• A Napoli viene cancellata l’unica esperienza di gestione dell’acqua come bene comune

    Con una delibera della giunta guidata dal sindaco #Gaetano_Manfredi inizia la trasformazione dell’azienda di diritto pubblico Abc, che aveva raccolto in pieno lo spirito referendario del giugno 2011, in una Spa pronta ad aprirsi a capitali (e approcci gestionali) privati. Una trasformazione che taglia la partecipazione e il controllo dal basso e che viene presentata dai suoi promotori come obbligata. Ma non è così

    Un elenco di cinque piccoli paragrafi a pagina due nella delibera 266/2024 della giunta del Comune di Napoli cancella l’unica esperienza di gestione pubblica e partecipata con la cittadinanza dell’acqua e del suo ciclo integrato in una grande città italiana. L’atto attende l’approvazione del Consiglio comunale, fino ad allora Napoli rimarrà l’unica grande città ad avere dato senso compiuto nel 2013 al referendum del giugno 2011 che abrogò il quadro normativo che consentiva a soggetti privati di trarre profitto dalla gestione dell’acqua.

    Un referendum che informalmente attribuiva alla risorsa idrica lo status di “bene comune”, sulla scia dell’entusiasmo per la vittoria dei comitati proponenti la prima giunta de Magistris trasformò l’Arin, la Spa che gestiva l’acqua, nella società speciale di diritto pubblico #Acqua_bene_comune (#Abc).

    Alberto Lucarelli, docente di Diritto costituzionale e pubblico all’Università Federico II, allora assessore ai Beni comuni proprio a Napoli, oggi amareggiato spiega come “dietro la delibera 266 della giunta di Gaetano Manfredi c’è il progetto politico di dimostrare che la governance dell’azienda non funziona così da perdere competitività in favore di soggetti privati incalzanti. L’obiettivo è procedere gradatamente alla trasformazione della forma giuridica da un soggetto di diritto pubblico a una Spa a capitale pubblico per poi divenire una società mista. In Campania preme Acea, un soggetto privato che opera all’interno della Gori su un territorio confinante a quello di Abc”.

    L’inizio della trasformazione di Abc avviene cancellando tre punti essenziali dello statuto. Del consiglio di amministrazione (Cda) non potranno più farne parte i due componenti designati dalle associazioni ambientaliste, una partecipazione gratuita come quella anche del presidente. Con le modifiche della giunta Manfredi vengono stanziati 78mila euro annui per un Cda nominato dal ceto politico, restaurando quella prassi che riserva posti di sottogoverno agli esuberi, oltre a incentivare il rischio di una subordinazione dei dipendenti verso i partiti.

    Consigliere dimissionario in contrasto con la proposta di stravolgimento dello statuto è l’avvocato Domenico Aiello del Wwf. “Il nostro è stato un supporto tecnico e qualificato. Da professionisti e ambientalisti abbiamo notato che l’azienda non prevedeva negli appalti i decreti legislativi sui Criteri minimi ambientali (Cam), oltre a pretenderli abbiamo lavorato sulla formazione di tutti i dipendenti affinché conoscessero la norma e le linee guida europee così da rappresentarle nell’operato. Oltre all’aspetto tecnico la nostra presenza rappresentava gli interessi della società civile e delle future generazioni. Siamo stati depositari di tutta l’attività dei comitati e abbiamo garantito divulgazione e sensibilizzazione promuovendo le giornate dell’acqua, aprendo porte dell’azienda e il Cda ai cittadini”.

    Altro punto essenziale che mina la partecipazione dal basso alla vita di Abc è il ridimensionamento dell’osservatorio sull’acqua. “Lo pensammo come un parlamentino -spiega Lucarelli- con la partecipazione del Consiglio comunale, delle municipalità, dei lavoratori dell’azienda e dei cittadini con una rappresentanza degli utenti del servizio; l’organo sarà privato della missione originaria perché le sue deliberazioni non saranno vincolanti, un conto è avere un consesso in grado di esercitare attività di proposta e controllo sull’azienda, altro è trasformarlo in sfogatoio di consultazione che genera frustrazione”.

    Il terzo punto riguarda la revoca dell’obbligo della stesura di un bilancio partecipato a ambientale. Uno dei doveri aziendali che maggiormente godeva dell’apporto tecnico delle associazioni, un bilancio che riuscisse a combinare gli aspetti di gestione ed efficienza ed economicità orientati nel rispetto e nella tutela della risorsa idrica, un modello di bilancio nel 2013 percussore di quelli oggi richiesti dal Green Deal europeo, ed è strano che le forze politiche che più di altre si dichiarano europeiste in scala locale smentiscano tale indirizzo e coinvolgimento.

    Tre modifiche dello statuto di Abc che snaturano l’azienda, proposte al Consiglio comunale senza alcuna discussione con quella articolata eterogeneità che undici anni fa diede vita alla prima municipalizzata partecipata dai cittadini, proposte/imposizioni che giacciono ferme nell’anticamera del Consiglio comunale, ferme per l’azione di contrasto sollevata da diverse personalità e da qualche ordine del giorno critico approvato nelle municipalità che si sentono private dalla possibilità di incidere sulle scelte dell’ente gestore di un bene che si voleva comune.

    Quando è nata Abc il confronto con movimenti, associazionismo, giuristi, consulte e con Eau de Paris, l’azienda pubblica che gestisce l’acqua nella capitale francese da cui Abc ha preso spunto, fu lungo e complesso, “ma mai estenuante -racconta Lucarelli- ed è così che Abc divenne l’unica azienda e Napoli l’unica grande città ad avere assunto il referendum del 2011, anche in assenza di un quadro normativo che desse seguito al volere popolare il Comune mise su una costruzione giuridica che trasformò una spa in Abc. Un risultato incredibile se si pensa che l’allora Governo Berlusconi dopo due mesi dal referendum approvò un provvedimento che riproduceva ciò che i cittadini italiani avevano abrogato. Abbiamo sempre detto che Abc è una azienda speciale, ma molto più speciale perché la sua specialità era dettata dalla governance”.

    Una vocazione alla privatizzazione che vuole in continuità tutti i governi nazionali che si sono succeduti negli undici anni di vita di Abc e che oggi vede propensa una amministrazione cittadina formata da quel “campo largo” che si candida ad alternativa nel Paese. “È chiaro che la trasformazione di Abc gode dell’orientamento dell’attuale amministrazione locale e da scelte nazionali -continua Lucerelli- c’è un decreto legislativo del 2022 che comprime lo spazio degli affidamenti diretti in house ed esclude la possibilità di affidare ad aziende speciali la gestione di servizi pubblici essenziali; a Napoli il problema si porrà nel 2027 quando scadrà l’affidamento dell’Ente idrico campano ad Abc e già si dice con ipocrisia che saremo costretti dalla norma nazionale a trasformare l’azienda in Spa. Non è vero perché l’atto di affidamento del 2022 può essere prorogato per altri trent’anni, il pallino è nelle mani del sindaco Manfredi e della sua giunta, che non si dica che saranno obbligati dalla legge perché l’atto di affidamento non lo dice”.

    https://altreconomia.it/a-napoli-viene-cancellata-lunica-esperienza-di-gestione-dellacqua-come-
    #eau #bien_commun #Naples #Italie #privatisation #re-privatisation #municipalisation

  • USA : L’émigration anarchiste italienne
    https://www.partage-noir.fr/usa-l-emigration-anarchiste-italienne

    L’article que nous publions ci-dessous, inédit en français, constitue une partie de l’exposé que #Gino_Cerrito fit à l’occasion du « Symposium d’études sur l’émigration italienne aux Etats-Unis d’Amérique » organisé par l’Institut d’études américain de la Faculté d’enseignement de Florence du 27 au 29 mai 1969. Gino Cerrito est né à Messine (Sicile) le 11 février 1922 et est décédé le 4 septembre 1982. Il commença à militer dans le mouvement anarchiste en 1943-1944, créant avec d’autres le (...) #Itinéraire_-_Une_vie,_une_pensée n°2 : « Sacco et Vanzetti »

    / #Nicola_Sacco, #Bartolomeo_Vanzetti, #Errico_Malatesta, Gino Cerrito, #Johann_Most, #Francesco_Saverio_Merlino, #Pietro_Gori, #Gaetano_Bresci, #Alexander_Berkman, #Carlo_Tresca, #Luigi_Galleani, Itinéraire - Une vie, une pensée, #@narlivres, Andrea (...)

    #Itinéraire_-_Une_vie,une_pensée_n°2:«_Sacco_et_Vanzetti» #Andrea_Salsedo #Aldino_Felicani
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/itineraire_saccovanzetti2.pdf

  • Expulsion des Tunisien·nes d’#Italie : la #complicité discrète des #compagnies_aériennes

    Toutes les semaines, l’Italie expulse des dizaines de Tunisien·nes de son territoire, en les chargeant dans des #avions #charters, à l’abri des regards. Quelles sont les compagnies aériennes chargées de ces voyages forcées ? Comment sont-elles engagées par l’Etat italien ? À travers l’exemple de la jeune compagnie #Aeroitalia, inkyfada, en collaboration avec le média italien internazionale, révèle les rouages d’un système opaque bien rodé. Enquête.
    Rome, juillet 2023. Parmi les panneaux publicitaires qui jalonnent les rues de la capitale, on trouve ceux d’une compagnie aérienne qui vient de fêter sa première année et qui offre d’excellents tarifs pour la Sicile et la Sardaigne. Aeroitalia, "la nouvelle compagnie aérienne italienne à capitaux entièrement privés", comme l’indique son site Interne , promet de "donner le meilleur service possible, en prenant soin de ses passagers avec de petits gestes, de l’attention et de la chaleur humaine".

    À la même période, l’activiste et chercheur sénégalais Ibrahima Konate reçoit un message de la part d’une connaissance tunisienne : le 20 juillet, le frère de ce dernier a été rapatrié d’Italie. Selon son témoignage, le vol n°XZ7744 a été opéré par la compagnie Aeroitalia. La même opération a été rapportée par le site d’information tunisien Falso et par Majdi Karbai, ancien parlementaire et militant tunisien, dans un post publié sur Facebook le 21 juillet.

    Grâce au numéro de vol, il est possible de vérifier l’information. Comme le confirment plusieurs sites de surveillance du trafic aérien, dont FlightRadar et FlightAware, le matin du 20 juillet, un avion d’Aeroitalia a effectivement décollé de l’aéroport de Rome Fiumicino à destination de la Tunisie. Après une escale à Palerme, il atterrit à Tabarka, située à environ 130 kilomètres à l’ouest de Tunis, presque à la frontière algérienne.

    Mais cette destination ne figure pas parmi celles annoncées sur le site Internet d’Aeroitalia, car les vols opérés sur cette route sont des vols spéciaux, réservés à des passager·es qui ne souhaitent pas partir. Dans cet avion, il n’y a que des Tunisien·nes, escorté·es par les autorités italiennes.

    Le vol du 20 juillet 2023 est lié au marché des rapatriements forcés par charter : des vols programmés par les autorités d’un pays pour expulser, contre leur gré, des groupes de personnes à qui l’on refuse la possibilité de rester sur le territoire national. Dans le cas de l’Italie, il s’agit principalement de ressortissant·es tunisien·nes, comme le confirment les données les plus récentes sur les rapatriements aériens fournies par le ministère de l’intérieur.

    En 2023, sur un total de 106 vols charters de rapatriement, 70 étaient à destination de la Tunisie. 80% des personnes rapatriées sur ces vols - 2 006 sur un total de 2 506 - étaient des ressortissant·es tunisien·nes.

    La Tunisie dans le viseur de l’Italie

    À l’été 2023, Aeroitalia n’est pas la seule à s’intéresser à la Tunisie. Après une première visite officielle le 6 juin, le Premier ministre italien Giorgia Meloni retourne à Tunis le 11 juin en compagnie de la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, et du Premier ministre néerlandais Mark Rutte. L’espoir est d’obtenir du président tunisien Kais Saied un engagement renouvelé à coopérer dans la lutte contre l’immigration dite irrégulière.

    Ce ballet entre l’Europe et la Tunisie intervient dans un contexte de persécution des personnes d’origine subsaharienne en Tunisie, alimenté par la présidence elle-même, et la répression croissante de la société civile. Cela n’a pas empêché l’Union européenne (UE) de signer, le 16 juillet, un protocole d’accord pour renforcer la coopération. Depuis des années, l’Europe tente d’engager des gouvernements étrangers en externalisant ses politiques de fermeture et de refoulement : de l’argent en échange d’une surveillance accrue des frontières et d’une augmentation des réadmissions de citoyen·nes non-européen·nes expulsé·es.

    Les gouvernements européens tentent ainsi, par tous les moyens, d’empêcher les gens de quitter leur pays pour l’Europe. Certains sont plus directs : refus de visa, rejet des bateaux sur lesquels ils voyagent ou absence de sauvetage en mer. D’autres, plus insidieux, se mettent en place dans des États tiers à travers la formation et le financement des garde-côtes ou la promotion de technologies de surveillance de plus en plus sophistiquées.

    Des expulsions peu étudiées

    Mais pour expulser une personne de l’Union européenne, le moyen le plus efficace est généralement de la charger dans un avion. C’est là qu’interviennent des entreprises comme Aeroitalia, protagonistes et bénéficiaires d’un système encore peu étudié. Comme l’observe le chercheur William Walters, "l’aviation civile est le pivot central des déportations de personnes en provenance des pays du Nord, mais ceux qui étudient le sujet des déportations se sont rarement intéressés aux questions de mobilité aérienne".

    Les retours forcés peuvent également avoir lieu sur des vols réguliers, en embarquant la personne avant les autres et en l’isolant à l’arrière du transporteur. Mais il y a toujours le risque que la personne résiste à sa propre expulsion, en essayant d’attirer l’attention des passager·es, et que le capitaine finisse par la débarquer si la situation à bord devient ingérable. Rien de tout cela ne se produit sur les charters.

    "L’avantage des expulsions par charter est qu’elles sont plus faciles à contrôler", résume Yasha Maccanico, chercheur à l’organisation Statewatch.

    L’Italie privilégie ainsi les expulsions par charter et a mis en place un système d’une rare lourdeur pour les gérer. Depuis 2011, année d’un des nombreux accords de "coopération migratoire" entre l’Italie et la Tunisie, les autorités italiennes tentent, sans succès, de maintenir une moyenne de deux vols charters de rapatriement par semaine : chaque vol est prévu pour 20-40 personnes à rapatrier et 60-110 accompagnateur·trices.

    Compte tenu de la fréquence, un contrat à moyen ou long terme pour un service de "transfert de migrants irréguliers", pour reprendre le jargon officiel, serait la solution la plus logique, comme c’est déjà le cas au Royaume-Uni et en Espagne.

    En 2016, un #appel_d'offres est lancé à cet effet par #Consip* pour le compte de la Direction centrale de l’immigration et de la police des frontières et du Département des libertés civiles et de l’immigration. Mais celui-ci n’aboutit pas, par désintérêt de la part des compagnies aériennes, selon les informations obtenues auprès de Consip. C’est ainsi qu’en Italie, contrairement à d’autres pays de l’UE, le système "un appel d’offres par vol" perdure.

    Un système d’appel d’offre opaque

    Jusqu’à la fin de l’année 2023, pour chacun de ces appels d’offres, le Viminale - le ministère de l’Intérieur - a publié sur son site internet deux documents : le texte de l’appel d’offres pour un vol programmé généralement une semaine plus tard, qui invite divers opérateurs à postuler, et le résultat de l’appel d’offres, ou "avis d’adjudication".

    Les vols sont, bien entendu, opérés par des compagnies aériennes, mais leurs noms n’apparaissent presque jamais. En effet, la totalité des appels d’offres sont remportés par deux sociétés intermédiaires (ou courtiers) : l’entreprise allemande Professional Aviation Solutions (PAS) et Air Partner, une société britannique rachetée en 2022 par la société américaine Wheels Up.

    Ces dernières se partagent le marché et prennent une commission de 3 à 5% sur le montant demandé pour opérer le vol. Les compagnies aériennes fournissent les moyens et le personnel sans lesquels les rapatriements ne pourraient avoir lieu, mais ce sont les courtiers, interlocuteurs indispensables des autorités, qui permettent à la machine à rapatrier de tourner à plein régime.

    Outre le nom du courtier, les avis d’attribution de marché indiquent le nombre d’offres reçues par le ministère de l’intérieur pour le vol en question (souvent deux, parfois une seule) et le coût de l’offre retenue.

    Le nom de la compagnie qui opérera le vol, et qui empochera donc l’essentiel de cet argent, n’apparaît pas.

    C’est pourquoi, en réponse à une demande d’accès à l’information présentée dans le cadre de cette enquête, le secrétariat du Département de la sécurité publique a pu répondre qu’il "n’a pas de contact direct" avec Aeroitalia, étant donné que "l’attribution du service au transporteur identifié parmi ceux qui ont fait la meilleure offre se fait par l’intermédiaire d’une société tierce - ‘broker’”. Et en effet, en recherchant sur le site du ministère de l’Intérieur les documents relatifs au vol Rome-Palerme-Tabarka du 20 juillet 2023, on découvre seulement que l’appel d’offres a été remporté par PAS avec une offre de 115 980 euros. Pas de trace d’Aeroitalia*.

    Mais dans le même temps, les avis d’attribution des contrats pour les vols charters de rapatriement opérés jusqu’à la fin de 2023 précisaient que la sous-traitance n’était pas possible. Pourtant, le service de transport aérien a bien été fourni par un tiers (le transporteur), ce qui pourrait s’apparenter à de la sous-traitance.

    Jusqu’à fin 2023 également, la procédure d’appel d’offres n’était pas à jour : les avis d’attribution des marchés contenaient la liste des opérateurs économiques invités à participer à l’appel d’offres, liste dans laquelle figuraient Mistral Air (devenu Poste Air Cargo en 2019), Meridiana (qui a fermé en 2018) et le courtier Astra Associated Services, aujourd’hui en liquidation.

    Un business discret

    Pour les vols opérés à partir de janvier 2024, les documents relatifs aux vols charters de rapatriement publiés par le ministère de l’Intérieur ont changé. Sur le site Internet, les appels d’offres sont toujours disponibles, avec la nouveauté qu’une offre peut concerner deux vols effectués dans la même semaine - le premier au départ de Trieste, le second au départ de Rome - et que la dépense maximale doit être inférieure à 110.000 euros au lieu de 140.000 euros auparavant.

    Par ailleurs, les avis d’attribution des marchés sont désormais indisponibles : il est donc impossible de savoir quels opérateurs ont été invités à proposer leurs services et combien d’offres ont été présentées. La référence à l’interdiction de la sous-traitance a également disparu. Parmi les nouveaux documents disponibles figurent les contrats avec les courtiers attribués, qui ne mentionnent cependant jamais le nom de la compagnie aérienne responsable de l’exploitation du vol, tandis que les offres reçues par le ministère de l’intérieur restent introuvables.

    Cette opacité ne caractérise pas seulement les rapatriements de charters depuis l’Italie. Le chercheur Matthias Monroy* raconte que le ministère allemand de l’Intérieur avait défini comme "confidentielles" les données sur les compagnies de vols charters qui profitent des rapatriements. Répondant à une question parlementaire du parti Die Linke, le ministère affirmait que "ces informations pourraient exposer les compagnies à une ’critique publique’, entravant les opérations de rapatriement".

    Le Viminale a également rejeté la demande d’accès à l’information d’inkyfada, mais en invoquant une autre raison. La publication des offres reçues pour chaque vol de rapatriement, dans lesquelles figure, outre le nom du courtier, celui de la compagnie qui devrait opérer le vol, ne concernerait pas l’intérêt public. Un argument difficilement défendable étant donné que la majeure partie de l’argent public dépensé pour ces vols est empochée par les compagnies et non par les courtiers. Face à cette réponse, inkyfada et internazionale ont déposé une demande de réexamen qui a été rejetée le 8 mai 2024, le ministère de l’Intérieur s’étant contenté de renvoyer encore une fois vers les documents disponibles sur le site.

    Entretemps, un problème informatique - ou, plus probablement, une erreur humaine - a permis de consulter deux de ces documents. Le 13 novembre 2023, le ministère de l’Intérieur a publié les deux offres reçues des courtiers habituels pour le vol du 12 octobre 2023, avec départ de Trieste Ronchi dei Legionari, escale à Palerme et arrivée à Tabarka. De manière surprenante, tant PAS qu’Air Partner avaient proposé pour ce vol un avion appartenant à la société espagnole Albastar, demandant respectivement 71.200 € et 71.880 €.

    En d’autres termes, même si un seul courtier a remporté l’appel d’offres - en l’occurrence PAS, qui proposait l’offre la plus basse -, Albastar se serait de toute façon vu attribuer ce vol : une situation qui confirme le manque de sérieux de ces procédures d’appel d’offres.

    Pour tenter d’identifier ces compagnies, il est donc nécessaire d’utiliser d’autres sources : les témoignages de déporté·es, les sites internet de certains aéroports et les sites de surveillance des vols.

    Les quinze vols d’Aeroitalia

    Aeroitalia n’est pas la seule compagnie à avoir opéré des vols charters de rapatriement forcé vers la Tunisie en 2023. En croisant les données de vol publiées par le ministère de l’Intérieur et celles disponibles sur les sites de surveillance des vols et sur le site de l’aéroport de Palerme, nous avons pu dater les 70 vols charters de rapatriement forcé vers la Tunisie.

    Il a été possible d’identifier les courtiers dans 63 cas - Pas s’est vu attribuer 36 vols, Air Partner 27- et la compagnie aérienne dans 56 cas :

    – 25 vols opérés par #Albastar, travaillant à la fois avec #Pas et #Air_Partner
    – 15 vols opérés par Aeroitalia, uniquement pour le compte de PAS
    – 9 vols opérés par la compagnie roumaine #Carpatair (qui ne semble travailler qu’uniquement avec Air Partner)
    – 4 vols opérés par #Malta_MedAir
    – 2 par la compagnie croate #Trade_Air
    – 1 par la compagnie bulgare #Electra_Airways.

    La recherche est rendue difficile par le fait que les compagnies aériennes peuvent attribuer des numéros de vol différents à une même route.

    Retour à l’été 2023. Derrière sa bannière de “chaleur humaine”, Aeroitalia a réalisé 13 vols de rapatriement forcé vers la Tunisie entre le 20 juillet et le 3 octobre 2023, au départ de Trieste Ronchi dei Legionari ou de Rome. En supposant une commission maximale de 5 % retenue par le courtier PAS, Aeroitalia a perçu pour ces treize vols presque 1.3800.000 : un chiffre remarquable si l’on considère qu’en moyenne, les vols opérés par Aeroitalia étaient beaucoup plus chers que ceux opérés par d’autres compagnies sur les mêmes routes et au cours de la même période (112.000 euros en moyenne contre 82 000 euros).

    Les deux autres vols Aeroitalia en 2023 remontent au 17 et 31 janvier, toujours avec PAS, qui a reçu respectivement 71.490 euros et 69.990 euros. D’après les informations recueillies en ligne, il s’avère également qu’Aeroitalia a commencé à opérer des vols de rapatriement forcé dès 2022 : certainement les 13 et 18 octobre, les 8 et 15 novembre et le 29 décembre (vols relevés par FlightRadar) et, selon un passager d’Aeroitalia, peut-être même en juillet de cette année-là, donc peu de temps après le lancement de la compagnie.

    En mars 2023, un utilisateur du forum italien Aviazionecivile.it a fait le commentaire suivant à propos d’Aeroitalia : “Donc tous ces charters pour Tabarka au départ de Palerme et de Rome qu’ils ont opéré fréquemment au cours des derniers mois étaient des vols de #rapatriement”.
    Ni PAS ni Aeroitalia n’ont répondu aux demandes de commentaires envoyées dans le cadre de cette enquête.

    L’ensemble des vols de rapatriement font une escale à Palerme, où les autorités consulaires tunisiennes doivent confirmer - pro forma - l’identité des personnes ayant fait l’objet d’un décret d’expulsion. Chacun·e rencontre le consul, un·e par un·e. inkyfada a pu échanger avec Louay et Wael, deux ressortissants tunisiens qui ont été expulsés d’Italie respectivement en février 2021 et juillet 2023. Leurs histoires, très similaires, témoignent de ce système bien rôdé. Tous deux ont effectivement rencontré le consul tunisien à cette occasion. L’échange a duré à peine quelques minutes.

    “Une minute grand maximum !”, s’exclame Louay. “Je lui ai dit que j’avais fait une demande d’asile et que je ne voulais pas rentrer en Tunisie… Il a juste dit ‘Ok’”.

    “Il m’a juste demandé d’où je venais, pourquoi j’étais en Italie…”, confirme Wael. “Puis il m’a dit qu’on allait tous être expulsés”.

    Des vols charters pas tous identiques

    Fondée en 2022 par le banquier français #Marc_Bourgade et l’entrepreneur bolivien #Germán_Efromovich, Aeroitalia est dirigée par #Gaetano_Francesco_Intrieri, expert en aviation et ancien conseiller du ministre des transports de l’époque, #Danilo_Toninelli. Si le premier est peu connu du grand public, Efromovich et Intrieri se sont retrouvés par le passé au cœur de plusieurs scandales de corruption et de faillite*.

    Dès sa création, l’objectif d’Aeroitalia était de se concentrer sur le marché des vols charters, explique le dirigeant Intrieri dans une interview en avril 2022. Marc Bourgade, de son côté, a déclaré à l’Air Financial Journal que la nouvelle compagnie prioriserait "d’abord les vols charters parce qu’ils garantissent des revenus dès le jour où nous obtenons le certificat d’opérateur aérien".

    La compagnie s’est notamment occupée du transport de plusieurs équipe sportives*, des partenariats qu’elle vante sur son site internet… contrairement aux vols de rapatriements, impliquant de transporter des groupes de personnes contre leur gré.

    Dans une recherche publiée en 2022, le Centre pour les droits de l’homme de l’Université de Washington a révélé comment, aux États-Unis, de nombreuses équipes sportives et artistes ont voyagé à leur insu sur des avions charters utilisés à d’autres moments pour des opérations de rapatriement souvent violentes. Si les passagers l’ignorent, les opérateurs de ces vols, aux États-Unis comme en Italie et ailleurs, savent certainement dans quel contexte ils offrent leurs services. Les vols de rapatriement forcé ne sont pas des vols comme les autres, mais des opérations de sécurité publique qui s’inscrivent dans un ensemble de pratiques et de politiques discriminatoires.

    La machine à expulsion

    Là encore, l’exemple de la Tunisie est emblématique : les chiffres des rapatriements donnent une idée de la "sérialisation" qui sous-tend ce système, observe l’avocat Maurizio Veglio, membre de l’Association pour les études juridiques sur l’immigration (ASGI). Pour remplir deux vols charters par semaine, il faut pouvoir compter sur un grand nombre de personnes rapatriables. Or, une personne est d’autant plus facilement rapatriée que ses chances d’obtenir une protection, voire de la demander, sont limitées.

    Quand Wael arrive à Pantelleria, en juillet 2023, il est directement amené dans un centre de rétention où on lui donne la possibilité de passer un coup de téléphone d’une minute. L’amie qu’il contacte lui conseille de demander l’asile. En assistant à cet échange, l’homme responsable des communications, tunisien également, lui rétorque “[qu’ils] n’acceptent plus l’asile maintenant”.

    Selon les statistiques disponibles, 76,6% des demandes d’asiles émises par des Tunisien·nes en Italie ont été rejetées en 2022. C’est le troisième plus haut taux de rejet de demande d’asile après l’Egypte (90,3%) et le Bangladesh (76,8%).

    “Après plusieurs semaines dans les centres de rétention, j’ai pu voir les nationalités qui étaient le plus expulsées”, raconte Wael . “Avec les accords, les Tunisiens et les Egyptiens sont toujours expulsés (...). Nous, c’est le mardi et le jeudi, et eux, c’est le mercredi !”.

    En 2019, l’Italie a inclus la Tunisie dans la liste des pays d’origine dits sûrs, un instrument qui, bien que prévu par la directive sur les procédures de 2013, "est ontologiquement en contradiction avec la procédure de protection internationale, c’est-à-dire avec l’évaluation sur le droit de l’individu à être protégé", dénonce l’avocat Maurizio Veglio. Ces listes, également adoptées par d’autres pays, ainsi que par l’UE elle-même, sont "un outil totalement asservi à la volonté des administrations de sérier au maximum les réponses négatives”.

    “Il s’agit d’un énième forcing qui tente de faire de l’évaluation de la demande de protection internationale un simple incident bureaucratique, à accomplir dans les plus brefs délais, afin de classer la procédure et d’entamer le processus de rapatriement".

    En effet, l’inclusion de la Tunisie dans la liste des pays d’origine sûrs “décourage les demandes de protection dont l’issue est en partie compromise par la simple citoyenneté du demandeur”, résume-t-il. “Les personnes de nationalité tunisienne qui ne demandent pas de protection (...), risquent d’être rapatriées dans un délai extrêmement court. Le mécanisme est si rapide qu’il annule la possibilité d’un droit de défense effectif”.

    Sans surprise, la demande d’asile de Wael a été refusée, malgré ses recours. “Au bout d’un mois et demi, tous ceux qui avaient été dans les centres avec moi ont vu leur demande être refusée et ils ont été expulsé s", décrit le jeune homme. Selon lui, l’expulsion est quasiment systématique dans certains centres, notamment ceux de Trapani et Catania. “Là-bas, tu peux être sûr à 90% que tu vas être renvoyé en Tunisie”.
    Résignation et Révolte

    Dans les centres de rétention, l’incertitude et l’attente rythment le quotidien de ces personnes en sursis. “On était six par chambre. Rien n’est clair. Un coup, on nous dit qu’on va nous amener chez le docteur, une autre fois chez le psychologue, et à la fin personne ne vient”, rapporte Wael. “On n’a confiance en personne”.

    Certain·es vivent très mal ces conditions d’isolement. “Un Tunisien avec nous était complètement déprimé”, raconte Louay . “Il n’en pouvait tellement plus qu’il a fait une tentative de suicide en s’immolant. Ils lui ont mis quelques pansements puis l’ont ramené dans sa chambre”.

    À cette période, en 2021, la crise du Covid-19 bat son plein. Pour pouvoir expulser des individus, les autorités italiennes sont obligées de vérifier que personne n’est porteur du virus avant d’embarquer les passager·es vers leur pays d’origine. Louay et d’autres refusent à plusieurs reprises de faire le test.

    “On m’a menacé plusieurs fois de me le faire de force (...). Une fois, j’ai demandé à parler à mon avocat. On m’a dit : ‘Fais ton test et on te laissera l’appeler’”, rapporte Louay. “Pareil pour parler avec ma famille".

    Malgré ses refus, sa tentative de demande d’asile et ses multiples recours, Louay est finalement expulsé, tout comme Wael. Malgré les deux ans qui séparent leur expulsion respective, leur parcours est presque identique. “Un matin tôt, vers 2h du matin, on nous a mis dans un bus pour nous emmener vers une destination inconnue”, continue Louay. “On était 20, et seulement des Tunisiens”.

    A l’aéroport, ils attendent quelques heures. Après un bref échange avec le consul, tous les passagers, escortés chacun par deux policiers, sont placés dans l’avion. Direction l’aéroport d’Enfidha Hammamet pour Louay, Tabarka pour Wael.

    Ces témoignages confirment ce que le Garant national des droits des personnes privées de liberté observe depuis des années en suivant les vols de rapatriement. Selon son ex-président Mauro Palma, " les phases les plus problématiques sont celles qui précèdent l’arrivée à bord" : la phase de transfert du centre à l’aéroport, souvent sans avertissement, après un réveil brutal, au milieu de la nuit ou à l’aube ; l’attente à l’aéroport sans contrôle adéquat de l’état de santé physique et psychique des personnes ; l’utilisation de moyens de contrainte tels que des bandes Velcro appliquées aux poignets.

    Pour citer à nouveau William Walters, qui place le phénomène des déportations aériennes dans le cadre plus large de la "géographie carcérale", les vols charters sont les maillons d’une "chaîne de détention" par laquelle les personnes sont "transférées d’un environnement à l’autre, d’une autorité à l’autre". D’autres chercheurs parlent de "couloirs de déportation" pour évoquer les différentes étapes et dimensions du phénomène.

    Pour les personnes contraintes de quitter l’Italie, la phase de vol, une fois qu’elles sont escortées à bord, est souvent qualifiée de phase de "résignation", notamment parce qu’il n’existe pas de mécanisme de plainte en cas d’abus ou de mauvais traitements. “Dans l’avion, tout le monde était tranquille, que ce soit les hôtesses ou les passagers. On sait qu’il n’y a plus rien à faire et pas de solution”, commente Wael d’un ton désabusé.

    Contrairement aux vols coordonnés par l’agence européenne Frontex, qui a introduit un nouveau mécanisme en 2019 - peu efficace selon de nombreux·ses expert·es -, les vols charters organisés par les autorités italiennes n’offrent pas de réelle "possibilité de plainte", confirme Mauro Palma. Comme dans le cas des centres de détention et de rapatriement, il peut arriver que le garant recueille des plaintes, puis les transmette au ministère de l’Intérieur, mais ce "dialogue" restera interne, sans conséquence pour la personne qui a voulu signaler un abus, et ne permettra pas d’alimenter les statistiques officielles sur ces plaintes. Et sans données, le problème n’existe pas.

    Enfin, il ne faut pas oublier que sur ces vols, le rapport de force - deux ou trois agents d’escorte pour chaque personne rapatriée - est beaucoup plus déséquilibré que dans les centres de rétention et de rapatriement, où les émeutes non seulement éclatent, mais peuvent conduire à la fermeture partielle ou totale du centre de rétention, comme l’a encore montré la récente émeute du CPR de Milo.
    Entreprises complices

    Même lorsqu’ils ne sont pas le théâtre de violences physiques, les rapatriements forcés sont des opérations violentes, des démonstrations de force de la part des États qui "finissent par affecter les segments les plus faibles de la population étrangère", observe l’avocat Veglio. Il s’agit des groupes exclus, par le système discriminatoire des visas, des canaux de mobilité légale et sûre. En d’autres termes, toutes ces personnes qui, aujourd’hui, n’ont pas le droit de prendre un vol pour l’Italie, mais qui seront embarquées de force dans un avion pour en être expulsées.

    En opérant ces vols, les compagnies deviennent complices et bénéficiaires de tout le système : plus les gouvernements accordent d’attention et de fonds aux rapatriements, plus les compagnies qui profitent d’une vision répressive et discriminatoire de l’immigration engrangent des revenus. Comme le rappelle Yasha Maccanico, l’obsession déjà manifeste des gouvernements européens pour les rapatriements risque de s’étendre grâce à la révision de la directive européenne sur le retour de 2008. La procédure, entamée en 2018, est actuellement bloquée au Parlement européen, qui n’est pas encore parvenu à une position commune. Mais selon Maccanico, la tentative est de présenter "tout facteur lié à l’état de santé, à l’âge ou aux droits de l’homme d’une personne comme un obstacle en matière de retour", et de ne plus les considérer comme des éléments "devant primer sur la directive retour".

    Ces dernières années, des campagnes ont été lancées dans plusieurs pays contre les entreprises impliquées dans des opérations de rapatriement forcé par charter. Selon la chercheuse Sophie Lenoir, de l’organisation Corporate Watch, qui consacre un rapport annuel aux rapatriements forcés par charter depuis le Royaume-Uni, ces campagnes ont plus de chances d’aboutir si la compagnie visée "opère également des vols commerciaux, et se soucie donc davantage de son image de marque".

    Sophie Lenoir cite l’exemple de Tui Airways (filiale britannique du groupe allemand Tui) qui, comme Aeroitalia, "propose également des vols commerciaux destinés aux familles qui partent en vacances". Au Royaume-Uni, après une importante campagne de dénonciation, "Tui a cessé de collaborer avec le Home Office dans le cadre d’opérations de rapatriement". Elle ajoute toutefois que cet impact présente des limites et qu’une entreprise n’arrête généralement ce type de vols " que temporairement, en attendant que l’attention du public retombe".

    Un parallèle entre l’Italie et le Royaume-Uni émerge de l’analyse de Lenoir : tout comme en Italie, les personnes de nationalité tunisienne ont été pendant des années la principale cible des discours officiels contre l’immigration irrégulière, au Royaume-Uni, il en va de même pour la population albanaise. "Les Albanais", a dénoncé la philosophe britannico-albanaise Lea Ypi en 2022, "sont les victimes les plus récentes d’un projet idéologique qui, pour masquer ses propres échecs politiques, expose les minorités à des stéréotypes négatifs, à la xénophobie et au racisme".
    Contre la logique des rapatriements

    C’est ce même racisme que dénoncent les militant·es tunisien·nes, mères et sœurs de jeunes disparu·es ou mort·es en tentant de traverser la Méditerranée, dans un communiqué sur la répression du soulèvement du CPR Milo publié par l’association Mem.Med (Mediterranean Memory) : "Une fois de plus, nous constatons l’injustice d’une situation dans laquelle des jeunes sont traités comme des criminels en raison de leur migration”.

    “Il n’y a personne qui va traverser la mer, sachant qu’il risque de mourir, sans bonne raison”, résume Louay.

    Des compagnies aériennes, comme Aeroitalia et d’autres, collaborent ainsi à un système visant à la répression de plus en plus brutale du projet migratoire de milliers de jeunes à la recherche d’une vie meilleure en Italie, qui tenteront de quitter à nouveau la Tunisie à la première occasion. "La ré-émigration des migrants tunisiens donne la mesure de l’échec des accords de rapatriement entre l’Italie et la Tunisie", écrivait le chercheur David Leone Suber en 2019. "La ré-émigration de ceux qui ont été rapatriés doit être interprétée comme un acte conscient et subversif contre la logique des rapatriements et des déportations."

    Wael est d’ailleurs reparti en Italie à peine quelques mois après avoir été expulsé. “De toute façon, je suis habitué aux tentatives ratées”, dit-il avec un sourire. “J’avais déjà tenté de passer par la Serbie en 2016-2017. Mais je me suis toujours dit qu’un jour, ça finirait bien par marcher”.

    Cette fois, son bateau, avec à bord 42 personnes, part de Bizerte jusqu’en Sardaigne. La traversée dure 20h, et les derniers kilomètres sont réalisés avec l’armée italienne. A terre, il est amené vers un centre de rétention avec tous les autres passager·es. “Vers 4h du matin, je suis sorti et je me suis enfui. J’ai marché des kilomètres jusqu’à pouvoir prendre des transports jusqu’à une autre ville…”.

    De fil en aiguille, le jeune homme réussit à rejoindre la France. Depuis trois mois, il est installé à Paris où il travaille au noir comme livreur, en attendant de trouver un moyen de stabiliser sa situation. Face à ces histoires, “difficile de croire aujourd’hui, à une libre circulation des personnes entre l’Italie et la Tunisie, comme c’était le cas dans les années 1990”, rappelle le chercheur David Leone Suber.

    Le 27 mars, comme pour donner une fin ouverte à cette enquête, le ministère de l’Intérieur a publié une autre consultation de marché : sept ans après le résultat décevant de l’appel d’offres Consip, le Viminale recherche des candidats pour un service de transport aérien de migrants irréguliers pour une durée de 36 mois.

    Comme indiqué dans la note technique, les principales destinations seront la Tunisie et l’Égypte. En cas de succès, l’appel d’offres sera remporté par un courtier et le nom de la compagnie aérienne responsable de ces vols “pas comme les autres”, restera méconnu, maintenant l’opacité sur les bénéficiaires de ce système d’expulsion.

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    • Come funzionano i voli di rimpatrio forzato dall’Italia alla Tunisia

      Il 31 maggio 2024, dal suo account X (ex Twitter), il ministro dell’interno italiano Matteo Piantedosi annunciava: “Altri 35 migranti sono stati rimpatriati in Tunisia. Proseguono gli sforzi per dare risposte concrete al fenomeno della migrazione irregolare”. La fotografia di un aereo pronto al decollo sotto lo sguardo di un agente di polizia accompagnava il tweet.

      L’immagine è rappresentativa dei rimpatri forzati via charter: voli programmati dalle autorità di un paese per espellere, contro la loro volontà, gruppi di persone alle quali è negata la possibilità di restare sul territorio nazionale. Per svolgere queste operazioni i governi si affidano a compagnie aeree che offrono servizi charter. Un intero aereo è noleggiato per trasportare una o più decine di persone, ognuna delle quali sarà scortata da due o tre agenti di polizia.

      Nel caso dell’Italia, quelle persone sono in gran parte di nazionalità tunisina, come confermano i dati che ci ha fornito il ministero dell’interno. Nel 2023 sono state 2.006 su 2.506. Su 106 voli di rimpatrio via charter, settanta erano diretti in Tunisia. In partenza dall’aeroporto di Trieste o da quello di Roma, questi voli fanno sempre scalo a Palermo, dove le autorità consolari tunisine devono confermare pro forma – sulla base di un accordo bilaterale siglato il 5 aprile 2011 – l’identità delle persone che hanno ricevuto un decreto di espulsione. In alcuni casi il volo parte da Trieste, si ferma a Roma o a Bari per prendere altre persone da rimpatriare e agenti, poi prosegue verso Palermo (o parte da Roma e si ferma a Bari prima di andare a Palermo). All’aeroporto di Palermo è imbarcato anche chi arriva dai centri di permanenza per i rimpatri (cpr) siciliani. ​​A quel punto l’aereo può decollare. Se la rotta seguita da questi voli è nota, i nomi delle compagnie che li operano sono invece tenuti segreti.

      Una destinazione speciale

      Roma, luglio 2023. Tra i cartelloni pubblicitari che svettano lungo le strade della capitale ci sono quelli di una compagnia aerea che ha da poco compiuto un anno e vanta ottimi prezzi per la Sicilia e la Sardegna. Aeroitalia, “la nuova compagnia italiana a capitale interamente privato”, come si legge sul sito, promette di “dare il miglior servizio possibile prendendoci cura dei nostri passeggeri con piccoli gesti, attenzioni e calore umano”.

      Proprio in quei giorni, l’attivista e ricercatore senegalese Ibrahima Konate riceve un messaggio da un conoscente tunisino: il 20 luglio suo fratello è stato rimpatriato dall’Italia su un volo XZ7744 della compagnia Aeroitalia. La stessa operazione è segnalata dal sito d’informazione tunisino Falso e da Majdi Karbai, ex parlamentare e attivista tunisino, in un post pubblicato su Facebook il 21 luglio. Il numero del volo permette di fare una ricerca sui siti di monitoraggio del traffico aereo, tra cui FlightRadar: la mattina del 20 luglio, un velivolo Aeroitalia è effettivamente decollato dall’aeroporto di Fiumicino diretto in Tunisia. Dopo uno scalo a Palermo, è atterrato a Tabarka, 130 chilometri a ovest di Tunisi, quasi alla frontiera con l’Algeria. È l’aeroporto dove atterrano i voli di rimpatrio forzato in provenienza dall’Italia.

      Nell’estate 2023 la Tunisia è al centro dell’attualità italiana ed europea. Dopo una prima visita ufficiale il 6 giugno, la presidente del consiglio italiano Giorgia Meloni torna l’11 giugno a Tunisi in compagnia della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e del primo ministro olandese Mark Rutte. La speranza è quella di strappare al presidente tunisino Kais Saied un impegno a collaborare nella cosiddetta lotta contro l’immigrazione irregolare.

      Poco importano la persecuzione delle persone di origine subsahariana in Tunisia, alimentata dalle posizioni xenofobe di Saied, e la crescente repressione della società civile. Il 16 luglio dell’anno scorso l’Unione europea firma con il paese nordafricano un memorandum d’intesa che dovrebbe rafforzare il quadro della loro cooperazione. La ricetta è sempre la stessa, quella con cui l’Ue tenta di assoldare i governi stranieri esternalizzando le sue politiche di chiusura e di respingimento: soldi in cambio di maggiore sorveglianza delle frontiere e di più riammissioni di cittadini e cittadine espulsi dal territorio europeo.

      Per impedire alle persone di raggiungere l’Ue, i governi europei hanno diversi mezzi a disposizione. Alcuni sono più diretti: negargli il visto, respingere le imbarcazioni su cui viaggiano o non prestare soccorso in mare. Altri, più indiretti, sono applicati negli stati terzi (addestrare e finanziare chi intercetta le imbarcazioni, incoraggiare l’adozione di leggi che criminalizzano il traffico di migranti o l’emigrazione irregolare, promuovere tecnologie di sorveglianza sempre più sofisticate).

      Per espellere una persona dall’Unione europea, invece, in genere il modo è solo uno: metterla su un aereo. Ed è qui che entrano in gioco le compagnie aeree, protagoniste e beneficiarie di un sistema ancora poco studiato.

      Come osserva il ricercatore William Walters, “l’aviazione civile è il perno centrale delle espulsioni di persone dai paesi del nord, eppure chi fa ricerca sulle espulsioni si è raramente interessato alle questioni legate alla mobilità aerea”. Negli ultimi anni sono usciti i primi studi, tra cui un numero della rivista antiAtlas Journal curato dallo stesso Walters con i colleghi Clara Lecadet e Cédric Parizot. Nell’introduzione, i tre autori sottolineano come l’opacità del settore, in particolare quello delle espulsioni via charter, abbia ostacolato lo sviluppo della ricerca sul tema.

      I rimpatri forzati possono svolgersi anche su voli di linea, imbarcando la persona prima degli altri passeggeri e isolandola nei posti in fondo. Ma c’è sempre il rischio che faccia resistenza, cercando di attirare l’attenzione degli altri passeggeri, e che il comandante finisca per farla sbarcare se la situazione a bordo diventa ingestibile. Tutto questo sui charter non succede. “Il vantaggio dei rimpatri via charter è che sono più facili da tenere sotto controllo”, riassume Yasha Maccanico, ricercatore dell’organizzazione Statewatch, che segue da vicino il tema dei rimpatri a livello europeo.

      L’Italia predilige le espulsioni via charter e, per gestirle, ha adottato un sistema di rara macchinosità. L’accordo di cooperazione con la Tunisia del 2011 prevede la possibilità di rimpatriare – su due voli charter a settimana – un massimo di 80 cittadini tunisini (ogni volo è previsto per 20-40 persone da rimpatriare e 60-110 agenti di scorta).

      Data la frequenza, un contratto a medio o a lungo termine per un servizio di trasporto aereo regolare sembrerebbe la soluzione più logica. E infatti nel 2016, sull’onda della cosiddetta crisi migratoria del 2015, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana (Consip) ha lanciato una gara d’appalto in questo senso (del valore di 31 milioni e 500mila euro), su incarico della direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere e del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. La gara, che riguardava tutti i voli di rimpatrio, non solo quelli per la Tunisia, è andata deserta. In una nota tecnica, che abbiamo ottenuto attraverso richiesta di accesso civico generalizzato, la Consip spiega i motivi di questo disinteresse: per le aziende del settore, le troppe variabili legate al servizio richiesto (in particolare i tempi di programmazione dei voli di rimpatrio e il numero di persone da trasferire) lo renderebbero difficilmente conciliabile con la loro normale attività di trasporto aereo.

      E così l’Italia, a differenza di altri paesi europei (tra cui la Spagna, la Germania e il Regno Unito), ha continuato a indire una gara d’appalto per ogni volo.

      Il sistema degli appalti

      Nei documenti pubblicati dal ministero sui rimpatri via charter verso la Tunisia non compare mai il nome di una compagnia aerea. Le gare d’appalto sono tutte vinte da due società d’intermediazione (o broker), la tedesca Professional aviation solutions (Pas) e la britannica Air partner (acquisita nel 2022 dalla statunitense Wheels up), che si spartiscono il mercato. Le compagnie aeree forniscono i mezzi e il personale senza i quali i rimpatri sarebbero impossibili, ma sono i broker a permettere che la macchina dei rimpatri giri senza sosta.

      Fino alla fine del 2023, per ogni volo charter di rimpatrio il ministero pubblicava il testo della gara d’appalto (“determina”) per un volo programmato in genere una settimana dopo, e il risultato della gara (“avviso di appalto aggiudicato”). Oltre al nome del broker selezionato, gli avvisi di appalto aggiudicato indicavano il numero di offerte ricevute dal ministero dell’interno per il volo in questione (spesso due, a volte una) e il costo dell’offerta selezionata. Il nome della compagnia che avrebbe operato il volo, e intascato quindi il grosso di quella cifra, non era precisato.

      Alle nostre domande la segreteria del dipartimento della pubblica sicurezza ha risposto di “non avere contatti diretti” con Aeroitalia, dato che “l’affidamento del servizio al vettore individuato tra quelli con l’offerta migliore avviene attraverso una società terza – ‘broker’”. E infatti, cercando sul sito del ministero dell’interno i documenti relativi al volo Roma-Palermo-Tabarka del 20 luglio 2023, scopriamo solo che l’appalto è stato vinto dalla Pas con un’offerta di 115.980 euro.

      Inoltre, fino alla fine del 2023 gli avvisi di appalto aggiudicato precisavano che il subappalto non era possibile. Eppure il servizio di trasporto aereo era eseguito da un terzo (il vettore) rispetto all’aggiudicatario, ovvero il broker. Sempre fino alla fine del 2023, la procedura di appalto non era aggiornata: gli avvisi di appalto aggiudicato contenevano la lista degli operatori economici invitati a partecipare alla gara, lista che includeva Mistral air (diventata Poste air cargo nel 2019), Meridiana (che ha chiuso nel 2018) e il broker Astra associated services (che risulta in liquidazione).

      Per i voli operati dall’inizio del 2024 il ministero dell’interno ha modificato i documenti disponibili sul sito. Sono sempre presenti i bandi delle gare d’appalto (con la novità che una gara può riguardare due voli operati la stessa settimana – il primo da Trieste, il secondo da Roma – e che la spesa massima dev’essere inferiore a 110mila euro invece dei precedenti 140mila euro), mentre sono spariti gli avvisi di appalto aggiudicato. Impossibile quindi sapere chi è stato invitato a partecipare alla gara e quante offerte sono state presentate. Sparito anche il riferimento al divieto di subappalto. Tra i nuovi documenti disponibili ci sono i contratti con i broker aggiudicatari, ma neanche qui c’è il nome della compagnia aerea incaricata di operare il volo.

      Questa opacità non caratterizza solo i rimpatri charter dall’Italia. Come riferisce il ricercatore Matthias Monroy, nell’agosto 2023 il ministero dell’interno tedesco, rispondendo a un’interrogazione parlamentare del partito Die Linke, ha definito “confidenziali” i dati sulle compagnie di voli charter che guadagnano con i rimpatri, perché “queste informazioni potrebbero esporre le compagnie a ‘critiche da parte dell’opinione pubblica’, ostacolando le operazioni di rimpatrio”.

      Anche il ministero dell’interno italiano ha respinto la nostra richiesta di conoscere i nomi di queste compagnie, ma dando un’altra spiegazione. La pubblicazione delle offerte ricevute per ogni volo di rimpatrio, in cui oltre al nome del broker compare il nome della compagnia che opererebbe il volo, non sarebbe di interesse pubblico. Abbiamo presentato un’istanza di riesame, e nella sua risposta dell’8 maggio il ministero dell’interno si è limitato a rinviare ai documenti disponibili sul sito.

      Nel frattempo, un intoppo informatico (o, più probabilmente, un errore umano) ha reso possibile la consultazione di due di queste offerte. Il 13 novembre 2023 sono state pubblicate le offerte ricevute dai soliti broker per il volo del 12 ottobre 2023, con partenza da Trieste, scalo a Palermo e arrivo a Tabarka. Fatto sorprendente, sia la Pas sia la Air partner avevano proposto per quel volo un aereo della compagnia spagnola Albastar, chiedendo rispettivamente 71.200 euro e 71.880 euro. Ha vinto la Pas, con l’offerta più bassa, ma Albastar si sarebbe in ogni caso aggiudicata quel volo.

      Tredici voli

      Torniamo ad Aeroitalia. Cercando il volo XZ7744 su FlightRadar, vengono fuori tredici voli operati su Tabarka tra il 20 luglio e il 3 ottobre, nelle stesse date e lungo le stesse tratte indicate nei documenti pubblicati dal ministero dell’interno. Dagli avvisi di appalto aggiudicato, sappiamo che i bandi per quei voli sono stati vinti dalla Pas, e conosciamo la cifra richiesta, come per esempio nel caso del volo del 20 luglio.

      La commissione trattenuta dai broker, secondo un esperto del settore che desidera restare anonimo, è compresa tra il 3 e il 5 per cento. Se ipotizziamo una commissione massima del 5 per cento trattenuta dalla Pas, per quei tredici voli Aeroitalia potrebbe aver incassato quasi 1.380.000 euro. Gli altri due voli Aeroitalia nel 2023 risalgono al 17 gennaio e al 31 gennaio (rintracciati su FlightRadar con il numero XZ8846), sempre per conto della Pas, che ha incassato rispettivamente 71.490 euro e 69.990 euro.

      Da ulteriori ricerche su FlightRadar emerge che Aeroitalia avrebbe cominciato a operare voli di rimpatrio già nel 2022. Ne abbiamo rintracciati il 13 e 18 ottobre, l’8 e il 15 novembre e il 29 dicembre, con i numeri di volo XZ8452, XZ8535 e XZ8846. Nel luglio 2022, quindi poco dopo il lancio della compagnia, l’allora primo velivolo Aeroitalia, il Boeing 737-85f 9h-cri, è stato noleggiato per portare Zubin Mehta e l’orchestra e il coro del Maggio musicale fiorentino a Malaga in occasione di un concerto. Il volo di ritorno ha avuto un ritardo di diciassette ore. In quel lasso di tempo, secondo i dati disponibili su FlightRadar, l’aereo ha effettuato vari spostamenti, tra cui un volo Roma-Bari-Palermo-Tabarka (numero ​AEZ4410).

      Né la Pas né Aeroitalia hanno risposto alle nostre richieste di commento.

      Un’azienda che fa parlare di sé

      Fondata nell’aprile 2022 dal banchiere francese Marc Bourgade e dall’imprenditore boliviano Germán Efromovich, Aeroitalia è guidata da Gaetano Francesco Intrieri, esperto di trasporto aereo e, per un breve periodo nel 2018, consulente dell’allora ministro dei trasporti Danilo Toninelli. Bourgade è una figura poco nota al grande pubblico, mentre in passato sia Efromovich sia Intrieri sono finiti al centro di alcuni processi per reati di corruzione e bancarotta. Efromovich è stato assolto, Intrieri condannato ma la sentenza a due anni e quattro mesi è stata poi cancellata nel 2006 dall’indulto. Dal novembre 2023 Aeroitalia può contare anche sui servizi di Massimo D’Alema, assunto come consulente.

      Dal 2004 al 2019 Efromovich è stato l’amministratore delegato della holding aeronautica latinoamericana Avianca holdings (oggi Avianca group). Determinato a entrare nel mercato italiano, avrebbe voluto acquisire Alitalia, ma ha finito per lanciare Aeroitalia. L’azienda si è fatta rapidamente notare per la disinvoltura con cui chiudeva rotte appena aperte, scatenando le ire di diversi aeroporti, tanto da spingere l’Enac a intervenire con una diffida il 31 ottobre 2023.

      Intervistato dal Corriere della Sera nell’aprile 2022, al momento del lancio della compagnia, Intrieri spiegava che Aeroitalia si sarebbe concentrata da subito sul mercato charter “perché in Italia è semi-morto, ma pure le compagnie aeree charter qui sono semi-morte”. Nello stesso periodo, Marc Bourgade dichiarava all’Air Financial Journal che la nuova compagnia si sarebbe concentrata “prima sui voli charter perché garantiscono ricavi dal giorno in cui otteniamo il certificato di operatore aereo”. E infatti il primo volo operato da Aeroitalia, il 3 maggio 2022, è stato un charter Bologna-Valencia che trasportava la squadra di pallacanestro Virtus Segafredo Bologna.

      Da allora, tra le collaborazioni strette con altre squadre sportive, Aeroitalia è diventata partner ufficiale dell’Atalanta (ottobre 2022), della Lazio (agosto 2023) e della squadra di pallavolo femminile Roma volley club (dicembre 2023).

      Non tutti i voli charter sono uguali

      Ma trasportare squadre di sportivi, o comitive di turisti, è un conto. Un altro è trasportare contro la loro volontà persone verso la Tunisia, paese che secondo esperti e tribunali non può essere considerato sicuro.

      In una ricerca pubblicata nel 2022, il Center for human rights dell’università di Washington ha rivelato come negli Stati Uniti molte squadre sportive e molti artisti viaggiassero a loro insaputa su aerei charter usati in altri momenti per operazioni di rimpatrio spesso violente.

      L’esempio della Tunisia è emblematico: i numeri relativi ai rimpatri danno un’idea della “serializzazione” alla base di questo sistema, osserva l’avvocato Maurizio Veglio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Per sperare di riempire due voli charter a settimana bisogna poter contare su un ampio bacino di persone rimpatriabili. E una persona è tanto più facilmente rimpatriabile quanto limitate sono le sue possibilità non solo di ottenere una qualche forma di protezione, ma perfino di chiederla.

      Rispetto ai cittadini tunisini l’Italia ha agito su entrambi i fronti. Nel 2019 ha inserito la Tunisia nella lista dei cosiddetti paesi di origine sicuri, uno strumento che, pur essendo previsto dal diritto dell’Unione europea (la direttiva procedure del 2013), “è ontologicamente contrastante con la procedura di protezione internazionale, cioè con la valutazione sul diritto del singolo di essere protetto”, denuncia Veglio. Queste liste, adottate anche da altri paesi, oltre che dalla stessa Ue, sono “uno strumento al servizio delle autorità per rendere praticamente automatiche le risposte negative. Si tratta dell’ennesima forzatura che cerca di rendere la valutazione della domanda di protezione internazionale un mero incidente burocratico, da assolvere nel minor tempo possibile, per poter archiviare la procedura e avviare il processo di rimpatrio”.

      Secondo Veglio, l’inserimento della Tunisia nella lista di paesi di origine sicuri “disincentiva le domande di protezione, il cui esito è in parte pregiudicato dalla semplice cittadinanza del richiedente. D’altra parte le persone di nazionalità tunisina che non richiedono la protezione, una volta sbarcate in Italia, ricevono un decreto di respingimento, possono essere trattenute e, in un lasso temporale estremamente ridotto, rischiano il rimpatrio. Il meccanismo è così rapido da vanificare la possibilità di un diritto di difesa effettivo”.

      Wael ne sa qualcosa: arrivato a Pantelleria il 1 giugno 2023, dopo una settimana è trasferito nel cpr di Milo, a Trapani. Gli è concesso di fare una telefonata di un minuto. L’amica che chiama gli consiglia di presentare una domanda di protezione. Ma un altro tunisino detenuto nel centro lo avverte: “Qui non danno più l’asilo”. Nel 2022 il 76,6 per cento delle richieste di protezione presentate da persone di nazionalità tunisina è stato respinto, il tasso di rifiuto più alto dopo quello dell’Egitto (90,3 per cento) e del Bangladesh (76,8 per cento).

      In seguito due agenti di polizia si presentano accompagnati da una traduttrice marocchina, che invita Wael a firmare un foglio: “Mi sono rifiutato, e lei mi ha detto che tanto lo avrebbero firmato al mio posto. Allora ho ceduto. Dopo varie settimane trascorse nel centro, ho visto quali erano le nazionalità più espulse. Grazie agli accordi, tunisini ed egiziani sono sempre espulsi: noi il martedì e il giovedì, loro il mercoledì”. Prevedibilmente, la sua domanda di protezione è respinta.

      Attesa e incertezza

      Nei cpr, i giorni scorrono nell’attesa e nell’incertezza. “Eravamo sei in una stanza”, ricorda Wael. “Nessuno ti spiegava nulla. Magari venivano e ti dicevano che sarebbero tornati per portarti dal dottore, oppure dallo psicologo, per verificare se eri davvero minorenne, ma poi non tornavano. Non potevi fidarti di nessuno”. C’è chi non sopporta l’isolamento. “Un tunisino detenuto con noi era talmente depresso che ha provato a darsi fuoco”, racconta Wael. “Gli hanno messo qualche benda e l’hanno rispedito in stanza”.

      Louay (nome di fantasia) ha vissuto un’esperienza simile, due anni prima. Nel 2021, al momento del suo arrivo in Italia e della sua immediata detenzione, la pandemia era ancora in corso. Prima di procedere a un rimpatrio, le autorità dovevano fare un tampone per il covid. Louay e altri si sono rifiutati. “Mi hanno minacciato più volte di farmelo con la forza. Quando ho chiesto di poter parlare con il mio avvocato, mi hanno risposto: ‘Fai il test e poi potrai chiamarlo’. Stessa cosa se volevo parlare con la mia famiglia”. Anche Louay, come Wael, è stato espulso, in circostanze simili. “Una notte, verso le due, ci hanno fatto salire su un autobus senza dirci dove fosse diretto”, ricorda. “Eravamo in venti, tutti tunisini”.

      All’aeroporto di Palermo hanno aspettato varie ore prima di essere imbarcati. L’incontro con il console tunisino è durato pochissimo. “Un minuto al massimo!”, dice Louay. “Gli ho detto che avevo chiesto l’asilo e che non volevo tornare in Tunisia. Ha risposto solo ‘Ok’”.

      “A me ha chiesto da dove venissi in Tunisia e perché fossi venuto in Italia”, dice Wael. “Poi ha aggiunto che saremmo stati tutti espulsi”. Ammanettati, scortati da due agenti di polizia, Wael e Louay hanno affrontato l’ultima tappa: il volo charter.

      Rassegnazione e rivolta

      Le loro testimonianze confermano quanto osservato dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale in anni di monitoraggio di voli di rimpatrio. Secondo l’ex presidente Mauro Palma, “le fasi più problematiche sono quelle che precedono l’arrivo a bordo”: il trasferimento dal centro in aeroporto, spesso senza preavviso, dopo un risveglio brusco, in piena notte o all’alba; l’attesa in aeroporto senza che siano fatte le adeguate verifiche sullo stato di salute fisica e mentale delle persone; l’uso di mezzi contenitivi come le fascette di velcro applicate ai polsi.

      Per citare di nuovo William Walters, che inserisce il fenomeno dei rimpatri aerei nel quadro più ampio della “geografia carceraria”, i voli charter sono anelli di una custodial chain (“catena di custodia”) attraverso la quale le persone sono “trasferite da un ambiente all’altro, da un’autorità alla seguente”. Altri ricercatori parlano di deportation corridor, corridoi della deportazione, per evocare le diverse tappe e dimensioni del fenomeno.

      Una volta scortate a bordo, per le persone costrette a lasciare l’Italia quella del volo è spesso definita la fase della “rassegnazione”, anche perché non esiste un meccanismo di reclamo in caso di abusi o maltrattamenti. A differenza dei voli di rimpatrio coordinati dall’agenzia europea Frontex, che ha introdotto un simile meccanismo nel 2019 (poco efficace, secondo vari esperti), i voli charter organizzati dalle autorità italiane non offrono una reale “possibilità di reclamo”, conferma Mauro Palma.

      Come nel caso dei centri per il rimpatrio, può succedere che il garante raccolga dei reclami, per poi trasmetterli al ministero dell’interno, ma è uno scambio informale, privo di conseguenze per la persona che ha voluto denunciare un abuso, e non permetterà di alimentare statistiche ufficiali su queste denunce. E senza dati, il problema non esiste.

      Infine, non bisogna dimenticare che su quei voli il rapporto di forza – due o tre agenti di scorta per ogni persona rimpatriata – è molto più squilibrato rispetto a quanto accade nei cpr, dove le rivolte non solo scoppiano, ma possono portare alla chiusura parziale o totale della struttura detentiva, come ha dimostrato ancora una volta la rivolta nel cpr di Milo-Trapani a febbraio 2024 (ricostruita da diverse associazioni in un comunicato pubblicato sul sito di Melting Pot Europa).

      Campagne di denuncia

      Anche quando non sono teatro di violenze fisiche, i rimpatri forzati sono operazioni violente che “finiscono per colpire la fasce più deboli della popolazione straniera”, osserva Veglio. Quelle fasce escluse, attraverso il sistema discriminatorio dei visti, dai canali della mobilità legale e sicura.

      Come ricorda Yasha Maccanico, l’ossessione dei governi europei per i rimpatri rischia di dilagare grazie alla revisione della direttiva europea sui rimpatri del 2008. Avviata nel 2018, la procedura di revisione è al momento bloccata al parlamento europeo, che non ha ancora raggiunto una posizione comune. Ma secondo Maccanico, il tentativo è quello di presentare “ogni fattore legato allo stato di salute, all’età o ai diritti umani di una persona come un ostacolo rispetto al rimpatrio”, invece di considerarli elementi “che dovrebbero prevalere sulla direttiva rimpatri”.

      Negli ultimi anni in diversi paesi sono state lanciate campagne di denuncia contro le compagnie che partecipano alle operazioni di rimpatrio forzato via charter. Secondo la ricercatrice Sophie Lenoir, dell’organizzazione Corporate watch (che ogni anno dedica un rapporto ai rimpatri forzati via charter dal Regno Unito), queste campagne hanno più probabilità di successo se la compagnia presa di mira “opera anche voli commerciali, e tiene quindi di più alla propria immagine pubblica”.

      Lenoir fa l’esempio di Tui airways (sussidiaria britannica del gruppo tedesco Tui group) che, come Aeroitalia, “propone anche voli commerciali puntando sulle famiglie che partono in vacanza”. Nel Regno Unito, dopo una grossa campagna di denuncia, nel 2022 “Tui ha smesso di collaborare con il ministero dell’interno nel quadro delle operazioni di rimpatrio”, spiega Lenoir, aggiungendo però che una compagnia può interrompere questo tipo di voli “solo temporaneamente, nell’attesa che cali l’attenzione dell’opinione pubblica”.

      Dall’analisi di Lenoir emerge un parallelo tra Italia e Regno Unito: proprio come in Italia le persone di nazionalità tunisina sono da anni tra i principali bersagli dei discorsi ufficiali contro l’immigrazione irregolare, nel Regno Unito lo stesso sta succedendo con la popolazione albanese. “Gli albanesi”, denunciava nel 2022 la filosofa britannico-albanese Lea Ypi, “sono le vittime più recenti di un progetto ideologico che, per mascherare i propri fallimenti politici, espone le minoranze alla stereotipizzazione negativa, alla xenofobia e al razzismo”.

      Quello stesso razzismo denunciato dalle attiviste tunisine, madri e sorelle dei giovani scomparsi o deceduti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, dopo la repressione della rivolta al cpr di Milo: “Ancora una volta, constatiamo l’ingiustizia di una situazione in cui dei giovani sono trattati come criminali per colpa della loro migrazione”, si legge nel loro comunicato, diffuso dall’associazione Mem.Med (Memoria Mediterranea).

      “Nessuno attraversa il mare, sapendo che rischia di morire, senza una buona ragione”, dice Wael, che ha ripreso la via del mare pochi mesi dopo la sua espulsione. “Tanto ero abituato ai tentativi falliti”, commenta con un sorriso. “Avevo già provato a raggiungere l’Europa passando per la Serbia nel 2016-2017. Mi sono sempre detto che prima o poi ce l’avrei fatta. Con quello che guadagnavo in Tunisia è impossibile vivere”.

      “L’emigrazione di migranti tunisini già rimpatriati dà una misura del fallimento degli accordi sui rimpatri tra Italia e Tunisia”, scrive il ricercatore David Leone Suber. “I loro tentativi devono essere interpretati come atti coscienti e sovversivi nei confronti della logica dei rimpatri”.

      La terza volta, a fine dicembre del 2023, Wael è partito dalla città tunisina di Biserta: “Eravamo in 84, ci hanno divisi su due gommoni, diretti in Sardegna. Ci sono volute venti ore. È stato un viaggio lungo e stancante. Per l’ultimo tratto siamo stati scortati dall’esercito italiano”. A terra, Wael è stato trasferito in un centro. “Verso le quattro del mattino sono scappato. Ho camminato per alcuni chilometri fino a un’altra città…”. Dopo varie tappe, è riuscito ad arrivare in Francia. Ora vive a Parigi, dove lavora in nero come corriere per Deliveroo, nell’attesa di riuscire a regolarizzare la sua situazione.

      Sentendo queste storie, è difficile credere che fino agli anni novanta, ovvero fino ai “primi decreti sull’introduzione di visti e restrizioni per i cittadini di paesi terzi”, esisteva “il libero movimento di persone tra Italia e Tunisia”, come ricorda Suber. Ora quel periodo sembra lontano anni luce (come lontanissima sembra l’epoca tra le due guerre mondiali, evocata in un recente articolo dalla politologa Speranta Dumitru, in cui gli europei odiavano una recente invenzione chiamata passaporto).

      Il 27 marzo 2024 il ministero dell’interno italiano ha pubblicato una consultazione di mercato diversa: sette anni dopo l’esito deludente della gara Consip, il Viminale cerca candidati per un servizio di “trasporto aereo di migranti irregolari” della durata di 36 mesi. Le “manifestazioni di interesse” andavano mandate entro il 17 aprile. Come si legge nella nota tecnica, le destinazioni principali saranno la Tunisia e l’Egitto. Se andrà in porto, la gara d’appalto sarà vinta da un broker, e si porrà di nuovo il problema della mancata trasparenza sui nomi delle compagnie aeree coinvolte.

      https://www.internazionale.it/reportage/haifa-mzalouat/2024/06/24/voli-rimpatrio-italia-tunisia

  • Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

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    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

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    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

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    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

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    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

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    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

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    #accueil #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #business #Gradisca_d'Isonzo #Italie #CPR #Vakhtang_Enukidze #Enukidze #Simone_Borile #Ecofficina-Edeco #Ecofficina #Edeco #Cona #Bagnoli #Ekene #Macomer #coopérative #Ecofficina_Educational #Sara_Felpati #Gaetano_Battocchio #Ecofficina_Servizi #Due_Carrare #CPA #CAS #SAI #centri_di_prima_accoglienza #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #Centri_di_accoglienza_straordinaria #Edeco #Annalisa_Carraro #Ecos #Food_Service #Sandrine_Bakayoko #Tuendelee #Oderzo #caserma_Zanusso #Caltanissetta #Badia_Grande

  • Migranti, i sindaci delle grandi città contro il governo: «Scelte sbagliate che ledono i diritti: non si cancelli la protezione speciale»

    I sindaci delle maggiori città italiane (di centrosinistra) di nuovo contro il governo Meloni. Oggetto della discussione, ma anche (e soprattutto) di preoccupazione: la gestione dell’immigrazione, in particolare, il sistema di accoglienza e la cancellazione della protezione speciale per i migranti. «Come sindaci, come amministratori, come cittadini che quotidianamente si impegnano nei territori per cercare di garantire le migliori risposte alle criticità che le nostre Comunità esplicitano, siamo molto preoccupati per le proposte in discussione relative alle modifiche all’unico sistema di accoglienza migranti effettivamente pubblico, strutturato, non emergenziale che abbiamo in Italia», si legge in un documento congiunto sul decreto Cutro che porta le firme dei sindaci di #Roma, #Roberto_Gualtieri, di #Milano #Beppe_Sala, di #Napoli #Gaetano_Manfredi, di #Torino #Stefano_Lorusso, di #Bologna, #Matteo_Lepore e di #Firenze, #Dario_Nardella. «La preoccupazione delle città – si legge nel documento – è massima a fronte di emendamenti proposti da alcuni partiti al DL 591 dopo le tante evidenze a cui il nostro ordinamento ha dovuto porre rimedio in questi anni». Secondo il fronte dei sindaci dem, l’esecutivo non deve «ragionare in ottima emergenziale: è sbagliato immaginare l’esclusione dei richiedenti asilo dal Sai, precludendo loro qualunque percorso di integrazione e una reale possibilità di inclusione ed emancipazione nelle nostre comunità».

    «No alla cancellazione della #protezione_speciale»

    Sala, Gualtieri, Manfredi, Lo Russo, Lepore e Nardella non condividono la cancellazione della protezione speciale, confermata anche ieri, sabato 15 aprile, dalla stessa premier Meloni durante il suo viaggio in Etiopia. Per i sindaci delle maggiori città si tratta, infatti, di «una misura presente in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, mentre circa il 50% dei migranti presenta vulnerabilità ed è in parte significativa costituito da nuclei familiari. Queste scelte, qualora adottate, non potrebbero che procurare infatti una costante lesione dei diritti individuali e innumerevoli difficoltà che le nostre comunità hanno già dovuto affrontare negli anni scorsi, a fronte di un importante aumento di cittadini stranieri condannati appunto all’invisibilità», si legge nel documento congiunto. Tutto questo – scrivono i primi cittadini – «mentre il sistema dei Cas, mai uscito da un assetto emergenziale, è saturo e purtroppo inadeguato ad accogliere già oggi chi proviene dai flussi della rotta mediterranea come da quella balcanica. Insufficiente, sia per numeri sia per le modalità d’accoglienza sia per i servizi di accompagnamento, protezione ed inclusione, assenti. E in questo quadro occorre ripensare anche il sistema di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati cui occorre applicare logiche distributive che evitino la concentrazione nelle sole grandi città», prosegue il documento dei sindaci.

    «Le nostre città sono infatti impegnate già oggi, spesso con sforzi oltre i propri limiti e frequentemente oltre le proprie funzioni e competenze, a porre rimedio con risorse proprie alle manchevolezze di un sistema nazionale adeguato. La soppressione della possibilità di costruire un unico sistema di accoglienza pubblico, trasparente e professionale (come il Sai), garantendo percorsi dignitosi e tutelanti anche per le persone richiedenti protezione internazionale, non può comportare la nascita di nuovi grandi centri di accoglienza o detenzione nei nostri territori. La storia degli ultimi vent’anni di accoglienza in Italia dimostra chiaramente come modelli emergenziali, con standard qualitativi minimi e volti al mero “vitto e alloggio” abbiano procurato ferite enormi nelle nostre comunità e non abbiano garantito diritti esigibili alla popolazione rifugiata. E soprattutto abbiano fallito processi di inclusione efficaci e duraturi», prosegue il documento.

    Le proposte

    Dopo questa lunga premessa, i sindaci dem hanno poi avanzato delle proposte sul tema. «1. Sia rinforzata l’unitarietà del Sistema di Accoglienza italiano, valorizzando l’esperienza virtuosa del Sai, ovvero supportando attivamente la rete dei Comuni che quotidianamente affrontano in prima persona le sfide che i movimenti migratori in ingresso sottopongono ai nostri servizi, ai nostri territori e alle nostre comunità. Con un solo obiettivo: garantire percorsi di effettiva inclusione e tutela compatibili con i territori, evitando grandi centri di accoglienza, senza servizi e senza tutele, per tutti», scrivono. «2. Il Sai rimanga accessibile a richiedenti protezione e rifugiati». I primi cittadini chiedono poi che i Cas, ovvero i centri di accoglienza straordinari, vengano trasformati «in hub di prima accoglienza, dedicati alle procedure di identificazione e di screening sanitario per poi procedere a trasferimenti rapidi nel sistema di seconda accoglienza ed inclusione, appunto il Sai».

    Al punto 4, i sei amministratori chiedono inoltre che «vengano ripristinati i criteri di riparto che il Piano nazionale di accoglienza aveva indicato. In assenza di azioni positive mirate o, peggio, con azioni sbagliate, le ricadute saranno infatti l’irregolarità diffusa o lunghi percorsi di ricorsi giudiziari che paralizzeranno le vite di molte persone inabilitandole e rendendole facili prede del lavoro nero, che invece non manca». Infine, «ci auspichiamo – continuano – che ancora una volta l’Italia non si contraddistingua per una regressione relativa al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: da troppi anni questo tema necessita di una riforma importante e strutturale, che miri ad un equilibrio nazionale del sistema di accoglienza imprescindibile dal coinvolgimento dei Comuni e dagli obiettivi di inclusione, protezione e con una diffusione omogenea a livello nazionale. Siamo convinti, insieme ad altre voci autorevoli, che dopo circa vent’anni e anche alla luce di alcuni temi di strutturale cambiamento demografico e sociale non si debba continuare a parlare di emergenza e che proprio in questo momento occorra la lungimiranza di aprire una discussione per scegliere una via legale all’immigrazione e alla regolarizzazione degli immigrati già presenti in Italia, anche attraverso il ricorso allo ius scholae, premessa a comunità solidali, capaci di proporre percorsi di vera emancipazione e autonomia alle persone nel pieno interesse del nostro Paese», concludono i sindaci.

    https://www.open.online/2023/04/16/immigrazione-sindaci-grandi-citta-vs-governo-meloni

    #Italie #villes-refuge #decreto_Cutro #villes #Naples #Turin #Milan #Rome #Florence #Bologne #résistance #protection_spéciale

  • Si formano a Gaeta le forze d’élite della famigerata Guardia Costiera libica

    Non bastava addestrare in Italia gli equipaggi delle motovedette libiche che sparano sui migranti nel Mediterraneo o li catturano in mare (oltre 15.000 nei primi sette mesi del 2021) per poi deportarli e torturarli nei famigerati centri di detenzione / lager in Libia. Dalla scorsa estate è nella #Scuola_Nautica della #Guardia_di_Finanza di #Gaeta che si “formano” pure le componenti subacquee di nuova costituzione della #Guardia_Costiera e della #General_Administration_for_Coastal_Security (#GACS).

    La presenza a Gaeta delle unità d’élite della #Libyan_Coast_Guard_and_Port_Security (#LCGPS) dipendente dal Ministero della Difesa e della GACS del Ministero dell’Interno è documentata dall’Ufficio Amministrazione - Sezione Acquisti della Guardia di Finanza. Il 18 giugno 2021 l’ente ha autorizzato la spesa per un servizio di interpretariato in lingua araba a favore dei sommozzatori libici “partecipanti al corso di addestramento che inizierà il 21 giugno 2021 presso la Scuola Nautica nell’ambito della Missione bilaterale della Guardia di Finanza in Libia”. Nell’atto amministrativo non vengono fornite informazioni né sul numero degli allievi-sub libici né la durata del corso, il primo di questa tipologia effettuato in Italia.

    Dal 29 agosto al 29 settembre del 2019 ne era stato promosso e finanziato uno simile a #Spalato, in Croazia da #EUNAVFOR_MED (la forza navale europea per le operazioni anti-migranti nel Mediterraneo, meglio nota come #Missione_Irini). Le attività vennero svolte in collaborazione con la Marina militare croate e riguardarono dodici sommozzatori della Guardia costiera e della Marina libica.

    A fine ottobre 2020 un’altra attività addestrativa del personale subacqueo venne condotta in Libia da personale della Marina militare della Turchia, provocando molte gelosie in Italia e finanche le ire dell’(ex) ammiraglio #Giuseppe_De_Giorgi, già comandante della Nato Response Force e Capo di Stato Maggiore della Marina Militare dal 2013 al 2016.

    “In un tweet, la Marina turca riferisce che le operazioni rientrano a pieno nel novero di attività di supporto, consultazione e addestramento militare e di sicurezza incluse nell’accordo raggiunto nel novembre del 2019 tra il GNA tripolino e Ankara: non può sfuggire come questo avvenimento sia un ulteriore affondo turco a nostre spese e l’ennesimo spregio all’Italia”, scrisse l’ammiraglio #De_Giorgi su Difesaonline. “Nelle foto allegate al tweet, infatti, sono presenti le navi che proprio l’Italia nel 2018 aveva donato alla Libia in seguito all’accordo siglato con il primo #Memorandum che avrebbe previsto da parte nostra la presa in carico della collaborazione con la Guardia Costiera libica, non solo per tenere a bada il fenomeno migratorio in generale, ma soprattutto per dare un freno al vergognoso traffico di esseri umani. In particolare, si può vedere la motovedetta #Ubari_660, gemella della #Fezzan_658, entrambe della classe #Corrubia”.

    “Oltre al danno, anche la beffa di veder usare le nostre navi per un addestramento che condurrà un altro Stato, la Turchia”, concluse l’ex Capo di Stato della Marina. “Mentre Erdogan riporta la Tripolitania nella sfera d’influenza ottomana si conferma l’assenteismo italiano conseguenza di una leadership spaesata, impotente, priva di autorevolezza, inadeguata”.

    Le durissime parole dell’ammiraglio De Giorgi hanno colpito in pieno il bersaglio; così dal cappello dell’esecutivo Draghi è uscito bello e pronto per i sommozzatori libici un corso d’addestramento estivo a Gaeta, viaggio, vitto e alloggio, tutto pagato.

    Il personale dell’ultrachiacchierata Guardia costiera della Libia ha iniziato ad addestrarsi presso la Scuola Nautica della Guardia di Finanza nella primavera del 2017. Trentanove militari e tre tutor giunsero in aereo nella base dell’aeronautica di Pratica di Mare (Roma) il 1° aprile e vennero poi addestrati a Gaeta per un mese. “A selezionarli sono stati i vertici della Marina libica tra i 93 militari che hanno superato il primo modulo formativo di 14 settimane, svolto nell’ambito della missione europea Eunavformed, a bordo della nave olandese Rotterdam e della nostra nave San Giorgio”, riportò la redazione di Latina del quotidiano Il Messaggero.

    Nella scuola laziale i libici furono formati prevalentemente alla conduzione delle quattro motovedette della classe “#Bigliani”, già di appartenenza della Guardia di Finanza, donate alla Libia tra il 2009 e il 2010 e successivamente riparate in Italia dopo i danneggiamenti ricevuti nel corso dei bombardamenti NATO del 2011. Le quattro unità, rinominate #Ras_al_Jadar, #Zuwarah, #Sabratha e #Zawia sono quelle poi impiegate per i pattugliamenti delle coste della #Tripolitania e la spietata caccia ai natanti dei migranti in fuga dai conflitti e dalle carestie di Africa e Medio Oriente.

    Per la cronaca, alla cerimonia di chiusura del primo corso di formazione degli equipaggi libici intervenne a Gaeta l’allora ministro dell’Interno #Marco_Minniti. Ai giornalisti, #Minniti annunciò che entro la fine del mese di giugno 2017 il governo italiano avrebbe consegnato alla Libia una decina di motovedette. “Quando il programma di fornitura delle imbarcazioni sarà terminato la Marina libica sarà tra le strutture più importanti dell’Africa settentrionale”, dichiarò con enfasi Marco Minniti. “Lì si dovranno incrementare le azioni congiunte e coordinate per il controllo contro il terrorismo e i trafficanti di esseri umani: missioni cruciali per tutta la comunità internazionale”.

    Un secondo corso di formazione per 19 ufficiali della Guardia costiera libica venne svolto nel giugno 2017 ancora un volta presso la Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta. Nel corso del 2018, con fondi del Ministero dell’Interno vennero svolti invece due corsi della durata ognuno di tre settimane per 28 militari libici, costo giornaliero stimato 606 euro per allievo.

    Nell’ambito del #Sea_Horse_Mediterranean_Project, il progetto UE di “cooperazione e scambio di informazioni nell’area mediterranea tra gli Stati membri dell’Unione di Spagna, Italia, Francia, Malta, Grecia, Cipro e Portogallo e i paesi nordafricani nel quadro di #EUROSUR”, (valore complessivo di 7,1 milioni di euro), la Guardia di Finanza ha concluso uno specifico accordo con la Guardia Civil spagnola, capofila del programma, per erogare sempre nel 2018 un corso di conduzione di unità navali per 63 libici tra guardiacoste del Ministero della Difesa e personale degli Organi per la sicurezza del Ministero dell’Interno.

    Istituzionalmente la Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta provvede alla formazione tecnico-operativa degli allievi finanzieri destinati al contingente mare, nonché all’aggiornamento ed alla specializzazione di ufficiali impiegati nel servizio navale. In passato ha svolto attività di formazione a favore del personale militare e della polizia della Repubblica d’Albania e della Guardia Civil spagnola.

    L’Istituto ha partecipato anche a due missioni internazionali: la prima sul fiume Danubio, nell’ambito dell’embargo introdotto nel maggio 1992 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro l’allora esistente Repubblica Federale di Jugoslavia; poi, a fine anni ’90, a Valona (Albania) per fornire assistenza e consulenza ai locali organi polizia nella “lotta ai traffici illeciti”.

    Adesso per la Scuola di Gaeta è scattata l’ora dell’addestramento dei reparti d’élite delle forze navali di Tripoli, sommozzatori in testa.

    http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2021/11/si-formano-gaeta-le-forze-delite-della.html

    –-> Articolo pubblicato in Africa ExPress il 30 novembre 2021, https://www.africa-express.info/2021/11/30/addestrata-in-italia-la-guardia-costiera-libica-accusata-di-crimini

    #Gaeta #formation #gardes-côtes_libyens #asile #migrations #réfugiés #Italie #Libye #frontières #Méditerranée #plongeurs

    –---

    Ajouté à la métaiste sur les formations des gardes-côtes lybiens sur le territoire européen :
    https://seenthis.net/messages/938454

    ping @isskein

  • Panique médiatique face aux gilets jaunes
    Pauline Perrenot (avec Maxime Friot) - jeudi 6 décembre 2018 - ACRIMED
    https://www.acrimed.org/Panique-mediatique-face-aux-gilets-jaunes

    C’est peu dire que la tonalité médiatique générale vis-à-vis des gilets jaunes, et celle des éditorialistes en particulier, a changé depuis la journée de mobilisation du samedi 24 novembre, et, plus encore, depuis celle de samedi 1er décembre. Dans un premier temps, les grands éditorialistes se sont interrogés avec condescendance, en donnant parfois l’impression d’observer les gilets jaunes comme de petites bêtes curieuses. Certains se sont mis en scène, en s’engageant ouvertement en faveur d’un mouvement qu’ils pensaient pouvoir résumer à la seule remise en cause d’une taxe sur le carburant [1]. Mais le discours médiatique dominant est désormais tout autre. Face à un mouvement qui s’inscrit dans la durée, à la diversité et à l’ampleur de ses revendications, à sa popularité, face aux violences protéiformes de certaines manifestations et à la situation de crise politique dans laquelle elle est en train de plonger le gouvernement, les grands pontes du système médiatique resserrent les rangs. Depuis la manifestation du samedi 1er décembre, l’heure est au rappel à l’ordre.

    Une chose est sûre : la journée de mobilisation du 1er décembre a fasciné les chaînes d’information en continu qui ont commenté de manière ininterrompue les « scènes de chaos dans Paris »… et beaucoup effrayé les éditorialistes [2]. Devant les menaces que représente le mouvement des gilets jaunes, les gardiens médiatiques de l’ordre social se mobilisent pour prescrire des mesures de « sortie de crise ». Un « journalisme de solutions » qui témoigne de la profonde panique qui gagne les médias dominants – et leurs porte-parole auto-proclamés…

    Des journalistes en conseillers médiatiques du prince
    À commencer par la presse écrite. Dans son éditorial du Figaro, #Alexis_Brézet voudrait se faire calife à la place du calife (03/12). Il fixe pour le gouvernement la « priorité des priorités », à savoir le « rétablissement de l’ordre républicain » après le « désastre national » en employant « y compris la proclamation de l’état d’urgence […] afin que cesse l’intolérable ». Puis il se fait prescripteur de mesures pour « apaiser cette révolte qui fait courir de graves risques à l’équilibre politique et social du pays » : « renouer - tout de suite - le dialogue, et, pour renouer le dialogue, il faudra bien, par quelque bout que l’on prenne la chose, concéder aux "gilets jaunes" un trophée symbolique. »

    L’éditorialiste poursuit en révélant les deux inquiétudes majeures qui l’animent, et à travers lui, l’ensemble de la noblesse médiatique. La première, le blocage des futures réformes : « Plus le temps passe, plus le prix à payer pour rétablir le calme sera élevé. Et plus la capacité du gouvernement à mener demain la moindre (vraie) réforme sera entamée. » La seconde, la crainte que se matérialise dans les esprits une conscience de classe un peu trop appuyée : « [Dans] nos démocraties mijotent tous les ingrédients d’une nouvelle lutte des classes qui met à rude épreuve la cohésion des nations. […] C’est sans doute que le vieux clivage droite-gauche, à côté de tant de défauts, avait aussi quelques qualités : en récusant la froide logique des intérêts, il permettait au pays de s’affranchir en partie des affrontements de classe. » Une crainte qui explique la violence de ses confrères, dont #Gaëtan_de_Capèle qui signait le 1er décembre un éditorial digne d’une production de chien de garde aguerri :

    Combien de temps encore la France pourra-t-elle supporter le psychodrame des « gilets jaunes » ? Tout a été dit sur les ressorts de cette jacquerie numérique. Aussi compréhensif soit-on pour ce qu’ils incarnent, les « gilets jaunes » sont engagés dans une surenchère qui conduit tout droit dans une impasse. Exactions inexcusables, revendications abracadabrantesques, mépris des institutions… tout cela déconsidère leur combat.

    Tout comme les défigurent les éditoriaux du Figaro…

    #Le_Monde n’est pas en reste : #Jérôme_Fenoglio pointe « une impuissance de dix ans à réellement répondre aux conséquences de la crise de 2008 » et une « faillite des gouvernements successifs, [qui] a laissé prospérer la colère sur le plus puissant des ferments, le sentiment d’injustice, à la fois territorial, fiscal et social. » Un constat qui ne le conduit évidemment pas à remettre en cause ni la légitimité ni le fond des politiques libérales menées depuis (plus de) dix ans – et pour cause, le quotidien de référence s’en étant systématiquement fait le relais – mais à d’abord accuser « l’instabilité » des gilets jaunes qu’il peine à cerner, avant d’en appeler à… une réforme, pour poursuivre les réformes !

    [Il y a une] instabilité permanente chez les protestataires, où les revendications s’accumulent et finissent par s’annihiler à force d’être contradictoires, où les porte-parole sont délégitimés à la seconde où ils apparaissent, où la discussion permanente ne permet ni de s’entendre entre soi ni d’écouter ce que pourraient proposer les gouvernants. C’est encore plus compliqué face à un pouvoir exécutif qui n’arrive pas à se libérer des multiples disruptions qu’il avait théorisées pour construire son nouveau monde. […] La page blanche sur laquelle devaient s’écrire les réformes est devenue une scène désertée que le parti présidentiel ne parvient pas à occuper. […] Le courage réformateur mis en avant se heurte à l’image de « président des riches » accolée en raison des premières décisions fiscales, notamment sur l’ISF. Il sera difficile d’en sortir sans amender en profondeur un mode de gouvernance […]. Cette réforme-là est la plus exigeante de toutes : elle commence par soi-même pour parvenir enfin à convaincre les autres.

    Au #Parisien, #Stéphane_Albouy en appelle quant à lui à Emmanuel Macron pour « trouver les mots et les réponses concrètes de nature à apaiser le pays. » (03/12). En bon conseiller en communication gouvernementale, il analyse ensuite cette démarche : « Il ne s’agirait pas ici d’un recul mais d’un geste indispensable pour que le reste du quinquennat ne soit pas hypothéqué et que des réformes aussi nécessaires que celles de l’assurance chômage ou des retraites puissent être un jour engagées par ce gouvernement. » Dès le lendemain, visiblement inquiet de l’inaction du gouvernement, un second éditorialiste, #Nicolas_Charbonneau, cherche d’autres interlocuteurs pour parvenir à ce que le quotidien appelle de ses vœux, « l’union nationale » (04/12) : « La sortie de crise viendra probablement d’hommes et de femmes responsables, de ceux qui écoutent, prennent des décisions et les assument. De ceux qui proposent et construisent, pas de ceux qui commentent. » Et à en croire sa une du 4 décembre, Le Parisien a une solution toute trouvée :


    
Choisir comme « réponses » à cette crise les « propositions » du patron du Medef, il fallait le faire ! Si nous n’osons penser que la rédaction du Parisien ignore les enjeux de classe qui se jouent dans le mouvement des gilets jaunes, on peut dire avec certitude qu’elle a, dans ce jeu-là… choisi son camp !

    Il en va de même à #France_Info, où #Olivier_de_Lagarde cherche une sortie de crise en parlementant avec… #Pierre_Gattaz :

    Pierre Gattaz, comment expliquer finalement ce désespoir ? Quand on se met à casser, certes on est en colère mais on n’est pas seulement en colère contre l’augmentation de 6 centimes du gasoil ! […] La question, c’est de savoir tout de même si à partir d’aujourd’hui, les réformes vont être possibles ou est-ce que finalement le gouvernement va être complètement bloqué ? (« Les informés », 1er décembre)

    Sur #BFM-TV (03/12), le jeu est le même, et si #Bruno_Jeudy prône une « inflexion sociale », elle n’est encore une fois qu’instrumentale : « Faire une inflexion, mettre un genou à terre, accepter de reculer, l’expliquer et peut-être de relancer un quinquennat qui aujourd’hui effectivement est en train de… de… de se jouer dans les heures qui viennent. » Une position qui fait écho aux propos que le même #Laurent_Neumann tenait quelques jours plus tôt : « Le problème, c’est que si Emmanuel Macron cède aujourd’hui, il n’y a plus de réforme d’assurance-chômage, il n’y a plus de réforme de la fonction publique, il n’y a plus de réforme des retraites ! » [3].

    La même ligne est prescrite en continu sur BFM-TV par #Ruth Elkrief, communicante de la première heure du gouvernement macroniste, qui n’hésite pas à reprendre sévèrement le moindre faux pas d’une consœur qui paraîtrait desservir un peu trop le gouvernement :

    - #Anna_Cabana : Alors moi ce que je retiens de la journée, c’est cette phrase d’un ami d’Emmanuel Macron qui dit : « Au fond les gilets jaunes, c’est irrationnel, mais il faut enfourcher la fureur des temps ». […]
- #Ruth_Elkrief : Pardonnez-moi Anna, non mais c’est exactement qu’Emmanuel Macron a un problème de communication avec les gilets jaunes. […] Si je peux traduire, ce que devrait dire le premier ministre demain [pour] se sortir d’une telle crise en ayant quand même… sans perdre trop la face, c’est : « il faut lâcher parce que comme ça on pourra continuer à réformer le pays, sinon on pourra pas continuer ». Donc c’est une façon de dire qu’en fait, on ne renonce pas à continuer à réformer le pays mais que, on ne pourrait pas si on ne lâchait pas, et donc ça sera la façon à partir de demain d’expliquer. […] Ça aurait pu être une crise beaucoup plus contenue et beaucoup plus minime si ça avait été négocié et géré tout de suite.

    Le gouvernement remercie pour la traduction.

    En quête désespérée de paix sociale depuis dimanche, les éditorialistes incarnent ainsi à l’extrême un de leurs rôles médiatiques traditionnels : celui de gardien de l’ordre social. Désormais prescripteur des mesures de « sortie de crise », ce « journalisme de solutions » est le signe d’une profonde panique : celle de voir remis en cause un ordre social, économique et politique que les médias dominants ont contribué à légitimer depuis des décennies, en soutenant quasi unanimement les vagues de réformes structurelles menées par les gouvernements successifs depuis les années 1980 [4] ; et celle de voir vilipendé le candidat incarnant cette fièvre « réformatrice » auquel ils auront fait beaucoup de publicité lors de la campagne présidentielle et dont ils relaient assidûment la communication et la « pédagogie » depuis [5]. Une telle déstabilisation douche ainsi une grande partie des espoirs médiatiquement soutenus, nés avec Emmanuel Macron, et provoque le désarroi : quid de la « faisabilité » des prochaines réformes dans un tel contexte de crise ? Quelle « personnalité » à sa place pour « maintenir le cap » dans un tel contexte de défiance vis-à-vis de la classe politique et après que les grands médias ont affiché des mois durant la promesse du « nouveau monde » ?

    C’est à la lumière de ces différents éléments que l’on peut comprendre les réactions des éditorialistes des médias dominants, relativement homogènes, allant de l’indignation à la panique, en passant par des conseils et des méthodes pour « sortir de la crise ». L’heure est chez eux au calcul politicien et au mépris de classe : si certains d’entre eux réclament des « gestes forts » ou des mesures en faveur des gilets jaunes, ce n’est évidemment pas au nom d’une quelconque justice sociale, mais uniquement par charité symbolique qui, selon eux, fera taire la colère.

    Des journalistes arbitres de la légitimité des revendications
    Face à la menace du mouvement des gilets jaunes, les éditorialistes ne se contentent pas de se faire conseillers du prince et prescripteurs de solutions de sortie de crise ; ils s’attachent également à distinguer les revendications légitimes du mouvement… des autres, qu’il convient de démonter en règle.

    Sur le plateau du JT de France 2 (01/12) aux côtés de #Nathalie_Saint-Cricq, #Justine_Weyl, journaliste au service économique de la rédaction, passe au crible la revendication de hausse du SMIC formulée par les gilets jaunes :

    Sur l’augmentation du SMIC à 1300€ net par exemple, ça parait assez improbable [parce qu’] une telle augmentation de 10% coûterait des millions aux entreprises mais aussi à l’État […] Peu de chance donc que ce vœu soit exaucé. […] En revanche d’autres revendications sont plausibles et rejoignent même des objectifs du gouvernement.

    #Alexandra_Bensaïd, également présente comme « experte » en économie, corrobore :

    Qu’est-ce qui est réaliste, est-ce que augmenter le SMIC c’est réaliste ? C’est certain que pour les économistes ça améliore le pouvoir d’achat ; mais d’un autre côté augmenter le SMIC c’est un chiffon rouge pour les employeurs ; les plus éloignés de l’emploi auraient encore plus de risque de ne pas être recrutés ; or faire baisser le chômage, c’est à la fois une revendication des gilets jaunes et c’est aussi un but du gouvernement. […] L’impossibilité ce soir, c’est bien de répondre à l’ensemble des protestataires.

    La journaliste donne ainsi son verdict d’impossibilité des hausses de salaire… en reprenant mot pour mot les arguments du patronat.

    Même posture chez #Jean-Claude_Dassier, qui rivalise d’arrogance sur #CNews (03/12) : « Tout n’est pas possible. C’est pas le pays des mille et une nuits ! Il n’y a pas d’argent dans ce pays autant que le souhaiteraient… on le souhaite tous d’avoir des augmentations ! »

    Des propos si émouvants que nous proposons de lancer une campagne : une augmentation pour Jean-Claude Dassier https://boutique.acrimed.org/don-soutien !

    Sur #BFM-TV (03/12), #Nathalie_Lévy tente quant à elle de raisonner Jean-François Barnaba, gilet jaune, présent en plateau :

    - Nathalie Lévy : Vous savez bien que la liste elle est trop longue pour que tout soit validé ! […] Alors… les trois [mesures] plus urgentes alors, dites-nous !
- Jean-Francois Barnaba : La baisse des taxes, la baisse [il insiste], […] l’augmentation des salaires et des pensions, la restauration des services publics, la démocratisation des institutions et […] la restauration de l’ISF. […]
- C’est pas de même nature, et tout ne sera pas possible. […] Tout sera pas possible en même temps, là, en l’espace d’une semaine, on pourra pas avoir la baisse des taxes, on pourra pas avoir l’augmentation des salaires, tout sera pas jouable, tout sera pas acceptable pour le gouvernement !

    Enfin, sur le plateau de #Pascal_Praud sur CNews (03/12), les ténors du système médiatique qui discutent chaque jour entre amis prescrivent à leur tour ce qui est faisable… ou non :

    - Pascal Praud : Par exemple, les APL. C’est vrai, Gérard Leclerc, quand on a dit « baisse de cinq euros », ça ne nous a pas paru, cinq euros, une somme à ce point énorme que les Français aillent dans la rue ! Mais au-delà des cinq euros, il y avait quelque chose de symbolique manifestement, c’est un fait personne ici n’est monté au créneau pour les cinq euros de manière aussi importante…
    
- Gérard Leclerc : […] C’est-à-dire… il faut mettre les choses à plat sur la fiscalité. Mais faut bien voir qu’on ne peut pas faire n’importe quoi, tout et son contraire. Vous ne pouvez pas dire d’un côté « on baisse les impôts », les impôts et les taxes, et d’un autre côté « on maintient voire on développe un certain nombre… par exemple les dépenses euh les investissements publics, les dépenses publiques, les aides sociales etc. »

    Ajoutons également le propos de #Nicolas_Doze sur BFM-TV le 5 décembre, qui se résume en une phrase :



    Avec, à la clé, un argument sans faille :

    Des #journalistes organisateurs du « dialogue social »
    Autre préoccupation des #éditocrates : trouver des interlocuteurs pour leurs débats médiatiques, mais également pour le gouvernement. Car les grands #médias, qui peinent à comprendre le mouvement des gilets jaunes, ont également des difficultés à identifier, sélectionner ou légitimer des porte-parole susceptibles de devenir de bons clients médiatiques [6]. Cela tient à plusieurs raisons : la pluralité des interlocuteurs qui jamais – ou rarement – ne se revendiquent comme « porte-parole » sur les plateaux ; ou encore la multiplication et la diversité des revendications mises en avant selon les gilets jaunes invités.

    Tant est si bien qu’on assiste à une situation surprenante : certains éditorialistes en arrivent à regretter les « corps intermédiaires », en particulier les syndicats, qu’ils malmènent pourtant le reste du temps en période de mobilisations sociales !

    La remise en cause des corps intermédiaires, systématiquement contournés depuis le début du quinquennat, est un handicap majeur, alors qu’ils seraient si cruciaux pour canaliser un conflit social de ce type. (#Le_Monde, 4/12) [7]

    Et c’est bien là un problème majeur auquel sont confrontés les éditorialistes : le bouleversement des règles du fameux « #dialogue_social » institutionnalisé, dont le commentaire (interview à l’issue des réunions, description des rebondissements et des positions syndicales et gouvernementales, etc.) résumait traditionnellement la couverture qu’ils font des mobilisations sociales en tant que spectateurs et arbitres des négociations.



    Désormais, les éditorialistes semblent se vivre non seulement plus comme arbitres, mais également acteurs du « dialogue social », remplaçant au pied levé les « #partenaires_sociaux » défaillants. Avec des propos qui témoignent, ces derniers jours, d’une véritable violence de classe qui se décuple.

    Ainsi de #Christophe_Barbier sur BFM-TV (03/12) :

    La première solution politique, c’est de dialoguer avec tout le monde et d’annoncer des choses concrètes. […] S’ils obtiennent quelque chose de concret, notamment symbolique, c’est-à-dire la suppression de la hausse des taxes prévue en janvier sur le carburant, eh bien ils annoncent le renoncement à une manifestation à Paris, samedi, pour éviter les violences. Qu’ils retournent dans les petites villes, dans les villages, sur les ronds-points, dans la proximité avec les gens comme le 17 novembre, et qu’ils arrêtent de fantasmer sur la prise de la Bastille, même si c’est l’Arc de triomphe.

    Face à l’absence de négociation, Nathalie Saint-Cricq perd également patience sur le plateau du #JT de #France 2 (02/12) :

    Édouard Philippe doit négocier avec des gens qui ne sont pas organisés. On l’a dit, toute cette semaine, ce soir, ils sont en train de téléphoner – je les ai eus tout à l’heure – aux huit gilets jaunes. On leur répond : « non, je peux pas venir ce jour là parce que je travaille, parce que j’ai les enfants jusqu’à 18h… » Donc négocier avec des gens qui n’ont pas envie de négocier c’est quelque chose d’assez compliqué [8].

    #Jean-Michel_Aphatie n’est pas en reste dans la matinale d’#Europe_1 (04/12) :

    Nous n’avons aucun interlocuteur crédible pour représenter un mouvement qui génère une violence immense et qui menace la nation. [...] C’est une forme d’irresponsabilité́ politique que nous n’avons jamais connue.

    Dans l’émission #Punchline (03/12), #Jean-Claude_Dassier sermonne les gilets jaunes :

    Les gilets jaunes refusent même d’aller énoncer leurs revendications et négocier ou discuter ! […] Je pense qu’il est plus que temps pour ce mouvement, qui a sa légitimité, qui a ses raisons, de se structurer, y a pas de mouvement qui ait un avenir politique et social s’il ne se structure pas ! […] Je souhaite surtout que […] le contact ait lieu évidemment et que surtout il soit positif, qu’on enchaîne vite. Parce qu’il y a déjà eu beaucoup de temps de perdu, maintenant il faut accélérer. Encore une fois, la France peut pas supporter un week-end prochain comme celui que nous avons vécu.

    Et on peut dire que l’éditorialiste ne perd pas de temps. En direct du plateau, il amorce lui-même une séance de négociation avec José Espinoza, pour le moins surréaliste, qui synthétise ce mépris de classe :
    - José Espinoza : Donnez de l’argent sonnant et trébuchant et vous verrez que le mouvement… [Coupé]
- Jean-Claude Dassier : 200 euros et c’est fini ?!
- J.E : 200 euros pour le SMIC.
- J-C. D : Et c’est terminé ? Bon, on a là une négociation. 200 euros pour le SMIC, on va téléphoner à Matignon, on a la clé. On va bien trouver 200 euros…
- J.E : Il a bien trouvé 40 milliards pour le CICE.
- J-C. D : D’accord ! Pour combien de personnes à votre avis, à vue de nez ? 200 euros pour combien de personnes ?
- J. E : Oh eh bien pour l’ensemble des smicards, ils sont nombreux. Et il y a 40 milliards à récupérer du CICE […] alors qu’on le donne aux patrons sans contrepartie !

    Si certains n’hésitent donc pas à conseiller le gouvernement voire à négocier pour lui, l’errance du Premier ministre et du président tend à faire paniquer les relais les plus dociles de la #macronie ! Ainsi de Nathalie Saint-Cricq, qui semblait particulièrement perdue, comme un député qui n’aurait pas reçu ses éléments de langage, au lendemain de la journée de mobilisation de samedi 1er décembre :

    [Emmanuel Macron] n’a pas pris la parole ce soir, probablement parce que… qu’est-ce que vous voulez qu’il dise ! Ils ont l’impression que […] même si c’était la baisse ou le moratoire sur la taxe du carburant, on lui dirait « ok c’est bien mais ça suffit pas, il faut l’ISF », et après on lui dirait « mais ça suffit pas, faut encore autre chose », donc il a effectivement compris que le fait de reculer, on insisterait surtout sur le recul et non pas sur les choses sur lesquelles il a reculé, donc c’est relativement complexe. […] Qu’est-ce qu’il peut faire ? […] Comme manifestement toute la dramaturgie est en train de se faire entre Macron versus le reste du monde, ou plus exactement le reste de la France, il a intérêt à remettre du corps intermédiaire.

    Rassurons nos lecteurs : cette absence n’était probablement que passagère. La veille, la cheffe du service politique de #France_2 était plus revendicative :

    Non, il ne peut pas donner l’impression de plier […], il ne peut pas donner l’impression que les gilets jaunes ont obtenu gain de cause. […] Le problème pour Emmanuel Macron, c’est que s’il recule, il se dit que les prochaines réformes ce sera à chaque fois la même chose donc c’est ni dans son tempérament de reculer, et en plus il y a une deuxième crainte, c’est qu’il se dit que à chaque nouvelle réforme […] il y ait une nouvelle structure gilets jaunes qui, à chaque fois qu’il essaie de bouger, le fasse reculer ; soit il considère qu’au bout d’un an et demi de quinquennat il faut qu’il fonce avec les risques de casse, soit il recule ; on va voir assez rapidement s’il ne trouve pas une solution intermédiaire. (JT France 2, 1er décembre)

    Et pour la trouver, il pourra s’inspirer des conseils de Nathalie Saint-Cricq.

    *
La journée de mobilisation du 1er décembre a, semble-t-il, contribué à une #panique médiatique croissante face au mouvement des gilets jaunes. Si les premières inquiétudes ont porté sur les conséquences des blocages sur l’économie, ce sont désormais les revendications (irréalistes) du mouvement et les scènes de violences (condamnables) lors des manifestations qui sont désormais dans le viseur médiatique. Et les éditorialistes se mobilisent : en prescrivant conseils et méthodes pour que le gouvernement « sorte de la crise » ; en faisant le tri entre bons et mauvais gilets jaunes selon que leurs revendications sont jugées « légitimes » ou « surréalistes », et leurs comportements, « pacifique » ou « extrémiste » ; ou encore en faisant mine d’organiser le « dialogue social » avec les gilets jaunes, pour mieux permettre de canaliser la colère populaire. À cet égard, ce journalisme d’élite parfaitement ignorant des préoccupations quotidiennes des gilets jaunes, joue parfaitement son rôle de gardien de l’ordre social.


    Pauline Perrenot (avec Maxime Friot)

    #Giletsjaunes

  • Les échographies faites par les obstétriciens non couvertes Le Devoir - Amélie Daoust-Boisvert - 7 janvier 2017

    Les échographies sont maintenant couvertes en cabinet privé, mais pas pour les femmes enceintes chez les obstétriciens. La couverture publique promulguée par Québec à compter du 29 décembre dernier exclut la majorité des examens obstétricaux.
 
    Seuls les examens réalisés par les radiologistes sont couverts. Comme les gynécologues-obstétriciens pratiquent la très grande majorité des échographies chez les femmes enceintes, ces dernières devront continuer à payer lorsqu’elles se rendent en cabinet privé pour cet examen.
     
    Le ministre de la Santé et des Services sociaux, Gaétan Barrette, se défend d’avoir omis de mentionner cette exception publiquement. « C’est faux » , dit son attachée de presse, Julie White, puisque les communiqués de presse diffusés au fil de l’évolution de ce dossier, en juillet et en décembre, indiquent bel et bien que ce sont les échographies « pratiquées par des radiologistes » qui sont couvertes.
     
    C’est aussi ce que stipule le règlement entré en vigueur le 29 décembre dernier.


    « Pour les échographies qui ne sont pas faites par des radiologistes, les patients ont toujours la possibilité de les faire faire gratuitement dans les établissements du réseau ou de payer pour les faire faire en cabinet » , indique Julie White.
     
    L’échographie est utilisée pour de nombreuses autres situations que la grossesse, notamment pour le diagnostic et le suivi de plusieurs cancers. Ce sont ces examens qui sont majoritairement faits par des radiologistes.
     
    Des patientes surprises
    Les patientes enceintes sont surprises lorsqu’elles apprennent qu’elles doivent toujours débourser pour les échographies. L’une d’entre elles ne s’attendait pas à devoir sortir son chéquier, plus tôt cette semaine, après un examen dans une clinique montréalaise. « À cause des propos tenus par le ministre ces dernières semaines, je m’attendais à ce que ce soit gratuit. J’avais pourtant lu tout ce qui s’était écrit sur le sujet ! » raconte Sara-Emmanuelle Duchesne. Enceinte de douze semaines, elle devait passer un test de dépistage important en raison des effets possibles d’un médicament qu’elle prenait alors qu’elle ignorait être enceinte. En raison d’une erreur administrative, elle n’a pas pu obtenir l’examen à l’hôpital où elle est suivie.
     
    Elle a appelé de nombreux hôpitaux pour constater que très rares sont ceux qui offrent l’échographie de premier trimestre. L’examen permet entre autres de détecter des anomalies foetales et de mesurer la clarté nucale. Cette dernière est l’un des indicateurs utilisés dans le diagnostic de la trisomie 21.
    À cause des propos tenus par le ministre ces dernières semaines, je m’attendais à ce que ce soit gratuit. J’avais pourtant lu tout ce qui s’était écrit sur le sujet !

    Sara-Emmanuelle Duchesne, enceinte de douze semaines.
    Mme Duchesne déplore avoir dû finalement débourser 150 $ alors que les autres examens échographiques sont maintenant couverts. « Je considère que c’est une injustice. Les femmes enceintes et les couples ont déjà beaucoup de dépenses à prévoir. La décision du ministre de couvrir l’échographie est positive, mais on apprend aujourd’hui qu’il y a des exclus. »
    . . . . . . . .

    La suite :
    http://www.ledevoir.com/societe/sante/488638/echographies-au-prive-les-femmes-enceintes-n-ont-pas-droit-au-remboursemen
    #Canada #Quebec #Santé #Femmes #grossesse #échographies #guerre_aux_femmes #Gaétan_Barrette

     

  • [vidéo] Ni dieu ni maître, une histoire de l’anarchisme | Tancrède Ramonet
    https://www.youtube.com/watch?v=h4sFRBBRu1s

    Dès son origine au XIXe siècle, l’anarchisme fait trembler le monde. Rival du socialisme, ce courant politique s’oppose aux maîtres comme aux dieux. Considérés comme des apôtres de la destruction, les anarchistes sont sévèrement réprimés. Historiens et spécialistes expliquent les origines de ce mouvement grâce à des archives souvent inédites. Durée : 2h23. Source : Relevé sur le Net...

    • Ni dieu ni maître, une histoire de l’anarchisme, le film de #Tancrède_Ramonet qui devait à l’origine sortir en même temps que le livre de #Gaetano_Manfredonia, Une histoire mondiale de l’anarchie (republié, au milieu de polémiques dont je me suis fait l’écho sur ce blogue) est aujourd’hui visible.
      Il n’est jamais inutile de rendre hommage aux militant(e)s qui ont incarné le combat révolutionnaire libertaire, et bien des (télé)spectateurs, jeunes surtout, apprendront beaucoup.
      Sans doute l’exercice, immense — même si cette « histoire de l’anarchisme » s’interrompt en 1939, après la défaite de la #Révolution_espagnole —, ne peut aller sans quelques approximations et de nombreuses omissions (pas une seconde pour les #Mujeres_libres, quand cette dernière est longuement traitée !).
      La plupart des intervenants (dont Manfredonia lui-même) sont compétents et convaincants. Une mention particulière pour #Marianne_Enckell qui sait mettre à portée de tous et toutes sa grande érudition sur un ton jamais pontifiant.

      Mais d’où vient donc la sensation d’ennui éprouvée, au moins dans la première partie ? Peut-être, paradoxalement, de la volonté naïve, et d’ailleurs sympathique, de « réhabiliter » l’anarchisme, notamment contre l’historiographie bourgeoise et stalinienne.
      Dire, toujours dans la première partie, qu’il est arrivé à l’anarchisme de « dominer le monde » est un excès sans intérêt, quand la remarque vaudrait tout au plus — ce qui n’est pas rien, il est vrai ! — pour le mouvement ouvrier international.

      http://lignesdeforce.wordpress.com/2016/10/29/une-histoire-de-lanarchisme-en-images

    • http://www.librairie-quilombo.org/IMG/arton6760.gif?1493391099
      http://www.librairie-quilombo.org/libertarias

      Indomptables, insoumises, rebelles, mères, ouvrières, paysannes, syndicalistes, combattantes et « guérillères », les libertaires espagnoles, depuis la fin du XIXe et tout au long du XXe siècle, n’ont cessé de clamer leur désir d’émancipation sociale en leur nom propre.

      Si l’histoire retient surtout le rôle déterminant du groupe Mujeres Libres lors de la guerre civile et de la révolution de 1936-1939, cet ouvrage met l’accent sur la pluralité des formes de luttes et de récits de ces militantes qui témoignent d’une véritable spécificité de l’engagement des
      #femmes_anarchistes_espagnoles.

      Contre l’invisibilisation d’un combat ponctué par l’expérience des luttes, des guerres et de l’exil, il s’agit ici, à travers les trajectoires de Francisca Saperas, Ana Delso, Antonia Fontanillas Borras, Les Solidarias, #Mujeres_libres et bien d’autres, de reconstruire une #mémoire collective au féminin, tout en soulignant le caractère transgénérationnel de l’anarchisme espagnol au sein duquel les femmes ont joué un rôle sans précédent.

      #féminisme #antipatriarcat #anarchisme #mouvement_libertaire