• #Roma_negata. Percorsi postcoloniali nella città
    Un viaggio attraverso la città per recuperare dall’oblio un passato coloniale disconosciuto.

    Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia: quali sono le tracce dell’avventura coloniale italiana a Roma? Roma negata è un viaggio attraverso la città per recuperare dall’oblio un passato coloniale disconosciuto e dare voce a chi proviene da quell’Africa che l’Italia ha prima invaso e poi dimenticato. Igiaba Scego racconta i luoghi simbolo di quel passato coloniale; Rino Bianchi li fotografa, assieme agli eredi di quella storia. Il risultato è una costruzione narrativa e visiva di un’Italia decolonizzata, multiculturale, inclusiva, dove ogni cittadino possa essere finalmente se stesso. Negli anni trenta del secolo scorso Asmara, Mogadiscio, Macallè, Tripoli, Adua erano nomi familiari agli italiani. La propaganda per l’impero voluta da Benito Mussolini era stata battente e ossessiva. Dai giochi dell’oca ai quaderni scolastici, per non parlare delle parate, tutto profumava di colonie. Di quella storia ora si sa poco o niente, anche se in Italia è forte la presenza di chi proviene da quelle terre d’Africa colonizzate: ci sono eritrei, libici, somali, etiopi. Il libro riprende la materia dell’oblio coloniale e la tematizza attraverso alcuni luoghi di Roma che portano le tracce di quel passato dimenticato. I monumenti infatti, più di altre cose, ci parlano di questa storia, dove le ombre sono più delle luci. Prende vita così un’analisi emozionale dei luoghi voluti a celebrazione del colonialismo italiano, attraverso un testo narrativo e delle fotografie. In ogni foto insieme al monumento viene ritratta anche una persona appartenente a quell’Africa che fu colonia dell’Italia. Scego e Bianchi costruiscono così un percorso di riappropriazione della storia da parte di chi è stato subalterno. «Volevamo partire dal Corno D’Africa, dall’umiliazione di quel colonialismo crudele e straccione, perché di fatto era in quel passato che si annidava la xenofobia del presente (…) Da Roma negata emerge quel Corno d’Africa che oggi sta morendo nel Mediterraneo, disconosciuto da tutti e soprattutto da chi un tempo l’aveva sfruttato».

    https://www.ediesseonline.it/prodotto/roma-negata

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    Citations :

    «Ma non tutte le memorie, lo stavo scoprendo con il tempo, avevano lo stesso trattamento.
    C’erano memorie di serie B e serie C. Memorie che nessuno voleva ricordare, perché troppo scomode, troppo vere.»

    (pp.16-17)

    «Ahi, il colonialismo italiano ferita mai risanata, ferita mai ricucita, memoria obliata»

    (p.18)

    «Ora la stele sta ad Axum, insieme alle sue sorelle etiopi. Ma a Piazza di Porta Capena cos’è rimasto di quel passaggio?
    Solo vuoto, solo silenzio, assenza, oblio, smemoratezza in salsa italica».

    (p.18)

    «E anche dimenticare la storia che lega Africa e Italia è un’infamia. Perché dimenticandola si dimentica di essere stati infami, razzisti, colonialisti. Italiani brava gente, ti dicono i più autoassolvendosi, e si continua beatamente a rifare gli stessi errori. Ieri i colonizzati, oggi i migranti, vittime di un sistema che si autogenera e autoassolve. Ecco perché sono ossessionata dai luoghi. E’ da lì che dobbiamo ricominciare un percorso diverso, un’Italia diversa.»

    (p.25)

    Sur le Cinema Impero :

    «Il colonialismo italiano era davanti ai loro occhi tutti i giorni con i suoi massacri, i suoi stupri, la sopraffazione dei corpi e delle menti. Era lì con la sua storia di lacrime e di sangue sparso. Era lì a testimoniare quel legame tra Africa e Italia. Un legame violento, cattivo, sporco e non certo piacevole. Anche nel nome quel cinema era violento. L’impero era quello che Benito Mussolini sognava per aver prestigio davanti alle altre potenze europee e soprattutto davanti a quell’Adolf Hitler che lo preoccupava tanto. L’imprero era quello del Mare Nostrum dove le faccette nere sarebbero state costrette a partorire balilla per la nazione tricolore. L’impero era quello che era riapparso ’sui colli fatali di Roma’. Un impero che Benito Mussolini nel discorso del 9 maggio 1936 aveva dichiarato
    ’Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate delle giovani, gagliarde generazioni italiane’.
    Era la violenza delle squadracce, ma anche gli sventramenti indiscriminati del tessuto urbano delle città africane.
    L’Africa colonizzata dagli italiani si rempì così di archi di trionfo, busti pavoneggianti, palazzi improbabili. In Somalia per esempio De Vecchis, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, aveva voluto costruire una cattedrale che fosse l’esatta copia di quella di Cefalù con le sue due torri altissime. Una volta costruita alcuni somali notarono l’altezza sproporzionata delle torri rispetto ai palazzi nei dintorni e cominciarono a definire la costruzione ’la doppia erezione’. E poi come dimenticare il faro di Capo Guardafui trasformato in un fascio littorio? Asmara (ma in generale l’Eritrea) fu quella che però subì più trasformazioni di tutti. Infatti fu chiamata da più parti la piccola Roma. Tra il 1935 e il 1941 gli architetti italiani si sbizzarrirono in questa città creando uno stile assai stravagante che mischiava modernismo, futurismo e un teutonico stile littorio.»

    (pp.32-33)

    Poésie de Ulisse Barbieri (anarchico poeta direttore del giornale « Combattiamo »), Dopo il disastro :

    «No, non è patriottismo, no, per DIO!
    Al massacro mandar nuovi soldati,
    Né tener lì... quei che si son mandati
    Perché dei vostri error paghino il Fio!
    Ma non capire... o branco di cretini...
    Che i patriotti... sono gli Abissini?»

    (p.56)

    «Il Risorgimento, se vogliamo dare anche questa lettura, fu la lotta di liberazione degli italiani dal dominio straniero, dal dominio coloniale. Una liberazione portata avanti da un’élite che si era legata ad uno strano potere monarchico, quello dei Savoia, ma pur sempre una liberazione. Ecco perché il colonialismo italiano è tra quelli europei uno dei più assurdi. Gli italiani, che avevano sperimentato sulla propria pelle il giogo straniero, ora volevano sottoporre lo stesso trattamento brutale a popolazioni che mai si erano sognate di mettersi contro l’Italia. Ma l’Italia voleva il suo posto al sole. Questa espressione sarà usata nel secolo successivo da Benito Mussolini per la guerra d’Etiopia, ma disegna bene le mire espansionistiche italiane anche durante questi primi passi come nazione neocoloniale. L’Italia, questa giovincella, viveva di fatto un complesso di inferiorità verso l’altra Europa, quella ricca, che conquistava e dominava. Si sentiva da meno di Gran Bretagna e Francia. Si sentiva sola e piccolina. Per questo l’Africa si stava affacciando nei pensieri di questa Italietta provinciale e ancora non del tutto formata. L’Italia voleva contare. Voleva un potere negoziale all’interno del continente europeo. E pensò bene (anzi male, malissimo!) di ottenerlo a spese dell’Africa.»

    (pp.56-57)

    «Venne infatti collocato davanti al monumento ai caduti un leone in bronzo proveniente direttamente da Addis Abeba. Non era un leone qualsiasi, bensì il celeberrimo #Leone_di_Giuda, simbolo che suggellava il patto dell’Etiopia con Dio. Sigillo, quindi, della tribù di Giuda, dal quale discendevano molti profeti e Cristo stesso.»

    (p.61)

    #Piazza_dei_cinquecento

    «E chi lo immaginava che proprio questa piazza babilonia fosse legata alal storia del colonialismo italiano? Infatti i cinquecento citati nel nome della piazza sono i cinquecento caduti di Dogali. Non so bene quando l’ho scoperto. Forse l’ho sempre saputo. E forse anche per questo, per un caso fortuito della vita, è diventata la piazza dei somali, degli eritrei, degli etiopi e anche di tutti gli altri migranti. Una piazza postcoloniale suo malgrado, quasi per caso. Perché è qui che la storia degli italiani in Africa orientale è stata cancellata. Nessuno (tranne pochi) sa chi sono stati i cinquecento o che cosa è successo a Dogali».

    (p.68)

    «Quello che successe in quei vent’anni scerellati non era solo il frutto di Benito Mussolini e dei suoi sgherri, ma di una partecipazione allargata del popolo italiano.
    Ed è forse questo il punto su cui non si è mai lavorato in Italia. In Germania per esempio non solo ci fu il processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti, ma anche un lavoro incessante e certosino sulla memoria. Nel nostro paese si preferì invece voltare pagina senza capire, interiorizzare, percorrere la memoria delle atrocità vissute e/o perpetrate. In Italia la memoria è divisa o dimenticata. Mai studiata, mai analizzata, mai rivissuta, mai ripensata. Soprattutto la storia in Italia non è mai stata decolonizzata. Il colonialismo fu inghiottito da questo oblio e quelli che furono dei punti di riferimento simbolici del fascismo furono lasciati andare alla deriva come fossero delle zattere fantasma in un fiume di non detto.»

    (p.87)

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    Obelisco di Axum, sur la Piazza Capena :

    «#Piazza_di_Porta_Capena fu teatro di alcune manifestazioni, e alcune riguardarono proprio le proteste per la restituzione dell’obelisco all’Etiopia. Ma in generale si può dire che il monumento era di fatto dimenticato. Stava lì, i romani lo sapevano, ma non ci facevano più tanto caso.
    Era lì, sola, immobile, eretta, dimenticata...
    Era lì lontana da casa...
    Era lì spogliata di ogni significato.
    Era giusto uno spartitraffico. Più imponente e raffinato di altri... certo, ma non tanto dissimile dai tanti alberi spennacchiati che svolgevano la stessa funzione in giro per la città.
    Nessuno per anni si occupò della stele. Qualcuno di tanto in tanto vagheggiava una ipotetica restituzione. Ma tutto era lento, tutto sembrava quasi impossibile.»

    (p.90)
    –-> 2005 :

    «Poi i soldi si trovarono e la stele ritornò a casa tra canti e balli popolari»

    (p.95)
    Et une fois restitué...

    «Ma il vuoto, mi chiedo, non si poteva colmare?
    Improvvisamente Piazza di Porta Capena divenne invisibile. Lo era già prima con la stele. Ma almeno con lei presente capitava che qualche romano la guardasse distrattamente e si interrogasse altrettanto distrattamente. Ma senza la stele il luogo è rimasto un non detto. Tutta la storia, tutto il dolore, tutte le nefandezze sparite con un colpo di spugna.»

    (p.96)

    «Quello che mi colpisce di questa polemica, di chi era contrario a una nuova stele e chi era a favore di un monumento nel sito del fu obelisco di Axum, è la totale assenza del dibattito del colonialismo italiano.
    Nessuno, da Fuksas a La Rocca, nominò mai i crimini di guerra che l’Italia fascista aveva compiuto contro l’Africa. Nessuno sottolineò il fatto che quella stele era un bottino di guerra. Nessuno percepì quel vuoto nella piazza come un vuoto di memoria. Anche un urbanista serio e sensibile come Italo Insolera disse non a caso che di obelischi era piena la città.
    Ora un monumento è stato messo. Ne ho parlato all’inizio del nostro viaggio. Un monumento per ricordare le vittime dell’11 settembre. Due colonne anonime di cui i romani ignorano il significato.»

    (pp.97-98)

    «La memoria non è negare quello che è stato, ma rielaborare quella vita passata, contestualizzarla e soprattutto non dimenticarla.»

    (p.101)

    «E poi la democrazia non si insegna, non si esporta, non si crea dal nulla. La democrazia è un moto spontaneo dell’anima. Ognuno ha il suo modo, i suoi tempi, le sue sfumature.»

    (p.103)

    Sur l’inscription sur le #Ponte_Principe_Amedeo_di_Savoia :

    «Comandante superiore delle forze armate dell’Africa Orientale Italiana durante unidici mesi di asperrima lotta isolato alla Madre Patria circondato dal nemico soverchiante per mezzo per forze confermava la già sperimentata capacità di condottiero sagace ed eroico. Aviatore arditissimo instancabile animatore delle proprie truppe le guidava ovunque per terra sul mare nel cielo in vittoriose offensive in tenaci difese impegnando rilevanti forze avversarie. Assediato nel ristretto ridotto dell’#Amba_Alagi alla testa di una schiera di prodi resisteva oltre il limite delle umane possibilità in un titanico sforzo che si imponeva all’ammirazione dello stesso nemico. Fedele continuatore delle tradizioni guerriere della stirpe sabauda puro simbolo delle romane virtù dell’Italia Imperiale Fascista. Africa Orientale Italiana 10 Giugno 1940, XVIII 18 maggio 1941. Motivazione della Medaglia d’Oro al valor militare conferita per la difesa dell’Impero.»

    «Ad Asmara gli abitanti del villaggio di Beit Mekae, che occupavano la collina più alta della città, furono cacciati via per creare il campo cintato, ovvero il primo nucleo della città coloniale, una zona interdetta agli eritrei. Una zona solo per bianchi. Quanti conoscono l’apartheid italiano? Quanti se ne vergognano?»

    (p.107)

    «Girando per Roma questo si percepisce molto bene purtroppo. I luoghi del colonialismo in città vengono lasciati nel vouto (Axum), nell’incuria (Dogali), nell’incomprensione (quartiere africano). Si cancella quello che è troppo scomodo. E’ scomodo per l’Italia ammettere di essere stata razzista. E’ scomodo ammettere che il razzismo di oggi ha forti radici in quello di ieri. E’ scomodo ammettere che si è ultimi anche nel prendersi le proprie responsabilità.»

    (p.107)

    «Etiopia e Eritrea avevano imbracciato le armi per una contesa sorta sul confine di Badme. Il confine era stato tracciato in modo incerto nel 1902 tra l’Italia (allora paese colonizzatore dell’Eritrea) e il regno d’Etiopia. E dopo più di un secolo Etiopia ed Eritrea si combattevano per quel mal nato confine coloniale»

    (p.112)

    «L’Europa è colpevole tutta per lo sfacelo di morte e dolore che sta riversando in uno dei mari più belli del mondo.»

    (p.124)

    «Per la maggior parte degli italiani, e dei media, erano semplicemente disperati, i soliti miserabili morti di fame (quasi un’icona, come il bambino del Biafra macilento e schelettrico), in fuga da guerra, dittatura e carestia. Una sorta di stereotipo universale, quello del disperato senza passato, senza presente e con un futuro impossibile da rivendicare.»

    (p.124)

    «Occupare uno spazio è un grido di esistenza.»

    (p.125)

    «La crisi è quando non sai che strada percorrere e soprattutto che strada hai percorso.»

    (p.125)

    «E come si fa a smettere di essere complici?
    In Somalia tutti i nomadi sanno che il miglior antidoto all’ignoranza, a quella jahilia che ci vuole muti e sordi, è il racconto. Io, che per metà vengo da questa antica stirpe di nomadi e cantastorie, so quanto valore può avere una parola messa al posto giusto. La storia va raccontata. Mille e mile volte. Va raccontata dal punto di vista di chi ha subito, di chi è stato calpestato, di chi ha sofferto la fame e la sete. La visione dei vinti, dei sopravvissuti, di chi ha combattuto per la sua libertà. Solo raccontando, solo mettendo in fila fatti, sensazioni, emozioni possiamo davvero farcela. Solo così le narrazioni tossiche che ci avvelenano la vita ci possono abbandonare. Il concetto di narrazione tossica viene dal collettivo Wu Ming:
    ’Per diventare ’narrazione tossica’, una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.
    E’ sempre narrazione tossica la storia che gli oppressori raccontano agli oppressi per giustificare l’oppressione, che gli sfruttatori raccontano agli sfruttati per giustificare lo sfruttamento, che i ricchi raccontano ai poveri per giustificare la ricchezza.’»

    (p.128)

    –-> sur la #narration_toxique (#narrazione_tossica) :
    https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/07/storie-notav-un-anno-e-mezzo-nella-vita-di-marco-bruno

    «La madre patria era nulla senza le sue colonie, per questo amava mostrarle succubi. Si era inventata il fardello dell’uomo bianco, la civilizzazione, la missione di Dio, solo per poter sfruttare il prossimo senza sensi di colpa.»

    (p.130)

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    Sur la gestion des #funérailles et de l’#enterrement des victimes du #naufrage du #3_octobre_2013 :
    https://seenthis.net/messages/971940

    #mémoire #livre #colonialisme_italien #colonisation #Italie #Rome #traces #paysage #géographie_urbaine #post-colonialisme #toponymie #monuments #mémoire #Igiaba_Scego #passé_colonial #photographie #oubli_colonial #histoire #Asmara #Erythrée #architecture #urbanisme #stele_di_dogali #Dogali #Tedali #Adua #massacre #ras_Alula #Saati #maggiore_Boretti #Ras_Alula #Tommaso_De_Cristoforis #Vito_Longo #Luigi_Gattoni #Luigi_Tofanelli #basci-buzuk #Ulisse_Barbieri #Taitù #regina_Taitù #Pietro_Badoglio #Rodolfo_Graziani #italiani_brava_gente #oubli #ponte_Amedeo_d'Aosta #Principe_Amedeo #mémoire #démocratie #troupes_coloniales #dubat #meharisti #Badme #frontières #frontières_coloniales #zaptiè #retour_de_mémoire #Affile #Ercole_Viri

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    ajouté à la métaliste sur la #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

    ping @cede @albertocampiphoto @olivier_aubert

    • Citation tirée du livre «#La_frontiera» de #Alessandro_Leogrande:

      «Si è acceso qualcoa dentro di me quando ho scoperto che alcuni dei campi di concentramento eretti negli ultimi anni da Isaias Afewerki per reprimere gli oppositori sorgono negli stessi luoghi dove erano disposti i vecchi campi di concentramento del colonialismo italiano.
      In particolare nelle isole di #Dahlak, cinquanta chilometri al largo di Massaua, dove le galere italiane sono state prima riutilizzate dagli occupanti etiopici e in seguito dallo stesso regime militare del Fronte.
      Il penitenziario di #Nocra, una delle isole dell’arcipelago, fu attivo dal 1887 (proprio l’anno dell’eccidio di Dogali) al 1941, come ricorda Angelo Del Boca in Italiani, brava gente? Vi furono rinchiusi prigionieri comuni, ascari da punire, detenuti politici, oppositori e, dopo l’inizio della campagna d’Etiopia nel 1935, ufficiali e funzionari dell’impero di Hailé Selassié, perfino preti e monaci. (...) L’idea di fare di Nocra e delle isole limitrofe una gabbia infernale si è tramandata nel tempo, da regime a regime»

      (p.85-86)

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      Sul Campo di concentramento di Nocra

      Il campo di Nocra o carcere di Nocra fu il più grande campo di prigionia italiano nella Colonia eritrea e dal 1936 il più grande dell’Africa Orientale Italiana. Venne aperto nel 1887 e chiuso nel 1941 dagli inglesi. Era situato nell’isola di Nocra, parte dell’Arcipelago di Dahlak, a 55 chilometri al largo di Massaua. Dal 1890 al 1941 fece parte del Commissariato della Dancalia. Arrivò a detenere tra un minimo di 500 prigionieri e un massimo di 1.800[1].


      https://it.wikipedia.org/wiki/Campo_di_concentramento_di_Nocra

      #camp_de_concentration #Tancredi_Saletta #Oreste_Baratieri

    • #Igiaba_Scego: “Scopriamo i simboli della storia coloniale a Roma per riempire un vuoto di memoria”

      Igiaba Scego, scrittrice italo somala autrice di libri come ‘Roma negata’ e ‘La linea del colore’, racconta e spiega i simboli del colonialismo presenti nella capitale. Spesso sconosciuti, ignorati, o lasciati nel degrado, narrano una storia che l’Italia ha rimosso: quella delle guerre coloniali che ebbero luogo anche prima del fascismo, e che oggi rappresentano il ‘vuoto di memoria’ del nostro paese. Un dibattito che si è accesso a Roma dopo la decisione di intitolare la stazione della metro C al partigiano italo-somalo #Giorgio_Marincola e non chiamarla più #Amba_Aradam.

      A Roma da qualche settimana si parla dei simboli e dei nomi del rimosso coloniale italiano, grazie alla proposta di intitolare la stazione della metro C su via dell’Amba Aradam a Giorgio Marincola, partigiano italo-somalo morto durante la Resistenza. Una proposta diventata realtà con il voto del consiglio comunale che ha deciso che Roma non appellerà una stazione della metropolitana ‘Amba Aradam’, l’altipiano montuoso dove l’esercito italiano massacrò 20.000 uomini e donne con bombardamenti a tappeto e l’utilizzo di armi chimiche. Di questo e altro abbiamo parlato con la scrittrice Igiaba Scego.

      Quali sono i simboli coloniali a Roma che andrebbero spiegati e sui quali bisognerebbe accendere l’attenzione?

      Non sono molti ma sono collocati in punti simbolici. A Roma, tra piazza della Repubblica e la stazione Termini c’è la Stele di Dogali, a riprova che il colonialismo non è stato solo fascista ma anche ottocentesco. L’obelisco è egiziano ma ha un basamento ottocentesco dedicato alla battaglia avvenuta nel 1887 a Dogali, in Eritrea, dove una colonna italiana venne intercettata e massacrata. Da lì anche il nome di piazza dei 500 davanti la stazione Termini. Di questa battaglia ne ho parlato in due libri, ‘Roma negata’ e ‘La linea del colore’. E nella piazza dove c’è la Stele, s’incontra il colonialismo con le migrazioni di oggi. Questo monumento, che nessuno conosce, è tra l’altro lasciato nel degrado. C’è poi il ponte Duca d’Aosta nei pressi del Vaticano, o il Cinema Impero a Tor Pignattara, che oggi si chiama Spazio Impero. Oltre al fatto di inserire il termine ‘impero’ nel nome, la struttura è quasi uguale a un cinema che è stato realizzato ad Asmara in Eritrea. Ma la cosa che colpisce di più sono i vuoti. Negli anni ’30, venne portata da Mussolini come bottino di guerra dall’Etiopia la Stele di Axum. Questa fu posizionata a piazza di Porta Capena, dove inizia anche il libro ‘Roma negata’. Dopo la guerra, non è stata restituita subito. Nel 1960, Abebe Bikila (campione olimpionico etiope) ha vinto i Giochi di Roma correndo a piedi nudi. Ho sempre pensato che il motivo della sua vittoria non fu solo la sua capacità fisica e la sua caparbietà, ma anche il dover essere costretto a passare per ben due volte davanti la Stele sottratta al suo popolo. Sono convinta che gli abbia dato lo sprint per vincere. La Stele fu poi restituita all’Etiopia negli anni Duemila, tra mille polemiche. Il problema è che ora in quella piazza non c’è nulla, solo due colonnine che rappresentano le Torri Gemelli e di cui nessuno sa nulla. Sarebbe stato giusto ergere sì un monumento per ricordare l’11 settembre, ma soprattutto uno per ricordare le vittime del colonialismo italiano e chi ha resistito ai colonizzatori. Un monumento riparatore per avvicinare i popoli vista la storia scomoda. Quella piazza rappresenta il vuoto di memoria, è come se qualcuno avesse fotografato il rimosso coloniale".

      Quali potrebbero essere i passi da compiere per far emergere il rimosso coloniale?

      Inserirlo nei programmi scolastici e nei libri di testo. Negli ultimi anni è emersa una certa sensibilità e tanti libri sono entrati a scuola grazie agli insegnanti. Sarebbe bello però avere anche nei programmi non solo la storia del colonialismo, ma anche il punto di vista del sud globale. Mi piacerebbe che la storia italiana fosse studiata globalmente, e far emergere le connessioni dell’Italia con l’Europa, l’Africa, l’America Latina e l’Asia. Non penso solo al colonialismo, ma anche alla storia delle migrazioni italiane. Alle superiori andrebbe studiata soprattutto la storia del ‘900. L’altro giorno è scoppiata quella bomba terribile a Beirut: quanti studenti e studentesse sanno della guerra civile in Libano? Sempre nella direzione di far emergere il rimosso coloniale, sarà istituito un museo che si chiamerà ‘Museo italo – africano Ilaria Alpi’. Ma la cosa che servirebbe tantissimo è un film o una serie tv. Presto sarà tratto un film da ‘The Shadow King’, libro di Maaza Mengiste, una scrittrice etiope – americana, che parla delle donne etiopi che resistono all’invasione fascista degli anni ’30. Un libro bellissimo e importante, come è importante che la storia del colonialismo italiano sia raccontata da un prodotto culturale potenzialmente globale. Ma perché un film sul colonialismo italiano lo deve fare Hollywood e non Cinecittà? Perché c’è ancora questa cappa? Non penso a un film nostalgico, ma a una storia che racconti la verità, la violenza. Serve sia lo studio alto sia il livello popolare. Altrimenti il rischio è che diventi solo un argomento per studiosi. È bello che escano libri all’estero, ma dobbiamo fare un lavoro anche qui.

      Quali sono le figure, magari anche femminili, che dovrebbero essere valorizzate e raccontate?

      Metterei in scena la collettività. Un’idea è fare un murales. Nel Medioevo le cattedrali erano piene di affreschi, e attraverso le immagini è stata insegnata la storia della chiesa. Userei la stessa tecnica, mostrando le immagini della resistenza anche delle donne etiope e somali. Servirebbe poi creare qualcosa che racconti anche le violenze subite nel quotidiano, perché non ci sono solo le bombe e i gas, ma anche i rapporti di potere. Mio padre ha vissuto il colonialismo e mi raccontava che prima dell’apartheid in Sudafrica c’era l’apartheid nelle città colonizzate, dove c’erano posti che non potevano essere frequentati dagli autoctoni. Racconterei queste storie sui muri delle nostre città e nelle periferie. È importante ricordare ciò che è stato fatto anche lì.

      https://www.fanpage.it/roma/igiaba-scego-scopriamo-i-simboli-della-storia-coloniale-a-roma-per-riempire-
      #histoire_coloniale #mémoire #symboles

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      –-> sur la nouvelle toponymie de la station de métro:
      https://seenthis.net/messages/871345

    • Citations tirées du livre « #La_frontiera » de #Alessandro_Leogrande :

      «Dopo aver letto Roma negata, il libro di Igiaba Scego sui monumenti, le targhe, le lapidi e i palazzi della capitale che ricordano il colonialismo, sono andato a vedere l’#oblisco_di_Dogali. (...) Il libro è un viaggio nelle pieghe di Roma alla ricerca delle tracce del passato coloniale.
      (...)
      Il paradosso è che la rimozione del passato coloniale riguarda esattamente quelle aree che a un certo punto hanno cominciato a rovesciare i propri figli verso l’Occidente. Sono le nostre ex colonie uno dei principali ventri aperti dell’Africa contemporanea. I luoghi di partenza di molti viaggi della speranza sono stati un tempo cantati ed esaltati come suolo italiano, sulle cui zolle far sorgere l’alba di un nuovo impero»

      (pp.80-81)

      «In realtà il mausoleo [l’obelisco di Dogali], realizzato già nel giugno 1887 dall’architetto #Francesco_Azzurri, fu inizialmente collocato nella vicina piazza dei Cinquecento, l’enorme capolinea degli autobus che sorge davanti alla stazione Termini e si chiama così in onore dei caduti di #Dogali. Ma poi, nei primi anni del regime fascista, fu spostato qualche centinaio di metri in direzione nord-ovest, verso piazza della Repubblica. Ed è lì che è rimasto»

      (pp.82-82)

      https://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/la-frontiera

  • Le #Programme_frontières de l’#Union_Africaine

    Plus de 26 frontières africaines ont été re-délimitées par le Programme frontières de l’Union Africaine depuis 2007. Pourquoi et comment sommes-nous en train d’assister à une #re-délimitation des frontières de l’Afrique ?

    Le partage de l’Afrique commencé à la fin du XIXe siècle n’est toujours pas terminé. L’histoire de ces frontières créées à la hâte dans des chancelleries européennes avec une connaissance quasi inexistante des États africains est pourtant relativement bien connue. Cette méconnaissance des réalités africaines par les Européens du XIXe siècle a conduit à une délimitation souvent grossière (mais pas toujours) des colonies africaines, tant sur le plan juridique que pratique, et a encore des conséquences aujourd’hui.

    Pourtant, les frontières entre les différents empires coloniaux ont été délimitées de manière relativement précise par des traités internationaux au début du XXe siècle. Le travail pratique des commissions des frontières était particulièrement important pour l’érection de points de repère physiques le long des frontières internationales. Cependant, beaucoup de ces points de repère ont disparu aujourd’hui. En outre, les #frontières_coloniales créées au sein des empires coloniaux ont rarement été délimitées avec précision et leur localisation peut s’avérer difficile. Par exemple, la frontière entre le #Niger et le #Nigeria était mieux définie que celle entre le #Niger et le #Mali. La première séparait une colonie française et britannique (voir ce que j’ai écrit sur le Borno) tandis que la seconde n’était qu’une limite entre deux colonies françaises.

    Lorsque les pays africains sont devenus indépendants entre les années 1950 et 1970, les dirigeants nouvellement élus ont difficilement remis en question cet héritage et des limites coloniales mal définies sont devenues des frontières internationales. Malgré l’importance des idées panafricanistes dans quelques pays et parmi la diaspora, les frontières coloniales sont restées intactes. Créée en 1963, l’Organisation de l’unité africaine (OUA), malgré son nom, a consacré leur existence. La résolution de 1964 de l’OUA au Caire « déclare ainsi solennellement que tous les Etats membres s’engagent à respecter les frontières existant au moment où ils ont accédé à l’indépendance ». Les frontières créées à la hâte en Europe à des fins coloniales deviennent ainsi en quelques années des frontières internationales.

    Afin de préserver ces frontières, l’OUA a toujours déclaré que ses États membres devaient affecter une partie de leur budget à leur démarcation des frontières. Cependant, cet engagement n’a pas réellement porté ses fruits. Les difficultés économiques et politiques ont rendu ce projet irréalisable jusqu’au début du XXIe siècle. C’est la raison pour laquelle l’organisation qui a succédé à l’OUA, l’Union africaine (UA), a créé le Programme frontières de l’Union africaine à Addis-Abeba (Éthiopie) en 2007.

    Comme les deux tiers des frontières africaines n’ont jamais été délimitées avec précision sur le terrain, sa tâche est colossale. Des progrès ont déjà été constatés et à la fin de 2018, plus de 26 frontières africaines avaient été délimitées par ce Programme frontières (4 700 km sur 83 500 km). De plus, le Programme frontières a créé une dynamique pour ses États membres qui ont signé un nombre considérable de traités, de protocoles d’entente et de protocoles depuis 2007.

    Tout comme pour l’#UA en général, la résolution des conflits et le maintien de la paix sont des objectifs évidents pour le Programme frontières et l’un de ses principaux objectifs est de prévenir les différends frontaliers. Le Programme frontières entend empêcher des #différents_frontaliers entre Etats membres de l’UA. Par exemple, l’existence présumée de ressources en gaz naturel et minérales à la frontière entre le Mali et le Burkina Faso aurait été à l’origine de deux guerres courtes en 1974 et en 1985. Le conflit a été réglé par la Cour internationale de Justice en 1986. Le Programme frontières aurait donc pour but d’empêcher les institutions internationales de s’immiscer dans les affaires africaines. Son rôle dépasse la simple technicité apparente de la démarcation des frontières.

    Les dimensions développementales et économiques du Programme frontières sont extrêmement claires. Le Programme frontières n’hésite pas à utiliser un langage inspiré par le consensus de Washington et cherche à promouvoir le libre-échange. Les frontières ne doivent pas être considérées comme un obstacle, mais doivent offrir des opportunités économiques aux communautés et aux États frontaliers. Ses activités sont principalement axées sur les populations vivant dans les zones commerciales des régions déchirées par des conflits. Par exemple, la région frontalière entre l’Ouganda et la République démocratique du Congo.

    L’UA et son Programme frontières sont officiellement responsables pour la diffusion de la conception dite westphalienne des frontières et de la #souveraineté. Cette conception qui tire son origine d’Europe et du #traité_de_Westphalie de 1648 revient à faire rentrer les pays africains dans un système international. Cette intégration politique et économique qui rappelle l’Union européenne n’est pas une coïncidence, le Programme frontières étant financé par la coopération allemande (Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit ou GIZ). Avec plus de 47 millions d’euros investis dans le Programme frontières, les Allemands et donc les Européens continuent toujours à influencer la création des frontières en Afrique même si à la différence de la fin du XIXe siècle, les décisions sont prises maintenant par les dirigeants africains membres du Programme frontières.

    http://libeafrica4.blogs.liberation.fr/2019/07/22/le-programme-frontieres-de-lunion-africaine
    #Afrique #démarcation #frontières_linéaires #ligne #Allemagne #post-colonialisme #frontière-ligne #lignes_frontalières #géographie_politique

    ping @isskein @visionscarto

  • Contested waters: Conflict on Africa′s Great Lakes | Africa | DW | 27.08.2018
    https://www.dw.com/en/contested-waters-conflict-on-africas-great-lakes/a-45245425

    The colonial power artificially drew the borders between the states — and often along the lakes — explains Clark. As a result, there is a higher potential for conflict in the border regions today. In the ongoing dispute over their claims to land and resources, some states still invoke this colonial-era demarcation.

    #conflits #héritage #colonisation #Afrique #frontières

    • Débat. Abolir les frontières coloniales en Afrique

      Pour le penseur camerounais Achille Mbembe, la prochaine phase de la décolonisation de l’Afrique est l’abolition des territoires hérités de la colonisation.


      https://www.courrierinternational.com/article/debat-abolir-les-frontieres-coloniales-en-afrique

    • Débat. Abolir les frontières coloniales en Afrique

      Publié le 26/05/2017 - 17:21

      Pour le penseur camerounais Achille Mbembe, la prochaine phase de la décolonisation de l’Afrique est l’abolition des territoires hérités de la colonisation.

      La gouvernance de la mobilité humaine pourrait bien être le principal problème auquel sera confronté le monde en cette première moitié de XXIe siècle. À l’échelle internationale, les effets conjugués d’un capitalisme rapide et d’une saturation du quotidien par les technologies numériques et informatiques ont conduit à l’accélération et à l’intensification des connexions. À ce titre, nous vivons une époque d’interdépendance planétaire. Or, où que l’on regarde, la tendance est résolument au repli sur soi. Si elle persiste, elle débouchera sur un monde de plus en plus confiné, fait de toutes sortes d’enclaves, de culs-de-sac et de frontières mouvantes, mobiles et diffuses.

      Le pouvoir de décider qui peut se déplacer, où et dans quelles conditions sera au cœur de luttes politiques sur la souveraineté. Le droit des ressortissants étrangers à franchir les frontières d’un pays d’accueil et à entrer sur son territoire n’a certes pas encore été officiellement aboli. Mais, comme le montrent les innombrables événements auxquels nous assistons actuellement, il devient de plus en plus procédural et peut être suspendu ou révoqué à tout instant, sous n’importe quel prétexte.

      Si nous sommes à deux doigts d’en arriver là, c’est parce qu’un nouveau régime sécuritaire mondial est en train de prendre corps. Un régime caractérisé par l’externalisation, la militarisation et la miniaturisation des frontières, une infinie segmentation et restriction des droits et le déploiement quasi généralisé de techniques de pistage et de surveillance, perçues comme la méthode de prévention idéale. Or sa fonction première est de faciliter la mobilité de certaines personnes tout en l’interdisant ou en la refusant à d’autres. Ce régime sécuritaire ouvre la voie à des formes inédites de violence raciale, ciblant le plus souvent des minorités, des individus dépossédés de leurs droits et déjà vulnérables. Une violence entretenue par de nouvelles logiques de rétention et d’emprisonnement, d’expulsion et de refoulement.

      De plus, la mobilité est aujourd’hui plus volontiers définie en termes géopolitiques, militaires et sécuritaires. Théoriquement, les individus présentant un profil à faible risque ont toute latitude pour se déplacer. Dans les faits, l’évaluation du risque sert surtout à justifier un traitement inégal et discriminatoire fondé sur des critères de couleur de peau.

      Alors que la tendance à la balkanisation et au repli sur soi se confirme, la redistribution inégale des capacités à négocier les frontières à l’échelle internationale devient un caractère dominant de notre époque. Dans les pays du Nord, le racisme anti-immigrés ne cesse de gagner du terrain. Les “non-Européens” et les “non-Blancs” sont soumis à des formes de violence et de discrimination plus ou moins flagrantes.

      La rhétorique même du racisme a changé : les concepts de différence et d’extranéité sont désormais ouvertement analysés en termes culturels ou religieux.

      À l’échelle mondiale, il s’agit à présent de priver autant de personnes que possible du droit à la mobilité, ou du moins de l’assortir de règles draconiennes qui, objectivement, empêchent tout déplacement. Lorsque ce droit à la mobilité est reconnu et accordé, on déploie autant d’efforts pour rendre le droit de séjour aussi incertain et précaire que possible. Dans ce modèle ségrégationniste de circulation mondiale, l’Afrique est doublement pénalisée, de l’extérieur et de l’intérieur.

      Double handicap

      Pratiquement tous les pays considèrent aujourd’hui les migrants africains comme des indésirables. Parallèlement, l’Afrique, elle-même aux prises avec des centaines de frontières intérieures qui renchérissent les coûts de la mobilité au point de les rendre prohibitifs, reste à la traîne et ressemble de plus en plus à une prison à ciel ouvert.

      Pour contenir les flux migratoires d’Afrique subsaharienne, l’Europe finance ainsi les pays d’origine et de transit afin que les candidats à l’exil y restent ou ne puissent jamais traverser la Méditerranée. À cet égard, l’objectif ultime du fonds fiduciaire d’urgence de l’Union européenne pour l’Afrique est de fermer aux Africains toute voie de migration légale un tant soit peu crédible.

      En échange d’argent, des régimes africains brutaux et corrompus sont chargés d’emprisonner les migrants africains et de retenir chez eux les demandeurs d’asile. Beaucoup de ces pays sont devenus des rouages essentiels du système d’expulsions et de rapatriements forcés sur lequel repose la politique migratoire antiafricaine de l’Europe.

      De fait, aucun voyageur muni d’un passeport africain – ou aucun individu d’origine africaine – n’est aujourd’hui à l’abri d’une fouille abusive ou d’une détention arbitraire.

      Rares sont ceux qui échappent aux interminables contrôles d’identité inquisiteurs dans les aéroports et dans les trains, sur les autoroutes ou aux barrages routiers. Rares aussi ceux qui bénéficient du droit à une audition équitable avant d’être maintenus en zone d’attente ou refoulés.

      Aux frontières et autres points de contrôle, ils figurent presque systématiquement parmi les personnes soumises à des contrôles sévères ou scrupuleusement et intégralement fouillées. Constamment sous la menace d’un contrôle au faciès, ils sont presque toujours parmi ceux qui sont interdits d’entrée ou pénalisés.

      La mobilité, vecteur de changement

      Les pays postcoloniaux d’Afrique n’ont pas su se doter d’un cadre législatif commun pour coordonner leur politique de gestion des frontières, de modernisation des registres d’état civil, de libéralisation des visas ou du traitement de ressortissants de pays tiers résidant légalement dans des États membres. La fin du pouvoir colonial n’a pas laissé place à une ère nouvelle garantissant à tous la liberté de circuler. Les frontières coloniales sont au contraire devenues intangibles et aucune initiative décisive en faveur d’une intégration régionale n’a été entreprise. À l’exception de la Communauté économique des États d’Afrique occidentale (Cédéao), le droit à la mobilité à l’intérieur et au-delà dees frontières nationales et régionales reste une illusion.

      À une époque où tout va très vite, la mobilité lente coïncide systématiquement avec la couleur de peau et, paradoxalement, le continent africain est lui-même pris au piège de la lenteur.

      Cela n’a pas toujours été le cas.

      Pour élaborer une politique migratoire centrée sur l’Afrique, les catégories et concepts empruntés au lexique occidental, comme “intérêt national”, “risques”, “menaces” ou “sécurité nationale” ne nous sont d’aucune utilité. Ils renvoient à une philosophie des déplacements et à une philosophie de l’espace qui reposent entièrement sur le présupposé de l’existence d’un ennemi dans un monde hostile. C’est d’ailleurs la raison pour laquelle des traditions profondément ancrées relevant de l’antihumanisme occidental trouvent leur expression la plus manifeste dans les politiques antimigratoires actuelles, utilisées pour mener une guerre sociale à l’échelle mondiale.

      L’Afrique précoloniale n’était certes pas un monde sans frontières, mais lorsqu’il y en avait elles étaient toujours poreuses et perméables. Comme en témoignent les traditions de commerce de longue distance, la liberté de circulation a été un instrument fondamental dans la production de formes culturelles, politiques, économiques et sociales. Les espaces et les territoires ont été délimités et organisés selon le principe de mobilité, principal vecteur de transformation et de changement. Les réseaux, les flux et les carrefours d’influences étaient plus déterminants que les frontières. Le plus important tenait à cette dynamique des flux de déplacement.

      Dans ce régime de confluences souples mais généralisées, une forte mobilité de toutes les strates de la société était également un moyen de surmonter les sentiments de vulnérabilité et d’incertitude. Les frontières politiques permettaient bien entendu de distinguer les premiers arrivants, membres à part entière d’une communauté, des étrangers ou nouveaux venus. Mais la richesse humaine a toujours surpassé la richesse matérielle, et il y a toujours eu des formes d’appartenance multiples. La norme consistait alors à sceller des alliances par les échanges commerciaux, les mariages ou la religion, et à intégrer les nouveaux venus, les réfugiés et les demandeurs d’asile aux communautés existantes.
      Une invention coloniale

      L’État n’était qu’une forme de gouvernement populaire parmi tant d’autres. Et la notion de peuple englobait non seulement les vivants, mais aussi les morts et les enfants à naître, les êtres humains et tous les autres êtres vivants.

      Tout individu, fût-il un ennemi, avait droit à l’hospitalité. Les étrangers qui arrivaient dans un pays dans des dispositions pacifiques n’étaient pas traités en ennemis. Ils avaient toutes les chances de s’intégrer durablement à la population et le droit de séjour temporaire était quasi universel.

      Diviser les territoires par des frontières politiques est une invention coloniale. En instituant un rapport d’hostilité entre la circulation des personnes et l’organisation politique de l’espace, le pouvoir colonial a inauguré une nouvelle phase dans l’histoire de la mobilité en Afrique.
      À lire aussi Entretien. “Je comprends pourquoi les migrants fuient leur pays”

      En reprenant le modèle de territorialité axé sur l’État, qui délimite des nations aux frontières fermées et bien gardées, les pays africains postcoloniaux ont rompu avec les très anciennes traditions de liberté de circulation qui avaient toujours été le moteur du changement sur le continent. Ce faisant, ils ont adopté la logique antihumaniste inhérente aux philosophies occidentales de mobilité et d’espace et l’ont retournée contre leur propre peuple.

      Depuis, la fétichisation de l’État-nation a provoqué des dégâts considérables sur la destinée de l’Afrique dans le monde. Le coût humain, économique, culturel et intellectuel du régime existant de frontières sur le continent a été colossal. Il est temps d’y mettre un terme. Devenir une vaste zone de liberté de circulation est sans conteste le plus grand défi auquel l’Afrique aura à répondre au XXIe siècle. L’avenir de l’Afrique ne saurait être assuré par des politiques migratoires restrictives ni une militarisation des frontières.
      Démantèlement des États-nations

      Le continent doit s’ouvrir à lui-même. Il doit devenir un grand espace de circulation. C’est pour lui l’unique moyen de se recentrer sur lui-même dans un monde multipolaire. Pour faire de la mobilité la pierre angulaire du nouveau programme panafricain, nous devons renoncer aux modèles migratoires fondés sur des concepts antihumanistes tels l’“intérêt national” et en revenir à nos anciennes traditions de souveraineté mouvante et diffuse et de sécurité collective.

      Sur un continent où l’organisation coloniale a démantelé les frontières des États-nations, et où ceux-ci disposent pourtant encore de quelque capacité à contrôler, à recenser et à surveiller les individus, il est grand temps que les pays africains développent une véritable politique commune de la mobilité, assise sur des instruments juridiquement contraignants.

      Pour réaliser cet objectif d’un continent sans frontières, les méthodes d’identification biométrique et les bases de données interconnectées seront peut-être inévitables. Mais nous devrions utiliser les procédures d’identification et les technologies de sécurité non pour consolider le régime de double confinement auquel l’Afrique a été astreinte, mais pour accroître la mobilité sur le continent.
      Prochaine phase de la décolonisation

      Nous arrivons à un point où, du fait du contexte géopolitique actuel, des puissances extérieures pourraient être en mesure de dicter à chacun de nos fragiles États nationaux les conditions dans lesquelles notre propre population aurait le droit de se déplacer, même à l’intérieur de l’Afrique proprement dite.

      La prochaine phase de la décolonisation de l’Afrique consistera à garantir la mobilité à tous ses habitants et à redéfinir les modalités d’appartenance à un ensemble politique et culturel qui ne se limite pas à l’État-nation. Aucun pays n’est mieux placé pour prendre la tête de cette initiative que l’Afrique du Sud.

      Si rien n’est fait, nous ne ferons que renforcer les classifications raciales déjà ancrées dans l’imaginaire mondial, et qui nous valent d’être constamment humiliés et dépossédés de notre dignité dès que nous franchissons une frontière dans le monde contemporain

      Achille Mbembe

  • Africa’s borders split over 177 ethnic groups, and their ’real’ lines aren’t where you think

    If we were to redraw Africa’s borders to have each ethnic group in their own country, we would have at least 2,000 countries

    http://cdn.mg.co.za/crop/content/images/2015/01/11/zimnamibiaborder_landscape.jpg/633x356
    http://mgafrica.com/article/2015-01-09-africas-real-borders-are-not-where-you-think
    #colonialisme #frontière #Afrique #frontières_coloniales #frontières_ethniques