• Lontano dal mare c’è un’altra Genova tutta da scoprire. A piedi

    Due amici hanno dato vita a un progetto di comunicazione online che promuove l’entroterra del capoluogo ligure, creando itinerari e una comunità offline di cui fanno parte residenti e turisti.

    Genova non è una città di mare. Se si è pronti ad accogliere questa affermazione, allora si può aprire il profilo Instagram di Emanuele ed Edoardo e programmare la prossima gita nel capoluogo ligure: si chiama “Less than 30 from home”e -mutuando un’espressione in lingua inglese- richiama il fatto “che a Genova, a meno di mezz’ora da casa, puoi metterti in cammino per incontrare e raggiungere luoghi inaspettati, una peculiarità che crediamo possano condividere ormai poche grandi città in Italia”, racconta Emanuele Crovetto. Classe 1994, con l’amico Edoardo Testa, nato nel 1993, ha avviato il progetto nel 2020, con un messaggio esplicito: “Raccontiamo un’altra Genova fatta di sentieri montani e tradizioni rurali, luoghi selvaggi e storie perdute, mondi vicini eppure lontanissimi”.

    Il progetto nasce dalle passioni comuni dei due amici, l’escursionismo e l’entroterra, che in un momento particolare, l’emergenza Covid-19 e le limitazioni anche geografiche che impedivano di spostarsi, gli ha permesso di “raccogliere tanto materiale e decidere di renderlo disponibile per trasformare il limite in un’opportunità, per andare più in profondità e renderci conto, noi per primi, che esistono ‘storie’ e ‘luoghi’ che vale la pena raccontare, che sono poco divulgate e lo sono male”, racconta Emanuele.

    Il fine esplicito è anche politico, sottolinea Edoardo: “Molte proposte non sono adatte: sui social si pubblicano fotografie irraggiungibili, con una spettacolarizzazione del territorio che non rende giustizia e ne offre un’immagine meravigliosa ma fine a se stessa, perchè non presenta un racconto che ne metta in luce la bellezza ma anche le problematiche. Per noi è fondamentale, anche nei testi che accompagnano le foto che pubblichiamo, far comprendere come le contraddizioni entrino in dialogo tra loro: non basta una geolocalizzazione, ma serve raccontare la storia e le caratteristiche ambientali e anche sociali e culturali, le problematiche e i limiti, lo stato d’abbandono”.

    A quattro anni e mezzo dal primo post sul profilo (che è del novembre 2020) gli itinerari pubblicati sono una trentina, arricchiti dalle grafiche curate da Crovetto che ha fatto studi di architettura e si occupa di design e progettazione. Le mappe e le descrizioni degli itinerari hanno come “obiettivo far scoprire il territorio in autonomia, anche se negli ultimi tempi abbiamo valutato che non era male ogni tanto creare delle occasioni proponendo agli utenti delle visite e delle escursioni guidate, non tanto per creare un calendario fitto ma per uscire dai social, dare l’opportunità di un contatto diretto, conoscere le persone, esprimere in modo più profondo il racconto, senza limitarsi ai 30 secondi’’ di un reel o al contenuto di un post”, racconta Edoardo Testa, che dopo la laurea in Giurisprudenza oggi studia Scienze umane per l’ambiente ed è anche Guida ambientale ed escursionistica abilitata.


    La comunità con cui dialogano è quella dei 18.500 follower del loro profilo. Il messaggio non riguarda solo i “luoghi da scoprire sulle alture di Genova”, cioè le cime tra gli 800 e i mille metri che si trovano nel territorio del Comune di Genova. Invita ad avere un altro rapporto con la città: “Le nostre escursioni partono dal basso per raggiungere la montagna. Nel percorso non è raro imbattersi in brutture. Dove questo contrasto esiste, lo rendiamo visibile, non lo nascondiamo. Non idealizziamo l’entroterra. Esistono alcuni quartieri particolarmente ‘difficili visivamente’ da cui sarebbe facile ‘raggiungere’ luoghi che esprimono un valore, ma una rete sentieristica poco sviluppata fa sì che per molti che ci vivono questo ‘legame’ non esista. Ecco un tema politico: la divulgazione della costa, lo sguardo sempre rivolto al mare, nasconde le opportunità che esistono guardandosi alle spalle”, sottolinea Edoardo.

    “Less than 30 from home” rappresenta un’alternativa rispetto a una scelta di promozione del territorio che i due fondatori del progetto definiscono “discutibile, a partire dal tema del turismo crocieristico e dalle relative infrastrutture”. Per questo, spiega Emanuele, è importante “lo sforzo per decostruire cliché, per raccontare un’altra Genova”. In questo senso, il progetto è anche politico: “Serviva qualcuno che facesse da contraltare al racconto mainstream, per non vocare la città a un turismo mordi e fuggi. Sulle alture, dove i servizi non esistono, non è possibile pensare a infrastrutture per il turista e non per chi vi abita. La Regione Liguria ha scelto, secondo noi commettendo un errore, di offrire una certa visione del territorio e della città, che è indubbiamente costa-centrica e lì concentra le risorse, ignorando le altre . Massivamente i turisti visitano così determinate zone della città. Quando si offre un racconto troppo facile, troppo semplice, questo attira il visitatore che non ha particolari velleità di comprendere quello che lo circonda. Un turista che vuole confermare la visione che ha di Genova, e non scoprirne un’altra: il primo può portare più danni del secondo”.

    Nemmeno per chi vi abita è scontato conoscere aree e quartieri di una città lunghissima, che rende il Levante un mondo a parte per chi è nato a Ponente, e viceversa. Due esempi: “La Val Cerusa, alle spalle di Voltri, torrentizia, con il paese di Sambuco, straniante. Appena si supera il cavalcavia dell’autostrada si entra in un mondo molto diverso rispetto a quanto uno si aspetta di trovare a Genova. La roccia qui è serpentinite, ha un impatto ‘alpino’. Se guardi verso l’alto, in giornate invernali, con un po’ di neve sulla vetta, difficilmente puoi sentire di essere a Genova”, racconta Edoardo.

    Fa eco Emanuele: “C’è la Val di Noci che nonostante il lago artificiale è davvero un luogo poco conosciuto, anche se tutt’intorno c’è il tracciato dell’Alta via dei Monti Liguri. Da lì, si può raggiungere l’Alpe Sisa e poi scoprire alcuni borghi abbandonati, come Canate di Marsiglia, dove oggi vive solo un eremita, Francesco. Sono paesi che hanno smesso di vivere negli anni Sessanta o Settanta. Luoghi vicini nel tempo e nello spazio, per buona parte dimenticati. Farli riscoprire è importante perché rappresentano un patrimonio architettonico e di tradizioni e di storie che altrimenti rischia di perdersi”. Restano in vita persone che hanno offerto ai due amici testimonianze della vita in quei luoghi.

    “Siamo l’ultima generazione -conclude Edoardo- che ha un rapporto diretto o indiretto con l’entroterra: le prossime avranno bisogno di qualcuno che ne conservi per loro una testimonianza. Non credo che sia un racconto da romanzare, ma da conservare. Una traccia di quello che siamo”.

    https://altreconomia.it/lontano-dal-mare-ce-unaltra-genova-tutta-da-scoprire-a-piedi

    #marche #promenade #Gênes #Italie #montagne #alternative #itinéraires #Italie

  • Le Système d’Information de France Travail candidat au Prix Big Brother |Michel Abhervé |
    http://blogs.alternatives-economiques.fr/abherve/2025/01/14/le-systeme-d-information-de-france-travail-candidat-a

    L’Arrêté du 3 janvier 2025 relatif à la mise en œuvre du système d’information #France_Travail est publié dans le Journal Officiel du 14 janvier 2025 https://www.legifrance.gouv.fr/jorf/id/JORFTEXT000050970803

    La lecture de ce document on ne peut plus officiel et de ses annexes ne peut que susciter des interrogations en particulier l’énumération des

    Fichiers pouvant alimenter le système d’information de France Travail, listés en annexe 2

    • données à caractère personnel dénommé « Déclaration sociale nominative »
    • Déclaration préalable à l’embauche
    • données à caractère personnel dénommé « Système d’information du compte personnel de formation »
    • Fichier d’annonces légales 
    • données à caractère personnel dénommé « I-MILO »
    • données à caractère personnel des #conseils_départementaux
    • Système de gestion et d’information des maisons départementales des personnes handicapées (#MDPH)
    • Gestion nationale des personnes détenues en établissement pénitentiaire (#GENESIS)

    Fichiers pouvant être mis en relation avec le système d’information de France Travail, listés en annexe 3

    • données à caractère personnel de l’Office Français de l’Immigration et de l’Intégration (#OFFI)
    • données à caractère personnel de la direction générale des finances publiques (#DGFiP)
    • identifiants mis en œuvre par la Caisse nationale d’assurance vieillesse des travailleurs salariés [#CNAV]
    • dossiers des ressortissants étrangers en France (#AGDREF2)
    • Fichier national des comptes bancaires (#FICOBA2)
    • données à caractère personnel des organismes de sécurité sociale ou de retraite complémentaire
    • données à caractère personnel des acteurs des services publics de l’emploi, de l’orientation et de la formation
    • données à caractère personnel de l’Agence des services et de paiement (ASP)
    • Fichier d’annonces légales
    • données à caractère personnel relatif à l’accompagnement des jeunes pour l’accès à l’emploi et dénommé « I-MILO »
    • données à caractère personnel dénommé « Système d’information du compte personnel de formation »

    Difficile de ne pas penser à l’expression « Big Brother » crée par George Orwall dans 1984 et utilisée depuis pour qualifier "toutes les institutions ou pratiques portant atteinte aux libertés fondamentales et à la vie privée des populations ou des individus".

    On tient là une bonne candidature pour le prochain Prix Big Brother

  • De la #presse parisienne à la #fachosphère. #Genèse et #diffusion du terme « #islamo-gauchisme » dans l’#espace_public

    Les « #discours_de ^_haine » trouvent souvent leur origine dans les sphères intellectuelles, politiques et médiatiques avant de se propager en ligne. Un exemple marquant de ce processus est l’utilisation du terme « islamo-gauchisme », qui a émergé au début des années 2000 et a gagné une attention médiatique significative en France en 2020 et 2021. Notre recherche retrace la genèse et la diffusion du terme dans les médias et dans le discours politique, avant d’en analyser l’usage sur les #médias_sociaux. Nous effectuons une analyse diachronique sur une longue période basée sur un protocole robuste d’analyse textométrique et de réseaux sur un corpus d’articles de #presse et de tweets. Nous montrons comment une partie de la presse parisienne, notamment de droite, a contribué à populariser le terme d’abord en ouvrant ses colonnes à des idéologues réactionnaires, puis en relatant des polémiques politiciennes qui ont instrumentalisé le terme afin de disqualifier une partie de la gauche, tandis que les communautés d’#extrême_droite en ligne l’ont transformé en une arme de #propagande haineuse.

    https://www.cairn.info/revue-reseaux-2023-5-page-163.htm
    #islamogauchisme #mots #terminologie #médias #instrumentalisation

    ping @karine4 @isskein @_kg_

  • Los estibadores de Barcelona deciden “no permitir la actividad” de barcos que envíen armas a Palestina e Israel

    Los estibadores del puerto de Barcelona han decidido “no permitir la actividad de barcos que contengan material bélico”. Así lo han explicado en un comunicado que se ha hecho público tras una asamblea del comité de empresa.

    La Organización de #Estibadores_Portuarios_de_Barcelona (#OEPB), el sindicato mayoritario entre los 1.200 estibadores barceloneses, apunta que han tomado esta decisión para “proteger a la población civil, sea del territorio que sea”.

    Con todo, los trabajadores aseguran un “rechazo absoluto a cualquier forma de violencia” y ven como una “obligación y un compromiso” defender “con vehemencia” la Declaración Universal de los Derechos Humanos. Unos derechos, dicen, que están siendo “violados” en Ucrania, Israel o en el territorio palestino.

    De esta manera, los trabajadores se comprometen a no cargar, descargar ni facilitar las tareas de cualquier buque que contenga armas. Ahora bien, los estibadores no tienen “capacidad para saber de facto que hay en los contenedores”, han afirmado a este diario.

    Los trabajadores se ponen en manos de ONG y entidades de ayuda humanitaria que sí puedan tener conocimiento sobre envíos de armas desde el puerto barcelonés. En esta línea, recuerdan el boicot que ya llevaron a cabo en 2011 en el marco de la guerra de Libia, durante la cual colaboraron con diversas entidades para entorpecer el envío de material bélico y, a su vez, se facilitó el envió de agua y alimentos.

    A pesar de que el Gobierno ha asegurado que no prevé exportar a Israel armas letales que se puedan usar en Gaza, los estibadores son conscientes de que, sólo en 2023, España ha comprado material militar a Israel por valor de 300 millones de euros, unido a otros 700 millones comprometidos en adquisición de armamento para los próximos años.

    Los trabajadores insisten en que con este comunicado no se están posicionado políticamente en el conflicto, simplemente abogan por el alto al fuego y la distribución de ayuda humanitaria. “No es un comunicado político, sólo queremos que se agoten todas las vías de diálogo antes de usar la violencia”.

    Este argumento fue el mismo que estos trabajadores portuarios usaron para negarse a dar servicio a los cruceros en los que la Policía Nacional se alojó durante los días previos al 1 de Octubre. En aquella ocasión también aseguraron que tomaban la decisión “en defensa de los derechos civiles”.

    Con este gesto, los estibadores se suman a otros colectivos de trabajadores portuarios, como los belgas, que también han anunciado que no permitirán el envío de material militar a Israel o Palestina. La del boicot es una estrategia que no es nueva: estibadores de diversos lugares del mundo ya la han llevado a cabo en momentos crudos del conflicto durante los últimos años. Por ejemplo durante el conflicto en la Franja de Gaza de 2008 y 2009, estibadores de Italia, Sudáfrica y Estados Unidos ya se negaron a a manipular cargamentos provenientes de Israel.

    https://www.eldiario.es/catalunya/estibadores-barcelona-deciden-no-permitir-actividad-barcos-envien-armas-pal
    #Barcelone #résistance #armes #armement #Israël #Palestine

    • Espagne : les #dockers du #port de Barcelone refusent de charger les #navires transportant des armes à destination d’Israël

      - « Aucune cause ne justifie la mort de civils », déclare le syndicat des dockers OEPB dans un #communiqué

      Les dockers du port espagnol de Barcelone ont annoncé qu’ils refuseraient de charger ou de décharger des navires transportant des armes à destination d’Israël, à la lumière des attaques de ce pays contre Gaza.

      « En tant que collectif de travailleurs, nous avons l’obligation et l’engagement de respecter et de défendre avec véhémence la Déclaration universelle des droits de l’homme », a déclaré l’OEPB, le seul syndicat représentant quelque 1 200 dockers du port, dans un communiqué.

      « C’est pourquoi nous avons décidé en assemblée de ne pas autoriser les navires contenant du matériel de guerre à opérer dans notre port, dans le seul but de protéger toute population civile », a ajouté le communiqué, notant qu’"aucune cause ne justifie la mort de civils".

      L’OEPB appelle à un cessez-le-feu immédiat et à un règlement pacifique des conflits en cours dans le monde, et notamment du conflit israélo-palestinien.

      Les Nations unies devraient abandonner leur position de complicité, due à l’inaction ou à leur renoncement dans l’exercice de leurs fonctions, a ajouté le communiqué.

      Israël mène, depuis un mois, une offensive aérienne et terrestre contre la Bande de Gaza, à la suite de l’attaque transfrontalière menée par le mouvement de résistance palestinien Hamas le 7 octobre dernier.

      Le ministère palestinien de la Santé a déclaré, mardi, que le bilan des victimes de l’intensification des attaques israéliennes sur la Bande de Gaza depuis le 7 octobre s’élevait à 10 328 morts.

      Quelque 4 237 enfants et 2 719 femmes figurent parmi les victimes de l’agression israélienne, a précisé le porte-parole du ministère, Ashraf al-Qudra, lors d’une conférence de presse.

      Plus de 25 956 autres personnes ont été blessées à la suite des attaques des forces israéliennes sur Gaza, a-t-il ajouté.

      Le nombre de morts israéliens s’élève quant à lui à près de 1 600, selon les chiffres officiels.

      Outre le grand nombre de victimes et les déplacements massifs, les approvisionnements en produits essentiels viennent à manquer pour les 2,3 millions d’habitants de la Bande de Gaza, en raison du siège israélien, qui s’ajoute au blocus imposé par Israël à l’enclave côtière palestinienne.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/espagne-les-dockers-du-port-de-barcelone-refusent-de-charger-les-navires-transportant-des-armes-%C3%A0-destination-disra%C3%ABl/3046909

    • #Genova, Barcellona, #Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di #Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo). Un’iniziativa simile è in atto nel porto di Sidney, in Australia, dove si protesta contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana #Zim. All’appello dei colleghi palestinesi hanno aderito ieri anche i lavoratori dello scalo di Barcellona, annunciando che impediranno “le attività delle navi che portano materiale bellico”. Come lavoratori, si legge nel comunicato degli spagnoli, “difendiamo con veemenza la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo“, aggiungendo che “nessuna causa giustifica il sacrificio dei civili”. In Belgio a rifiutarsi di caricare armi sono da alcune settimane gli addetti aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così come è molto attivo il coordinamento dei sindacati greci #Pame.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di #Tacoma, mossi dal sospetto che la #Cape_Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di #Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense #Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis. Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di #Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana #Elbit_Systems.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/07/genova-barcellona-sidney-i-lavoratori-portuali-si-rifiutano-di-caricare-le-navi-con-le-armi-per-israele/7345757
      #Gênes

    • La logistica di guerra

      Venerdì 10 novembre i lavoratori del porto di Genova hanno lanciato un blocco della logistica di guerra. I porti sono uno snodo fondamentale della circolazione delle armi impiegate in ogni dove.
      A Genova è stato osservato un carico di pannelli per pagode militari che verrà destinato ad una delle navi della compagnia saudita Bahri.
      Dal terminal dei traghetti nelle scorse settimane sono stati caricati camion militari dell’Iveco destinati alla Tunisia, con ogni probabilità destinati alla repressione dei migranti.
      Le organizzazioni operaie palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionalista, alla lotta degli sfruttati contro tutti i padroni a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
      Nel porto di Genova opera una compagnia merci, l’israeliana ZIM, che il 10 novembre gli antimilitaristi puntano a bloccare.
      Inceppare il meccanismo è un obiettivo concreto che salda l’opposizione alla guerra con la lotta alla produzione e circolazione delle armi.
      L’appuntamento per il presidio/picchetto è alle 6 del mattino al varco San Benigno.
      Ne abbiamo parlato con Christian, un lavoratore del porto dell’assemblea contro la guerra e la repressione.

      https://www.rivoluzioneanarchica.it/genova-fermare-la-logistica-di-guerra
      #logistique

    • Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

      Genova, Barcellona, #Oackland, #Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

      “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

      Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

      In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

      Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

      Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

      A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

      https://www.osservatoriorepressione.info/porti-bloccati-linvio-armi-israele

    • Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

      E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della #ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

      Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

      Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

      Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video: https://www.facebook.com/watch/?v=348645561154990) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

      «Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

      Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».
      A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.
      L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

      Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosangela-da-Genova.mp3

      Le interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-due.mp3



      Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosi-da-sede-Zim-Genova.mp3

      Ancora interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-tre.mp3

      Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Corrispondenza-conclusiva-di-Riccardo-Calp-Genova.mp3

      https://www.osservatoriorepressione.info/genova-centinaia-bloccano-porto-linvio-armi-israele
      #camalli

    • Shutting Down the Port of Tacoma

      Since October 7, the Israeli military has killed over 10,000 people in Palestine, almost half of whom were children. In response, people around the world have mobilized in solidarity. Many are seeking ways to proceed from demanding a ceasefire to using direct action to hinder the United States government from channeling arms to Israel. Despite the cold weather on Monday, November 6, several hundred people showed up at the Port of Tacoma in Washington State to block access to a shipping vessel that was scheduled to deliver equipment to the Israeli military.

      In the following text, participants review the history of port blockades in the Puget Sound, share their experience at the protest, and seek to offer inspiration for continued transoceanic solidarity.
      Escalating Resistance

      On Thursday, November 2, demonstrators protesting the bombing and invasion of Gaza blocked a freeway in Durham, North Carolina and shut down 30th Street Station in Philadelphia. Early on Friday, November 3, at the Port of Oakland in California, demonstrators managed to board the United States Ready Reserve Fleet’s MV Cape Orlando, which was scheduled to depart for Tacoma to pick up military equipment bound for Israel. The Cape Orlando is owned by the Department of Transportation, directed by the Department of Defense, and managed and crewed by commercial mariners. After an hours-long standoff, the Coast Guard finally managed to get the protesters off the boat.

      Afterwards, word spread that there would be another protest when the boat arrived in Tacoma. The event was announced by a coalition of national organizations and their local chapters: Falastiniyat (a Palestinian diaspora feminist collective), Samidoun (a national Palestinian prisoner support network), and the Arab Resource & Organizing Center, which had also participated in organizing the protest in Oakland.

      The mobilization in Tacoma was originally scheduled for 2:30 pm on Sunday, November 5, but the organizers changed the time due to updated information about the ship’s arrival, calling for people to show up at 5 am on Monday. Despite fears that the last-minute change would undercut momentum, several hundred demonstrators turned out that morning. The blockade itself consisted of a continual picket at multiple points, bolstered by quite a few drivers who were willing to risk the authorities impounding their cars.

      All of the workers that the ILWU deployed for the day shift were blocked from loading the ship. Stopping the port workers from loading it was widely understood as the goal of the blockade; unfortunately, however, this did not prevent the military cargo from reaching the ship. Acting as scabs, the United States military stepped in to load it, apparently having been snuck into the port on Coast Guard vessels.

      Now that the fog of war is lifting, we can review the events of the day in detail.

      Drawing on Decades of Port Blockades

      The Pacific Northwest has a long history of port shutdowns.

      In 1984, port workers in the International Longshore and Warehouse Union (ILWU) coordinated with anti-Apartheid activists and refused to unload cargo ships from South Africa. Between 2006 and 2009, the Port Militarization Resistance movement repeatedly blockaded the ports of Olympia and Tacoma to protest against the occupation of Iraq and Afghanistan. In 2011 and 2012, participants in Occupy/Decolonize Seattle organized in solidarity with port workers in the ILWU in Longview and shut down the Port of Seattle, among other ports.

      In 2014, demonstrators blockaded the Port of Tacoma using the slogan Block the Boat, singing “Our ports will be blocked to Israel’s ships until Gaza’s ports are free.” One of the participants was the mother of Rachel Corrie, a student who was murdered in Gaza by the Israeli military in 2002 while attempting to prevent them from demolishing the homes of Palestinian families. In 2015, an activist chained herself to a support ship for Royal Dutch Shell’s exploratory oil drilling plans, using the slogan Shell No. In 2021, Block the Boat protesters delayed the unloading of the Israeli-operated ZIM San Diego ship for weeks. The Arab Resource & Organizing Center played a part in organizing the Block the Boat protests.

      Today, the Port of Tacoma appears to be the preferred loading point for military equipment in the region—perhaps because the Port Militarization Resistance successfully shut down logistics at the Port of Olympia, while Tacoma police were able to use enough violent force to keep the Port of Tacoma open for military shipments to Iraq and Afghanistan. The various port blockades fostered years of organizing between ILWU workers, marginalized migrant truck workers, environmentalists, and anti-war activists. New tactics of kayaktivism emerged out of anti-extractivism struggles in Seattle, where seafaring affinity groups were able to outmaneuver both the Coast Guard and the environmental nonprofit organizations that wanted to keep things symbolic. On one occasion, a kayaking group managed to run a Shell vessel aground without being apprehended. Some participants brought reinforced banners to the demonstration on Monday, November 6, 2023, because they remembered how police used force to clear away less-equipped demonstrators during the “Block the Boat” picket at the Port of Seattle in 2021.

      Over the years, these port blockades have inspired other innovations in the genre. In November 2017, demonstrators blockaded the railroad tracks that pass through Olympia.1 At a time when Indigenous water protector and land defense struggles were escalating and locals wanted to act in solidarity, blockading the port seemed prohibitively challenging, so they chose a section of railroad tracks via which fracking proppants were sent to the port. This occupation was arguably more defensible and effective than a port blockade would have been, lasting well over a week. It may indicate a future field for experimentation.
      Gathering at the Port

      The Port of Tacoma and the nearby ICE detention center are located in an industrial area that also houses a police academy. They are only accessible through narrow choke points; in the past, police have taken advantage of these to target and harass protesters. The preceding action at the Port of Oakland took place in a more urban terrain; as protesters prepared for the ship to dock in Tacoma, concerns grew about the various possibilities for repression. Veterans of the Port Militarization Resistance and other logistically-minded individuals compiled lists of considerations to take into account when carrying out an action at this particular port.

      On Monday morning, people showed up with positive energy and reinforced banners. Hundreds of people coordinated to bring in supplies and additional waves of picketers. The plan was to establish a picket line at every of the three entrances into Pier 7. As it turned out, the police preemptively blocked the entrances, sitting in their vehicles behind the Port fence. Demonstrators marched in circles, chanting, while others gathered material with which to create impromptu barricades.

      Other anarchists remained at a distance, standing by to do jail support and advising the participants on security precautions. Others set up at the nearby casino, investigating and squashing rumors in the growing signal groups and helping to link people to the information or communication loops they needed. Whether autonomously or in conversation with the organizers, all of them did their best to contribute to the unfolding action.

      The demonstration successfully accomplished what some had thought might be impossible, preventing the ILWU workers from loading the military shipment. Unexpectedly, this was not enough. Even seasoned longshoremen were surprised that the military could be brought in to act as scabs by loading the ship.

      Could we have focused instead on blocking the equipment from reaching the port in the first place? According to publicly available shift screens, the cargo that was eventually loaded onto the ship had already arrived at the port before the action’s originally planned 2:30 pm start time on November 5. Considering that Sunday afternoon was arguably the earliest that anyone could mobilize a mass action on such short notice, it is not surprising that the idea of blocking the cargo was abandoned in favor of blocking the ILWU workers. Of course, if the information that military supplies were entering the port had circulated earlier, something else might have been possible.

      The organizers chose the approach of blocking the workers in spite of the tension it was bound to cause with the ILWU Local 23. Our contacts in the ILWU describe the Local 23 president as a Zionist; most workers in Local 23 were supposedly against the action, despite respecting the picket.2 The president allegedly went so far as to suggest bringing in ILWU workers on boats, a plan that the military apparently rejected.

      There were rumors that a flotilla of kayaks was organizing to impede the Orlando’s departure the following morning. In the end, a canoe piloted by members of the Puyallup, Nisqually, and other Coast Salish peoples and accompanied by a few kayakers blocked the ship’s path for a short time on November 6, but nothing materialized for November 7.

      This intervention is an important reminder of the ethical and strategic necessity of working with Indigenous groups who know the land and water and preserve a living memory of struggle against colonial violence that includes repeatedly outmaneuvering the United States military.

      The ship departed, but one Stryker Armored Personnel Carrier that was scheduled for work according the ILWU shift screens was not loaded, presumably due to the picket. Given the military work-crew’s inexperience in loading shipping containers, it’s unclear how much of the shipment was completely loaded in the time allotted for the ship, as ports hold to a strict schedule in order not to disrupt capital’s global supply chains.
      Evaluation

      The main organizers received feedback in the course of the protest and adapted their strategy as the situation changed, shifting their communication to articulate what they were trying to do and explaining their choices rather than simply appealing to their authority as an organization or as Palestinians. Nonetheless, some participants have expressed displeasure about how things unfolded. It was difficult to get comprehensive information about what was going on, and this hindered people from making their own decisions and acting autonomously. Some anarchists who were on the ground report that the vessel was still being loaded when the organizers called off the event; others question the choice not to reveal the fact that the military was loading the equipment while the demonstration still had numbers and momentum.

      It is hard to determine to what extent organizers intentionally withheld information. We believe that it is important to offer constructive feedback and principled criticism while resisting the temptation to make assumptions about others’ intentions (or, at worst, to engage in snitch-jacketing, which can undermine efforts to respond to actual infiltration and security breaches in the movement and often contributes to misdiagnosing the problems in play).

      Cooperating with the authorities—especially at the expense of other radicals—is always unacceptable. This is a staple of events dominated by authoritarian organizations. Fortunately, nothing of this kind appears to have occurred during the blockade on November 6. Those on either side of this debate should be careful to resist knee-jerk reactions and to avoid projecting bad intentions onto imagined all-white “adventurists” or repressive “peace police.”

      In that spirit, we will spell out our concern. The organizers simultaneously announced that the weapons had been loaded onto the ship, and at the same time, declared victory. This fosters room for suspicion that the original intention had been to “block the boat” symbolically without actually hampering the weapons shipment, in order to create the impression of achieving a “movement win” without any substantive impact. Such empty victories can deflate movements and momentum, sowing distrust in the hundreds of people who showed up on short notice with the intention of stopping weapons from reaching Israel. It might be better to acknowledge failure, admitting that despite our best efforts, the authorities succeeded in their goal, and affirming that we have to step up our efforts if we want to save lives in Gaza. We need organizers to be honest with us so we know what we are up against.

      It’s important to highlight that ultimately it was the military that loaded the ship, not the ILWU. This move was unprecedented, just like the military spying on demonstrators during the Port Militarization Resistance. But it should not have been unexpected. From now on, we should bear in mind that the military is prepared to intervene directly in the logistics of capitalism.

      This also highlights a weakness in the strategy of blocking a ship by means of a picket line and blockading the streets around the terminal. To have actually stopped the ship, a much more disruptive action would have been called for, potentially including storming the terminal itself and risking police violence and arrests. This isn’t to say that storming the port would have been practical, nor to argue that there is never any reason to blockade the terminal in the way that we did. Rather, the point is that the mechanics of war-capitalism are more pervasive and adaptable than the strategies that people employed to block it in Oakland and Tacoma. Any form of escalation will require more militancy and risk tolerance.

      At the same time, we should be honest about our capabilities, our limits, and the challenges we face. Although many people were prepared to engage in a picket, storming a secured facility involves different considerations and material preparation, and demands a cool-headed assessment of benefits versus consequences. We should not simply blame the organizers for the fact that it did not happen. A powerful enough movement cannot be held back, not even by its leaders.

      Considering that the United States military outmaneuvered the picket strategy—and in view of the grave stakes of what is occurring Palestine—”Why not storm the port?” might be a good starting point for future strategizing. Yet from this point forward, the port is only going to become more and more secure. Another approach would be to pan back from the port, looking for points of intervention outside it. In this regard, the rail blockade in Olympia in 2017 might offer a promising example.

      Likewise, while we should explore ways to resolve differences when we have to work together, we can also look for ways to share information and coordinate while organizing autonomously. We might not be able to reach consensus about what strategy to use, but we can explore where we agree and diverge, acquire and circulate intelligence, and try many different strategies at once.

      The logic and logistics of the ruling order are intertwined all the world over. Israeli weapons helped Azerbaijan invade the Armenian enclave of Nagorno-Karabakh in September. The technologies of surveillance, occupation, and repression, refined from besieging Gaza and fragmenting the West Bank, are deployed along the deadly southern border of the United States. The FBI calls Israeli tech firms when they need to hack into someone’s phone. Everything is connected, from the ports on the Salish Sea to the eastern coast of the Mediterranean.

      Here’s to mutiny in the belly of the empire. If not us, then who? If not now, then when?

      https://pugetsoundanarchists.org/shutting-down-the-port-of-tacoma

    • Des #syndicats du monde entier tentent d’empêcher les livraisons d’armes vers Israël

      #Liège, Gênes, Barcelone, #Melbourne, #Oakland, #Toronto et peut-être bientôt différents ports français… Depuis le début du bombardement de Gaza, des syndicats ont tenté de bloquer des livraisons d’armes vers Israël, rappelant la tradition de lutte internationaliste du syndicalisme. Des initiatives insuffisantes pour entraver l’armement du pays, mais qui ont le mérite de mettre les États exportateurs d’armes face à leurs responsabilités.

      Peut-on compter sur la solidarité internationaliste des syndicats pour mettre fin à l’attaque de Gaza ? C’est en tout cas ce que veut croire la coordination syndicale Workers in Palestine. Composée de dizaines de syndicats palestiniens rassemblant travailleurs agricoles, pharmaciens ou encore enseignants, elle a lancé un appel aux travailleurs du monde entier afin d’entraver l’acheminement de matériel militaire vers Israël.

      « Nous lançons cet appel alors que nous constatons des tentatives visant à interdire et à réduire au silence toute forme de solidarité avec le peuple palestinien. Nous vous demandons de vous exprimer et d’agir face à l’injustice, comme les syndicats l’ont fait historiquement », écrivait-elle le 16 octobre. Dans la foulée, elle appelait à deux journées d’actions internationales les 9 et 10 novembre pour empêcher les livraisons d’armes.

      Tradition de lutte anti-impérialiste du syndicalisme

      En rappelant la tradition internationaliste du syndicalisme, Workers in Palestine inscrit son appel dans l’histoire des luttes syndicales contre les guerres impérialistes et coloniales. Une tradition qui n’est pas étrangère aux syndicats Français. Ainsi, en 1949, une grève organisée par les dockers de la CGT sur le port de Marseille permettait de bloquer plusieurs bateaux destinés à acheminer des armes vers l’Indochine, alors en pleine guerre de décolonisation. Et ce mode d’action n’a pas été oublié depuis. En 2019, les dockers du port de Gênes se sont mis en grève afin de ne pas avoir à charger un navire soupçonné de transporter des armes (françaises) vers l’Arabie Saoudite. « On a aussi fait des actions pendant la guerre en Irak », se remémore Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE, un des syndicats belge qui a récemment refusé de transporter des armes vers Israël.

      Qu’ils répondent consciemment à l’appel de Workers in Palestine ou non, des syndicats et des collectifs citoyens ont organisé des actions sur des lieux stratégiques du commerce d’armes depuis le début des bombardements sur Gaza. Des blocages et des manifestations ont eu lieu sur les ports de Tacoma aux Etat-unis, ou encore à Melbourne, en Australie ou à Toronto au Canada. A Barcelone, des dockers ont déclaré vouloir refuser de charger ou de décharger tout matériel militaire en lien avec les bombardements à Gaza. Nous avons choisi de nous attarder sur quatre de ces initiatives.

      A Gênes, les dockers visent une entreprise de matériel militaire

      « De 2019 à aujourd’hui, nous avons bloqué presque deux fois par an les navires transportant des armes vers des zones de guerre comme le Yémen, le Kurdistan, l’Afrique et Gaza », explique Josè Nivoi, docker génois et syndicaliste à l’Unions Sindicale di Base (USB). C’est dans la continuité de ces actions qu’il s’est mobilisé avec ses collègues et son syndicat, à l’appel de Workers in Palestine. Vendredi 10 novembre, près de 400 personnes ont manifesté devant le port de Gênes pour protester contre l’envoi d’armes en Israël. Les dockers ont ensuite marché vers les locaux de Zim integrated Shipping Service, une entreprise israélienne de transport de marchandises et de matériel militaire.

      Après l’attaque du Hamas le 7 octobre, cette dernière a proposé son aide à Israël afin d’y acheminer du matériel. « Nous avons des camarades qui surveillent les navires et peuvent voir s’il y a des armes à bord », glisse le docker. Il ajoute que cette action s’inscrit dans la tradition, encore très forte à Gênes, des mobilisation anti-fasciste et anti-impérialsites : « Nous avons toujours été solidaires des peuples qui luttent pour l’autodétermination, et la question palestinienne fait partie de ces luttes. Nous sommes des travailleurs internationalistes et c’est pourquoi nous voulons nous battre pour essayer de changer les choses », explique le docker.

      En Angleterre, une usine d’armes bloquée temporairement

      Le même jour, près de 400 syndicalistes ont bloqué l’usine d’armes de l’entreprise BAE, à Rochester en Angleterre. L’usine d’arme fabrique notamment des « systèmes d’interception actif » pour les jet F35, « utilisés actuellement par Israël pour bombarder Gaza », écrivent les syndicats organisateurs de cette mobilisation. Art, culture, éducation, santé, sept organisations syndicales se sont retrouvées sous le mot d’ordre « Travailleurs pour une Palestine libre », répondant également à l’appel des syndicats palestiniens du 16 octobre.

      « L’industrie d’armement britannique, subventionnée par de l’argent public, est impliquée dans les massacres de Palestiniens. Nous sommes ici aujourd’hui pour perturber la machine de guerre israélienne et prendre position contre la complicité de notre gouvernement et nous exhortons les travailleurs de tout le Royaume-Uni à prendre des mesures similaires sur leurs lieux de travail et dans leurs communautés », explique une professeur qui manifestait vendredi à Dorchester.

      En Belgique les syndicats de l’aviation refusent de charger des armes vers Israël

      Si les avions de passagers ne relient plus Israël et la Belgique depuis l’attaque du Hamas, des avions cargos continuent de transporter des armes vers l’État hébreu, selon des syndicats. « On constate même une augmentation des vols cargo depuis Liège vers Tel Aviv », confie Christian Delcourt, porte-parole de l’aéroport de Liège, à la presse belge. Un phénomène qui n’a pas échappé aux travailleurs de ces sites. « Dans le courant du mois d’octobre, des manutentionnaires nous ont informés qu’ils chargeaient des armes dans des avions civils commerciaux. D’habitude, ces cargaisons doivent être transportées par des avions militaires. Mais quoi qu’il en soit, il n’était pas question pour eux de participer à une guerre, particulièrement quand on sait que des civils sont massacrés », explique Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE. Le syndicat chrétien, majoritaire dans ces aéroports, prend alors contact avec trois autres syndicats du secteur pour rédiger un communiqué commun. « Alors qu’un génocide est en cours en Palestine, les travailleurs des différents aéroports de Belgique voient des armes partir vers des zones de guerre », écrivent-ils fin octobre. L’initiative fait en partie mouche : « parmi les deux compagnies aériennes qui effectuent ces livraisons, l’une d’elle les a arrêtées. L’autre, c’est une compagnie israélienne », soutient Didier Lebbe.

      En France, les dockers s’organisent

      En France, si aucun syndicat n’a pour l’instant appelé à des actions sur les lieux de travail, la fédération CGT Ports et docks pourrait bientôt rejoindre le mouvement international. La semaine prochaine, au port du Pirée à Athènes,12 organisations syndicales de dockers et portuaires européennes, membres de l’EDC (European Dockworkers Council )doivent se réunir pour une assemblée générale. « Au niveau français, on va pousser pour obtenir une journée d’arrêt de travail dans tous les ports européens pour manifester notre volonté d’un processus de paix, et dénoncer tous les conflits armés », affirme Tony Hautbois, secrétaire général de la fédération CGT Ports et docks. La possibilité d’un boycott des syndicats sur le transport d’armes vers Israël sera aussi en débat, il pourrait déboucher sur une position commune entre ces syndicats, qui regroupent 20 000 dockers à travers l’Europe.

      D’autres syndicats français ont également mis en avant la nécessité d’une action sur l’outil de travail pour empêcher les livraisons d’armes vers Israël. La fédération Sud-Rail a ainsi appelé à s’exprimer dans la rue « mais aussi avec les méthodes de la lutte des classes, comme la grève ». Sur le réseau social X (ex-Twitter), l’union locale CGT de Guingamp a relayé l’appel de Workers in Palestine.

      Des actions symboliques qui ne pèsent pas réellement sur le conflit…

      Pourtant, même si les initiatives syndicales essaiment, elles ne suffisent pas à entraver la capacité d’armement d’Israël. « Même si la vente de matériel militaire était bloquée en France, cela ne pèserait pas beaucoup. On estime que notre pays vend environ 20 millions d’euros de composants militaires par an à Israël. C’est incomparable avec ce que l’on vend aux Emirats arabes unis, par exemple », explique Patrice Bouveret, cofondateur de l’Observatoire des armements, centre d’étude antimilitariste basé à Lyon. A cela s’ajoutent les ventes de biens dits « à double usage », des composants qui peuvent servir pour produire du matériel militaire, ou non. « Mais il s’agit de matériel d’une telle précision qu’il est bien souvent utilisé uniquement pour les armes », commente Patrice Bouveret. Ces biens représentent une somme évaluée à 34 millions par le ministère de l’économie dans un rapport (voir tableau p. 38) remis aux parlementaires en juin 2023.

      « Le principal fournisseur d’armes à Israël, ce sont les États-Unis : près de 4 milliards d’euros de vente d’armes. Les américains entreposent également des stocks d’armes en Israël dans laquelle cette dernière peut puiser. Enfin, comme Israël a des capacités de production, elle peut importer des composants moins chers, qu’elle pourra elle-même transformer », continue Patrice Bouveret.

      …mais qui mettent les États face à leurs responsabilités

      Ces actions ont toutefois le mérite de poser la question de la responsabilité des États producteurs ou exportateurs d’armes dans les bombardements israéliens sur la bande de Gaza et sa population. Alors que 10 000 personnes sont mortes sous les bombes israéliennes, dont 4000 enfants, les termes « nettoyage ethnique », « génocide », ou « crimes de guerre » commencent à se faire entendre dans les plus hautes instances internationales. « La punition collective infligée par Israël aux civils palestiniens est également un crime de guerre, tout comme l’évacuation forcée illégale de civils », a déclaré Volker Türk, Haut Commissaire des Nations unies pour les réfugiés, le 8 novembre.

      Les accords et traités internationaux sont très clairs sur l’implication de pays tiers dans la commission de crimes de guerre, notamment par le biais de la vente d’armes. Le traité sur le commerce des armes (TCA), interdit tout transfert d’armes qui pourrait être employé dans le cadre de crimes de guerre. Amnesty international a déjà alerté sur l’implication de la France dans la vente d’armes à l’Arabie Saoudite, accusée de bombarder sans distinction la population civile au Yémen, où elle mène une guerre contre les rebelles Houthis, depuis huit ans.

      Quant à savoir si les bombardement israéliens constituent un crime de guerre ou un génocide, c’est à la cour pénale Internationale d’en décider. Une plainte pour « génocide » a déjà été déposée par une centaines de palestiniens, tandis que la France enquête déjà sur de possibles « crimes de guerre » du Hamas. Reporter sans Frontière a aussi déposé une plainte pour « crimes de guerres » après la mort de journalistes palestiniens et israéliens. Enfin, l’ONU enquête actuellement en Israël et en Palestine sur de possibles crimes de guerres, en lien avec l’attaque du Hamas le 7 octobre, ou les bombardements israéliens sur la bande de Gaza depuis un mois.

      https://rapportsdeforce.fr/linternationale/des-syndicats-du-monde-entier-tentent-dempecher-les-livraisons-darme

  • Carnets de villes – Gênes
    https://metropolitiques.eu/Carnets-de-villes-Genes.html

    Dans cette émission, l’écrivain Benoît Vincent propose un parcours dans la ville de #Gênes, attentif aux détails de ses paysages. Entre mer et montagne, nous le suivons dans les replis de l’ancienne république maritime, qui fut l’un des berceaux du capitalisme mondial. Émission : Carnets de villes Nous recevons aujourd’hui Benoît Vincent, qui a publié GEnove, villes épuisées en 2017. Cet ouvrage singulier est un portrait littéraire, multiple et éclaté, de la ville de Gênes – que l’auteur habite depuis le #Podcasts

    / #Italie, Gênes

  • Million-year-old viruses help fight #cancer, say scientists - BBC News
    https://www.bbc.com/news/health-65266256

    The researchers had noticed a connection between better survival from lung cancer and a part of the immune system, called B-cells, clustering around tumours.

    […] B-cells are the part of our body that manufactures antibodies and are better known for their role in fighting off infections, such as Covid.

    Precisely what they were doing in lung cancer was a mystery but a series of intricate experiments using samples from patients and animal tests showed they were still attempting to fight viruses.

    “It turned out that the antibodies are recognising remnants of what’s termed endogenous retroviruses,” Prof Julian Downward, an associate research director at the Francis Crick Institute, told me.

    Retroviruses have the nifty trick of slipping a copy of their genetic instructions inside our own.

    – More than 8% of what we think of as “human” DNA actually has such viral origins
    – Some of these retroviruses became a fixture of our genetic code tens of millions of years ago and are shared with our evolutionary relatives, the great apes
    – Other retroviruses may have entered our DNA a few thousand years ago

    Some of these foreign instructions have, over time, been co-opted and serve useful purposes inside our cells, but others are tightly controlled to stop them spreading.

    However, chaos dominates inside a cancerous cell when it is growing uncontrollably and the once tight control of these ancient viruses is lost.

    These ancient genetic instructions are no longer able to resurrect whole viruses but they can create fragments of viruses that are enough for the immune system to spot a viral threat.

    “The immune system is tricked into believing that the tumour cells are infected and it tries to eliminate the virus, so it’s sort of an alarm system,” Prof George Kassiotis, head of retroviral immunology at the biomedical research centre, told me.

    #virus #gènes

  • Pourquoi détruit-on la planète ? Les dangers des explications pseudo-neuroscientifiques

    Des chercheurs en neurosciences et sociologie mettent en garde contre la thèse, qu’ils jugent scientifiquement infondée, selon laquelle une de nos #structures_cérébrales nous conditionnerait à surconsommer.

    Selon Thierry Ripoll et Sébastien Bohler, les ravages écologiques liés à la surconsommation des ressources planétaires seraient dus aux #comportements_individuels déterminés par notre cerveau. Une structure, le striatum, piloterait par l’intermédiaire d’une #molécule_neurochimique, la #dopamine, le désir de toujours plus, sans autolimitation, indiquaient-ils récemment dans un entretien au Monde.

    (#paywall)
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2022/07/07/pourquoi-detruit-on-la-planete-les-dangers-des-explications-pseudo-scientifi

    –—

    Tribune longue :

    Dans un entretien croisé pour Le Monde, Thierry Ripoll et Sébastien Bohler présentent leur thèse commune, développée dans deux ouvrages récents et que Bohler avait résumée dans un ouvrage précédent sous le titre évocateur de « bug humain » : les ravages écologiques liés à la surconsommation des ressources planétaires seraient dus aux comportements individuels déterminés par la structure même du cerveau. Précisément, le dogme de la croissance viendrait du striatum. Selon lui, cette structure cérébrale piloterait par l’intermédiaire d’une molécule neurochimique, la dopamine, le désir de toujours plus, sans autolimitation. Ripoll reprend cette thèse à son compte, et il affirme que la décroissance économique, qu’il appelle de ses vœux pour limiter les catastrophes en cours, bute ainsi sur des limites psychobiologiques.

    Cette thèse est très forte et a des conséquences politiques très préoccupantes : la #nature_humaine, ou plus précisément notre #programmation_biologique, conditionnerait le champ des possibles concernant l’organisation socio-économique. Le modèle de croissance économique serait le seul compatible avec le #fonctionnement_cérébral humain. Cela disqualifie les projets politiques de #décroissance ou de stabilité basés sur la #délibération_démocratique. Cela déresponsabilise également les individus[i] : leur #comportement destructeur de l’#environnement n’est « pas de leur faute » mais « celle de leur #striatum ». Une conséquence logique peut être la nécessité de changer notre nature, ce qui évoque des perspectives transhumanistes, ou bien des mesures autoritaires pour contraindre à consommer moins, solution évoquée explicitement par les deux auteurs. Les neurosciences et la #psychologie_cognitive justifient-elles vraiment de telles perspectives ?

    Nous souhaitons ici solennellement informer les lectrices et les lecteurs de la totale absence de fondement scientifique de cette thèse, et les mettre en garde contre ses implications que nous jugeons dangereuses. Ce message s’adresse également à ces deux auteurs que nous estimons fourvoyés, sans préjuger de leur bonne foi. Nous ne doutons pas qu’ils soient sincèrement et fort justement préoccupés des désastres environnementaux mettant en danger les conditions d’une vie décente de l’humanité sur Terre, et qu’ils aient souhaité mobiliser leurs connaissances pour aider à trouver des solutions. Les arguments déployés sont cependant problématiques, en particulier ceux relevant des neurosciences, notre domaine principal de compétence.

    Tout d’abord, le striatum ne produit pas de #dopamine (il la reçoit), et la dopamine n’est pas l’#hormone_du_plaisir. Le neuroscientifique #Roy_Wise, qui formula cette hypothèse dans les années 70, reconnut lui-même « je ne crois plus que la quantité de plaisir ressentie est proportionnelle à la quantité de dopamine » en… 1997. L’absence de « fonction stop » du striatum pour lequel il faudrait toujours « augmenter les doses » est une invention de #Bohler (reprise sans recul par #Ripoll) en contresens avec les études scientifiques. Plus largement, la vision localisationniste du xixe siècle consistant à rattacher une fonction psychologique (le #plaisir, le #désir, l’#ingéniosité) à une structure cérébrale est bien sûr totalement obsolète. Le fonctionnement d’une aire cérébrale est donc rarement transposable en termes psychologiques, a fortiori sociologiques.

    Rien ne justifie non plus une opposition, invoquée par ces auteurs, entre une partie de #cerveau qui serait « récente » (et rationnelle) et une autre qui serait « archaïque » (et émotionnelle donc responsable de nos désirs, ou « instinctive », concept qui n’a pas de définition scientifique). Le striatum, le #système_dopaminergique et le #cortex_frontal, régions du cerveau présentes chez tous les mammifères, ont évolué de concert. Chez les primates, dont les humains, le #cortex_préfrontal a connu un développement et une complexification sans équivalent. Mais cette évolution du cortex préfrontal correspond aussi à l’accroissement de ses liens avec le reste du cerveau, dont le système dopaminergique et le striatum, qui se sont également complexifiés, formant de nouveaux réseaux fonctionnels. Le striatum archaïque est donc un #neuromythe.

    Plus généralement, les données neuroscientifiques ne défendent pas un #déterminisme des comportements humains par « le striatum » ou « la dopamine ». Ce que montrent les études actuelles en neurosciences, ce sont certaines relations entre des éléments de comportements isolés dans des conditions expérimentales simplifiées et contrôlées, chez l’humain ou d’autres animaux, et des mesures d’activités dans des circuits neuronaux, impliquant entre autres le striatum, la dopamine ou le cortex préfrontal. Le striatum autocrate, dont nous serions l’esclave, est donc aussi un neuromythe.

    Par ailleurs, Bohler et Ripoll font appel à une lecture psycho-évolutionniste simpliste, en fantasmant la vie des êtres humains au paléolithique et en supposant que les #gènes codant pour les structures du cerveau seraient adaptés à des conditions de vie « primitive », et pas à celles du monde moderne caractérisé par une surabondance de biens et de possibles[ii]. Il y a deux problèmes majeurs avec cette proposition. Tout d’abord, les liens entre les gènes qui sont soumis à la sélection naturelle, les structures cérébrales, et les #comportements_sociaux sont extrêmement complexes. Les #facteurs_génétiques et environnementaux sont tellement intriqués et à tous les stades de développement qu’il est impossible aujourd’hui d’isoler de façon fiable des #déterminismes_génétiques de comportements sociaux (et ce n’est pourtant pas faute d’avoir essayé). Poser la surconsommation actuelle comme sélectionnée par l’évolution, sans données génétiques, est une spéculation dévoyée de la #psychologie_évolutionniste. Le second problème concerne les très faibles connaissances des modes d’#organisation_sociale des peuples qui ont vécu dans la longue période du paléolithique. Il n’existe pas à notre connaissance de preuves d’invariants ou d’un mode dominant dans leur organisation sociale. Les affirmations évolutionnistes de Bohler et Ripoll n’ont donc pas de statut scientifique.

    Il est toujours problématique de privilégier un facteur principal pour rendre compte d’évolutions historiques, quel qu’il soit d’ailleurs, mais encore plus quand ce facteur n’existe pas. Les sciences humaines et sociales montrent la diversité des modèles d’organisation sociale qui ont existé sur Terre ainsi que les multiples déterminismes socio-historiques de la « grande accélération » caractéristique des sociétés modernes dopées aux énergies fossiles. Non, toutes les sociétés n’ont pas toujours été tournées vers le désir de toujours plus, vers le progrès et la croissance économique : on peut même argumenter que la « religion du #progrès » devient dominante dans les sociétés occidentales au cours du xixe siècle[iii], tandis que le modèle de la #croissance_économique (plutôt que la recherche d’un équilibre) n’émerge qu’autour de la seconde guerre mondiale[iv]. Invoquer la « #croissance » comme principe universel du vivant, comme le fait Ripoll, abuse du flou conceptuel de ce terme, car la croissance du PIB n’a rien à voir avec la croissance des plantes.

    Il peut certes sembler légitime d’interroger si le fonctionnement du cerveau a, au côté des multiples déterminismes sociohistoriques, une part de #responsabilité dans l’état de la planète. Mais la question est mal posée, l’activité de « milliards de striatum » et les phénomènes socioéconomiques ne constituant pas le même niveau d’analyse. Bohler et Ripoll ne proposent d’ailleurs pas d’explications au niveau cérébral, mais cherchent à légitimer une explication psychologique prétendument universelle (l’absence d’#autolimitation) par la #biologie. Leurs réflexions s’inscrivent donc dans une filiation ancienne qui cherche une explication simpliste aux comportements humains dans un #déterminisme_biologique, ce qu’on appelle une « #naturalisation » des #comportements. Un discours longtemps à la mode (et encore présent dans la psychologie populaire) invoquait par exemple le « #cerveau_reptilien » à l’origine de comportements archaïques et inadaptés, alors que cette pseudo-théorie proposée dans les années 60 a été invalidée quasiment dès son origine[v]. Le « striatum », la « dopamine », le « #système_de_récompense », ou le « #cerveau_rapide et le #cerveau_lent » sont en fait de nouvelles expressions qui racontent toujours à peu près la même histoire. Loin d’être subversive, cette focalisation sur des déterminismes individuels substitue la #panique_morale [vi] à la #réflexion_politique et ne peut mener, puisque nous serions « déterminés », qu’à l’#impuissance ou à l’#autoritarisme.

    Les erreurs des arguments développés par Bohler et Ripoll ont d’ores et déjà été soulignées à propos d’ouvrages précédents de Bohler[vii]. Nous souhaitons également rappeler qu’il existe un processus d’évaluation des productions scientifiques (y compris théoriques) certes imparfait mais qui a fait ses preuves : la revue par les pairs. Aucun de ces deux auteurs ne s’y est soumis pour avancer ces propositions[viii]. Il n’est pas sûr que notre rôle de scientifiques consiste à évaluer les approximations (et c’est un euphémisme) qui sont en continu publiées dans des livres ou dans la presse. Notre réaction présente est une exception justifiée par une usurpation des neurosciences, la gravité des enjeux écologiques dont ces auteurs prétendent traiter, ainsi que par la popularité grandissante que ces thèses semblent malheureusement rencontrer[ix].

    _____________________

    Ce texte n’est pas issu des travaux de l’atelier d’écologie politique mais il résonne fortement avec d’autres travaux de l’atécopol. Il a été rédigé par Etienne Coutureau, chercheur CNRS en neurosciences (Bordeaux), Jean-Michel Hupé, chercheur CNRS en neurosciences et en écologie politique et membre de l’atécopol (Toulouse), Sébastien Lemerle, enseignant-chercheur en sociologie (Paris-Nanterre), Jérémie Naudé, chercheur CNRS en neurosciences (Montpellier) et Emmanuel Procyk, chercheur CNRS en neurosciences (Lyon).

    [i] Jean-Michel Hupé, Vanessa Lea, « Nature humaine. L’être humain est-il écocidaire par nature ? », dans Greenwashing : manuel pour dépolluer le débat public, Aurélien Berlan, Guillaume Carbou et Laure Teulières (coords.), Paris, Le Seuil, 2022, p. 150-156.

    [ii] Philippe Huneman, Hugh Desmond, Agathe Du Crest, « Du darwinisme en sciences humaines et sociales (1/2) », AOC, 15 décembre 2021.

    [iii] François Jarrige, Technocritiques, Paris, La Découverte, 2014.

    [iv] Timothy Mitchell, « Economentality : how the future entered government », Critical inquiry, 2014, vol. 40, p. 479-507. Karl Polanyi a par ailleurs montré comment l’économie de marché est une construction socio-historique : La Grande Transformation, Aux origines politiques et économiques de notre temps, Paris, Gallimard, (1944) 1983.

    [v] Sébastien Lemerle, Le cerveau reptilien. Sur la popularité d’une erreur scientifique, Paris, CNRS éditions, 2021.

    [vi] Jean-Michel Hupé, Jérôme Lamy, Arnaud Saint-Martin, « Effondrement sociologique ou la panique morale d’un sociologue », Politix, n° 134, 2021. Cet article témoigne également que Bohler et Ripoll ne sont pas les seuls intellectuels mobilisant les neurosciences de façon très contestable.

    [vii] Jérémie Naudé (2019), « Les problèmes avec la théorie du "bug humain", selon laquelle nos problème d’écologie viendraient d’un bout de cerveau, le striatum » ; Thibault Gardette (2020), « La faute à notre cerveau, vraiment ? Les erreurs du Bug humain de S. Bohler » ; Alexandre Gabert (2021), « Le cortex cingulaire peut-il vraiment "changer l’avenir de notre civilisation" ? », Cortex Mag, interview d’Emmanuel Procyk à propos de Sébastien Bohler, Où est le sens ?, Paris, Robert Laffont, 2020.

    [viii] Le bug humain de Sébastien Bohler (Paris, Robert Laffont, 2019) a certes obtenu « le Grand Prix du Livre sur le Cerveau » en 2020, décerné par la Revue Neurologique, une revue scientifique à comité de lecture. Ce prix récompense « un ouvrage traitant du cerveau à destination du grand public ». Les thèses de Bohler n’ont en revanche pas fait l’objet d’une expertise contradictoire par des spécialistes du domaine avant la publication de leurs propos, comme c’est la norme pour les travaux scientifiques, même théoriques.

    [ix] La thèse du bug humain est ainsi reprise dans des discours de vulgarisation d’autorité sur le changement climatique, comme dans la bande dessinée de Christophe Blain et Jean-Marc Jancovici, Le monde sans fin, Paris, Dargaud, 2021.

    https://blogs.mediapart.fr/atelier-decologie-politique-de-toulouse/blog/070722/pourquoi-detruit-la-planete-les-dangers-des-explications-pseudo-neur
    #neuro-science #neuroscience #critique #écologie #surconsommation #politisation #dépolitisation #politique

  • Sur les traces de Lapsus$, un groupe de pirates informatiques entre extorsion de fonds et vantardise
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2022/03/25/sur-les-traces-de-lapsus-un-groupe-de-pirates-informatiques-entre-extorsion-

    Sept adolescents ont été arrêtés, jeudi 24 mars, au Royaume-Uni, dans le cadre de l’enquête sur Lapsus$, un groupe de pirates informatiques qui a revendiqué ces dernières semaines plusieurs attaques très médiatisées contre des entreprises célèbres, comme Microsoft, Nvidia ou Samsung. Ces interpellations tombent alors que l’étau se resserrait autour d’un jeune britannique, mineur, soupçonné d’être un membre important de ce groupe.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #piratage #sécurité_informatique #royaume_uni #lapsus #microsoft #nvidia #samsung #ubisoft #police #justice #telegram #genesis #fuite_de_données #narimane_lavay #sekoia #sim_swap #sim_swapping #livia_tibirna #dev-0537 #4c3 #ea #electronic_arts #doxbin #white #doxbinwh1te #brian_krebs #cybersécurité #cybercriminalité

  • Study challenges evolutionary theory that DNA mutations are random
    https://phys.org/news/2022-01-evolutionary-theory-dna-mutations-random.html

    The findings add a surprising twist to Charles Darwin’s theory of evolution by natural selection because it reveals that the plant has evolved to protect its genes from mutation to ensure survival.

    “The plant has evolved a way to protect its most important places from mutation,” Weigel said. “This is exciting because we could even use these discoveries to think about how to protect human genes from mutation.”

    #evolution #darwin #aléa #gènes

  • I #camalli genovesi in lotta contro le navi della morte

    Genova e il suo porto sono un centro logistico del traffico internazionali di armi. Ogni venti giorni circa le navi della #Bahri - la compagnia nazionale saudita, tra i più grandi armatori del mondo - fa tappa sullo scalo ligure. Nelle sue stive ci sono carri armati, elicotteri, esplosivi e altri armi caricate negli Stati Uniti e in altri porti europei e destinate ad essere impiegate nel conflitto dello Yemen. Di fronte a questa situazione c’è chi dice no. Sono gli attivisti del #Collettivo_Autonomo_Lavoratori_Portuali (#CALP) che da qualche anno si battono contro il transito da Genova di queste navi. La loro è una lotta dura, che solleva molte verità nascoste e dà fastidio, tanto che alcuni militanti sono finiti sotto indagine. Il nostro è un viaggio all’interno del mondo portuale genovese per cercare di capire le origini e il futuro di questa battaglia. Attraverso il racconto di alcuni militanti del CALP, oltre che di un rappresentante dell’ONG Weapon Watch e del console della principale compagnia di lavoratori portuali, abbiamo voluto dare voce ad un movimento che di recente ha ricevuto il sostegno anche di Papa Francesco. Un movimento che non si ferma certo con il nostro reportage: la #Bahri_Hofuf è attesa a Genova in questi giorni dopo che ha imbarcato merci al #Military_Ocean_Terminal di #Sunny_Point, nella Carolina del Nord, uno dei principali terminal militare del mondo. I lavoratori sono sul chi vive e di certo lanceranno l’allarme.

    https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/laser/I-camalli-genovesi-in-lotta-contro-le-navi-della-morte-14877315.html?f=podcast-s
    #Gênes #port #armes #commerce_d'armes #port #Yémen #résistance #Arabie_Saoudite #Genova #Italie #grève

    –—
    Page Facebook du collectif:

    https://fr-fr.facebook.com/CalpGe

  • Des chercheurs créent une #cellule_synthétique simple qui croît et se divise comme une #cellule naturelle
    https://trustmyscience.com/chercheurs-creent-cellule-synthetique-simple-qui-croit-divise-comme-

    Cette réalisation, donnant lieu à une forme de vie similaire à une bactérie, porte le nom de JCVI-syn3A. C’est le résultat de décennies de séquençage et d’analyse génomique, après avoir exploré les rôles que jouent les #gènes individuels dans les organismes cellulaires (les êtres vivants, par extension). Les résultats ont été publiés dans la revue Cell*.

    « Notre objectif est de connaître la fonction de chaque gène afin de pouvoir développer un modèle complet du fonctionnement d’une cellule », explique le biophysicien James Pelletier du MIT et du National Institute of Standards and Technology (NIST).

    L’origine de ces travaux remonte aux années 1990, mais les avancées les plus récentes ont eu lieu au cours de ce siècle.

    Malgré les nombreuses années de travail qui ont permis d’obtenir ce résultat, ces gènes restent très mystérieux. Par exemple, alors que JCVI-syn3A comporte 19 nouveaux gènes supplémentaires, seuls 7 de ces derniers sont censés jouer un rôle dans le déroulement plus régulier de ses processus de division cellulaire. Et sur ces sept, seuls deux gènes (appelés ftsZ et sepF) ont vu leurs fonctions identifiées…

    On ignore encore comment les cinq autres contribuent nécessairement à la cohérence morphologique de JCVI-syn3A, mais une chose est sûre : ce minuscule génome représente désormais la nouvelle norme d’expérimentation, qui pourrait aider les chercheurs à caractériser l’action de ces gènes au sein des organismes.

    * Genetic requirements for cell division in a genomically minimal cell : Cell
    https://www.cell.com/cell/abstract/S0092-8674(21)00293-2

  • #Police attitude, 60 ans de #maintien_de_l'ordre - Documentaire

    Ce film part d´un moment historique : en 2018-2019, après des affrontements violents entre forces de l´ordre et manifestants, pour la première fois la conception du maintien de l´ordre a fait l´objet de très fortes critiques et d´interrogations insistantes : quelle conception du maintien de l´ordre entraîne des blessures aussi mutilante ? N´y a t-il pas d´autres manières de faire ? Est-ce digne d´un État démocratique ? Et comment font les autres ? Pour répondre à ces questions, nous sommes revenus en arrière, traversant la question du maintien de l´ordre en contexte de manifestation depuis les années 60. Pas seulement en France, mais aussi chez nos voisins allemands et britanniques, qui depuis les années 2000 ont sérieusement repensé leur doctrine du maintien de l´ordre. Pendant ce temps, dans notre pays les autorités politiques et les forces de l´ordre, partageant la même confiance dans l´excellence d´un maintien de l´ordre « à la française » et dans le bien-fondé de l´armement qui lui est lié, ne jugeaient pas nécessaire de repenser la doctrine. Pire, ce faisant c´est la prétendue « doctrine » elle-même qui se voyait de plus en plus contredite par la réalité d´un maintien de l´ordre musclé qui devenait la seule réponse française aux nouveaux contestataires - lesquels certes ne rechignent pas devant la violence, et c´est le défi nouveau qui se pose au maintien de l´ordre. Que nous apprend in fine cette traversée de l´Histoire ? Les approches alternatives du maintien de l´ordre préférées chez nos voisins anglo-saxons ne sont sans doute pas infaillibles, mais elles ont le mérite de dessiner un horizon du maintien de l´ordre centré sur un rapport pacifié aux citoyens quand nous continuons, nous, à privilégier l´ordre et la Loi, quitte à admettre une quantité non négligeable de #violence.

    https://www.dailymotion.com/video/x7xhmcw


    #France #violences_policières
    #film #film_documentaire #Stéphane_Roché #histoire #morts_de_Charonne #Charonne #répression #mai_68 #matraque #contact #blessures #fractures #armes #CRS #haie_d'honneur #sang #fonction_républicaine #Maurice_Grimaud #déontologie #équilibre #fermeté #affrontements #surenchère #désescalade_de_la_violence #retenue #force #ajustement_de_la_force #guerilla_urbaine #CNEFG #Saint-Astier #professionnalisation #contact_direct #doctrine #maintien_de_l'ordre_à_la_française #unités_spécialisées #gendarmes_mobiles #proportionnalité #maintien_à_distance #distance #Allemagne #Royaume-Uni #policing_by_consent #UK #Angleterre #Allemagne #police_militarisée #Irlande_du_Nord #Baton_rounds #armes #armes_à_feu #brigades_anti-émeutes #morts #décès #manifestations #contestation #voltigeurs_motoportés #rapidité #23_mars_1979 #escalade #usage_proportionné_de_la_force #Brokdorf #liberté_de_manifester #innovations_techniques #voltigeurs #soulèvement_de_la_jeunesse #Malik_Oussekine #acharnement #communication #premier_mai_révolutionnaire #Berlin #1er_mai_révolutionnaire #confrontation_violente #doctrine_de_la_désescalade #émeutes #G8 #Gênes #Good_practice_for_dialogue_and_communication (#godiac) #projet_Godiac #renseignement #état_d'urgence #BAC #brigades_anti-criminalité #2005 #émeutes_urbaines #régime_de_l'émeute #banlieue #LBD #flashball #lanceur_de_balles_à_distance #LBD_40 #neutralisation #mutilations #grenades #grenade_offensive #barrage_de_Sivens #Sivens #Rémi_Fraisse #grenade_lacrymogène_instantanée #cortège_de_tête #black_bloc #black_blocs #gilets_jaunes #insurrection #détachement_d'action_rapide (#DAR) #réactivité #mobilité #gestion_de_foule #glissement #Brigades_de_répression_des_actions_violentes_motorisées (#BRAV-M) #foule #contrôle_de_la_foule #respect_de_la_loi #hantise_de_l'insurrection #adaptation #doctrine #guerre_civile #défiance #démocratie #forces_de_l'ordre #crise_politique

  • Victoire d’Apple qui ne doit pas rembourser 13 milliards d’avantages fiscaux à l’Irlande
    _ Apple n’a finalement dû payer que 1% d’impôts irlandais sur ses bénéfices européens en 2003. Et en 2014, ce taux a encore diminué jusqu’à 0,005%
    https://www.rtbf.be/info/economie/detail_ue-contre-apple-la-justice-se-prononce-sur-les-13-milliards-d-avantages-

    C’est une victoire importante pour le géant du numérique Apple et pour le gouvernement irlandais. La justice européenne a annulé la décision de la Commission exigeant le remboursement à l’Irlande de 13 milliards d’euros d’avantages fiscaux.

    Selon le Tribunal de la Cour de justice de l’Union européenne, la Commission n’est pas parvenue à démontrer « l’existence d’un avantage économique sélectif » _ accordé par l’Etat irlandais à Apple. Cette décision constitue un cuisant revers pour la Commission européenne et sa vice-présidente Margrethe Vestager dans sa volonté de combattre la concurrence fiscale entre Etats qui profite aux multinationales. La Commission peut encore introduire un appel.

    L’Irlande et Apple se réjouissent
    Le gouvernement irlandais et Apple se sont immédiatement félicités de la décision des juges de Luxembourg. « Nous saluons le jugement de la Cour européenne » , a souligné le ministère irlandais des Finances dans un communiqué. Il répète qu’il « n’y a jamais eu de traitement spécial » pour Apple, taxé selon les règles en vigueur dans le pays.
    Selon Apple, « cette affaire ne portait pas sur le montant des impôts que nous payons, mais sur l’endroit où nous devons les payer. Nous sommes fiers d’être le plus grand contribuable au monde, car nous connaissons le rôle important que joue le versement d’impôts dans la société » , a déclaré le groupe à la pomme.

    Un taux de 0,005% sur les bénéfices
    L’affaire remonte au 30 août 2016 : alors Commissaire européenne à la Concurrence, Margrethe Vestager décide de frapper un grand coup. Selon l’enquête de la Commission, Apple a rapatrié en Irlande entre 2003 et 2014 l’ensemble des revenus engrangés en Europe (ainsi qu’en Afrique, au Moyen-Orient et en Inde) car l’entreprise y bénéficiait d’un traitement fiscal favorable, grâce à un accord passé avec les autorités de Dublin. Le groupe a ainsi échappé à la quasi-totalité des impôts dont il aurait dû s’acquitter sur cette période, soit environ 13 milliards d’euros, selon les calculs de la Commission.

    Margrethe Vestager dénonçait alors sans ménagement https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/fr/ip_16_2923 ces arrangements douteux entre le gouvernement irlandais et le géant technologique : « L’enquête de la Commission a conclu que l’Irlande avait accordé des avantages fiscaux illégaux à Apple, ce qui a permis à cette dernière de payer nettement moins d’impôts que les autres sociétés pendant de nombreuses années.  » La Commission a établi qu’Apple n’a finalement dû payer que 1% d’impôts irlandais sur ses bénéfices européens en 2003. Et en 2014, ce taux a encore diminué jusqu’à 0,005%, autrement dit, Apple ne paie pratiquement plus d’impôts sur ses bénéfices en Europe.

    Pour arriver à ce résultat, l’Irlande a détourné la possibilité de conclure des rulings, des arrangements fiscaux avec une société. La Commission relevait que " pratiquement tous les bénéfices de vente enregistrés par les deux sociétés étaient affectés en interne à un « siège ». L’appréciation de la Commission a montré que ces « sièges » n’existaient que sur le papier et n’auraient pas pu générer de tels bénéfices.  " Ce traitement fiscal préférentiel créé un avantage accordé à Apple envers ses concurrents. Cet avantage constitue une « aide d’Etat » illégale, puisqu’elle se fait aux dépens d’autres entreprises soumises à des conditions moins favorables.

    L’Irlande : eldorado des multinationales
    Pour Dublin néanmoins, il n’y avait rien d’illégal. Connue pour ses positions « pro-business », l’Irlande a attiré sur l’île de nombreuses multinationales, pourvoyeuses d’emplois, grâce à une fiscalité avantageuse. C’est d’ailleurs pour cette raison que l’Irlande, comme Apple, a fait appel de la décision. « La Commission a outrepassé ses pouvoirs et violé la souveraineté » irlandaise concernant l’impôt sur les sociétés, avait affirmé Dublin. Quant au patron d’Apple, Tim Cook, il avait qualifié l’affaire de « foutaise politique ».

    L’arrêt pris aujourd’hui est susceptible d’appel. La vice-présidente de la Commission a déclaré qu’elle allait « étudier avec attention le jugement et réfléchir aux prochaines étapes » , sans toutefois dire si la Commission allait faire appel de cet arrêt. Généralement, lorsque les affaires font l’objet d’un pourvoi devant la Cour, la décision définitive intervient environ 16 mois après. Donc dans le cas d’Apple, au cours de l’année 2021. « La Commission européenne maintient son objectif de voir toutes les entreprises payer leur juste part d’impôts » , a ajouté Mme Vestager.

    Pour la Danoise Margrethe Vestager, bête noire des Gafa et surnommée la « tax lady » par le président américain Donald Trump, précisément à cause du cas d’Apple, cette décision vient cependant affaiblir sa politique menée contre une série de multinationales ayant bénéficié d’un traitement fiscal jugé trop favorable.

    La taxe sur le numérique toujours en suspend
    Dans deux affaires similaires, les juges européens avaient tranché dans des sens différents. Ils avaient déjà réfuté les arguments de la Commission européenne concernant la chaîne américaine de cafés Starbucks, sommée de rembourser jusqu’à 30 millions d’euros d’arriérés d’impôts aux Pays-Bas. En revanche, dans le cas de Fiat, ils avaient donné raison à Bruxelles, qui exigeait du groupe italien le versement au Luxembourg d’une somme identique pour avantages fiscaux indus.

    #apple en #Irlande , #paradis_fiscal légal vis à vis de l’#UE #union_européenne Margrethe_Vestager #impôts #fraude_fiscal #multinationnales #gafa

    • Coronavirus : l’inquiétude monte chez les fabricants asiatiques de produits de mode
      https://fr.fashionnetwork.com/news/Coronavirus-l-inquietude-monte-chez-les-fabricants-asiatiques-de-

      Les moyens de subsistance de millions de travailleurs asiatiques de l’habillement sont actuellement menacés par les annulations de commandes des grandes marques de mode , ce qui inquiète à la fois les syndicats, les chercheurs et les militants locaux, qui craignent que la pandémie n’ait des effets délétères sur ce secteur régulièrement pointé du doigt pour ses violations du droit du travail.

      Magasins fermés, chute des ventes : de nombreuses enseignes occidentales annulent leurs commandes ou demandent des remises à leurs fournisseurs asiatiques, notamment au Cambodge ou au Bangladesh. Résultat, de nombreux employés du secteur ont été licenciés, ou ont dû accepter de travailler sans salaire. 

      Selon plusieurs observateurs de l’industrie de la mode, 60 millions de travailleurs pourraient avoir du mal à surmonter la crise, à moins que davantage de marques ne prennent leurs responsabilités. Des poids lourds comme Adidas, H&M et le propriétaire de Zara, Inditex ont promis de payer intégralement toutes leurs commandes, qu’elles soient livrées ou encore en production, selon le Consortium pour les droits des travailleurs (WRC), qui a mené une étude sur 27 des plus importants détaillants de mode mondiaux.

Toutefois, le groupe de surveillance américain a constaté qu’environ la moitié d’entre eux n’avaient pris aucun engagement de ce type pour honorer leurs contrats. Plusieurs détaillants, dont Asos, C&A, Edinburgh Woollen Mill, Gap et Primark, ont déclaré à la Thomson Reuters Foundation qu’ils avaient été contraints de suspendre ou d’annuler certaines commandes, tout en assurant maintenir le contact avec leurs fournisseurs afin d’atténuer l’impact économique de ces annulations.

      Côté fabricants, autre son de cloche. À les entendre, ceux-ci ne font pas le poids face à leurs interlocuteurs occidentaux, ce qui pourrait entraîner des pertes d’emplois. « On n’a jamais pu vraiment négocier avec les acheteurs », indique ainsi un important fournisseur de vêtements du sud de l’Inde, qui préfère garder l’anonymat pour protéger son entreprise.


      Face au tollé général provoqué par ces annulations, plusieurs marques ont accepté de rétablir certaines commandes — pas toutes —, tandis que d’autres ont exigé des remises, des délais de paiement ou se sont contentées de laisser leurs fournisseurs dans l’incertitude, rapporte Penelope Kyritsis, directrice adjointe au WRC. « Ne pas s’engager à honorer l’intégralité de ses commandes, c’est adopter une conduite irresponsable envers ses fournisseurs », tranche-t-elle.



      Il y a quelque temps, le WRC estimait que les annulations de commandes représentaient un manque à gagner de plus de 24 milliards de dollars (près de 22 milliards d’euros) pour les fournisseurs ; ce chiffre est probablement redescendu après les revirements de certaines marques. Mais selon la Fédération internationale de l’industrie textile, les commandes ont baissé de près d’un tiers dans le secteur de l’habillement. « La pandémie de Covid-19, à l’instar de la catastrophe du Rana Plaza, révèle comment les chaînes d’approvisionnement profitent aux entreprises au détriment des fournisseurs et, par conséquent, des travailleurs », conclut Penelope Kyritsis.

La catastrophe du Rana Plaza, du nom de cet immeuble au Bangladesh dont l’effondrement avait tué 1135 travailleurs de l’habillement en 2013, avait déclenché plusieurs initiatives pour améliorer les conditions et les droits du travail à l’échelle mondiale — les experts sont cependant divisés sur le rythme et la portée de ces réformes. Certains observateurs de l’industrie estiment que l’attention suscitée par la crise sanitaire pourrait donner un nouveau souffle à la mobilisation, quand d’autres craignent que la pandémie n’érode les avancées récentes sur le terrain.

      Des réputations en danger
      Les revenus du secteur de l’habillement, qui s’élèvent à 2500 milliards de dollars, pourraient chuter de 30 % en 2020, selon un récent rapport du cabinet de conseil en gestion McKinsey, qui prévient que les entreprises de mode pourraient être les plus touchées par la crise qui s’annonce.

Les marques de vêtements, les syndicats et les organisations patronales ont annoncé la semaine dernière la création d’un groupe de travail, convoqué par les Nations Unies, afin d’aider les fabricants à payer leurs salariés et à survivre à la crise, tout en garantissant l’accès des travailleurs aux soins de santé et à la protection sociale. Toutefois, selon le WRC, certains des détaillants qui soutiennent l’initiative n’ont pas atteint son objectif — garantir que toutes les commandes, livrées ou en cours de production, soient payées dans les temps.

"Visiblement, certaines marques préfèrent soigner leur image publique plutôt que d’honorer leurs contrats", ironise Fiona Gooch, conseillère politique principale au sein du groupe de défense Traidcraft Exchange. « Les détaillants se servent du Covid-19 pour mettre en danger leurs fournisseurs et exiger des remises... certains se comportent comme des voyous », tranche-t-elle, à quelques jours de la Fête du Travail. « Ces mauvais comportements pourraient nuire à leur réputation, après la crise ».

En revanche, les entreprises qui font preuve d’équité et de transparence sur les droits des travailleurs pendant cette période troublée pourraient attirer de nouveaux investisseurs, prédisent plusieurs experts en placement de fonds. Ce mois-ci, un groupe de 286 investisseurs pesant plus de 8200 milliards de dollars d’actifs a exhorté les entreprises à protéger autant que possible leurs relations avec leurs fournisseurs, et à garantir les droits des travailleurs dans leurs chaînes d’approvisionnement.


      Des remises et des annulations 
Selon deux fournisseurs bangladais, qui s’expriment sous couvert d’anonymat, certains détaillants — notamment la société britannique Edinburgh Woollen Mill (EWM) — ont exigé des rabais allant jusqu’à 70 %, un chiffre qui ferait perdre de l’argent aux fabricants sur ces commandes.

Selon un propriétaire d’usine indien, EWM aurait exigé une remise de 50 %, en précisant que le paiement restant ne serait versé qu’après la vente de 70 % des marchandises en question. « EWM adopte un comportement opportuniste, abusif et contraire à l’éthique », déplore-t-il, ajoutant que la plupart de ses autres acheteurs occidentaux ont « agi raisonnablement » dans le cadre des négociations engagées autour de leurs commandes.

Un porte-parole du groupe EWM — qui contrôle également des marques comme Jane Norman et Peacocks — assure que des négociations sont en cours avec ses fournisseurs pour trouver une solution « qui leur convienne ». « Ce n’est pas ce que nous souhaiterions faire en temps normal, mais les circonstances actuelles sont telles que cela devient nécessaire », plaide-t-il.

De nombreuses marques ont fait valoir des clauses de force majeure dans leurs contrats, invoquant des circonstances extraordinaires et imprévues pour annuler leurs commandes. Mais selon plusieurs experts juridiques, il faut encore déterminer si la pandémie peut justifier le recours à cette clause, déclenchée habituellement par les guerres ou les catastrophes naturelles.

Pour l’Organisation internationale des employeurs (OIE), le plus grand réseau de défense du secteur privé au monde, de manière générale, les marques ont agi de manière responsable dans le cadre des négociations avec leurs fournisseurs. « Toutes les marques et tous les acheteurs sont sous pression... des arrangements flexibles ont été mis en place et fonctionnent déjà, dans une certaine mesure au moins », assure le secrétaire général de l’OIE, Roberto Suárez Santos. « La situation est difficile pour tout le monde ».


      Vers un recul des droits des travailleurs ?
      Selon un rapport publié cette semaine par le cabinet de conseil en gestion des risques Verisk Maplecroft, les travailleurs du secteur de l’habillement récemment licenciés pourraient se tourner vers des emplois précaires, où ils risqueraient d’être victimes de travail forcé, voire d’imposer le même traitement à leurs enfants pour remédier à la perte de leurs revenus.

Dans des pays comme la Birmanie, certaines usines ont licencié des ouvriers syndiqués en invoquant une baisse des commandes, tout en conservant des employés non syndiqués, selon des militants qui craignent que la pandémie ne provoque également une érosion des droits, qui pourrait passer inaperçue dans la tourmente actuelle. « Nous devons veiller à ce que les droits et les conditions de travail des ouvriers ne soient pas remis en cause par la crise », martèle Aruna Kashyap, avocate principale de la division consacrée aux droits des femmes de Human Rights Watch, qui exige également que la santé des travailleurs soit prise en compte.

Alors que la plupart des usines fonctionnent toujours au Cambodge et que des centaines d’entre elles ont rouvert au Bangladesh cette semaine, plusieurs défenseurs des droits des travailleurs se disent inquiets face à la faible application des mesures de distanciation physique et d’hygiène. Au Cambodge, par exemple, des petites mains s’inquiètent pour leur santé au travail, mais rappellent qu’elles ont des familles à nourrir. Au Bangladesh, une source du ministère du Travail reconnaît que les quelque 500 usines qui ont repris leurs activités ne sont pas en mesure de faire respecter les mesures de distanciation physique par leurs salariés.

Garantir la sécurité des employés sur leur lieu de travail, c’est justement l’un des objectifs du groupe de travail soutenu par l’ONU, qui exhorte par ailleurs les donateurs, les institutions financières et les gouvernements à accélérer l’accès au crédit, aux allocations de chômage et aux compléments de revenus. Pour ces militants, il est nécessaire que les régimes d’aide et de sécurité sociale des pays producteurs de vêtements soient en partie financés par les marques elles-mêmes, et que la réglementation des pays occidentaux contraigne les entreprises à éradiquer les pratiques commerciales déloyales, l’exploitation et l’esclavage moderne.

Mais pour Jenny Holdcroft, du syndicat IndustriALL qui regroupe 50 millions de membres dans le monde entier, la lumière jetée sur les difficultés des travailleurs du secteur et la réaction inégale des marques face à la crise pourrait s’avérer insuffisante pour transformer en profondeur les chaînes d’approvisionnement. « Si l’on examine toute l’histoire de l’industrie de l’habillement, il est peu probable qu’un véritable changement arrive suite à la crise », prophétise ainsi la secrétaire générale adjointe de l’organisation.

"Les dynamiques et les rapports de pouvoir à l’oeuvre dans le secteur permettent aux marques de s’en tirer malgré leurs comportements autocentrés. Il faut que nous placions la barre plus haut pour l’ensemble de l’industrie de l’habillement... tout en empêchant les entreprises les moins éthiques de continuer leurs activités".



      La Thomson Reuters Foundation entretient un partenariat avec la Laudes Foundation, elle-même affiliée à l’enseigne C&A.

      #mode #esclavage #travail #économie #Inde #Birmanie #Cambodge #Banglades

    • La richissime famille Benetton cède les autoroutes italiennes
      https://fr.businessam.be/la-richissime-famille-benetton-cede-les-autoroutes-italiennes

      Le groupe Atlantia, contrôlé par la dynastie commerciale Benetton, transfère la gestion des autoroutes italiennes à l’État. Cet accord fait suite à la tragédie de l’effondrement du pont Morandi, à Gênes, il y a deux ans.
      La société d’autoroutes Aspi (Autostrade per l’Italia) est transférée à un véhicule d’investissement du gouvernement italien, la Cassa Depositi e Prestiti (CDP).
      Aspi exploitait jusqu’ici plus de 3.000 kilomètres d’autoroutes en tant que société de péage. Elle était également le gestionnaire du pont de Gênes, qui s’est effondré en août 2018. Une catastrophe qui a coûté la vie à 43 personnes. Les Benetton ont pointé du doigt à de multiples reprises. Les enquêtes préliminaires ont en effet révélé de graves lacunes en matière de maintenance. Des critiques envers sa famille qui n’ont pas été au goût du patriarche, Luciano Benetton.
      . . . . . . .
      #Benetton #Italie #pont_morandi #gênes #ponte_morandi #catastrophe d’une #privatisation #pont #infrastructures #effondrement #autostrade #autoroutes #benetton

  • Salut à Diego

    Raoul Vaneigem

    https://lavoiedujaguar.net/Salut-a-Diego

    Pour fêter la parution, au printemps 2020, de Scorpions et figues de Barbarie. Mémoires 1921-1936, d’Abel Paz (Diego Camacho Escámez) aux éditions Rue des Cascades, voici le salut de Raoul Vaneigem à l’ami Diego, prologue du livre.

    Il n’est pas d’existence ordinaire qui ne détienne secrètement un trésor. Il nous échappe le plus souvent quand s’égare la clé des rêves avec laquelle joue notre enfance. L’âge adulte la perd délibérément, tant l’éducation s’emploie à nous la dérober. Il faut que l’histoire nous secoue pour que soudain, nous la retrouvions.

    L’histoire personnelle de Diego s’est heurtée à l’histoire faite par tous et contre tous. Il y était préparé. Son rêve s’appelait révolution. C’était une idée qui, bien sûr, flottait dans l’air du temps. Mais ce temps était immémorial et l’idée s’était coagulée dans une réalité où soumission et insoumission se chevauchaient dans un tumulte incessant.

    Ce que le feuilletoniste Eugène Sue avait appelé Les Mystères du peuple avait sa source dans une fatalité où depuis des millénaires les opprimés rampaient terrorisés par les maîtres, eux-mêmes rongés par la peur d’une révolte toujours imminente. Diego a vécu, comme des millions d’autres, cette existence laborieuse immensément lasse et si débordante de désirs qu’à portée de la main une vie nouvelle devenait tangible. (...)

    #Raoul_Vaneigem #Abel_Paz #Espagne #anarchisme #mémoires #genèse #révolution #collectivités

  • NICOLAS BALLET « VOYAGE SPIRITUEL DE GENESIS P-ORRIDGE »
    https://laspirale.org/texte-643-nicolas-ballet-%C2%A0voyage-spirituel-de-genesis-p-orridge.html

    Première partie de notre hommage à Genesis P-Orridge (1950-2020), au travers de cet article signé par Nicolas Ballet et repris de Genesis Breyer P-Orridge : Nekrophile, vol. 1 (Archives and Documents), paru en 2018 chez Timeless Editions.21/03/2020

    https://univ-paris1.academia.edu/NicolasBallet
    https://seenthis.net/messages/831033
    #laspirale #musique_indus

  • 43. Il ponte spezzato

    Lara riceve un messaggio da Luigi: “Faccio l’ultima consegna e vengo a casa”. Da quel momento soltanto silenzio e poi l’ansia che comincia a salire. È il 14 agosto 2018 e alle ore 11.36 di quella vigilia di Ferragosto è crollato il Ponte Morandi di Genova. Il bilancio definitivo sarà di 43 morti, decine di feriti e 600 sfollati. Una sciagura annunciata che mette a nudo una gestione insufficiente della rete stradale italiana. L’indagine sul crollo di Genova stabilirà chi deve assumersene le responsabilità, per questo caso. Tra le macerie la magistratura cerca i reperti, ritenuti la prova chiave per stabilire le cause del disastro: monconi di calcestruzzo e fili di acciaio, che dall’hangar di Genova viaggiano fino ai laboratori dell’EMPA di Dübendorf, dove vengono sottoposti ad una super perizia. Un lavoro che Falò ha potuto seguire in esclusiva assoluta. E il parere degli esperi svizzeri si intreccia con le testimonianze dei sopravvissuti, dei familiari delle vittime, dei soccorritori e di chi ha perso la casa, per dar vita ad un documentario-inchiesta in cui la ricerca della verità insegue le drammatiche storie dei protagonisti.


    https://www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/falo/43.-Il-ponte-spezzato-11531245.html
    #14_août_2018 #Gênes #pont #ponte_Morandi #privatisation #Gruppo_autostradale_per_l'Italia #responsabilité #entretien #maintenance #sfollati_via_Porro #péages #profit #business #Italie #film #film_documentaire

    –—

    Une donnée essentielle pour comprendre ce qui s’est passé :
    Coût d’entretien des autoroutes :
    98% des coûts ont été pris en charge avant 1999, soit avant la privatisation de la gestion des autoroutes en 1999 (https://it.wikipedia.org/wiki/Autostrade_per_l%27Italia)
    2% après 1999...

  • En quête du « gène juif »
    par Sylvain Cypel

    https://orientxxi.info/lu-vu-entendu/en-quete-du-gene-juif,3600

    Derrière cette poussée d’adhésion aux thèses suprémacistes blanches, qui restent limitées en Israël aux cercles coloniaux les plus activistes, se profile un phénomène qui, lui, y est en forte expansion : l’idée de la préservation de la pureté raciale. Cette idée-là est évidemment connectée au désir profond de l’entre-soi, conçu comme un véritable idéal de vie. Le 9 février 2016, Netanyahou annonçait ainsi un « plan pluriannuel pour entourer Israël de clôtures sécuritaires ». Sachant que cette idée recevrait un accueil très favorable de l’opinion, il poursuivait : « En fin de compte, l’État d’Israël tel que je le vois sera entièrement clôturé. On va me dire : est-ce donc ce que vous voulez, protéger la villa ? La réponse est oui. Va-t-on entourer tout l’État d’Israël de barrières et de clôtures ? La réponse est oui. Dans l’environnement où nous vivons, nous devons nous défendre face à des bêtes sauvages
    1
    . » La métaphore de la « villa dans la jungle », d’un Israël seul État civilisé entouré d’animaux sauvages, avait déjà été émise, après l’échec des négociations de paix de Camp David à l’été 2000, par le premier ministre travailliste d’alors, Ehud Barak.
    Épouser une Norvégienne ?

    Cette conception est à la source du repli sur soi exclusif de la présence des autres. Elle peut déboucher sur des propensions racialistes puisées à d’autres motifs que le seul besoin de sécurité, et qui sont, la plupart du temps, d’inspiration religieuse et plus encore dérivées de l’intrication entre le mysticisme et le nationalisme. Dans la religion juive telle qu’elle est pratiquée en Israël, où un rabbinat très traditionaliste s’est vu octroyer par les pouvoirs publics la gestion de toute la vie familiale (naissance, mariage, divorce, décès, etc.) et où le mariage civil est légalement inconnu, les « mariages mixtes », c’est-à-dire les unions entre Juifs et non-Juifs, sont impossibles.

  • Sur le plancher des vaches IV/II
    Symboles (et plus si affinités)

    Natalie

    https://lavoiedujaguar.net/Sur-le-plancher-des-vaches-IV-II-Symboles-et-plus-si-affinites

    Paris, le 23 octobre 2019
    Amis,

    Sans transition, on commencera aujourd’hui par s’intéresser à l’art, et plus particulièrement aux artistes : « Dans les représentations actuelles, l’artiste voisine avec une incarnation possible du travailleur du futur, avec la figure du professionnel inventif, mobile, indocile aux hiérarchies, intrinsèquement motivé, pris dans une économie de l’incertain, et plus exposé aux risques de concurrence interindividuelle et aux nouvelles insécurités des trajectoires professionnelles. Comme si, au plus près et au plus loin de la révolution permanente des rapports de production prophétisée par Marx, l’art était devenu un principe de fermentation du capitalisme. » À cette thèse du sociologue Pierre-Michel Menger, une étudiante répond : « La massification du travail précaire dans le secteur artistique et la flexibilité du travail artistique ne constituent nullement une définition des métamorphoses du capitalisme : ils seraient même plutôt un signe de l’absorption du secteur artistique dans la mondialisation et dans la marchandisation généralisée de la culture. »

    Qui de la poule ou de l’œuf ? en somme. Soit, au bout du compte, la grande question alimentaire : est-ce le sujet qui alimente le capitalisme ou le capitalisme qui nourrit le sujet ? (...)

    #langage #symbole #art #capitalisme #massification #flexibilité #travail #projet #entreprise #carrière #objectifs #résultats #signature #durable #désir #stratégie #Terre #uniformisation #globalité #gouvernance #norme #genre #corps #Dieu #Genèse #RATP #machines #icônes #France #Rabelais

  • « Ils voulaient extrader Vincenzo tout de suite, en silence. Nous avons perturbé ce calendrier »
    https://www.bastamag.net/Vincenzo-Vecchi-extradition-prison-liberte-conditionnelle-refugie-politiqu

    La #Justice française se penche actuellement sur le cas de Vicenzo Vecchi, arrêté en Bretagne où il se cachait après avoir été condamné en Italie à seize années de prison pour avoir participé à des manifestations. Sa liberté conditionnelle a été refusée. Ses amis mettent tout en œuvre pour empêcher son extradition. Vincenzo Vecchi, arrêté le 8 août dernier en Bretagne par la brigade anti-terroriste pour être extradé vers l’Italie, reste pour le moment en prison. La justice n’a pas accédé à sa demande de liberté (...) #Résister

    / #Luttes_sociales, #Atteintes_aux_libertés, Justice, #Europe, #Reportages, A la une

  • Indymedia Nantes | Articles | Show | Gênes 2001 : un siècle de prison contre les «black bloc» Un siècle de prison pour les manifestants
    https://nantes.indymedia.org/articles/18429

    La deuxième section de la Cour D’appel du chef-lieu ligure a lu le verdict
    vers midi : Vincenzo Puglisi est condamné à 15 ans de prison, Vincenzo
    Vecchi à 13 ans et 3 mois, Marina Cugnaschi à 12 ans et 3 mois. « Des
    peines qu’on n’inflige pas même à des assassins. Et si ces jeunes ont
    commis un délit, c’est contre des choses, des objets. Pas des personnes »,
    « En frapper 10 pour en éduquer des millions » a protesté le public dans la
    salle. Les avocats sont décontenancés et attendent les motivations écrites
    du verdict (il faudra encore 3 mois) mais parlent en attendant de décision
    « incroyable » : « On avait l’intuition, après les sentences plus récentes,
    qu’il soufflait un air mauvais : mais il y a ici des inculpés qui ont pris
    plus de 10 ans pour avoir brisé une vitrine, et c’est tout », commente
    l’avocat Roberto Lamma.

    Maria Rosaria D’Angelo, présidente du tribunal, a partiellement changé la
    décision prise en première instance en décembre 2007 : par rapport à
    avant, le total des peines diminue un petit peu (10 années en moins), mais
    se durcit contre les dénommés Black Bloc. Les juges ont confirmé que la
    charge des forces de l’ordre via Tolemaide, en début d’après-midi du 20
    juillet, était illégitime. Cet assaut contre le cortège des No-global a
    déchaîné l’enfer où trouvera ensuite la mort Carlo Giuliani [assassiné par
    les flics alors qu’il tentait de défoncer une jeep de carabiniers, Ndt].
    Massimiliano Monai, le jeune qui se trouvait à côté de lui lors de
    l’attaque contre la Jeep Defender des carabiniers avait été condamné en
    première instance à 5 ans de prison : la prescription a en revanche
    maintenant définit qu’il n’effectuera pas de peine.

    « Je m’honore d’avoir participé en homme libre à une journée de
    contestation contre l’économie capitaliste » avait déclaré Vincenzo Vecchi.
    Carlo Cuccomarino a été condamné à 8 années, Luca Finotti à 10 années et 9
    mois, Alberto Funaro à 10 années, Dario Ursino à 7 années. Antonino
    Valguarnera, qui avait effectué son service militaire en Bosnie avant le
    G8 et même décoré, accusé d’avoir jeté des molotovs, a pris 8 années (...)

    Traduit de l’italien de La Repubblica, 9 ottobre 2009

    #VincenzoVecchi #flashback #Genes2001 #CarloGiulani #Diaz

  • #FrankizEvitVincenzo ! #LiberezVincenzo !
    #Nantes : rassemblement de soutien à #Vincenzo_Vecchi le 19/08/19.
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    Vincenzo a participé en 2001 à Gênes à la manifestation contre le G8 ce qui lui a valu une condamnation sans preuve à 11 ans de prison ferme pour de « Dévastation et saccage ». Il est aussi accusé d’avoir participé en 2006 à Milan à une manifestation anti-fasciste non autorisée. Pour le soutenir, vous pouvez :
    – Vous informer via le site http://www.comite-soutien-vincenzo.org / page Facebook "soutienvincenzo",
    – Contacter pour participer ou créer un comité de soutien : comite.soutien.vincenzo@gmail.com
    – Soutenir financièrement les frais inhérents pour assurer une défense digne de ce nom.
    .
    📷 : (cc-by-nc-sa) ValK.
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    #soutien #repression #G8 #Gênes #Genova #Italie #Dont_clean_up_the_blood

  • #photo : #Nantes : rassemblement de soutien à #Vincenzo_Vecchi le 19/08/19.
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    [et sur le tee-shirt : « LA LUTTE C’EST CLASSE ... contre classe » !]
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    Vincenzo a participé en 2001 à Gênes à la manifestation contre le G8 ce qui lui a valu une condamnation sans preuve à 11 ans de prison ferme pour de « Dévastation et saccage ». Il est aussi accusé d’avoir participé en 2006 à Milan à une manifestation anti-fasciste non autorisée. Pour le soutenir, vous pouvez :
    – Vous informer via le site http://www.comite-soutien-vincenzo.org / page Facebook "soutienvincenzo",
    – Contacter pour participer ou créer un comité de soutien : comite.soutien.vincenzo@gmail.com
    – Soutenir financièrement les frais inhérents pour assurer une défense digne de ce nom.
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    Ça peut paraitre maigre cette cinquantaine de personnes mais pour Nantes à la mi-août c’est beaucoup.
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    Vincenzo a participé en 2001 à Gênes à la manifestation contre le G8 ce qui lui a valu une condamnation sans preuve à 11 ans de prison ferme pour de « Dévastation et saccage ». Il est aussi accusé d’avoir participé en 2006 à Milan à une manifestation anti-fasciste non autorisée. Pour le soutenir, vous pouvez :
    – Vous informer via le site http://www.comite-soutien-vincenzo.org / page Facebook "soutienvincenzo",
    – Contacter pour participer ou créer un comité de soutien : comite.soutien.vincenzo@gmail.com
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