS), un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents : #Airbus, Leonardo ou les Français d’#Idemia. Bref, un lobby. L’implication de Thales dans #EOS est tout à fait naturelle : l’entreprise en est la créatrice. Un homme a longtemps été le visage de cette filiation, #Luigi_Rebuffi. Diplômé en ingénierie nucléaire à l’université polytechnique de Milan, cet Italien au crâne dégarni et aux lunettes rectangulaires doit beaucoup au géant français. Spécialisé dans la recherche et le développement au niveau européen, il devient en 2003 directeur des affaires européennes de Thales. Quatre ans plus tard, l’homme fonde EOS. Détaché par Thales, il en assure la présidence pendant dix ans avant de rejoindre son conseil d’administration de 2017 à 2019.

    Depuis, il a fondé et est devenu le secrétaire général de l’#European_Cyber_Security_Organisation (#Ecso), représentant d’influence enregistré à Bruxelles, dont fait partie #Thales_SIX_GTS France, la filiale sécurité et #systèmes_d’information du groupe. À la tête d’Ecso, on trouve #Philippe_Vannier, également président de la division #big_data et sécurité du géant français de la sécurité #Atos… dont l’ancien PDG #Thierry_Breton est depuis 2019 commissaire européen au Marché intérieur. Un jeu de chaises musicales où des cadres du privé débattent désormais des décisions publiques.

    Entre 2012 et 2016, Luigi Rebuffi préside l’European Organisation for Security… et conseille la Commission pour ses programmes de recherche en sécurité

    Luigi Rebuffi sait se placer et se montrer utile. Entre 2012 et 2016, il occupe, en parallèle de ses fonctions à l’EOS, celle de conseiller pour les programmes de recherche en sécurité de la Commission européenne, le #Security_Advisory_Group et le #Protection_and_Security_Advisory_Group. « C’est une position privilégiée, analyse Mark Akkerman, chercheur et coauteur du rapport “Le business de l’édification de murs” de l’ONG Transnational Institute. Rebuffi faisait partie de l’organe consultatif le plus influent sur les décisions de financement par l’UE de programmes de recherche et d’innovation dans le domaine de la sécurité. »

    Ce n’est donc pas un hasard si, comme le note le site European Research Ranking, qui compile les données publiées par la Commission européenne, Thales est l’un des principaux bénéficiaires des fonds européens sur la #recherche avec 637 projets menés depuis 2007. La sécurité figure en bonne place des thématiques favorites de la société du PDG #Patrice_Caine, qui marche main dans la main avec ses compères de la défense Leonardo et Airbus, avec lesquels elle a respectivement mené 48 et 109 projets.

    Entre 2008 et 2012, l’Union européenne a, par exemple, attribué une subvention de 2,6 millions d’euros à un consortium mené par Thales, dans le cadre du projet #Aspis. Son objectif ? Identifier des systèmes de #surveillance_autonome dans les #transports_publics. Des recherches menées en collaboration avec la #RATP, qui a dévoilé à Thales les recettes de ses systèmes de sécurité et les coulisses de sa première ligne entièrement automatisée, la ligne 14 du métro parisien. Un projet dont l’un des axes a été le développement de la #vidéosurveillance.

    Thales coordonne le projet #Gambas qui vise à renforcer la #sécurité_maritime et à mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe

    À la même période, Thales s’est impliqué dans le projet #Oparus, financé à hauteur de 1,19 million d’euros par la Commission européenne. À ses côtés pour penser une stratégie européenne de la surveillance terrestre et maritime par #drones, #EADS (ancien nom d’#Airbus) ou #Dassault_Aviation. Depuis le 1er janvier dernier, l’industriel français coordonne aussi le projet Gambas (1,6 million de financement), qui vise à renforcer la sécurité maritime en améliorant le système de surveillance par #radar #Galileo, développé dans le cadre d’un précédent #projet_de_recherche européen pour mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe. Une #technologie installée depuis 2018 aux frontières européennes.

    Des subventions sont rattachées aux derniers programmes de recherche et d’innovation de l’Union européenne : #PR7 (2007-13) et #Horizon_2020 (2014-20). Leur petit frère, qui court jusqu’en 2027, s’intitule, lui, #Horizon_Europe. L’une de ses ambitions : « La sécurité civile pour la société ». Alors que ce programme s’amorce, Thales place ses pions. Le 23 novembre 2020, l’entreprise s’est entretenue avec #Jean-Éric_Paquet, directeur général pour la recherche et l’innovation de la Commission européenne. Sur quels thèmes ? Ont été évoqués les programmes Horizon 2020 et Horizon Europe, et notamment « dans quelles mesures [les] actions [de la Commission] pourraient susciter l’intérêt de Thales, en vue d’un soutien renforcé aux PME mais aussi aux écosystèmes d’innovation au sein desquels les groupes industriels ont un rôle à jouer », nous a répondu par mail Jean-Éric Paquet.

    L’European Organisation for Security s’intéresse aussi directement aux frontières européennes. Un groupe de travail, coprésidé par #Peter_Smallridge, chef des ventes de la division « #borders_and_travel » de Thales et ancien de Gemalto, poursuit notamment l’ambition « d’encourager le financement et le développement de la recherche qui aboutira à une industrie européenne de la sécurité plus forte ». Entre 2014 et 2019, EOS a organisé 226 réunions pour le compte d’Airbus, Leonardo et Thales, dépensant 2,65 millions d’euros pour la seule année 2017. Le chercheur Mark Akkerman est formel : « Toutes les actions de lobbying sur les frontières passent par l’EOS et l’#AeroSpace_and_Defence_Industries_Association_of_Europe (#ASD) », l’autre hydre de l’influence européenne.

    L’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité.
    Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense

    Dans ses derniers comptes publiés, datés de 2018, EOS déclare des dépenses de lobbying en nette baisse : entre 100 000 et 200 000 euros, un peu moins que les 200 000 à 300 000 euros de l’ASD. La liste des interlocuteurs de ces structures en dit beaucoup. Le 12 février 2020, des représentants d’EOS rencontrent à Bruxelles #Despina_Spanou, cheffe de cabinet du Grec #Margarítis_Schinás, vice-président de la Commission européenne chargé des Migrations. Le 11 juin, c’est au tour de l’ASD d’échanger en visioconférence avec Despina Spanou, puis début juillet avec un autre membre du cabinet, #Vangelis_Demiris. Le monde de l’influence européenne est petit puisque le 30 juin, c’est Ecso, le nouveau bébé de Luigi Rebuffi, d’organiser une visioconférence sur la sécurité européenne avec le trio au grand complet : Margarítis Schinás, Despina Spanou et Vangelis Demiris. Pour la seule année 2020, c’est la troisième réunion menée par Ecso avec la cheffe de cabinet.

    Également commissaire chargé de la Promotion du mode de vie européen, Margarítis Schinás a notamment coordonné le rapport sur la « stratégie de l’UE sur l’union de la sécurité ». Publié le 24 juillet 2020, il fixe les priorités sécuritaires de la Commission pour la période 2020-2025. Pour lutter contre le terrorisme et le crime organisé, le texte indique que « des mesures sont en cours pour renforcer la législation sur la sécurité aux frontières et une meilleure utilisation des bases de données existantes ». Des points qui étaient au cœur de la discussion entre l’ASD et son cabinet, comme l’a confirmé aux Jours Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense. « Lors de cette réunion, l’ASD a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité », confie-t-elle. Difficile d’avoir le son de cloche des lobbyistes. Loquaces quand il s’agit d’échanger avec les commissaires et les députés européens, Luigi Rebuffi, ASD, EOS et Thales n’ont pas souhaité répondre à nos questions. Pas plus que l’une des autres cibles principales des lobbyistes de la sécurité, Thierry Breton. Contrairement aux Jours, l’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a décroché deux entretiens avec l’ancien ministre de l’Économie de Jacques Chirac en octobre dernier, pour aborder des sujets aussi vastes que le marché international de l’#aérospatiale, la #défense ou la #sécurité. À Bruxelles, Thales et ses relais d’influence sont comme à la maison.

    https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep7-lobbying-europe

    #complexe_militaro_industriel #surveillance_des_frontières #migrations #réfugiés #contrôles_frontaliers #lobby

    • Thales police les frontières

      De Calais à Algésiras, l’entreprise met ses technologies au service de la politique antimigratoire de l’Europe, contre de juteux contrats.

      Cette journée d’octobre, Calais ne fait pas mentir les préjugés. Le ciel est gris, le vent âpre. La pluie mitraille les vitres de la voiture de Stéphanie. La militante de Calais Research, une ONG qui travaille sur la frontière franco-anglaise, nous promène en périphérie de la ville. Un virage. Elle désigne du doigt un terrain poisseux, marécage artificiel construit afin de décourager les exilés qui veulent rejoindre la Grande-Bretagne. À proximité, des rangées de barbelés brisent l’horizon. Un frisson claustrophobe nous saisit, perdus dans ce labyrinthe de clôtures.

      La pilote de navire marchand connaît bien la région. Son collectif, qui réunit chercheurs et citoyens, effectue un travail d’archiviste. Ses membres collectent minutieusement les informations sur les dispositifs technologiques déployés à la frontière calaisienne et les entreprises qui les produisent. En 2016, ils publiaient les noms d’une quarantaine d’entreprises qui tirent profit de l’afflux de réfugiés dans la ville. Vinci, choisi en septembre 2016 pour construire un mur de 4 mètres de haut interdisant l’accès à l’autoroute depuis la jungle, y figure en bonne place. Tout comme Thales, qui apparaît dans la liste au chapitre « Technologies de frontières ».

      Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer.
      Stéphanie, militante de l’ONG Calais Research

      Stéphanie stoppe sa voiture le long du trottoir, à quelques mètres de l’entrée du port de Calais. Portes tournantes et lecteurs de badges, qui permettent l’accès aux employés, ont été conçus par Thales. Le géant français a aussi déployé des dizaines de caméras le long de la clôture de 8 000 mètres qui encercle le port. « Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, glisse Stéphanie, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer. » Le projet Calais Port 2015 – année initialement fixée pour la livraison –, une extension à 863 millions d’euros, « devrait être achevé le 5 mai 2021 », d’après Jean-Marc Puissesseau, PDG des ports de Calais-Boulogne-sur-Mer, qui n’a même pas pu nous confirmer que Thales en assure bien la sécurité, mais chiffre à 13 millions d’euros les investissements de sécurité liés au Brexit. Difficile d’en savoir plus sur ce port 2.0 : ni Thales ni la ville de Calais n’ont souhaité nous répondre.

      Les technologies sécuritaires de Thales ne se cantonnent pas au port. Depuis la mise en place du Brexit, la société Eurotunnel, qui gère le tunnel sous la Manche, a mis à disposition de la police aux frontières les sas « Parafe » (« passage automatisé rapide aux frontières extérieures ») utilisant la reconnaissance faciale du même nom, conçus par Thales. Là encore, ni Eurotunnel ni la préfecture du Pas-de-Calais n’ont souhaité commenter. L’entreprise française fournit aussi l’armée britannique qui, le 2 septembre 2020, utilisait pour la première fois le drone Watchkeeper produit par Thales. « Nous restons pleinement déterminés à soutenir le ministère de l’Intérieur britannique alors qu’il s’attaque au nombre croissant de petits bateaux traversant la Manche », se félicite alors l’armée britannique dans un communiqué. Pour concevoir ce drone, initialement déployé en Afghanistan, Thales a mis de côté son vernis éthique. Le champion français s’est associé à Elbit, entreprise israélienne connue pour son aéronef de guerre Hermes. En 2018, The Intercept révélait que ce modèle avait été utilisé pour bombarder Gaza, tuant quatre enfants. Si le patron de Thales, Patrice Caine, appelait en 2019 à interdire les robots tueurs, il n’éprouve aucun état d’âme à collaborer avec une entreprise qui en construit.

      Du Rafale à la grande mosquée de la Mecque, Thales s’immisce partout mais reste invisible. L’entreprise cultive la même discrétion aux frontières européennes

      À Calais comme ailleurs, un détail frappe quand on enquête sur Thales. L’entreprise entretient une présence fantôme. Elle s’immisce partout, mais ses six lettres restent invisibles. Elles ne figurent ni sur la carlingue du Rafale dont elle fournit l’électronique, ni sur les caméras de vidéosurveillance qui lorgnent sur la grande mosquée de la Mecque ni les produits informatiques qui assurent la cybersécurité du ministère des Armées. Très loquace sur l’efficacité de sa « Safe City » mexicaine (lire l’épisode 3, « Thales se prend un coup de chaud sous le soleil de Mexico ») ou les bienfaits potentiels de la reconnaissance faciale (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), Thales cultive la même discrétion sur son implication aux frontières européennes. Sur son site francophone, une page internet laconique mentionne l’utilisation par l’armée française de 210 mini-drones Spy Ranger et l’acquisition par la Guardia civil espagnole de caméras Gecko, œil numérique à vision thermique capable d’identifier un bateau à plus de 25 kilomètres. Circulez, il n’y a rien à voir !

      La branche espagnole du groupe est plus bavarde. Un communiqué publié par la filiale ibérique nous apprend que ces caméras seront installées sur des 4x4 de la Guardia civil « pour renforcer la surveillance des côtes et des frontières ». Une simple recherche sur le registre des appels d’offres espagnols nous a permis de retracer le lieu de déploiement de ces dispositifs. La Guardia civil de Melilla, enclave espagnole au Maroc, s’est vue attribuer une caméra thermique, tout comme celle d’Algésiras, ville côtière située à quelques kilomètres de Gibraltar, qui a reçu en complément un logiciel pour contrôler les images depuis son centre de commandement. Dans un autre appel d’offres daté de novembre 2015, la Guardia civil d’Algésiras obtient un des deux lots de caméras thermiques mobiles intégrées directement à un 4x4. Le second revient à la police des Baléares. Montant total de ces marchés : 1,5 million d’euros. Des gadgets estampillés Thales destinés au « Servicio fiscal » de la Guardia civil, une unité dont l’un des rôles principaux est d’assurer la sécurité aux frontières.

      Thales n’a pas attendu 2015 pour vendre ses produits de surveillance en Espagne. D’autres marchés publics de 2014 font mention de l’acquisition par la Guardia civil de Ceuta et Melilla de trois caméras thermiques portables, ainsi que de deux systèmes de surveillance avec caméras thermiques et de quatre caméras thermiques à Cadix et aux Baléares. La gendarmerie espagnole a également obtenu plusieurs caméras thalesiennes « Sophie ». Initialement à usage militaire, ces jumelles thermiques à vision nocturne, dont la portée atteint jusqu’à 5 kilomètres, ont délaissé les champs de bataille et servent désormais à traquer les exilés qui tentent de rejoindre l’Europe. Dans une enquête publiée en juillet dernier, Por Causa, média spécialisé dans les migrations, a analysé plus de 1 600 contrats liant l’État espagnol à des entreprises pour le contrôle des frontières, dont onze attribués à Thales, pour la somme de 3,8 millions d’euros.

      Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe.
      Salva Carnicero, journaliste à « Por Causa »

      Le choix des villes n’est bien sûr pas anodin. « Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe », analyse Salva Carnicero, qui travaille pour Por Causa. Dès 2003, la ville andalouse était équipée d’un dispositif de surveillance européen unique lancé par le gouvernement espagnol pour contrôler sa frontière sud, le Système intégré de surveillance extérieure (SIVE). Caméras thermiques, infrarouges, radars : les côtes ont été mises sous surveillance pour identifier la moindre embarcation à plusieurs dizaines de kilomètres. La gestion de ce système a été attribuée à l’entreprise espagnole Amper, qui continue à en assurer la maintenance et a remporté plusieurs appels d’offres en 2017 pour le déployer à Murcie, Alicante et Valence. Une entreprise que Thales connaît bien, puisqu’elle a acquis en 2014 l’une des branches d’Amper, spécialisée dans la création de systèmes de communication sécurisés pour le secteur de la défense.

      Ceuta et Melilla, villes autonomes espagnoles ayant une frontière directe avec le Maroc, sont considérées comme deux des frontières européennes les plus actives. En plus des caméras thermiques, Thales Espagne y a débuté en septembre 2019, en partenariat avec l’entreprise de sécurité suédoise Gunnebo, l’un des projets de reconnaissance faciale les plus ambitieux au monde. Le logiciel thalesien Live Face Identification System (LFIS) est en effet couplé à 35 caméras disposées aux postes-frontières avec l’Espagne. L’objectif : « Surveiller les personnes entrant et sortant des postes-frontières », et permettre « la mise en place de listes noires lors du contrôle aux frontières », dévoile Gunnebo, qui prédit 40 000 lectures de visages par jour à Ceuta et 85 000 à Melilla. Une technologie de plus qui complète l’immense clôture qui tranche la frontière. « Les deux vont de pair, le concept même de barrière frontalière implique la présence d’un checkpoint pour contrôler les passages », analyse le géographe Stéphane Rosière, spécialisé dans la géopolitique et les frontières.

      Chercheur pour Stop Wapenhandel, association néerlandaise qui milite contre le commerce des armes, Mark Akkerman travaille depuis des années sur la militarisation des frontières. Ses rapports « Border Wars » font figure de référence et mettent en exergue le profit que tirent les industriels de la défense, dont Thales, de la crise migratoire. Un des documents explique qu’à l’été 2015, le gouvernement néerlandais a accordé une licence d’exportation de 34 millions d’euros à Thales Nederland pour des radars et des systèmes C3. Leur destination ? L’Égypte, un pays qui viole régulièrement les droits de l’homme. Pour justifier la licence d’exportation accordée à Thales, le gouvernement néerlandais a évoqué « le rôle que la marine égyptienne joue dans l’arrêt de l’immigration “illégale” vers Europe ».

      De l’Australie aux pays du Golfe, l’ambition de Thales dépasse les frontières européennes

      L’ambition de Thales dépasse l’Europe. L’entreprise veut surveiller aux quatre coins du monde. Les drones Fulmar aident depuis 2016 la Malaisie à faire de la surveillance maritime et les caméras Gecko – encore elles –, lorgnent sur les eaux qui baignent la Jamaïque depuis 2019. En Australie, Thales a travaillé pendant plusieurs années avec l’entreprise publique Ocius, aidée par l’université New South Wales de Sydney, sur le développement de Bluebottle, un bateau autonome équipé d’un radar dont le but est de surveiller l’espace maritime. Au mois d’octobre, le ministère de l’industrie et de la défense australien a octroyé à Thales Australia une subvention de 3,8 millions de dollars pour développer son capteur sous-marin Blue Sentry.

      Une tactique rodée pour Thales qui, depuis une quinzaine d’années, profite des financements européens pour ses projets aux frontières. « L’un des marchés-clés pour ces acteurs sont les pays du Golfe, très riches, qui dépensent énormément dans la sécurité et qui ont parfois des problèmes d’instabilité. L’Arabie saoudite a barriérisé sa frontière avec l’Irak en pleine guerre civile », illustre Stéphane Rosière. En 2009, le royaume saoudien a confié la surveillance électronique de ses 8 000 kilomètres de frontières à EADS, aujourd’hui Airbus. Un marché estimé entre 1,6 milliard et 2,5 milliards d’euros, l’un des plus importants de l’histoire de la sécurité des frontières, dont l’attribution à EADS a été vécue comme un camouflet par Thales.

      Car l’entreprise dirigée par Patrice Caine entretient une influence historique dans le Golfe. Présent aux Émirats Arabes unis depuis 45 ans, l’industriel y emploie 550 personnes, principalement à Abu Dhabi et à Dubaï, où l’entreprise française est chargée de la sécurité d’un des plus grands aéroports du monde. Elle y a notamment installé 2 000 caméras de vidéosurveillance et 1 200 portillons de contrôle d’accès.

      Au Qatar, où elle comptait, en 2017, 310 employés, Thales équipe l’armée depuis plus de trois décennies. Depuis 2014, elle surveille le port de Doha et donc la frontière maritime, utilisant pour cela des systèmes détectant les intrusions et un imposant dispositif de vidéosurveillance. Impossible de quitter le Qatar par la voie des airs sans avoir à faire à Thales : l’entreprise sécurise aussi l’aéroport international d’Hamad avec, entre autres, un dispositif tentaculaire de 13 000 caméras, trois fois plus que pour l’intégralité de la ville de Nice, l’un de ses terrains de jeu favoris (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales »).

      La prochaine grande échéance est la Coupe du monde de football de 2022, qui doit se tenir au Qatar et s’annonce comme l’une des plus sécurisées de l’histoire. Thales participe dans ce cadre à la construction et à la sécurisation du premier métro qatari, à Doha : 241 kilomètres, dont 123 souterrains, et 106 stations. Et combien de milliers de caméras de vidéosurveillance ?

      https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep6-frontieres-europe

  • La Cour des comptes étrille les politiques de lutte contre l’immigration irrégulière
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/05/la-cour-des-comptes-etrille-les-politiques-de-lutte-contre-l-immigration-irr

    La Cour des comptes étrille les politiques de lutte contre l’immigration irrégulière
    Par Antoine Albertini
    Un coût annuel de l’ordre de 1,8 milliard d’euros, un contrôle aux frontières « peu dissuasif », un taux d’exécution des obligations de quitter le territoire français (OQTF) anecdotique : tout, dans les 141 pages du rapport rendu public par la Cour des comptes, semble témoigner de l’impuissance de l’Etat en matière de lutte contre l’immigration irrégulière. Un constat chiffré, documenté, qui heurte de plein fouet les déclarations réitérées de l’exécutif, comme celles formulées par le porte-parole du gouvernement, Olivier Véran, qui maintenait, en octobre 2022, l’objectif affiché par Emmanuel Macron dès 2019 à l’occasion d’un entretien accordé à Valeurs actuelles : assurer l’exécution de 100 % des OQTF – une prétention « fantasmatique », a tranché le président de la Cour des comptes, Pierre Moscovici, au cours d’une conférence de presse, jeudi 4 janvier, au siège de la Cour des comptes.
    Certes, entre les contraintes juridiques imposées par les engagements communautaires de la France et le manque de coopération de certains Etats dans la délivrance de laissez-passer consulaires, la responsabilité ne saurait être intégralement imputable aux gouvernements successifs. Il en va autrement de l’organisation des services chargés de la lutte contre l’immigration irrégulière, de la faible entente interministérielle ou d’une inflation législative – « 133 modifications en moins de dix ans » – parfois motivée par la médiatisation de faits divers.
    A mesure que le droit « se complexifie », la pression mise sur les préfectures par des circulaires ministérielles afin d’obtenir mesures d’éloignement, placements en rétention administrative ou assignations à résidence dévoile ses effets pervers : un engorgement des juridictions aggravé par l’existence de multiples voies de recours. Le contentieux des étrangers représentait ainsi « 41 % des affaires enregistrées par les tribunaux administratifs en 2021 (…) et 61 % devant les cours administratives d’appel ». Conséquence : le caractère dissuasif de cette politique reste très discutable, puisque « le nombre de franchissements irréguliers des frontières françaises est en hausse depuis 2015 ». Pis, en 2022, le taux de réalisation des 134 280 OQTF définitives réputées exécutoires prononcées par les préfectures et juridictions françaises n’excédait pas 12 %. « Consciente de sa faible capacité à faire respecter les OQTF, tempère la Cour des comptes, l’administration concentre ses efforts sur les profils présentant une menace à l’ordre public ou ayant une condamnation pénale récente, en les plaçant davantage en rétention. Dès lors, ces profils ont des taux d’éloignement plus élevés. » L’organisation même des services spécialisés montre ses limites. Le 19 janvier 2023, jour de déplacement des magistrats de la Rue Cambon le long des 117 kilomètres de frontière italienne sous contrôle renforcé, moins de 60 personnes en assuraient la surveillance, dont une dizaine de réservistes de la police nationale. Les centres de rétention administrative, en état de sous-effectif chronique, ne sont guère mieux lotis : sur un effectif théorique de 367 postes, celui de Vincennes (Val-de-Marne) compte 307 agents seulement, dont 80 % de jeunes policiers à peine sortis de l’école.
    Quant à la création d’un Office de lutte contre le trafic illicite de migrants en remplacement de l’Office central pour la répression de l’immigration irrégulière et de l’emploi d’étrangers sans titre, elle a certes entraîné le doublement de ses effectifs, « soit 138 nouveaux emplois », mais « si la police nationale a consenti à la création de 75 postes (…), la gendarmerie nationale a fourni un seul des 42 militaires promis, tandis que les douanes, les finances publiques, Tracfin [la cellule française de renseignement financier] et le ministère du travail n’ont encore envoyé aucun des agents promis ».
    Le dispositif souffre également d’une répartition incohérente des moyens. Sur les 126 points de passage frontaliers recensés en France, 45 seulement sont tenus par la police aux frontières, service de pointe dans la lutte contre l’immigration clandestine et théoriquement affecté à ces points de passage soumis à un « trafic permanent significatif en provenance de pays sources d’immigration ». Dans la pratique, des douaniers, moins formés que leurs collègues policiers, et dont le travail est davantage tourné vers le contrôle de marchandises, se voient confier des points de passage connaissant des flux humains considérables, comme la gare de Montpellier, « point d’arrivée des trains en provenance d’Espagne », quand la police aux frontières s’occupe de certains points présentant des risques quasi inexistants, à l’image de l’aéroport de Calvi-Sainte-Catherine.
    Demeure donc, note diplomatiquement la Cour des comptes, une « cohérence à construire », en renforçant notamment les services préfectoraux compétents, en simplifiant le contentieux de l’éloignement ou en assouplissant le dispositif d’aide au retour volontaire, encore insuffisamment développé et moins dispendieux qu’une procédure d’expulsion.Autant de considérations que l’institution a préféré formuler trois semaines après la date initialement prévue pour la parution de son rapport. Dans un exercice de transparence, M. Moscovici a assumé avoir pris la « responsabilité personnelle » de différer sa communication, programmée le 13 décembre 2023, en raison de l’adoption d’une motion de rejet du projet de loi sur l’immigration porté par le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, le 11 décembre. « Je ne souhaitais pas, a-t-il précisé, que cette publication puisse interférer dans un débat législatif passionné et passionnel. »

    #Covid-19#migration#migrant#france#coursdescomptes#retourvolontaire#immigrationirreguliere#expulsion#OQTF#frontiere

  • Weaponizing the law against the vulnerable: the case of the #El_Hiblu_3

    In March 2019, three teenagers were rescued from a sinking rubber boat in the Mediterranean Sea. Amara was 15 years old and had already travelled from Guinea to Libya before attempting the crossing to Europe. Unknown to him at the time were two other teenagers: Kader was 16, a football enthusiast and from the Ivory Coast; and Abdalla at 19 was also from Guinea and travelling with his wife, Souwa. The three teenagers travelled with 100 other people, and were rescued by an oil tanker, the #El_Hiblu_1, after their boat began to deflate.

    That night, the El Hiblu 1 crew tried to return the travellers to Libya, despite assurances of helping them to reach Europe. In the early hours of the morning, people spotted Tripoli’s coastline and began to protest, terrified at the prospect of being returned to the violence they had known in Libya. Desperation was so high that people were ready to jump overboard. In this tense situation, the first mate called on Amara to translate, having identified him the day before as someone who spoke English. Eventually, the crew also called on the young Kader and Abdalla. The three acted as mediators and translators between frightened travellers and scared crew members.

    The wider group’s protests convinced the captain to change course; he turned the ship north and motored towards Malta. Speaking to the Maltese authorities en route, he claimed his ship was no longer under his control - although testimonies in the subsequent compilation of evidence cast doubt on this claim. Nevertheless, upon arrival in Malta’s Valletta harbour, the three were arrested and immediately charged with nine crimes, including terrorism and confining someone against their will. These charges carry multiple life sentences, and echo the media narrative that took hold before the three even arrived in Malta, a narrative that painted them as pirates and hijackers.

    Abdalla, Amara, and Kader – now also known as the El Hiblu 3 – have never known Malta as free men. Imprisoned for 8 months, initially in the maximum-security wing of the adult prison despite their young age, they were released on bail in November 2019 but required to register with the police every day and restricted in their daily movements. Legal experts and international organisations describe the charges that condition their lives as ‘grossly unjust’, ‘baseless’, and a ‘farce’.

    For almost five years, the three young men have attended court hearings every month. As a whole, the testimonies corroborate what the El Hiblu 3 have always maintained: that they are innocent. Moreover, the compilation of evidence, only the initial stage in the judicial process, has been painfully slow and riddled with failures, silences and erasures. Despite calling numerous people to testify, including crew members and officials from the Armed Forces of Malta, the prosecution failed to call any of the 100 people who travelled with the El Hiblu 3 for two years. They only did so in March 2021 after the defence submitted an application to the court reminding the prosecution of its legal obligation to impartiality and its duty to bring forward all evidence at its disposal. Predictably, many of these key eyewitnesses had already left the island after two years, as secondary movements to other European countries are common.

    Even when a handful were eventually given the opportunity to testify, silencing continued. Requests by some to testify in Bambara, a language widely spoken in West Africa, were denied. Witnesses also questioned the accuracy of the translation occurring in court, with the defence requesting a new translator. Yet, those who did testify confirmed Amara, Abdalla and Kader’s role as translators, and not as ring leaders.

    Over these last years, a vast, transnational solidarity network has developed between local, international and intergovernmental organisations, convinced of the El Hiblu 3’s innocence and motivated by the injustice of pressing such charges against three teenagers. As the compilation of evidence unfolded, anger grew as information emerged that no weapons were found on board and no violence took place, and as people got to know the three. Despite their young age, despite the trial having already stolen much of their youth, they have displayed incredible strength and courage in the face of injustice. They have withstood imprisonment, adhered to strict bail conditions, appeared in court every month, all while building lives in Malta: studying, working, raising children, making friends and building a community.

    As we have explored elsewhere, the solidarity network that has emerged to support and stand with Amara, Abdalla, and Kader reflects a transgressive form of solidarity that resists dominant state narratives and categories, and also creates counter-narratives through direct action. Alongside many protests, concerts, and conferences, the campaign to free the El Hiblu 3 published a book in 2021 which reflects the diverse voices of this network, with central contributions from Abdalla, Amara, and Kader. The El Hiblu case allows us to explore the ways in which transgressive acts—from autonomous migration to solidarity practices that occur at sea and within European territory—connect and challenge our conceptualization of borders, nation-states, and citizenship.

    This case highlights the persistent criminalisation of people on the move in Europe today. The EU and its southern member states have attempted to contain people in Libya: they have turned militias into ‘EU partners’, funded detention centres, and coordinated pushbacks, with complete disregard for severe human rights violations carried out by these actors. In the name of deterrence, people in distress at sea are abandoned and those carrying out search and rescue activities are criminalised. Those who arrive face further punishment. Among other countries, Italy and Greece have used the law to target those they consider ‘boat drivers’. Malta, similarly, has weaponised the law against the El Hiblu 3, using them as political pawns in a spectacle of deterrence. The use of the law, by liberal democratic states, to undermine human rights raises questions of democracy, rule of law, and justice.

    A few weeks ago, in November 2023, the Attorney General issued a bill of indictment formally charging Abdalla, Amara, and Kader with all the original accusations, despite the testimonies heard in the intervening period that point to their innocence and despite condemnation of the judicial process from legal scholars, international organisations and activists. According to Amnesty International, Malta’s Attorney General made the ‘worst possible decision’ when she issued a bill of indictment that could lead to life sentences for the El Hiblu 3. Indeed, many have hailed the three young men as heroes whose mediation helped prevent an illegal pushback to Libya. With countless supporters, in Malta and beyond, we continue to stand with them in their fight for justice.

    https://blogs.law.ox.ac.uk/border-criminologies-blog/blog-post/2024/01/weaponizing-law-against-vulnerable-case-el-hiblu-3
    #migrations #asile #réfugiés #criminalisation #El_Hiblu #Libye #Méditerranée #pull-back #résistance #justice #Malte #Abdalla #Amara #Kader #solidarité #frontières #scafisti #scafista

  • La politique de lutte contre l’#immigration_irrégulière

    À la suite d’une première publication en avril 2020, qui portait sur l’intégration des personnes immigrées en situation régulière et sur l’exercice du droit d’asile, la Cour publie ce jour un rapport consacré à la politique de #lutte_contre_l’immigration_irrégulière, et notamment aux moyens mis en œuvre et aux résultats obtenus au regard des objectifs que se fixe l’État. À ce titre, la Cour a analysé les trois grands volets de cette politique : la #surveillance_des_frontières, la gestion administrative des étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et l’organisation de leur retour dans leur pays d’origine. Il convient de souligner que ce rapport a été inscrit à la programmation des publications de la Cour plusieurs mois avant la présentation du projet de loi au Conseil des ministres puis au Parlement en février 2023, et qu’il a été réalisé et contredit avant la loi immigration de décembre 2023.

    https://www.ccomptes.fr/fr/publications/la-politique-de-lutte-contre-limmigration-irreguliere

    #cour_des_comptes #France #migrations #rapport #frontières #contrôles_frontaliers #efficacité #contrôles_systématiques_aux_frontières #coopération_transfrontalière #Frontex #surveillance_frontalière #force_frontière #sans-papiers #OQTF #éloignement #renvois #expulsions #rétention #détention_administrative #renvois_forcés #laissez-passer_consulaires #aide_au_retour #retour_volontaire #police_aux_frontières (#PAF) #ministère_de_l'intérieur #chiffres #statistiques

    ping @karine4

    • #Pierre_Moscovici s’explique sur le report de la publication de la Cour des comptes sur l’immigration irrégulière : « Je n’ai rien cherché à dissimuler »

      Plusieurs élus ont dénoncé une entrave volontaire au débat démocratique. Auprès de « CheckNews », le président de la Cour des comptes se défend et dit qu’il n’a « rien cherché à dissimuler ».

      Un timing qui interroge. Le 4 janvier, soit deux semaines après la #commission_mixte_paritaire (#CMP) qui s’est réunie pour l’examen de la loi immigration sur fond de crise politique sévère – et qui a finalement abouti à l’adoption d’un texte plus dur que la version initiale proposée par le gouvernement – la Cour des comptes a publié son rapport sur la politique de lutte contre l’immigration irrégulière.

      Ses conclusions dressent notamment le bilan médiocre de la politique migratoire de l’Etat. Et pointent une « stratégie globale illisible et incohérente » de l’Intérieur. Mais au-delà du propos, c’est aujourd’hui le choix de son président, le socialiste Pierre Moscovici, de repousser la publication de ce rapport, qui se retrouve sous le feu des critiques. A l’origine, le texte devait en effet être publié le 13 décembre. C’était sans compter, deux jours plus tôt, sur la motion de rejet de l’Assemblée, qui a ouvert la voie à une CMP.

      Lors de sa présentation du rapport, Moscovici a expliqué qu’il n’avait pas souhaité que ce texte « puisse interférer en quoi que ce soit avec un débat passionné voire passionnel ».

      Le lendemain, il revient sur ce choix, et défend sur LCI une « décision prise personnellement et que j’assume totalement. La Cour publie ses rapports quand elle le veut. Nous avions programmé de le faire le 13 décembre. C’était le surlendemain du vote sur la motion de rejet de la loi sur l’immigration. Je sais pas si vous imaginez un tel rapport qui sort à ce moment-là, trois jours avant la commission mixte paritaire ? Qu’est-ce qu’on aurait dit ? Certains, à droite ou à l’extrême droite, auraient dit : “Quel scandale, rien ne marche, il faut être beaucoup plus dur”. Les autres : “Déjà ça ne marche pas, donc on n’a pas besoin d’une loi”. »
      « Je n’ai pas voulu que ce rapport soit déformé »

      Face au présentateur Darius Rochebin qui lui oppose qu’il s’agit là du fondement du « débat démocratique », Pierre Moscovici répond : « Oui, mais nous étions dans une crise politique, dans un moment où les arguments rationnels se faisaient peu entendre. Je n’ai pas voulu que ce rapport soit déformé et je n’ai pas voulu interférer avec un vote sous pression. »

      Ce dimanche 7 janvier, ils sont nombreux à s’indigner davantage de cette justification. A droite, Laurent Wauquiez appelle à la démission de Pierre Moscovici, dénonçant un « manquement grave à notre démocratie et aux obligations les plus élémentaires qui s’imposent à la Cour des comptes ». De son côté, Rachida Dati estime que « Pierre Moscovici a utilisé son pouvoir personnel pour priver le Parlement d’éléments factuels pour légiférer sur l’immigration ».

      Des critiques auxquelles se joignent certaines voix de gauche. Le député LFI Thomas Portes parle ainsi de « magouilles d’un autre âge » et d’un « mépris profond pour les citoyens et les élus ». Quant à Antoine Léaument, élu insoumis aussi, il déplore des « propos incroyables du président de la Cour des comptes » qui « a décidé de garder cachée une information qui pouvait être d’utilité publique ».

      « Je n’avais pas d’autres choix »

      Pierre Moscovici, joint par CheckNews ce dimanche matin, note que ces critiques ne proviennent ni de « toute la droite, ni de toute la gauche ». Sur le fond, contrairement à sa justification initiale du 4 janvier (où il indiquait qu’il ne souhaitait pas que la publication « puisse interférer en quoi que ce soit avec un débat passionné voire passionnel »), il indique aujourd’hui que le 13 décembre, date à laquelle le rapport devait être initialement publié, « le débat était clos par la motion de rejet ».

      Et de préciser : « Il n’y avait plus de débat parlementaire mais une crise politique, à dénouer par une procédure particulière. Si le rapport avait été publié comme prévu, il y aurait eu un déluge de réactions qui n’auraient pas alimenté le débat mais les passions. L’institution est là pour éclairer les citoyens, pas pour nourrir les controverses entre partis pendant une CMP. Je n’avais pas d’autre choix. Les mêmes qui poussent des cris d’orfraie auraient assuré que la Cour des comptes ne laissait pas le parlement travailler librement, et lui auraient reproché de s’immiscer dans sa souveraineté. Aucune de nos analyses n’aurait été reprise sereinement. Mes raisons sont de bon sens, je n’ai rien cherché à dissimuler : j’ai simplement joué mon rôle en protégeant l’indépendance, la neutralité et l’impartialité de l’institution que je préside. Ces critiques de mauvaise foi montrent aujourd’hui en quoi la publication du rapport le 13 décembre aurait simplement nourri la violence du combat politique. »

      https://www.liberation.fr/checknews/pourquoi-pierre-moscovici-a-t-il-differe-la-publication-du-rapport-de-la-

  • L’espace Schengen s’ouvrira partiellement à la Bulgarie et la Roumanie à partir du 31 mars
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/31/l-espace-schengen-s-ouvrira-partiellement-a-la-bulgarie-et-la-roumanie-a-par

    L’espace Schengen s’ouvrira partiellement à la Bulgarie et la Roumanie à partir du 31 mars
    Les contrôles aux frontières aériennes et maritimes, internes à l’Union européenne, seront levés pour les deux pays, ont confirmé les Vingt-Sept, après pas moins de douze années de négociations. Le sort des frontières terrestres doit être décidé plus tard.
    Le Monde avec AFP
    La Roumanie avait récemment vendu la mèche, mais il restait la confirmation officielle. Elle est arrivée dans la nuit du samedi 30 au dimanche 31 décembre 2023 lorsque les vingt-sept Etats membres de l’Union européenne (UE) ont annoncé que la Bulgarie et la Roumanie allaient partiellement intégrer l’espace Schengen de libre circulation, à partir du 31 mars. Cette date a été choisie car elle correspond au passage des horaires d’hiver à ceux prévus pour l’été par l’Association internationale du transport aérien (IATA), selon le communiqué des Vingt-Sept qui se sont mis d’accord à l’unanimité pour lever les contrôles aux frontières aériennes et maritimes, internes à l’UE, de ces deux pays. Ils devront prendre une nouvelle décision pour choisir la date de levée des contrôles aux frontières terrestres, internes à l’UE, ajoute ce communiqué du Conseil de l’UE, institution qui représente les Etats membres. La Commission européenne s’est de son côté félicitée de cette décision, qui intervient après pas moins de douze années de négociations. « Aujourd’hui marque un moment historique pour la Bulgarie et la Roumanie, et un jour de grande fierté pour les citoyens bulgares et roumains », s’est félicitée dans un communiqué la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen. La Commission a rappelé qu’elle estimait depuis 2011 que ces deux pays étaient prêts à rejoindre l’espace Schengen. La Bulgarie et la Roumanie, membres de l’UE depuis 2007, avaient été recalées par l’Autriche fin 2022 de l’espace Schengen au sein duquel plus de 400 millions de personnes peuvent voyager librement sans contrôles aux frontières intérieures. Vienne avait mis son veto pour protester contre une arrivée trop importante de clandestins sur son territoire, avant d’accepter de le lever en échange de garanties.
    Sofia et Bucarest ont accepté de lutter davantage contre l’immigration clandestine dans une déclaration commune signée samedi avec l’Autriche. La Bulgarie et la Roumanie s’engagent aussi à appliquer pleinement le droit européen, qui prévoit que les demandes d’asiles soient prises en charge dans le pays d’arrivée des migrants. Créée en 1985, l’espace Schengen comprend 23 des 27 pays membres de l’UE ainsi que leurs voisins associés que sont la Suisse, la Norvège, l’Islande et le Liechtenstein.

    #covid-19#migrant#migration#UE#espaceschengen#bulgarie#roumanie#frontiere#migrantionirreguliere#librecirculation

  • Au Mexique, de nombreux migrants enlevés, détenus et rackettés sur la route des Etats-Unis
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/29/au-mexique-de-nombreux-migrants-enleves-detenus-et-rackettes-sur-la-route-de

    Au Mexique, de nombreux migrants enlevés, détenus et rackettés sur la route des Etats-Unis
    Par Anne Vigna (Mexico, correspondante)
    Devant la gare routière du nord de Mexico, des groupes de migrants attendent le départ des bus qui rejoignent les villes mexicaines situées à la frontière avec les Etats-Unis. Ce 12 décembre, l’humeur est plutôt bonne et tout le monde se dit heureux de quitter au plus vite le Mexique après la traversée, en près de vingt-deux heures, du centre et du nord du pays. « Les billets nous coûtent cher bien sûr, mais, avec des enfants, on ne peut pas voyager sur le toit du train, c’est trop risqué », explique Mario Gomez, un Hondurien de 27 ans qui a voyagé jusqu’ici avec son épouse et ses deux enfants de 10 et 12 ans. Ce père de famille a dépensé 150 euros par adulte et 50 euros par enfant pour éviter la « Bestia », le train de marchandises qui traverse le Mexique et qui permet aux migrants les plus pauvres de rejoindre la frontière nord. Mario avait entendu parler des accidents arrivés à ceux qui s’endorment sur son toit, des heures d’attente en plein désert sans une goutte d’eau, mais aussi du racket auquel se livrerait la police mexicaine quand le train fait une pause dans les villes. Il a donc préféré travailler quelques semaines dans la ville de Mexico pour pouvoir offrir à sa famille un voyage en bus jusqu’à la frontière américaine, en sécurité. Du moins le croit-il. Car ce moyen de transport n’est pas non plus une garantie de tranquillité.Ces derniers mois, des migrants ont raconté à des ONG et des journalistes avoir été victimes d’enlèvement et de racket alors qu’ils voyageaient dans ces autobus qui font la navette entre la ville de Mexico et la frontière américaine. Les lignes Chihuahuenses et Futura, appartenant au groupe de transport Estrella Blanca et ralliant la ville de Ciudad Juarez depuis Mexico, sont plus particulièrement citées par les migrants. Ni cette entreprise, ni l’Institut national de migration, ni le ministère des transports n’ont accepté de répondre aux questions du Monde. En revanche, quatre familles aujourd’hui en sécurité aux Etats-Unis nous ont raconté leur calvaire après qu’elles furent montées dans un bus de ces lignes. La similitude de leurs témoignages, alors qu’elles ont voyagé à des dates différentes, montre qu’elles ont été très certainement victimes du même réseau criminel opérant à grande échelle et avec la complicité des chauffeurs. Les quatre familles qui ont témoigné ont eu droit aux mêmes mises en demeure des criminels : pour obtenir leur liberté, ils devaient trouver 3 200 dollars par personne (soit près de 2 900 euros) pour rejoindre le mur élevé à la frontière ou bien 2 800 dollars pour la gare routière de Ciudad Juarez. (...)
    Dans un rapport intitulé « Inhumane and Counterproductive, Asylum Ban Inflicts Mounting Harm » (« Inhumaine et contre-productive, l’entrave à l’asile cause des dommages croissants »), publié en octobre, l’organisation américaine Human Rights First alerte sur ces kidnappings après avoir récolté des dizaines de témoignages de migrants ayant connu ce sort : « Les enlèvements ciblés de migrants en vue d’obtenir une rançon se sont généralisés. Les migrants – parfois des bus entiers – sont interceptés en plein jour », décrit le texte. July Rodriguez et Lizbeth Guerrero sont directrices de l’ONG Apoyo a migrantes venezolanos à Mexico. Elles ont déjà aidé des familles désespérées alors que leurs proches venaient de disparaître en chemin. « On tente de les épauler puis de les convaincre de porter plainte une fois que leur famille est libérée, mais beaucoup sont terrifiés. Ce serait pourtant la seule manière de demander des comptes aux autorités mexicaines », racontent les deux avocates. Avec d’autres organisations, elles ont déposé plusieurs plaintes devant la Commission nationale des droits humains contre ces kidnappings. « Nous n’avons rien obtenu. Selon les témoignages que nous avons réunis, la police est forcément complice de ces enlèvements qui se produisent avec une facilité déconcertante », considère July Rodriguez.
    Le 18 décembre, la police des frontières américaine a une nouvelle fois suspendu pendant cinq jours les entrées des trains de marchandises sur son territoire. Officiellement, elle n’aurait pas assez d’agents pour gérer les flux de marchandises et les entrées des migrants. En conséquence, l’entreprise de fret Ferromex a renforcé la sécurité privée sur ses wagons pour empêcher les migrants d’y voyager. Comme le Mexique exige désormais un visa pour pénétrer sur son territoire et emprunter l’avion, les migrants n’ont d’autres choix que de prendre encore plus souvent les bus pour rejoindre la frontière. Anne Vigna (Mexico, correspondante)

    #Covid-19#migrant#migration#etatsunis#mexique#ameriquelatine#migrationirreguliere#trafic#violence#frontiere#droit#visas

  • Au niveau européen, un pacte migratoire « dangereux » et « déconnecté de la réalité »

    Sara Prestianni, du réseau EuroMed Droits, et Tania Racho, chercheuse spécialiste du droit européen et de l’asile, alertent, dans un entretien à deux voix, sur les #risques de l’accord trouvé au niveau européen et qui sera voté au printemps prochain.

    Après trois années de discussions, un accord a été trouvé par les États membres sur le #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile la semaine dernière. En France, cet événement n’a trouvé que peu d’écho, émoussé par la loi immigration votée au même moment et dont les effets sur les étrangers pourraient être dramatiques.

    Pourtant, le pacte migratoire européen comporte lui aussi son lot de mesures dangereuses pour les migrant·es, entre renforcement des contrôles aux frontières, tri express des demandeurs d’asile, expulsions facilitées des « indésirables » et sous-traitance de la gestion des frontières à des pays tiers. Sara Prestianni, responsable du plaidoyer au sein du réseau EuroMed Droits, estime que des violations de #droits_humains seront inévitables et invite à la création de voies légales qui permettraient de protéger les demandeurs d’asile.

    La chercheuse Tania Racho, spécialiste du droit européen et de l’asile et membre du réseau Désinfox-Migrations, répond qu’à aucun moment les institutions européennes « ne prennent en compte les personnes exilées », préférant répondre à des « objectifs de gestion des migrations ». Dans un entretien croisé, elles alertent sur les risques d’une approche purement « sécuritaire », qui renforcera la vulnérabilité des concernés et les mettra « à l’écart ».

    Mediapart : Le pacte migratoire avait été annoncé par la Commission européenne en septembre 2020. Il aura fait l’objet de longues tergiversations et de blocages. Était-ce si difficile de se mettre d’accord à 27 ?

    Tania Racho : Dans l’état d’esprit de l’Union européenne (UE), il fallait impérativement démontrer qu’il y a une gestion des migrations aux #frontières_extérieures pour rassurer les États membres. Mais il a été difficile d’aboutir à un accord. Au départ, il y avait des mesures pour des voies sécurisées d’accès à l’Union avec plus de titres économiques : ils ont disparu au bénéfice d’une crispation autour des personnes en situation irrégulière.

    Sara Prestianni : La complexité pour aboutir à un accord n’est pas due à la réalité des migrations mais à l’#instrumentalisation du dossier par beaucoup d’États. On l’a bien vu durant ces trois années de négociations autour du pacte : bien que les chiffres ne le justifiaient pas, le sujet a été fortement instrumentalisé. Le résultat, qui à nos yeux est très négatif, est le reflet de ces stratégies : cette réforme ne donne pas de réponse au phénomène en soi, mais répond aux luttes intestines des différents États.

    La répartition des demandeurs d’asile sur le sol européen a beaucoup clivé lors des débats. Pourquoi ?

    Sara Prestianni : D’abord, parce qu’il y a la fameuse réforme du #règlement_Dublin [qui impose aux exilés de demander l’asile dans le pays par lequel ils sont entrés dans l’UE - ndlr]. Ursula von der Leyen [présidente de la Commission – ndlr] avait promis de « #dépasser_Dublin ». Il est aujourd’hui renforcé. Ensuite, il y a la question de la #solidarité. La #redistribution va finalement se faire à la carte, alors que le Parlement avait tenté de revenir là-dessus. On laisse le choix du paiement, du support des murs et des barbelés aux frontières internes, et du financement de la dimension externe. On est bien loin du concept même de solidarité.

    Tania Racho : L’idée de Dublin est à mettre à la poubelle. Pour les Ukrainiens, ce règlement n’a pas été appliqué et la répartition s’est faite naturellement. La logique de Dublin, c’est qu’une personne qui trouve refuge dans un État membre ne peut pas circuler dans l’UE (sans autorisation en tout cas). Et si elle n’obtient pas l’asile, elle n’est pas censée pouvoir le demander ailleurs. Mais dans les faits, quelqu’un qui voit sa demande d’asile rejetée dans un pays peut déposer une demande en France, et même obtenir une protection, parce que les considérations ne sont pas les mêmes selon les pays. On s’interroge donc sur l’utilité de faire subir des transferts, d’enfermer les gens et de les priver de leurs droits, de faire peser le coût de ces transferts sur les États… Financièrement, ce n’est pas intéressant pour les États, et ça n’a pas de sens pour les demandeurs d’asile.

    D’ailleurs, faut-il les répartir ou leur laisser le libre #choix dans leur installation ?

    Tania Racho : Cela n’a jamais été évoqué sous cet angle. Cela a du sens de pouvoir les laisser choisir, parce que quand il y a un pays de destination, des attaches, une communauté, l’#intégration se fait mieux. Du point de vue des États, c’est avant tout une question d’#efficacité. Mais là encore on ne la voit pas. La Cour européenne des droits de l’homme a constaté, de manière régulière, que l’Italie ou la Grèce étaient des États défaillants concernant les demandeurs d’asile, et c’est vers ces pays qu’on persiste à vouloir renvoyer les personnes dublinées.

    Sara Prestianni : Le règlement de Dublin ne fonctionne pas, il est très coûteux et produit une #errance continue. On a à nouveau un #échec total sur ce sujet, puisqu’on reproduit Dublin avec la responsabilité des pays de première entrée, qui dans certaines situations va se prolonger à vingt mois. Même les #liens_familiaux (un frère, une sœur), qui devaient permettre d’échapper à ce règlement, sont finalement tombés dans les négociations.

    En quoi consiste le pacte pour lequel un accord a été trouvé la semaine dernière ?

    Sara Prestianni : Il comporte plusieurs documents législatifs, c’est donc une #réforme importante. On peut évoquer l’approche renforcée des #hotspots aux #frontières, qui a pourtant déjà démontré toutes ses limites, l’#enfermement à ciel ouvert, l’ouverture de #centres_de_détention, la #procédure_d’asile_accélérée, le concept de #pays-tiers_sûr que nous rejetons (la Tunisie étant l’exemple cruel des conséquences que cela peut avoir), la solidarité à la carte ou encore la directive sur l’« instrumentalisation » des migrants et le concept de #force_majeure en cas d’« #arrivées_massives », qui permet de déroger au respect des droits. L’ensemble de cette logique, qui vise à l’utilisation massive de la #détention, à l’#expulsion et au #tri des êtres humains, va engendrer des violations de droits, l’#exclusion et la #mise_à_l’écart des personnes.

    Tania Racho : On met en place des #centres_de_tri des gens aux frontières. C’est d’une #violence sans nom, et cette violence est passée sous silence. La justification du tri se fait par ailleurs sur la nationalité, en fonction du taux de protection moyen de l’UE, ce qui est absurde car le taux moyen de protection varie d’un pays à l’autre sur ce critère. Cela porte aussi une idée fausse selon laquelle seule la nationalité prévaudrait pour obtenir l’asile, alors qu’il y a un paquet de motifs, comme l’orientation sexuelle, le mariage forcé ou les mutilations génitales féminines. Difficile de livrer son récit sur de tels aspects après un parcours migratoire long de plusieurs mois dans le cadre d’une #procédure_accélérée.

    Comment peut-on opérer un #tri_aux_frontières tout en garantissant le respect des droits des personnes, du droit international et de la Convention de Genève relative aux réfugiés ?

    Tania Racho : Aucune idée. La Commission européenne parle d’arrivées mixtes et veut pouvoir distinguer réfugiés et migrants économiques. Les premiers pourraient être accueillis dignement, les seconds devraient être expulsés. Le rush dans le traitement des demandes n’aidera pas à clarifier la situation des personnes.

    Sara Prestianni : Ils veulent accélérer les procédures, quitte à les appliquer en détention, avec l’argument de dire « Plus jamais Moria » [un camp de migrants en Grèce incendié – ndlr]. Mais, ce qui est reproduit ici, c’est du pur Moria. En septembre, quand Lampedusa a connu 12 000 arrivées en quelques jours, ce pacte a été vendu comme la solution. Or tel qu’il est proposé aujourd’hui, il ne présente aucune garantie quant au respect du droit européen et de la Convention de Genève.

    Quels sont les dangers de l’#externalisation, qui consiste à sous-traiter la gestion des frontières ?

    Sara Prestianni : Alors que se négociait le pacte, on a observé une accélération des accords signés avec la #Tunisie, l’#Égypte ou le #Maroc. Il y a donc un lien très fort avec l’externalisation, même si le concept n’apparaît pas toujours dans le pacte. Là où il est très présent, c’est dans la notion de pays tiers sûr, qui facilite l’expulsion vers des pays où les migrants pourraient avoir des liens.

    On a tout de même l’impression que ceux qui ont façonné ce pacte ne sont pas très proches du terrain. Prenons l’exemple des Ivoiriens qui, à la suite des discours de haine en Tunisie, ont fui pour l’Europe. Les États membres seront en mesure de les y renvoyer car ils auront a priori un lien avec ce pays, alors même qu’ils risquent d’y subir des violences. L’Italie négocie avec l’#Albanie, le Royaume-Uni tente coûte que coûte de maintenir son accord avec le #Rwanda… Le risque, c’est que l’externalisation soit un jour intégrée à la procédure l’asile.

    Tania Racho : J’ai appris récemment que le pacte avait été rédigé par des communicants, pas par des juristes. Cela explique combien il est déconnecté de la réalité. Sur l’externalisation, le #non-refoulement est prévu par le traité sur le fonctionnement de l’UE, noir sur blanc. La Commission peut poursuivre l’Italie, qui refoule des personnes en mer ou signe ce type d’accord, mais elle ne le fait pas.

    Quel a été le rôle de l’Italie dans les discussions ?

    Sara Prestianni : L’Italie a joué un rôle central, menaçant de faire blocage pour l’accord, et en faisant passer d’autres dossiers importants à ses yeux. Cette question permet de souligner combien le pacte n’est pas une solution aux enjeux migratoires, mais le fruit d’un #rapport_de_force entre les États membres. L’#Italie a su instrumentaliser le pacte, en faisant du #chantage.

    Le pacte n’est pas dans son intérêt, ni dans celui des pays de premier accueil, qui vont devoir multiplier les enfermements et continuer à composer avec le règlement Dublin. Mais d’une certaine manière, elle l’a accepté avec la condition que la Commission et le Conseil la suivent, ou en tout cas gardent le silence, sur l’accord formulé avec la Tunisie, et plus récemment avec l’Albanie, alors même que ce dernier viole le droit européen.

    Tania Racho : Tout cela va aussi avoir un #coût – les centres de tri, leur construction, leur fonctionnement –, y compris pour l’Italie. Il y a dans ce pays une forme de #double_discours, où on veut d’un côté dérouter des bateaux avec une centaine de personnes à bord, et de l’autre délivrer près de 450 000 visas pour des travailleurs d’ici à 2025. Il y a une forme illogique à mettre autant d’énergie et d’argent à combattre autant les migrations irrégulières tout en distribuant des visas parce qu’il y a besoin de #travailleurs_étrangers.

    Le texte avait été présenté, au départ, comme une réponse à la « crise migratoire » de 2015 et devait permettre aux États membres d’être prêts en cas de situation similaire à l’avenir. Pensez-vous qu’il tient cet objectif ?

    Tania Racho : Pas du tout. Et puisqu’on parle des Syriens, rappelons que le nombre de personnes accueillies est ridicule (un million depuis 2011 à l’échelle de l’UE), surtout lorsqu’on le compare aux Ukrainiens (10 millions accueillis à ce jour). Il est assez étonnant que la comparaison ne soit pas audible pour certains. Le pacte ne résoudra rien, si ce n’est dans le narratif de la Commission européenne, qui pense pouvoir faire face à des arrivées mixtes.

    On a les bons et mauvais exilés, on ne prend pas du tout en compte les personnes exilées, on s’arrête à des objectifs de #gestion alors que d’autres solutions existent, comme la délivrance de #visas_humanitaires. Elles sont totalement ignorées. On s’enfonce dans des situations dramatiques qui ne feront qu’augmenter le tarif des passeurs et le nombre de morts en mer.

    Sara Prestianni : Si une telle situation se présente de nouveau, le règlement « crise » sera appliqué et permettra aux États membres de tout passer en procédure accélérée. On sera donc dans un cas de figure bien pire, car les entraves à l’accès aux droits seront institutionnalisées. C’est en cela que le pacte est dangereux. Il légitime toute une série de violations, déjà commises par la Grèce ou l’Italie, et normalise des pratiques illégales. Il occulte les mesures harmonisées d’asile, d’accueil et d’intégration. Et au lieu de pousser les États à négocier avec les pays de la rive sud, non pas pour renvoyer des migrants ou financer des barbelés mais pour ouvrir des voies légales et sûres, il mise sur une logique sécuritaire et excluante.

    Cela résonne fortement avec la loi immigration votée en France, supposée concilier « #humanité » et « #fermeté » (le pacte européen, lui, prétend concilier « #responsabilité » et « #solidarité »), et qui mise finalement tout sur le répressif. Un accord a été trouvé sur les deux textes au même moment, peut-on lier les deux ?

    Tania Racho : Dans les deux cas, la seule satisfaction a été d’avoir un accord, dans la précipitation et dans une forme assez particulière, entre la commission mixte paritaire en France et le trilogue au niveau européen. Ce qui est intéressant, c’est que l’adoption du pacte va probablement nécessiter des adaptations françaises. On peut lier les deux sur le fond : l’idée est de devoir gérer les personnes, dans le cas français avec un accent particulier sur la #criminalisation_des_étrangers, qu’on retrouve aussi dans le pacte, où de nombreux outils visent à lutter contre le terrorisme et l’immigration irrégulière. Il y a donc une même direction, une même teinte criminalisant la migration et allant dans le sens d’une fermeture.

    Sara Prestianni : Les États membres ont présenté l’adoption du pacte comme une grande victoire, alors que dans le détail ce n’est pas tout à fait évident. Paradoxalement, il y a eu une forme d’unanimité pour dire que c’était la solution. La loi immigration en France a créé plus de clivages au sein de la classe politique. Le pacte pas tellement, parce qu’après tant d’années à la recherche d’un accord sur le sujet, le simple fait d’avoir trouvé un deal a été perçu comme une victoire, y compris par des groupes plus progressistes. Mais plus de cinquante ONG, toutes présentes sur le terrain depuis des années, sont unanimes pour en dénoncer le fond.

    Le vote du pacte aura lieu au printemps 2024, dans le contexte des élections européennes. Risque-t-il de déteindre sur les débats sur l’immigration ?

    Tania Racho : Il y aura sans doute des débats sur les migrations durant les élections. Tout risque d’être mélangé, entre la loi immigration en France, le pacte européen, et le fait de dire qu’il faut débattre des migrations parce que c’est un sujet important. En réalité, on n’en débat jamais correctement. Et à chaque élection européenne, on voit que le fonctionnement de l’UE n’est pas compris.

    Sara Prestianni : Le pacte sera voté avant les élections, mais il ne sera pas un sujet du débat. Il y aura en revanche une instrumentalisation des migrations et de l’asile, comme un outil de #propagande, loin de la réalité du terrain. Notre bataille, au sein de la société civile, est de continuer notre travail de veille et de dénoncer les violations des #droits_fondamentaux que cette réforme, comme d’autres par le passé, va engendrer.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/au-niveau-europeen-un-pacte-migratoire-dangereux-et-deconnecte-de-la-reali
    #pacte #Europe #pacte_migratoire #asile #migrations #réfugiés