• Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

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    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

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    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

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    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

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    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

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    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

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  • Migranti, i sindaci delle grandi città contro il governo: «Scelte sbagliate che ledono i diritti: non si cancelli la protezione speciale»

    I sindaci delle maggiori città italiane (di centrosinistra) di nuovo contro il governo Meloni. Oggetto della discussione, ma anche (e soprattutto) di preoccupazione: la gestione dell’immigrazione, in particolare, il sistema di accoglienza e la cancellazione della protezione speciale per i migranti. «Come sindaci, come amministratori, come cittadini che quotidianamente si impegnano nei territori per cercare di garantire le migliori risposte alle criticità che le nostre Comunità esplicitano, siamo molto preoccupati per le proposte in discussione relative alle modifiche all’unico sistema di accoglienza migranti effettivamente pubblico, strutturato, non emergenziale che abbiamo in Italia», si legge in un documento congiunto sul decreto Cutro che porta le firme dei sindaci di #Roma, #Roberto_Gualtieri, di #Milano #Beppe_Sala, di #Napoli #Gaetano_Manfredi, di #Torino #Stefano_Lorusso, di #Bologna, #Matteo_Lepore e di #Firenze, #Dario_Nardella. «La preoccupazione delle città – si legge nel documento – è massima a fronte di emendamenti proposti da alcuni partiti al DL 591 dopo le tante evidenze a cui il nostro ordinamento ha dovuto porre rimedio in questi anni». Secondo il fronte dei sindaci dem, l’esecutivo non deve «ragionare in ottima emergenziale: è sbagliato immaginare l’esclusione dei richiedenti asilo dal Sai, precludendo loro qualunque percorso di integrazione e una reale possibilità di inclusione ed emancipazione nelle nostre comunità».

    «No alla cancellazione della #protezione_speciale»

    Sala, Gualtieri, Manfredi, Lo Russo, Lepore e Nardella non condividono la cancellazione della protezione speciale, confermata anche ieri, sabato 15 aprile, dalla stessa premier Meloni durante il suo viaggio in Etiopia. Per i sindaci delle maggiori città si tratta, infatti, di «una misura presente in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, mentre circa il 50% dei migranti presenta vulnerabilità ed è in parte significativa costituito da nuclei familiari. Queste scelte, qualora adottate, non potrebbero che procurare infatti una costante lesione dei diritti individuali e innumerevoli difficoltà che le nostre comunità hanno già dovuto affrontare negli anni scorsi, a fronte di un importante aumento di cittadini stranieri condannati appunto all’invisibilità», si legge nel documento congiunto. Tutto questo – scrivono i primi cittadini – «mentre il sistema dei Cas, mai uscito da un assetto emergenziale, è saturo e purtroppo inadeguato ad accogliere già oggi chi proviene dai flussi della rotta mediterranea come da quella balcanica. Insufficiente, sia per numeri sia per le modalità d’accoglienza sia per i servizi di accompagnamento, protezione ed inclusione, assenti. E in questo quadro occorre ripensare anche il sistema di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati cui occorre applicare logiche distributive che evitino la concentrazione nelle sole grandi città», prosegue il documento dei sindaci.

    «Le nostre città sono infatti impegnate già oggi, spesso con sforzi oltre i propri limiti e frequentemente oltre le proprie funzioni e competenze, a porre rimedio con risorse proprie alle manchevolezze di un sistema nazionale adeguato. La soppressione della possibilità di costruire un unico sistema di accoglienza pubblico, trasparente e professionale (come il Sai), garantendo percorsi dignitosi e tutelanti anche per le persone richiedenti protezione internazionale, non può comportare la nascita di nuovi grandi centri di accoglienza o detenzione nei nostri territori. La storia degli ultimi vent’anni di accoglienza in Italia dimostra chiaramente come modelli emergenziali, con standard qualitativi minimi e volti al mero “vitto e alloggio” abbiano procurato ferite enormi nelle nostre comunità e non abbiano garantito diritti esigibili alla popolazione rifugiata. E soprattutto abbiano fallito processi di inclusione efficaci e duraturi», prosegue il documento.

    Le proposte

    Dopo questa lunga premessa, i sindaci dem hanno poi avanzato delle proposte sul tema. «1. Sia rinforzata l’unitarietà del Sistema di Accoglienza italiano, valorizzando l’esperienza virtuosa del Sai, ovvero supportando attivamente la rete dei Comuni che quotidianamente affrontano in prima persona le sfide che i movimenti migratori in ingresso sottopongono ai nostri servizi, ai nostri territori e alle nostre comunità. Con un solo obiettivo: garantire percorsi di effettiva inclusione e tutela compatibili con i territori, evitando grandi centri di accoglienza, senza servizi e senza tutele, per tutti», scrivono. «2. Il Sai rimanga accessibile a richiedenti protezione e rifugiati». I primi cittadini chiedono poi che i Cas, ovvero i centri di accoglienza straordinari, vengano trasformati «in hub di prima accoglienza, dedicati alle procedure di identificazione e di screening sanitario per poi procedere a trasferimenti rapidi nel sistema di seconda accoglienza ed inclusione, appunto il Sai».

    Al punto 4, i sei amministratori chiedono inoltre che «vengano ripristinati i criteri di riparto che il Piano nazionale di accoglienza aveva indicato. In assenza di azioni positive mirate o, peggio, con azioni sbagliate, le ricadute saranno infatti l’irregolarità diffusa o lunghi percorsi di ricorsi giudiziari che paralizzeranno le vite di molte persone inabilitandole e rendendole facili prede del lavoro nero, che invece non manca». Infine, «ci auspichiamo – continuano – che ancora una volta l’Italia non si contraddistingua per una regressione relativa al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: da troppi anni questo tema necessita di una riforma importante e strutturale, che miri ad un equilibrio nazionale del sistema di accoglienza imprescindibile dal coinvolgimento dei Comuni e dagli obiettivi di inclusione, protezione e con una diffusione omogenea a livello nazionale. Siamo convinti, insieme ad altre voci autorevoli, che dopo circa vent’anni e anche alla luce di alcuni temi di strutturale cambiamento demografico e sociale non si debba continuare a parlare di emergenza e che proprio in questo momento occorra la lungimiranza di aprire una discussione per scegliere una via legale all’immigrazione e alla regolarizzazione degli immigrati già presenti in Italia, anche attraverso il ricorso allo ius scholae, premessa a comunità solidali, capaci di proporre percorsi di vera emancipazione e autonomia alle persone nel pieno interesse del nostro Paese», concludono i sindaci.

    https://www.open.online/2023/04/16/immigrazione-sindaci-grandi-citta-vs-governo-meloni

    #Italie #villes-refuge #decreto_Cutro #villes #Naples #Turin #Milan #Rome #Florence #Bologne #résistance #protection_spéciale

  • Si formano a Gaeta le forze d’élite della famigerata Guardia Costiera libica

    Non bastava addestrare in Italia gli equipaggi delle motovedette libiche che sparano sui migranti nel Mediterraneo o li catturano in mare (oltre 15.000 nei primi sette mesi del 2021) per poi deportarli e torturarli nei famigerati centri di detenzione / lager in Libia. Dalla scorsa estate è nella #Scuola_Nautica della #Guardia_di_Finanza di #Gaeta che si “formano” pure le componenti subacquee di nuova costituzione della #Guardia_Costiera e della #General_Administration_for_Coastal_Security (#GACS).

    La presenza a Gaeta delle unità d’élite della #Libyan_Coast_Guard_and_Port_Security (#LCGPS) dipendente dal Ministero della Difesa e della GACS del Ministero dell’Interno è documentata dall’Ufficio Amministrazione - Sezione Acquisti della Guardia di Finanza. Il 18 giugno 2021 l’ente ha autorizzato la spesa per un servizio di interpretariato in lingua araba a favore dei sommozzatori libici “partecipanti al corso di addestramento che inizierà il 21 giugno 2021 presso la Scuola Nautica nell’ambito della Missione bilaterale della Guardia di Finanza in Libia”. Nell’atto amministrativo non vengono fornite informazioni né sul numero degli allievi-sub libici né la durata del corso, il primo di questa tipologia effettuato in Italia.

    Dal 29 agosto al 29 settembre del 2019 ne era stato promosso e finanziato uno simile a #Spalato, in Croazia da #EUNAVFOR_MED (la forza navale europea per le operazioni anti-migranti nel Mediterraneo, meglio nota come #Missione_Irini). Le attività vennero svolte in collaborazione con la Marina militare croate e riguardarono dodici sommozzatori della Guardia costiera e della Marina libica.

    A fine ottobre 2020 un’altra attività addestrativa del personale subacqueo venne condotta in Libia da personale della Marina militare della Turchia, provocando molte gelosie in Italia e finanche le ire dell’(ex) ammiraglio #Giuseppe_De_Giorgi, già comandante della Nato Response Force e Capo di Stato Maggiore della Marina Militare dal 2013 al 2016.

    “In un tweet, la Marina turca riferisce che le operazioni rientrano a pieno nel novero di attività di supporto, consultazione e addestramento militare e di sicurezza incluse nell’accordo raggiunto nel novembre del 2019 tra il GNA tripolino e Ankara: non può sfuggire come questo avvenimento sia un ulteriore affondo turco a nostre spese e l’ennesimo spregio all’Italia”, scrisse l’ammiraglio #De_Giorgi su Difesaonline. “Nelle foto allegate al tweet, infatti, sono presenti le navi che proprio l’Italia nel 2018 aveva donato alla Libia in seguito all’accordo siglato con il primo #Memorandum che avrebbe previsto da parte nostra la presa in carico della collaborazione con la Guardia Costiera libica, non solo per tenere a bada il fenomeno migratorio in generale, ma soprattutto per dare un freno al vergognoso traffico di esseri umani. In particolare, si può vedere la motovedetta #Ubari_660, gemella della #Fezzan_658, entrambe della classe #Corrubia”.

    “Oltre al danno, anche la beffa di veder usare le nostre navi per un addestramento che condurrà un altro Stato, la Turchia”, concluse l’ex Capo di Stato della Marina. “Mentre Erdogan riporta la Tripolitania nella sfera d’influenza ottomana si conferma l’assenteismo italiano conseguenza di una leadership spaesata, impotente, priva di autorevolezza, inadeguata”.

    Le durissime parole dell’ammiraglio De Giorgi hanno colpito in pieno il bersaglio; così dal cappello dell’esecutivo Draghi è uscito bello e pronto per i sommozzatori libici un corso d’addestramento estivo a Gaeta, viaggio, vitto e alloggio, tutto pagato.

    Il personale dell’ultrachiacchierata Guardia costiera della Libia ha iniziato ad addestrarsi presso la Scuola Nautica della Guardia di Finanza nella primavera del 2017. Trentanove militari e tre tutor giunsero in aereo nella base dell’aeronautica di Pratica di Mare (Roma) il 1° aprile e vennero poi addestrati a Gaeta per un mese. “A selezionarli sono stati i vertici della Marina libica tra i 93 militari che hanno superato il primo modulo formativo di 14 settimane, svolto nell’ambito della missione europea Eunavformed, a bordo della nave olandese Rotterdam e della nostra nave San Giorgio”, riportò la redazione di Latina del quotidiano Il Messaggero.

    Nella scuola laziale i libici furono formati prevalentemente alla conduzione delle quattro motovedette della classe “#Bigliani”, già di appartenenza della Guardia di Finanza, donate alla Libia tra il 2009 e il 2010 e successivamente riparate in Italia dopo i danneggiamenti ricevuti nel corso dei bombardamenti NATO del 2011. Le quattro unità, rinominate #Ras_al_Jadar, #Zuwarah, #Sabratha e #Zawia sono quelle poi impiegate per i pattugliamenti delle coste della #Tripolitania e la spietata caccia ai natanti dei migranti in fuga dai conflitti e dalle carestie di Africa e Medio Oriente.

    Per la cronaca, alla cerimonia di chiusura del primo corso di formazione degli equipaggi libici intervenne a Gaeta l’allora ministro dell’Interno #Marco_Minniti. Ai giornalisti, #Minniti annunciò che entro la fine del mese di giugno 2017 il governo italiano avrebbe consegnato alla Libia una decina di motovedette. “Quando il programma di fornitura delle imbarcazioni sarà terminato la Marina libica sarà tra le strutture più importanti dell’Africa settentrionale”, dichiarò con enfasi Marco Minniti. “Lì si dovranno incrementare le azioni congiunte e coordinate per il controllo contro il terrorismo e i trafficanti di esseri umani: missioni cruciali per tutta la comunità internazionale”.

    Un secondo corso di formazione per 19 ufficiali della Guardia costiera libica venne svolto nel giugno 2017 ancora un volta presso la Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta. Nel corso del 2018, con fondi del Ministero dell’Interno vennero svolti invece due corsi della durata ognuno di tre settimane per 28 militari libici, costo giornaliero stimato 606 euro per allievo.

    Nell’ambito del #Sea_Horse_Mediterranean_Project, il progetto UE di “cooperazione e scambio di informazioni nell’area mediterranea tra gli Stati membri dell’Unione di Spagna, Italia, Francia, Malta, Grecia, Cipro e Portogallo e i paesi nordafricani nel quadro di #EUROSUR”, (valore complessivo di 7,1 milioni di euro), la Guardia di Finanza ha concluso uno specifico accordo con la Guardia Civil spagnola, capofila del programma, per erogare sempre nel 2018 un corso di conduzione di unità navali per 63 libici tra guardiacoste del Ministero della Difesa e personale degli Organi per la sicurezza del Ministero dell’Interno.

    Istituzionalmente la Scuola Nautica della Guardia di Finanza di Gaeta provvede alla formazione tecnico-operativa degli allievi finanzieri destinati al contingente mare, nonché all’aggiornamento ed alla specializzazione di ufficiali impiegati nel servizio navale. In passato ha svolto attività di formazione a favore del personale militare e della polizia della Repubblica d’Albania e della Guardia Civil spagnola.

    L’Istituto ha partecipato anche a due missioni internazionali: la prima sul fiume Danubio, nell’ambito dell’embargo introdotto nel maggio 1992 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro l’allora esistente Repubblica Federale di Jugoslavia; poi, a fine anni ’90, a Valona (Albania) per fornire assistenza e consulenza ai locali organi polizia nella “lotta ai traffici illeciti”.

    Adesso per la Scuola di Gaeta è scattata l’ora dell’addestramento dei reparti d’élite delle forze navali di Tripoli, sommozzatori in testa.

    http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2021/11/si-formano-gaeta-le-forze-delite-della.html

    –-> Articolo pubblicato in Africa ExPress il 30 novembre 2021, https://www.africa-express.info/2021/11/30/addestrata-in-italia-la-guardia-costiera-libica-accusata-di-crimini

    #Gaeta #formation #gardes-côtes_libyens #asile #migrations #réfugiés #Italie #Libye #frontières #Méditerranée #plongeurs

    –---

    Ajouté à la métaiste sur les formations des gardes-côtes lybiens sur le territoire européen :
    https://seenthis.net/messages/938454

    ping @isskein

  • Panique médiatique face aux gilets jaunes
    Pauline Perrenot (avec Maxime Friot) - jeudi 6 décembre 2018 - ACRIMED
    https://www.acrimed.org/Panique-mediatique-face-aux-gilets-jaunes

    C’est peu dire que la tonalité médiatique générale vis-à-vis des gilets jaunes, et celle des éditorialistes en particulier, a changé depuis la journée de mobilisation du samedi 24 novembre, et, plus encore, depuis celle de samedi 1er décembre. Dans un premier temps, les grands éditorialistes se sont interrogés avec condescendance, en donnant parfois l’impression d’observer les gilets jaunes comme de petites bêtes curieuses. Certains se sont mis en scène, en s’engageant ouvertement en faveur d’un mouvement qu’ils pensaient pouvoir résumer à la seule remise en cause d’une taxe sur le carburant [1]. Mais le discours médiatique dominant est désormais tout autre. Face à un mouvement qui s’inscrit dans la durée, à la diversité et à l’ampleur de ses revendications, à sa popularité, face aux violences protéiformes de certaines manifestations et à la situation de crise politique dans laquelle elle est en train de plonger le gouvernement, les grands pontes du système médiatique resserrent les rangs. Depuis la manifestation du samedi 1er décembre, l’heure est au rappel à l’ordre.

    Une chose est sûre : la journée de mobilisation du 1er décembre a fasciné les chaînes d’information en continu qui ont commenté de manière ininterrompue les « scènes de chaos dans Paris »… et beaucoup effrayé les éditorialistes [2]. Devant les menaces que représente le mouvement des gilets jaunes, les gardiens médiatiques de l’ordre social se mobilisent pour prescrire des mesures de « sortie de crise ». Un « journalisme de solutions » qui témoigne de la profonde panique qui gagne les médias dominants – et leurs porte-parole auto-proclamés…

    Des journalistes en conseillers médiatiques du prince
    À commencer par la presse écrite. Dans son éditorial du Figaro, #Alexis_Brézet voudrait se faire calife à la place du calife (03/12). Il fixe pour le gouvernement la « priorité des priorités », à savoir le « rétablissement de l’ordre républicain » après le « désastre national » en employant « y compris la proclamation de l’état d’urgence […] afin que cesse l’intolérable ». Puis il se fait prescripteur de mesures pour « apaiser cette révolte qui fait courir de graves risques à l’équilibre politique et social du pays » : « renouer - tout de suite - le dialogue, et, pour renouer le dialogue, il faudra bien, par quelque bout que l’on prenne la chose, concéder aux "gilets jaunes" un trophée symbolique. »

    L’éditorialiste poursuit en révélant les deux inquiétudes majeures qui l’animent, et à travers lui, l’ensemble de la noblesse médiatique. La première, le blocage des futures réformes : « Plus le temps passe, plus le prix à payer pour rétablir le calme sera élevé. Et plus la capacité du gouvernement à mener demain la moindre (vraie) réforme sera entamée. » La seconde, la crainte que se matérialise dans les esprits une conscience de classe un peu trop appuyée : « [Dans] nos démocraties mijotent tous les ingrédients d’une nouvelle lutte des classes qui met à rude épreuve la cohésion des nations. […] C’est sans doute que le vieux clivage droite-gauche, à côté de tant de défauts, avait aussi quelques qualités : en récusant la froide logique des intérêts, il permettait au pays de s’affranchir en partie des affrontements de classe. » Une crainte qui explique la violence de ses confrères, dont #Gaëtan_de_Capèle qui signait le 1er décembre un éditorial digne d’une production de chien de garde aguerri :

    Combien de temps encore la France pourra-t-elle supporter le psychodrame des « gilets jaunes » ? Tout a été dit sur les ressorts de cette jacquerie numérique. Aussi compréhensif soit-on pour ce qu’ils incarnent, les « gilets jaunes » sont engagés dans une surenchère qui conduit tout droit dans une impasse. Exactions inexcusables, revendications abracadabrantesques, mépris des institutions… tout cela déconsidère leur combat.

    Tout comme les défigurent les éditoriaux du Figaro…

    #Le_Monde n’est pas en reste : #Jérôme_Fenoglio pointe « une impuissance de dix ans à réellement répondre aux conséquences de la crise de 2008 » et une « faillite des gouvernements successifs, [qui] a laissé prospérer la colère sur le plus puissant des ferments, le sentiment d’injustice, à la fois territorial, fiscal et social. » Un constat qui ne le conduit évidemment pas à remettre en cause ni la légitimité ni le fond des politiques libérales menées depuis (plus de) dix ans – et pour cause, le quotidien de référence s’en étant systématiquement fait le relais – mais à d’abord accuser « l’instabilité » des gilets jaunes qu’il peine à cerner, avant d’en appeler à… une réforme, pour poursuivre les réformes !

    [Il y a une] instabilité permanente chez les protestataires, où les revendications s’accumulent et finissent par s’annihiler à force d’être contradictoires, où les porte-parole sont délégitimés à la seconde où ils apparaissent, où la discussion permanente ne permet ni de s’entendre entre soi ni d’écouter ce que pourraient proposer les gouvernants. C’est encore plus compliqué face à un pouvoir exécutif qui n’arrive pas à se libérer des multiples disruptions qu’il avait théorisées pour construire son nouveau monde. […] La page blanche sur laquelle devaient s’écrire les réformes est devenue une scène désertée que le parti présidentiel ne parvient pas à occuper. […] Le courage réformateur mis en avant se heurte à l’image de « président des riches » accolée en raison des premières décisions fiscales, notamment sur l’ISF. Il sera difficile d’en sortir sans amender en profondeur un mode de gouvernance […]. Cette réforme-là est la plus exigeante de toutes : elle commence par soi-même pour parvenir enfin à convaincre les autres.

    Au #Parisien, #Stéphane_Albouy en appelle quant à lui à Emmanuel Macron pour « trouver les mots et les réponses concrètes de nature à apaiser le pays. » (03/12). En bon conseiller en communication gouvernementale, il analyse ensuite cette démarche : « Il ne s’agirait pas ici d’un recul mais d’un geste indispensable pour que le reste du quinquennat ne soit pas hypothéqué et que des réformes aussi nécessaires que celles de l’assurance chômage ou des retraites puissent être un jour engagées par ce gouvernement. » Dès le lendemain, visiblement inquiet de l’inaction du gouvernement, un second éditorialiste, #Nicolas_Charbonneau, cherche d’autres interlocuteurs pour parvenir à ce que le quotidien appelle de ses vœux, « l’union nationale » (04/12) : « La sortie de crise viendra probablement d’hommes et de femmes responsables, de ceux qui écoutent, prennent des décisions et les assument. De ceux qui proposent et construisent, pas de ceux qui commentent. » Et à en croire sa une du 4 décembre, Le Parisien a une solution toute trouvée :


    
Choisir comme « réponses » à cette crise les « propositions » du patron du Medef, il fallait le faire ! Si nous n’osons penser que la rédaction du Parisien ignore les enjeux de classe qui se jouent dans le mouvement des gilets jaunes, on peut dire avec certitude qu’elle a, dans ce jeu-là… choisi son camp !

    Il en va de même à #France_Info, où #Olivier_de_Lagarde cherche une sortie de crise en parlementant avec… #Pierre_Gattaz :

    Pierre Gattaz, comment expliquer finalement ce désespoir ? Quand on se met à casser, certes on est en colère mais on n’est pas seulement en colère contre l’augmentation de 6 centimes du gasoil ! […] La question, c’est de savoir tout de même si à partir d’aujourd’hui, les réformes vont être possibles ou est-ce que finalement le gouvernement va être complètement bloqué ? (« Les informés », 1er décembre)

    Sur #BFM-TV (03/12), le jeu est le même, et si #Bruno_Jeudy prône une « inflexion sociale », elle n’est encore une fois qu’instrumentale : « Faire une inflexion, mettre un genou à terre, accepter de reculer, l’expliquer et peut-être de relancer un quinquennat qui aujourd’hui effectivement est en train de… de… de se jouer dans les heures qui viennent. » Une position qui fait écho aux propos que le même #Laurent_Neumann tenait quelques jours plus tôt : « Le problème, c’est que si Emmanuel Macron cède aujourd’hui, il n’y a plus de réforme d’assurance-chômage, il n’y a plus de réforme de la fonction publique, il n’y a plus de réforme des retraites ! » [3].

    La même ligne est prescrite en continu sur BFM-TV par #Ruth Elkrief, communicante de la première heure du gouvernement macroniste, qui n’hésite pas à reprendre sévèrement le moindre faux pas d’une consœur qui paraîtrait desservir un peu trop le gouvernement :

    - #Anna_Cabana : Alors moi ce que je retiens de la journée, c’est cette phrase d’un ami d’Emmanuel Macron qui dit : « Au fond les gilets jaunes, c’est irrationnel, mais il faut enfourcher la fureur des temps ». […]
- #Ruth_Elkrief : Pardonnez-moi Anna, non mais c’est exactement qu’Emmanuel Macron a un problème de communication avec les gilets jaunes. […] Si je peux traduire, ce que devrait dire le premier ministre demain [pour] se sortir d’une telle crise en ayant quand même… sans perdre trop la face, c’est : « il faut lâcher parce que comme ça on pourra continuer à réformer le pays, sinon on pourra pas continuer ». Donc c’est une façon de dire qu’en fait, on ne renonce pas à continuer à réformer le pays mais que, on ne pourrait pas si on ne lâchait pas, et donc ça sera la façon à partir de demain d’expliquer. […] Ça aurait pu être une crise beaucoup plus contenue et beaucoup plus minime si ça avait été négocié et géré tout de suite.

    Le gouvernement remercie pour la traduction.

    En quête désespérée de paix sociale depuis dimanche, les éditorialistes incarnent ainsi à l’extrême un de leurs rôles médiatiques traditionnels : celui de gardien de l’ordre social. Désormais prescripteur des mesures de « sortie de crise », ce « journalisme de solutions » est le signe d’une profonde panique : celle de voir remis en cause un ordre social, économique et politique que les médias dominants ont contribué à légitimer depuis des décennies, en soutenant quasi unanimement les vagues de réformes structurelles menées par les gouvernements successifs depuis les années 1980 [4] ; et celle de voir vilipendé le candidat incarnant cette fièvre « réformatrice » auquel ils auront fait beaucoup de publicité lors de la campagne présidentielle et dont ils relaient assidûment la communication et la « pédagogie » depuis [5]. Une telle déstabilisation douche ainsi une grande partie des espoirs médiatiquement soutenus, nés avec Emmanuel Macron, et provoque le désarroi : quid de la « faisabilité » des prochaines réformes dans un tel contexte de crise ? Quelle « personnalité » à sa place pour « maintenir le cap » dans un tel contexte de défiance vis-à-vis de la classe politique et après que les grands médias ont affiché des mois durant la promesse du « nouveau monde » ?

    C’est à la lumière de ces différents éléments que l’on peut comprendre les réactions des éditorialistes des médias dominants, relativement homogènes, allant de l’indignation à la panique, en passant par des conseils et des méthodes pour « sortir de la crise ». L’heure est chez eux au calcul politicien et au mépris de classe : si certains d’entre eux réclament des « gestes forts » ou des mesures en faveur des gilets jaunes, ce n’est évidemment pas au nom d’une quelconque justice sociale, mais uniquement par charité symbolique qui, selon eux, fera taire la colère.

    Des journalistes arbitres de la légitimité des revendications
    Face à la menace du mouvement des gilets jaunes, les éditorialistes ne se contentent pas de se faire conseillers du prince et prescripteurs de solutions de sortie de crise ; ils s’attachent également à distinguer les revendications légitimes du mouvement… des autres, qu’il convient de démonter en règle.

    Sur le plateau du JT de France 2 (01/12) aux côtés de #Nathalie_Saint-Cricq, #Justine_Weyl, journaliste au service économique de la rédaction, passe au crible la revendication de hausse du SMIC formulée par les gilets jaunes :

    Sur l’augmentation du SMIC à 1300€ net par exemple, ça parait assez improbable [parce qu’] une telle augmentation de 10% coûterait des millions aux entreprises mais aussi à l’État […] Peu de chance donc que ce vœu soit exaucé. […] En revanche d’autres revendications sont plausibles et rejoignent même des objectifs du gouvernement.

    #Alexandra_Bensaïd, également présente comme « experte » en économie, corrobore :

    Qu’est-ce qui est réaliste, est-ce que augmenter le SMIC c’est réaliste ? C’est certain que pour les économistes ça améliore le pouvoir d’achat ; mais d’un autre côté augmenter le SMIC c’est un chiffon rouge pour les employeurs ; les plus éloignés de l’emploi auraient encore plus de risque de ne pas être recrutés ; or faire baisser le chômage, c’est à la fois une revendication des gilets jaunes et c’est aussi un but du gouvernement. […] L’impossibilité ce soir, c’est bien de répondre à l’ensemble des protestataires.

    La journaliste donne ainsi son verdict d’impossibilité des hausses de salaire… en reprenant mot pour mot les arguments du patronat.

    Même posture chez #Jean-Claude_Dassier, qui rivalise d’arrogance sur #CNews (03/12) : « Tout n’est pas possible. C’est pas le pays des mille et une nuits ! Il n’y a pas d’argent dans ce pays autant que le souhaiteraient… on le souhaite tous d’avoir des augmentations ! »

    Des propos si émouvants que nous proposons de lancer une campagne : une augmentation pour Jean-Claude Dassier https://boutique.acrimed.org/don-soutien !

    Sur #BFM-TV (03/12), #Nathalie_Lévy tente quant à elle de raisonner Jean-François Barnaba, gilet jaune, présent en plateau :

    - Nathalie Lévy : Vous savez bien que la liste elle est trop longue pour que tout soit validé ! […] Alors… les trois [mesures] plus urgentes alors, dites-nous !
- Jean-Francois Barnaba : La baisse des taxes, la baisse [il insiste], […] l’augmentation des salaires et des pensions, la restauration des services publics, la démocratisation des institutions et […] la restauration de l’ISF. […]
- C’est pas de même nature, et tout ne sera pas possible. […] Tout sera pas possible en même temps, là, en l’espace d’une semaine, on pourra pas avoir la baisse des taxes, on pourra pas avoir l’augmentation des salaires, tout sera pas jouable, tout sera pas acceptable pour le gouvernement !

    Enfin, sur le plateau de #Pascal_Praud sur CNews (03/12), les ténors du système médiatique qui discutent chaque jour entre amis prescrivent à leur tour ce qui est faisable… ou non :

    - Pascal Praud : Par exemple, les APL. C’est vrai, Gérard Leclerc, quand on a dit « baisse de cinq euros », ça ne nous a pas paru, cinq euros, une somme à ce point énorme que les Français aillent dans la rue ! Mais au-delà des cinq euros, il y avait quelque chose de symbolique manifestement, c’est un fait personne ici n’est monté au créneau pour les cinq euros de manière aussi importante…
    
- Gérard Leclerc : […] C’est-à-dire… il faut mettre les choses à plat sur la fiscalité. Mais faut bien voir qu’on ne peut pas faire n’importe quoi, tout et son contraire. Vous ne pouvez pas dire d’un côté « on baisse les impôts », les impôts et les taxes, et d’un autre côté « on maintient voire on développe un certain nombre… par exemple les dépenses euh les investissements publics, les dépenses publiques, les aides sociales etc. »

    Ajoutons également le propos de #Nicolas_Doze sur BFM-TV le 5 décembre, qui se résume en une phrase :



    Avec, à la clé, un argument sans faille :

    Des #journalistes organisateurs du « dialogue social »
    Autre préoccupation des #éditocrates : trouver des interlocuteurs pour leurs débats médiatiques, mais également pour le gouvernement. Car les grands #médias, qui peinent à comprendre le mouvement des gilets jaunes, ont également des difficultés à identifier, sélectionner ou légitimer des porte-parole susceptibles de devenir de bons clients médiatiques [6]. Cela tient à plusieurs raisons : la pluralité des interlocuteurs qui jamais – ou rarement – ne se revendiquent comme « porte-parole » sur les plateaux ; ou encore la multiplication et la diversité des revendications mises en avant selon les gilets jaunes invités.

    Tant est si bien qu’on assiste à une situation surprenante : certains éditorialistes en arrivent à regretter les « corps intermédiaires », en particulier les syndicats, qu’ils malmènent pourtant le reste du temps en période de mobilisations sociales !

    La remise en cause des corps intermédiaires, systématiquement contournés depuis le début du quinquennat, est un handicap majeur, alors qu’ils seraient si cruciaux pour canaliser un conflit social de ce type. (#Le_Monde, 4/12) [7]

    Et c’est bien là un problème majeur auquel sont confrontés les éditorialistes : le bouleversement des règles du fameux « #dialogue_social » institutionnalisé, dont le commentaire (interview à l’issue des réunions, description des rebondissements et des positions syndicales et gouvernementales, etc.) résumait traditionnellement la couverture qu’ils font des mobilisations sociales en tant que spectateurs et arbitres des négociations.



    Désormais, les éditorialistes semblent se vivre non seulement plus comme arbitres, mais également acteurs du « dialogue social », remplaçant au pied levé les « #partenaires_sociaux » défaillants. Avec des propos qui témoignent, ces derniers jours, d’une véritable violence de classe qui se décuple.

    Ainsi de #Christophe_Barbier sur BFM-TV (03/12) :

    La première solution politique, c’est de dialoguer avec tout le monde et d’annoncer des choses concrètes. […] S’ils obtiennent quelque chose de concret, notamment symbolique, c’est-à-dire la suppression de la hausse des taxes prévue en janvier sur le carburant, eh bien ils annoncent le renoncement à une manifestation à Paris, samedi, pour éviter les violences. Qu’ils retournent dans les petites villes, dans les villages, sur les ronds-points, dans la proximité avec les gens comme le 17 novembre, et qu’ils arrêtent de fantasmer sur la prise de la Bastille, même si c’est l’Arc de triomphe.

    Face à l’absence de négociation, Nathalie Saint-Cricq perd également patience sur le plateau du #JT de #France 2 (02/12) :

    Édouard Philippe doit négocier avec des gens qui ne sont pas organisés. On l’a dit, toute cette semaine, ce soir, ils sont en train de téléphoner – je les ai eus tout à l’heure – aux huit gilets jaunes. On leur répond : « non, je peux pas venir ce jour là parce que je travaille, parce que j’ai les enfants jusqu’à 18h… » Donc négocier avec des gens qui n’ont pas envie de négocier c’est quelque chose d’assez compliqué [8].

    #Jean-Michel_Aphatie n’est pas en reste dans la matinale d’#Europe_1 (04/12) :

    Nous n’avons aucun interlocuteur crédible pour représenter un mouvement qui génère une violence immense et qui menace la nation. [...] C’est une forme d’irresponsabilité́ politique que nous n’avons jamais connue.

    Dans l’émission #Punchline (03/12), #Jean-Claude_Dassier sermonne les gilets jaunes :

    Les gilets jaunes refusent même d’aller énoncer leurs revendications et négocier ou discuter ! […] Je pense qu’il est plus que temps pour ce mouvement, qui a sa légitimité, qui a ses raisons, de se structurer, y a pas de mouvement qui ait un avenir politique et social s’il ne se structure pas ! […] Je souhaite surtout que […] le contact ait lieu évidemment et que surtout il soit positif, qu’on enchaîne vite. Parce qu’il y a déjà eu beaucoup de temps de perdu, maintenant il faut accélérer. Encore une fois, la France peut pas supporter un week-end prochain comme celui que nous avons vécu.

    Et on peut dire que l’éditorialiste ne perd pas de temps. En direct du plateau, il amorce lui-même une séance de négociation avec José Espinoza, pour le moins surréaliste, qui synthétise ce mépris de classe :
    - José Espinoza : Donnez de l’argent sonnant et trébuchant et vous verrez que le mouvement… [Coupé]
- Jean-Claude Dassier : 200 euros et c’est fini ?!
- J.E : 200 euros pour le SMIC.
- J-C. D : Et c’est terminé ? Bon, on a là une négociation. 200 euros pour le SMIC, on va téléphoner à Matignon, on a la clé. On va bien trouver 200 euros…
- J.E : Il a bien trouvé 40 milliards pour le CICE.
- J-C. D : D’accord ! Pour combien de personnes à votre avis, à vue de nez ? 200 euros pour combien de personnes ?
- J. E : Oh eh bien pour l’ensemble des smicards, ils sont nombreux. Et il y a 40 milliards à récupérer du CICE […] alors qu’on le donne aux patrons sans contrepartie !

    Si certains n’hésitent donc pas à conseiller le gouvernement voire à négocier pour lui, l’errance du Premier ministre et du président tend à faire paniquer les relais les plus dociles de la #macronie ! Ainsi de Nathalie Saint-Cricq, qui semblait particulièrement perdue, comme un député qui n’aurait pas reçu ses éléments de langage, au lendemain de la journée de mobilisation de samedi 1er décembre :

    [Emmanuel Macron] n’a pas pris la parole ce soir, probablement parce que… qu’est-ce que vous voulez qu’il dise ! Ils ont l’impression que […] même si c’était la baisse ou le moratoire sur la taxe du carburant, on lui dirait « ok c’est bien mais ça suffit pas, il faut l’ISF », et après on lui dirait « mais ça suffit pas, faut encore autre chose », donc il a effectivement compris que le fait de reculer, on insisterait surtout sur le recul et non pas sur les choses sur lesquelles il a reculé, donc c’est relativement complexe. […] Qu’est-ce qu’il peut faire ? […] Comme manifestement toute la dramaturgie est en train de se faire entre Macron versus le reste du monde, ou plus exactement le reste de la France, il a intérêt à remettre du corps intermédiaire.

    Rassurons nos lecteurs : cette absence n’était probablement que passagère. La veille, la cheffe du service politique de #France_2 était plus revendicative :

    Non, il ne peut pas donner l’impression de plier […], il ne peut pas donner l’impression que les gilets jaunes ont obtenu gain de cause. […] Le problème pour Emmanuel Macron, c’est que s’il recule, il se dit que les prochaines réformes ce sera à chaque fois la même chose donc c’est ni dans son tempérament de reculer, et en plus il y a une deuxième crainte, c’est qu’il se dit que à chaque nouvelle réforme […] il y ait une nouvelle structure gilets jaunes qui, à chaque fois qu’il essaie de bouger, le fasse reculer ; soit il considère qu’au bout d’un an et demi de quinquennat il faut qu’il fonce avec les risques de casse, soit il recule ; on va voir assez rapidement s’il ne trouve pas une solution intermédiaire. (JT France 2, 1er décembre)

    Et pour la trouver, il pourra s’inspirer des conseils de Nathalie Saint-Cricq.

    *
La journée de mobilisation du 1er décembre a, semble-t-il, contribué à une #panique médiatique croissante face au mouvement des gilets jaunes. Si les premières inquiétudes ont porté sur les conséquences des blocages sur l’économie, ce sont désormais les revendications (irréalistes) du mouvement et les scènes de violences (condamnables) lors des manifestations qui sont désormais dans le viseur médiatique. Et les éditorialistes se mobilisent : en prescrivant conseils et méthodes pour que le gouvernement « sorte de la crise » ; en faisant le tri entre bons et mauvais gilets jaunes selon que leurs revendications sont jugées « légitimes » ou « surréalistes », et leurs comportements, « pacifique » ou « extrémiste » ; ou encore en faisant mine d’organiser le « dialogue social » avec les gilets jaunes, pour mieux permettre de canaliser la colère populaire. À cet égard, ce journalisme d’élite parfaitement ignorant des préoccupations quotidiennes des gilets jaunes, joue parfaitement son rôle de gardien de l’ordre social.


    Pauline Perrenot (avec Maxime Friot)

    #Giletsjaunes

  • Les échographies faites par les obstétriciens non couvertes Le Devoir - Amélie Daoust-Boisvert - 7 janvier 2017

    Les échographies sont maintenant couvertes en cabinet privé, mais pas pour les femmes enceintes chez les obstétriciens. La couverture publique promulguée par Québec à compter du 29 décembre dernier exclut la majorité des examens obstétricaux.
 
    Seuls les examens réalisés par les radiologistes sont couverts. Comme les gynécologues-obstétriciens pratiquent la très grande majorité des échographies chez les femmes enceintes, ces dernières devront continuer à payer lorsqu’elles se rendent en cabinet privé pour cet examen.
     
    Le ministre de la Santé et des Services sociaux, Gaétan Barrette, se défend d’avoir omis de mentionner cette exception publiquement. « C’est faux » , dit son attachée de presse, Julie White, puisque les communiqués de presse diffusés au fil de l’évolution de ce dossier, en juillet et en décembre, indiquent bel et bien que ce sont les échographies « pratiquées par des radiologistes » qui sont couvertes.
     
    C’est aussi ce que stipule le règlement entré en vigueur le 29 décembre dernier.


    « Pour les échographies qui ne sont pas faites par des radiologistes, les patients ont toujours la possibilité de les faire faire gratuitement dans les établissements du réseau ou de payer pour les faire faire en cabinet » , indique Julie White.
     
    L’échographie est utilisée pour de nombreuses autres situations que la grossesse, notamment pour le diagnostic et le suivi de plusieurs cancers. Ce sont ces examens qui sont majoritairement faits par des radiologistes.
     
    Des patientes surprises
    Les patientes enceintes sont surprises lorsqu’elles apprennent qu’elles doivent toujours débourser pour les échographies. L’une d’entre elles ne s’attendait pas à devoir sortir son chéquier, plus tôt cette semaine, après un examen dans une clinique montréalaise. « À cause des propos tenus par le ministre ces dernières semaines, je m’attendais à ce que ce soit gratuit. J’avais pourtant lu tout ce qui s’était écrit sur le sujet ! » raconte Sara-Emmanuelle Duchesne. Enceinte de douze semaines, elle devait passer un test de dépistage important en raison des effets possibles d’un médicament qu’elle prenait alors qu’elle ignorait être enceinte. En raison d’une erreur administrative, elle n’a pas pu obtenir l’examen à l’hôpital où elle est suivie.
     
    Elle a appelé de nombreux hôpitaux pour constater que très rares sont ceux qui offrent l’échographie de premier trimestre. L’examen permet entre autres de détecter des anomalies foetales et de mesurer la clarté nucale. Cette dernière est l’un des indicateurs utilisés dans le diagnostic de la trisomie 21.
    À cause des propos tenus par le ministre ces dernières semaines, je m’attendais à ce que ce soit gratuit. J’avais pourtant lu tout ce qui s’était écrit sur le sujet !

    Sara-Emmanuelle Duchesne, enceinte de douze semaines.
    Mme Duchesne déplore avoir dû finalement débourser 150 $ alors que les autres examens échographiques sont maintenant couverts. « Je considère que c’est une injustice. Les femmes enceintes et les couples ont déjà beaucoup de dépenses à prévoir. La décision du ministre de couvrir l’échographie est positive, mais on apprend aujourd’hui qu’il y a des exclus. »
    . . . . . . . .

    La suite :
    http://www.ledevoir.com/societe/sante/488638/echographies-au-prive-les-femmes-enceintes-n-ont-pas-droit-au-remboursemen
    #Canada #Quebec #Santé #Femmes #grossesse #échographies #guerre_aux_femmes #Gaétan_Barrette

     

  • [vidéo] Ni dieu ni maître, une histoire de l’anarchisme | Tancrède Ramonet
    https://www.youtube.com/watch?v=h4sFRBBRu1s

    Dès son origine au XIXe siècle, l’anarchisme fait trembler le monde. Rival du socialisme, ce courant politique s’oppose aux maîtres comme aux dieux. Considérés comme des apôtres de la destruction, les anarchistes sont sévèrement réprimés. Historiens et spécialistes expliquent les origines de ce mouvement grâce à des archives souvent inédites. Durée : 2h23. Source : Relevé sur le Net...

    • Ni dieu ni maître, une histoire de l’anarchisme, le film de #Tancrède_Ramonet qui devait à l’origine sortir en même temps que le livre de #Gaetano_Manfredonia, Une histoire mondiale de l’anarchie (republié, au milieu de polémiques dont je me suis fait l’écho sur ce blogue) est aujourd’hui visible.
      Il n’est jamais inutile de rendre hommage aux militant(e)s qui ont incarné le combat révolutionnaire libertaire, et bien des (télé)spectateurs, jeunes surtout, apprendront beaucoup.
      Sans doute l’exercice, immense — même si cette « histoire de l’anarchisme » s’interrompt en 1939, après la défaite de la #Révolution_espagnole —, ne peut aller sans quelques approximations et de nombreuses omissions (pas une seconde pour les #Mujeres_libres, quand cette dernière est longuement traitée !).
      La plupart des intervenants (dont Manfredonia lui-même) sont compétents et convaincants. Une mention particulière pour #Marianne_Enckell qui sait mettre à portée de tous et toutes sa grande érudition sur un ton jamais pontifiant.

      Mais d’où vient donc la sensation d’ennui éprouvée, au moins dans la première partie ? Peut-être, paradoxalement, de la volonté naïve, et d’ailleurs sympathique, de « réhabiliter » l’anarchisme, notamment contre l’historiographie bourgeoise et stalinienne.
      Dire, toujours dans la première partie, qu’il est arrivé à l’anarchisme de « dominer le monde » est un excès sans intérêt, quand la remarque vaudrait tout au plus — ce qui n’est pas rien, il est vrai ! — pour le mouvement ouvrier international.

      http://lignesdeforce.wordpress.com/2016/10/29/une-histoire-de-lanarchisme-en-images

    • http://www.librairie-quilombo.org/IMG/arton6760.gif?1493391099
      http://www.librairie-quilombo.org/libertarias

      Indomptables, insoumises, rebelles, mères, ouvrières, paysannes, syndicalistes, combattantes et « guérillères », les libertaires espagnoles, depuis la fin du XIXe et tout au long du XXe siècle, n’ont cessé de clamer leur désir d’émancipation sociale en leur nom propre.

      Si l’histoire retient surtout le rôle déterminant du groupe Mujeres Libres lors de la guerre civile et de la révolution de 1936-1939, cet ouvrage met l’accent sur la pluralité des formes de luttes et de récits de ces militantes qui témoignent d’une véritable spécificité de l’engagement des
      #femmes_anarchistes_espagnoles.

      Contre l’invisibilisation d’un combat ponctué par l’expérience des luttes, des guerres et de l’exil, il s’agit ici, à travers les trajectoires de Francisca Saperas, Ana Delso, Antonia Fontanillas Borras, Les Solidarias, #Mujeres_libres et bien d’autres, de reconstruire une #mémoire collective au féminin, tout en soulignant le caractère transgénérationnel de l’anarchisme espagnol au sein duquel les femmes ont joué un rôle sans précédent.

      #féminisme #antipatriarcat #anarchisme #mouvement_libertaire