• #Interpol makes first border arrest using Biometric Hub to ID suspect

    Global database of faces and fingerprints proves its worth.

    European police have for the first time made an arrest after remotely checking Interpol’s trove of biometric data to identify a suspected smuggler.

    The fugitive migrant, we’re told, gave a fake name and phony identification documents at a police check in Sarajevo, Bosnia and Herzegovina, while traveling toward Western Europe. And he probably would have got away with it, too, if it weren’t for you meddling kids Interpol’s Biometric Hub – a recently activated tool that uses French identity and biometrics vendor Idemia’s technology to match people’s biometric data against the multinational policing org’s global fingerprint and facial recognition databases.

    “When the smuggler’s photo was run through the Biometric Hub, it immediately flagged that he was wanted in another European country,” Interpol declared. “He was arrested and is currently awaiting extradition.”

    Interpol introduced the Biometric Hub – aka BioHub – in October, and it is now available to law enforcement in all 196 member countries.

    Neither Interpol nor Idemia immediately responded to The Register’s questions about how the technology and remote access works.

    But Cyril Gout, Interpol’s director of operational support and analysis, offered a canned quote: “The Biometric Hub helps law enforcement officers know right away whether the person in front of them poses a security risk.”

    That suggests Interpol member states’ constabularies can send biometric data to BioHub from the field and receive real-time info about suspects’ identities.

    The multinational policing org has said that Hub’s “biometric core” combines Interpol’s existing fingerprint and facial recognition databases, which both use Idemia tech, with a matching system also based on Idemia’s biometric technology.

    Interpol and Idemia have worked together for years. In 1999, he police organization chose Idemia to develop its fingerprint database, called the Automated Fingerprint Identification System (AFIS). And then in 2016, Interpol inked another contract with Idemia to use the French firm’s facial recognition capabilities for the Interpol Face Recognition System (IFRS).

    According to Idemia, the latest version of its Multibiometric Identification System, MBIS 5, uses “new generation algorithms which provide a higher matching accuracy rate with a shorter response time and a more user-friendly interface.”

    In its first phase, Interpol will use MBIS 5 to identify persons of interest (POIs) for police investigations.

    A second phase, which will take two years to become fully operational, will extend the biometric checks to border control points. During this phase the system will be able to perform up to one million forensic searches per day – including fingerprints, palm prints, and portraits.

    Interpol expects the combined fingerprints and facial recognition system will speed future biometric searches. Instead of running a check against separate biometric databases, BioHub allows police officers to submit data to both through one interface, and it only requires human review if the “quality of the captured biometric data is such that the match falls below a designated threshold.”

    To address data governance concerns, Interpol claims BioHub complies with its data protection framework. Additionally, scans of faces and hands uploaded to the Hub are not added to Interpol’s criminal databases or made visible to other users. Any data that does not result in a match is deleted following the search, we’re told.

    While The Register hasn’t heard of any specific data privacy and security concerns related to BioHub, we’re sure it’s only a matter of time before it’s misused.

    America’s Transportation Security Agency (TSA) over the summer also said it intends to expand its facial recognition program, which also uses Idemia’s tech, to screen air travel passengers to 430 US airports. The TSA wants that capability in place within ten years.

    The TSA announcement was swiftly met with opposition from privacy and civil rights organizations, along with some US senators who took issue [PDF] with the tech.

    https://www.theregister.com/2023/12/01/interpol_biohub_arrest

    #frontières #contrôles_frontaliers #technologie #empreintes_digitales #biométrie #Interpol #migrations #asile #réfugiés #Biometric_Hub #Balkans #route_des_Balkans #Bosnie-Herzégovine #Idemia #reconnaissance_faciale #passeurs #BioHub #extradition #sécurité #risque #interopérabilité #base_de_données #Automated_Fingerprint_Identification_System (#AFIS) #Interpol_Face_Recognition_System (#IFRS) #Multibiometric_Identification_System #MBIS_5 #algorithmes #persons_of_interest (#POIs) #portraits #Transportation_Security_Agency (#TSA)

  • L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

  • Europe’s Nameless Dead

    As more people try to reach Western Europe through the Balkans, taking increasingly dangerous routes to evade border police, many are dying without a trace

    When hundreds of thousands of refugees crossed through the Balkans in 2015, border controls were limited and there were few fences or walls. The route was largely open.

    After several years of lull, the number of people making this journey recently increased again. Last year saw the highest number of crossings since 2015, predominantly due to ongoing conflicts in Afghanistan and hostile treatment of refugees in Turkey.

    But the Balkan route has changed in the last eight years. With the help of funding from both the EU and the UK, countries in the Balkans have erected fences and built walls. When border police catch people seeking asylum, they often force them back over the border.

    Subsequently, those making the journey often take longer and more dangerous routes in order to evade the police – and the consequences can be deadly; people are freezing to death in forests, drowning in rivers or dying from sheer exhaustion.

    There is no official data on the number of dead and missing migrants in the Balkans. Efforts that have been made to collect data – for example the IOM’s Missing Migrants Project – are based mostly on media reports and are likely to be significantly underestimated.

    With RFE/RL, Der Spiegel, ARD, the i newspaper, Solomon and academics from Aston, Liverpool and Nottingham Universities, we sought to measure the scale of migrant deaths at the borders of a commonly trodden route spanning Bulgaria, Serbia and Bosnia. Crucially, we sought to find out what subsequently happens to the bodies of these people and what their families go through trying to find them.

    We found that the hostility people face at the borders of Europe in life continues into death. State authorities make little to no effort to identify dead migrants or inform their families, while individual doctors, NGO workers and activists do what they can to fill in the gaps. Unidentified bodies end up piled in morgues or buried without a trace.
    METHODS

    It was clear from the outset that it would be impossible to get comprehensive numbers on migrant deaths, given some bodies will never be found, particularly when people have drowned in rivers or died deep in forests.

    In Bulgaria, Serbia and Bosnia, we requested data from police departments, prosecutors’ offices, courts and morgues on how many unidentified bodies they had recorded in recent years. While some provided information, most failed to respond or declined to disclose the data.

    But through this process we managed to obtain data on the number of bodies known or presumed to be migrants received by six morgues near the borders along the Bulgaria-Serbia-Bosnia route. We found 155 such cases across the six facilities since the start of 2022 – the majority (92) dying this year alone.

    By speaking with forensic pathologists in Bulgaria, Serbia and Bosnia, we found that in each of the three countries, the legal protocol is that an autopsy must be performed on all unidentified bodies – but what happens next is less clear. Information on the deceased is fragmented and held across different institutions, with no unified system which proactively seeks to connect them with families looking for them.

    Through interviews with more than a dozen people whose family members had gone missing or died along the route, we learnt that they are left with no idea where to look or who to ask. We found WhatsApp groups and Facebook pages connecting networks of concerned families, desperately sharing photos and information about their lost loved ones. Some NGOs in Bulgaria and Serbia said they are contacted about such cases every day.

    In some cases when families approached Burgas morgue in south-eastern Bulgaria – where we recorded the highest number of migrant bodies – they were told by staff that they could only check the bodies if they paid them cash bribes. This was confirmed by multiple testimonies and NGOs operating in the area.
    STORYLINES

    RFE/RL followed the case of one Syrian father’s search for his son. Husam Adin Bibars, a refugee in Denmark, travelled to Bulgaria after his son, Majd Addin Bibars, went missing there while trying to reach Western Europe.

    After a day and a half of asking different institutions, Bibars was directed to a local police station near the Turkish border – where he was shown a photo of Majd’s lifeless body. He was told he had died of thirst, exhaustion and cold – and that he had been buried four days after his body was found.

    In an interview with ARD, the prosecutor in Yambol, a Bulgarian city close to the Turkish border, near where Majd was buried, said his body was buried after four days in keeping with their procedure of carrying out burials of unidentified migrants “fast” to free up space in the morgue.

    Some 900 kilometres away in Bosnia, iNews spoke to Dr Vidak Simić, a forensic pathologist responsible for performing autopsies on bodies found in the Drina River, which runs along the Serbian border. He said that in 2023 alone, he had examined 28 bodies presumed to be migrants, compared with five last year. The vast majority remain unidentified and are now buried in graves marked ‘NN’ – an abbreviation for a Latin term for a person with no name.

    The doctor is now working with local activist Nihad Suljić to try to help families find their missing loved ones, by checking his autopsy files to see if any unidentified bodies match the description of missing people. But he says a proper system needs to be put in place for this. “[Families] enter a painstaking process, through embassies, burial organisations, to obtain a bone sample, so that they can compare it with one of their family members,” he says.

    https://www.lighthousereports.com/investigation/europes-nameless-dead

    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #migrations #asile #réfugiés #décès #morts #Balkans #route_des_Balkans #visualisation #cartographie

    ping @reka

  • Le Niger défie l’Europe sur la question migratoire
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/28/le-niger-defie-l-europe-sur-la-question-migratoire_6202814_3212.html

    Le Niger défie l’Europe sur la question migratoire
    En abrogeant une loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, la junte au pouvoir à Niamey met un terme à la coopération avec l’Union européenne en matière de contrôles aux frontières.
    Par Frédéric Bobin et Morgane Le Cam
    L’épreuve de force est engagée entre le Niger et l’Union européenne (UE) sur la question migratoire. La junte issue du coup d’Etat de juillet à Niamey a fait monter les enchères, lundi 27 novembre, en abrogeant une loi datant de 2015, pénalisant le trafic illicite de migrants.Ce dispositif répressif, un des grands acquis de la coopération de Bruxelles avec des Etats africains, visant à endiguer les flux migratoires vers la Méditerannée, est aujourd’hui dénoncé par le pouvoir nigérien comme ayant été adopté « sous l’influence de certaines puissances étrangères » et au détriment des « intérêts du Niger et de ses citoyens ».
    L’annonce promet d’avoir d’autant plus d’écho à Bruxelles que le pays sahélien occupe une place stratégique sur les routes migratoires du continent africain en sa qualité de couloir de transit privilégié vers la Libye, plate-forme de projection – avec la Tunisie – vers l’Italie. Elle intervient au plus mauvais moment pour les Européens, alors qu’ils peinent à unifier leurs positions face à la nouvelle vague d’arrivées qui touche l’Italie. Du 1er janvier au 26 novembre, le nombre de migrants et réfugiés ayant débarqué sur le littoral de la Péninsule s’est élevé à 151 312, soit une augmentation de 61 % par rapport à la même période en 2022. La poussée est sans précédent depuis la crise migratoire de 2015-2016.
    La commissaire européenne aux affaires intérieures, la Suédoise Ylva Johansson, s’est dite mardi « très préoccupée » par la volte-face nigérienne. La décision semble répondre au récent durcissement de l’UE à l’égard des putschistes. Le 23 novembre, le Parlement de Strasbourg avait « fermement condamné » le coup d’Etat à Niamey, un mois après l’adoption par le Conseil européen d’un « cadre de mesures restrictives », ouvrant la voie à de futures sanctions.
    « Les dirigeants à Niamey sont dans une grande opération de chantage envers l’UE, commente un diplomate occidental familier du Niger. Ils savent que le sujet migratoire est source de crispation au sein de l’UE et veulent ouvrir une brèche dans la position européenne, alors qu’ils sont asphyxiés par les sanctions économiques décidées par la Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest [Cedeao]. Il ne leur a pas échappé que l’Italie est encline à plus de souplesse à leur égard, précisément à cause de cette question migratoire. »
    Mais le défi lancé par la junte aux pays européens pourrait être plus radical encore, jusqu’à s’approcher du point de rupture. « La décision des dirigeants de Niamey montre qu’ils ont tout simplement abandonné toute idée de négocier avec l’UE à l’avenir, souligne une autre source diplomatique occidentale. Car un retour en arrière serait extrêmement difficile après l’abrogation de la loi. Ils montrent qu’ils ont choisi leur camp. Ils vont désormais nous tourner le dos, comme l’ont fait les Maliens. Ils ont abandonné leur principal point de pression avec l’UE. »
    Si l’inquiétude monte à Bruxelles face à un verrou migratoire en train de sauter, c’est le soulagement qui prévaut au Niger, où les rigueurs de la loi de 2015 avaient été mal vécues. Des réactions de satisfaction ont été enregistrées à Agadez, la grande ville du nord et « capitale » touareg, carrefour historique des migrants se préparant à la traversée du Sahara. « Les gens affichent leur joie, rapporte Ahmadou Atafa, rédacteur au journal en ligne Aïr Info, installé à Agadez. Ils pensent qu’ils vont pouvoir redémarrer leurs activités liées à la migration. » Les autorités locales, elles aussi, se réjouissent de cette perspective. « Nous ne pouvons que saluer cette abrogation, se félicite Mohamed Anako, le président du conseil régional d’Agadez. Depuis l’adoption de la loi, l’économie régionale s’était fortement dégradée. »
    Il aura donc fallu huit ans pour que le paradigme des relations entre l’UE et le Niger change du tout au tout. Le sommet de La Valette, capitale de Malte, en novembre 2015, dominé par la crise migratoire à laquelle le Vieux Continent faisait alors face dans des proportions inédites, avait accéléré la politique d’externalisation des contrôles aux frontières de l’Europe. Les Etats méditerranéens et sahéliens étaient plus que jamais pressés de s’y associer. Le Niger s’était alors illustré comme un « bon élève » de l’Europe en mettant en œuvre toute une série de mesures visant à freiner l’accès à sa frontière septentrionale avec la Libye.
    A cette fin, le grand architecte de ce plan d’endiguement, le ministre de l’intérieur de l’époque – Mohamed Bazoum, devenu chef d’Etat en 2021 avant d’être renversé le 26 juillet – avait décidé de mettre en œuvre, avec la plus grande sévérité, une loi de mai 2015 réprimant le trafic illicite de migrants. Du jour au lendemain, les ressortissants du Sénégal, de Côte d’Ivoire, du Mali ou du Nigeria ont fait l’objet d’entraves administratives – le plus souvent en contradiction avec les règles de libre circulation prévues au sein de la Cedeao – dans leurs tentatives de rallier Agadez par bus en provenance de Niamey.
    Dans la grande ville du Nord nigérien, le gouvernement s’était attaqué aux réseaux de passeurs, au risque de fragiliser les équilibres socio-économiques. L’oasis d’Agadez, par où avaient transité en 2016 près de 333 000 migrants vers l’Algérie et la Libye, a longtemps profité de ces passages. Ultime porte d’accès au désert, la ville fourmillait de prestataires de « services migratoires » – criminalisés du jour au lendemain –, guidant, logeant, nourrissant, équipant et transportant les migrants.Avec la loi de 2015, « l’ensemble de la chaîne de ces services à la migration s’est écroulé », se souvient M. Anako. Le coup a été d’autant plus dur pour les populations locales que, dans les années 2010, la floraison de ces activités était venue opportunément compenser l’effondrement du tourisme, victime des rébellions touareg (1990-1997 et 2007-2009), puis du djihadisme. A partir de 2017, Agadez n’était plus que l’ombre d’elle-même. Certains notables locaux se plaignaient ouvertement que l’Europe avait réussi à « imposer sa frontière méridionale à Agadez ». Aussi, l’abrogation de la loi de 2015 permet à la junte de Niamey de faire d’une pierre deux coups. Outre la riposte à l’Europe, elle rouvre des perspectives économiques dans une région où les partisans du président déchu, M. Bazoum, espéraient recruter des soutiens. « Il y a à l’évidence un “deal” pour que les Touareg d’Agadez prêtent allégeance à la junte », relève le diplomate occidental.

    #Covid-19#migrant#migration#niger#UE#algerie#libye#agadez#migrationirreuguliere#crisemigratoire#lavalette#externalisation#frontiere#cedeao#reseau#passeur

  • Niger : le régime militaire abroge une loi contre les trafiquants de migrants
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/28/niger-le-regime-militaire-abroge-une-loi-contre-les-trafiquants-de-migrants_

    Niger : le régime militaire abroge une loi contre les trafiquants de migrants
    Le Monde avec AFP
    Le régime militaire nigérien a abrogé une loi votée en 2015 criminalisant le trafic des migrants au Niger, plaque tournante vers l’Europe via la Libye ou l’Algérie voisines, a annoncé, lundi soir 27 novembre, le gouvernement. « Le président du Conseil national pour la sauvegarde de la patrie [CNSP, régime militaire], le général Abdourahamane Tiani, a signé samedi une ordonnance portant abrogation » d’une loi du 26 mai 2015 « relative au trafic illicite de migrants », indique un communiqué du secrétariat général du gouvernement lu à la radio et à la télévision publiques.
    Cette loi qui « érige et incrimine en trafic illicite certaines activités par nature régulières », avait « été votée sous l’influence de certaines puissances étrangères », affirme le communiqué. En outre, cette loi « a été prise en contradiction flagrante avec nos règles communautaires » et « ne prenait pas en compte les intérêts du Niger et de ses concitoyens », ajoute-t-il. Le CNSP a donc « décidé de l’abroger » en raison « de tous ses effets néfastes et de son caractère attentatoire aux libertés publiques ». L’ordonnance stipule que « les condamnations » et « leurs effets » prononcés en application de la loi abrogée « sont effacés à compter du 26 mai 2015 ».
    Votée le 26 mai 2015 par l’Assemblée nationale, cette loi contre les trafiquants de migrants prescrivait des peines « de un à trente ans de prison » et « des amendes de 3 millions à 30 millions de francs CFA » (4 500 à 45 000 euros) contre les trafiquants.
    Depuis son entrée en vigueur, et avec l’appui financier de l’Union européenne (UE), la surveillance, y compris militaire, avait été renforcée dans le désert de la région d’Agadez (nord), important point de transit pour de milliers de ressortissants ouest-africains candidats à l’émigration vers l’Europe, via l’Algérie ou la Libye. Des dizaines de personnes travaillant dans les réseaux de la migration clandestine avaient été arrêtées et emprisonnées ; de nombreux véhicules de convoyeurs de migrants, confisqués.
    Mais la loi de 2015 n’a pas suffi à dissuader les migrants qui ont changé d’itinéraires, en empruntant des routes plus dangereuses à travers le désert par de nouvelles pistes sans points d’eau ni repères ou possibilités d’être éventuellement secourus.Les opérations de sauvetage de migrants sont fréquentes dans le désert hostile du Sahara, surtout vers la Libye. De nombreux migrants ouest-africains se rassemblent généralement à Agadez où sont installés des réseaux de passeurs.Selon les autorités de la ville, il est fréquent que des véhicules transportant des migrants tombent en panne dans le désert, ou que les passeurs se perdent ou abandonnent leurs passagers par crainte des barrages ou des patrouilles militaires. Certains migrants meurent de déshydratation.
    Le Niger est dirigé depuis le 26 juillet par le général Tiani, arrivé au pouvoir par un coup d’Etat ayant renversé le président Mohamed Bazoum, président élu en 2021 et toujours séquestré à Niamey dans sa résidence. Le régime militaire s’est éloigné des pays européens jusqu’alors partenaires privilégiés du Niger, notamment la France, pour se rapprocher en particulier de deux de ses voisins également dirigés par des militaires, le Mali et le Burkina Faso.

    #Covid-19#migrant#migration#niger#agadez#libye#UE#sahara#frontiere#passeur#trafic#loi#sante#mortalite

  • En Tunisie, un affrontement entre migrants et forces de l’ordre fait craindre une nouvelle vague répressive
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/27/en-tunisie-la-crainte-une-nouvelle-repression-apres-une-un-affrontement-entr

    En Tunisie, un affrontement entre migrants et forces de l’ordre fait craindre une nouvelle vague répressive
    Par Nissim Gasteli(El-Hamaziah (Tunisie), envoyé spécial)
    De l’affrontement qui a opposé, vendredi 24 novembre, la garde nationale tunisienne à un groupe de migrants subsahariens dans le hameau côtier d’El-Hamaziah, au centre-est de la Tunisie, il reste peu de traces visibles : quelques douilles de grenades lacrymogènes, un bout de sol calciné par l’incendie du véhicule des forces de l’ordre et une tache de sang dans la poussière. L’altercation a été aussi brève que violente, faisant craindre une nouvelle poussée de fièvre dans une région devenue, au cours de l’année 2023, l’un des principaux ports de départs des migrants vers l’Europe.
    Selon Hichem Ben Ayed, porte-parole du tribunal de Sfax, quatre agents ont été blessés ce matin-là. Ils étaient venus à El-Hamaziah avec un objectif : détruire des barques en métal utilisées par les exilés subsahariens pour tenter de rejoindre l’île italienne de Lampedusa, située à environ 150 km de là. Depuis le début de l’année, 95 897 personnes sont arrivées en Italie depuis la Tunisie, selon les données du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), dont une grande partie grâce à ces coques de tôle rouillée mesurant sept à neuf mètres, peu chères et produites en masse dans les environs d’El-Amra.
    Voyant les gardes nationaux cibler les embarcations, un groupe de migrants s’est mis à jeter des pierres sur les agents. Ces derniers ont riposté en tirant des grenades lacrymogènes. La situation s’est vite envenimée : la camionnette des forces de l’ordre a été encerclée, avant d’être renversée puis incendiée. Sur une vidéo, partagée sur les réseaux sociaux et authentifiée par Le Monde, un agent en uniforme vert apparaît gisant au sol face contre terre, le visage ensanglanté, semblant inconscient.
    L’un des assaillants aurait également profité du chaos pour dérober l’arme d’un des gardes. Un groupe de migrants a en effet été filmé avec ce qui semble être un fusil, brandi en signe de célébration. Interrogé à ce sujet, Hichem Ben Ayed n’a « ni affirmé, ni infirmé » l’information. Mais d’après un garde national patrouillant dans la zone dimanche, des migrants ont bien réussi à s’emparer d’une arme. « Seulement le canon », dont « ils ne peuvent rien faire », a précisé l’agent.Fusil ou pas, une atmosphère de chasse à l’homme règne dans la région d’El-Amra depuis vendredi. Les autorités ont déployé des agents des unités spéciales de la garde nationale (USGN) et de la brigade nationale d’intervention rapide (BNIR), vêtus de treillis militaires, visages masqués et armés de fusils d’assaut, ainsi qu’une armada de véhicules dont plusieurs blindés. Des colonnes qui vont et viennent, toutes sirènes hurlantes.
    « Nous aussi nous recherchons ces garçons et, si nous les trouvons, nous appellerons la police », assure Sani Fatye, 45 ans, originaire de Gambie, qui vit dans un campement précaire non loin d’El-Hamaziah. « Ce n’est pas normal ! Il y a des lois dans ce pays comme dans chaque pays et nous devons les respecter en tant qu’étranger. Nous n’allons pas faire la guerre avec le gouvernement ! », s’énerve le Gambien, inquiet de voir l’ensemble des migrants présents dans la zone subir les conséquences de l’attaque.
    Des agents des forces de sécurité sont déjà passés voir Paul-Edouard*, un Camerounais de 38 ans, pour s’assurer de sa pleine coopération. « Ils sont venus nous montrer le portrait de celui qu’ils recherchent et ils nous ont donné un numéro pour les joindre, explique-t-il. Ils nous ont bien fait comprendre qu’il fallait les aider si nous ne voulions pas d’ennui. » Au kilomètre 35, sur la route de Mahdia, les forces de l’ordre ont vidé un vaste campement de migrants et retourné toutes leurs affaires, à la recherche, semble-t-il, de l’arme.Père d’une fillette de 5 ans avec qui il voyage, Paul-Edouard vit avec sa femme et une trentaine de personnes dans une maison en chantier sans portes ni fenêtres. Comme eux, des milliers d’exilés se sont installés dans les environs d’El-Amra après avoir échappé aux violences anti-migrants au cours de l’été à Sfax ou amenés ici de force par les autorités. Des conditions de vie extrêmement précaires.
    L’exilé craint aussi une nouvelle campagne de déportation massive vers les frontières. En septembre, il avait été emmené par les autorités et abandonné dans une zone désertique à la frontière algérienne, sans eau ni nourriture. Son groupe avait dû marcher pendant neuf jours et parcourir des dizaines de kilomètres à pied entre montagnes et forêts, avant de trouver un transport clandestin et de revenir dans les environs de Sfax.
    Devant le poste de la garde nationale d’El-Amra, plusieurs bus sont stationnés, l’un d’eux se remplit petit à petit de migrants encadrés par des agents. « Ceux-là vont être emmenés à la frontière libyenne ou bien algérienne », confie un responsable de la Garde nationale. « Ils retournent par là où ils sont rentrés. » Les autorités tunisiennes, elles, nient catégoriquement toute expulsion depuis le début de ces pratiques, au mois de juillet.

    #Covid-19#migrant#migration#tunisie#migrationirreguliere#violence#expulsion#italie#algerie#frontiere#sante#politiquemigratoire

  • Aumento di arrivi alle Canarie. Dall’inizio dell’anno più di 1.000 le persone disperse

    La principale causa è la repressione delle proteste in Senegal.

    A partire dallo scorso maggio 2023 il collettivo spagnolo Caminando Fronteras ha registrato un nuovo importante aumento di sbarchi alle isole Canarie dovuto principalmente alla situazione politica in Senegal, da dove partono la maggior parte delle imbarcazioni. Come sempre accade, proporzionalmente all’aumento di approdi, aumenta anche il numero di morti e dispersi. La risposta del governo spagnolo è la promessa di maggiore controllo sulle coste africane di partenza, mentre le strutture di “accoglienza” sono al collasso e non forniscono le condizioni minime di igiene e abitabilità.

    Secondo le ricerche di Caminando Fronteras le persone scomparse sono già più di mille dall’inizio dell’anno. Solo nel mese di giugno sono scomparse 3 imbarcazioni con oltre 300 persone a bordo. La maggior parte delle imbarcazioni che stanno raggiungendo le Canarie in questi mesi partono dal Senegal, a causa di una situazione politica sempre più tesa, che vive ora una fase particolarmente acuta.

    Migliaia di persone stanno protestando per la stretta autoritaria messa in atto dall’attuale presidente Macky Sall in vista delle prossime elezioni presidenziali che si terranno a febbraio 2024. Dalla fine di maggio in particolare, la situazione è peggiorata notevolmente e diverse organizzazioni senegalesi per la protezione dei diritti umani hanno denunciato arresti di massa che stanno colpendo anche un gran numero di adolescenti.

    La repressione è molto dura, attualmente si contano circa due mila arresti e 16 persone uccise durante le proteste. Tra le persone detenute si contano anche numerosi minori, motivo per cui negli ultimi due mesi, il numero di bambini e adolescenti che viaggiano sui cayucos è aumentato, rappresentando in alcuni casi fino al 40% delle persone che scelgono di partire a bordo di queste tradizionali imbarcazioni da pesca. Anche donne e intere famiglie stanno iniziando a imbarcarsi in misura sempre maggiore.

    Le autorità spagnole concentrano la loro azione sugli arrivi, ma non sulla pericolosa rotta che divide il Senegal dalle Canarie, attualmente quella che provoca più morti. Il viaggio da Kafountine, in Senegal, al Hierro, l’isola delle Canarie più vicina, può durare anche due settimane. Si tratta di un viaggio molto lungo, in cui le persone sono esposte alle forti correnti dell’oceano, alle condizioni meteorologiche avverse e alla possibilità di imprevisti o guasti al motore. Per queste ragioni la rotta verso le Canarie continua ad affermarsi come una delle più pericolose e con il più alto tasso di mortalità.

    L’azione statale rispetto al soccorso e alla ricerca dei dispersi presenta grosse falle, dal momento che non esiste nessun protocollo per la ricerca dei dispersi in mare e che le operazioni di salvataggio risultano attraversate e ostacolate dalle politiche razziste implementate dal governo spagnolo. Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio. Molte morti si sarebbero potute evitare, per esempio, se si fossero attivati i mezzi di soccorso nel momento dell’avvistamento delle imbarcazioni invece di aspettare che queste naufragassero. Queste gravi mancanze nel soccorso e nella ricerca dei dispersi non sono un caso, bensì una precisa strategia per tentare di invisibilizzare questa situazione nel discorso pubblico e il governo la mette in atto impunemente, sulla pelle di migliaia di persone che potevano invece essere salvate, la cui vita viene considerata niente più che una moneta di scambio per le proprie esigenze politiche.

    Anche una volta arrivate le persone continuano a essere oggetto di razzismo e maltrattamento istituzionale. A El Hierro, dove sta arrivando la maggior parte di persone in questi mesi, i mezzi per gestire l’accoglienza sono scarsi. Le persone vengono trattenute sulle darsene dei porti, in spazi sovraffollati e in cui le condizioni di vita sono ridotte al minimo. Anche i lavoratori e le lavoratrici delle ONG hanno denunciato la difficile situazione, soprattutto durante le ondate di caldo, in cui le persone sono state costrette a permanere diversi giorni sedute sul cemento in attesa di essere identificate e trasferite in altre isole.

    A tutta questa situazione il governo risponde attraverso la solita retorica del bisogno di un maggiore controllo migratorio. Le misure promesse dal ministro dell’interno Marlaska, riconfermato dopo le ultime elezioni, comprenderebbero anche un aereo della Guardia Civil che sorvoli costantemente le coste africane per identificare le partenze. Questo controllo non sarebbe funzionale ad attività di soccorso, come dimostrano i numerosi casi di omissione di soccorso da parte delle autorità spagnole denunciati da Caminando Fronteras, di cui uno documentato il 20 giugno scorso dall’emittente radio CadenaSER 1.

    Una volta in più assistiamo a come le politiche di controllo, non potendo fermare le migrazioni, siano solamente un dispositivo funzionale alla criminalizzazione e al confinamento delle persone migranti, e di come si rivelino uno strumento di violenza che provoca ogni anno la morte di migliaia di persone che potevano invece essere salvate. I tentativi di insabbiamento di queste morti da parte del governo spagnolo dimostrano la disumanità con cui vengono gestite le frontiere e l’opportunismo politico con cui i governi europei rigirano a proprio favore queste tragedie, di cui sono i responsabili, per mettere in campo nuovi strumenti per la persecuzione delle persone migranti.

    1. Está dentro de la zona SAR nuestra”: la SER accede a las grabaciones de Salvamento Marítimo del último naufragio en la ruta canaria, Cadenaser (22 giugno 2022): https://cadenaser.com/nacional/2023/06/22/esta-dentro-de-la-zona-sar-nuestra-la-ser-accede-a-las-grabaciones-de-sal

    https://www.meltingpot.org/2023/11/aumento-di-arrivi-alle-canarie-dallinizio-dellanno-sono-gia-piu-di-1-000

    J’avais loupé ce protocole raciste:

    Dal 2018 esiste infatti un protocollo specifico per il salvataggio delle persone che naufragano a bordo delle pateras, diverso dal protocollo di salvataggio per il resto delle persone che si trovano a rischio in mare.

    Questo protocollo è fortemente deficitario in termini di mezzi e di azione, ciò obbliga gli operatori e le operatrici di Salvamento marítimo a una differenziazione di tipo razzista nelle operazioni di salvataggio.

    –-> deepl translation:

    « En effet, depuis 2018, il existe un protocole spécifique pour le sauvetage des naufragés à bord des pateras, qui diffère du protocole de sauvetage du reste des personnes en danger en mer.

    Ce protocole est gravement déficient en termes de moyens et d’action, ce qui oblige les opérateurs du Salvamento marítimo à une #différenciation_raciale dans les opérations de sauvetage. »

    #route_atlantique #asile #migrations #réfugiés #Canaries #îles_Canaries #statistiques #chiffres #Sénégal #répression #Caminando_Fronteras #Macky_Sall #cayucos #Kafountine #Hierro #mourir_en_mer #frontières #morts #décès #mortalité #secours #pateras #Salvamento_marítimo #racisme #sauvetage_différencié #contrôles_frontaliers

  • Dans la #Manche, les coulisses terrifiantes du sauvetage des migrants

    Il y a deux ans, au moins 27 personnes périssaient dans des eaux glaciales au large de Calais, après le naufrage de leur embarcation. Mediapart a enquêté sur les pratiques des différents acteurs missionnés pour sauver celles et ceux qui tentent de rejoindre le Royaume-Uni par la mer.

    « Parfois, ils refusent notre appel, parfois ils décrochent. Quand j’appelle le 999, ils me disent d’appeler les Français, et les Français nous disent d’appeler les Anglais. Ils se moquent de nous. » Ces quelques phrases, issues d’un échange entre un membre de l’association #Utopia_56 et un exilé se trouvant à bord d’une embarcation dans la Manche, résument à elles seules les défaillances du #secours en mer lorsque celui-ci n’est pas coordonné.

    Elles illustrent également le désarroi de celles et ceux qui tentent la traversée pour rejoindre les côtes britanniques. Le 20 novembre 2021, les membres d’Utopia 56 ont passé des heures à communiquer par messages écrits et audio avec un groupe d’exilé·es qui s’était signalé en détresse dans la Manche. « Nous avons appelé tous les numéros mais ils ne répondent pas. Je ne comprends pas quel est leur problème », leur dit un homme présent à bord. « Restez calmes, quelqu’un va venir. Appelez le 112 et on va appeler les #garde-côtes français, ok ? » peut-on lire dans les échanges consultés par Mediapart.

    « Comme ils ont pu nous contacter, on a relancé le #Cross [#Centre_régional_opérationnel_de_surveillance_et_de_sauvetage_maritimes – ndlr], qui a pu intervenir. Mais on peut se demander ce qu’il se serait passé pour eux si ça n’avait pas été le cas », commente Nikolaï, d’Utopia 56. Cet appel à l’aide désespéré a été passé seulement quatre jours avant le naufrage meurtrier du #24_novembre_2021, qui a coûté la vie à au moins vingt-sept personnes, parmi lesquelles des Afghan·es, des Kurdes d’Irak et d’Iran, des Éthiopien·nes ou encore un Vietnamien.

    Un an plus tard, Le Monde révélait comment le Cross, et en particulier l’une de ses agent·es, avait traité leur cas sans considération, voire avec mépris, alors que les personnes étaient sur le point de se noyer. Une #information_judiciaire a notamment été ouverte pour « homicides », « blessures involontaires » et « mise en danger » (aggravée par la violation manifestement délibérée d’une obligation de sécurité ou de prudence), menant à la mise en examen de cinq militaires pour « #non-assistance_à_personne_en_danger » au printemps 2023.

    « Ah bah t’entends pas, tu seras pas sauvé », « T’as les pieds dans l’eau ? Bah, je t’ai pas demandé de partir »… Rendue publique, la communication entre l’agente du Cross et les exilé·es en détresse en mer, en date du 24 novembre, a agi comme une déflagration dans le milieu associatif comme dans celui du secours en mer. Signe d’#inhumanité pour les uns, de #surmenage ou d’#incompétence pour les autres, cet épisode dramatique est venu jeter une lumière crue sur la réalité que subissent les migrant·es en mer, que beaucoup ignorent.

    « Urgence vitale » contre « urgence de confort »

    Entendue dans le cadre de l’#enquête_judiciaire, l’agente concernée a expliqué faire la différence entre une situation d’« #urgence_vitale » et une situation de « #détresse » : « Pour moi, la détresse c’est vraiment quand il y a une vie humaine en jeu. La plupart des migrants qui appellent sont en situation de détresse alors qu’en fait il peut s’agir d’une urgence de confort », a déroulé la militaire lors de son audition, précisant que certains cherchent « juste à être accompagnés vers les eaux britanniques ».

    Elle décrit aussi des horaires décalés, de nuit, et évoque des appels « incessants » ainsi que l’incapacité matérielle de vérifier les indicatifs de chaque numéro de téléphone. Un autre agent du Cross explique ne pas avoir souvenir d’un « gros coup de bourre » cette nuit-là. « Chaque opération migrant s’est enchaînée continuellement mais sans densité particulière. » Et de préciser : « Ce n’est pas parce qu’il n’y a pas de densité particulière que nous faisons le travail avec plus de légèreté ; aucun n’est mis de côté et chaque appel est pris au sérieux. »

    Deux sauveteurs ont accepté de se confier à Mediapart, peu après le naufrage, refusant que puisse se diffuser cette image écornée du #secours_en_mer. « C’est malheureux de dire des choses comme ça », regrette Julien*, bénévole à la #Société_nationale_de_sauvetage_en_mer (#SNSM). Il y a peut-être, poursuit-il, « des personnes avec moins de jugeote, ou qui ont décidé de se ranger d’un côté et pas de l’autre ».

    L’homme interroge cependant la surcharge de travail du Cross, sans « minimiser l’incident » de Calais. « La personne était peut-être dans le rush ou avait déjà fait un certain nombre d’appels… Ils sont obligés de trier, il peut y avoir des erreurs. Mais on ne rigole pas avec ça. »

    Lorsque des fenêtres météo favorables se présentent, sur une période d’à peine deux ou trois jours, le Cross comme les sauveteurs peuvent être amenés à gérer jusqu’à 300 départs. Les réfugié·es partent de communes de plus en plus éloignées, prenant des « #risques énormes » pour éviter les contrôles de police et les tentatives d’interception sur le rivage.

    « Cela devient de plus en plus périlleux », constate Julien, qui décrit par ailleurs les stratégies employées par les #passeurs visant à envoyer beaucoup d’exilé·es d’un seul coup pour en faire passer un maximum.

    Il y a des journées où on ne fait que ça.

    Alain*, sauveteur dans la Manche

    « En temps normal, on arrive à faire les sauvetages car nos moyens sont suffisants. Mais à un moment donné, si on se retrouve dans le rush avec de tels chiffres à gérer, on a beau être là, avoir notre #matériel et nos #techniques de sauvetage, on ne s’en sort pas. » Julien se souvient de cette terrible intervention, survenue fin 2021 au large de la Côte d’Opale, pour laquelle plusieurs nageurs de bord ont été « mis à l’eau » pour porter secours à un canot pneumatique disloqué dont le moteur avait fini à 23 heures au fond d’une eau à 7 degrés.

    Présents sur zone en une demi-heure, les nageurs récupèrent les exilé·es « par paquet de trois », essayant d’optimiser tous les moyens dont ils disposent. « On aurait peut-être eu un drame dans la Manche si on n’avait pas été efficaces et si les nageurs n’avaient pas sauté à l’eau », relate-t-il, précisant que cette opération les a épuisés. L’ensemble des personnes en détresse ce jour-là sont toutes sauvées.

    Le plus souvent, les sauveteurs font en sorte d’être au moins six, voire huit dans l’idéal, avec un patron qui pilote le bateau, un mécanicien et au moins un nageur de bord. « Le jour où on a frôlé la catastrophe, on était onze. Mais il nous est déjà arrivé de partir à quatre. »

    Alain* intervient depuis plus de cinq années dans la Manche. La surface à couvrir est « énorme », dit-il. « Il y a des journées où on ne fait que ça. » Ce qu’il vit en mer est éprouvant et, « au #drame_humain auquel nous devons faire face », se rajoute parfois « le #cynisme aussi bien des autorités françaises que des autorités anglaises ».

    On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet. Les autres ont dû attendre.

    Alain* à propos d’un sauvetage

    Il évoque ce jour de septembre 2021 où 40 personnes sont en danger sur une embarcation qui menace de se plier, avec un brouillard laissant très peu de visibilité. Ne pouvant y aller en patrouilleur, l’équipe de quatre sauveteurs se rend sur zone avec deux Zodiac, et « accompagne » l’embarcation jusqu’aux eaux anglaises. Mais celle-ci commence à se dégonfler.

    La priorité est alors de stabiliser tous les passagers et de les récupérer, un par un. « Ça hurlait dans tous les sens, mais on a réussi à les calmer », relate Alain qui, tout en livrant son récit, revit la scène. « Il ne faut surtout pas paniquer parce qu’on est les sauveteurs. Plus difficile encore, il faut se résoudre à admettre que c’est un sauvetage de masse et qu’on ne peut pas sauver tout le monde. » Alain et ses collègues parviennent à charger tous les passagers en les répartissant sur chaque Zodiac.

    Lors d’un autre sauvetage, qu’il qualifie de « critique », ses collègues et lui doivent porter secours à une quarantaine d’exilés, certains se trouvant dans l’eau, et parfois sans gilet de sauvetage. « On a sauvé en priorité ceux qui n’avaient pas de gilet, explique-t-il. Mais les autres ont dû attendre notre retour parce qu’on manquait de place sur notre bateau. Et par chance, entre-temps, c’est la SNSM qui les a récupérés. » Ce jour-là, confie-t-il, le Cross a « vraiment eu peur qu’il y ait des morts ».

    Négociations en pleine mer

    À cela s’ajoute la « #mise_en_danger » provoquée par les tractations en pleine mer pour déterminer qui a la responsabilité de sauver les personnes concernées.

    Une fois, raconte encore Alain, le boudin d’un canot pneumatique transportant 26 personnes avait crevé. « On leur a dit de couper le moteur et on les a récupérés. Il y avait un bébé de quelques mois, c’était l’urgence absolue. » En mer se trouve aussi le bateau anglais, qui fait demi-tour lorsqu’il constate que les exilé·es sont secouru·es.

    « Les migrants se sont mis à hurler parce que leur rêve s’écroulait. C’était pour nous une mise en danger de les calmer et de faire en sorte que personne ne se jette à l’eau par désespoir. » Le bateau anglais finit par revenir après 45 minutes de discussion entre le Cross et son homologue. « Plus de 45 minutes, répète Alain, en pleine mer avec un bébé de quelques mois à bord. »

    Qu’est devenu ce nourrisson ? s’interroge Alain, qui dit n’avoir jamais été confronté à la mort. Il faut se blinder, poursuit-il. « Nous sommes confrontés à des drames. Ces personnes se mettent en danger parce qu’elles n’ont plus rien à perdre et se raccrochent à cette traversée pour vivre, seulement vivre. » Il se demande souvent ce que sont devenus les enfants qu’il a sauvés. Sur son téléphone, il retrouve la photo d’une fillette sauvée des eaux, puis sourit.

    Pour lui, il n’y aurait pas de « consignes » visant à distinguer les #eaux_françaises et les #eaux_anglaises pour le secours en mer. « On ne nous a jamais dit : “S’ils sont dans les eaux anglaises, n’intervenez pas.” Le 24 novembre a été un loupé et on ne parle plus que de ça, mais il y a quand même des gens qui prennent à cœur leur boulot et s’investissent. » Si trente bateaux doivent être secourus en une nuit, précise-t-il pour illustrer son propos, « tout le monde y va, les Français, les Anglais, les Belges ».

    Lors de ses interventions en mer, la SNSM vérifie qu’il n’y a pas d’obstacles autour de l’embarcation à secourir, comme des bancs de sable ou des courants particulièrement forts. Elle informe également le Cross, qui déclenche les sauveteurs pour partir sur zone.

    « On approche très doucement du bateau, on évalue l’état des personnes, combien ils sont, s’il y a des enfants, s’il y a des femmes, si elles sont enceintes », décrit Julien, qui revoit cet enfant handicapé, trempé, qu’il a fallu porter alors qu’il pesait près de 80 kilos. Ce nourrisson âgé de 15 jours, aussi, qui dépassait tout juste la taille de ses mains.

    Si les exilés se lèvent brutalement en les voyant arriver, ce qui arrive souvent lorsqu’ils sont en détresse, le plancher de l’embarcation craque « comme un carton rempli de bouteilles de verre » qui glisseraient toutes en même temps vers le centre. Certains exilés sont en mer depuis deux jours lorsqu’ils les retrouvent. « En short et pieds nus », souvent épuisés, affamés et désespérés.

    Des « miracles » malgré le manque de moyens

    Les sauveteurs restent profondément marqués par ces sauvetages souvent difficiles, pouvant mener à huit heures de navigation continue dans une mer agitée et troublée par des conditions météo difficiles. « L’objectif est de récupérer les gens vivants, commente Julien. Mais il peut arriver aussi qu’ils soient décédés. Et aller récupérer un noyé qui se trouve dans l’eau depuis trois jours, c’est encore autre chose. »

    En trois ans, le nombre de sauvetages a été, selon lui, multiplié par dix. Le nombre d’arrivées au Royaume-Uni a bondi, conduisant le gouvernement britannique à multiplier les annonces visant à durcir les conditions d’accueil des migrant·es, du projet d’externalisation des demandes d’asile avec le Rwanda, à l’hébergement des demandeurs et demandeuses d’asile à bord d’une barge, plus économique, et non plus dans des hôtels.

    Pour Julien, les dirigeant·es français·es comme britanniques s’égarent dans l’obsession de vouloir contenir les mouvements migratoires, au point de pousser les forces de l’ordre à des pratiques parfois discutables : comme le montrent les images des journalistes ou des vacanciers, certains CRS ou gendarmes viennent jusqu’au rivage pour stopper les tentatives de traversée, suscitant des tensions avec les exilé·es. Aujourd’hui, pour éviter des drames, ils ne sont pas autorisés à intercepter une embarcation dès lors que celle-ci est à l’eau.

    Dans le même temps, les sauveteurs font avec les moyens dont ils disposent. Un canot de sauvetage vieillissant, entretenu mais non adapté au sauvetage de migrants en surnombre, explique Julien. « On porte secours à près de 60 personnes en moyenne. Si on est trop lourd, ça déséquilibre le bateau et on doit les répartir à l’avant et au milieu, sinon l’eau s’infiltre à l’arrière. » Ses équipes ont alerté sur ce point mais « on nous a ri au nez ». Leur canot devrait être remplacé, mais par un bateau « pas plus grand », qui ne prend pas ce type d’opérations en compte dans son cahier des charges.

    En un an, près de « 50 000 personnes ont pu être sauvées », tient à préciser Alain, avant d’ajouter : « C’est un miracle, compte tenu du manque de moyens. » Il peut arriver que les bénévoles de la SNSM reçoivent une médaille des autorités pour leur action. Mais à quoi servent donc les médailles s’ils n’obtiennent pas les moyens nécessaires et si leurs requêtes restent ignorées ?, interroge-t-il.

    « La France est mauvaise sur l’immigration, elle ne sait pas gérer », déplore Alain, qui précise que rien n’a changé depuis le drame du 24 novembre 2021. Et Julien de conclure : « Les dirigeants sont dans les bureaux, à faire de la politique et du commerce, pendant que nous on est sur le terrain et on sauve des gens. S’ils nous donnent des bateaux qui ne tiennent pas la route, on ne va pas y arriver… »

    Mercredi 22 novembre, deux exilés sont morts dans un nouveau naufrage en tentant de rallier le Royaume-Uni.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/241123/dans-la-manche-les-coulisses-terrifiantes-du-sauvetage-des-migrants
    #Calais #mourir_en_mer #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #France #UK #Angleterre #GB #sauvetage #naufrage #frontières #migrations #asile #réfugiés

  • #PortesDisparus : au Sénégal, un journaliste rend un nom et un visage à ceux qui sont partis

    Au #Sénégal, alors que chaque semaine les drames de l’émigration clandestine continuent de faire l’actualité, un journaliste, #Ayoba_Faye, a lancé un hashtag « #portés_disparus » pour aider les familles de migrants partis par la mer à avoir des informations sur leur enfant et éviter qu’ils ne tombent dans l’oubli.

    « Ousseynou Ndiaye : disparu depuis 20 jours. Point de départ inconnu », peut-on lire sur le compte X du journaliste sénégalais Ayoba Faye. Depuis une semaine, le rédacteur en chef du média en ligne PressAfrik a listé une dizaine de noms déjà de Sénégalais portés disparus après avoir tenté la traversée par la mer vers l’Espagne.

    https://twitter.com/autruicomoi/status/1727428904036762101

    Une démarche entreprise après que de nombreuses familles l’ont contacté, nous explique Ayoba Faye. « Les parents qui entrent en contact avec moi sont dans le désarroi total. Certains sont restés plus d’un mois sans avoir de nouvelles de leurs enfants. Ils n’ont aucune structure étatique vers qui se tourner. C’est alors que j’ai décidé d’utiliser le peu d’influence que j’ai sur les réseaux sociaux pour aider à mettre un visage sur chaque porté disparu parmi les centaines, voire les milliers, depuis le début des vagues migratoires de cette année 2023. Ce n’étaient pas des personnes anonymes ces jeunes qui ont disparu en mer, ils avaient une vie, ils avaient des rêves, ils avaient une histoire, qui méritent d’être connus. »

    https://twitter.com/autruicomoi/status/1725276632338801028

    À chaque nom listé par le journaliste est associée une photo. Avec ses 34 000 followers, Ayoba Faye espère ainsi aider à retrouver des personnes potentiellement décédées lors de cette traversée extrêmement dangereuse. Une façon aussi de les sortir de l’anonymat et de l’oubli alors que plusieurs acteurs de la société civile sénégalaise demandent l’instauration d’une journée de deuil national pour les migrants.

    https://www.rfi.fr/fr/afrique/20231124-portesdisparus-au-s%C3%A9n%C3%A9gal-un-journaliste-rend-un-nom-et-un-vi

    #hashtag #celleux_qui_restent #asile #migrations #missing #réfugiés #frontières #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontière #recherche

  • Henry Laurens : « On est sur la voie d’un processus de destruction de masse » à Gaza, entretien avec Rachida El Azzouzi (19 novembre 2023).

    Pour l’historien, spécialiste de la Palestine, professeur au collège de France, « l’effondrement des conditions sanitaires et l’absence de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse » dans la bande de Gaza.

    L’historien et universitaire Henry Laurens est l’un des plus grands spécialistes du #Moyen-Orient. Professeur au Collège de France où il est titulaire de la chaire d’histoire contemporaine du #monde_arabe, il a mis la question palestinienne au cœur de son travail. Il est l’auteur de très nombreux livres dont cinq tomes sans équivalent publiés entre 1999 et 2015, consacrés à La question de Palestine (Fayard).
    Dans un entretien à Mediapart, il éclaire de sa connaissance l’exceptionnalité du conflit israélo-palestinien et le « corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer » dans lesquels les deux peuples sont pris depuis des décennies. Il dit son pessimisme quant à la résolution du conflit qui peut durer « des siècles » : « Vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. Aujourd’hui, ils sont 500 000 dont quelques dizaines de milliers qui sont des colons ultrareligieux et armés. »

    Plus d’une vingtaine de rapporteurs de l’organisation des Nations unies (ONU) s’inquiètent d’« un génocide en cours » à Gaza. Est-ce que vous employez ce terme ?

    Il y a deux sens au terme de « génocide ». Il y a le #génocide tel que défini par l’avocat polonais Raphael Lemkin en 1948, la seule définition juridique existante, aujourd’hui intégrée au protocole de Rome créant la #CPI [Cour pénale internationale – ndlr]. Lemkin a été obligé, pour que ce soit voté par les Soviétiques et par le bloc de l’Est, d’éliminer les causes politiques du génocide – massacrer des gens dans le but de détruire une classe sociale –, parce qu’il aurait fallu reconnaître le massacre des koulaks par les Soviétiques.

    La définition de Lemkin implique que ceux qui commettent un génocide appartiennent à un autre peuple que celui des victimes. D’où le problème aussi qu’on a eu avec le #Cambodge, qu’on ne pouvait pas appeler un génocide parce que c’étaient des Cambodgiens qui avaient tué des Cambodgiens. Là, on est dans une définition étroite. C’était le prix à payer pour obtenir un accord entre les deux Blocs dans le contexte du début de la #guerre_froide.

    Vous avez ensuite une définition plus large du terme, celui d’une destruction massive et intentionnelle de populations quelles qu’en soient les motivations.

    Il existe donc deux choses distinctes : la première, ce sont les actes, et la seconde, c’est l’intention qui est derrière ces actes. Ainsi le tribunal international pour l’ex-Yougoslavie a posé la différence entre les nettoyages ethniques dont la motivation n’est pas génocidaire parce que l’#extermination n’était pas recherchée, même si le nombre de victimes était important, et les actes de génocide comme celui de Srebrenica, où l’intention était claire.

    On voit ainsi que le nombre de victimes est secondaire. Pour Srebrenica, il est de l’ordre de 8 000 personnes.

    L’inconvénient de cette #logique_judiciaire est de conduire à une casuistique de l’intentionnalité, ce qui ne change rien pour les victimes. 

    Au moment où nous parlons, le nombre de victimes dans la bande de #Gaza est supérieur à celui de Srebrenica. On a, semble-t-il, dépassé la proportion de 0,5 % de la population totale. Si on compare avec la France, cela donnerait 350 000 morts.

    Le discours israélien évoque des victimes collatérales et des boucliers humains. Mais de nombreux responsables israéliens tiennent des discours qui peuvent être qualifiés de génocidaires. L’effondrement des conditions sanitaires et l’absence même de ravitaillement à destination des populations concernées peuvent indiquer que l’on est sur la voie d’un processus de destruction de masse avec des controverses à n’en plus finir sur les intentionnalités. 

    La solution à deux États n’est plus possible.

    La crainte d’une seconde « #Nakba » (catastrophe), en référence à l’exil massif et forcé à l’issue de la guerre israélo-arabe de 1948, hante les #Palestiniens. Peut-on faire le parallèle avec cette période ?

    La Nakba peut être considérée comme un #nettoyage_ethnique, en particulier dans les régions autour de l’actuelle bande de Gaza où l’#intentionnalité d’expulsion est certaine. Des responsables israéliens appellent aujourd’hui à une #expulsion de masse. C’est d’ailleurs pour cela que l’Égypte et la Jordanie ont fermé leurs frontières.

    Dans l’affaire actuelle, les démons du passé hantent les acteurs. Les juifs voient dans le 7 octobre une réitération de la Shoah et les Palestiniens dans les événements suivants celle de la Nakba.

    Faut-il craindre une annexion de la bande de Gaza par Israël avec des militaires mais aussi des colons ?

    En fait, personne ne connaît la suite des événements. On ne voit personne de volontaire pour prendre la gestion de la bande de Gaza. Certains responsables israéliens parlent de « dénazification » et il y a une dimension de vengeance dans les actes israéliens actuels. Mais les vengeances n’engendrent que des cycles permanents de violence.

    Quelle est votre analyse des atrocités commises le 7 octobre 2023 par le Hamas ?

    Elles constituent un changement considérable, parce que la position de l’État d’Israël est profondément modifiée au moins sur deux plans : premièrement, le pays a subi une invasion pour quelques heures de son territoire, ce qui n’est pas arrivé depuis sa création ; deuxièmement, le 7 octobre marque l’échec du projet sioniste tel qu’il a été institué après la Seconde Guerre mondiale, un endroit dans le monde où les juifs seraient en position de sécurité. Aujourd’hui, non seulement l’État d’Israël est en danger, mais il met en danger les diasporas qui, dans le monde occidental, se trouvent menacées ou, en tout cas, éprouvent un sentiment de peur.

    Le dernier tome de votre série consacrée à « La question de Palestine » (Fayard) était intitulé « La paix impossible » et courait sur la période 1982-2001. Vous étiez déjà très pessimiste quant à la résolution de ce conflit, mais aussi concernant l’avenir de la région, comme si elle était condamnée à demeurer cette poudrière. Est-ce que vous êtes encore plus pessimiste aujourd’hui ? Ou est-ce que le #conflit_israélo-palestinien vous apparaît soluble, et si oui, quelle issue apercevez-vous ?

    La réelle solution théorique serait d’arriver à un système de gestion commune et équitable de l’ensemble du territoire. Mais un État unitaire est difficile à concevoir puisque les deux peuples ont maintenant plus d’un siècle d’affrontements.

    Qu’en est-il de la solution à deux États, dont le principe a été adopté en 1947 par l’ONU, après la fin du mandat britannique ? Est-elle possible ?

    La solution à deux États n’est plus possible dès lors que vous avez 500 000 colons, dont quelques dizaines de milliers qui sont des #colons ultrareligieux et armés. Vous avez une violence quotidienne en #Cisjordanie. La sécurité des colons ne peut se fonder que sur l’insécurité des Palestiniens. Et l’insécurité des Palestiniens provoque la violence qui engendre l’insécurité des colons.

    C’est un cercle vicieux et vous ne pouvez espérer de sortie possible que par une décolonisation, mais à horizon immédiat, cette #décolonisation n’est pas faisable. Dans les années 1990, elle l’était. Il y avait 30 000 colons. On pouvait, sans trop de dégâts, faire une décolonisation de la Cisjordanie et de la bande de Gaza. 

    Aujourd’hui, nous sommes dans une position de domination, et cette solution peut prendre des siècles parce qu’il y a l’exceptionnalité juive qui crée une exceptionnalité israélienne qui elle-même crée une exceptionnalité palestinienne. C’est-à-dire que sans être péjoratif, les Palestiniens deviennent des juifs bis.

    Qu’entendez-vous par là ?

    Nous sommes depuis le 7 octobre devant un grand nombre de victimes. Mais ces dernières années, nous en avons eu bien plus en Irak, en Syrie, au Soudan et en Éthiopie. Cela n’a pas provoqué l’émoi mondial que nous connaissons aujourd’hui. L’émotion a été suscitée parce que les victimes étaient juives, puis elle s’est déplacée sur les victimes palestiniennes. Les deux peuples sont dans un corps à corps que même l’émotion n’arrive pas à séparer.

    Les années 1990 ont été marquées par les accords d’Oslo en 1993. Relèvent-ils du mirage aujourd’hui ?
     
    Non, on pouvait gérer une décolonisation. Mais déjà à la fin des accords d’Oslo, il n’y a pas eu décolonisation mais doublement de la #colonisation sous le gouvernement socialiste et ensuite sous le premier gouvernement Nétanyahou. Ce sont l’occupation, la colonisation, qui ont amené l’échec des processus. Il n’existe pas d’occupation, de colonisation pacifique et démocratique.

    Aujourd’hui, c’est infiniment plus difficile à l’aune de la violence, des passions, des derniers événements, des chocs identitaires, de la #haine tout simplement. Qui plus est, depuis une trentaine d’années, vous avez une évolution commune vers une vision religieuse et extrémiste, aussi bien chez les juifs que chez les Palestiniens.

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre.

    Vous voulez dire que le conflit territorial est devenu un conflit religieux ?

    Il a toujours été religieux. Dès l’origine, le mouvement sioniste ne pouvait fonctionner qu’en utilisant des références religieuses, même si ses patrons étaient laïcs. La blague de l’époque disait que les sionistes ne croyaient pas en Dieu mais croyaient que Dieu leur avait promis la Terre promise.

    Le projet sioniste, même s’il se présentait comme un mouvement de sauvetage du peuple juif, ne pouvait fonctionner qu’en manipulant les affects. Il était de nature religieuse puisqu’il renvoyait à la Terre sainte. Vous avez une myriade d’endroits qui sont des #symboles_religieux, mais qui sont aussi des #symboles_nationaux, aussi bien pour les #juifs que pour les #musulmans : l’esplanade des Mosquées, le tombeau des Patriarches, le mur des Lamentations. Et puis il y a les gens qui se sentent mandatés par Dieu.

    De même, les musulmans ont cherché des alliés en jouant sur la solidarité islamique. Dès les années 1930, la défense de la mosquée Al-Aqsa est devenue un thème fédérateur.

    Pourquoi est-il devenu difficile d’invoquer une lecture coloniale du conflit depuis les massacres du Hamas du 7 octobre ?

    Le sionisme est à l’origine un corps étranger dans la région. Pour arriver à ses fins, il a eu besoin d’un soutien européen avant 1914, puis britannique et finalement américain. Israël s’est posé comme citadelle de l’#Occident dans la région et conserve le #discours_colonial de la supériorité civilisatrice et démocratique. Cet anachronisme est douloureusement ressenti par les autres parties prenantes.

    Jusqu’à la Seconde Guerre mondiale, les responsables sionistes n’hésitaient pas à se comparer à la colonisation britannique en Afrique noire avec la nécessité de mater les protestations indigènes. 

    La Palestine fonctionne en jeu à somme nulle, le progrès de l’un se fait au détriment de l’autre. La constitution de l’État juif impliquait un « transfert » de la population arabe à l’extérieur, terme poli pour « expulsion ». La #confiscation des #terres détenues par les Arabes en est le corollaire. Les régions où ont eu lieu les atrocités du 7 octobre étaient peuplées d’Arabes qui ont été expulsés en 1948-1950.

    Dire cela, c’est se faire accuser de trouver des excuses au terrorisme. Dès que vous essayez de donner des éléments de compréhension, vous vous confrontez à l’accusation : « Comprendre, c’est excuser. » Il faut bien admettre que le #Hamas dans la bande de Gaza recrute majoritairement chez les descendants des expulsés. Cela ne veut pas dire approuver ce qui s’est passé.

    Le slogan « From the river to the sea, Palestine will be free » (« De la rivière à la mer, la Palestine sera libre ») utilisé par les soutiens de la Palestine fait polémique. Est-ce vouloir rayer de la carte Israël ou une revendication légitime d’un État palestinien ?

    Il a été utilisé par les deux parties et dans le même sens. Les mouvements sionistes, en particulier la droite sioniste, ont toujours dit que cette terre devait être juive et israélienne au moins jusqu’au fleuve. Le parti de l’ancêtre du Likoud voulait même annexer l’ensemble de la Jordanie.

    Chez certains Palestiniens, on a une vision soft qui consiste à dire que « si nous réclamons un État palestinien réunissant la bande de Gaza et la Cisjordanie, nous considérons l’ensemble de la terre comme la Palestine historique, comme partie de notre histoire, mais nous ne la revendiquons pas dans sa totalité ».

    Israël depuis sa fondation n’a pas de #frontières définies internationalement. Il a toujours revendiqué la totalité de la Palestine mandataire, voire plus. Il a ainsi rejeté l’avis de la Cour internationale de justice qui faisait des lignes d’armistice de 1949 ses frontières permanentes.

    Cette indétermination se retrouve de l’autre côté. La libération de la Palestine renvoie à la totalité du territoire. D’autres exigeaient la carte du plan de partage de 1947. Pour l’Organisation de libération de la Palestine (#OLP), faire l’#État_palestinien sur les territoires occupés en 1968 était la concession ultime.

    Les Arabes en général ont reçu sans grand problème les réfugiés arméniens durant la Grande Guerre et les années suivantes. Ces Arméniens ont pu conserver l’essentiel de leur culture. Mais il n’y avait pas de question politique. Il n’était pas question de créer un État arménien au Levant.

    Dès le départ, les Arabes de Palestine ont vu dans le projet sioniste une menace de dépossession et d’expulsion. On ne peut pas dire qu’ils ont eu tort…

    Le mouvement islamiste palestinien, le Hamas, classé #terroriste par l’Union européenne et les États-Unis, est aujourd’hui le principal acteur de la guerre avec Israël…

    Définir l’ennemi comme terroriste, c’est le placer hors la loi. Bien des épisodes de décolonisation ont vu des « terroristes » devenir du jour au lendemain des interlocuteurs valables. 

    Bien sûr, il existe des actes terroristes et les atrocités du 7 octobre le sont. Mais c’est plus une méthodologie qu’une idéologie. C’est une forme de guerre qui s’en prend aux civils selon les définitions les plus courantes. Jamais un terroriste ne s’est défini comme tel. Il se voit comme un combattant légitime et généralement son but est d’être considéré comme tel. Avec l’État islamique et le 7 octobre, on se trouve clairement devant un usage volontaire de la cruauté.

    La rhétorique habituelle est de dire que l’on fait la guerre à un régime politique et non à un peuple. Mais si on n’offre pas une perspective politique à ce peuple, il a le sentiment que c’est lui que l’on a mis hors la loi. Il le voit bien quand on dit « les Israéliens ont le droit de se défendre », mais apparemment pas quand il s’agit de Palestiniens.

    D’aucuns expliquent qu’Israël a favorisé l’ascension du Hamas pour qu’un vrai État palestinien indépendant ne voie jamais le jour au détriment de l’#autorité_palestinienne qui n’administre aujourd’hui plus que la Cisjordanie. Est-ce que le Hamas est le meilleur ennemi des Palestiniens ? 

    Incontestablement, les Israéliens ont favorisé les #Frères_musulmans de la bande de Gaza dans les années 1970 et 1980 pour contrer les activités du #Fatah. De même, après 2007, ils voulaient faire du Hamas un #sous-traitant chargé de la bande de Gaza, comme l’Autorité palestinienne l’est pour la Cisjordanie. 

    Le meilleur moyen de contrer le Hamas est d’offrir aux Palestiniens une vraie perspective politique et non de bonnes paroles et quelques aides économiques qui sont des emplâtres sur des jambes de bois. 

    Quel peut être l’avenir de l’Autorité palestinienne, aujourd’hui déconsidérée ? Et du Fatah, le parti du président Mahmoud Abbas, pressé par la base de renouer avec la lutte armée et le Hamas ?

    Le seul acquis de l’Autorité palestinienne, ou plus précisément de l’OLP, c’est sa légitimité diplomatique. Sur le terrain, elle est perçue comme un sous-traitant de l’occupation israélienne incapable de contrer un régime d’occupation de plus en plus dur. Elle est dans l’incapacité de protéger ses administrés. Le risque majeur pour elle est tout simplement de s’effondrer.

    Le Hamas appelle les Palestiniens de Cisjordanie à se soulever. Un soulèvement généralisé des Palestiniens peut-il advenir ?

    En Cisjordanie, on a surtout de petits groupes de jeunes armés totalement désorganisés. Mais la violence et la répression sont devenues quotidiennes et les violences permanentes. À l’extérieur, l’Occident apparaît complice de l’occupation et de la répression israéliennes. L’Iran, la Chine et la Russie en profitent.

    Le premier tome de votre monumentale « Question de Palestine » s’ouvre sur 1799, lorsque l’armée de Napoléon Bonaparte entre en Palestine, il court jusqu’en 1922. Avec cette accroche : l’invention de la Terre sainte. En quoi cette année est-elle fondatrice ?

    En 1799, l’armée de Bonaparte parcourt le littoral palestinien jusqu’à Tyr. En Europe, certains y voient la possibilité de créer un État juif en Palestine. Mais l’ouverture de la Terre sainte aux Occidentaux est aussi l’occasion d’une lutte d’influences entre puissances chrétiennes. 

    Dans le tome 4, « Le rameau d’olivier et le fusil du combattant » (1967-1982), vous revenez sur ce qui a été un conflit israélo-arabe, puis un conflit israélo-palestinien. Est-ce que cela peut le redevenir ?

    Jusqu’en 1948, c’est un conflit israélo-palestinien avant tout. En 1948, cela devient un #conflit_israélo-arabe avec une dimension palestinienne. À partir de la fin des années 1970, la dimension palestinienne redevient essentielle.

    Ben Gourion disait que la victoire du sionisme était d’avoir transformé la question juive en problème arabe. Les derniers événements semblent montrer que le #problème_arabe est en train de redevenir une #question_juive.

    Le rôle des États-Unis a toujours été déterminant dans ce conflit. Que nous dit leur position aujourd’hui ? 

    La question de Palestine est en même temps une question intérieure pour les pays occidentaux du fait de l’histoire de la Shoah et de la colonisation. Il s’y ajoute aux États-Unis une dimension religieuse du fait du biblisme protestant et du « pionniérisme ». Les Palestiniens leur semblent être quelque part entre les Indiens et les Mexicains…

    La « République impériale » vient encore de montrer son impressionnante capacité de projection militaire dans la région, mais aussi son incapacité à obtenir un règlement politique satisfaisant.

    Pourquoi ce conflit déclenche-t-il autant de passions et clive-t-il autant dans le monde entier, où comme en France, le président appelle à « ne pas importer le conflit » ?

    C’est un conflit gorgé d’histoire. La Terre sainte est celle des trois religions monothéistes. Le conflit lui-même porte avec lui la mémoire de la Shoah et de la colonisation, d’où l’extraordinaire position d’exceptionnalité des acteurs.

    Vous avez écrit cinq tomes sur la question de Palestine. Après l’ultime « La Paix impossible », quel pourrait être le sixième ?
     
    Peut-être le retour de la question juive, mais c’est loin d’être une perspective encourageante.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/191123/henry-laurens-est-sur-la-voie-d-un-processus-de-destruction-de-masse-gaza

    #discours_génocidaire #religion (s) #sionisme

  • Aux frontières de la forteresse européenne

    Les arrivées de personnes exilées sont régulières en Europe, notamment par voie maritime. Pour toute réponse, les pays de l’Union européenne barricadent toujours plus leurs frontières avec des murs, des patrouilles constantes, des constructions de camps fermés. La journaliste #Elisa_Perrigueur en tient le récit en peintures.

    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/aux-frontieres-de-la-forteresse-europeenne
    http://perrigueur.eu/elisaperrigueur/dessins
    #dessin #frontières #peinture #art_et_politique #migrations #asile #réfugiés

    ping @isskein

  • Le Maroc repousse des centaines de migrants qui tentaient d’entrer dans l’enclave espagnole de Ceuta
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/11/18/le-maroc-repousse-des-centaines-de-migrants-qui-tentaient-d-entrer-dans-l-en

    Le Maroc repousse des centaines de migrants qui tentaient d’entrer dans l’enclave espagnole de Ceuta
    Par Alexandre Aublanc (Casablanca, correspondance)
    Un millier de migrants d’Afrique subsaharienne ont, selon la presse marocaine, tenté de franchir la clôture qui sépare le Maroc de l’enclave espagnole de Ceuta, vendredi 17 novembre au matin. Divisés en plusieurs groupes, ils ont convergé vers trois endroits : au nord de la ville, au niveau du quartier de Benzú, au sud, à proximité de la plage de Tarajal, et plus à l’est, dans la zone de Finca Berrocal. La plupart a été stoppée en territoire marocain par les forces de l’ordre, mais une centaine a réussi à s’approcher de la barrière extérieure de Ceuta, quelques-uns parvenant à l’escalader sans toutefois la franchir, selon la Guardia Civil espagnole.
    Citée par des médias marocains, la préfecture de Fnideq a fait état de nombreuses arrestations parmi les migrants. Certains ont « recouru à une violence excessive en utilisant des armes blanches », affirment les autorités marocaines qui chiffrent à quatre-vingt le nombre des blessés « légers », dont une cinquantaine parmi les forces de sécurité. Partagées sur les réseaux sociaux par des riverains, des vidéos montrent des centaines d’hommes courant le long d’une route, sans que l’on ne sache s’ils se dirigent vers la frontière ou fuient les forces de l’ordre. D’autres sont à l’arrêt, tandis qu’un hélicoptère les survole.
    Selon l’agence de presse espagnole EFE, c’est la troisième fois en vingt jours que des migrants tentent de franchir la frontière à Ceuta. Ils n’ont jamais été aussi nombreux depuis 2019, indiquent des ONG. Si aucun mort n’est à signaler, cette énième tentative en rappelle une autre, meurtrière cette fois : le 24 juin 2022, près de trente migrants avaient été tués en essayant d’entrer à Melilla. Plusieurs dizaines sont toujours portées disparus, selon l’Association marocaine des droits humains. « Ce qui s’est passé à Ceuta vendredi est une scène qui se répète inlassablement, la conséquence de l’externalisation des contrôles aux frontières de l’Europe, explique Mohamed Balga, secrétaire général de Pateras de la vida, une association marocaine qui veille aux droits des immigrés subsahariens. Cette fermeture des frontières est synonyme de drames humains, elle se fait avec l’assentiment de l’Europe et la complicité des autorités marocaines et espagnoles, qui ont fait de l’immigration une monnaie d’échange. »
    Depuis la reprise de leurs relations en avril 2022, après un an de gel diplomatique en raison de l’hospitalisation en Espagne du chef du Front Polisario, les rapports entre Rabat et Madrid sont au beau fixe. Le chef du gouvernement espagnol, Pedro Sanchez, a déclaré soutenir le plan d’autonomie marocain pour le Sahara occidental, rompant avec la neutralité historique de l’Espagne dans ce dossier. En retour, Madrid s’est assuré l’appui des autorités marocaines dans la lutte contre l’immigration irrégulière, octroyant au royaume des financements supplémentaires – plus de 30 millions d’euros en octobre 2022. Au premier trimestre 2023, le nombre des entrées illégales en Espagne depuis Ceuta et Melilla a chuté de 80 %, selon
    Le contraste est saisissant entre la situation actuelle et celle qui prévalait encore il y a deux ans. En mai 2021, le gouvernement espagnol n’avait pas eu de mots assez durs pour dénoncer une « agression » du Maroc après le passage de plus de 8 000 migrants à Ceuta, allant jusqu’à dénoncer un « chantage » de Rabat, accusé d’instrumentaliser « des mineurs » pour faire pression sur Madrid.
    Sur fond de réconciliation, les critiques ont désormais cédé la place aux amabilités. D’un côté comme de l’autre, le partenariat migratoire entre les deux pays est jugé « exceptionnel ». « C’est un modèle de coopération Nord-Sud », relevait en juin la secrétaire d’Etat espagnole aux migrations. C’est cette même collaboration qui a permis « de contenir la tentative de franchissement » à Ceuta, selon la presse ibérique. Les forces de l’ordre marocaines auraient en effet averti dans la nuit de jeudi à vendredi leurs homologues espagnoles de la présence d’un premier groupe « d’environ 150 migrants » à proximité de la frontière. L’action « préparée et combinée » des autorités des deux pays a fait le reste.

    #Covid-19#migrant#migration#maroc#espagne#ue#ceuta#melila#frontiere#partenariatmigratoire#droitshumains#afriquesubsaharienne#sante

  • La Corte europea condanna l’Italia a pagare per i maltrattamenti ai migranti : costretti a denudarsi, privati della libertà e malnutriti

    La causa avviata da quattro esuli sudanesi: dovranno ricevere in tutto 36 mila euro dallo Stato

    VENTIMIGLIA. Spogliati «senza alcuna ragione convincente». Maltrattati e «arbitrariamente privati della libertà». Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
    I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due «in un giorno imprecisato di luglio» del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto «in un luogo imprecisato della costa siciliana». Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43.

    In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati «costretti a salire su un furgone della polizia», trasportati in una caserma dove sono stati «perquisiti», obbligati a consegnare «i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture» e poi «è stato chiesto loro di spogliarsi». Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali.
    Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati «costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio» e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo «esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti».
    Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino.
    Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato.

    La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda «la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia», che «può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo». E per i giudici di Strasburgo «il governo non ha fornito alcuna ragione convincente» per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo «le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering», che però «riguardavano altri migranti». Per la Corte, quella situazione «esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale». E ancora, le condizioni vissute in quei giorni «hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante», vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano «stati arbitrariamente privati della libertà», pur se in una situazione di «vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot», già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti.

    Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila «a titolo di danno morale».

    https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/18/news/litalia_condannata_a_pagare_per_i_maltrattamenti_ai_migranti-13871399

    Le périple des 4 Soudanais en résumé :
    – 4 personnes concernées, ressortissants soudanais
    – 2 arrivés à Cagliari en juillet 2016, un le 14 juillet à Reggio Calabria, un le 16 août 2016
    – Transfert des 4 au centre d’accueil de la Croix-Rouge à Vintimille avec un fourgon de la police —> dénudés, humiliés
    – Transfert (avec 20 autres) vers l’hotspot de Taranto
    – 23 août —> transfert à Vintimille par bus, RV avec un représentant du gouvernement soudanais qui a reconnu leur nationalité soudanaise, début procédure de renvoi vers Soudan en avion
    – Transfert à l’aéroport de Torino Caselle, mais pas de place pour les 4 dans l’avion
    – Transfert au centre de rétention de Turin
    – Personne ne part, les 4 arrivent à demander l’asile et obtenir le statut de réfugié
    – Novembre 2023 : Italie condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme

    #justice #condamnation #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #CEDH #cour_européenne_des_droits_de_l'homme #mauvais_traitements #privation_de_liberté #nudité #violences_policières #Taranto #hotspot #CPR #rétention #détention_administrative #réfugiés_soudanais #Turin #migrerrance #humiliation

    voir aussi ce fil de discussion sur les transferts frontière_sud-alpine - hotspot de Taranto :
    Migranti come (costosi) pacchi postali


    https://seenthis.net/messages/613202

    • Denudati, maltrattati e privati della libertà: la CEDU condanna nuovamente l’Italia

      Le persone migranti denunciarono i rastrellamenti avvenuti a Ventimiglia nell’estate 2016

      La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha nuovamente condannato l’Italia a risarcire con un totale di 27mila euro (più 4.000 euro di costi e spese legali) quattro cittadini sudanesi per averli denudati, maltrattati e privati della libertà nell’estate 2016 durante le cosiddette operazioni per “alleggerire la pressione alla frontiera” di Ventimiglia, quando centinaia di persone migranti venivano coattivamente trasferite negli hotspot del sud Italia 1 e, in alcuni casi, trasferiti nei CIE e quindi rimpatriati nel paese di origine 2.

      C’è da dire che la Corte avrebbe potuto condannare l’Italia con maggiore severità, soprattutto per quanto riguarda le deportazioni in un paese non sicuro come il Sudan. Tuttavia, si tratta dell’ennesima conferma che l’Italia nega i diritti fondamentali alle persone migranti e che i governi portano avanti operazioni nei quali gli abusi e i maltrattamenti delle forze dell’ordine non sono delle eccezioni o degli eccessi di un singolo agente, ma qualcosa di strutturale e quindi sistemico. E quando queste violazioni sono denunciate, nemmeno vengono condotte indagini per fare luce sulle responsabilità e indagare i colpevoli.

      La sentenza della CEDU pubblicata il 16 novembre 3 riguarda nove cittadini sudanesi arrivati in Italia nell’estate del 2016 i quali hanno denunciato diversi abusi subiti dalle autorità italiane, un tentativo di rimpatrio forzato e uno portato a termine.

      Nel primo caso i ricorrenti hanno avanzato denunce in merito al loro arresto, trasporto e detenzione in Italia, uno di loro ha anche affermato di essere stato maltrattato.

      I quattro ricorrenti del primo caso hanno ottenuto la protezione internazionale, mentre i cinque ricorrenti del secondo caso hanno affermato di aver fatto parte di un gruppo di 40 persone migranti che erano state espulse subito dopo il loro arrivo in Italia.

      Le persone sono state difese dall’avv. Gianluca Vitale e dell’avv.te Nicoletta Masuelli e Donatella Bava, tutte del foro di Torino.
      I fatti riportati nella sintesi

      I quattro ricorrenti nel primo caso sono nati tra il 1980 e il 1994. Vivono tutti a Torino, tranne uno che vive in Germania. I ricorrenti nel secondo caso sono nati tra il 1989 e il 1996. Uno vive in Egitto, uno in Niger e tre in Sudan.

      Tutti e nove i richiedenti sono arrivati in Italia nell’estate del 2016. I primi quattro hanno raggiunto le coste italiane in barca, mentre gli altri cinque sono stati salvati in mare dalla Marina italiana. Alcuni sono transitati attraverso vari hotspot e tutti sono finiti a Ventimiglia presso il centro della Croce Rossa.

      Secondo i ricorrenti nel primo caso, il 17 e il 19 agosto 2016 sono stati arrestati, costretti a salire su un furgone della polizia e portati in quella che hanno capito essere una stazione di polizia. Sono stati perquisiti, è stato chiesto loro di spogliarsi e sono stati lasciati nudi per circa dieci minuti prima che venissero prese le loro impronte digitali.

      Sono stati poi costretti a salire su un autobus, scortati da numerosi agenti di polizia, senza conoscere la loro destinazione e senza ricevere alcun documento sulle ragioni del loro trasferimento o della loro privazione di libertà. In seguito hanno scoperto di essere stati trasferiti da Ventimiglia all’hotspot di Taranto.

      Nell’hotspot di Taranto, dal quale non avrebbero potuto uscire, sostengono di aver ricevuto un provvedimento di respingimento il 22 agosto 2016. Il giorno successivo sono stati riportati a Ventimiglia in autobus.

      Secondo i ricorrenti, le condizioni all’hotspot erano difficili come lo erano durante ciascuno dei trasferimenti in autobus durati 15 ore. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e minacce, senza cibo o acqua sufficienti in piena estate.

      Sostengono di non aver incontrato un avvocato o un giudice durante quel periodo e di non aver capito cosa stesse succedendo. Il 24 agosto 2016 sono stati trasferiti da Ventimiglia all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un volo per il Sudan. Poiché non c’erano abbastanza posti sull’aereo, il loro trasferimento è stato posticipato. Sono stati quindi trasferiti al CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino e il Questore ha emesso per ciascuno di loro un provvedimento di trattenimento.

      Uno dei ricorrenti (T.B.) sostiene che le autorità hanno tentato di espellerlo nuovamente il 1° settembre 2016. Ha protestato e la polizia lo ha colpito al volto e allo stomaco. Lo hanno poi costretto a salire sull’aereo e lo hanno legato. Tuttavia, il pilota si è rifiutato di decollare a causa del suo stato di agitazione. È stato riportato al CIE di Torino.

      Tutti e quattro i richiedenti hanno ottenuto la protezione internazionale, essenzialmente sulla base della loro storia personale in Sudan e del conseguente rischio di vita in caso di rimpatrio.

      Secondo i ricorrenti del secondo caso, invece, non sono mai stati informati in nessun momento della possibilità di chiedere protezione internazionale. Sostengono inoltre di aver fatto parte di un gruppo di circa 40 migranti per i quali è stato trovato posto sul volo in partenza il 24 agosto 2016 e di essere stati rimpatriati a Khartoum lo stesso giorno.

      Il governo italiano ha contestato tale affermazione, sostenendo che i ricorrenti non sono mai stati sul territorio italiano. Hanno fornito alla Corte le fotografie identificative delle persone rimpatriate in Sudan il 24 agosto 2016, sostenendo che non presentavano una stretta somiglianza con i ricorrenti. Ha sostenuto inoltre che i nomi delle persone allontanate non corrispondevano a quelli dei ricorrenti. In considerazione del disaccordo delle parti, la Corte ha nominato un esperto di comparazione facciale della polizia belga (articolo A1, paragrafi 1 e 2, del Regolamento della Corte – atti istruttori) che, il 5 ottobre 2022, ha presentato una relazione per valutare se le persone rappresentate nelle fotografie e nei filmati forniti dai rappresentanti dei ricorrenti corrispondessero a quelle raffigurate nelle fotografie identificative presentate dal Governo.

      Il rapporto ha concluso, per quanto riguarda uno dei ricorrenti nel caso, W.A., che i due individui raffigurati in tali fonti corrispondevano al massimo livello di affidabilità. Per quanto riguarda gli altri quattro richiedenti, non vi era alcuna corrispondenza affidabile.
      La decisione della Corte

      Le sentenze sono state emesse da una Camera di sette giudici, composta da: Marko Bošnjak (Slovenia), Presidente, Alena Poláčková (Slovacchia), Krzysztof Wojtyczek (Polonia), Péter Paczolay (Ungheria), Ivana Jelić (Montenegro), Erik Wennerström (Svezia), Raffaele Sabato (Italia), e anche Liv Tigerstedt, Vice Cancelliere di Sezione.

      La Corte, ha ritenuto, all’unanimità, che vi è stata:

      1) una violazione dell’articolo 3 per quanto riguarda l’assenza di una ragione sufficientemente convincente per giustificare il fatto che i ricorrenti siano stati lasciati nudi insieme a molti altri migranti, senza privacy e sorvegliati dalla polizia e le condizioni dei loro successivi trasferimenti in autobus da e verso un hotspot, sotto il costante controllo della polizia, senza sapere dove stessero andando;

      2) una violazione dell’articolo 3, in quanto non è stata svolta alcuna indagine in merito alle accuse del ricorrente di essere stato picchiato da agenti di polizia durante un tentativo di rimpatrio;

      3) la violazione dell’articolo 5, paragrafi 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) per quanto riguarda tre dei quattro ricorrenti in relazione al loro fermo, trasporto e detenzione arbitrari.

      La Corte ha stabilito che l’Italia deve pagare ai ricorrenti nel caso A.E. e T.B. contro Italia 27.000 euro per danni morali e 4.000 euro, congiuntamente, per costi e spese.

      In particolare:

      Per quanto riguarda i restanti reclami dei ricorrenti in A.E. e T.B. contro l’Italia, la Corte ha riscontrato che le condizioni del loro arresto e del trasferimento in autobus, considerate nel loro insieme, devono aver causato un notevole disagio e umiliazione, equivalenti a un trattamento degradante, in violazione dell’Articolo 3.

      Inoltre, i successivi lunghi trasferimenti in autobus dei ricorrenti sono avvenuti in un breve lasso di tempo e in un periodo dell’anno molto caldo, senza cibo o acqua sufficienti e senza che sapessero dove erano diretti o perché. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e di minacce. Queste condizioni, nel complesso, devono essere state fonte di angoscia.

      Infine, la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 3 per quanto riguarda il richiedente (T.B.) che ha affermato di essere stato picchiato durante un altro tentativo di allontanamento. Due degli altri richiedenti hanno confermato il suo racconto durante i colloqui relativi alle loro richieste di protezione internazionale; uno ha dichiarato in particolare di aver visto un altro migrante che veniva riportato dalla polizia dall’aeroporto con il volto tumefatto. Anche se T.B. aveva detto, durante un colloquio con le autorità, di essere in grado di identificare i tre agenti di polizia responsabili dei suoi maltrattamenti, non è stata condotta alcuna indagine.

      La Corte ha notato che il Governo le aveva fornito una copia di un’ordinanza di refusal-of-entry nei confronti di uno dei richiedenti, A.E., datata 1 agosto 2016, e la Corte ha quindi dichiarato inammissibile il suo reclamo sulla sua detenzione. D’altra parte, ha rilevato che gli altri tre ricorrenti nel caso, ai quali non erano stati notificati ordini di refusal-of-entry fino al 22 agosto 2016, erano stati arrestati e trasferiti senza alcuna documentazione e senza che potessero lasciare l’hotspot di Taranto. Ciò ha comportato una privazione arbitraria della loro libertà, in violazione dell’Articolo 5 § 1.

      Inoltre, era assente una legislazione chiara e accessibile relativa agli hotspot e la Corte non ha avuto alcuna prova di come le autorità avrebbero potuto informare i richiedenti delle ragioni legali della loro privazione di libertà o dare loro l’opportunità di contestare in tribunale i motivi della loro detenzione de facto.

      La Corte ha però respinto come inammissibili tutti i reclami dei nove ricorrenti, tranne uno, in merito al fatto che le autorità italiane non avevano preso in considerazione il rischio di trattamenti inumani se fossero stati rimpatriati in Sudan. In A.E. e T.B. contro Italia, i richiedenti, che avevano ottenuto la protezione internazionale, non erano più a rischio di deportazione e non potevano quindi affermare di essere vittime di una violazione dell’Articolo 3. In W.A. e altri c. Italia, la Corte ha ritenuto che quattro dei cinque ricorrenti, per i quali il rapporto della polizia belga del 2022 non aveva stabilito una corrispondenza affidabile tra le fotografie fornite dalle parti, non avessero sufficientemente motivato i loro reclami.

      La Corte ha dichiarato ammissibile il reclamo del ricorrente, W.A.. Ha osservato che i documenti disponibili erano sufficienti per concludere che si trattava di una delle persone indicate nelle fotografie identificative fornite dal Governo. Ha quindi ritenuto che fosse tra i cittadini sudanesi allontanati in Sudan il 24 agosto 2016. Tuttavia, la Corte ha continuato a ritenere che non vi fosse stata alcuna violazione dell’Articolo 3 nel caso di W.A. .

      In particolare, ha notato che c’erano state delle imprecisioni nel suo modulo di richiesta alla Corte e che, sebbene fosse stato assistito da un avvocato in diversi momenti della procedura di espulsione, aveva esplicitamente dichiarato di non voler chiedere la protezione internazionale e di essere semplicemente in transito in Italia. Inoltre, a differenza dei richiedenti nel caso A.E. e T.B. contro l’Italia, che avevano ottenuto la protezione internazionale sulla base delle loro esperienze personali, W.A. aveva sostenuto di appartenere a una tribù perseguitata dal Governo sudanese solo dopo aver presentato la domanda alla Corte europea. Questa informazione non era quindi disponibile per le autorità italiane al momento rilevante e la Corte ha concluso che il Governo italiano non ha violato il suo dovere di fornire garanzie effettive per proteggere W.A. dal respingimento arbitrario nel suo Paese d’origine.

      – Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot, di Francesco Ferri (https://www.meltingpot.org/2016/08/guerra-al-desiderio-migrante-deportazioni-da-ventimiglia-e-como-verso-gl) – 17 agosto 2026
      – Rimpatrio forzato dei cittadini sudanesi: l’Italia ha violato i diritti. Rapporto giuridico sul memorandum d’intesa Italia-Sudan a cura della Clinica Dipartimento di Giurisprudenza di Torino (https://www.meltingpot.org/2017/10/rimpatrio-forzato-dei-cittadini-sudanesi-litalia-ha-violato-i-diritti-um) – 31 ottobre 2017.
      - The cases of A.E. and T.B. v. Italy (application nos. 18911/17, 18941/17, and 18959/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228836) and W.A. and Others v. Italy (no. 18787/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228835)

      https://www.meltingpot.org/2023/11/denudati-maltrattati-e-privati-della-liberta-la-cedu-condanna-nuovamente

  • Violences

    Dans sa nouvelle création qui prend le titre de « Violences », Léa Drouet s’attache surtout à nous faire passer de l’autre côté des gros intitulés. Le long d’une écriture sensible qui se compose au croisement du corps, du son et de la scénographie, elle nous conduit sur le bord des images de la violence telles qu’elles sont agencées pour nous choquer et, nous sidérant, nous empêcher non seulement d’agir mais déjà de sentir.

    Résister à l’assignation à la passivité commence peut-être ici : pouvoir éprouver et expérimenter. Reprendre l’expérience de la violence non plus seulement en tant qu’elle est subie par les uns et exercée par les autres, mais en tant qu’elle nous traverse tous et chacun. La violence n’est pas que le lot d’un pouvoir qui nous rend impuissants. Elle est aussi une puissance que nous pouvons déployer pour reprendre des capacités de voir, d’agir et de vivre autrement. Seule en scène, Léa Drouet commence par suivre le parcours de sa grand-mère Mado qui, petite fille, dut traverser des champs et des routes pour échapper à la rafle du Vél d’Hiv’. À partir de là, la metteuse en scène retrace la traversée des frontières qui conduit aujourd’hui d’autres enfants à perdre la vie. Dans les interstices qui séparent les morts que l’on compte de toutes les morts qui ne comptent pas, elle tente de recomposer des mémoires ainsi que des histoires pour l’avenir. L’artiste agit sur un espace principalement composé de sables, évoquant des territoires fracturés, séparés par des frontières ou abîmés par des tours. Si le sable sait parfaitement recouvrir les traces et effacer les marques de violence, il est aussi porteur d’empreintes. Léa Drouet façonne ce paysage où le corps engagé passe du témoin à l’actrice et de l’actrice à la narratrice, comme si les lignes de rupture permettaient surtout des rencontres nouvelles. Alors émergent peu à peu d’autres positionnements, d’autres possibilités d’action et d’autres attentions au détail et au petit. Car c’est peut-être dans la fragilité des grains de sable que se distinguent les fondements, friables et solides à la fois, d’un monde capable d’assumer ses conflits autrement que sous la forme du champ de bataille et de l’État de guerre généralisé.

    -- Camille Louis, Dramaturge

    https://vimeo.com/504326442

    https://vaisseau-leadrouet.com/projet/violences

    #frontières #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #violence #art_et_politique #art #théâtre #impuissance #puissance #Léa_Drouet #mémoire #traces #sable #empreintes #conflits

  • #Contrôles_frontaliers : l’ère des #drones

    Le 7 septembre 2023, les préfets du Nord, du #Pas-de-Calais et de la Somme adoptaient un arrêté interdépartemental autorisant l’emploi de #caméras installées à bord d’aéronefs « dans le cadre de la mission de lutte contre l’immigration clandestine en zone Nord ». Il permet, durant 3 mois, l’utilisation de 76 caméras embarquées à bord de drones, #avions et #hélicoptères afin de surveiller une large bande côtière de 5 km s’étendant, hors agglomération, sur 150 km de #Mers-les-Bains à #Bray-Dunes. Peut notamment être mobilisé, pour la #surveillance nocturne, l’avion de la société privée, prestataire de la #police_aux_frontières, habituellement utilisé dans le cadre de missions de sauvetage…

    Depuis qu’un #décret du #19_avril_2023, pris en application de la loi du 24 janvier 2022 relative à la responsabilité pénale et à la sécurité intérieure, permet la #surveillance_des_frontières par des caméras embarquées « en vue de lutter contre leur franchissement irrégulier », les préfets des départements frontaliers n’ont pas tardé à édicter des arrêtés en série, faisant entrer la surveillance des frontières dans l’ère des drones.

    Le préfet des #Alpes-Maritimes s’est empressé de dégainer le premier. En guise de ballon d’essai, il autorisait, pour la seule journée du 4 mai, la surveillance par drones d’un très large périmètre couvrant le littoral mentonnais ainsi que les abords des postes frontières et des voies ferroviaires. Une semaine après, le 10 mai, le même préfet édictait, pour une durée de 3 mois, deux nouveaux arrêtés couvrant le secteur frontalier et ferroviaire de la commune de Menton, de Breil-sur-Roya, de Sospel et de Castellar.

    Au terme de ces 3 mois, le 10 août, un nouvel arrêté autorisait l’utilisation d’une caméra grand angle et d’une #caméra_thermique, durant 3 mois, pour surveiller, de jour comme de nuit, le secteur de la commune de #Menton. Puis un autre, le 11 septembre, toujours pour 3 mois, en vue de l’utilisation de caméras optiques et thermiques pour contrôler la #vallée_de_la_Roya. À n’en pas douter, ces arrêtés seront renouvelés alors même que la loi exige que la surveillance ne soit pas permanente.

    Le 24 mai, le préfet des #Hautes-Alpes autorisait à son tour, pour 3 mois, la surveillance par drones des points de passage du #Briançonnais. Loin d’empêcher le franchissement des cols alpins, l’utilisation de ces moyens technologiques pousse les exilés à emprunter des itinéraires plus dangereux. Fin août, l’association Refuges solidaires n’a-t-elle pas dû fermer les portes du centre d’accueil d’urgence en raison de saturation ?

    Pour tenter de freiner le déploiement massif des drones, les associations ne sont pas restées passives. Afin de respecter le droit au respect de la vie privée, le Conseil constitutionnel a exigé, dans sa décision du 20 janvier 2022, qu’« une telle autorisation ne saurait cependant […] être accordée qu’après que le préfet s’est assuré que le service ne peut employer d’autres moyens moins intrusifs… ». Cette réserve a permis à des associations locales de contester avec succès, en référé-liberté, un arrêté du 26 juin 2023 du préfet des Pyrénées-Atlantiques autorisant la surveillance par drones, durant 1 mois, d’un large périmètre des communes frontalières d’Urrugne et d’Hendaye. En appel, le Conseil d’État a confirmé la suspension de l’arrêté, estimant que les données produites par l’administration sur les flux migratoires, les caractéristiques géographiques de la zone concernée et les moyens affectés « ne sont pas suffisamment circonstanciés pour justifier, sur la base d’une appréciation précise et concrète de la nécessité de la proportionnalité de la mesure, que le service ne peut employer, pour l’exercice de cette mission dans cette zone et sur toute l’étendue de son périmètre, d’autres moyens moins intrusifs… [1] ».

    Plus récemment, des associations, dont le Gisti, ont contesté, sans succès [2], des arrêtés du préfet de Mayotte d’août 2023 autorisant, jusqu’en novembre, l’utilisation de drones « dans le cadre des opérations de maintien de l’ordre et de lutte contre l’immigration clandestine » sur un périmètre couvrant 9 communes, pour une superficie au moins égale à 200 km2, soit l’essentiel des zones habitées de l’île.

    Le déploiement de ces technologies de surveillance contribue à la déshumanisation accrue des contrôles frontaliers et à la mise à distance des migrants. Plusieurs indices font néanmoins craindre un développement rapide de ces technologies de surveillance. En mars 2023, la Commission européenne envisageait ainsi, dans une communication sur la gestion intégrée des frontières, de privilégier l’utilisation de drones. Quant à la loi « JO » du 19 mai 2023, elle permet aux forces de l’ordre d’expérimenter, jusqu’en 2025, le traitement algorithmique des images captées lors de manifestations sportives, récréatives ou culturelles – expérimentation qui sera, sans guère de doute, pérennisée à l’avenir et élargie aux contrôles frontaliers.

    Pour surveiller des périmètres plus vastes, il est aussi possible d’effectuer une surveillance des frontières par des drones munis de capteurs thermiques et infrarouge [3], des drones militaires (comme pour le défilé du 14 juillet 2023), des drones en essaim (comme à l’occasion de feux d’artifice), ou même des dirigeables. On peut aussi imaginer des drones équipés de dispositifs d’immobilisation à impulsion électrique (dit « taser ») [4] ou, pourquoi pas, comme Serge Lehman dans F.A.U.S.T. [5], des nano drones permettant de contrôler l’accès des citoyens à un territoire et tenir à l’écart les indésirables ?

    https://www.gisti.org/spip.php?article7132

    #frontières #Calais #justice #frontière_sud-alpine #Alpes #Mayotte #technologie #déshumanisation

  • Tra i respinti dalla Croazia. La violenza è ancora la prassi lungo le rotte balcaniche

    Ritorno sulla frontiera tra Bosnia ed Erzegovina e Unione europea, a quasi tre anni dall’incendio che distrusse il campo di #Lipa. Le persone incontrate denunciano i respingimenti illegali e le vessazioni delle polizie. Tra gennaio e ottobre 2023 i passaggi nei Balcani occidentali sono stati quasi 100mila. Il videoreportage

    È notte fonda ma la luna piena illumina tutta la valle del fiume Sava. Non è l’ideale per le persone che nell’ombra provano a passare da un confine all’altro, dal Nord della Bosnia ed Erzegovina alla Croazia. “A qualcuno la luna piena dà sicurezza -racconta un ragazzo che arriva dal Sudan- perché vedi bene la strada. Ad altri non piace, perché le guardie ti vedono lontano un miglio”.

    Bosanska Gradiška è uno degli snodi chiave per i migranti che dal Nord della Bosnia tentano di attraversare il fiume per entrare in Croazia, nell’Unione europea. In tanti sono morti nelle acque della Sava, affogati a poche bracciate dalla riva, ma i più giovani, soprattutto in estate, provano ancora a nuotare da una sponda all’altra, da un confine all’altro. I segni del passaggio sono evidenti, ci sono persino tracce di pneumatici e di trascinamento. Sembra la scia di una piccola imbarcazione. Nei villaggi lunga la Sava, da Gradiška in poi, alcuni residenti della zona “noleggiano” le loro barchette per accompagnare i migranti dall’altro lato, per 20 o 30 marchi.

    Si cammina in silenzio, tutto tace, la frontiera ufficiale, quella presidiata dalla polizia, è a pochissimi chilometri. “Ultimamente i migranti si vedono poco in giro -spiega un’attivista della zona- ma ci sono eccome. Adesso si nascondono di più ma si muovono e tanto”. I numeri confermano i “flussi” lungo le rotte negli ultimi mesi. Secondo i dati di Frontex, da gennaio a ottobre gli “attraversamenti” nei Balcani occidentali hanno superato quota 97.300, soprattutto afghani, siriani e turchi. I volontari della zona, però, registrano la presenza anche di persone provenienti dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana.

    “Tanti arrivano direttamente in Serbia con l’aereo e poi cominciano il viaggio. Altri, invece, arrivano a piedi dalla Turchia o dalla Grecia”. Il cammino, in ogni caso, è faticoso e pericoloso. Il rischio è quello di morire di freddo in inverno o di essere picchiati, di perdere anche quel poco che si ha, di rimanere bloccati per mesi. Cosa che sta accadendo di nuovo, nell’autunno del 2023, lontano dai riflettori un tempo più accesi.

    “Mi hanno spaccato uno zigomo -racconta un ventenne iraniano incontrato nei boschi bosniaci a fine ottobre- è successo l’altra sera. Adesso aspetto qualche giorno prima di ritentare. La polizia croata è la peggiore”. “I miei amici un mese fa sono passati senza problemi”, aggiunge un altro ragazzo, che non dice di dov’è. “E invece a noi ci fanno sputare sangue, letteralmente”. Qualcosa è successo. Fino a qualche settimana fa le autorità croate lasciavano “passare” con più facilità, e per i migranti era diventato relativamente semplice arrivare fino Zagabria o a Fiume, per poi proseguire verso la Slovenia. Poi, però, la protesta dei residenti di alcune cittadine sul confine hanno spinto il governo croato a cambiare ancora una volta politica. Riprendendo così i respingimenti violenti. I metodi brutali della polizia croata sono noti da tempo. I racconti raccolti in questi giorni in Bosnia ed Erzegovina confermano invece che tutte le pratiche più disumane utilizzate in questi anni sono tornare prepotentemente “di moda”.

    https://www.youtube.com/watch?v=IRgHN1sh8ZQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

    I respingimenti della polizia croata hanno avuto un immediato contraccolpo sulle presenze al campo di Lipa, a 25 chilometri da Bihać. Siamo arrivati al campo di mattina con un permesso per entrare e svolgere una visita guidata della struttura. L’unico dato di cui siamo certi è il numero delle presenze. A novembre ci sono all’incirca 1.500 persone, accampate insieme nonostante le condizioni non siano delle migliori. I ragazzi sono spesso costretti a spendere i propri soldi per comprare all’esterno sapone e dentifricio, perché raramente sono a disposizione. “Compriamo anche qualcosa da mangiare -racconta Adam, dalla Siria- perché spesso abbiamo fame, ma è anche l’occasione per fare una pausa e per uscire dal recinto”. Ci spostiamo al negozietto che è stato allestito proprio di fronte all’ingresso del campo. Prendiamo un the mentre i ragazzi si avvicinano numerosi. Due euro per un bicchierino. I prezzi sono alti. Un solo rotolo di carta igienica costa quasi un euro. “Lo compriamo perché non c’è mai nei bagni”, spiega un ragazzo con il sacchetto in mano. Le guardie del campo intanto ci osservano, non gradiscono molto che si parli con i loro “ospiti”, e allora ci spostiamo verso il bosco.

    Mentre siamo nella jungle, poco fuori Lipa, incontriamo tre ragazzi siriani che tornano verso il campo dopo essere stati respinti. Hanno l’aria stanca e affranta, anche perché a due di loro la polizia ha sequestrato e spaccato il telefono. Si fermano qualche minuto a raccontare ma poi proseguono, perché hanno bisogno di riposare, bere un po’ d’acqua, riordinare le idee. Nel pomeriggio raggiungiamo il campo Borići, dedicato alle famiglie e ai minori non accompagnati, dove ci sono poco più di 800 persone. Un numero non elevatissimo ma comunque superiore a quello della media degli ultimi mesi. Tra loro ci sono molte persone in arrivo dall’Africa sub-sahariana ma anche diverse famiglie dal Bangladesh. “A volte restano a lungo -spiega uno dei coordinatori del centro, dove abbiamo il permesso di entrare-. E infatti ai bambini facciamo anche da scuola. È un modo per insegnargli la lingua, per trascorrere del tempo sereno e magari fargli ritrovare il sorriso”. L’atmosfera qui è migliore e anche l’accoglienza è meno militaresca, più informale. Finché c’è la luce del sole il clima resta sereno, ma appena fa buio il fermento aumenta.

    Ogni sera i migranti cercano di attraversare il confine arrivando il più vicino possibile con i taxi o con gli autobus e sperano di non incontrare la polizia croata. Di recente, però, succede quasi sempre. Lo raccontano a più riprese le tantissime persone incontrate in questi giorni d’autunno. Grecia, Turchia, Bulgaria, Serbia. Tra i ragazzi che hanno il desiderio di far sapere cosa gli è successo c’è Mohammed, dal Marocco, che ha provato ad attraversare il confine croato sette volte e ha subito maltrattamenti feroci dalla polizia di Zagabria. Poi c’è Samir, 18 anni, dall’Afghanistan, in fuga dai Talebani. E poi c’è Alì, dal Ghana, che ha perso i documenti e non è riuscito a rientrare in Italia dal suo Paese. Tre storie racchiuse in questo video, anche se ci vorrebbero ore e ore di testimonianze. Ore e ore di immagini e denunce, perché quel che accade sotto i nostri occhi fa vergognare.

    https://altreconomia.it/tra-i-respinti-dalla-croazia-la-violenza-e-ancora-la-prassi-lungo-le-ro
    #Balkans #route_des_balkans #asile #migrations #réfugiés #frontières #refoulements #push-backs #Croatie #Bosnie-Herzégovine #Bosanska_Gradiška #Sava #rivière_Sava #rivière #violence #violences_policières #Bihać #Borići

  • Briançon, une zone frontière à bout de souffle

    À Briançon, commune des Hautes-Alpes, près de sept ans après l’ouverture de cette voie de passage par les personnes migrantes venues d’Italie, la situation ne cesse de se détériorer. En dépit des renforts policiers et de l’arrivée des premières neiges, les exilés continuent de passer.

    Col de Montgenèvre. Il neige. Entre un télésiège à l’arrêt et un centre de vacances, deux policiers se tiennent en faction sur un promontoire qui domine la frontière franco-italienne. Ils suivent à la jumelle un groupe de cinq exilés venus d’Italie. Ils sont poursuivis par un de leurs collègues de la Police aux Frontières (PAF). Michel Rousseau, bénévole de l’association de défense des exilés Tous migrants est témoin de la scène. Il interpelle les deux gendarmes :

    « Voilà typiquement ce qu’il ne faut pas faire : poursuivre des gens dans une pente raide et enneigée avec un torrent en contrebas ! C’est comme ça que les accidents surviennent ! »

    Il s’approche des deux gendarmes, les salue tout en fouillant dans la poche latérale de son pantalon en gore tex. Il en sort deux exemplaires d’un petit livret que son association a édité à l’attention des forces de l’ordre. Les gendarmes hésitent. Michel Rousseau tente de les rassurer :

    « Ne vous inquiétez pas, ça fait plusieurs années qu’on dialogue avec les forces de l’ordre et votre hiérarchie a été informée de notre démarche. On leur a déjà distribué ce livret. Prenez-le. On l’a fait pour vous. C’est un petit document qui rappelle le droit qui s’applique à la frontière mais qui malheureusement ne correspond pas aux ordres de ce gouvernement qui vient d’être condamné par la Cour de Justice de l’Union Européenne par rapport à ce qu’il se passe à la frontière : les refoulements systématiques, les pratiques de refus d’entrée et de pseudo réadmissions, les pratiques d’enfermement sans parler de la non prise en compte des demandeurs d’asile. »

    Les deux agents acceptent finalement les fascicules qu’ils rangent rapidement dans leurs poches revolver. Et Michel Rousseau de leur rappeler qu’ils ont droit de désobéir à un ordre illégal. Pendant ce temps, les personnes migrantes qui tentaient de fuir ont été interpellées par les forces de l’ordre. Elles marchent dans la neige, en file indienne, précédées et suivies par des gendarmes mobiles qui le conduisent jusqu’à des fourgonnettes dépêchées pour les emmener dans les locaux de la Police aux frontières de Montgenèvre. Là, elles sont enfermées dans un Algeco jusqu’à leur remise à la police italienne qui les ramènera en Italie.
    10 personnes sont mortes, d’épuisement, d’hypothermie, de noyade ou de chute

    Mamadou Alpha Diallo, un jeune guinéen de 16 ans rencontré dans le refuge d’Oulx en Italie a tenté par trois fois de passer :

    « Après avoir pris le bus jusqu’à Clavières (dernier village italien avant la France), on marche dans la montagne pour éviter la police. Quand on les voit, on se cache. Des fois comme hier, ils utilisent des drones. Quand on entend le drone, on court se cacher sous un sapin et on attend, dans la neige, deux heures, trois heures parfois. Malheureusement pour moi, les semelles de mes chaussures se sont décollées et j’ai dû rejoindre la route nationale pour ne pas avoir les pieds gelés. C’est là que la police m’a arrêté alors que je touchais au but après 8h de marche. »

    Le jeune guinéen parviendra à passer le surlendemain au bout de la quatrième tentative. À quelques exceptions près, tout le monde passe au prix de plus grands risques encourus et des blessures spécifiques à l’environnement montagneux méconnu pour la plupart des exilés. Depuis près de sept ans que cette voie de passage a été ouverte, 10 personnes sont mortes, d’épuisement, d’hypothermie, de noyade ou de chute.

    Isabelle Lorre, coordinatrice de l’ONG Médecins du monde à Briançon impute ce bilan a une présence toujours plus importante des forces de l’ordre dans la montagne :

    « Le problème principal est lié au fait qu’il y ait une militarisation de la frontière. Ça affecte directement la santé des personnes et leur traversée de la frontière. Ca veut dire que les personnes vont se faire interpeller par surprise, il y a des courses poursuites dans la montagne, et toute une stratégie d’évitement des forces de l’ordre par ces personnes. Ce qui implique de passer par des chemins beaucoup plus détournés et périlleux et de se cacher. On est très vigilants sur la période hivernale, il faut savoir qu’il fait jusqu’à -20 degrés sur le col autour de Montgenèvre donc les personnes peuvent rester cachés dans la neige un certain temps avec des risques assez forts d’hypothermie et de gelures.
    On questionne aussi les risques psychiques des personnes, ça reste des traversées qui sont très éprouvantes suite à un parcours migratoire déjà compliqué en amont. »

    Dominique Dufour, préfet des Hautes-Alpes réfute ces allégations :

    « L’ensemble des policiers, des gendarmes, des dignitaires qui sont engagés dans la lutte contre l’immigration clandestine prennent particulièrement soin à ne pas intervenir sur des zones à risque. Nous savons pertinemment que nous sommes sur un terrain qui est compliqué et en plus de la dissuasion que constitue la seule présence d’un policier, les interventions ne se font que lorsque nous sommes en terrain sécurisé. Maintenant, disons les choses comme elles sont, il y a une prise de risque inconsidérée de la part des migrants qui souhaitent passer, parfois encouragés par un certain nombre d’organisations. Et donc cette prise de risque est à bannir et à proscrire et c’est le message que nous nous faisons passer en permanence ».

    Malgré les renforts en gendarmes mobiles ou militaires de l’opération sentinelle, les associations d’aide aux migrants de la région de Briançon estiment qu’entre 20 et 30 000 personnes migrantes sont parvenues à passer la frontière depuis 2016. Face à ce qui semble signer l’échec de la stratégie répressive des gouvernements successifs pour « assurer l’intégrité de la frontière » Dominique Dufour rétorque que 5 000 refoulements ont été effectués cette année à Montgenèvre sachant qu’une personne migrante peut être refoulée jusqu’à quatre, cinq voire six fois avant de parvenir à passer la frontière. Au Refuge solidaire de Briançon, on regrette que les dizaines de millions d’euros employés pour empêcher les personnes migrantes de passer la frontière ne soient pas dévolues à un accueil digne qui est à la charge, et depuis sept ans, des seuls bénévoles briançonnais. Joël Giraud, député des Hautes Alpes (PR, apparenté renaissance) assure avoir alerté le gouvernement sur la situation à Briançon sans se faire trop d’illusions :

    « Pour l’instant, je n’ai pas de réponse. Et le climat effectivement ne prête pas à une grande écoute sur ce plan-là, mais pour autant au moment où nous allons aborder le texte qui va être un énième texte sur les questions de migration, je pense que c’est le moment ou jamais de tenter d’obtenir un écho à des choses qui ne sont ni plus ni moins de demander une régulation par l’Etat et un accueil par l’Etat sur des territoires où de toute façon, de part la géomorphologie locale, il passera toujours des gens. »

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-grand-reportage/briancon-une-zone-frontiere-a-bout-de-souffle-9498707

    #Briançon #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #PAF #audio #podcast #Hautes-Alpes #Italie #France

  • 10.11.2023 : Iz Kolpe potegnili truplo, v vodi je bilo že teden ali dva

    Un corps a été retiré de Kolpa, il était dans l’eau depuis une semaine ou deux
    –-> date de mort environ 01.11.2023

    Truplo so v sredo opazili sprehajalci in poklicali policijo.

    V sredo popoldne so gasilci PGD Črnomelj iz reke Kolpe med Gribljami in Krasincem potegnili moško truplo.

    V sporočilu za javnost so zapisali, da so truplo opazili sprehajalci in o tem obvestili policijo. Ogled so opravili kriminalisti novomeške policijske uprave. Znakov nasilja niso odkrili, zdravnica pa je ocenila, da je bilo v vodi verjetno že teden ali dva.

    O dogodku so obvestili dežurnega preiskovalnega sodnika, na okrožno državno tožilstvo pa bodo poslali poročilo. Kriminalisti in policisti nadaljujejo ugotavljanje identitete.

    –—

    Google translate :

    Le corps a été repéré par des promeneurs mercredi et la police a été appelée.
    Mercredi après-midi, les pompiers du PGD Črnomelj ont retiré le corps d’un homme de la rivière Kolpa, entre #Griblje et #Krasinec .

    Dans le communiqué, ils ont écrit que le corps avait été repéré par des passants et en ont informé la police. L’inspection a été effectuée par des experts en criminalité du département de police de Novi Sad. Aucun signe de violence n’a été constaté, mais le médecin a estimé qu’il était probablement dans l’eau depuis une semaine ou deux.

    Le juge d’instruction en poste a été informé des faits et un rapport sera adressé au parquet. Les enquêteurs criminels et la police continuent d’établir l’identité.

    https://www.slovenskenovice.si/kronika/doma/iz-kolpe-potegnili-truplo-v-vodi-je-bilo-ze-teden-ali-dva
    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #Slovénie #Croatie #Kupa #Kolpa #frontière_sud-alpine #montagne #Alpes

    –-

    ajouté à la métaliste sur les morts à la frontière entre la Croatie et la Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/811660

  • Les pratiques de la France à la frontière franco-italienne jugées non conformes par Luxembourg

    Pour télécharger le communiqué : https://www.ldh-france.org/wp-content/uploads/2023/11/CP-interasso-Les-pratiques-de-la-France-a-la-frontiere-franco-italienne-

    Alors que le gouvernement soumet au Sénat son projet de loi sur l’asile et l’immigration, la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) de Luxembourg vient de rendre un arrêt, en réponse à une question préjudicielle du Conseil d’Etat, qui oblige la France à mettre ses pratiques aux frontières et notamment à la frontière franco-italienne en conformité avec le droit de l’Union européenne.

    Depuis 2015, la France a rétabli les contrôles à ses frontières intérieures, par dérogation au principe de libre circulation dans l’espace Schengen. Et depuis cette date, elle enferme dans des bâtiments de fortune et refoule des personnes étrangères à qui elle refuse l’entrée sur le territoire, notamment à la frontière franco-italienne, comme c’est le cas, en ce moment même, à Menton ou à Montgenèvre. En prévision de l’augmentation des arrivées en provenance d’Italie à la mi septembre, les dispositifs de surveillance ont été renforcés et les baraquements dits de « mise à l’abri » se sont multipliés. Pour enfermer et expulser en toute illégalité, car les constats sur le terrain démontrent que ces contrôles débouchent sur de l’enfermement et des refoulements de personnes en dehors d’un cadre juridique défini.

    À de multiples reprises, depuis plusieurs années, nos associations ont protesté contre cette situation et ont saisi, en vain, les tribunaux français pour obtenir qu’il soit mis fin à ces pratiques en conséquence desquelles, au fil des années, des milliers de personnes ont été privées de liberté et expulsées, sans pouvoir accéder à leurs droits fondamentaux (accès à une procédure, accès au droit d’asile, recours effectif). Nos associations ayant contesté la conformité au droit européen de la disposition du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (Ceseda) qui permet à l’administration de prononcer des « refus d’entrée » aux frontières intérieures sans respecter les normes prévues par la directive européenne 2008/115/CE, dite directive « Retour », le Conseil d’État a saisi la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) d’une question préjudicielle sur ce point.

    Dans sa décision du 21 septembre 2023, la CJUE a répondu à cette question en retenant le raisonnement juridique défendu par nos organisations. Elle estime que lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, les « normes et procédures prévues par cette directive » sont applicables aux personnes qui, se présentant à un point de passage frontalier situé sur son territoire, se voient opposer un refus d’entrer.

    Par cette décision, la CJUE rappelle à tous les Etats membres de l’UE leurs obligations lorsqu’ils rétablissent des contrôles à leurs frontières intérieures :
    – notifier à la personne à qui elle refuse l’entrée une décision de retour vers un pays tiers ainsi qu’une voie de recours effective (autrement dit on ne peut pas se contenter de refouler en la remettant aux autorités de l’État membre de provenance) ;
    – lui accorder un délai de départ volontaire (vers le pays tiers désigné dans la notification) ;
    – n’imposer une privation de liberté à cette personne, dans l’attente de son éloignement, que dans les cas et conditions de la rétention prévus par la directive « Retour ».

    Depuis fin septembre, nos associations organisent de manière régulière des observations des pratiques des forces de l’ordre à la gare de Menton Garavan et aux postes de la police aux frontières de Montgenèvre (Hautes-Alpes) et de Menton pont Saint-Louis (Alpes-Maritimes). Force est de constater que les pratiques à la frontière intérieure n’ont pas évolué. Les contrôles au faciès aux points de passage autorisés (PPA), ainsi que dans d’autres zones frontalières, sont quotidiens, les procédures de « refus d’entrée » sont toujours réalisées à la va-vite, sur le quai de la gare, devant le poste de police ou parfois à l’intérieur de celui-ci, sans interprète et sans examen individuel de la situation des personnes. Des majeurs comme des mineurs sont refoulés, des personnes à qui l’entrée sur le territoire est refusée sont privées de liberté, sans pouvoir demander l’asile ou contester la mesure d’enfermement à laquelle elles sont soumises, et sans accès à un avocat à ou une association.

    Interrogée par des élus qui, pour certains, se sont vu opposer des refus d’accès au locaux dits « de mise à l’abri », la police aux frontières a précisé qu’aucune directive ne lui avait été transmise depuis la décision de la CJUE.

    Parce que la France persiste dans son refus de se conformer au droit de l’UE, les pratiques illégales perdurent et des dizaines de personnes continuent, quotidiennement, à être victimes de la violation de leurs droits fondamentaux.

    Il revient désormais au Conseil d’État de tirer les enseignements de la décision de la CJUE et de mettre fin aux pratiques d’enfermement et de refoulement aux frontières, hors du cadre juridique approprié, notamment à la frontière franco-italienne.

    Organisations signataires : ADDE ; Anafé (Association nationale d’assistance pour les personnes étrangères) ; Emmaüs Roya ; Gisti ; Groupe accueil solidarité ; La Cimade ; LDH (Ligue des droits de l’Homme) ; Roya Citoyenne ; Syndicat de la Magistrature ; Syndicat des avocats de France ; Tous migrant.

    Paris, le 13 novembre 2023

    https://www.ldh-france.org/les-pratiques-de-la-france-a-la-frontiere-franco-italienne-jugees-non-co
    #frontière_sud-alpine #justice #Alpes #montagne #migrations #frontières #asile #réfugiés #Cour_de_justice_de_l’Union_européenne (#CJUE) #arrêt #droit #contrôles_systématiques_aux_frontières #contrôles_frontaliers #enfermement #Menton #Montgenèvre #Hautes-Alpes #Alpes_Maritimes #mise_à_l'abri #refoulements #push-backs #droits_fondamentaux #code_de_l’entrée_et_du_séjour_des_étrangers_et_du_droit_d’asile (#Ceseda) #refus_d'entrée #frontières_intérieures #directive_retour #contrôles_au_faciès #points_de_passage_autorisés (#PPA) #police_aux_frontières (#PAF)

    • ARRÊT DE LA COUR (quatrième chambre)

      21 septembre 2023 (*)

      « Renvoi préjudiciel – Espace de liberté, de sécurité et de justice – Contrôle aux frontières, asile et immigration – Règlement (UE) 2016/399 – Article 32 – Réintroduction temporaire par un État membre du contrôle à ses frontières intérieures – Article 14 – Décision de refus d’entrée – Assimilation des frontières intérieures aux frontières extérieures – Directive 2008/115/CE – Champ d’application – Article 2, paragraphe 2, sous a) »

      Dans l’affaire C‑143/22,

      ayant pour objet une demande de décision préjudicielle au titre de l’article 267 TFUE, introduite par le Conseil d’État (France), par décision du 24 février 2022, parvenue à la Cour le 1er mars 2022, dans la procédure

      Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE),

      Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE),

      Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT),

      Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade),

      Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI),

      Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI),

      Ligue des droits de l’homme (LDH),

      Le paria,

      Syndicat des avocats de France (SAF),

      SOS – Hépatites Fédération

      contre

      Ministre de l’Intérieur,

      en présence de :

      Défenseur des droits,

      LA COUR (quatrième chambre),

      composée de M. C. Lycourgos (rapporteur), président de chambre, Mme L. S. Rossi, MM. J.‑C. Bonichot, S. Rodin et Mme O. Spineanu‑Matei, juges,

      avocat général : M. A. Rantos,

      greffier : Mme M. Krausenböck, administratrice,

      vu la procédure écrite et à la suite de l’audience du 19 janvier 2023,

      considérant les observations présentées :

      – pour l’Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE), l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE), l’Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT), le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), la Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI), le Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), la Ligue des droits de l’homme (LDH), Le paria, le Syndicat des avocats de France (SAF) et SOS – Hépatites Fédération, par Me P. Spinosi, avocat,

      – pour le Défenseur des droits, par Mme C. Hédon, Défenseure des droits, Mmes M. Cauvin et A. Guitton, conseillères, assistées de Me I. Zribi, avocate,

      – pour le gouvernement français, par Mme A.-L. Desjonquères et M. J. Illouz, en qualité d’agents,

      – pour le gouvernement polonais, par M. B. Majczyna, Mmes E. Borawska-Kędzierska et A. Siwek-Ślusarek, en qualité d’agents,

      – pour la Commission européenne, par Mmes A. Azéma, A. Katsimerou, MM. T. Lilamand et J. Tomkin, en qualité d’agents,

      ayant entendu l’avocat général en ses conclusions à l’audience du 30 mars 2023,

      rend le présent

      Arrêt

      1 La demande de décision préjudicielle porte sur l’interprétation de l’article 14 du règlement (UE) 2016/399 du Parlement européen et du Conseil, du 9 mars 2016, concernant un code de l’Union relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO 2016, L 77, p. 1, ci-après le « code frontières Schengen »), ainsi que de la directive 2008/115/CE du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier (JO 2008, L 348, p. 98).

      2 Cette demande a été présentée dans le cadre d’un litige opposant l’Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE), l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE), l’Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT), le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), la Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI), le Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), la Ligue des droits de l’homme (LDH), Le paria, le Syndicat des avocats de France (SAF) et SOS – Hépatites Fédération, au ministre de l’Intérieur (France) au sujet de la légalité de l’ordonnance no 2020-1733 du 16 décembre 2020 portant partie législative du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (JORF du 30 décembre 2020, texte no 41).

      Le cadre juridique

      Le droit de l’Union

      Le code frontières Schengen

      3 Aux termes de l’article 2 du code frontières Schengen :

      « Aux fins du présent règlement, on entend par :

      1) “frontières intérieures” :

      a) les frontières terrestres communes, y compris fluviales et lacustres, des États membres ;

      b) les aéroports des États membres pour les vols intérieurs ;

      c) les ports maritimes, fluviaux et lacustres des États membres pour les liaisons régulières intérieures par transbordeur ;

      2) “frontières extérieures” : les frontières terrestres des États membres, y compris les frontières fluviales et lacustres, les frontières maritimes, ainsi que leurs aéroports, ports fluviaux, ports maritimes et ports lacustres, pour autant qu’ils ne soient pas des frontières intérieures ;

      [...] »

      4 Le titre II de ce code, relatif aux « frontières extérieures », comprend les articles 5 à 21 de celui-ci.

      5 L’article 14 dudit code, intitulé « Refus d’entrée », prévoit :

      « 1. L’entrée sur le territoire des États membres est refusée au ressortissant de pays tiers qui ne remplit pas l’ensemble des conditions d’entrée énoncées à l’article 6, paragraphe 1, et qui n’appartient pas à l’une des catégories de personnes visées à l’article 6, paragraphe 5. Cette disposition est sans préjudice de l’application des dispositions particulières relatives au droit d’asile et à la protection internationale ou à la délivrance de visas de long séjour.

      2. L’entrée ne peut être refusée qu’au moyen d’une décision motivée indiquant les raisons précises du refus. La décision est prise par une autorité compétente habilitée à ce titre par le droit national. Elle prend effet immédiatement.

      La décision motivée indiquant les raisons précises du refus est notifiée au moyen d’un formulaire uniforme tel que celui figurant à l’annexe V, partie B, et rempli par l’autorité compétente habilitée par le droit national à refuser l’entrée. Le formulaire uniforme ainsi complété est remis au ressortissant de pays tiers concerné, qui accuse réception de la décision de refus au moyen dudit formulaire.

      Les données relatives aux ressortissants de pays tiers auxquels l’entrée pour un court séjour a été refusée sont enregistrées dans l’EES conformément à l’article 6 bis, paragraphe 2, du présent règlement et à l’article 18 du règlement (UE) 2017/2226 [du Parlement européen et du Conseil du 30 novembre 2017 portant création d’un système d’entrée/de sortie (EES) pour enregistrer les données relatives aux entrées, aux sorties et aux refus d’entrée concernant les ressortissants de pays tiers qui franchissent les frontières extérieures des États membres et portant détermination des conditions d’accès à l’EES à des fins répressives, et modifiant la convention d’application de l’accord de Schengen et les règlements (CE) no 767/2008 et (UE) no 1077/2011 (JO 2017, L 327, p. 20)].

      3. Les personnes ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée ont le droit de former un recours contre cette décision. Les recours sont formés conformément au droit national. Des indications écrites sont également mises à la disposition du ressortissant de pays tiers en ce qui concerne des points de contact en mesure de communiquer des informations sur des représentants compétents pour agir au nom du ressortissant de pays tiers conformément au droit national.

      L’introduction d’un tel recours n’a pas d’effet suspensif à l’égard de la décision de refus d’entrée.

      Sans préjudice de toute éventuelle compensation accordée conformément au droit national, le ressortissant de pays tiers concerné a le droit à la rectification des données introduites dans l’ESS ou du cachet d’entrée annulé, ou les deux, ainsi qu’à la rectification de toute autre annulation ou ajout qui ont été apportés, de la part de l’État membre qui a refusé l’entrée, si, dans le cadre du recours, la décision de refus d’entrée est déclarée non fondée.

      4. Les gardes-frontières veillent à ce qu’un ressortissant de pays tiers ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée ne pénètre pas sur le territoire de l’État membre concerné.

      5. Les États membres établissent un relevé statistique sur le nombre de personnes ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée, les motifs du refus, la nationalité des personnes auxquelles l’entrée a été refusée et le type de frontière (terrestre, aérienne, maritime) auquel l’entrée leur a été refusée, et le transmettent chaque année à la Commission (Eurostat) conformément au règlement (CE) no 862/2007 du Parlement européen et du Conseil[, du 11 juillet 2007, relatif aux statistiques communautaires sur la migration et la protection internationale, et abrogeant le règlement (CEE) no 311/76 du Conseil relatif à l’établissement de statistiques concernant les travailleurs étrangers (JO 2007, L 199, p. 23)].

      6. Les modalités du refus d’entrée sont décrites à l’annexe V, partie A. »

      6 Le titre III du code frontières Schengen, relatif aux « frontières intérieures », comprend les articles 22 à 35 de celui-ci.

      7 L’article 25 dudit code, intitulé « Cadre général pour la réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures », dispose, à son paragraphe 1 :

      « En cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure d’un État membre dans l’espace sans contrôle aux frontières intérieures, cet État membre peut exceptionnellement réintroduire le contrôle aux frontières sur tous les tronçons ou sur certains tronçons spécifiques de ses frontières intérieures pendant une période limitée d’une durée maximale de trente jours ou pour la durée prévisible de la menace grave si elle est supérieure à trente jours. La portée et la durée de la réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures ne doivent pas excéder ce qui est strictement nécessaire pour répondre à la menace grave. »

      8 L’article 32 du même code, intitulé « Dispositions s’appliquant en cas de réintroduction du contrôle aux frontières intérieures », énonce :

      « Lorsque le contrôle aux frontières intérieures est réintroduit, les dispositions pertinentes du titre II s’appliquent mutatis mutandis. »

      9 L’annexe V, partie A, du code frontières Schengen prévoit :

      « 1. En cas de refus d’entrée, le garde-frontière compétent :

      a) remplit le formulaire uniforme de refus d’entrée figurant dans la partie B. Le ressortissant de pays tiers concerné signe le formulaire et en reçoit une copie après signature. Si le ressortissant de pays tiers refuse de signer, le garde-frontière indique ce refus dans le formulaire, sous la rubrique “observations” ;

      b) en ce qui concerne les ressortissants de pays tiers dont l’entrée pour un court séjour a été refusée, enregistre dans l’EES les données relatives au refus d’entrée conformément à l’article 6 bis, paragraphe 2, du présent règlement et à l’article 18 du règlement (UE) 2017/2226 ;

      c) procède à l’annulation ou à la révocation du visa, le cas échéant, conformément aux conditions fixées à l’article 34 du règlement (CE) no 810/2009 [du Parlement européen et du Conseil, du 13 juillet 2009, établissant un code communautaire des visas (code des visas) (JO 2009, L 243, p. 1)] ;

      d) en ce qui concerne les ressortissants de pays tiers dont le refus d’entrée n’est pas enregistré dans l’EES, appose sur le passeport un cachet d’entrée, barré d’une croix à l’encre noire indélébile, et inscrit en regard, à droite, également à l’encre indélébile, la ou les lettres correspondant au(x) motif(s) du refus d’entrée, dont la liste figure dans le formulaire uniforme de refus d’entrée comme indiqué dans la partie B de la présente annexe. En outre, pour ces catégories de personnes, le garde-frontière enregistre tout refus d’entrée dans un registre ou sur une liste, qui mentionne l’identité et la nationalité du ressortissant de pays tiers concerné, les références du document autorisant le franchissement de la frontière par ce ressortissant du pays tiers, ainsi que le motif et la date de refus d’entrée.

      Les modalités pratiques de l’apposition du cachet sont décrites à l’annexe IV.

      2. Si le ressortissant de pays tiers frappé d’une décision de refus d’entrée a été acheminé à la frontière par un transporteur, l’autorité localement responsable :

      a) ordonne à ce transporteur de reprendre en charge le ressortissant de pays tiers sans tarder et de l’acheminer soit vers le pays tiers d’où il a été transporté, soit vers le pays tiers qui a délivré le document permettant le franchissement de la frontière, soit vers tout autre pays tiers dans lequel son admission est garantie, ou de trouver un moyen de réacheminement conformément à l’article 26 de la convention de Schengen et aux dispositions de la directive 2001/51/CE du Conseil[, du 28 juin 2001, visant à compléter les dispositions de l’article 26 de la convention d’application de l’accord de Schengen du 14 juin 1985 (JO 2001, L 187, p. 45)] ;

      b) en attendant le réacheminement, prend, dans le respect du droit national et compte tenu des circonstances locales, les mesures appropriées afin d’éviter l’entrée illégale des ressortissants de pays tiers frappés d’une décision de refus d’entrée.

      [...] »

      10 Aux termes de l’article 44 de ce code, intitulé « Abrogation » :

      « Le règlement (CE) no 562/2006 [du Parlement européen et du Conseil, du 15 mars 2006, établissant un code communautaire relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO 2006, L 105, p. 1)] est abrogé.

      Les références faites au règlement abrogé s’entendent comme faites au présent règlement et sont à lire selon le tableau de correspondance figurant à l’annexe X. »

      11 Conformément à ce tableau de correspondance, l’article 14 du code frontières Schengen correspond à l’article 13 du règlement no 562/2006.

      La directive 2008/115

      12 L’article 2, paragraphes 1 et 2, de la directive 2008/115 dispose :

      « 1. La présente directive s’applique aux ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre.

      2. Les États membres peuvent décider de ne pas appliquer la présente directive aux ressortissants de pays tiers :

      a) faisant l’objet d’une décision de refus d’entrée conformément à l’article 13 du [règlement no 562/2006], ou arrêtés ou interceptés par les autorités compétentes à l’occasion du franchissement irrégulier par voie terrestre, maritime ou aérienne de la frontière extérieure d’un État membre et qui n’ont pas obtenu par la suite l’autorisation ou le droit de séjourner dans ledit État membre ;

      b) faisant l’objet d’une sanction pénale prévoyant ou ayant pour conséquence leur retour, conformément au droit national, ou faisant l’objet de procédures d’extradition. »

      13 Aux termes de l’article 3 de cette directive :

      « Aux fins de la présente directive, on entend par :

      [...]

      2) “séjour irrégulier” : la présence sur le territoire d’un État membre d’un ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas, ou ne remplit plus, les conditions d’entrée énoncées à l’article 5 du [règlement no 562/2006], ou d’autres conditions d’entrée, de séjour ou de résidence dans cet État membre ;

      3) “retour” : le fait, pour le ressortissant d’un pays tiers, de rentrer – que ce soit par obtempération volontaire à une obligation de retour ou en y étant forcé – dans :

      – son pays d’origine, ou

      – un pays de transit conformément à des accords ou autres arrangements de réadmission communautaires ou bilatéraux, ou

      – un autre pays tiers dans lequel le ressortissant concerné d’un pays tiers décide de retourner volontairement et sur le territoire duquel il sera admis ;

      [...] »

      14 L’article 4, paragraphe 4, de ladite directive prévoit :

      « En ce qui concerne les ressortissants de pays tiers exclus du champ d’application de la présente directive conformément à l’article 2, paragraphe 2, point a), les États membres :

      a) veillent à ce que le traitement et le niveau de protection qui leur sont accordés ne soient pas moins favorables que ceux prévus à l’article 8, paragraphes 4 et 5 (limitations du recours aux mesures coercitives), à l’article 9, paragraphe 2, point a) (report de l’éloignement), à l’article 14, paragraphe 1, points b) et d) (soins médicaux d’urgence et prise en considération des besoins des personnes vulnérables), ainsi qu’aux articles 16 et 17 (conditions de rétention), et

      b) respectent le principe de non-refoulement. »

      15 L’article 5 de la directive 2008/115 dispose :

      « Lorsqu’ils mettent en œuvre la présente directive, les États membres tiennent dûment compte :

      a) de l’intérêt supérieur de l’enfant,

      b) de la vie familiale,

      c) de l’état de santé du ressortissant concerné d’un pays tiers,

      et respectent le principe de non-refoulement. »

      16 L’article 6 de cette directive dispose :

      « 1. Les État membres prennent une décision de retour à l’encontre de tout ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur leur territoire, sans préjudice des exceptions visées aux paragraphes 2 à 5.

      2. Les ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre et titulaires d’un titre de séjour valable ou d’une autre autorisation conférant un droit de séjour délivrés par un autre État membre sont tenus de se rendre immédiatement sur le territoire de cet autre État membre. En cas de non-respect de cette obligation par le ressortissant concerné d’un pays tiers ou lorsque le départ immédiat du ressortissant d’un pays tiers est requis pour des motifs relevant de l’ordre public ou de la sécurité nationale, le paragraphe 1 s’applique.

      3. Les État membres peuvent s’abstenir de prendre une décision de retour à l’encontre d’un ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur leur territoire si le ressortissant concerné d’un pays tiers est repris par un autre État membre en vertu d’accords ou d’arrangements bilatéraux existant à la date d’entrée en vigueur de la présente directive. Dans ce cas, l’État membre qui a repris le ressortissant concerné d’un pays tiers applique le paragraphe 1.

      [...] »

      17 L’article 7, paragraphe 1, premier alinéa, de ladite directive prévoit :

      « La décision de retour prévoit un délai approprié allant de sept à trente jours pour le départ volontaire, sans préjudice des exceptions visées aux paragraphes 2 et 4. Les États membres peuvent prévoir dans leur législation nationale que ce délai n’est accordé qu’à la suite d’une demande du ressortissant concerné d’un pays tiers. Dans ce cas, les États membres informent les ressortissants concernés de pays tiers de la possibilité de présenter une telle demande. »

      18 L’article 15, paragraphe 1, de la même directive énonce :

      « À moins que d’autres mesures suffisantes, mais moins coercitives, puissent être appliquées efficacement dans un cas particulier, les États membres peuvent uniquement placer en rétention le ressortissant d’un pays tiers qui fait l’objet de procédures de retour afin de préparer le retour et/ou de procéder à l’éloignement, en particulier lorsque :

      a) il existe un risque de fuite, ou

      b) le ressortissant concerné d’un pays tiers évite ou empêche la préparation du retour ou de la procédure d’éloignement.

      Toute rétention est aussi brève que possible et n’est maintenue qu’aussi longtemps que le dispositif d’éloignement est en cours et exécuté avec toute la diligence requise. »

      Le droit français

      19 L’article L. 213-3-1 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, dans sa version issue de la loi no 2018-778, du 10 septembre 2018, pour une immigration maîtrisée, un droit d’asile effectif et une intégration réussie (JORF du 11 septembre 2018, texte no 1) (ci-après le « Ceseda ancien »), énonçait :

      « En cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures prévue au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen], les décisions mentionnées à l’article L. 213-2 peuvent être prises à l’égard de l’étranger qui, en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention signée à Schengen le 19 juin 1990, a pénétré sur le territoire métropolitain en franchissant une frontière intérieure terrestre sans y être autorisé et a été contrôlé dans une zone comprise entre cette frontière et une ligne tracée à dix kilomètres en deçà. Les modalités de ces contrôles sont définies par décret en Conseil d’État. »

      20 L’ordonnance no 2020-1733 a procédé à la refonte de la partie législative du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile. L’article L. 332-2 de ce code ainsi modifié (ci-après le « Ceseda modifié ») dispose :

      « La décision de refus d’entrée, qui est écrite et motivée, est prise par un agent relevant d’une catégorie fixée par voie réglementaire.

      La notification de la décision de refus d’entrée mentionne le droit de l’étranger d’avertir ou de faire avertir la personne chez laquelle il a indiqué qu’il devait se rendre, son consulat ou le conseil de son choix. Elle mentionne le droit de l’étranger de refuser d’être rapatrié avant l’expiration du délai d’un jour franc dans les conditions prévues à l’article L. 333-2.

      La décision et la notification des droits qui l’accompagne lui sont communiquées dans une langue qu’il comprend.

      Une attention particulière est accordée aux personnes vulnérables, notamment aux mineurs accompagnés ou non d’un adulte. »

      21 L’article L. 332-3 du Ceseda modifié prévoit :

      « La procédure prévue à l’article L. 332-2 est applicable à la décision de refus d’entrée prise à l’encontre de l’étranger en application de l’article 6 du [code frontières Schengen]. Elle est également applicable lors de vérifications effectuées à une frontière intérieure en cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen]. »

      Le litige au principal et la question préjudicielle

      22 Les associations visées au point 2 du présent arrêt contestent devant le Conseil d’État (France), dans le cadre d’un recours en annulation de l’ordonnance no 2020‑1733, la validité de celle-ci au motif, notamment, que l’article L. 332-3 du Ceseda modifié qui en est issu méconnaît la directive 2008/115 en ce qu’il permet l’adoption de décisions de refus d’entrée aux frontières intérieures sur lesquelles des contrôles ont été réintroduits.

      23 Cette juridiction explique, en effet, que, dans son arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a. (C‑444/17, EU:C:2019:220), la Cour a jugé que l’article 2, paragraphe 2, sous a), de la directive 2008/115, lu en combinaison avec l’article 32 du code frontières Schengen, ne s’applique pas à la situation d’un ressortissant d’un pays tiers arrêté à proximité immédiate d’une frontière intérieure et en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre, même lorsque cet État membre a réintroduit, en vertu de l’article 25 de ce code, le contrôle à cette frontière en raison d’une menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure dudit État membre.

      24 Le Conseil d’État souligne que, dans sa décision no 428175 du 27 novembre 2020, il a jugé contraires à la directive 2008/115, telle qu’interprétée par la Cour, les dispositions de l’article L. 213-3-1 du Ceseda ancien, qui prévoyaient que, en cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures, l’étranger en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention d’application de l’accord de Schengen, du 14 juin 1985, entre les gouvernements des États de l’Union économique Benelux, de la République fédérale d’Allemagne et de la République française relatif à la suppression graduelle des contrôles aux frontières communes, signée à Schengen le 19 juin 1990 et entrée en vigueur le 26 mars 1995 (JO 2000, L 239, p. 19, ci-après la « convention de Schengen »), pouvait faire l’objet d’une décision de refus d’entrée dans les conditions de l’article L. 213-2 du Ceseda ancien lorsqu’il avait pénétré sur le territoire métropolitain en franchissant une frontière intérieure terrestre sans y être autorisé et avait été contrôlé dans une zone comprise entre cette frontière et une ligne tracée à dix kilomètres en deçà.

      25 Certes, selon le Conseil d’État, l’article L. 332-3 du Ceseda modifié ne reprend pas les dispositions de l’article L. 213-3-1 du Ceseda ancien. Toutefois, l’article L. 332-3 du Ceseda modifié prévoirait encore qu’une décision de refus d’entrée peut être prise à l’occasion de vérifications effectuées aux frontières intérieures, en cas de réintroduction temporaire du contrôle à ces frontières, dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du code frontières Schengen.

      26 Cette juridiction estime, dès lors, qu’il convient de déterminer si, dans un tel cas, le ressortissant d’un pays tiers, en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention de Schengen et qui se présente à un point de passage frontalier autorisé sans être en possession des documents permettant de justifier d’une autorisation d’entrée ou du droit de séjourner en France peut se voir opposer une décision de refus d’entrée, sur le fondement de l’article 14 du code frontières Schengen, sans que soit applicable la directive 2008/115.

      27 Dans ces conditions, le Conseil d’État a décidé de surseoir à statuer et de poser la question préjudicielle suivante :

      « En cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures, dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen], l’étranger en provenance directe du territoire d’un État partie à la [convention de Schengen] peut-il se voir opposer une décision de refus d’entrée, lors des vérifications effectuées à cette frontière, sur le fondement de l’article 14 de ce [code], sans que soit applicable la directive [2008/115] ? »

      Sur la question préjudicielle

      28 Par sa question préjudicielle, la juridiction de renvoi demande en substance si le code frontières Schengen et la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que, lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, au sens de l’article 14 de ce code, sans être soumis au respect de cette directive.

      29 L’article 25 du code frontières Schengen autorise, à titre exceptionnel et dans certaines conditions, un État membre à réintroduire temporairement un contrôle aux frontières sur tous les tronçons ou certains tronçons spécifiques de ses frontières intérieures en cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure de cet État membre. Selon l’article 32 de ce code, lorsqu’un contrôle aux frontières intérieures est réintroduit, les dispositions pertinentes du titre II dudit code, titre qui porte sur les frontières extérieures, s’appliquent mutatis mutandis.

      30 Tel est le cas de l’article 14 du code frontières Schengen, qui prévoit que l’entrée sur le territoire des États membres est refusée au ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas l’ensemble des conditions d’entrée énoncées à l’article 6, paragraphe 1, de ce code et qui n’appartient pas à l’une des catégories de personnes visées à l’article 6, paragraphe 5, du même code.

      31 Il importe toutefois de rappeler qu’un ressortissant d’un pays tiers qui, à la suite de son entrée irrégulière sur le territoire d’un État membre, est présent sur ce territoire sans remplir les conditions d’entrée, de séjour ou de résidence, se trouve, de ce fait, en séjour irrégulier, au sens de la directive 2008/115. Ce ressortissant relève, donc, conformément à l’article 2, paragraphe 1, de cette directive et sous réserve de l’article 2, paragraphe 2, de celle-ci, du champ d’application de ladite directive, sans que cette présence sur le territoire de l’État membre concerné soit soumise à une condition de durée minimale ou d’intention de rester sur ce territoire. Il doit donc, en principe, être soumis aux normes et aux procédures communes prévues par la même directive en vue de son éloignement et cela tant que son séjour n’a pas été, le cas échéant, régularisé (voir, en ce sens, arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, points 37 et 39 ainsi que jurisprudence citée).

      32 Il en va ainsi y compris lorsque ce ressortissant d’un pays tiers a été appréhendé à un point de passage frontalier, pour autant que ce point de passage frontalier se situe sur le territoire dudit État membre. À cet égard, il convient, en effet, de relever qu’une personne peut être entrée sur le territoire d’un État membre avant même d’avoir franchi un point de passage frontalier [voir, par analogie, arrêt du 5 février 2020, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Enrôlement des marins dans le port de Rotterdam), C‑341/18, EU:C:2020:76, point 45].

      33 Il convient encore de préciser, à titre d’exemple, que, lorsqu’il est procédé à des vérifications à bord d’un train entre le moment où ce train quitte la dernière gare, située sur le territoire d’un État membre partageant une frontière intérieure avec un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, et le moment où ledit train entre dans la première gare située sur le territoire de ce dernier État membre, le contrôle à bord de ce même train doit, sauf accord en sens contraire passé entre ces deux États membres, être considéré comme un contrôle réalisé à un point de passage frontalier situé sur le territoire de l’État membre ayant réintroduit de tels contrôles. En effet, le ressortissant d’un pays tiers ayant été contrôlé à bord de ce train séjournera nécessairement, à la suite de ce contrôle, sur le territoire de ce dernier État membre, au sens de l’article 2, paragraphe 1, de la directive 2008/115.

      34 Cela étant, il convient encore de relever que l’article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 permet aux États membres d’exclure, à titre exceptionnel et sous certaines conditions, les ressortissants de pays tiers qui séjournent irrégulièrement sur leur territoire du champ d’application de cette directive.

      35 Ainsi, d’une part, cet article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 permet, à son point a), aux États membres de ne pas appliquer cette dernière, sous réserve des prescriptions contenues à l’article 4, paragraphe 4, de celle-ci, dans deux situations particulières, à savoir celle de ressortissants de pays tiers qui font l’objet d’une décision de refus d’entrée à une frontière extérieure d’un État membre, conformément à l’article 14 du code frontières Schengen, ou celle de ressortissants de pays tiers qui sont arrêtés ou interceptés à l’occasion du franchissement irrégulier d’une telle frontière extérieure et qui n’ont pas obtenu par la suite l’autorisation ou le droit de séjourner dans ledit État membre.

      36 Cela étant, il ressort de la jurisprudence de la Cour que ces deux situations se rapportent exclusivement au franchissement d’une frontière extérieure d’un État membre, telle que définie à l’article 2 du code frontières Schengen, et ne concernent donc pas le franchissement d’une frontière commune à des États membres faisant partie de l’espace Schengen, même lorsque des contrôles ont été réintroduits à cette frontière, en vertu de l’article 25 de ce code, en raison d’une menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure de cet État membre (voir, en ce sens, arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, points 45 et 67).

      37 Il s’ensuit, comme M. l’avocat général l’a relevé au point 35 de ses conclusions, que l’article 2, paragraphe 2, sous a), de la directive 2008/115 n’autorise pas un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures à déroger aux normes et aux procédures communes prévues par cette directive afin d’éloigner le ressortissant d’un pays tiers qui a été intercepté, sans titre de séjour valable, à l’un des points de passage frontaliers situés sur le territoire de cet État membre et où s’exercent de tels contrôles.

      38 D’autre part, si l’article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 autorise, à son point b), les États membres à ne pas appliquer cette directive aux ressortissants de pays tiers faisant l’objet d’une sanction pénale prévoyant ou ayant pour conséquence leur retour, conformément au droit national, ou faisant l’objet de procédures d’extradition, force est de constater qu’un tel cas de figure n’est pas celui qui est visé par la disposition en cause dans le litige au principal.

      39 Il résulte de tout ce qui précède, d’une part, qu’un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures peut appliquer, mutatis mutandis, l’article 14 du code frontières Schengen ainsi que l’annexe V, partie A, point 1, de ce code à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui est intercepté, sans titre de séjour régulier, à un point de passage frontalier autorisé où s’exercent de tels contrôles.

      40 D’autre part, lorsque ce point de passage frontalier est situé sur le territoire de l’État membre concerné, ce dernier doit toutefois veiller à ce que les conséquences d’une telle application, mutatis mutandis, des dispositions citées au point précédent n’aboutissent pas à méconnaître les normes et les procédures communes prévues par la directive 2008/115. La circonstance que cette obligation qui pèse sur l’État membre concerné est susceptible de priver d’une large partie de son effectivité l’éventuelle adoption d’une décision de refus d’entrée à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers se présentant à l’une de ses frontières intérieures n’est pas de nature à modifier un tel constat.

      41 Concernant les dispositions pertinentes de cette directive, il convient de rappeler, notamment, qu’il résulte de l’article 6, paragraphe 1, de la directive 2008/115 que tout ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre doit, sans préjudice des exceptions prévues aux paragraphes 2 à 5 de cet article et dans le strict respect des exigences fixées à l’article 5 de cette directive, faire l’objet d’une décision de retour, laquelle doit identifier, parmi les pays tiers visés à l’article 3, point 3, de ladite directive, celui vers lequel il doit être éloigné [arrêt du 22 novembre 2022, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Éloignement – Cannabis thérapeutique), C‑69/21, EU:C:2022:913, point 53].

      42 Par ailleurs, le ressortissant d’un pays tiers qui fait l’objet d’une telle décision de retour doit encore, en principe, bénéficier, en vertu de l’article 7 de la directive 2008/115, d’un certain délai pour quitter volontairement le territoire de l’État membre concerné. L’éloignement forcé n’intervient qu’en dernier recours, conformément à l’article 8 de cette directive, et sous réserve de l’article 9 de celle-ci, qui impose aux États membres de reporter l’éloignement dans les cas qu’il énonce [arrêt du 17 décembre 2020, Commission/Hongrie (Accueil des demandeurs de protection internationale), C‑808/18, EU:C:2020:1029, point 252].

      43 En outre, il découle de l’article 15 de la directive 2008/115 que la rétention d’un ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier ne peut être imposée que dans certains cas déterminés. Cela étant, comme M. l’avocat général l’a relevé, en substance, au point 46 de ses conclusions, cet article ne s’oppose pas à ce que, lorsqu’il représente une menace réelle, actuelle et suffisamment grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure, ce ressortissant fasse l’objet d’une mesure de rétention, dans l’attente de son éloignement, pour autant que cette rétention respecte les conditions énoncées aux articles 15 à 18 de cette directive (voir, en ce sens, arrêt du 2 juillet 2020, Stadt Frankfurt am Main, C‑18/19, EU:C:2020:511, points 41 à 48).

      44 Par ailleurs, la directive 2008/115 n’exclut pas la faculté pour les États membres de réprimer d’une peine d’emprisonnement la commission de délits autres que ceux tenant à la seule circonstance d’une entrée irrégulière, y compris dans des situations où la procédure de retour établie par cette directive n’a pas encore été menée à son terme. Dès lors, ladite directive ne s’oppose pas davantage à l’arrestation ou au placement en garde à vue d’un ressortissant de pays tiers en séjour irrégulier lorsque de telles mesures sont adoptées au motif que ledit ressortissant est soupçonné d’avoir commis un délit autre que sa simple entrée irrégulière sur le territoire national, et notamment un délit susceptible de menacer l’ordre public ou la sécurité intérieure de l’État membre concerné (arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, point 66).

      45 Il s’ensuit que, contrairement à ce que le gouvernement français soutient, l’application, dans un cas tel que celui visé par la demande de décision préjudicielle, des normes et des procédures communes prévues par la directive 2008/115 n’est pas de nature à rendre impossible le maintien de l’ordre public et la sauvegarde de la sécurité intérieure, au sens de l’article 72 TFUE.

      46 En égard à l’ensemble des considérations qui précèdent, il y a lieu de répondre à la question préjudicielle que le code frontières Schengen et la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que, lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé situé sur son territoire et où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, en vertu d’une application mutatis mutandis de l’article 14 de ce code, pour autant que les normes et les procédures communes prévues par cette directive soient appliquées à ce ressortissant en vue de son éloignement.

      Sur les dépens

      47 La procédure revêtant, à l’égard des parties au principal, le caractère d’un incident soulevé devant la juridiction de renvoi, il appartient à celle-ci de statuer sur les dépens. Les frais exposés pour soumettre des observations à la Cour, autres que ceux desdites parties, ne peuvent faire l’objet d’un remboursement.

      Par ces motifs, la Cour (quatrième chambre) dit pour droit :

      Le règlement (UE) 2016/399 du Parlement européen et du Conseil, du 9 mars 2016, concernant un code de l’Union relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen), et la directive 2008/115/CE du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier,

      doivent être interprétés en ce sens que :

      lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé situé sur son territoire et où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, en vertu d’une application mutatis mutandis de l’article 14 de ce règlement, pour autant que les normes et les procédures communes prévues par cette directive soient appliquées à ce ressortissant en vue de son éloignement.

      https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=277630&doclang=FR

  • 10.11.2023 : Na migrantskoj ruti : Reporteri Dnevnika Nove TV pronašli mrtvo tijelo pored Kupe
    On the migrant route : Dnevnik Nova TV reporters found a dead body next to Kupa

    Općina #Netretić inače je dijelom migrantske rute kojom strani državljani iz Hrvatske prelaze u Sloveniju, a reporteri Nove TV su tijekom izvještavanja uočili mrtvo tijelo

    U koritu rijeke Kupe u Netretiću kod Karlovca danas je pronađeno mrtvo tijelo. Tijelo su pronašli upravo reporteri Nove TV koji su odmah pozvali i policiju koja je stigla nakon sat vremena i potvrdila pronalazak muškog tijela.

    Kako prenosi medij, općina Netretić inače je dijelom migrantske rute kojom strani državljani iz Hrvatske prelaze u Sloveniju. Općina se nalazi uz granicu, rijeku Kupu, zbog čega brojni stradavaju pokušavajući otići prema zapadnoj Europi. MUP je potvrdio kako je ove godine pronašao pet mrtno stradalih migranata, dok je ta brojka prošle godine iznosila čak 24.

    – Tu ispod livade, dolje ispod kuće, sam ih par puta vidio na cesti, ali ne napadaju i nemamo problema. Znaju vam ići da donji slap i onda imaju putić prema Sloveniji - ispričao je mještanin Igor.

    google translate :

    La municipalité de Netretić fait partie de la route des migrants par laquelle les citoyens étrangers de Croatie traversent la Slovénie et les reporters de Nova TV ont repéré un cadavre pendant leur reportage.

    Un cadavre a été retrouvé aujourd’hui dans le lit de la rivière Kupa à Netretić, près de Karlovac. Le corps a été retrouvé par les journalistes de Nova TV qui ont immédiatement appelé la police, qui est arrivée une heure plus tard et a confirmé la découverte du corps d’un homme.

    Comme l’ont rapporté les médias, la municipalité de Netretić fait partie de la route migratoire par laquelle les citoyens étrangers de Croatie traversent la Slovénie. La municipalité est située à côté de la frontière, la rivière Kupa, c’est pourquoi de nombreuses personnes meurent en essayant de se rendre en Europe occidentale. Le ministère de l’Intérieur a confirmé avoir trouvé cinq migrants morts cette année, alors que l’année dernière, ce nombre s’élevait à 24.

    – Là-bas, sous le pré, sous la maison, je les ai vus plusieurs fois sur la route, mais ils n’attaquent pas et nous n’avons aucun problème. Ils savent comment se rendre à la cascade inférieure et ensuite ils ont un petit chemin vers la Slovénie - a déclaré l’habitant local Igor.

    https://www.vecernji.hr/vijesti/na-migrantskoj-ruti-reporteri-pronasli-mrtvo-tijelo-u-rijeci-kupi-kod-karlo

    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #Slovénie #Croatie #Kupa #Kolpa #frontière_sud-alpine #montagne #Alpes #Netretic

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    ajouté à la métaliste sur les morts à la frontière entre la Croatie et la Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/811660

  • En Serbie, 4 500 migrants interpellés en 15 jours dans une opération nationale de lutte contre l’immigration clandestine - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/53149/en-serbie-4-500-migrants-interpelles-en-15-jours-dans-une-operation-na

    En Serbie, 4 500 migrants interpellés en 15 jours dans une opération nationale de lutte contre l’immigration clandestine
    Par La rédaction Publié le : 10/11/2023
    Lancée il y a 15 jours, l’opération nationale serbe visant à mettre un coup d’arrêt à l’immigration clandestine dans le pays a mené à l’arrestation de 4 500 migrants. Ces interpellations font suite à la fusillade meurtrière du 27 octobre lors de laquelle trois migrants avaient été tués non loin de la frontière hongroise. Il l’avait promis. « Nous ne bougerons pas d’ici tant que les personnes responsables d’actes criminels n’auront pas été éliminés ». Le ministre de l’Intérieur serbe Bratislav Gasic était alors en visite dans la région frontalière avec la Hongrie, fin octobre.
    C’est ici que d’importants effectifs policiers avaient été dépêchés après une fusillade meurtrière qui avait éclaté le 27 octobre entre réseaux de passeurs. Trois migrants y avaient perdu la vie. Les résultats sont là. Quinze jours après le lancement d’une vaste opération contre les trafiquants et contre l’immigration clandestine, les autorités serbes ont annoncé mercredi 8 novembre avoir interpellé 4 500 migrants « irréguliers ». Lors de cette opération nationale, huit personnes soupçonnées de trafic d’êtres humains ont été arrêtées aux côtés de 119 autres placées en détention provisoire pour « diverses infractions pénales », a précisé le ministère de l’Intérieur dans un communiqué. Cinq pistolets, cinq fusils automatiques et plus de 1 500 munitions ont également été saisis dans les zones frontalières du sud-est et du nord de la Serbie.
    « Le ministère de l’Intérieur persévèrera dans cette lutte jusqu’à ce que le problème de la migration irrégulière soit résolu et que la chaîne de la traite des êtres humains soit complètement brisée », a souligné la police serbe.
    Les autorités ont ajouté que 3 000 des migrants arrêtés avaient été transférés dans des centres d’accueil, contrôlés par l’État. Sans préciser ce qu’il est advenu des 1 500 autres. Le 27 octobre, trois personnes avaient été tuées et une autre blessée lors d’une fusillade entre migrants près de la frontière serbe avec la Hongrie. La police avait alors lancé cette opération dans tout le pays. Plus de 81 000 voitures et 300 endroits ont déjà été contrôlés, a également annoncé la police serbe.
    La frontière serbo-hongroise se situe sur la route migratoire terrestre des Balkans qui mène à l’Europe occidentale. C’est dans cette zone frontalière que des centaines de migrants squattent des bâtiments abandonnés avant de tenter de franchir la frontière avec la Hongrie, membre de l’Union européenne (UE). Ils continuent ensuite leur route vers l’Europe de l’Ouest. La Serbie, engagée depuis plusieurs mois dans la lutte contre l’immigration clandestine, avait déjà conclu un accord fin 2022 avec la Hongrie et l’Autriche. Elle avait également déployé des forces de police vers le sud du pays, notamment à la frontière avec la Macédoine du Nord. Près de 130 000 entrées irrégulières dans l’UE à partir de la route des Balkans occidentaux avaient été enregistrées en 2022, soit le nombre le plus fort depuis le pic de la crise migratoire de 2015, selon l’agence européenne des garde-frontières, Frontex.

    #Covid-19#migrant#migration#hongrie#serbie#frontiere#balkans#routemigratoire#frontex#ue#autriche#macedoine#passeur#migrationirreguliere#reseau

  • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

    A margine del trilaterale a Trieste il 2 novembre scorso, il ministro snocciola i numeri dei respingimenti dopo la sospensione di Schengen. E annuncia: quando i controlli alle frontiere finiranno, il governo vuole istituire “brigate miste” (di polizia). Dove? Con chi? E con quale mandato?

    Nell’edizione del 20 ottobre dell’Unità avevo esaminato la misura di ripristino dei controlli alle frontiere interne deciso dall’Italia al confine italo-sloveno mettendo in rilievo come tale decisione fosse in contrasto con quanto disposto dal Codice Schengen. Su questo il Codice prevede la possibilità di un temporaneo ripristino dei controlli alle frontiere interne solo come extrema ratio in caso di minaccia all’ordine pubblico e che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna” (Codice Schengen, considerando 26). Ben presto le dichiarazioni del Governo italiano hanno reso evidente come dietro questo ripristino, inutile e quanto mai problematico per la vita sociale ed economica del Friuli Venezia Giulia, ci sia una sola finalità ovvero quella di ostacolare l’ingresso nell’Unione Europea, ad iniziare dal confine esterno tra la Croazia e la Bosnia, a coloro che sono in cerca di protezione e che, per il diritto dell’Unione, hanno invece diritto, alle frontiere e nel territorio degli Stati dell’Unione, di chiedere asilo (Direttiva 2013/32/UE art. 3) e gli Stati hanno il dovere assoluto di non respingerli.

    Le affermazioni rese dal ministro Piantedosi nella conferenza stampa tenutasi a Trieste il 2 novembre 2023, a conclusione dell’incontro trilaterale con gli omologhi sloveno e croato, sono state tanto esplicite quanto sconcertanti. Il ministro ha reso noto che nei primi dieci giorni di vigenza dei controlli alla frontiera sono stati effettuati 220 respingimenti. Non sono state fornite ulteriori informazioni, né il ministro, come ha fatto invece in passato, ha rivendicato la possibilità che vengano respinti o riammessi informalmente anche coloro che al confine italiano chiedono asilo. Sulla radicale illegittimità delle riammissioni informali attuate dall’Italia verso la Slovenia nei confronti di richiedenti asilo si era già espresso con estrema chiarezza il Tribunale ordinario di Roma con due distinte ordinanze, nel gennaio 2021 e nel maggio 2023. Non sappiamo se i dati forniti da Piantedosi riguardino cittadini stranieri che sono stati illegittimamente respinti dopo che è stato loro impedito di chiedere asilo in Italia e se, come impone la normativa a tutti coloro che sono fermati venga “assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale” (T.U. Immigrazione art. 10.3).

    Infine non sappiamo se nei confronti degli stranieri respinti sia stato emesso un provvedimento amministrativo scritto e motivato in fatto e in diritto, notificato al soggetto interessato e impugnabile innanzi all’autorità giudiziaria, o se di tali provvedimenti non c’è traccia. Neppure sappiamo se tali respingimenti sono stati realmente tali o se si è trattato di operazioni di impedimento all’ingresso in Italia attuati in territorio sloveno con la collaborazione della polizia italiana. Sono questioni dirimenti sulle quali il ministro dovrà fornire al più presto le necessarie informazioni. Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

    Un’espressione in particolare, tra quelle usate da Piantedosi, risulta inquietante: il ministro ha affermato che le operazioni di respingimento finora attuate vanno considerate solo come i “primi segnali di una filiera della deterrenza da proseguire con i colleghi”. Il termine deterrenza è sempre associato a una funzione intimidatrice (nel diritto penale ci si è sempre interrogati se la minaccia della sanzione funga o meno da deterrenza). Nel linguaggio politico la deterrenza è rivolta verso un nemico ovvero verso colui che rappresenta un grave pericolo e nei cui confronti, all’occorrenza, si può usare violenza. A chi è diretta la funzione di deterrenza cui si riferisce Piantedosi? Agli stranieri che sono in fuga dai loro paesi affinché non lo facciano? A chi intende chiedere asilo affinché comprenda con metodi convincenti che ciò è inutile? Le parole usate dal ministro sono gravi perché le normative internazionali ed europee e il diritto interno dispongono che l’operato della polizia di frontiera non sia finalizzato ad attuare alcuna deterrenza bensì sia esclusivamente rivolto all’esecuzione di legittimi compiti di controllo dell’attraversamento dei confini; le guardie di frontiera sono tenute infatti ad operare nello stretto ambito delle funzioni attribuite loro dalla legge, e nei confronti di chi viene controllato “devono essere garantiti i diritti fondamentali sanciti nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo e nella Carta sui diritti fondamentali dell’Unione europea. I controlli di frontiera devono rispettare pienamente i divieti di infliggere trattamenti inumani o degradanti e di agire in maniera discriminatoria” (Manuale per le guardie di frontiera a cura della Commissione Europea 6.11.2006 punto 1.2).

    Inoltre “a tutti i cittadini di paese terzo che lo desiderano deve essere data la possibilità di chiedere asilo/protezione internazionale alla frontiera (anche nelle zone di transito aeroportuali e portuali). A tal fine, le autorità di frontiera devono informare i richiedenti, in una lingua che possa essere da loro sufficientemente compresa, delle procedure da seguire” (Manuale punto 10.2). La rotta balcanica e i confini tra i diversi Stati, da sempre, ma in particolare dal 2018, sono segnati da inenarrabili violenze, illegalità e soprusi condotti dalle polizie dei diversi Stati coinvolti (a volte si tratta di uomini in divisa, altre volte mascherati, ma comunque operanti sempre all’interno di un preciso mandato). I rapporti su queste violenze sono scioccanti e sono così numerosi da riempire un’intera biblioteca; si tratta di violenze ed illegalità avvenute sia ai confini interni dell’Unione Europea che ai confini esterni della stessa. Una situazione che rappresenta, insieme alle violenze attuate sul confine polacco-bielorusso, una delle pagine più oscure dell’Europa. Uno dei luoghi caratterizzati da maggiori violenze è il confine della Croazia con la Bosnia dove i respingimenti arbitrari, uniti ad efferate violenze non sono mai cessati. Secondo il rapporto Trattati come animali – Respingimenti di persone in cerca di protezione dalla Croazia in Bosnia Erzegovina, edito nel maggio 2023 a cura di Human Rights Watch (H.C.R.) una delle più autorevoli organizzazioni di tutela dei diritti umani a livello internazionale, i respingimenti illegittimi e le violenze, anche efferate, da parte della polizia croata, solo nel 2022, hanno riguardato quasi 30.000 persone, e sono proseguiti nel 2023.

    Il Rapporto evidenzia che “Le forze di polizia conducono spesso i respingimenti in modo violento, rendendosi responsabili di lesioni fisiche e umiliazioni deliberate”. Inoltre “secondo la maggior parte delle testimonianze raccolte da HRW, i poliziotti croati indossano le uniformi, guidano mezzi della polizia e si identificano come agenti per non lasciare alcun dubbio sull’ufficialità del loro ruolo”. Si tratta dunque di una pratica di esplicita deterrenza condotta verso persone inermi che stanno esclusivamente tentando di esercitare il loro diritto a chiedere asilo. “Molti bambini hanno dovuto assistere mentre i loro padri, fratelli maggiori o parenti venivano picchiati, o manganellati o presi a spintoni”, prosegue il Rapporto. La Slovenia non sfugge alla censura operata dalla citata organizzazione internazionale giacché il Rapporto osserva come “in base all’accordo di riammissione tra Slovenia e Croazia, la polizia slovena invia sommariamente i migranti irregolari che sono entrati nel paese passando dalla Croazia, indipendentemente dal fatto che abbiano chiesto asilo in Slovenia. A loro volta le autorità croate generalmente si affrettano a trasferirli in Bosnia o Serbia”.

    Al drammatico Rapporto di H.R.W. si aggiungono i dati diffusi dal Centro per la Pace di Zagabria che da anni svolge un attento lavoro di monitoraggio della situazione del rispetto della legalità in Croazia, secondo cui nel solo mese di luglio 2023 sono stati respinti illegalmente dalla Croazia alla Bosnia 673 persone, tra cui 43 bambini. 369 di essi erano afgani, con tutta evidenza rifugiati. Il 95% delle persone respinte ha subito trattamenti inumani e degradanti tassativamente proibiti dall’art. 3 della CEDU (Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo) mentre l’81% ha subito il furto dei propri averi e la distruzione delle proprie cose. E’ in questi cupi contesti che il ministro Piantedosi vorrebbe organizzare le “brigate”? Vuole forse trascinare la polizia italiana in inaccettabili contesti di violenza di cui essere spettatore inerme oppure complice? Confida nella collaborazione della piccola Slovenia, paese cuscinetto, nel realizzare una più respingimenti a catena? Un monitoraggio su quanto rischia di accadere al nostro tormentato confine orientale, da parte di enti di tutela ed organizzazioni internazionali, nonché da parte del Parlamento, è divenuto indispensabile ed urgente.

    https://www.unita.it/2023/11/07/rotta-balcanica-piantedosi-lancia-le-brigate-antimigranti
    #Balkans #route_des_Balkans #asile #migrations #réfugiés #Piantedosi #brigades_mixtes #contrôles_frontaliers #refoulements #push-backs #Slovénie #frontière_sud-alpine #contrôles_systématiques_aux_frontières #chiffres #statistiques #patrouilles_mixtes #dissuasion

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

    et à la métaliste sur les patrouilles mixtes :
    https://seenthis.net/messages/910352

  • La Pologne prolonge à nouveau ses contrôles aux frontières pour lutter contre les passages irréguliers de migrants - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/53004/la-pologne-prolonge-a-nouveau-ses-controles-aux-frontieres-pour-lutter

    Contrôles à la frontière entre la Slovaquie et la Pologne, le 4 octobre 2023.
    La Pologne prolonge à nouveau ses contrôles aux frontières pour lutter contre les passages irréguliers de migrants
    Par La rédaction Publié le : 03/11/2023
    Le gouvernement polonais a décidé jeudi de poursuivre ses contrôles aux frontières jusqu’au 22 novembre. Ces contrôles avaient été établis début octobre et devaient normalement prendre fin ce vendredi. Leur but : réduire l’immigration clandestine et l’activité des passeurs.Le gouvernement polonais a annoncé jeudi 2 novembre la prolongation jusqu’au 22 novembre des contrôles aux frontières mis en place début octobre pour lutter contre l’immigration clandestine. Ses voisins slovaque et tchèque ont pris la même décision mercredi.
    Cette mesure avait été introduite le 4 octobre, initialement pour dix jours, en Pologne, en République tchèque ainsi qu’en Autriche. Les trois pays avaient ensuite prolongé une première fois ce dispositif, jusqu’à ce jeudi 2 novembre.Depuis un mois, « ces contrôles ont donné des résultats », et ont poussé les autorités slovaques à « agir », a commenté jeudi sur la radio publique polonaise le vice-ministre de l’Intérieur polonais Maciej Wasik.
    La Slovaquie a récemment connu une augmentation du nombre de migrants venant en grande partie de Serbie via la Hongrie et se dirigeant vers les pays plus riches d’Europe de l’ouest. Lundi, le nouveau gouvernement slovaque a envoyé des centaines de policiers et de soldats supplémentaires à sa frontière avec la Hongrie pour lutter contre l’augmentation de l’immigration clandestine. Début septembre, le pays avait déjà pris une mesure similaire en procédant au déploiement de 500 soldats à cette même frontière hongroise jusqu’à la fin de l’année.Depuis le début de l’année, la Slovaquie a détecté plus de 46 000 migrants sans papiers à ses frontières, selon le nouveau Premier ministre Robert Fico.Les pays qui renforcent les contrôles sont tous membres de l’Union européenne et de la zone européenne de frontières ouvertes Schengen. La réintroduction des contrôles aux frontières dans l’espace Schengen est autorisée dans des circonstances exceptionnelles et Bruxelles doit en être informée avant sa mise en œuvre.

    #Covid-19#migrant#migration#pologne#hongrie#serbie#UE#slovaquie#frontiere#controle#espaceschengen#routemigratoire#sante

  • En Grèce, « les refoulements de migrants » en mer « sont devenus la norme », accuse MSF - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/53007/en-grece-les-refoulements-de-migrants-en-mer-sont-devenus-la-norme-acc

    En Grèce, « les refoulements de migrants » en mer « sont devenus la norme », accuse MSF
    Par Maïa Courtois Publié le : 03/11/2023
    En, les refoulements par les autorités grecques des exilés vers la Turquie sont « devenus la norme » et s’accompagnent de « cycles de violences », dénonce l’ONG Médecins sans frontières (MSF) dans un nouveau rapport publié jeudi. Celui-ci se base sur de nombreux témoignages recueillis au fil des soins médicaux délivrés à des milliers d’exilés sur le sol grec ces deux dernières années.
    Dans un rapport paru ce jeudi 2 novembre, l’ONG Médecins sans frontières (MSF) affirme que les refoulements illégaux de migrants « sont devenus la norme », de même que « l’absence criante de protection pour les personnes qui cherchent la sécurité en Grèce ».Près de 8 000 exilés dont 1 500 enfants ont bénéficié, entre août 2021 et juillet 2023, d’une aide médicale de la part de MSF en Grèce. En se basant sur leurs témoignages, l’organisation souligne que la plupart ont fait l’objet de « plusieurs refoulements », en mer et depuis la terre. Ces refoulements s’accompagnent de violences, également détaillées dans le rapport.
    Les témoignages de ces refoulements en mer sont nombreux.
    Au fil des années, la rédaction d’InfoMigrants a également reçu des témoignages de violences en mer Égée. Une Congolaise avait raconté en 2021 comment les Grecs avaient refoulé leur canot dans les eaux turcs après avoir jeté à l’eau leurs portables et leurs affaires. Un Guinéen a également raconté en 2020 comment les garde-côtes grecs ont percé son embarcation en mer avant de repousser le canot vers les eaux turques.
    MSF rapporte aussi plusieurs témoignages de refoulements depuis la terre. À savoir, des exilés placés de force sur des radeaux de sauvetage et laissés à la dérive vers les eaux turques.
    Pendant ces opérations illégales de refoulements, beaucoup d’exilés reçus par MSF racontent avoir été « pris au piège dans des cycles de violence ». L’organisation a recueilli des témoignages de « violences, agressions physiques, fouilles à nu et fouilles corporelles intrusives », y compris sur des enfants, de la part d’"officiers en uniforme et d’individus masqués non identifiés".Parmi les violences revenant régulièrement dans les témoignages : poignets ou chevilles immobilisés avec des câbles en plastique, coups avec des matraques ou des bâtons, insultes verbales, fouilles corporelles intrusives devant des inconnus, liste MSF.
    Contacté par l’AFP, le ministère grec des Migrations n’avait pas encore réagi, jeudi, au rapport de MSF.
    Le 14 juin, au moins 82 personnes ont péri noyées et des centaines d’autres ont disparu dans le naufrage d’un chalutier qui reliait la Libye à l’Italie, au large de Pylos. Ce naufrage a soulevé de nombreuses questions sur les responsabilités des autorités grecques.
    Malgré les accusations récurrentes de refoulements et de violences, et « malgré des preuves nombreuses et crédibles, les autorités grecques, l’UE et ses États membres n’ont pas demandé de comptes aux auteurs de ces manquements », commente MSF dans son rapport."Nous demandons la fin définitive des refoulements aux frontières, la mise en place d’un système de surveillance indépendant sur les îles de la mer Égée et le renforcement des opérations de recherche et de sauvetage en mer", conclut le Dr Christos Christou, président international de MSF.Malgré la politique de refoulements une nouvelle fois décrite dans ce rapport d’ONG, plus de 29 700 migrants sont arrivés en Grèce au cours des neuf premiers mois de 2023. Soit plus du double des 11 000 enregistrés au cours de la même période l’année dernière.

    #Covid-19#migrant#migration#grece#ue#refoulement#MSF#migrationirregulierelibye#italie#mediterranee#violence#frontiere#droit#sante