Je note pour pas l’oublier : mes amis qui ne plaisantent ni avec la cuisine napolitaine ni avec la qualité du café, me recommandent le bouquin : On va déguster l’Italie ; du panettone aux spaghetti al ragù de Scorsese ; tutta la cucina italiana, de François-Régis Gaudry et al.
Il paraît que c’est vraiment très très bien, bourré d’informations que seuls les locaux de l’étape sont censés connaître, mais c’est déjà épuisé. Va falloir attendre une réimpression…
Sinon, les mêmes amis sont passés cet été à Montpellier, et voyant qu’on mangeait des Barilla (d’ailleurs, sur leurs conseils d’il y a vingt ans), nous ont conseillé de passer à la marque Rummo. Et on confirme : c’est le jour et la nuit.
]]>L’agricoltura civica funziona. E batte coronavirus e modello intensivo
L’approccio «alternativo» risolve molti limiti delle coltivazioni industriali ed è più resiliente nelle crisi. L’università di Firenze rivela: dove si pratica, i contagi calano del 60%
Cosa ci vuole per uscire dalla crisi economica e sociale che l’emergenza sanitaria da coronavirus (Covid-19 o SARS-CoV-2, se preferite) ci sta imponendo? Una buona agricoltura multifunzionale, che si basa su legami di prossimità, solidarietà e sostenibilità, per esempio. Un’agricoltura lontana dal modello intensivo, industrializzato e standardizzato prediletto dalla grande distribuzione organizzata (la rete dei supermercati, per intenderci).
La notizia positiva è che questa agricoltura esiste già. Potremmo chiamarla complessivamente agricoltura civica, anche se la formula – come ogni definizione – non riesce a essere esaustiva di un fenomeno articolato. Anche perché stiamo parlando di ciò che sembra un sistema di agricolture, a cui concorrono strumenti di supporto reciproco tra agricoltori e consumatori, e stili di consumo consapevole, abbracciando tante anime della cosiddetta economia civile. A vario titolo vi rientrano, infatti, le cooperative agricole e i soggetti dell’agricoltura sociale o le esperienze di CSA (community-supported agricolture); ne sono un pilastro i gruppi di acquisto solidale (i GAS) e le reti che li alimentano. Ma possono contribuirvi anche le poco note associazioni fondiarie.
La notizia migliore ad ogni modo è un’altra. Guardando alla resistenza dell’agricoltura civica dimostrata durante le restrizioni imposte dalla pandemia, pensando alla fantomatica fase 2 e a un ipotetico rilancio economico territoriale, auspicando infine l’affermarsi di un modello di sviluppo sostenibile, questa agricoltura offre ottime garanzie – anche sanitarie e ambientali – e soluzioni replicabili.
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Coronavirus: più contagi dove prevale l’agricoltura intensiva
Ad oggi, ovviamente, l’aspetto che preoccupa di più è quello della diffusione dell”epidemia. Ecco perché risulta ancora più interessante un studio recente della Scuola di agraria dell’Università di Firenze che, in proposito, ha preso in esame quattro tipologie di aree coltivate. Il risultato? Una minor incidenza media di contagi all’area dove si pratica un modello di agricoltura tradizionale, quindi assai distante da quella industriale, ad esempio.
«Considerato il dato medio nazionale della diffusione del coronavirus, pari a 47 casi ogni 100 kmq, nelle aree ad agricoltura intensiva l’intensità del contagio sale a 94 casi ogni 100 kmq, mentre nelle aree ad agricoltura non intensiva il dato scende a 32 casi ogni 100 kmq» spiega Mauro Agnoletti, coordinatore del gruppo di ricerca dell’ateneo toscano.
La rilevazione punta particolarmente l’obiettivo sulla Pianura Padana, dove si concentra il 61% delle aree ad agricoltura intensiva del Paese, con il 70% dei casi di Covid-19: «nelle aree della Pianura Padana ad agricoltura intensiva si registrano 138 casi ogni 100 kmq, mentre in quelle ad agricoltura non intensiva la media scende a 90 casi ogni 100 kmq». Insomma “balla” un 53% in più di contagi a sfavore delle prime.
Lo studio non indaga le cause specifiche di questa dinamica. Registra tuttavia che «le aree a media e bassa intensità energetica, dove sono concentrate il 68% delle superfici protette italiane, risultano invece meno colpite dal coronavirus SARS-CoV-2. Queste aree sono distribuite soprattutto nelle zone medio collinari, montane alpine ed appenniniche, caratterizzate da risorse paesaggistiche, naturalistiche ma anche culturali, storiche e produzioni tipiche legate a criteri qualitativi più che quantitativi». Tutte informazioni che potrebbero rivelarsi utili per la ricostruzione che ci aspetta.
Gas e reti dell’economia solidale: resilienti e vicini
Di fronte al rischio contagio, insomma, i territori segnati dalla piccola agricoltura tradizionale, e talvolta marginale, si comportano bene. E forse questo ha qualcosa a che fare con le intenzioni di consumo che, dai tempi del Covid-19, potrebbero confermarsi per il futuro.
Del resto, Michele Russo del consorzio siciliano Le galline felici, realtà storica di quella che è oggi la Rete italiana dell’economia solidale (Ries), sostiene che «questa distanza forzata sta avvicinando le persone».
Mentre l’economia solidale ragiona sulla pandemia pensando al futuro, rafforza le proprie peculiarità (rapidità di adattamento, relazione con l’utenza) sviluppando servizi, qualcosa accade anche a livello individuale. Si consolida, infatti, la consapevolezza che rifornirsi localmente e direttamente dai produttori garantisce un minore passaggio di mani della merce, confortando sul piano della salute. Questo pensiero, superando i limiti consueti della comunità che frequenta storicamente gli incontri della RIES e alimenta i GAS, spinge «anche quelli meno interessati all’etica» a puntare su produzione e distribuzione di prossimità dei beni alimentari.
Stando ai produttori, insomma, un numero maggiore di persone riconosce il vantaggio di un sistema che promuove da sempre biologico, coltivazione rispettosa di clima e paesaggio, legalità nei rapporti di lavoro. Un sistema che unisce contadini e consumatori in una forma di sostegno sempre più reciproco, producendo impatti economici di rilievo sul territorio.
Il consorzio Le Galline felici, per esempio, dà lavoro a 45 dipendenti e raduna 40 aziende agricole per un giro d’affari di circa 3 milioni e mezzo di euro l’anno. E di ciò traggono beneficio circa 500 persone direttamente, oltre alle piccole botteghe che vi si riforniscono, e le migliaia di famiglie che, in Italia e all’estero (soprattutto in Francia, Belgio e Lussemburgo), utilizzano i GAS affiliati per acquistare cibo.
L’economia civile passa per cooperative e agricoltura sociale
E se i soggetti dell’economia solidale, sostenitori di uno sviluppo sostenibile e perciò meno compromesso con la pandemia, sono parte di quell’agricoltura civica multifunzionale di cui stiamo trattando, di certo lo sono anche le cooperative del settore agroalimentare. Lo stesso vale per chi fa agricoltura sociale, che spesso rientra anche formalmente nella cooperazione, e affianca la produzione agricola (30% minimo del fatturato) con attività di welfare (inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, assistenza e cura delle persone, servizi educativi).
Mondi ricchi di professionalità e di peso economico e occupazionale, che in questa fase non sono immuni dai contraccolpi delle restrizioni anti-coronavirus, ma si dimostrano, come già dopo il crollo del 2008, resilienti. «Il vantaggio competitivo di una parte del Terzo settore, cioè della cooperazione, è fatto che vive di stipendio» osserva Giuliano Ciano, portavoce del Forum nazionale dell’agricoltura sociale. «Questo si evidenzia specialmente nei momenti di crisi. Il secondo vantaggio è che il Terzo settoree chi fa assistenza alle persone, inclusa l’agricoltura sociale, in un momento di crisi è capace di mutare, e riesce a trovare sbocchi di natura differente dal punto di vista economico ma anche a modificare le proprie attività».
Associando agricoltura e servizi socio-educativi, pur tra centinaia di persone oggi in cassa integrazione, le oltre 700 realtà economiche riconosciute per legge nell’agricoltura sociale, per ora, si reinventano e reggono. Ed è fondamentale anche pensando alla cooperazione agricola in generale, dal momento che, stando al Rapporto 2017 dell’Osservatorio della cooperazione agricola italiana, le circa 4700 cooperative agricole italiane registravano 35 miliardi di euro di fatturato (8,9 miliardi per il solo comparto ortofrutta).
CSA e associazioni fondiarie: l’agricoltura si fa più civile
Ma le modalità dell’agricoltura “alternativa” non sono finite qui. Ce ne sono almeno un altro paio. Innanzitutto le associazioni fondiarie, riconosciute nel 2016 dal Piemonte, prima tra le regioni italiane. Ancora poco diffuse, a causa della giovane età, le associazioni fondiarie consentono a gruppi di cittadini di acquisire “in prestito” dai proprietari micro-appezzamenti e terreni agricoli incolti o abbandonati, lavorarli e ripristinarli nel rispetto di obblighi paesaggistici, col vantaggio non secondario di prevenire i rischi idrogeologici e gli incendi.
Ci sono poi le CSA, ovvero le comunità di agricoltori supportate dai cittadini, altra forma di sostegno biunivoco tra chi coltiva e chi consuma. Si tratta di un fenomeno di rilievo internazionale ma non sono ancora molte le community-supported agriculture italiane. Tra le principali ci sono senz’altro Arvaia, a Bologna, la romana Semi di comunità e Cumpanatico Sud in Campania.
In generale si tratta di cooperative agricole nelle quali soci lavoratori e fruitori partecipano alle attività in campo e fuori, prefinanziando le produzioni orticole. Tuttavia, tra le CSA possiamo incontrare iniziative guidate dai contadini e altre in cui l’impresa è gestita direttamente dalla comunità attraverso la cooperazione. Troviamo accordi tra produttori e comunità, dove quest’ultima garantisce un approvvigionamento a lungo termine, e vere imprese agricole di comunità, che vendono i loro prodotti anche a chi socio non è.
▻https://valori.it/agricoltura-civica-coronavirus
#agriculture_civique #agriculture #crise #crise #résilience #coronavirus #agriculture_intensive #alternative #agriculture_multifonctionnelle #agriculture_biologique #économie_civile #crise_sanitaire #crise_économique #crise_sociale #confinement #contagions #amap #plaine #montagne #galline_felici
]]> ...« chaque homme est un morceau du continent, une partie de l’ensemble. » Nul Homme n’est une île est un voyage en Europe, de la Méditerranée aux Alpes, où l’on découvre des hommes et des femmes qui travaillent à faire vivre localement l’esprit de la #démocratie et à produire le #paysage du #bon_gouvernement. Des agriculteurs de la #coopérative le Galline Felici en Sicile aux architectes, artisans et élus des #Alpes suisses et du #Voralberg en #Autriche, tous font de la politique à partir de leur travail et se pensent un destin commun. Le #local serait-il le dernier territoire de l’#utopie ?
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#Zwischenwasser (#Bregenzerwald) : Nel comune hanno costruito una scuola in cui hanno aiutato benevolmente gli abitanti e richiedenti asilo
min. 1’12’15
#asile #réfugiés
Que faire des oranges qui sont un millimètre plus petites que ce que les normes considèrent comme « vendable » ?
Message reçu via la newsletter des #Galline_Felici, un consortium qui nous livre en #agrumes et autres produits de #Sicile...
SUCCOMPOST** À PARTIR DE REBUTS ?
(**en français, littéralement jus-compost)
Le terme SUCCOMPOST est l’un de ces néologismes que nous aimons tant
= SUCCO (jus d’oranges) + COMPOST
et REBUT signifie simplement être contraint d’adhérer à la logique aberrante du “PLUS GROS C’EST, meilleur c’est” (???)
une proposition de filière dans laquelle tout est valorisé et rien ne se jette dans laquelle être ACTEURS, ENSEMBLE
Une des choses qui m’a le plus frappé la première fois que j’ai visité l’entrepôt pour la préparation des oranges du Consortium a été la colonne de “binze” (grandes caisses de plus de deux quintaux) d’oranges qui présentaient quelques défauts ou qui étaient trop petites.
Des tonnes.
Ma première pensée : - magnifique, produit gratuit pour moi, pour mes amis et pour la transformation.
Combien pouvons-nous en transformer ? 20 kilos ? 30 kilos ? 100 ?
Et les autres dizaines de milliers ?
Je tiens à préciser d’entrée de jeu que cela est la normalité dans la filière de récolte et de vente des fruits aujourd’hui. Hier je ne sais pas, peut-être que c’était moins exigeant :).
Dans l’imaginaire collectif a été inculqué la notion du “plus gros c’est, meilleur c’est” (quand ? par qui ? peut-être par les américains après la guerre ? pour vendre de la chimie pour l’agriculture ?).
Jamais pour les fruits on entend parler de “plus petit c’est, meilleur c’est”.
Et donc ? Hum ...!
Pourtant, si nous pesons un kilo de “belles grosses” oranges et un kilo de “vilaines petites” oranges et puis que nous en pesons le jus relatif, nous voyons que souvent “les vilaines” font davantage de jus.
Et qu’elles se pressent encore mieux…
Mais ça c’est une autre histoire, une autre réflexion à mener ensemble, pour en tirer les conséquences opérationnelles, mais en attendant nous sommes contraints de les mettre de côté.
Posant des questions, j’ai découvert que ce produit est destiné à l’industrie (nous parlons des sous-calibrées et non des pourries) et que le prix d’attribution de ce “rebut” ne couvre pas non plus le coût de la récolte, du transport à l’entrepôt et de la confection.
La morale ? Rien de revient au producteur et, si le rebut est important (ce qui arrive fréquemment malheureusement), il se transforme en une perte.
Ce que je n’arrive pas à accepter c’est comment un millimètre de différence de diamètre, invisible à l’oeil nu, peut déterminer une différence de valeur aussi importante pour deux oranges qui proviennent du même verger, du même arbre, qui ont été cultivées avec les mêmes soins et la même attention.
Supérieure à 55 mm elle part dans la cagette, et vous la payez 1,50€ ; si elle mesure 54 mm, elle part dans la caisse des rebuts, et à nous producteurs ne nous revient rien.
Une différence millimétrique sur laquelle je me creuse la tête depuis des mois, incapable d’accepter ces “critères”.
Février cette année je rencontre Fabrizio Nardo et #RED_ISLAND (▻http://www.redisland.it), une entreprise de Caltagirone (à proximité de ma campagne) qui me propose d’utiliser un engrais produit par lui obtenu par fermentation fongique bactérienne de la “pulpe d’agrumes", en l’occurrence les déchets de transformation de ces oranges petites ou abîmées ou qui ne sont pas adaptées à la commercialisation comme produits frais.
Compost obtenu à partir des déchets de traitement d’une industrie vertueuse qui recycle les eaux de transformation, réduit les déchets organiques et produit du jus d’orange sanguine 100% biologique de Sicile ?
Je suis tombé sous le charme, j’ai essayé l’engrais, j’en teste actuellement la qualité et dois dire qu’elle me plaît.
Mmmmm, les choses deviennent intéressantes.
J’essaie de partager avec vous l’idée que j’ai eue :
Seriez-vous intéressés par un jus d’oranges fait avec nos oranges durant les mois où les fruits frais ne sont plus disponibles ? (de juin à septembre).
Parce que, si cela peut vous intéresser, j’imagine moi déjà une petite filière, qui excusez-moi mon excès d’enthousiasme, est un petit bijou :
· Notre orange mise tristement au rebut pour un millimètre, ainsi que toutes ses petites soeurs qui partagent le même sort, nous les transformons en jus.
· Avec les déchets de cette transformation, Fabrizio produit le compost que, nous producteurs, acquérons pour utiliser dans nos fermes.
De l’arbre à l’arbre, passant par les agriculteurs, les transformateurs, les consumaCteurs et retournant aux agriculteurs dans un circuit tellement transparent et tracé que ça ne peut que me faire sourire de satisfaction.
Ça vous plaît ?
Si cette supposition vous plaît, je propose de vous envoyer en attendant un échantillon de jus produit par RED ISLAND pour comprendre dans quelle mesure le jus est à votre goût.
Nous vous demandons de consacrer un moment de la distribution de nos produits, par exemple, pour pouvoir le goûter, et si vous le souhaitez, continuer à y réfléchir ensemble.
Nous ne vous demandons pas un pré-achat ou une implication formelle, ce qui est nécessaire aujourd’hui pour réaliser cette opération (qui, au-delà des coûts de production, nécessite tant de travail de programmation, de logistique, de valorisation etc.) et de la construire Ensemble.
Il est nécessaire d’évaluer de quelle quantité de jus nous parlons (les emballages sont en brique d’un litre et la production minimum de 10 000 litres !) et à partir de cela commencer à co-projeter.
3 kg d’oranges nous sont nécessaires pour faire un litre de jus.
Vous payez normalement 4,50 euros pour 3 kg d’oranges.
Nous vous proposons un prix de 4,00 euros le litre de jus surgelé, avec presque les mêmes nutriments de 3 kg d’oranges fraîches,à utiliser quand il n’y a plus d’oranges fraîches.
Nous tenons à préciser qu’il ne s’agit pas d’une opération lucrative pour nous.
C’est une opération visant presque seulement à donner de la “dignité” à un produit : jus provenant d’une matière première traçable, plutôt que jus anonyme, qui vient d’on ne sait qui et qui va finir on ne sait où..
Des 4,00 euros que vous paierez, si vous le souhaitez, comprennent seulement les coûts de transformation, l’emballage, la gestion et le transport, en plus de la valeur de la matière première.
Que, peut-être, à la fin de l’histoire, et si nous faisons tout pour le mieux, ENSEMBLE, vaudra pour nous 20/25 centimes, plutôt que les 16 centimes que nous recevons pour le “rebut” bio.
Quelques chiffres (nous publierons les détails sous peu) :
10 mille litres la quantité minimum (pour raisons techniques) de jus à produire.
3 kg d’oranges pour faire un litre de jus.
Soit 30 mille kilos à transformer en une seule fois.
4/10 centimes de recettes en plus pour nous, si tout va bien, pour chaque kilo d’oranges utilisé dans cette filière vertueuse.
Ainsi, de mille deux cents euros à trois mille euros en plus pour le Consortium. Si tout va bien.
Si nous partageons ce projet ensemble, je m’engage à bien étudier toute l’opération, y compris les modalités de livraison et la période de disponibilité.
Par ailleurs, tout le compost produit à partir des déchets de cette transformation sera acquis par les membres du Consortium et redistribué dans nos champs, devenant sans cesse plus “Nos”, champs.
P.S. Le jus est surgelé/non pasteurisé, et cela est optimal, en termes de saveur et de nutriments, une fois décongelé, il se conserve pendants presque 4 semaines au frigo.
Je vous embrasse
Mico
#déchets #valorisation #industrie_alimentaire #rebuts #compost #jus_d'orange #absurdistan
En fait, en ce qui me concerne, je préfèrerais pouvoir acheter les petites oranges, ce qui semble être impossible, plutôt que d’être livrée en jus...
]]>Biens communs : jouir sans posséder
▻https://abonnes.lemonde.fr/idees/article/2018/06/21/biens-communs-jouir-sans-posseder_5318960_3232.html
Débats citoyens
« Dans les interactions entre habitants “historiques”, paysans, squatteurs, voisins (…) s’est construit un territoire commun, au-delà de la propriété, des habitudes et des appartenances », constate ainsi un collectif d’intellectuels, parmi lesquels la philosophe Isabelle Stengers et l’anthropologue au Collège de France Philippe Descola (Mediapart, 6 avril). Une démarche « collective, construite comme un “commun”, au sein de laquelle les individualités trouvent leur propre énergie », appuient l’ingénieur des Ponts et Chaussées Olivier Frérot et le géographe Luc Gwiazdzinski (Libération, 20 avril).
« Pourquoi ne pas reconnaître aux zadistes un droit à l’expérimentation ? Ils pourraient ainsi promouvoir une autre approche de la propriété qui est celle des “commons”, c’est-à-dire un dispositif fondé sur un collectif identifié et porteur d’un territoire », insiste l’économiste Bernard Paranque (Le Monde, 18 mai).
Lire aussi : Daniela Festa : « En Italie, un mouvement social a émergé autour des communs urbains »
La question des communs ne s’invite pas seulement dans le bocage nantais. Une Université du bien commun a été lancée à Paris en octobre 2017, dont le premier cycle de conférences et de débats citoyens a rencontré un franc succès. « Nous pensons que ce succès est lié, non seulement à la qualité des intervenants, mais également au fait que nous essayons d’articuler l’analyse et la recherche avec des pratiques de terrain et des initiatives en cours sur les biens communs (semences, eau, agriculture urbaine, logiciels libres, logement, etc.) », précise Cristina Bertelli, cofondatrice de l’université.
Pour son film Nul homme n’est une île, sorti en avril, le documentariste Dominique Marchais a parcouru l’Italie, l’Autriche et la Suisse, en quête d’initiatives d’entraide et de sauvegarde des territoires allant à contre-courant des modèles économiques dominants. Et il ne se passe pas un mois sans que sorte un nouvel ouvrage consacré à l’économie ou à la gouvernance des biens communs. Ces derniers font donc un retour en force dans le monde des idées. Mais de quoi parle-t-on précisément ?
]]>#Dominique_Marchais, filmeur des communs
▻https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/040418/dominique-marchais-filmeur-des-communs
« Nul homme n’est une île » de Dominique Marchais. Le « bon gouvernement » est-il encore possible ? Nul homme n’est une île, en salle ce mercredi 4 avril, documente des initiatives locales en #Sicile, en Suisse et en Autriche. D’agrumes en artisanat du bois, Dominique Marchais construit un archipel cinématographique et politique.
#Culture-Idées #Ambrogio_Lorenzetti #Chiara_Frugoni #Galline_Felici #Patrick_Boucheron
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