• Petrolio e migranti. Il « patto libico »

    Decine di navi e depositi per il contrabbando attraverso Malta e i clan siciliani. Business da oltre un miliardo. Ispettori Onu e Ue: a comandare sono i boss del traffico di esseri umani.

    «Oil for food» la chiamavano in Iraq. Export di petrolio in cambio di cibo. Era l’unica eccezione all’embargo. Le milizie libiche hanno cambiato i fattori: «#Oil_for_migrants ». Dovendo rallentare la frequenza dei barconi, hanno ottenuto cospicui “risarcimenti” mentre imbastivano un colossale contrabbando di petrolio. « Oil for migrants ». A tutto il resto pensano i faccendieri maltesi e la mafia siciliana.

    Le ultime tracce della “Libia connection” sono del 20 gennaio. In Sicilia, per questioni di oro nero, sono finiti indagati in 23, tutti vicini ai clan di mafia catanesi. Il 5 dicembre 2019 la Procura di Bologna aveva messo i sigilli a 163mila litri di carburante. Solo due giorni prima i magistrati di Roma avevano arrestato 16 persone e bloccato 4 milioni di litri di gasolio. Abbastanza per fare il pieno a 80mila utilitarie. Secondo la procura di Trento, che aveva chiuso un’analoga inchiesta, nel nostro Paese l’evasione delle imposte negli idrocarburi può arrivare a 10 miliardi di euro. L’equivalente di una legge finanziaria.

    Per venirne a capo bisogna ficcare il naso a Malta, che «rappresenta anche uno snodo per svariati traffici illeciti, come quello dei prodotti petroliferi provenienti dai Paesi interessati da una forte instabilità politica», si legge nell’ultima relazione al parlamento della Direzione investigativa antimafia. L’episodio chiave è del 2017, quando la procura di Catania porta a termine l’operazione “Dirty Oil”, che ha permesso «di scoprire – ricorda sempre la Dia – un traffico di petrolio importato clandestinamente dalla Libia e che, grazie ad una compagnia di trasporto maltese, veniva introdotto sul mercato italiano sfruttando il circuito delle cosiddette pompe bianche». In mezzo, però, c’è l’omicidio di Daphne Caruana Galizia. La reporter maltese era stata eliminata con una bomba il 16 ottobre 2017, due giorni prima della retata che da Catania a Malta avrebbe confermato tutte le sue rivelazioni sui traffici illeciti tra la Libia e l’Europa via La Valletta. Messo alle strette, il governo dell’isola aveva chiesto sanzioni internazionali contro i boss del contrabbando di petrolio. Ma è a questo punto che accade un imprevisto. Uno di quegli inciampi che da solo permette di comprendere quale sia la misura e l’estensione della partita. Ad agosto 2019 il Cremlino, a sorpresa, annuncia di voler porre il veto al provvedimento con cui il Consiglio di Sicurezza Onu si apprestava a disporre il blocco, ovunque nel mondo, dei patrimoni della gang di maltesi, libici e siciliani. Un intrigo internazionale in piena regola. Un anno prima il Dipartimento del Tesoro Usa aveva disposto l’interdizione di tutti gli indagati da ogni attività negli Stati Uniti.

    Tra le persone che Malta, dopo l’uccisione di Caruana Galizia, avrebbe voluto vedere con i sigilli ai conti corrente ci sono l’ex calciatore Darren Debono e i suoi associati, tra i quali l’uomo d’affari Gordon Debono e il libico Fahmi Bin Khalifa. Nomi che tornano spesso. I tre, con il catanese Nicola Orazio Romeo, sono sotto processo perché ritenuti responsabili di un ingente traffico di gasolio sottratto ai giacimenti libici sotto il controllo della milizia Al-Nasr, quella del trafficante-guardacoste Bija e dei fratelli Kachlav. Dallo stabilimento di Zawiyah, il più grande della Libia, praticamente a ridosso del più affollato centro di detenzione ufficiale per migranti affidato dalle autorità ai torturatori che rispondono sempre a Bija, l’oro nero viene sottratto con la complicità della “ Petroleum facility guard”, un corpo di polizia privato incaricato dal governo di proteggere il petrolchimico. Ma a capo delle guardie c’è proprio uno dei fratelli Kachlav. Il porto di Zawyah è assegnato alla “Guardia costiera” che, neanche a dirlo, è comandata sempre da al Milad, nome de guerre “Bija”, nel 2017 arrivato con discrezione in Italia durante il lungo negoziato per fermare le partenze dei migranti.

    A sostenere la connessione tra smercio illegale di idrocarburi, traffico di armi ed esseri umani sono gli esperti delle Nazioni Unite inviati in Libia per investigare. Il gasolio «proviene dalla raffineria di Zawiyah lungo un percorso parallelo alla strada costiera», si legge nell’ultima relazione degli ispettori Onu visionata da Avvenire. Molte foto ritraggono proprio Bija alla guida di gruppi combattenti o impegnato su navi cisterna. Le conclusioni confermano inoltre che l’area di Zuara, dove spadroneggia il clan Dabbashi – a seconda dei casi alleato o in rotta di collisione con i boss di Zawyah – «è stata la principale piattaforma per le esportazioni illecite via mare di prodotti petroliferi raffinati». Nei dintorni ci sono almeno 40 depositi illegali di petrolio. Da questi impianti «il carburante – si legge ancora – viene trasferito in autocisterne più piccole fino al porto di Zuara, dove viene caricato in piccole navi cisterna o pescherecci con serbatoi modificati». A disposizione dei contrabbandieri c’è una flotta ragguardevole: «Circa 70 imbarcazioni, piccole petroliere o pescherecci da traino, sono dedicate esclusivamente a questa attività». Dalle stazioni di pompaggio i trafficanti utilizzano condutture che trasportano il carburante alle navi che sostano «tra 1 e 2 miglia nautiche al largo».

    I nomi dei vascelli sono noti e riportati in diversi documenti confidenziali. Impossibile che in Libia nessuno veda. In totale «esistono circa 20 reti di contrabbando attive, che danno lavoro a circa 500 persone», spiegano gli esperti Onu. Manodopera da aggiungere alle migliaia di libici arruolati dagli stessi gruppi per controllare il territorio, gestire il traffico di esseri umani, combattere per le varie fazioni.

    Le inchieste, però, non fermano il business. Il catanese Romeo, indagato nel 2017 per l’indagine etnea “ Dirty Oil”, in passato era stato ritenuto dagli investigatori in contatto con esponenti della famiglia mafiosa Santapaola–Ercolano. Ipotesi, in attesa di un pronunciamento dei tribunali, sempre respinta dall’interessato. A confermare l’interesse di Cosa nostra siciliana per le petroliere sono arrivati i 23 arresti di gennaio. Tra gli indagati vi sono ancora una volta esponenti dei clan catanesi, stavolta della famiglia Mazzei, tornata ad allearsi proprio con i Santapaola– Ercolano. «Abbiamo riscontrato alcuni collegamenti con personaggi coinvolti nell’indagine Dirty Oil, dove era emersa proprio l’origine libica del petrolio raffinato», ha commentato dopo gli arresti il procuratore aggiunto di Catania, Francesco Puleio. Alcuni degli indagati hanno anche «cercato nuovi canali di fornitura e sono entrati in contatto con l’uomo d’affari maltese Gordon Debono, coinvolto nell’indagine Dirty Oil».

    Il collegamento tra mafia libica e mafia siciliana per il tramite di mediatori della Valletta è confermato da un’altra rivelazione contenuta nel dossier consegnato al Palazzo di Vetro a fine 2019. A proposito della nave “Ruta”, con bandiera dell’Ucraina, sorpresa a svolgere attività di contrabbando petrolifero, gli investigatori Onu scrivono: «Secondo le indagini condotte dal Procuratore di Catania», il vascello è stato coinvolto in operazioni illegali, compreso il trasferimento di carburante ad altre navi, «in particolare la Stella Basbosa e il Sea Master X, entrambi collegati alla rete di contrabbando di “Fahmi Slim” e, secondo quanto riferito, ha scaricato combustibile di contrabbando nei porti italiani in 13 occasioni ». Quello di “Fahmi Slim” altro non è che il nome di battaglia di Fahmi Musa Bin Khalifa, il boss del petrolio di Zuara, in affari con Mohammed Kachlav, il capo in persona della milizia al Nasr di Zawyah.

    A ostacolare il patto tra mafie dovrebbe essere l’operazione navale europea Irini «che ha già dimostrato l’utilità in termini di informazioni raccolte, e per l’effetto deterrenza anche sul contrabbando di petrolio», ha detto nei giorni scorsi il commissario agli affari Esteri Josep Borrel. E chissà se l’aumento del 150% delle partenze sui barconi sia solo una coincidenza o non sia uno degli effetti di «Oil for migrants».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/petrolio-e-migranti-il-patto-libico
    #pétrole #migrations #Libye #pacte #extractivisme #accord #Malte #Italie #contrebande #mafia #Libia_connection #Dirty_Oil #Daphne_Caruana_Galizia #Darren_Debono #Gordon_Debono #Fahmi_Bin_Khalifa #Nicola_Orazio_Romeo #Al-Nasr #Bija #Kachlav #Zawiyah #Petroleum_facility_guard #gardes-côtes #Dabbashi #Zuara #Zawyah #Romeo #Santapaola–Ercolano #Cosa_nostra #Mazzei #Ruta #Stella_Basbosa #Sea_Master_X #Fahmi_Slim #Fahmi_Musa_Bin_Khalifa #Mohammed_Kachlav #Irini

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    https://seenthis.net/messages/849512

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  • EU ’covered up’ Croatia’s failure to protect migrants from border brutality

    Exclusive: Brussels officials feared disclosing Zagreb’s lack of commitment to monitoring would cause ‘scandal’

    EU officials have been accused of an “outrageous cover-up” after withholding evidence of a failure by Croatia’s government to supervise #police repeatedly accused of robbing, abusing and humiliating migrants at its borders.

    Internal European commission emails seen by the Guardian reveal officials in Brussels had been fearful of a backlash when deciding against full disclosure of Croatia’s lack of commitment to a monitoring mechanism that ministers had previously agreed to fund with EU money.

    Ahead of responding to inquiries from a senior MEP in January, a commission official had warned a colleague that the Croatian government’s failure to use money earmarked two years ago for border police “will for sure be seen as a ‘scandal’”.

    Supervision of the behaviour of border officers had been the condition set on a larger grant of EU funds to Croatia. There have been multiple allegations of violent pushbacks of migrants and refugees by Croatian police on the border with Bosnia, including an incident in which a migrant was shot.

    In response to allegations of a cover-up, an EC spokesman told the Guardian that what was known had been withheld from MEPs as the information was believed to have been “incomplete”.
    Crosses on our heads to ’cure’ Covid-19: refugees report abuse by Croatian police
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    It throws a spotlight on both the Croatian government’s human rights record and the apparent willingness of the EU’s executive branch to cover for Zagreb’s failure.

    Croatia is seeking to enter the EU’s passport-free Schengen zone – a move that requires compliance with European human rights standards at borders.

    Despite heated denials by the Croatian authorities, the latest border incident has been described by aid workers as the most violent in the Balkan migration crisis. On 26 May, 11 Pakistani and five Afghan men were stopped by a group wearing black uniforms and balaclavas in the Plitvice Lakes, 16km (10 miles) into Croatia from the Bosnian border.

    “The men in uniforms tied each of the Pakistanis and Afghanis around a tree, so their wrists were bound and they had to turn their faces toward the trees,” according to a report from the Danish Refugee Council (DRC), which provides healthcare for migrants in Bosnia. “Once these people were unable to move, the men in uniforms fired several shots in the air with guns placed close to the ears of the Pakistanis and Afghanis. There were also shots fired close to their legs.’’

    “They kept shooting. They were shooting so closely that the stones under our feet were flying and being blown to pieces,” one of the men told the Guardian. “They kept saying: ‘I want to beat and kill you.’ They tortured us for three to four hours.”

    The council’s report says electro-shockers were placed on people’s necks and heads. “One of the men in uniform was cutting several victims with knives and the same person inflicted cuts on both of the palms of one person.”

    One asylum seeker said that one of the men put his knee on his neck, then cut at him with a blade. ‘‘He sliced the index finger of my left hand, and blood started spurting out like a small shower,’’ he said. “Then he smiled and cut my middle finger followed by my palm with a larger cut. The whole hand is swollen beyond recognition.”

    After a while, the men in balaclavas called other uniformed officers.

    According to the victims and a report by the DRC, “before the police arrival, one of the men in uniform made a film with his mobile phone, while others in his company were laughing, yelling and provoking”.

    Upon the arrival of police officers, the migrants were put into vans and taken to the border at Šiljkovača, a village close to Velika Kladuša. Police officers did not beat them, but ordered them into Bosnian territory.

    “All of them had bleeding wounds on their heads and numerous bruises on various parts of the body,” Nicola Bay, the DRC country director for Bosnia, told the Guardian. “Four of them had broken arms and one had a broken leg and both arms.”

    Contacted by the Guardian, the Croatian police denied the allegations and suggested that asylum seekers could have fabricated the account and that the wounds could be the result of “a confrontation among migrants” that took place ‘‘on 28 May in the vicinity of the Croatian border, near Cazin’’.

    Volunteers and charities who have treated migrants involved in the fight in Cazin, said the two incidents are unrelated and happened two days apart. Those involved in the fight in Cazin have not claimed they were attacked by the police.

    The establishment of supervisory mechanisms to ensure the humane treatment of migrants at the border had been a condition of a €6.8m (£6.1m) cash injection announced in December 2018 to strengthen Croatia’s borders with non-EU countries.

    The mechanism was publicised by the European commission as a way to “ensure that all measures applied at the EU external borders are proportionate and are in full compliance with fundamental rights and EU asylum laws”.

    Croatian ministers claimed last year that the funds had been handed over to the UN High Commission for Refugees (UNHCR) and the Croatian Law Centre to establish the supervisory mechanism.

    Both organisations deny receiving the money.

    In January this year, the commission was asked by Clare Daly, an Irish MEP in the Independents 4 Change party, to account for the discrepancy.

    A commission official responded that the UNCHR and Croatian Law Centre had established the monitoring mechanism but from “their own funds” to ensure independence from the government.

    He added: “Hopefully [this] clarifies this matter once and for all”.

    But both organisations have again denied being involved in any monitoring project, clarifying that they had only been engaged in an earlier initiative involving the examination of police files.

    Beyond the apparent inaccuracy of the response to Daly, internal emails suggest the full facts of the “underspending” – as its known to the commission – were also withheld.

    The EC failed to inform Daly that the Croatian government had decided to ring-fence only €102,000 of the €300,000 provided for the monitoring mechanism and that ultimately only €84,672 was actually spent – €17,469.87 was given to the interior ministry and €59,637.91 went to NGOs. A roundtable conference accounted for €1,703.16.

    “While we know that there has been underspending on the €300,000 … we thought that around € 240,000 were nevertheless spent in the context of the monitoring mechanism,” an EU official had written while discussing how to deal with the MEP’s questions. “Having spent only EUR 102,000, will for sure be seen as a ‘scandal’.”

    The commission did not pass on information on the spending to Daly but privately officials agreed to seek answers urgently. They also discussed in a phone and email exchange the possibility of intervening in the member state’s planned report due to the poor handling of the matter by the Croatian government.

    “Seeing how unfortunate [Croatia] is presenting this issue, [Croatia] definitively needs (your?) help in putting some ‘final touches’ to the report,” an official in the commission’s migration department wrote to a colleague. “Will [Croatia] provide you with an advance copy of the final report?”

    Daly told the Guardian: “It is outrageous – the commission appears to be colluding with the Croatian authorities in a cover-up.”

    An EC spokesperson said the EU’s executive branch was committed to the establishment of a fully independent border monitoring mechanism.

    The spokesperson said: “We would caution against drawing misleading conclusions from reading the internal email exchanges in isolation.”

    He added: “The Croatian authorities are explaining in their final implementation report how the monitoring mechanism was established, how it works in practice and outline the results.

    “Given that the report submitted by the Croatian authorities was incomplete, the commission asked the Croatian authorities for clarifications first in writing and orally regarding outstanding issues (eg factual data confirming the achievements of the project indicators relating to internal controls and trainings).”

    https://www.theguardian.com/global-development/2020/jun/15/eu-covered-up-croatias-failure-to-protect-migrants-from-border-brutalit
    #complicité #EU #UE #Croatie #violence #réfugiés #asile #migrations #violence #violences #hauts_fonctionnaires #fonds #argent #gardes_frontière #route_des_Balkans #frontières #Plitvice_Lakes #commission_européenne #Union_européenne #couverture

    • Report from Centre for Peace Studies on the pushback of children

      On 29th May 2020, the Centre for Peace Studies – a key member of the Border Violence Monitoring Network (BVMN) – presented a new report alongside the Welcome! Initiative. Addressing the Croatian Government, the “Report on violent and illegal expulsions of children and unaccompanied children” is based on testimonies collected by activists through the BVMN shared database. The publication shares the story of children who sought protection from Croatia, and how Croatia answered in violence.

      “We came to the door of Prime Minister Plenković and Deputy Prime Minister and Minister of the Interior Božinović, who have been turning their backs on testimonies and accusations for years and silently pursuing a policy of flattering the European Union. Even the most vulnerable are not excluded from violence – children “, said Tea Vidović on behalf of the Welcome! Initiative.

      The report submitted to the Government by the organizations provides testimonies of children and their families and unaccompanied children on violent and illegal methods that they had to experience at the hands of police authorities. This illegal and inhuman behavior violates national laws, international law and human rights, prevents access to international protection and, most importantly, marks children’s lives. Although the Government of the Republic of Croatia and the Ministry of the Interior should take into account the special vulnerability of children, respect their rights and best interests, children experience police brutality and limitation of their freedom for hours without access to water and food.

      “While the government uses every opportunity to emphasize the importance of border protection, we wonder in which way is police protecting Croatian borders? By beating children, confiscating their personal belongings, locking children in police vans for several hours in which they are exposed to extremely high or extremely low temperatures, shooting and using electric shocks, is this how the police protect Croatian borders? ”, points out Ana Ćuća.

      The exact number of children who are victims of police brutality remains unknown. BVMN has reported 209 cases of violent and illegal expulsions of children from Croatia since 2017, while Save the Children recorded 2969 expulsions of children at the borders in the Western Balkans during the first 9 months of last year.

      Two cases are currently pending at the European Court of Human Rights against Croatia, both involving violence and pushback. The first is the case of the family of the tragically late six-year-old girl Madina Hussiny, who was killed at the Croatian-Serbian border. The second includes pushbacks, illegal detention and inhumane treatment of a 17-year-old Syrian boy by Croatian police, who was pushed back to Bosnia and Herzegovina despite seeking asylum in Croatia.

      The latest report presented is the sixth report on violent and illegal expulsions published in the last four years, and it is the collective work of the Centre for Peace Studies, the Society for Psychological Assistance, the Welcome! Initiative and the Border Violence Monitoring Network. It also brings a short graphic novel based on the story of little #Madina, a young girl killed in transit, for whose death no one has yet been held accountable.

      Therefore, the organisations ask the Government and the Ministry of the Interior to finally take responsibility and for those who sanction and carry out systematic violence. Responsible institutions are obliged to investigate those who commit violence and push back children in need of protection. All children deserve justice and protection.

      https://www.borderviolence.eu/report-from-centre-for-peace-studies-on-the-pushback-of-children
      #enfants #enfance #mineurs

      Pour télécharger le #rapport:
      https://www.cms.hr/system/article_document/doc/647/Pushback_report_on_children_and_unaccompanied_children_in_Croatia.pdf

    • Policiers croates accusés de violences contre des migrants : l’UE réclame une "enquête approfondie’’

      Après avoir été interpellée par Amnesty International sur la « violence » des policiers croates à l’égard des migrants, la Commission européenne a réclamé à Zagreb une « enquête approfondie ». L’institution prévoit d’envoyer une mission sur place, quand la situation sanitaire le permettra.

      L’Union européenne est sortie de son ’’silence’’ au sujet des accusations de violences contre des migrants perpétrées par la police croate. Vendredi 12 juin, la Commission européenne a réclamé à Zagreb une "#enquête_approfondie'' à la suite de la publication d’un rapport à charge de l’ONG Amnesty International dénonçant des #passages_à_tabac, des #tortures et des tentatives d’#humiliation de la part de policiers croates (https://www.infomigrants.net/fr/post/25339/on-les-suppliait-d-arreter-de-nous-frapper-ils-chantaient-et-riaient-l).

      « Nous sommes très préoccupés par ces allégations », a déclaré un porte-parole de l’exécutif européen, Adalbert Jahnz. « La #violence, l’humiliation et les #traitements_dégradants des demandeurs d’asile et migrants n’ont pas leur place dans l’Union européenne et doivent être condamnés », a-t-il assuré.

      L’Union européenne avait été directement interpellée par Amnesty International dans son rapport. Ce document affirme que 16 migrants, qui tentaient d’entrer illégalement en Croatie, ont été « ligotés, brutalement battus et torturés » pendant plusieurs heures par des forces de l’ordre, dans la nuit du 26 au 27 mai. « L’Union européenne ne peut plus rester silencieuse et ignorer délibérément les violences et les abus commis par la police croate à la frontière », avait déclaré Massimo Moratti, directeur adjoint de l’antenne européenne de l’ONG.

      https://twitter.com/Jelena_Sesar/status/1271044353629335553?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

      Une mission sur place quand la situation sanitaire le permettra

      L’exécutif européen a également indiqué être « en contact étroit » avec les autorités croates qui « se sont engagées à enquêter » sur ces accusations de mauvais traitements à leur frontière avec la Bosnie (https://www.infomigrants.net/fr/post/18721/plusieurs-migrants-retrouves-blesses-a-la-frontiere-entre-la-bosnie-et). « Nous attendons que ces accusations fassent l’objet d’une enquête approfondie et que toutes les actions nécessaires soient prises », a poursuivi le porte-parole.

      La Commission prévoit aussi d’envoyer, quand la situation sanitaire le permettra, une mission sur place, dans le cadre d’un mécanisme de surveillance du respect des droits fondamentaux par les autorités aux frontières lié à l’allocation de fonds européens.

      Le ministère croate de l’Intérieur a, de son côté, immédiatement démenti ces accusations, en ajoutant cependant qu’une enquête serait ouverte.

      Des milliers de migrants empruntent chaque année la « route des Balkans » pour essayer de rejoindre l’Europe occidentale. La plupart passent par la Croatie, pays membre de l’UE, le plus souvent en provenance de la Bosnie.


      https://www.infomigrants.net/fr/post/25354/policiers-croates-accuses-de-violences-contre-des-migrants-l-ue-reclam

    • Croatia: Fresh evidence of police abuse and torture of migrants and asylum-seekers

      In a horrifying escalation of police human rights violations at the Croatian border with Bosnia, a group of migrants and asylum seekers was recently bound, brutally beaten and tortured by officers who mocked their injuries and smeared food on their bleeding heads to humiliate them, Amnesty International has revealed today.

      Amnesty International spoke to six men among a group of 16 Pakistani and Afghan asylum-seekers who were apprehended by the Croatian police on the night between 26 and 27 May near Lake Plitvice, as they tried to cross the country to reach Western Europe.

      Between eight and ten people wearing black uniforms and balaclavas identical to those used by Croatia’s Special Police, fired their weapons in the air, kicked and repeatedly hit the restrained men with metal sticks, batons and pistol grips. They then rubbed ketchup, mayonnaise and sugar that they found in one of the backpacks on migrants’ bleeding heads and hair and their trousers. Amnesty International also spoke to doctors who treated the men and NGOs who witnessed their injuries.

      “The European Union can no longer remain silent and wilfully ignore the violence and abuses by Croatian police on its external borders. Their silence is allowing, and even encouraging, the perpetrators of this abuse to continue without consequences. The European Commission must investigate the latest reports of horrifying police violence against migrants and asylum-seekers.” said Massimo Moratti, Deputy Director of the Europe Office, following the latest incident on the Croatian border.

      Physical and psychological abuse

      Amir from Pakistan told Amnesty: “We were pleading with them to stop and show mercy. We were already tied, unable to move and humiliated; there was no reason to keep hitting us and torturing us.” He said the armed men showed no sympathy. “They were taking photos of us with their phones, and were singing and laughing.” Amir had a broken arm and nose, stiches on the back of his head, and visible bruising all over his face and arms.

      Ten men suffered serious injuries that night. Thirty-year-old Tariq now has both of his arms and a leg in a cast, visible cuts and bruises on his head and face and is suffering from severe chest pain.

      “They did not give us a chance to say anything at all when they caught us. They just started hitting us. While I was lying on the ground, they hit my head with the back of a gun and I started bleeding. I tried to protect my head from the blows, but they started kicking me and hitting my arms with metal sticks. I was passing in and out of consciousness the rest of the night.” Tariq is now forced to use a wheelchair to move around and it will take months before he is able to move on his own again.

      The men told Amnesty International how they felt humiliated as militia rubbed mayonnaise and ketchup on to their bloody heads and faces. One masked man squirted mayonnaise on an asylum-seeker’s trousers between his legs, while others laughed and sang “Happy Birthday” around them.

      After almost five hours of continuous abuse, the migrants were handed over to the Croatian Border Police who transported them close to the border with Bosnia and Herzegovina in two vans before ordering them to walk. “They were taken aback by our condition. We were drenched in blood and very shook up. We could barely stand, much less walk for hours to Bosnia. But they told us to go. They told us to carry the guys who couldn’t walk and just go.” Faisal told Amnesty.

      Some of the men eventually reached Miral, a reception centre run by the International Organization for Migration in Velika Kladusa in Bosnia and Herzegovina, but five, who were too weak to walk, stayed behind and were eventually picked up by an NGO operating in the camp.

      An emergency doctor at the medical clinic in Velika Kladusa who treated the men told Amnesty International that they all had injuries on the back of their heads which were consistent with a blow by a blunt object and required stiches. Most had multiple fractures, joint injuries, collapsed lungs, cuts and bruises and several were traumatized. Their recovery could take months.

      Routine violent pushbacks and torture by the Croatian police remain unpunished

      While only the latest in the series, the incident points to a new level of brutality and abuse by the Croatian police. In early May, the Guardian reported about a group of men who were forced across the Croatian border after being beaten and having orange crosses spray-painted on their heads. The Croatian Ministry of Interior dismissed the allegations, but the testimonies of violence and intimidation fit the trend of unlawful pushbacks taking place not only on the Croatian, but also on other external borders of the European Union.

      Numerous reports over the past three years have revealed how the Croatian border police routinely assault men, women and teenagers trying to enter the country, destroy their belongings and smash their phones before pushing them back to Bosnia. People are sometimes stripped of their clothes and shoes, and forced to walk for hours through snow and freezing cold rivers.

      A physician in the Velika Kladusa clinic told Amnesty International that approximately 60 per cent of migrants and asylum-seekers who required medical treatment reported that their injuries were inflicted by the Croatian police, while they were trying to cross the border. “Many injuries involve fractures of long bones and joints. These bones take longer to heal and their fractures render the patient incapacitated for extended periods of time. This appears to be a deliberate strategy – to cause injuries and trauma that take time to heal and would make people more reluctant to try to cross the border again or any time soon,” the physician told Amnesty International.

      The Croatian Ministry of Interior has so far dismissed these allegations, refusing to carry out independent and effective investigations into reported abuses or hold its officers to account. In a climate of pervasive impunity, unlawful returns and violence at the border have only escalated. Amnesty International has shared the details of this incident with the Ministry of Interior, but has not received an official response.

      The EU’s failure to hold Croatia to account

      The European Commission has remained silent in the face of multiple, credible reports of gross human rights abuses at the Croatian border and repeated calls by the European Parliament to investigate the allegations. Furthermore, Croatia remains a beneficiary of nearly EURO 7 million of EU assistance for border security, the vast majority of which is spent on infrastructure, equipping border police and even paying police salaries. Even the small proportion (EURO 300,000) that the Commission had earmarked for a mechanism to monitor that the border measures comply with fundamental rights and EU asylum laws, has been no more than a fig leaf. Last year, the Commission recommended Croatia’s full accession to the Schengen Area despite human rights abuses already being commonplace there.

      “The European Commission cannot continue to turn a blind eye to blatant breaches of EU law as people are being branded with crosses on their heads or brutally tortured and humiliated by Croatian police. We expect nothing less than the condemnation of these acts and an independent investigation into reported abuses, as well as the establishment of an effective mechanism to ensure that EU funds are not used to commit torture and unlawful returns. Failing urgent action, Croatia’s inhumane migration practices will turn the EU into an accomplice in major human rights violations taking place at its doorstep,” said Massimo Moratti.

      Violent pushbacks from Croatian border have been a regular occurrence since late 2017. The Danish Refugee Council recorded close to 7,000 cases of forcible deportations and unlawful returns to Bosnia and Herzegovina in 2019, most of which were accompanied by reported violence and intimidation by Croatian police. Despite the brief respite during the lockdown due to COVID-19 pandemic, pushbacks continue with 1600 cases reported only in April. The figures are increasing daily, as the restrictions across the region are being lifted and the weather is turning milder.

      Amnesty International has interviewed over 160 people who have been pushed back or returned to Bosnia and Herzegovina since July 2018. Nearly one third reported being beaten, having their documents and telephones stolen, and verbally abused in what appears to be a deliberate policy designed to deter future attempts to enter the country.

      https://www.amnesty.eu/news/croatia-fresh-evidence-of-police-abuse-and-torture-of-migrants-and-asylum-se
      #rapport #Amnesty_international

    • Croatia, police abuse is systemic

      While the world is outraged and protests after George Floyd’s death to denounce institutionalised violence, migrants have been beaten and tortured on the Balkan route for years. A brutal practice often covered up, even by the EU itself.

      George Floyd’s death on May 25th sparked protests around the world against police violence and institutional racism. In the Balkans as elsewhere, sit-ins have been held in support of #BlackLivesMatter , followed by calls to report abuses committed locally by the police. And in the region there is no lack of such abuses. In fact, police violence is routine on the “Balkan route”, the flow of migrants and refugees that has crossed the peninsula since 2015 in the hope of reaching the European Union. The events of the past few weeks have unfortunately confirmed once again the link between police brutality and immigration, bringing us back to the Croatian-Bosnian border. It is a story of systemic abuse, both proven and covered up, which involves a member state of the EU, candidate for accession to the Schengen area and, according to the latest revelations of The Guardian, the European Commission itself.
      Torture in Croatia

      When it comes to police abuse on the Croatian-Bosnian border, one does not really know where to start. The accidents recorded in recent years are so many that we can no longer even speak of “accidents”, or unexpected events. On the contrary, violence is rather a common practice, the only news being the increase in brutality by the agents, who have gone from illegal pushbacks to outright torture.

      “We rarely use the word ’torture’ in Europe, but in this case we had to”, explains Massimo Moratti, deputy director of the Europe office of Amnesty International (AI). Last week, AI published yet another report of the mistreatment of migrants by the Croatian police along the border with Bosnia and Herzegovina. Mistreatment is an understatement. The testimonies collected no longer speak of broken mobile phones, or – as has happened more recently – destroyed with a screwdriver to prevent recharging, but instead contain “actual sadism”, as Moratti puts it.

      The case in question is that of 16 Pakistani and Afghan asylum seekers arrested by the Croatian police near the Plitvice lakes between May 26th and 27th. Their testimony is chilling. “We asked them to stop and show mercy. We were already tied up, there was no reason to continue hitting and torturing us", Amir told Amnesty International. Singing and filming on mobile phones, the agents continued to beat the 16 unfortunate men hard, finally smearing their wounds with ketchup and mayonnaise found in the backpack of one of the migrants. Eventually, the group was brought back to the border and forced to walk to Bosnia. Those who were unable to walk, because they are now in a wheelchair, had to be transported by others.

      “It is a pattern, a trend. These are the same practices that we have already seen in Hungary in 2015, 2016, and 2017. Dogs, sticks, broken bones... The goal is to intimidate and frighten so that no one tries to cross the border anymore", resumes Massimo Moratti, who adds: “the fractures we saw in the latter case will take months to heal”. The Amnesty International report and the attached photos tell the rest.
      Four years of violence

      How did we get to this? It is useful to make a brief summary of recent years to understand the evolution of violence. First, the “Balkan route” became a media phenomenon in the summer of 2015, when hundreds of thousands of Syrians, Iraqis, and Afghans began to travel up the Balkan peninsula to reach the European Union. At the beginning, the destination of the route was Hungary, then, with the closure of the Hungarian wall, it became Croatia, which leads to Slovenia and then to the Schengen area. In 2015, Croatian policemen showed themselves to be tolerant and benevolent, as reminded by this cover of Jutarnji List .

      In the spring of 2016, the agreement between the EU and Turkey led to the closure of the Balkan route and a change of pace. “The first case of pushback is registered in 2016 on the Serbo-Croatian border. In 2017, we have the first cases of violence", says Antonia Pindulić, legal advisor to the Centre for Peace Studies (CMS) in Zagreb. At the end of 2017, Madina Hussiny, 6, died hit by a train while returning from Croatia to Serbia following the tracks. Together with her family, she had been illegally pushed back by the Croatian policemen.

      In the summer of 2018, the Croatian police fired on a van that carried 29 migrants and refused to stop. Nine people were injured and two minors ended up in hospital in serious conditions. Since then, it has been a crescendo of accidents, especially on the Croatian-Bosnian border, where what remains of the Balkan route passes. Here, the testimonies collected by NGOs speak of beatings, theft, destruction of mobile phones and, as always, illegal pushbacks. Then, the situation has deteriorated up to the torture of the last few weeks. All in the silence of the authorities.
      The silence of the institutions

      How could the Zagreb government not complete an investigation in four years, address the police abuse, punish the guilty? It just didn’t. In fact, Andrej Plenković’s government has just “denied everything” for four years, while “no investigation has produced results”, as Antonia Pindulić of CMS summarises. And this despite the fact that there have been complaints from NGOs and also the actions of the institutions themselves in Croatia.

      “In 2019, a group of policement wrote an anonymous letter to the Croatian Ombudswoman asking to be protected from having to carry out illegal orders”, recalls Pindulić. The agents then revealed the pushback technique: GPS off, communications only on Whatsapp or Viber, no official report. Also in 2019, then President Kolinda Grabar Kitarović had let slip , during an interview on Swiss television, that “of course, a little strength is needed when making pushbacks”. Later, she said she had been misunderstood.

      After dozens of complaints have fallen on deaf ears and after in 2018 the Ombudswoman, in her investigations, had been denied access to video surveillance videos with the excuse that they were lost, the CMS decided a couple of weeks ago to file a complaint “against unknown police officers” guilty of “degrading treatment and torture against 33 people” and “violent and illegal expulsion [of these people, ed.] from the territory of the Republic of Croatia to Bosnia and Herzegovina”. “We hope that the prosecutor will open an investigation and that people who have violated the law are identified. But since the institutions themselves have violated the law for four years, I don’t know what we can expect”, says Antonia Pindulić.

      The complaint filed brings together four cases, all of which occurred at the beginning of May 2020. “We suspect that the cases are linked to each other, as all the migrants and refugees involved have reported beatings, theft of their belongings, being stripped and, above all, having a cross drawn on their head with orange spray”, says Antonia Pindulić. This very detail had brought the story on the Guardian and sparked controversy in Croatia.
      Towards a turning point?

      In their brutality, the cases seem to repeat themselves without any change in sight. But the Croatian government may soon be forced to answer for what appears to be institutionalised violence. Not only the legal action taken by the CMS “could likely end in Strasbourg”, as Massimo Moratti of Amnesty International speculates, but a lawsuit filed by three Syrian refugees against Croatia reached the European Court of Human Rights at the end of the May . And last week, after the publication of the AI ​​report, the European Commission announced that an observation mission will be sent to Croatia.

      And there is more. This week, the Guardian also revealed that communications between officials of the European Commission show how the European body “covered up Croatia’s failure to protect migrants from brutality on the border”. In question are the European funding received from Zagreb for border security: 7 million Euros, of which 300,000 for the implementation of an independent control mechanism that should have supervised the work of the police. Not only has the mechanism never been implemented, but there have been contradictory communications in this regard, with the Commission declaring that UNHCR was part of the mechanism and the latter publicly denying at the end of 2019 .

      In short, although Brussels allocated a (small) budget for the control of the brutality of Croatian agents, the mechanism that was to be activated with those funds was never created. And the Commission is aware of this. How long, then, will the Plenković government manage to hide its system of violence on the Bosnian border?

      https://www.balcanicaucaso.org/eng/Areas/Croatia/Croatia-police-abuse-is-systemic-202952

      #violence_systémique

    • Croatia: Police brutality in migrant pushback operations must be investigated and sanctioned – UN Special Rapporteurs

      Croatia must immediately investigate reports of excessive use of force by law enforcement personnel against migrants, including acts amounting to torture and ill-treatment, and sanction those responsible, UN human rights experts said today.

      “We are deeply concerned about the repeated and ongoing disproportionate use of force by Croatian police against migrants in pushback operations. Victims, including children, suffered physical abuse and humiliation simply because of their migration status,” Felipe González Morales, the Special Rapporteur on the human rights of migrants, and Nils Melzer, Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment, said in a joint statement.

      They said physical violence and degrading treatment against migrants have been reported in more than 60 percent of all recorded pushback cases from Croatia between January and May 2020, and recent reports indicate the number of forced returns is rising.

      Abusive treatment of migrants has included physical beatings, the use of electric shocks, forced river crossings and stripping of clothes despite adverse weather conditions, forced stress positions, gender insensitive body searches and spray-painting the heads of migrants with crosses.

      “The violent pushback of migrants without going through any official procedure, individual assessment or other due process safeguards constitutes a violation of the prohibition of collective expulsions and the principle of non-refoulement,” González Morales said.

      “Such treatment appears specifically designed to subject migrants to torture and other cruel, inhuman or degrading treatment as prohibited under international law. Croatia must investigate all reported cases of violence against migrants, hold the perpetrators and their superiors accountable and provide compensation for victims,” Melzer added.

      The UN Special Rapporteurs are also concerned that in several cases, Croatian police officers reportedly ignored requests from migrants to seek asylum or other protection under international human rights and refugee law.

      “Croatia must ensure that all border management measures, including those aimed at addressing irregular migration, are in line with international human rights law and standards, particularly, non-discrimination, the prohibition of torture and ill-treatment, the principle of non-refoulement and the prohibition of arbitrary or collective expulsions,” they said.

      During his official visit to Bosnia and Herzegovina in September 2019, González Morales received information on violent pushback of migrants by Croatian police to Bosnia and Herzegovina. He has exchanged views with relevant Croatian authorities on this issue on several occasions. Already during his official visit to Serbia and Kosovo* in 2017, Melzer had received similar information from migrants reporting violent ill-treatment during pushback operations by the Croatian police.

      * All references to Kosovo should be understood to be in compliance with Security Council resolution 1244 (1999).

      https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=25976&LangID=E

      #OHCHR

    • Dva policajca u pritvoru u Karlovcu zbog ozljeđivanja migranta - protiv njih pokrenut i disciplinski postupak

      Zbog sumnje u počinjenje kaznenih djela obojica su, uz kaznenu prijavu, dovedeni pritvorskom nadzorniku Policijske uprave karlovačke. Također, obojica su udaljeni iz službe, odgovoreno je na upit KAportala

      Dva policajca PU karlovačke nalaze se u pritvoru i to zbog sumnje u ozljeđivanje ilegalnog migranta, stranog državljanina.

      Na naš upit iz policije su nam rekli da je u četvrtak, 11. lipnja, u večernjim satima, tijekom utvrđivanja okolnosti nezakonitog ulaska u Republiku Hrvatsku, u policijsku postaju Slunj doveden strani državljanin na kojem su policijski službenici uočili da je ozlijeđen.

      https://kaportal.net.hr/aktualno/vijesti/crna-kronika/3836334/dva-policajca-u-karlovackom-pritvoru-zbog-ozljedjivanja-migranta-protiv

      Commentaire reçu via la mailing-list Inicijativa Dobrodosli, mail du 23.06.2020

      two police officers were arrested this week for injuring migrants. This is a big step for the Ministry of the Interior, but small for all cases that have not yet been investigated. However, it is important to emphasize that the violence we are witnessing is not the result of isolated incidents, but of systemic violence for which those who issue and those who carry out these illegal orders should be prosecuted.

  • Vous connaissez l’Histoire de #MOVE, ou comment une lutte antiraciste initialement pacifiste a fini bombardée par la police à #Philadelphie, le 13 mai 1985, tuant 11 personnes dont 5 enfants et laissant volontairement bruler tout un bloc de quartier ? Non ? Moi non plus, je l’ai découverte il y a peu grâce à ce fil twitter de @hegurgurk : https://twitter.com/hegurgurk/status/1266521204099186688


    Ce qu’en explique un peu trop succinctement wikipedia est déjà terrible. Au commencement étaient des humains qui ont voulu se réapproprier leurs racines & leurs choix : retour à la simplicité, faire sécession avec un monde consumériste forcément esclavagiste : https://fr.wikipedia.org/wiki/MOVE_(organisation)
    Je ne vais pas faire mine d’avoir tout compris, alors je vais poser ci-dessous des liens qui ont été cités comme des ressources solides pour comprendre comment une communauté pacifiste, harcelée, a fini par craquer et comment la répression absolument raciste s’est déchainée
    « Le jour où la police a bombardé une rue de la ville : les cicatrices des atrocités de Move en 1985 peuvent-elles être guéries ? »
    Dû au mandat pour menaces terroristes, émeute et conduite désordonnée, le flic n’a pas hésité à bombarder, comme il l’explique sereinement.
    Ça vous rappelle quelque chose ?
    The day police bombed a city street : can scars of 1985 Move atrocity be healed ? | US news | The Guardian
    https://www.theguardian.com/us-news/2020/may/10/move-1985-bombing-reconciliation-philadelphia
    https://i.guim.co.uk/img/media/a5eb407b5e1801cdd9274d064131f2fd5b0a362d/0_38_1962_1177/master/1962.jpg?width=1200&height=630&quality=85&auto=format&fit=crop&overlay-ali
    Ici, un documentaire très complet, avec des extraits du procès, des documents d’époque, où on prend toute la mesure du fossé entre les jugeants, majoritairement blancs, et les espérants en une autre société, auto-déterminée, autour de John Africa : https://www.youtube.com/watch?v=_Xax_X9YF1s

    Sur la libération de Delbert Orr Africa, une des « 9 de MOVE » arrêtés lors d’un raid policier ultra-violent contre leur communauté, et lors duquel un policier a été tué dans des circonstances jamais élucidées, ainsi qu’un des bébés de la communauté : https://www.theguardian.com/us-news/2020/jan/18/move-9-delbert-orr-africa-released-prison
    Le dernier des prisonnier, Chuck Africa, a été libéré il y a ... 4 MOIS, le 7 février dernier, après 42 ans de détention !
    Voici sa page sur le site de la communauté :
    http://onamove.com/move-9/chuck-africa
    Liens après liens, je fini par tomber sur ce site consacré entièrement à l’histoire de #MOVE, avec une version en français : http://move-thestory.com/accueil.html
    Un quartier incendié par la police, 11 morts dont 5 enfants, 9 membres emprisonnés à la peine maximum, dont 2 meurent en prison.

    Voyons maintenant ce que disent les personnes ulcérées de la chanson commémorative de Camelia Jordana, reprenant les paroles des #Black_Panters, "Revolution has come, time to pick up the gun" : devant le même type de communication, mais venant d’un groupe de Blancs, prêts à tout pour défendre ses membres, dans un pays où les armes sont un droit constitutionnel :

    « Revolution has come, time to pick up the gun »
    https://youtube.com/watch?v=g45WYJn9Fdg


    #BlackPanther,1968
    #BlackLivesMatter

    (reprise d’un fil twitter initialement publié ici : https://twitter.com/ValKphotos/status/1268165470601052161 et auquel @colporteur m’a fait penser là https://seenthis.net/messages/737030#message858280 avec la complicité involontaire de @sinehebdo ...)

  • Appel à l’annulation d’un contrat entre l’#UE et des entreprises israéliennes pour la surveillance des migrants par drones

    Les contrats de l’UE de 59 millions d’euros avec des entreprises militaires israélienne pour s’équiper en drones de guerre afin de surveiller les demandeurs d’asile en mer sont immoraux et d’une légalité douteuse.
    L’achat de #drones_israéliens par l’UE encourage les violations des droits de l’homme en Palestine occupée, tandis que l’utilisation abusive de tout drone pour intercepter les migrants et les demandeurs d’asile entraînerait de graves violations en Méditerranée, a déclaré aujourd’hui Euro-Mediterranean Human Rights Monitor dans un communiqué.
    L’UE devrait immédiatement résilier ces #contrats et s’abstenir d’utiliser des drones contre les demandeurs d’asile, en particulier la pratique consistant à renvoyer ces personnes en #Libye, entravant ainsi leur quête de sécurité.

    L’année dernière, l’Agence européenne des garde-frontières et des garde-côtes basée à Varsovie, #Frontex, et l’Agence européenne de sécurité maritime basée à Lisbonne, #EMSA, ont investi plus de 100 millions d’euros dans trois contrats pour des drones sans pilote. De plus, environ 59 millions d’euros des récents contrats de drones de l’UE auraient été accordés à deux sociétés militaires israéliennes : #Elbit_Systems et #Israel_Aerospace_Industries, #IAI.

    L’un des drones que Frontex a obtenu sous contrat est le #Hermes_900 d’Elbit, qui a été expérimenté sur la population mise en cage dans la #bande_de_Gaza assiégée lors de l’#opération_Bordure_protectrice de 2014. Cela montre l’#investissement de l’UE dans des équipements israéliens dont la valeur a été démontrée par son utilisation dans le cadre de l’oppression du peuple palestinien et de l’occupation de son territoire. Ces achats de drones seront perçus comme soutenant et encourageant une telle utilisation expérimentale de la #technologie_militaire par le régime répressif israélien.

    « Il est scandaleux pour l’UE d’acheter des drones à des fabricants de drones israéliens compte tenu des moyens répressifs et illégaux utilisés pour opprimer les Palestiniens vivant sous occupation depuis plus de cinquante ans », a déclaré le professeur Richard Falk, président du conseil d’administration d’Euromed-Monitor.

    Il est également inacceptable et inhumain pour l’UE d’utiliser des drones, quelle que soit la manière dont ils ont été obtenus pour violer les droits fondamentaux des migrants risquant leur vie en mer pour demander l’asile en Europe.

    Les contrats de drones de l’UE soulèvent une autre préoccupation sérieuse car l’opération Sophia ayant pris fin le 31 mars 2020, la prochaine #opération_Irini a l’intention d’utiliser ces drones militaires pour surveiller et fournir des renseignements sur les déplacements des demandeurs d’asile en #mer_Méditerranée, et cela sans fournir de protocoles de sauvetage aux personnes exposées à des dangers mortels en mer. Surtout si l’on considère qu’en 2019 le #taux_de_mortalité des demandeurs d’asile essayant de traverser la Méditerranée a augmenté de façon spectaculaire, passant de 2% en moyenne à 14%.

    L’opération Sophia utilise des navires pour patrouiller en Méditerranée, conformément au droit international, et pour aider les navires en détresse. Par exemple, la Convention des Nations Unies sur le droit de la mer (CNUDM) stipule que tous les navires sont tenus de signaler une rencontre avec un navire en détresse et, en outre, de proposer une assistance, y compris un sauvetage. Étant donné que les drones ne transportent pas d’équipement de sauvetage et ne sont pas régis par la CNUDM, il est nécessaire de s’appuyer sur les orientations du droit international des droits de l’homme et du droit international coutumier pour guider le comportement des gouvernements.

    Euro-Med Monitor craint que le passage imminent de l’UE à l’utilisation de drones plutôt que de navires en mer Méditerranée soit une tentative de contourner le #droit_international et de ne pas respecter les directives de l’UE visant à sauver la vie des personnes isolées en mer en situation critique. Le déploiement de drones, comme proposé, montre la détermination de l’UE à dissuader les demandeurs d’asile de chercher un abri sûr en Europe en facilitant leur capture en mer par les #gardes-côtes_libyens. Cette pratique reviendrait à aider et à encourager la persécution des demandeurs d’asile dans les fameux camps de détention libyens, où les pratiques de torture, d’esclavage et d’abus sexuels sont très répandues.

    En novembre 2019, l’#Italie a confirmé qu’un drone militaire appartenant à son armée s’était écrasé en Libye alors qu’il était en mission pour freiner les passages maritimes des migrants. Cela soulève de sérieuses questions quant à savoir si des opérations de drones similaires sont menées discrètement sous les auspices de l’UE.

    L’UE devrait décourager les violations des droits de l’homme contre les Palestiniens en s’abstenant d’acheter du matériel militaire israélien utilisé dans les territoires palestiniens occupés. Elle devrait plus généralement s’abstenir d’utiliser des drones militaires contre les demandeurs d’asile civils et, au lieu de cela, respecter ses obligations en vertu du droit international en offrant un refuge sûr aux réfugiés.

    Euro-Med Monitor souligne que même en cas d’utilisation de drones, les opérateurs de drones de l’UE sont tenus, en vertu du droit international, de respecter les #droits_fondamentaux à la vie, à la liberté et à la sécurité de tout bateau de migrants en danger qu’ils rencontrent. Les opérateurs sont tenus de signaler immédiatement tout incident aux autorités compétentes et de prendre toutes les mesures nécessaires pour garantir que les opérations de recherche et de sauvetage soient menées au profit des migrants en danger.

    L’UE devrait en outre imposer des mesures de #transparence et de #responsabilité plus strictes sur les pratiques de Frontex, notamment en créant un comité de contrôle indépendant pour enquêter sur toute violation commise et prévenir de futures transgressions. Enfin, l’UE devrait empêcher l’extradition ou l’expulsion des demandeurs d’asile vers la Libye – où leur vie serait gravement menacée – et mettre fin à la pratique des garde-côtes libyens qui consiste à arrêter et capturer des migrants en mer.

    http://www.france-palestine.org/Appel-a-l-annulation-d-un-contrat-entre-l-UE-et-des-entreprises-is
    #Europe #EU #drones #Israël #surveillance #drones #migrations #asile #réfugiés #Méditerranée #frontières #contrôles_frontaliers #militarisation_des_frontières #complexe_militaro-industriel #business #armée #droits_humains #sauvetage

    ping @etraces @reka @nepthys @isskein @karine4

  • Afghanistan investigates reports Iran guards forced migrants into river

    Afghanistan is investigating reports Afghan migrants drowned after being tortured and pushed into a river by Iranian border guards.

    The migrants were caught trying to enter Iran illegally from the western Herat province on Friday, according to local media.

    The migrants were beaten and forced to jump into a river by Iranian border guards, the reports said. Some of them are said to have died.

    Iran has dismissed the allegation.

    A foreign ministry spokesman said the incident took place on Afghan territory, not Iranian, and security guards denied any involvement.

    The number involved in the incident is unconfirmed but officials said dozens of migrants crossed the border, and at least seven people died with more still missing.

    A search party has been sent to retrieve the bodies of migrants from the river.
    The Afghan Human Rights Commission (AHRC) said local officials told it “Iranian security forces arrested a number of Afghan migrants seeking work who wanted to enter Iran”.

    “They were made to cross the Harirud river [at the Afghan-Iranian border], as a result a number of them drowned and some survived,” it added.

    Shir Agha, a migrant who witnessed the incident, told Reuters the Iranian guards “warned us that if we do not throw ourselves into the water, we will be shot”.

    Another Afghan migrant, Shah Wali, alleged that the Iranian guards “beat us, then made us do hard work”.

    “They then took us by minibus near to the river, and when we got there, they threw us into the river,” he added.

    About three million Afghans live in Iran, including refugees and wage labourers. Hundreds of Afghans cross into Iran every day to find work.

    There was a mass exodus of migrants returning to Afghanistan after the coronavirus outbreak in Iran, which has recorded almost 100,000 cases of the disease to date. Many are suspected to have brought coronavirus back across the border with them.

    But as Iran seeks to ease restrictions, Afghan migrants in search of work are crossing the country’s border in greater numbers again.

    Afghan officials have expressed concern over the incident in Herat province, risking a diplomatic row at a time of already strained relations over the coronavirus pandemic.

    In a tweet to Iranian officials, Herat’s governor Sayed Wahid Qatali wrote: “Our people are not just some names you threw into the river. One day we will settle accounts.”

    https://www.bbc.com/news/amp/world-asia-52523048?__twitter_impression=true
    #Iran #frontières #rivière #Herat #Iran #hostile_environment #weaponization #enviornnement_hostile #migrations #asile #réfugiés #décès #morts #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières

    • Afghanistan Probes Reports Iranian Guards Forced Migrants Into River

      Afghan officials were hunting on Sunday for Afghan migrants in a river bordering Iran after reports that Iranian border guards tortured dozens and threw them into the water to keep them out of Iran.

      Authorities in western Herat province said they retrieved 12 bodies from the Harirud river and at least eight other people were missing.

      The incident could trigger a diplomatic crisis between Iran and Afghanistan at a time when the coronavirus pandemic has seen an exodus of Afghan migrants from Iran, with many testing positive. Up to 2,000 Afghans cross the border from Iran, a coronavirus hotspot, into Herat each day.

      Afghanistan’s foreign ministry said on Saturday an inquiry had been launched. A senior official in the presidential palace in Kabul said initial assessments suggested at least 70 Afghans trying to enter Iran from Herat were beaten and pushed into the Harirud river on Saturday.

      Abbas Mousavi, a spokesman for Iran’s foreign ministry, said the “incident” took place on Afghan soil.

      “Border guards of the Islamic Republic of Iran denied the occurrence of any events related to this on the soil of our country,” he said in a statement on Sunday.

      Abdul Ghani Noori, governor of Herat’s Gulran district, said dozens of Afghan migrant workers were thrown into the river by members of the Iranian army.

      “Iranian armymen used shovels and gunshots to injure Afghan workers and threw them in water,” Noori told Reuters, adding that some of the injured workers were being treated in a hospital.

      Doctors at Herat District Hospital said they had received the bodies of Afghan migrants.

      “So far, five bodies have been transferred to the hospital. Of these bodies, it’s clear that four died due to drowning,” said Aref Jalali, head of the hospital. He added that two injured men were brought to the hospital on Sunday evening.

      The Taliban militant group, fighting to oust the Afghan government, said Iran should launch an investigation into the killings and “strictly punish the perpetrators”.

      “We have learnt that 57 Afghans on their way to the Islamic Republic of Iran for work were initially tortured by Iranian border guards and 23 of them later brutally martyred,” the Taliban said in a statement.

      Noor Mohammad said he was one of the Afghans caught by Iranian border guards as they were trying to cross into Iran in search of work.

      “After being tortured, the Iranian soldiers threw all of us in the Harirud river,” Mohammad told Reuters.

      Shir Agha, who said he also survived the violence, said at least 23 people thrown into the river were dead.

      Afghan officials that it was not the first time that Afghans had been killed by Iranian police guarding the 920-km (520-mile) border.

      As of Sunday, at least 541 coronavirus-infected people in Afghanistan were from Herat province, which recorded 13 deaths, with the majority of cases Afghan returnees from Iran, said Rafiq Shirzad, a health ministry spokesman in Herat.

      https://www.nytimes.com/reuters/2020/05/03/world/middleeast/03reuters-afghanistan-iran-migrants.html?searchResultPosition=3
      #noyade #torture #gardes-frontière #Harirud #armée

    • Afghanistan probes report Iran guards forced migrants into river

      Survivors say at least 23 of 57 people thrown by Iranian border guards into Harirud River drowned.

      Afghanistan has begun retrieving bodies of Afghan migrants from a river in a western province after reports that Iranian border guards tortured and threw Afghans into the river to prevent their entry into Iran.

      Afghanistan’s foreign ministry in a statement on Saturday said an inquiry had been launched and a senior official in the presidential palace in Kabul said initial assessments suggested that at least 70 Afghans who were trying to enter Iran from bordering Herat province were beaten and pushed into Harirud River.

      The Harirud River basin is shared by Afghanistan, Iran and Turkmenistan.

      Doctors at Herat District Hospital said they had received the bodies of Afghan migrants, some of whom had drowned.

      “So far, five bodies have been transferred to the hospital, of these bodies, its clear that four died due to drowning,” said Aref Jalali, head of Herat District Hospital.

      The Iranian consulate in Herat denied the allegations of torture and subsequent drowning of dozens of Afghan migrant workers by border police.

      “Iranian border guards have not arrested any Afghan citizens,” the consulate said in a statement on Saturday.

      Noor Mohammad said he was one of 57 Afghan citizens who were caught by Iranian border guards on Saturday as they tried to cross into Iran in search of work from Gulran District of Herat.

      “After being tortured, the Iranian soldiers threw all of us in the Harirud river,” Mohammad told Reuters News Agency.

      Shir Agha, who said he also survived the violence, said at least 23 of the 57 people thrown by Iranian soldiers into the river had died.

      “Iranian soldiers warned us that if we do not throw ourselves into the water, we will be shot,” said Agha.
      ’We will settle accounts’

      Local Afghan officials said it was not the first time Afghans had been tortured and killed by Iranian police guarding the 920km (520 mile) long border.

      Herat Governor Sayed Wahid Qatali in a tweet to Iranian officials said: “Our people are not just some names you threw into the river. One day we will settle accounts.”

      The incident could trigger a diplomatic crisis between Iran and Afghanistan at a time when the coronavirus pandemic has seen a mass exodus of Afghan migrants from Iran with many testing positive for COVID-19.

      Up to 2,000 Afghans daily cross the border from Iran, a global coronavirus hotspot, into Herat.

      As of Sunday, at least 541 infected people are from Herat province, which recorded 13 deaths, with the majority of positive cases found among Afghan returnees from Iran, said Rafiq Shirzad, a health ministry spokesman in Herat.

      https://www.aljazeera.com/news/2020/05/afghanistan-probes-report-iran-guards-forced-migrants-river-2005030926238

  • Le gouvernement veut créer un #fichier pour les malades du coronavirus

    Le projet de loi du gouvernement prévoit la création d’un fichier spécifique rassemblant les noms des #malades du #Covid-19 ainsi que de leurs contacts. Et ce « sans le consentement » des personnes concernées.

    Comment assurer le #suivi des malades du Covid-19 et des personnes qu’ils ont croisées ? C’est pour répondre à cette question que le gouvernement entend créer un nouveau fichier, prévu par le projet de loi prorogeant l’#état_d’urgence_sanitaire, qui devrait être examiné par les parlementaires les 4 et 5 mai.

    L’article 6 du texte prévoit en effet que soient rassemblées dans un même fichier toutes les informations susceptibles d’aider à la reconstitution, par des « #brigades » d’#enquêteurs_épidémiologiques, des #relations de chacun. Le fichier, non anonyme, devrait ainsi contenir l’#identité des malades et les résultats de leurs #examens_biologiques, mais aussi plus largement la liste des personnes croisées au cours des derniers jours – car « présentant un #risque_d’infection » -, leur #adresse et leurs #déplacements. Et ce afin d’opérer, peut-on lire dans le texte du gouvernement une « #surveillance_épidémiologique aux niveaux national et local ».

    Plusieurs administrations auront accès aux données

    Le nouveau fichier, qui n’a aucun lien avec l’application de #traçage #StopCovid, dont Olivier #Véran a annoncé qu’elle ne serait pas prête le 11 mai, abritera ces #informations, d’abord collectées par le #médecin_traitant puis par les « brigades » de l’#Assurance_maladie. Des #données_personnelles extrêmement sensibles qui seront ensuite mises à la disposition non seulement des professionnels de santé en charge du suivi des personnes malades, mais aussi de plusieurs administrations comme le #ministère_de_la_santé, le service de santé des #armées, l’Assurance maladie et les #Agences_régionales_de_santé.

    Le dossier est d’autant plus sensible que les données dont il est question sont en partie couvertes par le #secret_médical. « Comme lorsque nous consultons un confrère à propos d’un patient ou lorsque nous envoyons à l’Assurance maladie les motifs médicaux d’arrêt de travail, nous serons dans le cadre d’un #secret_médical_partagé », assure le docteur Jacques Battistoni, président du premier syndicat de médecins généralistes, #MGFrance. Les #généralistes seront chargés de collecter les premières informations sur le « #premier_cercle » fréquenté par un malade dans le fichier. Ils ont d’ailleurs reçu un courrier en ce sens, jeudi 30 avril, signé par Nicolas Revel, le patron de l’Assurance maladie.

    « Je comprends que ce système puisse impressionner, car il contient des #informations_sensibles et personnelles, mais c’est un moindre mal. Il me semble vraiment indispensable si l’on ne veut pas que l’#épidémie reparte », souligne le docteur Battistoni.

    Une transmission de données « sans le #consentement des personnes »

    Autre question sensible, au cœur de ce nouveau fichier : la #transmission_des_informations qu’il contient sera opérée « sans le consentement des personnes intéressées », peut-on lire dans le projet de loi gouvernemental. Une précision qui inquiète plusieurs observateurs, comme le président de l’#Union_française_pour_une_médecine_libre (#UFML), le docteur Jérôme Marty. « Le consentement est l’un des socles de la médecine. Le fait de ne pas demander le consentement de son patient pour constituer un fichier est sans précédent. La situation d’#urgence ne peut pas tout justifier », alerte-t-il.

    « Imaginez le scandale si nous avions fait ce genre de fichiers pour le sida, poursuit-il. Cela pose un problème #éthique et déontologique important. » Ce praticien réclame l’avis Conseil de l’Ordre sur le sujet, mais aussi celui du Comité national d’éthique, de l’Académie de médecine, de la Cnil et du Conseil constitutionnel.

    « Garde-fous »

    « Que signifie cette absence de consentement ? », interroge quant à lui l’avocat Thierry Vallat. Ce spécialiste des données personnelles estime que des « #garde-fous » devront ainsi être nécessaires. « Il faut définir très précisément qui collectera les informations, la liste des informations précises, qui pourra y avoir accès et surtout pour combien de temps », insiste l’avocat. Sur ce dernier point, le gouvernement prévoit la disparition du fichier « au plus tard » un an après la promulgation de la loi.

    Mais surtout, l’avocat s’inquiète d’éventuelles #fuites de données. « Nous sommes dans un contexte exceptionnel où les services de l’État agissent très rapidement, et risquent de ne pas avoir le temps de sécuriser ce nouveau fichier. Or les données de santé font régulièrement l’objet de fuites, et elles sont extrêmement convoitées », estime-t-il.

    Dans l’ensemble, l’architecture de ce nouveau dispositif demeure assez floue. Et pour cause : il devrait ainsi être précisé, après coup, par un #décret d’application. Ce qui permettra de consulter la Cnil sur ce nouveau fichier. Jusqu’à maintenant, la Commission indépendante n’a en effet pas été sollicitée sur ce dossier sensible.

    https://www.la-croix.com/Sciences-et-ethique/Sante/Le-gouvernement-veut-creer-fichier-malades-coronavirus-2020-05-03-12010923
    #coronavirus #France #loi #déontologie
    ping @etraces @isskein

  • Je dois être un peu con, je n’avais pas compris que l’objectif du confinement, c’était « la disparition de la délinquance et de l’insécurité ». Sacré modèle sécuritaire : on enferme tout le monde, et comme ça on aura moins de délinquance.

    Délinquance dans le nord-est de Paris : Anne Hidalgo interpelle Christophe Castaner
    https://www.lexpress.fr/actualite/politique/delinquance-dans-le-nord-est-de-paris-anne-hidalgo-interpelle-christophe-ca

    Anne Hidalgo a demandé à Christophe Castaner de déployer davantage de policiers dans le nord-est de la capitale où la délinquance persisterait en dépit du confinement, selon une lettre datée de mardi dont l’AFP a eu connaissance ce vendredi. 

    « Le contrôle du confinement (...) ne doit pas peser de manière disproportionnée sur les policiers des commissariats de la capitale », écrit la maire socialiste de Paris à l’adresse du ministre de l’Intérieur. « Il me semble nécessaire de déployer davantage d’autres moyens de police dans les rues de Paris », complète Anne Hidalgo. 

    Pour répondre à ce besoin d’effectifs supplémentaires, l’élue socialiste propose notamment d’avoir recours aux réservistes de la Garde nationale pour épauler les forces de sécurité dans la lutte contre la délinquance. Selon Anne Hidalgo, les mesures de confinement n’ont pas signé la disparition de la délinquance et de l’insécurité à Paris, en particulier dans les arrondissements du nord-est.

  • Frontières européennes et #Covid-19 : la commission des affaires européennes du Sénat sensible à l’inquiétude du directeur exécutif de #Frontex

    Jeudi 9 avril 2020

    La commission des affaires européennes du Sénat a entendu, le 8 avril
    2020, par audioconférence, Fabrice LEGGERI, directeur exécutif de
    Frontex, agence européenne chargée de la sécurité des frontières
    extérieures de l’Union européenne (UE).

    Les sénateurs ont interrogé le directeur sur la façon dont Frontex avait
    adapté ses missions à la #fermeture_des_frontières européennes et à la
    période de #confinement actuelle, sur l’évolution récente des #flux_migratoires, sur la situation à la frontière gréco-turque, et enfin sur les moyens alloués à Frontex pour remplir ses missions, en particulier mettre en place le corps européen de 10 000 gardes-frontières et gardes-côtes annoncé pour 2027.

    Fabrice LEGGERI a indiqué que Frontex devait actuellement gérer une
    double #crise : sanitaire, avec les #contrôles imposés par l’épidémie de
    Covid-19, et géopolitique, avec la pression migratoire qu’exerce la
    Turquie sur l’Union européenne en ne régulant plus le flux migratoire à
    la frontière, au mépris de l’accord conclu en 2016. Fin février-début
    mars, 20 000 migrants hébergés en Turquie se sont ainsi présentés aux
    frontières terrestres et maritimes grecques : moins de 2 000 – et non
    pas 150 000 comme allégué par les autorités turques – les ont franchies,
    dans un contexte parfois violent tout à fait inédit. Les autorités
    grecques ont été très réactives, et, avec l’appui de l’UE, la situation
    est aujourd’hui maîtrisée. En dépit du confinement, Frontex a déployé
    900 de ses garde-frontières équipés de protections sanitaires sur le
    terrain, dont 600 en Grèce, priorité du moment pour assurer la
    protection des frontières extérieures européennes.

    Le directeur exécutif a insisté sur le risque budgétaire qui pèse
    lourdement sur Frontex. Alors que cette agence devait se voir allouer 11
    milliards d’euros sur les années 2021 à 2027, les Présidences
    finlandaise puis croate du Conseil de l’UE ont proposé de réduire ce
    budget de moitié. Fabrice LEGGERI a qualifié cette situation de
    « catastrophique » : non seulement, la création du corps européen ne
    serait pas financée, alors que 7 000 candidatures ont été reçues pour
    700 postes à pourvoir au 1er janvier prochain, mais l’agence ne pourrait
    pas renforcer sa contribution au retour effectif des étrangers en
    situation irrégulière vers leur pays d’origine, question pourtant
    essentielle pour la crédibilité de la politique migratoire de l’Union
    européenne.

    Fabrice LEGGERI a indiqué que les flux migratoires avaient logiquement
    diminué dans le contexte actuel de confinement de la majorité de la
    population mondiale, mais qu’il était trop tôt pour évaluer l’effet de
    l’épidémie sur leur évolution de moyen terme. Des sorties de crise à des dates différentes selon les régions du monde devront en tout cas
    conduire à renforcer les contrôles sanitaires aux frontières extérieures
    de l’Europe pour ne pas relancer l’épidémie quand elle sera en voie de
    résorption dans l’UE.

    Le président #Jean_BIZET a déclaré : « Vouloir une Europe qui protège tout en assurant la libre circulation, qui plus est dans un contexte
    d’épidémie, requiert des moyens : il faut absolument sécuriser le #budget de Frontex pour les prochaines années ».

    http://www.senat.fr/presse/cp20200409.html
    #coronavirus #crise_sanitaire #contrôles_frontaliers #crise_géopolitique #pression_migratoire #Turquie #EU #UE #Union_européenne #accord_UE-Turquie #Grèce #frontières #migrations #asile #réfugiés #gardes-frontières #frontières_extérieures #risque_budgétaire

    –----

    –-> commentaire reçu via la mailing-list Migreurop, le 10.04.2020 :

    D’après ce communiqué du Sénat, la pandémie cause des inquiétudes
    à Frontex.
    Mais apparemment ça ne concerne pas la santé des migrants bloqués aux frontières européennes.

    ping @thomas_lacroix @luciebacon

  • Les conseils d’une spécialiste pour éviter la psychose du coronavirus - Mieux-vivre - Le Télégramme
    https://www.letelegramme.fr/mieux-vivre/les-conseils-d-une-specialiste-pour-eviter-la-psychose-du-coronavirus-0


    Une des clefs pour éviter la psychose est de ne pas aller chercher l’information partout.
    Depositphotos

    Afin de mieux gérer ses émotions au quotidien face aux chiffres et à la peur grimpante du coronavirus, une thérapeute livre ses conseils. Le plus important : rester détaché et éviter d’aller chercher l’information partout.

    Thérapeute spécialisée dans les troubles anxieux, Sylvie Le Moullec a dû s’adapter à la situation, comme tout professionnel, et propose des séances par visio-conférence ou appel téléphonique, « c’est différent, forcément ».

    Mais ça n’a pas suffi. « Mes patients ont annulé quasiment toutes les thérapies en cours, dans l’idée que le confinement ne durerait pas longtemps ». Avant qu’elle n’observe, depuis l’annonce du prolongement des mesures, une augmentation de la demande. « Il y a de plus en plus de personnes que ça inquiète, et qui viennent demander une consultation en visio ou par téléphone. Et ça va aller en augmentant », prédit même la psychologue qui tient deux cabinets à Quimper et Brest.

    Car, le confinement et la situation réveillent des troubles anxieux chez certains. Comment ne pas céder à la psychose de la contamination ? Résister à ses peurs profondes ? Sylvie Le Moullec a accepté de faire le tour de la question.

    Quel type de personnes vous sollicitent depuis le confinement ?
    Ce sont majoritairement les patients qui avaient déjà des thérapies en cours pour les tocs (troubles obsessionnels compulsifs), les phobies, l’alcoolisme, les prises excessives de médicaments ou les troubles alimentaires.

    La prise excessive de médicaments ?
    Oui, ça résulte d’une peur. Les médicaments permettent d’éviter de vivre, de se mettre en situation d’attendre et de vivre dans un monde parallèle. C’est pareil avec l’alcoolisme. Des patients que je suivais en thérapie recommencent à boire, ils sont gênés de faire une thérapie en ligne. En plus, ça paraît sociologiquement acceptable de boire en cette période de confinement, il n’y a qu’à voir les réseaux sociaux, avec les apéros en ligne… Il n’y a plus cette culpabilité qu’il y avait derrière.

    Vous confie-t-on régulièrement la peur d’être infecté par le coronavirus ?
    Pour ceux qui avaient déjà une phobie de la contamination et avec qui j’avais une thérapie en cours, ça se remet en place depuis le confinement. Ils mettent des gants, des masques depuis longtemps déjà, ils laissent séjourner leurs courses 48 heures à l’extérieur de chez eux, avant de les rentrer, pour que ce soit décontaminé.

    Comme si leur entrée était un sas, que c’était sain à l’intérieur et malsain à l’extérieur. Une personne m’a dit qu’elle lavait systématiquement les œufs avant de les casser, de peur que le virus ne rentre à l’intérieur de l’œuf. Ces peurs-là commencent à s’intensifier.

    La raison perd du terrain…
    Tout à fait. Le cerveau est ainsi fait qu’il est là pour nous protéger de ce qui pourrait arriver. Alors que les messages incessants, les flashs sur les téléphones portables font que les gens se mettent en état d’hyper-vigilance et se préparent à tout danger. Même à ceux qu’on invente. Car quand le cerveau n’en trouve pas, ils vont en chercher plus loin…

    À quoi répond l’automatisme d’associer le moindre symptôme à ce coronavirus ?
    Cela répond à l’information envoyée tout le temps. Les personnes se mettent à aller voir absolument toutes les infos, alors qu’elles sont souvent contradictoires. Mais ça finit par semer une impuissance, et c’est ce qui fait peur aux gens. Le fait de se dire « on ne peut rien faire ».

    Comment ne pas paniquer, sans sous-estimer cette maladie qui peut être grave ?
    Déjà, il y a le confinement (qu’il faut respecter). C’est contre-nature que de ne pas pouvoir échanger, toucher l’autre, c’est anti-humain. Ensuite, garder certains repères dans la vie. Tout le monde trouvait, au début, une super bonne raison à être confiné…
    Et plus maintenant ?
    C’est-à-dire que le confinement se prolonge. Et il devient, avec l’ennui, les incompréhensions face à la situation, qui empêchent de vivre selon la nature humaine, une agression sociale. Donc ça crée des conflits internes, et comme les gens sont confrontés à leur impuissance et à quelque chose qui les éloigne de leurs ressources, ils vont chercher à l’extérieur quelque chose qui pourrait leur prouver qu’ils n’ont pas le coronavirus. Mais se servir de ses ressources pour se prouver qu’on n’est pas atteint par quelque chose, c’est mettre son cerveau en échec.

    Quels conseils pratiques donneriez-vous au grand public pour éviter la psychose ?
    Déjà, continuer à faire comme avant. Parce que là, on va systématiquement chercher l’info partout, y compris sur les réseaux sociaux. C’est ce qui fait l’effet de panique, le cerveau est en alerte d’un danger inévitable, et il prend toutes les informations négatives pour augmenter l’insécurité.

    L’important, c’est de se sentir capable, de savoir qu’on a des ressources intérieures, qu’on peut aller les chercher. Il faut faire appel à son adaptabilité. Il y a des réponses à tout. Le but est de prendre du recul et rester détaché de la situation. Ce qui ne veut pas dire « je m’en fous », mais plutôt de ne pas s’impliquer personnellement dans le processus « je suis malade et je vais mourir ».

    Comment vos patients hypocondriaques vivent-ils cette période de crise ?
    C’est un peu paradoxal, parce que, d’un coup, on réinstalle leurs rituels. La personne hypocondriaque, ou atteinte de troubles, qui passait cinq heures par jour à se laver les mains, qui prenait quatre douches, voit ses pratiques légalisées. Alors, d’un côté, ils peuvent avoir ses pratiques sans culpabiliser derrière, mais quand le confinement va s’arrêter, le retour à la vie normale va être encore plus compliqué, parce qu’il va leur falloir réapprendre à vivre différemment.

    • C’est marrant, belle démonstration que les psys peuvent tout à fait servir de #gardes_chiourme du système dominant pour éviter que l’on se mette à creuser les raisons de cette pandémie, des fois qu’on y voit l’inaction criminelle des responsables politiques, et qu’on cherche des moyens de comprendre, par exemple pour commencer à penser et à mettre en place la révolte.
      Je ne dis pas qu’il ne faille pas gérer son angoisse en fonction de ses capacités, mais ce n’est certainement pas en coupant l’information vu qu’il y a toutes sortes de façon de réagir.

  • « Il n’est pas besoin de beaucoup de mots » : #dérogations à tout va dans les #universités

    L’#ordonnance « relative à l’organisation des #examens et #concours pendant la #crise_sanitaire née de l’#épidémie de #covid-19 » a été examinée hier après-midi en conseil des ministres, et est donc parue au Journal officiel de ce matin. Cette ordonnance appartient à la deuxième vague des ordonnances prévues par la loi d’urgence du 23 mars 2020, après la vague des 25 ordonnances du 25 mars, dont les médias se sont largement fait l’écho.

    Il faut bien comprendre que cette ordonnance est une intervention du #pouvoir_exécutif dans ce qui représente normalement le champ de compétences du #Parlement. L’objectif de cette ordonnance n’est donc pas le même que l’objectif d’un #décret : il est d’abord et avant tout de modifier des dispositions de valeur législative, que le #Président_de_la_République et le #gouvernement n’ont normalement pas la possibilité de modifier par eux-mêmes, mais qu’ils peuvent tout de même modifier parce que le Parlement les y a exceptionnellement habilités.

    On est donc en présence d’un #droit_d’exception dans tous les sens du terme : #exception sur la forme, parce que le gouvernement intervient dans le champ du Parlement pour modifier des textes de #valeur_légale, conformément à la procédure des ordonnances (article 38 de la Constitution) ; exception sur le fond, parce cette ordonnance introduit un nombre important de modifications qui sont certes justifiées par l’épidémie et ses conséquences, mais qui, il ne faut pas le perdre de vue, sont aussi, pour nombre d’entre elles, des modifications que le #MESRI souhaite introduire ou généraliser depuis des années (#examens_à_distance, et notamment en #télésurveillance ; délibérations par #visioconférence ; pouvoirs forts des chefs d’établissements ; différenciations entre établissements). Il est très probable, de ce point de vue, que le provisoire actuel se révèle rapidement transitoire : les mesures prévues dans ces ordonnances représentent un galop d’essai fantastique pour le MESRI.

    Il est aussi important de noter, d’emblée, que l’ordonnance est très courte. On pourrait être tenté d’y voir le signe que les dérogations introduites sont en nombre limité. Il faut plutôt l’analyser, nous semble-t-il, comme la marque du caractère très général des nouveaux pouvoirs que l’ordonnance attribue, et du faible nombre de #garde-fous mis en place : il n’est pas besoin de beaucoup de mots pour dire que l’on peut déroger à tout va au droit existant, dès lors que le choix est fait de ne pas encadrer outre mesure ces dérogations.


    *

    Au-delà de ces considérations générales, on peut reprendre le contenu de l’ordonnance dans l’ordre, au risque d’être un peu long.

    1° Temporalité des #règles_dérogatoires

    Les mesures prises dans cette ordonnance ont une durée de vie doublement limitée : limitée dans le temps (elles sont applicables du 12 mars – elles peuvent donc avoir un effet rétroactif – au 31 décembre 2020) et limitée dans la finalité (elles doivent être « nécessaires pour faire face aux conséquences de la propagation de l’épidémie » et aux conséquences « des mesures prises pour limiter cette propagation »).

    Deux remarques sur ce point :

    Comme pour la #prorogation des mandats des présidents et conseils centraux, le choix a donc été fait d’une durée très longue de 9 mois 1/2. Ce choix est un peu étonnant, surtout depuis qu’on a réalisé que le choix du MESRI de proroger possiblement jusqu’au 1er janvier 2021 les mandats des présidents et conseils centraux n’est finalement pas la règle générale applicable aux établissements publics qui ne relèvent pas du MESRI (cf. l’article 6 de l’ordonnance du 27 mars 2020 adaptant le droit applicable au fonctionnement des établissements publics et des instances collégiales administratives pendant l’état d’urgence sanitaire, qui prévoit des prorogations allant, selon les cas, jusqu’au 30 juin et jusqu’au 31 octobre 2020).
    Il sera important de s’assurer que les modifications introduites sur le fondement de cette ordonnance ne perdurent pas dans certains établissements : elles doivent être strictement limitées aux deux barrières temporelles précédemment évoquées. Et dans tous les cas, comme dit plus haut, même si ces #limitations_temporelles existent, le risque est réel que ces modifications soient ensuite pérennisées, conformément à cette logique – maintes fois observée ailleurs – selon laquelle le droit d’exception préfigure le #droit_commun.

    2° Transformation des règles d’accès à l’enseignement supérieur et de délivrance des #diplômes

    Le chapitre Ier de l’ordonnance (articles 2 à 4) concerne l’accès aux formations de l’enseignement supérieur et la délivrance des diplômes de l’#enseignement_supérieur. Ces trois articles ont vocation à réduire (à « assouplir », dit-on en novlangue) de manière très importante les conditions légales du code de l’éducation par l’attribution de pouvoirs exceptionnels.

    Deux questions sont traitées dans ce chapitre : la détermination du contenu des « #adaptations » (articles 2 et 4) ; la détermination de l’#autorité_compétente pour prendre ces mesures d’adaptation (article 3).

    2.1 Le contenu possible des « adaptations » extrêmement large. On note immédiatement deux choses importantes :

    S’agissant des modifications des modalités d’accès aux #formations de l’enseignement supérieur, il n’est rien dit du contenu possible de ces modifications si ce n’est que chaque autorité qui intervient légalement dans la procédure d’accès aux formations (rectorat, universités) a le droit de changer les règles « nonobstant toute disposition législative ou réglementaire contraire », c’est-à-dire sans que les règles existantes puissent y faire obstacle. Ce grand silence, sur un sujet aussi sensible, interpelle car il laisse une marge de manœuvre très importante à chaque université et à chaque #rectorat pour adapter la procédure de l’article L. 612-3 du #code_de_l’éducation. Ce point appelle une vigilance toute particulière.
    Ceci dit, lorsque, s’agissant de la modification des modalités de délivrance des diplômes, une liste est établie, elle est en réalité si large qu’elle permet, là aussi, tout ou presque (modification de la nature des épreuves, de leur nombre, contenu, coefficient, conditions d’organisation, et notamment possibilité de dématérialisation complète).

    La plus grande liberté est donc laissée sur les modifications de contenu, et les pratiques vont vraisemblablement être très variables sur le territoire, mettant définitivement un terme à ce qui restait d’idéal d’#égalité des étudiant·es devant le #service_public de l’enseignement supérieur.

    Il faut bien voir que l’exercice risque d’être particulièrement brutal pour les étudiant·es, en particulier que toutes ces modifications peuvent leur être imposées de manière extrêmement rapide, en l’occurrence dans un délai qui peut être réduit jusqu’à deux semaines, par dérogation à l’article L. 613-1 du #code_de_l’éducation qui prévoit, lui, que les modalités du #contrôle_des_connaissances « doivent être arrêtées dans chaque établissement au plus tard à la fin du premier mois de l’année d’enseignement et elles ne peuvent être modifiées en cours d’année ».

    Mais le problème principal va vraisemblablement se porter, dans les prochaines semaines, sur les #examens_à_distance, que l’ordonnance autorise à mettre en place de manière généralisée. On observe deux points très problématiques à ce sujet :

    Le premier tient dans le fait que l’ordonnance s’est bien gardée d’établir des garanties procédurales et techniques permettant d’assurer l’#égalité_de_traitement des étudiant·es et la lutte contre la fraude, à la différence de ce qu’elle fait, un peu plus loin dans l’ordonnance, pour les examens et concours d’accès à la fonction publique (renvoi à un décret fixant ces garanties). On pourrait penser que les conditions de l’article D. 611-12 du code de l’éducation continuent de s’appliquer1, mais faute de précision, ces conditions ne nous éclairent guère, de sorte que le pragmatisme à toute épreuve de certain·es collègues risque de bien vite les écraser.
    Le deuxième point a trait au fait que ces conditions d’organisation seront décidées sans beaucoup de discussion collective – puisque, comme on va le voir, l’essentiel des pouvoirs est concentré entre les mains du président de l’ université – et pourront même être imposées aux enseignant·es qui les refuseraient, si l’on en croit les termes de l’ordonnance.

    Il est impératif que ces examens à distance ne représentent pas l’aiguillon de leur généralisation pour les années à venir dans les universités. Le débat critique à leur égard reste entier. C’est particulièrement le cas pour ce qui concerne les examens dits « en télésurveillance ». Ils posent des problèmes juridiques multiples — en termes de droit des données à caractère personnel et en termes de droit à l’image, en particulier— quand bien même les règles du code de l’éducation seraient respectées, ils suscitent un fort scepticisme dans la communauté universitaire, qui n’a pas particulièrement envie de devenir le terrain d’essai de l’immixtion des dispositifs de vidéosurveillance à l’intérieur des domiciles privés, ils reviennent à enrichir de nouveaux intermédiaires privés — soit les prestataires de services. Et ils coûtent finalement cher, plus cher qu’un examen en présentiel.

    De ce point de vue, dans le cas où des universités choisiraient de recourir aux examens par télésurveillance dans les prochaines semaines, il est crucial qu’il soit veillé à ce que le plein consentement des étudiant·es soit obtenu : on ne saurait leur imposer d’être filmés à leur domicile. On ne peut qu’être atterré à cet égard, de la réponse de Pierre Beust – l’universitaire de référence, selon la DGESIP, sur les conditions d’examens par télésurveillance en France – lors du webinaire sur « la continuité pédagogique : la question cruciale des examens » (à partir de 1H07), qui explique sans ciller qu’un·e étudiant ·e qui refuserait de passer un examen en télésurveillance bénéficierait de moins de « bienveillance », donc en pâtirait2.

    2.2 S’agissant de la détermination de l’autorité compétente pour prendre ces mesures d’adaptation (article 3), l’ordonnance vient confirmer la tendance lourde du droit de l’enseignement supérieur au renforcement toujours croissant du rôle du président. Celui-ci reçoit compétence pour procéder lui-même – seul, donc – à toutes ces modifications, dès lors qu’il considère que les organes collégiaux sont empêchés de délibérer « dans des délais compatibles avec la continuité du service », ce qui est pour le moins vague. Le court-circuitage des #CFVU est donc très largement ouvert. On note en outre que quand bien même les organes collégiaux délibèrent « dans des délais compatibles avec la continuité du service », ils peuvent toujours décider de déléguer leurs #compétences au président. On reproduit à la petite échelle des universités ce que l’on a observé la semaine dernière au Parlement avec la loi d’urgence : le réflexe systématique devant le caractère exceptionnel de l’épidémie que nous vivons est de renforcer la #concentration_des_pouvoirs, et donc l’#autoritarisme, et ce réflexe semble aujourd’hui être conçu avec une évidence telle qu’il n’est plus même discuté. C’est très inquiétant quant à ce que cela dévoile de nos représentations intellectuelles des processus de prise de décision collective.

    3° Transformation des règles relatives aux examens et concours de la fonction publique

    Le chapitre II de l’ordonnance (article 5 et 6) concerne les examens et concours d’accès à la fonction publique. Pour le résumer simplement, toutes les adaptations sont possibles, et en particulier le recours à la visioconférence peut être généralisé. La question du projet de décret « fixant les conditions de recours à la visioconférence pour l’organisation des concours des chargés de recherche et des directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques et des enseignant·es-chercheur·ses des établissements d’enseignement supérieur au titre de l’année 2020 » n’a donc plus lieu d’être : l’ordonnance permet désormais de ne pas appliquer les dispositions du décret du 22 décembre 2017 fixant les conditions de recours à la visioconférence pour l’organisation des voies d’accès à la fonction publique de l’État, qui impose un nombre minimum de membres du jury physiquement présents.

    Deux observations toutefois : ces règles nouvelles ne sont pas immédiatement applicables puisqu’il est prévu que « les garanties procédurales et techniques permettant d’assurer l’égalité de traitement des candidats et la lutte contre la fraude sont fixées par décret » ; surtout, on ne sait pas à ce stade qui, précisément, prendra la décision de déroger « à l’obligation de la présence physique des candidats ou de tout ou partie des membres du jury ou de l’instance de sélection, lors de toute étape de la procédure de sélection » : est-ce au niveau de chaque établissement qui ouvre un poste ? Ou est-ce au niveau de l’État que seront pris, concours par concours, les décisions ?

    À ce stade, on a aussi encore du mal à voir précisément l’ampleur des conséquences du deuxième point du chapitre II de l’ordonnance. Pour les #concours qui étaient en cours mais non achevés à la date du 12 mars 2020, « la liste complémentaire établie par le jury du concours précédent peut être utilisée afin de pourvoir des vacances d’emplois ». Par ailleurs, diverses mesures destinées à prolonger la validité des listes complémentaires ou des listes d’aptitude des concours sont décidées. Et enfin, point important, lorsqu’un concours est en cours ou a été ouvert entre le 12 mars et le 31 décembre 2020, il est prévu que les candidats doivent remplir les conditions générales prévues pour l’accès au corps auxquels ils postulent au plus tard à la date d’établissement de la liste classant par ordre de mérite les candidats déclarés aptes par le jury, et non, comme c’était le cas jusqu’ici, au jour de la première épreuve.

    https://academia.hypotheses.org/21693
    #université #fac #facs #pérennisation #ESR #stratégie_du_choc #in_retrospect

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    citation pour @etraces :

    Il est impératif que ces examens à distance ne représentent pas l’aiguillon de leur généralisation pour les années à venir dans les universités. Le débat critique à leur égard reste entier. C’est particulièrement le cas pour ce qui concerne les examens dits « en télésurveillance ». Ils posent des problèmes juridiques multiples — en termes de droit des données à caractère personnel et en termes de droit à l’image, en particulier— quand bien même les règles du code de l’éducation seraient respectées, ils suscitent un fort scepticisme dans la communauté universitaire, qui n’a pas particulièrement envie de devenir le terrain d’essai de l’immixtion des dispositifs de vidéosurveillance à l’intérieur des domiciles privés, ils reviennent à enrichir de nouveaux intermédiaires privés — soit les prestataires de services. Et ils coûtent finalement cher, plus cher qu’un examen en présentiel.

    • Il faut bien comprendre que cette ordonnance est une intervention du #pouvoir_exécutif dans ce qui représente normalement le champ de compétences du #Parlement. L’objectif de cette ordonnance n’est donc pas le même que l’objectif d’un #décret : il est d’abord et avant tout de modifier des dispositions de valeur législative, que le #Président_de_la_République et le #gouvernement n’ont normalement pas la possibilité de modifier par eux-mêmes, mais qu’ils peuvent tout de même modifier parce que le Parlement les y a exceptionnellement habilités.

      et

      On reproduit à la petite échelle des universités ce que l’on a observé la semaine dernière au Parlement avec la loi d’urgence : le réflexe systématique devant le caractère exceptionnel de l’épidémie que nous vivons est de renforcer la #concentration_des_pouvoirs, et donc l’#autoritarisme, et ce réflexe semble aujourd’hui être conçu avec une évidence telle qu’il n’est plus même discuté. C’est très inquiétant quant à ce que cela dévoile de nos représentations intellectuelles des processus de prise de décision collective.

      #ordonnance #loi_d'exception

    • Dans les universités, la tentation de la télésurveillance des examens

      Faute de pouvoir organiser des #partiels classiques pour cause de #risque_sanitaire, certaines universités réfléchissent à une télésurveillance des examens, via des prestataires privés. Un dispositif contesté et coûteux, que le gouvernement encourage.

      Évaluera ou n’évaluera pas ? « Pour l’instant, c’est les grandes négociations », glisse un vice-président d’une université parisienne. Depuis le début du mois d’avril, les discussions sur les modalités d’examen font rage dans les facultés, qui ne rouvriront pas leurs portes avant la rentrée de septembre.

      Mercredi 22 avril, la ministre de l’enseignement supérieur Frédérique Vidal, dans une interview accordée à 20 Minutes, a recommandé d’organiser « un maximum d’épreuves ne nécessitant pas la présence physique des étudiants sur les campus », tout en estimant que les modalités de ces épreuves relevaient de la « #liberté_pédagogique » des établissements.

      Les votes s’enchaînent dans les #CFVU, les commissions chargées des règles des examens dans chaque université. Une partie des syndicats étudiants, comme l’Unef, s’opposent à l’organisation de partiels classiques, certains réclamant une #neutralisation du semestre ou l’instauration du « #10_améliorable » (validation automatique du semestre, avec une note minimale de 10 pour tous les étudiants). Des demandes irrecevables pour la plupart des établissements, qui souhaitent maintenir une forme d’évaluation et mettent sur pied les modalités filière par filière.

      La plupart des universités ont déjà annoncé vouloir privilégier le #contrôle_continu et adapter fortement les examens de fin d’année. À l’université Lumière-Lyon II, la consigne est d’éviter ou d’alléger autant que possible les examens « en temps contraint », explique Valérie Haas, vice-présidente à la formation. Les enseignants sont donc invités à privilégier des « devoirs maison », sans que l’étudiant ne soit obligé de se connecter à une heure fixe. Certains étudiants pourront bénéficier d’un accès à l’examen « pendant 24 heures ». Le tout en passant par des plateformes comme #Moodle, installées dans la plupart des universités.

      D’autres établissements ont déjà annoncé l’organisation d’examens à distance, selon des modalités très diverses, comme les universités de Bretagne (UBO), de Nancy, de Lille ou de Rouen. Avec une inquiétude : ces partiels ne risquent-ils pas d’entraîner une hausse des #fraudes et de mettre en péril la sacro-sainte valeur des #diplômes ? C’est sur cette angoisse que cherchent à se positionner les entreprises spécialisées dans la télésurveillance des examens.

      Pour réduire les risques de #triche, le ministère de l’enseignement supérieur conseille aux universités de privilégier les épreuves « simples » et courtes, comme des #questionnaires_à_choix_multiples (#QCM), ou au contraire des examens mettant l’accent sur « l’esprit critique », moins propices au copier-coller. « Il s’avère difficile d’éviter la recherche d’informations sur le Web », note-t-il, lucide.

      Les disciplines comptant peu d’étudiants pourraient aussi s’orienter vers l’organisation d’oraux par #visioconférence, qui permettent de vérifier l’identité du candidat. Mais, dans des facultés comptant souvent des centaines d’étudiants par amphithéâtre, la surveillance des partiels reste une grande illusion. D’où la tentation de recourir à des prestataires extérieurs.

      Dès le début du confinement, le ministère de l’enseignement supérieur a transmis aux universités une fiche mentionnant les noms de plusieurs entreprises spécialisées dans la télésurveillance d’examens, en précisant les volumes de partiels pouvant être organisés et les tarifs pratiqués, de l’ordre de 10 euros par heure d’examen et par étudiant en moyenne. Une manière de mettre l’option sur la table, sans remettre en cause la liberté de choix des établissements.

      Techniquement, les détails divergent, mais la plupart des entreprises listées par le ministère proposent une #captation_d’image. « D’abord, l’étudiant installe le logiciel et l’autorise à fermer toutes les autres applications. Ensuite il se prend en photo avec sa carte d’identité », explique Benoît Sillard, PDG de #TestWe, l’une des sociétés citées par le ministère.

      « Pendant l’examen, une photo est prise toutes les quelques secondes. Cela forme un mini-film qui est automatiquement analysé pour détecter des anomalies : un autre visage qui apparaît ou l’étudiant qui s’en va. Dans ce cas, une vérification est faite par une personne physique pour voir ce qu’il s’est passé », détaille l’entrepreneur, lui-même passé par les ministères de l’éducation nationale et de la recherche en tant que spécialiste numérique au début des années 2000. Ces surveillants peuvent être fournis par les universités ou par les prestataires, moyennant finance.

      Contacté par Mediapart, le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche minimise le recours à ce type de prestation : « Le nombre d’établissements ayant prévu de recourir aux examens télésurveillés devrait être limité. Il s’agirait majoritairement d’écoles, et dans une moindre mesure d’universités. » Les facultés de médecine ou de pharmacie, en particulier, pourraient être tentées par le dispositif.

      Le ministère estime que l’ordonnance du 27 mars « donne aux établissements assez de souplesse pour organiser les évaluations sous des formes variées », citant notamment « l’organisation d’oraux en visioconférence ou de quizz à questions et réponses aléatoires », et que la plupart des solutions envisagées rendent « le risque de triche très faible et donc ne nécessitent pas de recours à la télésurveillance ».

      Reste que le sujet suscite de vives oppositions dans les universités, où chaque UFR – ou filière disciplinaire – dispose d’une certaine marge de manœuvre. « Nous voulions interdire l’organisation d’examens synchrones [en temps réel] », raconte Jennifer Buyck, élue du syndicat Snesup à la CFVU de l’université Grenoble-Alpes, qui soulève des objections éthiques et pratiques à la télésurveillance : fracture numérique pour de nombreux étudiants, mauvaises conditions de travail au domicile, accentuation de la précarité en période de confinement, logiciel jugé intrusif et liberticide…

      « Le point commun entre tout ça, c’est une rupture d’égalité des étudiants », souligne l’enseignante-chercheuse, dont la proposition a été rejetée. « Il n’y a pas de garde-fous », s’inquiète-t-elle.

      Des reproches injustifiés, tente de pondérer Benoît Sillard, qui estime que les examens encadrés par sa société sont « exactement les mêmes, en dématérialisé, que dans une salle de cours ». Le PDG de TestWe affirme avoir été très sollicité par des établissements du supérieur ces dernières semaines et avoir déjà organisé plusieurs milliers d’examens surveillés. « Les grandes écoles ont vite basculé », résume-t-il, rappelant que sa société a déjà travaillé avec l’ENA ou de grosses écoles de commerce comme l’EM Lyon. « C’est plus long du côté des facs », admet-il, tout en assurant être en « négociations très avancées » avec plusieurs universités.

      Ces dernières années, des universités ont déjà eu recours à ce type de télésurveillance pour contourner des blocages dus à des mouvements étudiants. C’est le cas à Nanterre ou à l’université Paul-Valéry de Montpellier, où des examens à distance se sont tenus au printemps 2018 après le rejet d’un recours administratif déposé par des syndicats étudiants.

      Ailleurs, la télésurveillance est expérimentée à petite échelle, notamment pour les étudiants dans l’impossibilité d’assister aux examens pour raisons professionnelles ou médicales. Ce devait être le cas cette année pour certaines licences de langue à Nancy, où les étudiants volontaires se voyaient demander le paiement de 200 euros de frais « non remboursables » pour bénéficier de ce service, confié par l’université de Lorraine à la société #Managexam.

      La société vend aussi son outil à l’université de Caen, présentée comme « en pointe sur la question » par le ministère, tout comme Sorbonne-Université, qui travaille avec #Proctorexam, un concurrent.

      À l’université de Caen, le dispositif est expérimenté depuis plusieurs années sur « une petite centaine d’étudiants », sur les 30 000 que compte l’université, précise son président, Pierre Denis. Essentiellement dans le cadre de formations à distance, par exemple pour des étudiants résidant à l’étranger. « Nous n’envisageons pas d’étendre ce système massivement », affirme-t-il, s’exprimant également au nom de la conférence des présidents d’université (CPU). « Avec la #fracture_numérique, ce ne serait ni adapté, ni #éthique, ni peut-être même faisable », estime-t-il.

      Selon un sondage en cours de finalisation réalisé par l’université de Caen, au moins 5 % des effectifs, soit 1 500 étudiants, ne sont actuellement pas dans des conditions leur permettant de passer des examens. Des solutions techniques (clefs 4G, autorisations de déplacement) ou organisationnelles (évaluation décalée ou par oral) sont actuellement à l’étude.

      L’université d’Aix-Marseille a déjà acté qu’elle n’aurait pas recours à la télésurveillance d’examens et qu’elle s’orienterait principalement vers le contrôle continu. « Nous distribuons 1 500 colis alimentaires par semaine. Près de 600 étudiants n’ont pas un accès numérique satisfaisant, les conditions d’#égalité n’étaient pas réunies pour organiser des examens », détaille Éric Berton, président d’Aix-Marseille Université (AMU).

      Un choix qui est aussi économique. Lionel Nicod, le vice-président à la formation de l’AMU, a fait ses comptes : « On arrivait à 1,6 million d’euros rien que pour les premières années de licence. Entre dépenser cette somme pour des examens ou la garder pour soutenir nos étudiants à la rentrée, le choix a été vite fait. » Les tarifs indicatifs recensés par le ministère auprès des différentes entreprises varient de 1,50 euro pour des « examens non surveillés », ressemblant à une simple visioconférence, jusqu’à 17 euros par étudiant et par examen, si l’entreprise fournit les surveillants.

      Le gouvernement a trouvé une parade pour réduire ces coûts prohibitifs : une sorte de #commande_groupée. Le ministère de l’enseignement supérieur indique à Mediapart que la #Fédération_inter-universitaire_de_l’enseignement_à_distance (#Fied) propose une adhésion gratuite à tous les établissements du supérieur. Une action « discutée » avec les services du ministère, précise-t-il.

      L’opération doit permettre aux établissements de passer une sorte de commande groupée et de « profiter du contrat cadre que la Fied a passé avec la société Managexam et permettant un tarif préférentiel de 1 euro HT l’examen (par étudiant) réalisé en télésurveillance par prise de photos […]. Compte tenu du fait que le recours à la télésurveillance ne sera pas massif, cela restera très acceptable dans les coûts », détaille le ministère.

      Même avec une réduction, l’idée fait bondir Mélanie Luce, présidente de l’Unef. « Les étudiants sont dans des situations très précaires, sans emploi ni droits au chômage ou au RSA, vivent parfois dans des taudis ou peinent à se nourrir, et on serait prêts à dépenser des millions d’euros pour nous forcer à passer des examens télésurveillés ? C’est aberrant. » Et le temps presse pour les universités, qui doivent se positionner ces semaines-ci sur la question : selon la loi, elles doivent informer les étudiants des modalités d’évaluation choisies au moins 15 jours avant la date de l’examen.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/010520/dans-les-universites-la-tentation-de-la-telesurveillance-des-examens?xtor=

      #privatisation

      Article de @mathieup (@wereport)

    • Rennes : les étudiants vont être télé-surveillés pendant les examens de fin d’année

      Afin de terminer l’année malgré la crise sanitaire, l’Université Rennes 1 met en place la « télé-surveillance » lors des examens de fin d’année. Un système inédit dans l’Université Bretonne, qui crée le débat autour de la sécurité des données personnelles.

      https://www.francebleu.fr/infos/education/rennes-les-etudiants-vont-etre-tele-surveilles-pendant-les-examens-de-fin

    • Examens à distance à l’Université de Lille : Solidaires étudiant∙es saisit le #tribunal_administratif en urgence

      Soutenu par la FSE et la section SUD éducation de l’Université de Lille, Solidaires étudiant.e.s a déposé un recours en urgence devant le Tribunal administratif ce 2 mai 2020, demandant la suspension de la décision de l’Université de Lille imposant des examens en ligne à ses étudiant.e.s.

      Les modalités d’examen attaquées sont précisées dans un document appelé « Plan de Continuité Pédagogique », adopté le 10 avril par la Commission de la Formation et de la Vie Universitaire (CFVU), instance de l’université compétente en matière d’organisation des formations. Cette décision doit être suspendue, car les examens en ligne constituent une rupture d’égalité entre les étudiant.e.s discriminant les plus précaires (situation de handicap, mauvaise santé physique ou psychologique, accès au numérique fragile).

      Des alternatives aux examens en ligne ont été proposées par des élu.es au sein de la CFVU, telles que la note plancher à 12/20, ou a minima le recours exclusif aux examens asynchrones. Toutes ces alternatives ont pourtant été balayées d’un revers de main par la présidence, qui a refusé de les soumettre au vote dans un déni total de démocratie. Tandis que plusieurs universités de France ont fait le choix de la validation automatique du semestre, la CFVU de l’Université de Lille a donc validé, dans la précipitation et l’opacité, la tenue d’examens en ligne, sans aucune considération pour les inégalités qu’ils creusent. Elle est même allée jusqu’à autoriser le recours à la télésurveillance sans aucune information concernant la protection des données, en dépit de tout bon sens et des risques juridiques encourus.

      Cet « acharnement à évaluer » et ses dérives ne correspondent pas à la vision que nous portons d’un enseignement supérieur égalitaire et émancipateur, vision qui doit être réaffirmée et non bafouée en contexte de crise sanitaire. Après l’avis qui sera rendu par le juge administratif, nous souhaitons qu’un dialogue constructif soit enfin ouvert avec les instances de l’université de Lille, afin d’envisager toutes les solutions qui permettraient de rassurer les étudiant.e.s, et de surmonter cette crise sans pénaliser aucun.e d’entre eux.elles.

      https://academia.hypotheses.org/23625
      #justice

    • Quelles universités télésurveillent ? Une recension participative

      Academia a déjà fait une recension participative des conditions d’études pendant le confinement, des modalités du contrôle des connaissances modifiées en raison du confinement. Nous souhaiterons recenser les usages particuliers de la télésurveillance dont l’usage nous avait semblé pouvant devenir problématique ((Sur Academia, voir Et maintenant la reconnaissance faciale pour les examens ?, 27 avril 2020 et Dans les universités, la tentation de la télésurveillance des examens, sur Mediapart, 3 mai 2020.)). La question se pose d’autant plus que la rentrée ne laisse pas augurer une reprise normale en présentielle ((Même si nous n’avons aucune information à ce stade. Cf. Plan de déconfinement officiel du MESRI, 5 mais 2020.)).

      Antérieurement à l’épidémie, les universités suivantes avaient déjà utilisé de la télésurveillance de manière plus ou moins ponctuelle (liste à compléter) : France Université Numérique (pour les MOOC), Université de Caen Normandie, Sorbonne Université, Université de Bourgogne (très ponctuellement), Université de Lorraine (très ponctuellement).

      Depuis l’épidémie, cette liste s’est allongée (voir le détail ci-dessous). Des débats assez vifs ont eu lieu dans plusieurs universités sur ce sujet au mois d’avril, à l’occasion des modifications des modalités de contrôle des connaissances. Sous réserve d’autres informations, le constat que l’on peut faire à ce stade est le suivant :

      Un grand nombre d’universités n’évoquent pas la télésurveillance dans leurs MCC modifiées, soit qu’elles fixent d’autres conditions de tenue des examens, soit qu’elles laissent les composantes libres de déterminer ces conditions.
      Seules quelques rares universités ont indiqué expressément repousser la télésurveillance dans leurs MCC. C’est le cas d’Aix-Marseille Université (« assurer ce type d’évaluation au domicile de l’étudiant est possible grâce à des services de télésurveillance payants mais AMU ne souhaite pas y recourir ») et de l’université Paris-Saclay (« Remplacement des épreuves écrites par un devoir à distance, sans télésurveillance »).
      Plusieurs universités ont choisi d’ouvrir expressément la possibilité de recourir à de la télésurveillance, ce qui ne signifie pas toujours que celle-ci est pratiquée (choix des composantes). C’est le cas de l’université de Rennes-1 (mise en œuvre confirmée), de l’université de Bourgogne (mise en œuvre ponctuelle antérieure à l’épidémie) ou de l’université de Rouen Normandie (pas de mise en œuvre connue à ce stade).

      On voit donc que la télésurveillance n’est pas encore une pratique généralisée dans les universités françaises, en dépit des préconisations de la direction générale de l’Enseignement supérieur et de l’Insertion professionnelle (DGESIP) qui la recommande vivement depuis le début de l’épidémie. Cependant, l’épidémie de covid-19 aura fortement contribué à sa progression, et c’est très inquiétant.

      L’année prochaine sera une année charnière. Les décisions stratégiques à ce sujet sont prises ces jours-ci dans les universités, dans le cadre de la préparation de la prochaine rentrée universitaire.

      https://academia.hypotheses.org/23438

    • #Rennes-1, la télésurveillance et la CNIL

      Étonnamment, la télésurveillance des examens – qui monte en uissance depuis plusieurs années – était largement restée sous les radars de la communauté universitaire, qui n’y avait guère prêté attention. L’accélération du recours à celle-ci depuis l’épidémie de covid-19 est en train de changer la donne, avec le désastreux soutien de la direction générale de l’Enseignement supérieur et de l’Insertion professionnelle, qui n’hésite pas à aller jusqu’à renvoyer vers des solutions privées de reconnaissance faciale.

      À l’évidence, le marché des examens suscite bien des convoitises, le marchands font du forcing, et Academia a donc engagé un travail de recension, afin d’identifier précisément les établissements qui, sous prétexte d’épidémie, choisissent de franchir allègrement le pas.

      À ce sujet, l’université de Rennes-1 occupe particulièrement l’attention ces derniers jours. Non qu’elle soit la première à se lancer dans des examens en télésurveillance. Mais parce qu’elle est la première où l’on observe une vive résistance. La contestation monte en puissance, et elle est cruciale, car il ne fait pas de doute que ces examens en télésurveillance sont appelés à se développer fortement, dès l’année prochaine.

      Academia reviendra prochainement sur les différents dangers que soulève le développement de la télésurveillance. On peut d’ores et déjà noter que, comme le signale le tweet de @argaryen di-dessus, alertant la Commission nationale Informatique et Libertés (CNIL), que ces examens soulèvent différents problèmes majeurs en termes de droit des données à caractère personnel, en particulier lorsqu’ils supposent que l’étudiant∙e « accepte » de filmer l’intérieur de son domicile. Si l’article 9 du RGPD n’est pas toujours en cause, se pose, dans tous les cas, la question de la valeur du consentement donné par un∙e étudiant∙e, qui, s’il n’est pas donné, entraîne une conséquence négative très lourde : l’impossibilité de passer ses examens. Il serait important, effectivement, que la CNIL se prononce.

      Au titre des critiques, on peut tout de suite ajouter, aussi, le fait que l’université de Rennes-11 fait signer un document aux étudiant∙es par lequel elle

      « décline toute responsabilité en cas de problème technique inhérent au lieu de passage de [leur] examen pendant l’épreuve. Cela concerne, sur [leur] lieu de résidence : l’alimentation électrique ; la connexion internet ; le fonctionnement des équipements utilisés et de leurs périphériques ».

      Le moins qu’on puisse dire, c’est que cette manière de faire est sobre et efficace : une signature, et tous les problèmes d’inégalités sont réglés ! Alors disons-le tout aussi simplement : faire porter toute la responsabilité technique, matérielle et opérationnelle des examens sur les seuls étudiant∙es, c’est contraire au principe d’égalité. C’est considérer que, si les étudiants n’ont pas accès aux mêmes moyens matériels pour composer, ils ne peuvent que s’en prendre à eux-mêmes.

      Une belle image de la mission sociale de l’université.

      Rappelons aussi, au passage, que l’article D. 611-12 du Code de l’éducation prévoit que

      « La validation des enseignements contrôlée par des épreuves organisées à distance sous forme numérique, doit être garantie par […] la vérification que le candidat dispose des moyens techniques lui permettant le passage effectif des épreuves ».

      C’est bien singulier que penser que « vérifier que le candidat dispose des moyens techniques lui permettant le passage effectif des épreuves », c’est la même chose qu’exiger des étudiant∙es d’assumer toute la responsabilité technique, matérielle et opérationnelle des examens qu’ils sont contraints de passer, sous peine de ne pas se voir délivrer leurs diplômes.

      https://academia.hypotheses.org/23510

    • Comment les étudiant·es sont-ils télésurveillé·es ? Mode d’emploi par L’Étudiant

      Après les cours, les examens à distance : à l’avenir, vous aurez peut-être de moins en moins besoin de vous déplacer pour passer vos épreuves. /
      Les cours en ligne n’ont certainement plus de secrets pour vous. Mais qu’en est-il de l’évaluation à distance ? L’Etudiant vous explique comment fonctionne la télésurveillance des examens depuis chez vous.

      Le 16 mars 2020, toutes les universités de France ont fermé leurs portes en raison de l’épidémie de coronavirus. Alors que les partiels approchent, plusieurs solutions existent pour vous évaluer : reporter les examens, les annuler au profit du contrôle continu, ou bien les remplacer par un examen en ligne ou un devoir à la maison. (..)

      Ainsi, de nombreux établissements font le choix de l’évaluation en ligne. Comment la vérification de l’identité est-elle effectuée  ? Quelle connexion est nécessaire  ? La télésurveillance mise en place à l’université de Caen pour leurs formations à distance est un bon exemple. Voyons son mode d’emploi.
      Un examen blanc pour tester l’outil

      Tout d’abord, vous recevez comme pour n’importe quel examen une convocation à l’examen en ligne. Dans celle-ci, se trouvent des liens pour télécharger l’application, mais également d’autres liens pour vous aider à utiliser la plateforme.

      Une à deux semaines avant les épreuves, un système d’examen blanc a également été mis en place à Caen : « Tous les étudiants qui utilisent pour la première fois l’appli sont invités à participer à une session factice afin d’identifier les éventuels problèmes mais aussi pour minimiser le facteur stress », indique Alice Niezborala, directrice des partenariats chez Managexam, société Edtech qui développe ces examens délocalisés avec huit écoles et universités.
      Le tour de la pièce à 360°

      Les candidats installent l’application sur leur ordinateur pour l’épreuve. Ils doivent également lire et accepter un règlement intérieur. Ce document signale les documents acceptés pendant l’examen et les différentes étapes indispensables à la vérification préalable. « Faire le tour de sa pièce avec sa webcam à 360 degrés pour vérifier que vous êtes bien seul ou vérifier qu’il n’y a pas de documents à portée de main pour les examens qui n’acceptent pas de documents », énumère par exemple Alice Niezborala. Une équipe de surveillants se charge de la vérification visuelle, ou bien l’établissement a son propre « staff » de surveillance.
      (…)
      Présenter ses papiers à la webcam

      La vérification d’identité est la partie délicate, car elle est un rempart contre la fraude. « C’est une étape de la télésurveillance. Une présentation des cartes d’identité à la webcam est demandée. Ces données restent cryptées et ne sont accessibles qu’en fin d’épreuve », assure Alice Niezborala. Ensuite, la gestion de la « pseudoisation » des copies revient à Managexam qui rend les copies anonymes avant l’envoi aux correcteurs de l’établissement.
      Des coupures surveillées (…)
      Et après  ?

      Et après l’épreuve, que devient la copie  ? « En fonction des établissements, les professeurs désignés peuvent venir corriger à l’écran ou bien nous exportons les copies pour des corrections à la main. Un rapport de télésurveillance est envoyé avec un système de drapeaux de couleur dans la timeline. Ils notifient là où il y a pu y avoir un problème, une coupure », explique Alice Niezborala. Le rôle de Managexam s’arrête ici. Les sessions sont ensuite entièrement anonymisées sous 12 mois, conformément au délai de prescription pour les recours.
      Télésurveillance et surveillance en replay

      Créée en 2012, Managexam travaille sur les solutions d’évaluation à distance au sens large, la télésurveillance, les sessions de rattrapage en ligne, les tests de positionnement. La société propose pour le moment trois options :
      – Managexam Live, une solution de télésurveillance comme celle proposée à l’université de Caen  ;
      – Managexam Replay, où l’étudiant, autonome, est enregistré durant l’épreuve et qui est monitoré par la suite  ;
      – Managexam Auto, qui fonctionne à partir de captures d’écrans et qui est davantage destiné à des pays où les connexions sont instables.
      L’entreprise de EdTech travaille avec huit établissements d’enseignement supérieur, parmi lesquels La Rochelle Business School, Montpellier Business School, Kedge, l’IDRAC et une seule université, à Caen. Pour cette dernière, la première session de télésurveillance en ligne a eu lieu le 1er février 2018. 122 examens se sont tenus sur une journée, avec huit télésurveillants.

      https://academia.hypotheses.org/23436

    • EU lawmakers call for online exam proctoring privacy probe

      Students in the Netherlands are resisting use of software to stop cheating on exams, citing concerns about consent, intrusion and security of personal data.

      European lawmakers have demanded an investigation into whether online proctoring software violates student privacy rights, arguing that it is unfair for universities to force students to use exam monitoring tools that capture their personal biometric data.

      The coronavirus pandemic has spurred many universities to turn to software such as Proctorio, used by about 500 institutions globally, mainly in the US, to stop students cheating when sitting online exams at home.

      But in the Netherlands, a student petition against Proctorio has gathered close to 5,000 signatures and triggered a political row.

      “My concern is that the data that are collected are biometric data: faces and eyes,” said Paul Tang, a Dutch Labour Party MEP who, with a colleague, has asked the European Commission to investigate whether such online proctoring complies with the bloc’s General Data Protection Regulation (GDPR).

      “If you don’t have an option [not to use online proctoring], what does consent mean? And that’s the whole idea of GDPR,” he told Times Higher Education. “You can’t switch your university.”

      Proctorio works by monitoring a student through their computer’s camera and microphone to track things such as head and eye movements for suspicious behaviour, explained Thomas Fetsch, the company’s country manager for Germany.

      For example, if it detected that a student was looking only at one corner of their screen, or constantly glancing down at a notepad – and if this behaviour was unusual compared with that of coursemates – the software might alert the university that it suspected the student of copying out answers.

      The software can ask for “room scans”, which require students to pan around their environments with their laptop cameras. The petition against Proctorio, which focuses on its use at Tilburg University, has called these an “invasion of privacy”.

      The scans are designed to stop students sticking sheets of answers out of view of the laptop camera, said Mr Fetsch. Laptop microphones might also be monitored to check that no one else is in the room helping the student, he said.

      Alex Tess Rutten, chair of the Dutch Student Union, told THE that universities had turned to online proctoring “too easily”.

      “There are a number of good alternatives, like speaking exams,” she said.

      Students could be given a set time in which to complete an exam, after which lecturers quiz a random sample to check that they had truly understood the content and given their own answers, the Tilburg petition suggests.

      Some consider online proctoring to be essential given university closures. Willem van Valkenburg, executive director of online learning at Delft University of Technology, said “online proctoring is a necessary and suitable solution in this Covid-19 situation, where the campus is closed”, because universities wanted to minimise disruptions and delays to students’ education.

      Tilburg’s rector, Klaas Sijtsma, has defended the use of Proctorio, arguing that it will help to defend the value of the university’s degrees and will be used only “where it is necessary”.

      But the institution’s law school has decided against using the software – a decision hailed as a victory by those petitioning against Proctorio.

      Online proctoring “can be used only if the infringement of the privacy can be legitimised”, said Maurice Adams, the school’s vice-dean for education, who stressed that this was also the position of the wider university.

      “We at Tilburg Law School have looked at the proposed exams and have concluded that we do not need online proctoring for our exams. Of course, the opinion of our students is very important in this regard: we have discussed the matter with them and listened carefully to their concerns,” he said.

      “Every institution is grappling with this issue,” said Mr Tang. “But what I find surprising is I see universities using different options,” he explained, with some institutions providing more alternatives than others.

      Concern is not confined to the Netherlands. The Australian National University has had to reassure students after they raised privacy concerns about Proctorio.

      Another worry is what will happen to students’ data after they take their exam, said Ms Rutten.

      Mr Fetsch said that while sound and video recordings of students taking exams were stored, only universities – not the company – were able to link these to identifying information. Data from European universities were stored in Frankfurt, he said, and had to be retained so that universities could check exam integrity at a later date.

      Some US universities have given Proctorio permission to train its fraud-detection AI on datasets – such as video or audio recordings – generated when students at those institutions sat their exams, he added.

      https://www.timeshighereducation.com/news/eu-lawmakers-call-online-exam-proctoring-privacy-probe

      #Pays-Bas

    • Coronavirus : imbroglio autour de la télésurveillance des examens à l’université #Rennes-I

      En donnant la possibilité de recourir à une surveillance en ligne des épreuves en raison de la crise sanitaire, l’établissement a suscité une levée de boucliers parmi les étudiants.

      https://www.lemonde.fr/campus/article/2020/05/22/coronavirus-imbroglio-autour-de-la-telesurveillance-des-examens-a-l-universi

    • Non à la télésurveillance des examens. Une tribune

      Des étudiants qui, pour valider leur semestre universitaire, doivent installer sur leur ordinateur personnel un logiciel de surveillance qui les filme en continu, contrôle les programmes qu’ils utilisent, et décrypte à l’aide de « l’intelligence artificielle » les bruits de la pièce dans laquelle ils travaillent pour s’assurer qu’on ne leur souffle pas de réponses : nous ne sommes pas dans un mauvais roman de science-fiction inspiré par George Orwell, mais dans la France du printemps 2020. Tirant prétexte de la situation sanitaire, plusieurs universités et écoles ont en effet prévu de faire passer des examens et partiels à l’aide de ces logiciels espions fournis par des entreprises privées, dont une liste est même mise à disposition sur le site du ministère de l’Enseignement supérieur et de la Recherche.

      Cette forme particulièrement intrusive de surveillance des individus dans un cadre éducatif n’a malheureusement rien de très surprenant : elle procède de logiques déjà installées, auxquelles l’épidémie donne une accélération foudroyante. Une logique de violation toujours plus forte des libertés individuelles et des données personnelles, d’abord, dont le projet d’application « Stop-Covid », dénoncé par de nombreux chercheurs, juristes, intellectuels, hommes et femmes politiques, est le symbole le plus récent. Une logique de gestion autoritaire des rapports humains au sein des institutions d’enseignement supérieur, ensuite, qui place la lutte supposée contre la triche aux examens au-dessus de considérations éthiques et juridiques. Enfin, une logique opportuniste de certains secteurs d’activité qui profitent de la pandémie pour mettre au point et vendre cher au secteur public des outils de gestion de crise.
      Liberticides et immoraux

      Nous appelons les universitaires à refuser en bloc ces dispositifs à la fois illégaux, onéreux, liberticides et immoraux.

      Illégaux parce que les règles de droit françaises et européennes, fixées dans le RGPD et garanties par la Cnil, n’autorisent pas la collecte de données personnelles – et encore moins le contrôle audio et vidéo au sein d’un domicile – sans libre consentement ou motif impérieux d’ordre public. Onéreux, parce que les premiers chiffres avancés évoquent des millions d’euros par université pour organiser des examens de licence, soit une dépense aberrante pour des établissements qui ont des besoins bien plus pressants pour aménager leurs infrastructures, aujourd’hui éloignées des normes d’hygiène souhaitables pour y assurer la reprise des cours. Liberticides parce que sous le prétexte de la validation d’un semestre universitaire, pour reproduire artificiellement les conditions de surveillance d’un examen, c’est l’intimité même des individus qui est violée, sans aucune garantie sur l’usage des données et des images, créant de dangereux précédents pour d’autres institutions ou entreprises tentées de contrôler leurs élèves ou leurs employés. Immoraux parce qu’à l’heure d’une pandémie faisant des dizaines de milliers de morts dans notre pays, c’est faire preuve d’une violence inconsidérée que de vouloir faire passer la validation prétendument stricte des examens avant la protection des droits individuels et la prise en compte des difficultés collectives.
      Connexions limitées ou défaillantes

      Car les étudiantes et les étudiants ne sont pas dans les conditions normales d’une fin d’année universitaire. Certains vivent le deuil, l’angoisse, l’isolement ; d’autres aident leurs familles en gardant des enfants, en faisant l’école à la maison, en travaillant dans un « commerce essentiel ». Beaucoup n’ont pas accès à des outils informatiques satisfaisants, disposent de connexions limitées ou défaillantes, et vivent dans une précarité matérielle accrue par la catastrophe sanitaire en cours. Pour les institutions éducatives, devant des problèmes sociaux et psychologiques aussi évidents, ce sont la « confiance » et la « bienveillance » qui devraient guider les modalités d’évaluation, pour reprendre des termes si souvent martelés dans les campagnes de communication, et si souvent oubliés dans les politiques publiques.

      D’autant qu’il est possible d’imaginer bien d’autres types d’évaluation que le sacro-saint partiel en temps limité : sans prétendre offrir des solutions clefs en main applicables à toutes les disciplines, nous constatons toutes et tous l’inventivité dont font preuve de nombreux collègues pour adapter leur enseignement et sa validation sans perdre en exigence. Précisons bien qu’il ne s’agit pas ici d’adopter une posture banalement technophobe : nous utilisons amplement les outils numériques qui peuvent être mis au service d’une pédagogie de qualité. Mais nous refusons de cautionner les démarches qui, profitant de l’irruption d’une crise sans précédent, suivant la pente d’une société technicienne toujours plus inventive en mécanismes de contrôle, des drones aux systèmes de reconnaissance faciale, suivant les intérêts d’acteurs attirés par de lucratifs marchés à conquérir, suivant les rêves de décideurs qui espèrent dématérialiser toujours davantage le système éducatif, entendent installer des formes inacceptables de surveillance au sein de l’enseignement supérieur.

      https://academia.hypotheses.org/23765

  • Pour sortir du #confinement, un plan d’urgence anticapitaliste

    Par bien des aspects, la #crise_sanitaire en cours est un révélateur de l’incapacité du #capitalisme européen à résoudre les grands problèmes de l’humanité. L’#Italie, la #France et l’#Espagne sont les pays où le virus frappe le plus fort car le #système_sanitaire a été ravagé par les politiques austéritaires depuis au moins une décennie. En France, ce sont 69.000 lits qui ont été supprimés à l’hôpital entre 2003 et 2017, 4.000 en 2018. Par souci d’économie, les réserves stratégiques de masques et de respirateurs ont été supprimées (près d’un milliard de masques dans les années 2000 - supprimé par Xavier Bertrand en 2011). Toujours par souci d’économie, la recherche publique sur les coronavirus n’a pas été soutenue et un temps précieux a été perdu dans la possibilité de trouver des traitements efficaces. La rigueur budgétaire et la recherche du profit sont les principaux responsables de la situation dans laquelle nous nous trouvons.

    Confinement ou immunité collective ?

    Face à la pandémie, les gouvernements hésitent entre deux solutions. La première, minoritaire, défendue par les gouvernement britanniques et néerlandais est l’acquisition d’une immunité de groupe. Cette immunité à l’avantage d’éviter les nouvelles épidémies. Selon les connaissances que nous avons du virus (R0 ~ 2.5), cela nécessite que 60% de la population entre en contact avec le virus et en soit immunisée. Ce processus est très bien décrit par le groupe de modélisation de l’équipe ETE (Laboratoire MIVEGEC, CNRS, IRD, Université de Montpellier) (http://alizon.ouvaton.org/Rapport2_Immunisation.html). Une fois ce taux atteint, la population dans son ensemble (y compris les personnes non immunisées) est protégée contre une nouvelle épidémie.

    Cependant, sans mesure de contrôle, les projections montrent qu’entre 81 et 89% de la population pourrait être infectée. Soit entre 20% et 30% de plus que le seuil pour atteindre l’immunité collective. Cela représente potentiellement 20 millions de personnes infectées en plus dans un pays comme la France.

    Nous ne connaissons pas précisément le taux de létalité du virus. Les chiffres dont nous disposons sont tous biaisés, et a priori largement surestimés, par l’absence de tests systématiques dans la population. Plus on dépiste, plus on détecte des personnes contaminées présentant peu ou pas de symptômes, plus ce taux est bas. Mais aussi bas soit ce taux, lorsqu’il est multiplié par des dizaines de millions de personnes, les morts se compteraient très probablement en centaines de milliers. Par ailleurs, l’austérité budgétaire et l’affaiblissement des systèmes de santé doivent être intégrés dans l’équation. La létalité du Covid-19 est visiblement provoquée par un choc cytokinique qui nécessite une prise en charge en soin intensifs avec respirateurs. Plus la pénurie de respirateurs est grande, plus la mortalité est haute, plus les équipes médicales doivent choisir qui maintenir en vie et qui sacrifier par manque de moyens. C’est sûrement ce qui explique les taux de mortalité très élevés par rapport à d’autres pays en Italie, en Espagne et dans une moindre mesure en France (bien que cela pourrait s’aggraver au pic de l’épidémie) qui sont mal équipés en nombre de lits en « soins aigus ».

    Dans la plupart des pays, ces chiffres ne sont pas assumables par les gouvernements en place. Et ce sont ces projections qui ont poussé partout le pouvoir à confiner les populations malgré la crise économique majeure et les conséquences sociales dramatiques que cela entraine.

    En effet, la distanciation sociale permet de ralentir la progression du virus, d’aplatir le pic, et donc de diminuer l’afflux de malades en détresse à l’hôpital. Ce processus est décrit de façon très intuitive dans le Washington Post (https://www.washingtonpost.com/graphics/2020/world/corona-simulator). La distanciation sociale peut recourir à plusieurs mécanismes, de la fermeture des écoles jusqu’au confinement total. L’étude publiée le 16 mars par l’Imperial College COVID-19 Response Team (https://www.imperial.ac.uk/media/imperial-college/medicine/sph/ide/gida-fellowships/Imperial-College-COVID19-NPI-modelling-16-03-2020.pdf) réalise des projections du nombre de lits occupés en soins intensifs en fonction de plusieurs scénarios de confinements. Si cette étude est forcément incomplète, notamment car les courbes dépendent du moment où les mesures sont mises en œuvre, cela nous montre que les mesures de confinement, dans le cas où aucun traitement ne serait trouvé, devraient s’étaler jusqu’à la fin de l’année 2021 pour que la population atteigne les 60% d’immunisés. Dans le cas contraire, tout relâchement du confinement pourrait correspondre à un nouveau développement incontrôlé de l’épidémie dans la population.

    Mais comment imaginer que la situation que nous vivons depuis une semaine en France se poursuivent pendant des mois ? Ce n’est tenable ni économiquement, ni socialement. Ce n’est pas le propos de cet article (pour cela voir le texte de Mimosa Effe : https://npa2009.org/idees/societe/le-confinement-la-destruction-du-lien-social-et-ses-consequences), mais le #confinement_de_classe que nous vivons actuellement doit s’arrêter. Toute vie sociale est stoppée alors qu’il faut continuer à travailler. Même si nous arrêtions toutes les productions non indispensables, ce serait tout de même des millions de travailleurs.euses qui devraient continuer à faire tourner l’hôpital, l’électricité, l’eau, le traitement des ordures ou l’alimentation – mais aussi tous les autres métiers qui permettent à ces secteurs de fonctionner ! Et cela dans un contexte d’atomisation total de notre camp avec tous les reculs sociaux et l’Etat policier total qui vont avec. A cela s’ajoute les dégâts psychologiques, les violences domestiques faites aux femmes ou la situation criminelle que sont en train de vivre les migrant.e.s, les prisonniers.ères et les sans-abris.

    Nous l’avons vu, le confinement est d’abord imposé par la faillite de notre système de santé et l’impréparation au risque de pandémie qui sont dues à l’austérité imposée par les gouvernements successifs en France et en Europe. Dans la forme qu’il prend, généralisé dans la vie sociale mais pas au travail, de classe, policier, il est la solution que les capitalistes pensent avoir trouvé pour limiter la casse et maintenir au maximum leur place dans la concurrence internationale. Mais la gestion capitaliste de cette épidémie est marquée par l’impossibilité de planifier une quelconque sortie de crise. Un gouvernement anticapitaliste, au service de la population, motivé par la santé plutôt que par les profits, pourrait mettre en place une toute autre politique.

    Existe-t-il une troisième voie ? De toute urgence prendre des mesures anticapitalistes pour sortir du confinement !

    Il ne s’agit pas ici de dire que le confinement pourrait être levé du jour au lendemain. Nous l’avons vu, étant donné les conditions d’impréparation des gouvernements et la dégradation des capacités de l’hôpital public à supporter une telle épidémie, le confinement était la seule solution pour éviter une mortalité élevée. En ce sens, toutes les initiatives syndicales ou de travailleurs.euses pour stopper le travail - et se protéger - dans les productions non-essentielles sont fondamentales. Le slogan « nos vies valent plus que leurs profits » prend ici tout son sens. Il est également fondamental de dénoncer le gouvernement qui nous explique qu’il faut renforcer le confinement mais continuer à travailler, bien au-delà des secteurs essentiels à la lutte contre l’épidémie. Pénicaud, Macron, Philippe sont plus préoccupé.e.s par le maintien des profits que par notre santé. Les scandaleuses mesures contre le droit du travail, les 35h, nos congés, articulées au renforcement de l’Etat policier, ont été prise au moment où la sidération était la plus haute dans la population.

    Mais il est indispensable maintenant de déterminer quelles sont les conditions qui permettraient d’envisager la levée du confinement à très court terme :

    – Il faut de tout urgence pratiquer le dépistage de masse. D’ailleurs, entre les lignes, le Ministre Olivier Veran reconnait lors de sa dernière conférence de presse (https://www.youtube.com/watch?v=wpGjmCkLDHs

    ) que le confinement ne pourra être levé que lorsqu’il sera possible d’effectuer plus de dépistages revenant sur la communication gouvernementale qui affirmait que le dépistage n’était plus un outil en phase 3. Le dépistage de masse permet de n’isoler que les malades et leur entourage. Il permet également une prise en charge précoce des patients considérés comme « à risque » et ainsi de diminuer la létalité du virus. Le problème, c’est que le fournisseur n’arrive pas à suivre la demande en kit de dépistage (https://www.thermofisher.com/order/catalog/product/11732088#/11732088). Il faut donc de toute urgence organiser la production de kits de dépistages en réquisitionnant les entreprises du secteur et en passant outre les brevets.

    – De toute urgence également, il faut injecter des moyens dans la santé et l’hôpital public pour augmenter les capacités de prise en charge des patients en détresse respiratoire. C’est l’inverse des politiques menées jusqu’alors qui font fonctionner l’hôpital comme une entreprise, en flux tendu, incapable de s’adapter à des situations d’urgence. Pour l’instant, le gouvernement a débloqué 2 milliards d’euros pour l’hôpital. Dans le même temps, il injecte 43 milliards dans l’économie et garantit 350 milliards d’euros aux entreprises privées !

    – Pour augmenter le nombre de lits en soins intensifs et protéger celles et ceux qui travaillent il faut réorganiser en profondeur l’appareil industriel pour planifier les productions utiles à résoudre la crise sanitaire : masques, respirateurs, oxygène… En ce sens, il faut soutenir l’action de la CGT qui demande la réouverture et la nationalisation de Luxfer, seule usine d’Europe à produire des bouteilles d’oxygène médical fermées. C’est un bon exemple qui pourrait se poser pour d’autres productions.

    Enfin, l’attention est captée à une échelle assez large sur la mise en place d’un traitement. Le plus prometteur, la chloroquine (ou son dérive l’hydroxy chloroquine) est testée dans plusieurs pays et de nombreux services hospitaliers, y compris en France, ont commencé à l’utiliser sur des malades. Ce médicament semble réduire la charge virale et la durée du portage du virus. Si ce traitement s’avère efficace, la question de la nationalisation de l’industrie pharmaceutique va devenir compréhensible à une échelle très large.C’est peut-être la peur de cette évidence qui motive les grands groupes du secteur à anticiper en proposant de fournir ce traitement gratuitement, que ce soit #Sanofi (https://www.francetvinfo.fr/sante/maladie/coronavirus/coronavirus-sanofi-pret-a-offrir-aux-autorites-francaises-des-millions-) ou #Novartis (https://www.lefigaro.fr/flash-eco/coronavirus-novartis-offre-130-millions-de-doses-de-chloroquine-20200320) !

    Ainsi, nous pouvons affirmer que le confinement aurait pu être largement réduit, voire évité, en généralisant les dépistages, en développant les capacités d’accueil de l’hôpital public et en accélérant les tests sur des traitements antiviraux.

    Ce plan d’urgence n’est possible à court terme que si l’on s’affronte au capitalisme. Il faut reprendre le contrôle, sans indemnité ni rachat, sur l’appareil productif, notamment dans le domaine de la santé, des protections pour les salariés, de l’industrie pharmaceutique et biochimique.

    Macron et son gouvernement, LR et le PS avant lui, portent une lourde responsabilité dans la situation actuelle. L’heure de solder les comptes arrivent. Les réponses anticapitalistes pourraient alors apparaître comme une solution à une échelle inédite jusqu’alors. Pour cela, sans attendre la fin du confinement, il nous faut renforcer les réseaux de solidarité, les réseaux militants pour recommencer à agir dans la situation.

    https://npa2009.org/idees/sante/pour-sortir-du-confinement-un-plan-durgence-anticapitaliste
    #anticapitalisme #anti-capitalisme #austérité #hôpitaux #lits #masques #réserves_stratégiques #stock #respirateurs #recherche #rigueur_budgétaire #immunité_collective #immunité_de_groupe #létalité #taux_de_létalité #tests #dépistage #choc_cytokinique #distanciation_sociale #flattening_the_curve #aplatir_la_courbe #vie_sociale #travail #atomisation #Etat_policier #impréparation #troisième_voie #droit_du_travail #dépistage_de_masse #soins_intensifs #industrie #nationalisation #Luxfer #chloroquine #industrie_pharmaceutique #responsabilité

    ping @simplicissimus @fil @reka

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    Citation sélectionnée pour @davduf :

    Le confinement de classe que nous vivons actuellement doit s’arrêter. Toute vie sociale est stoppée alors qu’il faut continuer à travailler. Même si nous arrêtions toutes les productions non indispensables, ce serait tout de même des millions de travailleurs.euses qui devraient continuer à faire tourner l’hôpital, l’électricité, l’eau, le traitement des ordures ou l’alimentation – mais aussi tous les autres métiers qui permettent à ces secteurs de fonctionner ! Et cela dans un contexte d’atomisation total de notre camp avec tous les reculs sociaux et l’Etat policier total qui vont avec. A cela s’ajoute les dégâts psychologiques, les violences domestiques faites aux femmes ou la situation criminelle que sont en train de vivre les migrant.e.s, les prisonniers.ères et les sans-abris.

    • Le confinement, la destruction du #lien_social et ses conséquences

      Le 19 mars l’Assemblée rejetait l’amendement visant à prolonger le délai d’#avortement pendant la crise sanitaire. Si ce n’est finalement que peu étonnant de la part des députés LREM, ce rejet est révélateur de quelque chose de plus profond. Le confinement de la population va mettre en danger massivement les #femmes et les #classes_populaires de manière générale.

      Quelle que soit la façon dont certains ont essayé de le tourner, le confinement est profondément inégalitaire. Il y a ceux et celles qui ont un logement pour se confiner et les autres qui n’en ont pas, celles et ceux qui ont un logement décent et les autres qui ont un logement insalubre, celles et ceux qui ont une maison avec un jardin et celles et ceux qui doivent se pencher à la fenêtre pour respirer de l’air frais.

      Le message du gouvernement à l’aide de mesures coercitives violentes (oui les amendes sont effectives et en Seine-Saint-Denis elles ont conduit à des arrestations et des garde-à-vue) fait croire à la portée individuelle du confinement sans prise en charge collective de ses répercussions. Face à cela, certainEs ont essayé de mettre en place des réseaux de solidarité dans les immeubles, dans les quartiers, ... Si ces réseaux sont nécessaires et même indispensables, ils ne contrebalancent pas les problèmes qui se posent avec le confinement et qui vont forcément causer là aussi des morts, et parfois ils confortent même dans l’idée qu’il faut nécessairement rester chez soi : promener son chien, faire du jogging serait dangereux. Le propos de cet article n’est pas de dire que le confinement est inutile pour contrer le Covid-19 mais que le confinement n’est pas viable à moyen terme, c’est pourquoi la sortie de crise ne peut venir que de la mise en place d’un plan d’urgence visant à dépister et à soigner ce qui veut dire concrètement donner des moyens aux personnels de santé et des moyens de protection à la population.

      Le confinement face à l’organisation sociale de la dernière phase du capitalisme

      Le confinement dans l’histoire n’a jamais été une partie de plaisir, mais elle pose question dans le capitalisme tel qu’il s’organise aujourd’hui. Depuis les trente dernières années : on peut dire que la tendance à détruire les structures familiales est plutôt lourde. Les foyers composés de personnes seules s’élèvent à 35% des foyers (20% des femmes et 15% des hommes) auxquels se rajoutent presque 9% de familles monoparentales (dont le gros du contingent est composé de femmes). La grande majorité des foyers composés d’une personne seule ont plus de 65 ans (plus de 70%)1. Le problème c’est qu’avec cette épidémie ce sont ces mêmes personnes considérées comme vulnérables qui vont donc se retrouver complètement isolées.

      De l’autre côté, l’on sait aussi qu’un ménage sur douze vit dans un logement surpeuplé, 18% des logements sont considérés comme trop bruyant (donc mal isolés), 22% n’ont pas de système de chauffage efficient et près de 13% ont des problèmes d’humidité.2

      Le confinement produit aussi des rapports au travail qui accentuent ce qui existait auparavant : d’une part il y a ceux qui télétravaillent et ceux qui continuent de travailler dans des conditions de sécurité face au virus alarmantes et avec l’idée que le travail s’accompagne de toute une série de mesures restrictives.3 Mais à cela, il faut encore ajouter que le télétravail n’est pas le même pour tout le monde (que l’on soit cadre ou que l’on fasse un travail administratif) surtout quand l’on se retrouve face à un travail qui s’accompagne de plus en plus d’une perte de sens, d’autant plus qu’il envahit la sphère privée et que les loisirs sont considérablement réduits. Quant aux précaires, aux étudiantEs, à celles et ceux qui travaillaient sans contrat de travail, c’est une situation dramatique qui s’ouvre sans qu’aucune aide ne soit prévue si ce n’est un chômage auxquels ils n’ont pas tous droit.

      De plus, le système capitaliste entraîne une détresse psychologique : la dépression, le suicide ou les tentatives de suicides vont s’accentuer avec la perte de lien social, la perte d’activités émancipatrices et une vie tournée autour du travail.

      Toute la prise en charge associative, comme du service public de ses éléments là, comme de la prise en charge de l’extrême pauvreté va être ou drastiquement réduite voire inexistante.

      Dans le confinement, les femmes trinquent (et meurent !)

      Outre la question de l’avortement dont nous avons parlé plus haut, les femmes vont subir une répercussion violente du confinement. Elles assumeront plus de tâches ménagères qu’à l’ordinaire et de tâches de soin, et on le sait ce sont elles qui dans la plupart des foyers assumeront le suivi de « l’école à la maison » et d’occuper les enfants, sans compter les familles monoparentales ou les mères se retrouveront seules face à l’éducation de leurs enfants.

      Le confinement va augmenter les violences intra-familiales et en particulier les violences conjugales, c’est déjà ce qu’a révélé l’expérience du Wuhan4. Là encore, ces violences seront encore moins prises en charge qu’avant puisque le 3919 ne fonctionne plus pendant cette crise contrairement à ce qu’avait annoncé Marlène Schiappa.5 Au sixième jour du confinement, cette tendance est d’ailleurs aussi relatée par la FCPE ce dimanche.6

      Le manque d’accès à l’avortement pourra provoquer des recherches de solutions mettant en danger les femmes subissant des grossesses non-désirées quand celles-ci ne provoqueront tout simplement pas le suicide.

      Dans le même temps, on pourra noter que les adolescents LGBT confrontés en permanence à l’homophobie pourraient là aussi augmenter les tentatives de suicides et les suicides, alors même que c’est déjà une cause importante de suicides chez les adolescentEs.

      Ajoutons à cela que des secteurs largement féminisés se trouve en première ligne de la gestion de la maladie : infirmières, caissières, ...

      L’isolement des individus entraîne une baisse de la conscience de classe

      Le confinement produit un rapport de force dégradé de manière objective. En ce moment, des lois d’exception sont en train de passer à l’Assemblée diminuant nos droits, sans possibilité de riposte et si la légitimité du gouvernement reste affaiblie, les mesures prises rencontrent au moins une part de consentement. Si c’est le cas, c’est bien parce que la crise que l’on rencontre, a de grosses difficultés à être résolue par le système sans faire des milliers de morts.

      Individuellement, les gens ne peuvent pas se protéger et pour une grande majorité restent donc chez eux de peur (et cette peur est fondée) de devenir malade ou de l’être déjà et de contaminer d’autres personnes. Le problème c’est que sans dépistage massif et traitement le confinement risque de durer longtemps.

      Or, isolément, les gens ne peuvent d’une part pas s’organiser (ce qui dégrade le rapport de force) et de l’autre entraîne une baisse de la conscience de classe dans ce qu’elle a de plus simple car c’est l’organisation du travail qui fonde objectivement cette conscience. De plus, le confinement, repose sur le consentement d’une population à être confinée : c’est d’ailleurs par les réseaux sociaux, mais aussi dans la presse ou dans son entourage une pression sociale à « Restez chez vous », mais aussi à prendre le temps de lire ou de se cultiver.

      De fait cette pression sociale, construit alors le modèle de ceux qui y arriveraient en étant forts, en ayant accès à de la culture ou à des habitudes culturelles. Les vieux qui vivent seuls, les dépressifs, les pauvres, ceux qui n’ont pas accès à la culture se retrouveraient alors mis à l’amende.

      Pour l’instant, cette idéologie ne se fait que sous forme de pression, mais elle pourrait produire autre chose, elle passerait alors du consentement à la collaboration : elle est déjà en partie à l’œuvre de manière minoritaire, elle passe par la délation de celles et ceux qui sortent et la volonté d’un durcissement des mesures coercitives.

      Le confinement ne peut qu’être une mesure à court terme, sinon les effets violents décrits auront des effets durables, surtout si, comme c’est le cas aujourd’hui le mouvement ouvrier ne riposte pas.

      https://npa2009.org/idees/societe/le-confinement-la-destruction-du-lien-social-et-ses-consequences
      #confinés #non-confinés #inégalités #logement #mesures_coercitives #amendes #Seine-Saint-Denis #arrestations #garde_à_vue #rester_chez_soi #isolement #télétravail #chômage #détresse_psychologique #santé_mentale #école_à_la_maison #soins #care #tâches_ménagères #conscience_de_classe #lois_d’exception

  • Privatized Pushbacks: How Merchant Ships Guard Europe

    To hinder migrants crossing the Mediterranean, European navies stopped rescuing them. Now commercial ships are tasked with saving lives — and returning migrants to war-torn Libya.

    The #Panther, a German-owned merchant ship, is not in the business of sea rescues. But one day a few months ago the Libyan Coast Guard ordered it to divert course, rescue 68 migrants in distress in the Mediterranean and return them to Libya, which is embroiled in civil war.

    The request, which the Panther was required to honor, was at least the third time that day, Jan. 11, that the Libyans had called on a merchant ship to assist migrants.

    The Libyans could easily have alerted a nearby rescue ship run by a Spanish charity. The reason they did not goes to the core of how the European authorities have found a new way to thwart desperate African migrants trying to reach their shores from across the Mediterranean.

    And some maritime lawyers think the new tactic is unlawful.

    Commercial ships like the Panther must follow instructions from official forces, like the Libyan Coast Guard, which works in close cooperation with its Italian counterpart.

    Humanitarian rescue ships, on the other hand, take the migrants to Europe, citing international refugee law, which forbids returning refugees to danger.

    After the Panther arrived in Tripoli, Libyan soldiers boarded, forced the migrants ashore at gunpoint, and drove them to a detention camp in the besieged Libyan capital.

    “We call them privatized pushbacks,” said Charles Heller, the director of Forensic Oceanography, a research group that investigates migrant rights abuses in the Mediterranean. “They occur when merchant ships are used to rescue and bring back migrants to a country in which their lives are at risk — such as Libya.”

    The coronavirus crisis has made arguments about Mediterranean migration policy seem peripheral to the European moment, as governments focus on restricting not just external migration, but also the internal movement of their own citizens.

    But long before the pandemic hit, European leaders were mainly consumed by preventing Mediterranean migration, hoping to avoid a repeat of the 2015 migration crisis. And that approach remains topical, with hundreds of migrants crossing the Mediterranean already this week, either oblivious to or unconcerned by the coronavirus outbreak.

    Since the 2015 crisis, European governments have frequently stopped the nongovernmental rescue organizations that patrol the southern Mediterranean — like the Spanish ship, Open Arms — from taking rescued migrants to European ports.

    European navies and coast guards have also largely withdrawn from the area, placing the Libyan Coast Guard in charge of search-and-rescue.

    Now Europe has a new proxy: privately-owned commercial ships. And their deployment is contested by migrant rights watchdogs.

    Although a 1979 international convention on search and rescue requires merchant ships to obey orders from a country’s Coast Guard forces, the agreement also does not permit those forces to pick and choose who helps during emergencies, as Libya’s did.

    “That’s a blatantly illegal policy,” said Dr. Itamar Mann, an expert on maritime law at the University of Haifa in Israel.

    But commercial shipowners say that after saving migrants from drowning, their legal duty is to do as they are told by the Libyan Coast Guard, as decreed by a separate convention on search-and-rescue signed in 1979.

    “This is in accordance with international law,” said John Stawpert, a representative for the International Chamber of Shipping, a global shipowners’ association.

    Between 2011 and 2018, only one commercial ship returned migrants to Libya, according to research by Forensic Oceanography.

    Since 2018 there have been about 30 such returns, involving roughly 1,800 migrants, in which merchant ships have either returned migrants to Libyan ports or transferred them to Libyan Coast Guard vessels, according to data collated by The New York Times and Forensic Oceanography.

    The real number is likely to be higher.

    During the height of the crisis, ships like the Panther would have transferred rescued migrants to the Italian Coast Guard or humanitarian organizations.

    But in 2017, Italy gradually relinquished responsibility for search-and-rescue coordination in the southern Mediterranean to the Libyan Coast Guard, neatly absolving Italy of the legal obligation to rescue and admit every migrant entering international waters north of Libya.

    The next year, merchant ship crews began to return migrants to the Libyan authorities, which had been persuaded to take on the role by the promise of more equipment and international legitimacy.

    The Panther ordinarily supplies a cluster of oil rigs roughly 50 miles north of Libya. On Jan. 11, the Libyan Coast Guard engaged the Panther instead of the Open Arms because only the Panther’s owner had agreed to abide by a restrictive set of regulations drawn up by the Libyan Coast Guard.

    “All the ships who work in search-and-rescue have to follow this code of conduct,” Commodore Masoud Abdal Samad, the Libyan Coast Guard commander, said by telephone.

    Consequently, only the Panther was considered an “acceptable” rescue vessel on Jan. 11, he added.

    The pattern of using commercial ships has increased in recent months, said Anabel Montes Mier, the head of mission aboard the Open Arms that day.

    “These commercial ships follow the orders,” Ms. Montes Mier said. “We refuse to return people to places that are unsafe.”

    Rights groups fear Libya’s refusal to work with humanitarian rescuers has put more migrant lives in danger at sea.

    The number of people reaching Italy has dropped by more than 90 percent since 2017, while the death-toll in the southern Mediterranean has roughly halved in the same period.

    But the number of people drowning, as a proportion of those trying to cross, has sharply risen — from roughly 1 in 50 in 2017, to 1 in 20 in 2019, according to data compiled by the International Organization for Migration.

    The forcible return of the migrants, a practice known as refoulement, has also put many of them in lethal danger on land, because of Libya’s civil war.

    In February, an airstrike hit the dock used by the Panther to disembark migrants in Tripoli. Once ashore, migrants are imprisoned in detention camps run by an assortment of militias. Often, these lie in areas under attack. Last July, one camp was bombed, killing 53 prisoners.

    In a lawless land that provides few rights to foreign laborers, migrants are often tortured, raped, held for ransom, or treated as modern-day slaves.

    Steven, a 20-year-old from South Sudan, described being shot and beaten by Libyan officials after he was returned to Libya by a commercial ship in November 2018.

    “Why did they rescue us and take us back to Libya?” said Steven, who asked to be identified only by his first name for fear of legal repercussions. “It was better to die in the ship.”

    The question of culpability is complex.

    Since 1951, international refugee law has stipulated that migrants should not be returned without due process to the countries they fled. But in cases involving merchant ships, migrants are often rescued in international waters, before reaching Europe’s maritime borders.

    The authorities in Italy and European Union say they should therefore be returned to Libya, since Libya coordinates search-and-rescue operations in these international waters.

    Critics argue that Italy and its European allies still bear responsibility. In the view of humanitarian monitoring groups, the Europeans never relinquished their role in orchestrating search-and-rescue missions — undermining the rationale for surrendering control to Libya.

    During at least part of 2019, Italian navy officers aboard an Italian vessel docked in Tripoli’s harbor oversaw rescues on behalf of the Libyans, according to documents published during a court case in Sicily last March.

    “They coordinated the rescue activities,” Matteo Salvini, Italy’s interior minister at the time, said in an interview with the Times.

    In one instance in November 2018, logbooks show how Italian Coast Guard officers contacted a cargo ship, the Nivin, “on behalf of” their Libyan counterparts. But the logs also reveal that the Nivin’s captain could only reach the Libyan authorities by contacting the Italian Coast Guard.

    And though European navies have withdrawn from the area, their planes still direct the Libyan Coast Guard to migrant vessels, recordings published by The Guardian show.

    In March last year, one such military plane ordered a merchant vessel to return a boatload of rescued migrants to Tripoli, without any intervention from the Libyan Coast Guard, according to recordings reported in The Atavist, a digital magazine.

    In one of several recent phone interviews, Commodore Abdal Samad of the Libyan Coast Guard said an Italian ship docked in Tripoli, once used as a search-and-rescue control center, no longer directs Libyan Coast Guard activity.

    But Libyan Coast Guard crews still sometimes use the Italian ship’s equipment to communicate with merchant vessels, Commodore Abdal Samad conceded, particularly when their radios break down.

    One of the most recent instances, he said, was the weekend in January when the Panther rescued 68 migrants from the southern Mediterranean.

    https://www.nytimes.com/2020/03/20/world/europe/mediterranean-libya-migrants-europe.html

    #push-backs #refoulement #refoulements #bateaux_marchands #privatisation #externalisation #Méditerranée #Libye #Mer_Méditerranée #refoulements_privatisés #sauvetage #privatized_pushbacks #gardes-côtes_libyens

    ping @reka

  • Comment l’Europe contrôle ses frontières en #Tunisie ?

    Entre les multiples programmes de coopération, les accords bilatéraux, les #équipements fournis aux #gardes-côtes, les pays européens et l’Union européenne investissent des millions d’euros en Tunisie pour la migration. Sous couvert de coopération mutuelle et de “#promotion_de_la mobilité”, la priorité des programmes migratoires européens est avant tout l’externalisation des frontières. En clair.

    À la fois pays de transit et pays de départ, nœud dans la région méditerranéenne, la Tunisie est un partenaire privilégié de l’Europe dans le cadre de ses #politiques_migratoires. L’Union européenne ou les États qui la composent -Allemagne, France, Italie, Belgique, etc.- interviennent de multiples manières en Tunisie pour servir leurs intérêts de protéger leurs frontières et lutter contre l’immigration irrégulière.

    Depuis des années, de multiples accords pour réadmettre les Tunisien·nes expulsé·es d’Europe ou encore financer du matériel aux #gardes-côtes_tunisiens sont ainsi signés, notamment avec l’#Italie ou encore avec la #Belgique. En plus de ces #partenariats_bilatéraux, l’#Union_européenne utilise ses fonds dédiés à la migration pour financer de nombreux programmes en Tunisie dans le cadre du “#partenariat_pour_la_mobilité”. Dans les faits, ces programmes servent avant tout à empêcher les gens de partir et les pousser à rester chez eux.

    L’ensemble de ces programmes mis en place avec les États européens et l’UE sont nombreux et difficiles à retracer. Dans d’autres pays, notamment au Nigeria, des journalistes ont essayé de compiler l’ensemble de ces flux financiers européens pour la migration. Dans leur article, Ils et elle soulignent la difficulté, voire l’impossibilité de véritablement comprendre tous les fonds, programmes et acteurs de ces financements.

    “C’est profondément préoccupant”, écrivent Maite Vermeulen, Ajibola Amzat et Giacomo Zandonini. “Bien que l’Europe maintienne un semblant de transparence, il est pratiquement impossible dans les faits de tenir l’UE et ses États membres responsables de leurs dépenses pour la migration, et encore moins d’évaluer leur efficacité.”

    En Tunisie, où les investissements restent moins importants que dans d’autres pays de la région comme en Libye, il a été possible d’obtenir un résumé, fourni par la Délégation de l’Union européenne, des programmes financés par l’UE et liés à la migration. Depuis 2016, cela se traduit par l’investissement de près de 58 millions d’euros à travers trois différents fonds : le #FFU (#Fonds_Fiduciaire_d’Urgence) de la Valette, l’#AMIF (Asylum, Migration and Integration Fund) et l’Instrument européen de voisinage (enveloppe régionale).

    Mais il est à noter que ces informations ne prennent pas en compte les autres investissements d’#aide_au_développement ou de soutien à la #lutte_antiterroriste dont les programmes peuvent également concerner la migration. Depuis 2011, au niveau bilatéral, l’Union européenne a ainsi investi 2,5 billions d’euros en Tunisie, toutes thématiques confondues.

    L’écrasante majorité de ces financements de l’UE - 54 200 000 euros - proviennent du #Fond_fiduciaire_d'urgence_pour_l'Afrique. Lancé en 2015, lors du #sommet_de_la_Valette, ce FFU a été créé “en faveur de la stabilité et de la lutte contre les #causes_profondes de la migration irrégulière et du phénomène des personnes déplacées en Afrique” à hauteur de 2 milliards d’euros pour toute la région.

    Ce financement a été pointé du doigt par des associations de droits humains comme Oxfam qui souligne “qu’une partie considérable de ses fonds est investie dans des mesures de #sécurité et de #gestion_des_frontières.”

    “Ces résultats montrent que l’approche des bailleurs de fonds européens vis-à-vis de la gestion des migrations est bien plus axée sur des objectifs de #confinement et de #contrôle. Cette approche est loin de l’engagement qu’ils ont pris (...) de ‘promouvoir des canaux réguliers de migration et de mobilité au départ des pays d’Europe et d’Afrique et entre ceux-ci’ (...) ou de ‘Faciliter la migration et la mobilité de façon ordonnée, sans danger, régulière et responsable’”, détaille plus loin le rapport.

    Surveiller les frontières

    Parmi la vingtaine de projets financés par l’UE, la sécurité des frontières occupe une place prépondérante. Le “#Programme_de_gestion_des_frontières_au_Maghreb” (#BMP_Maghreb) est, de loin, le plus coûteux. Pour fournir de l’équipement et des formations aux gardes-côtes tunisiens, l’UE investit 20 millions d’euros, près d’un tiers du budget en question.

    Le projet BMP Maghreb a un objectif clairement défini : protéger, surveiller et contrôler les #frontières_maritimes dans le but de réduire l’immigration irrégulière. Par exemple, trois chambres d’opération ainsi qu’un système pilote de #surveillance_maritime (#ISmariS) ont été fournis à la garde nationale tunisienne. En collaboration avec le ministère de l’Intérieur et ses différents corps - garde nationale, douane, etc. -, ce programme est géré par l’#ICMPD (#Centre_international_pour_le_développement_des_politiques_migratoires).

    “Le BMP Maghreb est mis en place au #Maroc et en Tunisie. C’est essentiellement de l’acquisition de matériel : matériel informatique, de transmission demandé par l’Etat tunisien”, détaille Donya Smida de l’ICMPD. “On a fait d’abord une première analyse des besoins, qui est complétée ensuite par les autorités tunisiennes”.

    Cette fourniture de matériel s’ajoute à des #formations dispensées par des #experts_techniques, encore une fois coordonnées par l’ICMPD. Cette organisation internationale se présente comme spécialisée dans le “renforcement de capacités” dans le domaine de la politique migratoire, “loin des débat émotionnels et politisés”.

    "Cette posture est symptomatique d’un glissement sémantique plus général. Traiter la migration comme un sujet politique serait dangereux, alors on préfère la “gérer” comme un sujet purement technique. In fine, la ’gestionnaliser’ revient surtout à dépolitiser la question migratoire", commente #Camille_Cassarini, chercheur sur les migrations subsahariennes en Tunisie. “L’ICMPD, ce sont des ‘techniciens’ de la gestion des frontières. Ils dispensent des formations aux États grâce à un réseau d’experts avec un maître-mot : #neutralité politique et idéologique et #soutien_technique."

    En plus de ce programme, la Tunisie bénéficie d’autres fonds et reçoit aussi du matériel pour veiller à la sécurité des frontières. Certains s’inscrivent dans d’autres projets financés par l’UE, comme dans le cadre de la #lutte_antiterroriste.

    Il faut aussi ajouter à cela les équipements fournis individuellement par les pays européens dans le cadre de leurs #accords_bilatéraux. En ce qui concerne la protection des frontières, on peut citer l’exemple de l’Italie qui a fourni une douzaine de bateaux à la Tunisie en 2011. En 2017, l’Italie a également soutenu la Tunisie à travers un projet de modernisation de bateaux de patrouille fournis à la garde nationale tunisienne pour environ 12 millions d’euros.

    L’#Allemagne est aussi un investisseur de plus en plus important, surtout en ce qui concerne les frontières terrestres. Entre 2015 et 2016, elle a contribué à la création d’un centre régional pour la garde nationale et la police des frontières. A la frontière tuniso-libyenne, elle fournit aussi des outils de surveillance électronique tels que des caméras thermiques, des paires de jumelles nocturnes, etc…

    L’opacité des #accords_bilatéraux

    De nombreux pays européens - Allemagne, Italie, #France, Belgique, #Autriche, etc. - coopèrent ainsi avec la Tunisie en concluant de nombreux accords sur la migration. Une grande partie de cette coopération concerne la #réadmission des expulsé·es tunisien·nes. Avec l’Italie, quatre accords ont ainsi été signés en ce sens entre 1998 et 2011. D’après le FTDES* (Forum tunisien des droits économiques et sociaux), c’est dans le cadre de ce dernier accord que la Tunisie accueillerait deux avions par semaine à l’aéroport d’Enfidha de Tunisien·nes expulsé·es depuis Palerme.

    “Ces accords jouent beaucoup sur le caractère réciproque mais dans les faits, il y a un rapport inégal et asymétrique. En termes de réadmission, il est évident que la majorité des #expulsions concernent les Tunisiens en Europe”, commente Jean-Pierre Cassarino, chercheur et spécialiste des systèmes de réadmission.

    En pratique, la Tunisie ne montre pas toujours une volonté politique d’appliquer les accords en question. Plusieurs pays européens se plaignent de la lenteur des procédures de réadmissions de l’Etat tunisien avec qui “les intérêts ne sont pas vraiment convergents”.

    Malgré cela, du côté tunisien, signer ces accords est un moyen de consolider des #alliances. “C’est un moyen d’apparaître comme un partenaire fiable et stable notamment dans la lutte contre l’extrémisme religieux, l’immigration irrégulière ou encore la protection extérieure des frontières européennes, devenus des thèmes prioritaires depuis environ la moitié des années 2000”, explique Jean-Pierre Cassarino.

    Toujours selon les chercheurs, depuis les années 90, ces accords bilatéraux seraient devenus de plus en plus informels pour éviter de longues ratifications au niveau bilatéral les rendant par conséquent, plus opaques.

    Le #soft_power : nouvel outil d’externalisation

    Tous ces exemples montrent à quel point la question de la protection des frontières et de la #lutte_contre_l’immigration_irrégulière sont au cœur des politiques européennes. Une étude de la direction générale des politiques externes du Parlement européen élaborée en 2016 souligne comment l’UE “a tendance à appuyer ses propres intérêts dans les accords, comme c’est le cas pour les sujets liés à l’immigration.” en Tunisie.

    Le rapport pointe du doigt la contradiction entre le discours de l’UE qui, depuis 2011, insiste sur sa volonté de soutenir la Tunisie dans sa #transition_démocratique, notamment dans le domaine migratoire, tandis qu’en pratique, elle reste focalisée sur le volet sécuritaire.

    “La coopération en matière de sécurité demeure fortement centrée sur le contrôle des flux de migration et la lutte contre le terrorisme” alors même que “la rhétorique de l’UE en matière de questions de sécurité (...) a évolué en un discours plus large sur l’importance de la consolidation de l’État de droit et de la garantie de la protection des droits et des libertés acquis grâce à la révolution.”, détaille le rapport.

    Mais même si ces projets ont moins de poids en termes financiers, l’UE met en place de nombreux programmes visant à “développer des initiatives socio-économiques au niveau local”, “ mobiliser la diaspora” ou encore “sensibiliser sur les risques liés à la migration irrégulière”. La priorité est de dissuader en amont les potentiel·les candidat·es à l’immigration irrégulière, au travers de l’appui institutionnel, des #campagnes de #sensibilisation...

    L’#appui_institutionnel, présenté comme une priorité par l’UE, constitue ainsi le deuxième domaine d’investissement avec près de 15% des fonds.

    Houda Ben Jeddou, responsable de la coopération internationale en matière de migration à la DGCIM du ministère des Affaires sociales, explique que le projet #ProgreSMigration, créé en 2016 avec un financement à hauteur de 12,8 millions d’euros, permet de mettre en place “ des ateliers de formations”, “des dispositifs d’aides au retour” ou encore “des enquêtes statistiques sur la migration en Tunisie”.

    Ce projet est en partenariat avec des acteurs étatiques tunisiens comme le ministère des Affaires Sociales, l’observatoire national des migrations (ONM) ou encore l’Institut national de statistiques (INS). L’un des volets prioritaires est de “soutenir la #Stratégie_nationale_migratoire_tunisienne”. Pour autant, ce type de projet ne constitue pas une priorité pour les autorités tunisiennes et cette stratégie n’a toujours pas vu le jour.

    Houda Ben Jeddou explique avoir déposé un projet à la présidence en 2018, attendant qu’elle soit validée. "Il n’y a pas de volonté politique de mettre ce dossier en priorité”, reconnaît-elle.

    Pour Camille Cassarini, ce blocage est assez révélateur de l’absence d’une politique cohérente en Tunisie. “Cela en dit long sur les stratégies de contournement que met en place l’État tunisien en refusant de faire avancer le sujet d’un point de vue politique. Malgré les investissements européens pour pousser la Tunisie à avoir une politique migratoire correspondant à ses standards, on voit que les agendas ne sont pas les mêmes à ce niveau”.

    Changer la vision des migrations

    Pour mettre en place tous ces programmes, en plus des partenariats étatiques avec la Tunisie, l’Europe travaille en étroite collaboration avec les organisations internationales telles que l’#OIM (Organisation internationale pour les migrations), l’ICMPD et le #UNHCR (Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés), les agences de développement européennes implantées sur le territoire - #GiZ, #Expertise_France, #AfD - ainsi que la société civile tunisienne.

    Dans ses travaux, Camille Cassarini montre que les acteurs sécuritaires sont progressivement assistés par des acteurs humanitaires qui s’occupent de mener une politique gestionnaire de la migration, cohérente avec les stratégies sécuritaires. “Le rôle de ces organisations internationales, type OIM, ICMPD, etc., c’est principalement d’effectuer un transfert de normes et pratiques qui correspondent à des dispositifs de #contrôle_migratoire que les Etats européens ne peuvent pas mettre directement en oeuvre”, explique-t-il.

    Contactée à plusieurs reprises par Inkyfada, la Délégation de l’Union européenne en Tunisie a répondu en fournissant le document détaillant leurs projets dans le cadre de leur partenariat de mobilité avec la Tunisie. Elle n’a pas souhaité donner suite aux demandes d’entretiens.

    En finançant ces organisations, les Etats européens ont d’autant plus de poids dans leur orientation politique, affirme encore le chercheur en donnant l’exemple de l’OIM, une des principales organisations actives en Tunisie dans ce domaine. “De par leurs réseaux, ces organisations sont devenues des acteurs incontournables. En Tunisie, elles occupent un espace organisationnel qui n’est pas occupé par l’Etat tunisien. Ça arrange plus ou moins tout le monde : les Etats européens ont des acteurs qui véhiculent leur vision des migrations et l’État tunisien a un acteur qui s’en occupe à sa place”.

    “Dans notre langage académique, on les appelle des #acteurs_épistémologiques”, ajoute Jean-Pierre Cassarino. A travers leur langage et l’étendue de leur réseau, ces organisations arrivent à imposer une certaine vision de la gestion des migrations en Tunisie. “Il n’y a qu’à voir le #lexique de la migration publié sur le site de l’Observatoire national [tunisien] des migrations : c’est une copie de celui de l’OIM”, continue-t-il.

    Contactée également par Inkyfada, l’OIM n’a pas donné suite à nos demandes d’entretien.

    Camille Cassarini donne aussi l’exemple des “#retours_volontaires”. L’OIM ou encore l’Office français de l’immigration (OFII) affirment que ces programmes permettent “la réinsertion sociale et économique des migrants de retour de façon à garantir la #dignité des personnes”. “Dans la réalité, la plupart des retours sont très mal ou pas suivis. On les renvoie au pays sans ressource et on renforce par là leur #précarité_économique et leur #vulnérabilité", affirme-t-il. “Et tous ces mots-clés euphémisent la réalité d’une coopération et de programmes avant tout basé sur le contrôle migratoire”.

    Bien que l’OIM existe depuis près de 20 ans en Tunisie, Camille Cassarini explique que ce système s’est surtout mis en place après la Révolution, notamment avec la société civile. “La singularité de la Tunisie, c’est sa transition démocratique : l’UE a dû adapter sa politique migratoire à ce changement politique et cela est passé notamment par la promotion de la société civile”.

    Dans leur ouvrage à paraître “Externaliser la gouvernance migratoire à travers la société tunisienne : le cas de la Tunisie” [Externalising Migration Governance through Civil Society : Tunisia as a Case Study], Sabine Didi et Caterina Giusa expliquent comment les programmes européens et les #organisations_internationales ont été implantées à travers la #société_civile.

    “Dans le cas des projets liés à la migration, le rôle déterminant de la société civile apparaît au niveau micro, en tant qu’intermédiaire entre les organisations chargées de la mise en œuvre et les différents publics catégorisés et identifiés comme des ‘#migrants_de_retour’, ‘membres de la diaspora’, ou ‘candidats potentiels à la migration irrégulière’", explique Caterina Giusa dans cet ouvrage, “L’intérêt d’inclure et et de travailler avec la société civile est de ‘faire avaler la pilule’ [aux populations locales]”.

    “Pour résumer, tous ces projets ont pour but de faire en sorte que les acteurs tunisiens aient une grille de lecture du phénomène migratoire qui correspondent aux intérêts de l’Union européenne. Et concrètement, ce qui se dessine derrière cette vision “gestionnaire”, c’est surtout une #injonction_à_l’immobilité”, termine Camille Cassarini.

    https://inkyfada.com/fr/2020/03/20/financements-ue-tunisie-migration
    #externalisation #asile #migrations #frontières #Tunisie #EU #UE #Europe #contrôles_frontaliers #politique_de_voisinage #dissuasion #IOM #HCR #immobilité

    Ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765330

    Et celle sur la conditionnalité de l’aide au développement :
    https://seenthis.net/messages/733358#message768701

    ping @karine4 @isskein @_kg_

  • Sådan foregår bevogtningen af EU’s yderste grænser : Dansk patruljebåd beordret til at sætte flygtninge tilbage i vandet

    Dansk Frontex-mandskab nægtede at adlyde kontroversiel ordre i livsfarligt farvand.

    Gråmalede skrog hugger i fortøjningerne. Bølgeskvulp slår over betonmolen, der skærmer havnen på den græske ø Kos mod det åbne vand.

    En stiv kuling folder dannebrogsflagene i agterenden af de danske patruljebåde ud. De to fartøjer udgør Danmarks bidrag til EU’s grænse- og kystvagtsagentur, Frontex.

    Siden juni sidste år har de håndteret flere end 1.800 flygtninge og migranter i primitive gummibåde, der krydser det smalle farvand mellem Tyrkiet og Kos. Men det er slut nu.

    Siden Tyrkiet i sidste uge åbnede grænserne mod EU, er de danske patruljebåde blevet trukket tilbage. Nu agerer de i stedet øjne og ører for den græske kystvagt, der tager sig af selve håndteringen af de primitive og overfyldte gummibåde.

    Det fortæller den danske operationsleder under en briefing for forsvarsminister Trine Bramsen (S), der i går besøgte de 17 danskere ved Frontex-missionen på Kos.

    Her gør han det klart, at de lokale græske myndigheder lige nu håndterer flygtninge- og migrantbådene anderledes, end hvad de danske retningslinjer tillader.

    – Vores bidrag kommer ikke til at lave handlinger, manøvrer eller andet, der er til fare for liv og helbred, forklarer operationsleder Jens Møller fra Rigspolitiet bagefter.

    Han hentyder til videoklip af græske patruljebåde, der sejler tæt på de overfyldte migrantbåde, for at få dem til at vende om. Eller migrantbåde, der bliver slæbt eller puffet tilbage på den tyrkiske side af søgrænsen.

    Travlhed siden krise brød ud

    Betjente fra Rigspolitiet bemander sammen med besætninger fra Forsvaret de to patruljebåde. Siden sidste uge har de skruet kraftigt op for operationerne.

    – Før var opgaven at hjælpe med at samle op og bringe ind til land. Nu er forholdsordren, at vi skal fungere som øjne og så vidt muligt spotte eventuelle migrantbåde på afstand, forklarer han.

    – Ser vi nogle migrantbåde, skal vi melde til ‘Hellenic Coast Guard’ (Den græske kystvagt, red.) som kommer og håndterer dem.

    Både operationsleder Jens Møller samt orlogskaptajn Jan Niegsch, der leder den militære besætning, bekræfter, at den græske kystvagt har ordre til at forsøge at forhindre migrantbådene i at passere søgrænsen mellem Tyrkiet og Grækenland.

    – Det gør de på den måde, som de vurderer at være den rette, siger Jens Møller diplomatisk.

    Siden fredag har den tyrkiske kystvagt, der plejede at stoppe otte ud af ti migrantbåde, ikke vist sig, siger han.
    Har dokumenteret risikabel adfærd

    De danske søfolk og betjente fortæller, at de på afstand har set episoder, hvor græske patruljebåde sejler tæt på de overfyldte gummibåde, for at få dem til at vende om.

    Men det er risikabelt at stoppe en gummibåd med magt, siger orlogskaptajn Jan Niegsch.

    – Hvis den vil frem, så sejler den videre, og hvis man prøver at forhindre den, så kan man ende med en situation, hvor det bliver en søredning i stedet. De både er ikke bygget til at sejle på havet.

    Derfor er de danske besætninger nu begyndt at dokumentere, hvad de oplever, når de på afstand observerer Hellenic Coast Guard.

    – Hvis vi bevidner noget, som vi mener er i strid med reglerne, så dokumenterer vi det og melder det bagud i vores system. I første omgang bagud til Frontex, siger Jens Møller.
    Danskere fik kontroversiel ordre

    Flere af besætningsmedlemmerne fortæller, at det handler om reglerne for godt sømandsskab og forpligtelsen til at hjælpe folk i havsnød.

    Netop derfor har det hidtil været proceduren, at de danske både flytter flygtninge og migranter fra gummibådene og i sikkerhed på fordækket af søværnets patruljebåde.

    Ganske enkelt af rettidig omhu. Strøm- og vindforhold gør farvandet lumsk. Et enkelt hul i de simple gummibåde kan betyde, at de synker, og panik bryder ud med hjerteskærende scener til følge.

    Bagefter har de som oftest sejlet passagererne, der kan være ældre mennesker, kvinder samt børn helt ned til toårs-alderen, ind til havnen på Kos. De fleste er dog yngre mænd, fortæller de.

    Krisen ved EU’s yderste grænser fik forleden en dansk patruljebåd til at nægte at parere en ordre fra ’Operation Poseidons’ kommandocentral.

    Besætningen havde netop bjærget 33 flygtninge og migranter ombord på fordækket, da ordren kom på radioen.

    ’Sæt dem tilbage i vandet og slæb dem over søgrænsen’.
    Nægtede at adlyde hovedkvarter

    Besætningen vurderede, at det ville være forbundet med livsfare at udføre ordren. I første omgang, når de formentlig skulle trække pistolerne eller bruge fysisk magt for at få de lettede flygtninge til at klatre tilbage i den primitive gummibåd. En gummibåd, der ifølge et besætningsmedlem ikke var i ’sødygtig stand’.

    Operationsleder Jens Møller bekræfter episoden.

    – Fartøjschefen vurderede, at det ikke var forsvarligt. Så blev ordren omstødt, og de blev bragt til Kos havn.

    Inde på land gav operationsleder Jens Møller fartøjschefen ret. Besætningen på patruljebåden skulle ikke adlyde ordren fra den lokale, græske Frontex-leder.

    – Er det forbundet med fare at sætte dem tilbage i gummibåden, så kan vi ikke stå inde for at gøre det. Det var, hvad jeg gav mandskabet besked på, til jeg fik verificeret, at den ordre blev omstødt, beskriver han.

    Minister tilfreds med reaktion

    Siden flygtningekrisen brød ud sidste fredag, har det ikke været muligt at søge asyl i Grækenland. I stedet bliver de 1.702 migranter, der ifølge græske oplysninger har krydset søvejen til øerne siden fredag, tilbageholdt. Formentlig for at blive transporteret tilbage til Tyrkiet.

    Selv om presset på grænserne belaster Frontex-landene, der nu vil skrue op for indsatsen, er forsvarsminister Trine Bramsen tilfreds med, at besætningen ikke adlød ordren.

    – De løste opgaven ud fra det mandat, de har fået med, konstaterer hun.

    Onsdag tilbød hun desuden at støtte Frontex med et Challenger-overvågningsfly i 30 dage samt telte, tæpper og generatorer fra Beredskabsstyrelsen.

    https://www.dr.dk/nyheder/indland/saadan-foregaar-bevogtningen-af-eus-yderste-graenser-dansk-patruljebaad-beordret-

    –-> commentaire sur twitter

    According to Danish Broadcasting Danish Frontex staff refused orders from ’Operation Poseidon’s centre of command to put 33 rescued people back in their rubber boat and drag them outside Greek territorial waters.

    https://twitter.com/rspaegean/status/1235885384363659264

    #Frontex #résistance #gardes-frontière #migrations #asile #réfugiés #témoignage #désobéissance #ordres #refus_d'obéir

    –------------

    Ajouté à cette métaliste de #témoignages de #forces_de_l'ordre, #CRS, #gardes-frontière, qui témoignent de leur métier. Pour dénoncer ce qu’ils/elles font et leurs collègues font, ou pas.
    https://seenthis.net/messages/723573

    ping @isskein @karine4

  • Faire comme si de rien n’était, vraiment ? À propos de la « #continuité_pédagogique » en période de confinement.

    Samedi, alors que le premier Ministre annonçait le #confinement, sans annuler les élections, j’ai reçu un énième message sur les « #cours_en_distanciel ». Émanant d’une collègue que j’aime beaucoup, il indiquait qu’elle allait faire ses #cours_en_ligne de telle façon, mais pas de telle autre. La notice venait après des dizaines d’autres, sur Twitter et sur des listes professionnelles, où on continuait à voir circuler des appels à contributions pour des colloques, des appels à projet et bien sûr des trucs et astuces pour faire des cours. Sur mes propres listes institutionnelles, une fièvre s’était emparée de mes collègues dès mercredi pour savoir quels étaient les meilleurs #outils, libres ou non, pour faire des séminaires à distance. Était-ce la douceur d’un soir marseillais ? Je me suis demandée comment les Marseillais·es avaient vécu l’épidémie de 1720 — du moins celles et ceux qui n’avaient pas fui

    Ces enseignant•es qui veulent continuer à enseigner envers et contre tout, auraient-il/elles fait la même chose pendant la peste de 1720 ou l’épidémie de choléra de 1832 ?

    Non. Parce que le numérique n’existait pas, me direz-vous.

    Sommes-nous à ce point (dé)connectés que nous ne parvenons pas à comprendre que nous allons vivre une profonde #perturbation de notre #quotidien, de nos #habitudes, de nos #temps_sociaux ? Que cette perturbation implique déjà de nous occuper de nos proches, nos enfants, nos parents, voire nos voisins dans le besoin, et surtout de s’attacher à ne pas propager le virus, en restant chez soi ?
    Peut-être l’idée de connaître des deuils affleure-t-elle encore à peine à la conscience. Peut-être aussi la paranoïa ne laisse pas de place pour l’information objective. Si le taux de mortalité à 3% de la population affectée est confirmée, il n’est pas de doute que la mort va se rapprocher de nous. Elle va aussi se rapprocher des étudiant·es.
    Ne pouvons-nous aussi nous arrêter d’enseigner quelque temps ? Que veut dire cette « continuité pédagogique » qu’on nous serine à longueur de correspondance institutionnelle ?

    On peut légitimement se demander ce que voulait dire déjà cette « continuité pédagogique », quand les étudiant·es se voyaient retirer leur titre de séjour en cours d’année, quand ils ou elles se retrouvaient sans toit, sans emploi, sans de quoi se nourrir, quand leur présence en cours était si rare, parce qu’ils ou elles devaient travailler ? Que veut dire « continuité pédagogique » aujourd’hui ?
    Ce qui m’interroge davantage encore, c’est le rapport qu’entretiennent mes collègues à leur savoir. Déployer de l’énergie à essayer de mettre en œuvre des #visioconférences, c’est aussi imposer aux étudiant·es la croyance que le savoir universitaire — et son partage dans une relation pédagogique — surpasse tout. Je ne parle des collègues qui ne jurent plus que par les « pédagogies innovantes de type MOOC »2 sans s’être jamais demandé de quels outils et de quelle qualité de connexion les étudiant·es disposaient, confiné·es hors des campus. Je ne parle pas non plus de la croyance en la nécessité d’une relation pédagogique surplombante, de maître à élève, en laquelle semblent adhérer quelques collègues. Est-ce le pouvoir qu’ils ou elles retirent de cette #domination_savante qui justifie cet entêtement ? Ou plus simplement, leur #addiction_au_travail et le #déni de la #pandémie ?
    Dans cette logique, la #relation_pédagogique universitaire serait ainsi tellement éminente pour justifier l’enseignement universitaire et sa validation en tout temps. Même en celui où les collègues enseignant·es, hommes et femmes, parents de jeunes et moins jeunes enfants, enfants de parents âgées, se retrouvent du jour au lendemain sans autre solution que de s’en occuper à temps plein.
    Cela fait plusieurs mois qu’en dépit des signaux les plus crus de destruction massive de l’Université et du Code de l’Éducation, de la pauvreté dramatique de certain·es étudiant·es, de la mise en danger du renouvellement de nos disciplines, faute de recrutements, tout le monde continue, comme si de rien n’était, à faire cours, déposer des ANR, organiser des réunions, faire des colloques, recruter des doctorant·es —en sachant pertinemment qu’ils ou elles n’auront pas de postes après les longues et pénibles années de thèse.Pour autant, ce qui a primé, chez une majorité de collègues universitaires c’est continuer à travailler.
    Avec le COVID-19, je prends conscience d’une #pathologie_pédagogique : celle d’une déconnexion de la vie savante et de la vie tout court. Je ne suis pas sûre d’avoir envie d’entraîner mes etudiant•es dans cette voie névrotique.
    Bien au contraire, c’est d’abord du bien-être de mes étudiant·es et de leurs besoins que je me suis enquise. Je l’ai fait non sans savoir que plusieurs d’entre elleux n’auront pas l’envie de dévoiler une situation délicate ou des soucis de santé physique ou mentale, alors qu’ils ou elles sont loin de leurs proches, quand ils ou elles ont encore de la famille. C’est ensuite — d’abord — et surtout de mon fils, avec qui il va me falloir composer pendant quelques semaines, sans sortir. Bien sûr, je sais qu’il me faudra un temps d’#adaptation, après trois mois de veille et de chroniques quotidiennes sur ce blog, auxquelles je suis devenue dépendante. Par chance, contrairement aux Marseillais·es de 1720, le téléphone et Internet existent pour que mon fils et moi maintenions vivante l’affection qui nous lie à nos proches à l’autre bout de la France et à nos ami·es un peu moins éloigné·es, comme à celles et ceux vivant à l’étranger. Il sera temps bientôt de demander si je peux être utile, auprès de collectifs contre les violences faites aux femmes, de Réseau Éducation Sans Frontière, ou d’autres associations solidaires.

    Lors d’une épidémie du 16e siècle, Claire Dolan avait suivi les trajets quotidiens du notaire pour enregistrer sans relâche baptêmes, décès, dernières volontés, au travers des portes cochères et par les fenêtres3 /. En 1720, le dévouement du chevalier Roze et de l’évêque de Belsunce ont durablement marqué la mémoire des Marseillais·es. Les médecins avaient fui. Ce qui est moins connu, c’est que les habitant·es confinés ont eu aussi une grande confiance dans leur soignant·es, ces « chirurgiens de peste » mercenaires, de basse extraction, recrutés dans tout le royaume pour s’occuper des malades, en l’échange de la promesse de pouvoir s’installer sans frais4. Il est peut-être ridicule de nous comparer avec ces humains d’un autre temps. Pourtant réfléchir à leur histoire et leur expérience de l’épidémie nous tend un miroir5 : quel sera le rôle des universitaires de sciences humaines et sociales en ) 2020 ? Faire des cours en ligne ? (Re)devenir simple citoyen ? Continuer d’élaborer, dans le prolongement de la mobilisation de l’hiver, l’Université de demain ? Ou tout autre chose ?

    Notes :

    Sur l’expérience de la peste et la transformation des institutions de police et de justice, voir la thèse de Fleur Beauvieux, Expériences ordinaires de la peste. La société marseillaise en temps d’épidémie (1720-1724) (EHESS, 2017), à paraître chez David Gaussen éditeur en 2020. [↩]
    Je ne parle même pas des collègues qui, n’ayant jamais envoyé un document .pdf à leurs étudiant·es de leur vie, vantent les MOOC sans les avoir pratiqué et don sans connaître leurs désavantages. [↩]
    Claire Dolan, Le notaire, la famille et la ville (Aix-en-Provence à la fin du XVIe siècle. Toulouse, Presses du Mirail, 1998. [↩]
    Voir la thèse de Jamel El Hadj, Les chirurgiens et l’organisation sanitaire contre la peste à Marseille : 17e-18e siècles (EHESS, 2016). [↩]
    À l’instar de celui que Marc Bloch nous a tendu dans L’étrange défaite, texte rédigé entre juillet et septembre 1940, comme manière de rationnaliser la panique qui venait. [↩]

    https://academia.hypotheses.org/21189

    Je sens que je vais assez rapidement détester ce mot... continuité pédagogique...

    • Le #diktat de la « continuité pédagogique » - concept dont il convient de faire la critique - se traduit par la découverte
      d’une fracture numérique béante dans les usages, les pratiques et dans la possession des outils. L’injonction à mettre en ligne ses cours prend des
      formes parfois autoritaires. Ou alors on voit naître des fayots de service, fiers de montrer leur dernières innovations et autorisés à les envoyer en exemple
      à tous les personnels enseignants.
      Alors que des personnes meurent dans l’hôpital de la même ville, alors que les étudiants et médecins qu’on a formés dans cette université travaillent sans les protections rudimentaires qu’ils devraient avoir et exposent leur santé et peut-être leur vie, j’ai trouvé qu’il y avait une #indécence inouïe à se lancer dans cette folie de la continuité pédagogique.
      Je ne mettrai pas un seul cours en ligne. J’aurai de nombreux échanges avec mes étudiants, ils auront des supports de travail en ligne, ce que je fais depuis des années. Ils travailleront beaucoup, mais il n’y aura aucun cours. Il n’y pas de continuité pédagogique sans cours. La situation effective de l’enseignement
      dans les universités françaises est la suivante : une rupture pédagogique, une rupture de la relation pédagogique. Ce qui se passe et s’invente dans les
      nouvelles relations avec des étudiants et des enseignants confinés, n’est pas de l’ordre de la continuité pédagogique. C’est tout autre chose.

      Pour ce qui est des cours, je dirais ceci : chaque cours mis en ligne aujourd’hui c’est une fraction de poste qui sera perdue demain.
      Mais il y a plus grave : c’est ouvrir la possibilité d’être dessaisi de ce qui fait le plus propre de notre subjectivité, ce que nous inventons dans nos cours et nos recherches et qui se promène à tous les vents sous la forme d’un écrit privé de sa voix.
      Or il n’y a pas de cours à l’université sans des voix vivantes incarnées dans des corps, sans la présence d’un regard, sans l’expérience d’un langage
      qui invente l’inconnu grâce à l’écoute et la présence d’un autre. Un cours, c’est une incarnation. Ce n’est pas un écran. Ce n’est pas ce devant quoi
      je suis 18h par jour depuis que je ne fais plus cours.

      Reçu par email de la part de Pascal Maillard, le 18.03.2020.

      –-----

      Pascal Maillard a publié ce texte, légèrement modifié, sur son blog aussi...

      Continuité ou rupture pédagogique ?

      « Confidence d’un confiné : ne plus faire cours me manque. Ça, c’est une rupture, pas une continuité ». Publication d’une lettre envoyée cette nuit aux personnels de l’université. Contre la rupture numérique, la taylorisation des enseignements et le confinement des esprits.

      Bonsoir,

      Voici le message envoyé ce jour à tous les personnels de l’université de Strasbourg par l’intersyndicale. Je joins à ce mail la motion du CHSCT adoptée à l’unanimité le vendredi 13 et qui a fait l’objet d’un refus du président, lequel a été rattrapé par les décisions nationales. Il nous a accordé seulement un représentant des personnels dans la cellule de crise. Dimanche après-midi on y est allé à trois : à contexte exceptionnel, décisions exceptionnelles. On a obtenu une réunion le 20 pour valider le Plan de continuité d’activité, qui est toujours à l’état de brouillon. On a demandé une nouvelle réunion ce jour pour rendre des avis urgents sur de multiples questions.

      Lundi c’était un peu l’anarchie sur le campus. J’avais demandé dimanche qu’ils désactivent les badges d’accès aux bâtiments et ne valident que les accès des personnels essentiels, mais ils n’ont pas voulu au prétexte qu’il fallait laisser les collègues récupérer leurs affaires. Evidemment beaucoup de collègues dans les bureaux et les labos et des contaminations en plus…

      Aujourd’hui c’était plus calme, mais des cas de contamination sont signalés et la mise en place du télétravail est chaotique. Le diktat de la « continuité pédagogique » - concept dont il convient de faire la critique - se traduit par la découverte d’une fracture numérique béante dans les usages, les pratiques et dans la possession des outils. L’injonction à mettre en ligne ses cours prend des formes parfois autoritaires. Ou alors on découvre des collègues fiers de montrer leur dernières innovations et autorisés à les envoyer en exemple à tous les personnels enseignants. Alors que des personnes meurent dans l’hôpital de la même ville, alors que des étudiants et des médecins qu’on a formés dans cette université travaillent sans les protections rudimentaires qu’ils devraient avoir et exposent leur santé et peut-être leur vie, j’ai trouvé qu’il y avait une indécence inouïe à se lancer dans cette folie de la continuité pédagogique.

      Je ne mettrai pas un seul cours en ligne. J’aurai de nombreux échanges avec mes étudiants, ils auront des supports de travail en ligne, ce que je fais depuis des années. Ils travailleront beaucoup, mais il n’y aura aucun cours. Il n’y pas de continuité pédagogique sans cours. La situation effective de l’enseignement dans les universités françaises est la suivante : une rupture pédagogique, une rupture de la relation pédagogique. Ce qui se passe et s’invente dans les nouvelles relations entre des étudiants et des enseignants confinés, n’est pas de l’ordre de la continuité pédagogique. C’est tout autre chose.

      Pour ce qui est des cours, je dirais ceci : chaque cours mis en ligne aujourd’hui c’est une fraction de poste qui sera perdue demain. C’est une main mise dans l’engrenage de la taylorisation de nos enseignements, après celui de la recherche. Mais il y a encore plus grave : c’est ouvrir la possibilité d’être dessaisis de ce qui fait le plus propre de notre subjectivité, de ce que nous inventons dans nos cours et nos recherches et qui se promène à tous les vents sous la forme d’un écrit privé de sa voix. Or il n’y a pas de cours sans des voix vivantes incarnées dans des corps, sans la présence d’un regard, sans l’expérience d’un langage qui invente l’inconnu grâce à l’écoute et la présence d’un autre. Un cours, c’est une incarnation. Ce n’est pas un écran. Ce n’est pas ce devant quoi je suis 18h par jour depuis que je ne fais plus cours.

      Confidence d’un confiné : ne plus faire cours me manque. Ça, c’est une rupture, pas une continuité.

      Bien à vous,

      Pascal Maillard

      PS 1 : Un exemple de dispositif digne d’intérêt : http://philo.unistra.fr/uploads/media/FAC_PHILO-CONTINUITE_PEDAGOGIQUE.05.Publie2020-03-17.pdf

      PS 2 du 18 mars à 14h30 : L’urgence sanitaire requiert d’appeler tout le monde à la plus grande prudence et à la responsabilité. Les représentants des personnels dans les CHSCT ont un rôle majeur à jouer. Il peuvent sauver des vies, surtout dans un contexte où des présidences et des directions d’université, souvent débordées ou mal informées, n’appliquent pas les règles de précaution et de sécurité qui s’imposent. Il faut être inflexible avec elles et imposer le plus haut degré de sécurité. Aucun personnel dans les locaux universitaires sans masques FFP2 et sans gants. Décontamination de tous les locaux occupés. Que les CHSCT prennent des avis en urgence et les fassent respecter. C’est une question d’heure !

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/180320/continuite-ou-rupture-pedagogique

    • « Je sens que je vais assez rapidement détester ce mot... continuité pédagogique... »
      personnellement j’ai commencé à le détester au premier mail reçu de la présidence de l’université. Je lui ai substitué ce qui me semble être un assez bon synonyme : « continuité bureaucratique »

    • Covid19 : Plan de (dis)continuité académique

      Dans la situation de crise actuelle, les universitaires, et probablement plus largement les enseignants, attendent et reçoivent des instructions pour décider de leur comportement professionnel et personnel. Notre appareil de décision et de diffusion des ordres est mis à rude épreuve. L’impression qui se dégage pour l’instant est que le résultat est confus et anxiogène. En plus des fautes de communication, il convient de noter l’absence de l’information la plus importante en temps de crise : un plan de #priorité clair. Cette absence empêche la bonne réorganisation et surtout corsète les initiatives, empêchant de déployer pleinement le potentiel de nos enseignants.

      Le ministre de l’éducation nationale a introduit sa communication de crise par une série d’annonces erronées : la fermeture des écoles n’est pas envisagées, les enseignants continueront d’aller dans les écoles, les examens et concours de recrutement seront maintenus, le dispositif d’enseignement à distance est prêt… Au final, les écoles sont fermées, les enseignants confinés, les examens annulés, et lundi matin le dispositif d’enseignement à distance s’écroulait.

      Pour l’enseignement supérieur, nous disposons d’un courrier d’instructions sommaires et d’un « #plan_de_continuité_pédagogique » consistant en une collection d’#astuces_pédagogiques (« Tenez compte des horaires », « Encouragez les élèves à réfléchir »), de quelques informations techniques sur des plateformes utilisables, et de points de droit notamment sur les stages.

      Premièrement, les prérogatives des enseignants ne sont jamais clairement identifiées : nous ne savons pas quelles questions seront traitées par la hiérarchie, et quelles sont celles que nous pouvons traiter par nous-mêmes. C’est un frein majeur à la #réorganisation. Deuxièmement, aucun plan de priorités clair n’est établi. Toutes les instructions, parfois contradictoires, sont présentées au même niveau. Or, la gestion d’une #crise est en tout premier lieu une histoire de priorités. Etre privé d’un système de priorité pour guider ses décisions est non seulement anxiogène, mais peut aussi conduire à essayer de tout faire, et donc mal faire et s’épuiser, et ensuite peut créer des dissensions au sein des équipes.

      Une proposition de plan de priorités

      Si la hiérarchie n’est pas en mesure de fournir un plan de priorités, il est urgent que les équipes s’en dotent elle-mêmes. En voici une proposition :

      Préserver la santé de tous les étudiants et personnels, y compris précaires, et de leurs proches.

      Exemples :

      Tous doivent être assurés que leur absence ne sera en aucun cas sanctionné sous quelque forme que ce soit, pour peu qu’elle soit notifiée.
      La #continuité_sanitaire pour les étudiants et personnels isolés : un recensement doit être fait, et un plan nourriture/logement établi.

      Limiter le stress du à l’établissement.

      Exemples :

      Les questions liées aux études pour les étudiants et aux rémunérations pour les personnels précaires ne doivent en aucun cas être source d’un stress supplémentaire et ne doivent pas conduire les personnels à se mettre en danger.
      Toutes les difficultés individuelles, y compris au niveau financier, feront l’objet d’un traitement urgent et généreux.
      Assurer le #moral_collectif.

      Exemples :

      La cohésion des équipes et la confiance des personnels est primordiale dès lorsque la santé et le stress sont gérés.
      En temps de crise, la bonne entente est plus importante que l’atteinte d’objectifs fonctionnels, y compris dans l’environnement familial.

      La continuité des activités scientifiques et pédagogiques.

      Exemple :

      C’est seulement lorsque #santé, #stress et #moral sont gérés que les activités scientifiques et pédagogiques peuvent continuer.
      Préserver l’#environnement_familial en période de confinement est plus important qu’assurer des cours à distance.

      Les validations des études et la complétion des formalités administratives.

      Exemples :

      C’est seulement lorsque santé, stress et moral sont gérés, et que les activités scientifiques et pédagogiques ont continué, qu’une validation des études est envisageable.
      Les formalités administratives ne doivent pas empiéter sur la santé, le stress et le moral de la communauté, ainsi que sur la continuité des activités.

      Ce plan de priorité n’est qu’une proposition. On pourra par exemple estimer que les notes sont plus importantes que les cours. Peu importe, mais il est indispensable de pouvoir se référer à un tel plan pour décider de son comportement, notamment lorsque qu’il est impossible de tout faire correctement. Concrètement, ce plan doit permettre à un enseignant dépassé par l’ampleur des tâches de décider de se concentrer soit sur les notes, soit sur les cours, en étant pleinement rassuré que cette décision ne lui portera pas préjudice.

      Sur la base d’un tel plan, les énergies des enseignants pourront se libérer et se focaliser, ce qui sera éventuellement l’occasion d’expérimenter de nouvelles formes de pédagogie.

      Libérer et ouvrir les enseignements

      A l’heure actuelle, puisque l’injonction est d’assurer une continuité pédagogique, nous cherchons à éviter les cassures, et nous reproduisons donc nos classes physiques dans des environnements virtuels, avec l’illusion que ce sera presque pareil. C’est rater l’occasion d’essayer vraiment de nouvelles formes d’organisation pédagogique. Si le plan de priorités estime les notes secondaires, alors il devient possible de s’affranchir des carcans scolaires, et d’innover à l’échelle d’un établissement.

      A titre d’exemple, il devient alors possible que tous les enseignants qui le souhaitent fassent cours à tous les étudiants qui le souhaitent, et même les autres enseignants, les élèves des collèges et lycées, ainsi que les travailleurs et citoyens. Nous sommes parfaitement capables d’adapter les cours que nous maîtrisons déjà ou de monter des conférences de recherche grand public, et de les assurer en ligne, sous forme de cours magistraux. Les infrastructures techniques sont limitées pour une large interaction, mais pas pour une très large diffusion.

      Dans le contexte actuel, libérés des obligations habituelles, il ne faudrait pas plus d’une journée à une université pour collecter une offre pléthorique d’enseignements faisables en ligne. Aucun problème technique ou organisationnel ne s’oppose à la mise en ligne d’un calendrier par les services de communication, puis à une diffusion la plus large possible, à tous les étudiants mais aussi la presse locale. On mettrait ainsi à disposition de tout le monde une véritable offre de formation, faite en direct à la maison, et diffusée en direct dans les maisons.

      La force des libertés académiques

      La force de ce système est le respect des #libertés_académiques. En fournissant un plan de priorités sans indications concrètes sur sa mise en œuvre, on laisserait les universitaires déployer leur énergie et leur imagination au service de toutes et tous, avec la meilleure vue concrète sur le terrain qu’on puisse avoir. En ne prescrivant pas comment les cours doivent être faits ni ce sur quoi ils doivent porter, en laissant les étudiants choisir ce qui les intéresse et en ouvrant les cours au plus grand nombre, on exploiterait pleinement la véritable puissance de l’Université.

      La crise est une occasion unique de réellement faire de l’interdisciplinarité, de l’éducation initiale, scientifique, populaire et continue, et même de la science citoyenne. Rater cette occasion serait une faute morale pour l’Université.

      http://blog.educpros.fr/julien-gossa/2020/03/18/covid19-plan-de-dis-continuite-academique

    • Testo di Filippo Celata, ricevuto via mail:

      «In giorni di isolamento, comunicazioni a distanza, didattica online, riunioni su skype, è bene ricordare i vantaggi preziosi e insostituibili degli incontri di persona, “faccia a faccia”: stimolano la partecipazione attiva, implicano un maggiore impegno reciproco, scoraggiano a mentire, consentono risposte più rapide, forme di comunicazione non verbale, di capire le reali intenzioni e emozioni dell’interlocutore (‘screening’), facilitano la condivisione di valori e linguaggi specifici, consentono la trasmissione di conoscenze tacite, non codificabili, riservate, rafforzano i legami e la fiducia reciproca, rimuovono l’anonimato, riducono la sostituibilità dell’interlocutore, permettono non solo lo scambio di informazioni pre-esistenti per realizzare obiettivi prestabiliti ma di stabilire questi obiettivi e produrre nuove conoscenze, consentono esiti casuali e non pianificati (serendipità), favoriscono l’informalità, permettono il ‘rush’ (condividere decisioni complesse in tempi rapidi), stimolano l’imitazione, sono meno escludenti e escludibili, non richiedono l’utilizzo di infrastrutture di terzi, sono più efficienti e più efficaci. Le relazioni interpersonali, dice John Urry, possono essere per un po’ gestite e mantenute “a distanza”, ma richiedono di essere per lo meno periodicamente riattivate tramite la compresenza. Ok quindi, coronavirus, che l’isolamento sia totale, ma breve.. ne va dell’infrastruttura sociale che arricchisce e sostiene le nostre relazioni personali, amicali, economiche, politiche..»

    • AMIS PROFS, OÙ EST L’URGENCE ?
      Réflexion de #Bénédicte_Tratnjek (@ville_en) publiée sur Facebook, le 19.03.2020.

      Je me remets sur un pavé, ce sera le dernier « cri » que j’écrirai, chacun s’apaisera ou non s’il le souhaite. Je ne m’y épuiserais plus...

      Je lis sans cesse ces jours-ci que la précipitation et l’urgence nous font faire des choix sur lesquels nous pouvons peut-être prendre le temps de réfléchir.

      Je lis sans cesse ces jours-ci des messages d’amis parents désespérés par la surcharge de travail qui leur tombe dessus.

      Pour les familles, lundi, découverte de tous les mails que nous avons envoyés pour expliquer comment nous allions fonctionner, tous individuellement car la situation a fait que nous n’avons pas pu le préparer collectivement. La situation est ainsi, mais laissons le temps aux familles (nos élèves et leurs parents) de digérer tout ça, de comprendre.

      Je lis depuis des messages qui me font halluciner, totalement. Tel prof qui n’a pas dormi depuis 4 jours pour tout mettre en ligne. Mais c’est quoi ce « tout » ??? Scanner tout ce que nous aurions fait en une heure avec les élèves a-t-il du sens ? Se précipiter est-il efficace ?

      Tel autre prof qui a fait un plan de travail sur 2 semaines pour que les élèves fassent totalement en autonomie une activité. Ce plan de travail magnifique, qui a dû prendre un temps fou pour la mise en page, y insérer des tableaux d’objectifs, d’activités, de compétences et de tout un truc qui ne parle qu’à nous est-il accessible en totale autonomie, peu importe la volonté qui mettront nos élèves et leurs familles ? Il est réfléchi, mais pour nous, pour nos besoins. Peut-être faut-il prendre le temps de réfléchir à être explicites dans le contexte présent, différent mais aussi stimulant intellectuellement.

      Tel autre prof qui écrit se lever à 4h du matin pour faire de multiples activités pour ses élèves, puis être surchargé par ce que les collègues demandent à ses propres enfants et s’en plaindre (une contradiction digne des reportages de Guillaume Meurice s’il en est !), puis retourné une partie de la nuit travailler à surcharger ses élèves. L’expérience des uns et des autres ne doit-elle pas nous enrichir plutôt que nous appauvrir ?

      Nous râlons, à juste titre, de ne pas avoir le temps de faire toutes les demandes annexes qui nous sont demandés : histoire des arts, éducation aux médias et à l’information, etc. N’est-ce pas le moment de se donner le temps, avec nos élèves, de faire tout ce que nous aimerions faire habituellement ? Ce lien histoire/français sur le Moyen Âge que nous n’avons jamais le temps de monter en se disant qu’on ne propose aux élèves qu’une activité commune allégeant ainsi de manière raisonnable (ni trop ni pas assez) notre charge de travail (un coup c’est moi, un coup c’est toi qui dépose une activité aux élèves) et celle des élèves (une activité commune, pas trop longue, pour deux heures « officielles » dans l’emploi du temps « ordinaire »). Ce lien arts plastiques/histoire que nous ne faisons jamais sur l’impressionnisme au XIXe siècle (tu leur fais étudier la gare Saint-Lazare de Monet, je fais une reprise plus tard sur l’industrialisation). Ce lien SVT/géographie sur le développement durable. Ce lien mathématiques/géographie sur les échelles. Je pourrais multiplier les exemples, c’est sans fin. Sans l’injonction des EPI, très lourds, en faisant simple. Réutilisable en plus les années prochaines.

      Réfléchissons ensemble : c’est quoi apprendre ? c’est quoi enseigner ? qu’est-ce que je veux vraiment enseigner à mes élèves ? que doivent-ils vraiment retenir/comprendre/savoir-faire pour se construire comme citoyen, comme humain, comme personnes qui pensent par elles-mêmes ?

      Prenons le temps de ne pas nous imposer à nous-mêmes des urgences qui n’existent pas. Les instructions officielles relèvent de la « continuité » pédagogique. J’ai beau cherché dans le dictionnaire, « continuité » n’est pas synonyme de « totalité » et encore moins de surplus. L’antonyme de continuité n’est pas totalité : c’est discontinuité, absence.

      Nous serions en tort de ne rien donner. Nous sommes en tort de trop donner.

      Trop donner, c’est faire stresser nos élèves et leurs familles. Trop donner, c’est créer un sentiment de dévalorisation chez ceux qui ne parviennent pas à suivre ce rythme. Trop donner, c’est favoriser la fracture numérique. Trop donner, c’est forcer les familles à choisir quel enfant de la fratrie aura le plus de temps de connexion pour répondre à toutes les exigences des profs et quel(s) enfant(s) n’auront pas accès à tout ça et seront vus comme « mauvais élèves » par leurs enseignants. Trop donner, c’est accentuer les inégalités sociales.

      Trop donner, ce n’est peut-être pas enseigner... On ne sait pas faire, on va se tromper, on va tâtonner. Mais avant tout RÉFLÉCHISSONS. OÙ EST L’URGENCE si je n’envoie pas « du lourd » les premiers jours. Tâtonnons avec les élèves, prenons le temps qu’ils comprennent comment faire, de connaître leur rythme, le nôtre aussi.

      ATTENTION À NOS BONNES INTENTIONS ! Nous les avons toutes et tous. Ce n’est pas la question ! L’enfer est pavé de bonnes intentions... Ne pavons pas l’enfer ! Éclairons nos élèves, donnons leur goût d’apprendre autrement, de pouvoir apprendre avec leurs familles et non pas dans les cris et dans les larmes, veillons à ce qu’ils aillent bien.

      Ce qui se passe est stressant pour des enfants et des jeunes. Et va l’être de plus en plus. Ce n’est que le début de cette période. Soyons raisonnables ! Pour nos élèves, pour leurs familles, pour nous aussi, pour nos proches !

      https://www.facebook.com/benedicte.tratnjek/posts/10156750046895059

      Cela complète cet autre texte de Bénédicte que j’avais déjà publié sur seenthis :
      L’#enseignement en temps de #confinement
      https://seenthis.net/messages/831621

    • Fermeture des universités : la #validation du semestre est nécessaire

      Quelques passages choisis :

      -Nous avons eu accès à une note du ministère concernant le "#Plan_de_continuité_pédagogique", prévoyant d’organiser des #examens_à_distance avec "#télésurveillance" via des prestataires privés, comme #TestWe tarifant un examen à 17€ par étudiant-e. À l’Université de Nanterre par exemple, si les 6752 étudiant-e-s de L1 devaient passer un examen via ce
      prestataire cela reviendrait à 114 784€ l’examen pour une université au budget déjà bien affaibli. Imaginez le #coût que cela engendrerait pour notre université de faire passer la totalité des UE d’un semestre avec ce #prestataire à tou-te-s les étudiant-e-s ! Une mauvaise connexion wifi entraînerait l’ajournement de l’étudiant-e à son partiel ?

      –Maintenir les #examens et #partiels dans cette situation pénaliserait les étudiant.e.s les plus défavorisé.e.s socialement pour qui la situation ne leur permettra pas d’étudier dans
      de bonnes conditions. Nous ne sommes pas opposés à la tenue de cours en ligne si des personnes souhaitent les suivre ou les dispenser, or nous pensons qu’aucune #évaluation ou contrôle d’assiduité ne doit en découler, pour les raisons évoquées plus haut.

      –nous rappelons qu’un examen à distance ne peut pas avoir lieu si l’Université ne peut pas vérifier et garantir que chaque candidat-e dispose des moyens techniques pour être évalué-e. Ainsi le stipule l’article D. 611-12 du Code de l’éducation : « La validation des enseignements contrôlée par des épreuves organisées à distance sous forme numérique, doit être garantie par : « 1° La vérification que le candidat dispose des moyens techniques lui permettant le passage effectif des épreuves ; »

      –Ainsi, nous demandons la validation du semestre 2. C’est la seule mesure qui ne pénalise pas les étudiants, que ce soit sur le plan des résultats ou sur le fait qu’elle ne reporte pas le calendrier universitaire.

      –concernant masters, les possibilité de poursuivre la recherche n’étant pas garantie, nous réclamons le report des rendus de mémoires. En effet la réduction de la documentation accessible ne permet pas de satisfaire les exigences scientifiques attendues pour ces travaux.

      –Il nous semble aussi évident que dans un tel contexte les candidatures en Licence (#Parcoursup) et en Master (#eCandidat) doivent être reportées. Prétendre pouvoir maintenir ces dispositifs de sélection à l’entrée des filières dans un contexte de crise sanitaire, où les #conditions_d’études des étudiant-e-s et lycéen-ne-s sont fortement perturbées, ne fait qu’accroître le #stress et l’#angoisse des jeunes.

      –D’autre part il n’est pas acceptable que #CROUS Grenoble maintienne l’obligation de payer le loyer malgré les mesures de confinement alors même que d’autres CROUS, notamment celui de Poitiers, ont suspendu le versement des loyers pour les étudiant-e-s confiné-e-s.

      –Nous tenons à exprimer notre soutien aux personnels qui souhaiteraient exercer leur #droit_de_retrait si ces mesures n’étaient pas respectées.

      –-> Reçu par mail le 20.03.2020

      #privatisation

    • J’ai fait ce que j’aurais dû faire dès le début, remplir mon #ASA pour #garde_d'enfant.

      Chères et chers collègues,

      Dans ce contexte difficile de crise sanitaire et de confinement, la DGESIP met à notre disposition des fiches relatives à la continuité des activités que vous pouvez consulter ici : https://services.dgesip.fr/T712/covid_19. Elles traitent d’un sujet par fiche et sont mises à jour au fil de l’eau.

      En parallèle, notre ministre a rappelé cette semaine la nécessité de veiller à ce qu’aucun étudiant ne se retrouve complètement isolé, même s’il est connecté, suite aux mesures de confinement. Il est important de dispenser des informations régulièrement dans toutes nos formations et, dans la mesure du possible, de proposer des temps d’interaction avec les étudiants pendant ou en marge de nos enseignements (mails, classes virtuelles, forum moodle, etc.). De même, un petit nombre d’entre nous peut se sentir isolé, il nous appartient, en particulier lorsque nous connaissons les collègues, de maintenir le contact.

      Comme précisé précédemment, la plus grande liberté est laissée aux équipes pédagogiques pour mettre en place les adaptations les plus appropriées à chaque enseignement et aux besoins de chaque population d’étudiants. Le SUPTICE (https://suptice.univ-rennes1.fr) est mobilisé pour vous conseiller et, si vous le souhaitez, vous former et vous accompagner. La Direction de la Communication met à jour quotidiennement des pages d’information pour tous, personnels et étudiants avec des Foires aux Questions (https://www.univ-rennes1.fr/covid19-foires-aux-questions-frequently-asked-questions). La possibilité d’organiser une banque de prêt de matériel informatique est à l’étude à la DFVU (https://www.univ-rennes1.fr/interlocuteurs/direction-de-la-formation-et-de-la-vie-universitaire-dfvu) pour les étudiants qui en sont dépourvus et qui se font connaitre auprès de vous. Pour eux également, des pistes pour participer au financement de forfaits internet adéquats sont examinées. Le pôle handicap est également mobilisé.

      Nous remercions les composantes pour le recensement en cours afin d’identifier les étudiants qui ont besoin de matériel, d’aide ou d’accompagnement spécifique durant cette période. Rester attentif au suivi de nos stagiaires sur le territoire, comme à l’étranger, est une autre priorité et vous êtes nombreux à vous impliquer aux cotés des services, dont la DARI (https://www.univ-rennes1.fr/la-direction-des-affaires-et-relations-internationales), le SFCA (https://www.univ-rennes1.fr/la-direction-des-affaires-et-relations-internationales) et le SOIE (https://soie.univ-rennes1.fr). Avec l’aide de la Fondation Rennes 1, un fonds d’aide d’urgence pour les étudiants en mobilité en difficulté à l’étranger en vue de leur rapatriement, est aussi lancé. Le soutien s’organise et se met en place progressivement au fil des jours, à tous les niveaux. Merci à tous pour votre implication.

      Concernant la continuité pédagogique et l’évolution des modalités des enseignements et des formations, les modifications que vous retiendrez peuvent porter sur les calendriers, les contenus et activités pédagogiques et/ou les MCCC des formations. Il convient de systématiquement les faire valider par les responsables de parcours et de mention, en lien avec les directions de composante. La cohérence et la coordination au sein de nos mentions de diplômes demeurent indispensables, tout comme les échanges préalables sont nécessaires au sein des équipes sur les choix que chacun(e) peut être amené(e) à proposer. Partager l’information et échanger, en toutes situations y compris celle-ci, contribue à la qualité de nos formations.

      Je vous remercie au nom des étudiants pour votre engagement et je vous souhaite de vivre du mieux possible cette période.

      Bien à vous,

      Cette lettre, que j’ai reçue via mail le 20.03.2020, a été accompagnée de ce commentaire :

      Face aux injonctions délirantes de notre université (faire de la continuité pédagogique, en anticipant l’organisation à distance des évaluations et aussi en prenant soin de vérifier que nos étudiants vont bien, et maintenant que nos supports numériques sont accessibles aux handicapés, voir mails envoyés par le VP CFVU et le SUPTICE),

      j’ai fait ce que j’aurais dû faire dès le début, remplir mon ASA pour garde d’enfant.

      Cela ne résoudra pas tous les problèmes, évidemment. Mais déjà si nous remplissons massivement ces ASA, ça leur montrera l’#absurdité de leurs #injonctions.

      Quelques heures avant, cette même enseignante avait envoyé ce message à la liste :

      Je ne supporte plus ces injonctions impossibles à mettre en oeuvre pour nos étudiant.es. Merci de m’indiquer quel est le papier à renvoyer (ASA ?) pour dire que je garde mes enfants et ne peux pas travailler.

      J’essaie tant bien que mal de maintenir un lien avec les étudiant.es connecté.es, et notre université nous parle jour après jour de continuité pédagogique. C’est une pression intolérable.

      – Je n’ai absolument pas le temps ni les compétences pour faire dans l’urgence depuis mon domicile des supports de cours à distance adaptés aux étudiant.es en situation de handicap.

      – De nombreux étudiants confinés seuls, y compris non handicapés, m’ont dit déprimer et ne pas réussir à travailler. Je suis plus inquiète pour leur santé mentale et physique que leurs talents mathématiques présents futurs.

      – De nombreux étudiants ne répondent pas aux sollicitations électroniques, je n’ai pas de nouvelles, je ne sais pas où ni comment ils sont confinés.

      – Je n’ai pas envie de culpabiliser de ne pas réussir à tout gérer : les devoirs des enfants, les courses et repas, et les étudiants.

      – Je n’ai pas une situation plus compliquée que d’autres collègues, et j’imagine que dans le confinement, la plupart des collègues sont dans l’impossibilité matérielle, psychogique ou temporelle de répondre à de telles injonctions, si tant est qu’ils sachent rédiger leurs polys en braille.

      Par conséquent, je souhaite être sous le régime de l’ASA pour garde d’enfant de moins de 16 ans plutôt que de télétravail, et si possible rétroactivement depuis lundi 16 mars, date à laquelle l’école des enfants s’est arrêtée.

    • #Concours titulaires de l’enseignement supérieur et de la recherche : un projet de décret en « #distanciel »

      Le jeudi 24 mars 2020, sera soumis au Comité technique du Ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation un projet de décret sur le recours à la visio-conférence pour les concours de chercheur·euses et d’enseignant·s-chercheur·ses.

      Le CTMESR est une instance représentative et consultative, devant laquelle le Ministère a l’obligation de présenter tous ses projets en matières d’emploi, de rémunération et de conditions de travail. Son rôle est de fait limité : s’il ne peut abroger un projet qui lui serait soumis, il peut néanmoins les retarder si ses membres, à l’unanimité le juge insuffisant. Dans ce cas, le MESR est censé reconvoquer le CT pour l’examen d’une nouvelle mouture1.

      Compte tenu de l’importance du sujet, il est utile de faire connaître à la communauté, titulaires ou candidat·es au recrutement, le projet du Ministère, qui ne semble pas bien prendre la mesure de l’épidémie. De fait la question des concours poursuit sous une autre forme celle de la « continuité pédagogique » dont Academia a déjà eu l’occasion de présenter les termes du débat 2.

      Nous avons déjà été surpris par le degré d’impréparation des services nationaux de visio-conférence, type Renavisio, qui a immédiatement indiqué ne pouvoir tenir la surcharge du télétravail. En décembre déjà, la tenue des seules soutenances de thèse avaient été chaotiques. Pourtant, elles se tenaient pour l’essentiel sur site, avec deux ou trois membres à distance, pas en distantiel total. Il semble déjà bien impossible de tenir à distance une réunion à 12 ou 15 membres, sans même parler de qualité de délibération.

      Mais ne boudons pas notre plaisir : faisons l’hypothèse que si les titulaires peuvent se réunir à distance pour l’examen des dossiers, au motif qu’ils ou elles disposent des mêmes conditions d’accès (connexion et matériel) à la visio-conférence, nous savons au bout d’une semaine d’essais infructueux que seuls les logiciels type jeux vidéos arrivent à tenir plus de 10 personnes en ligne de façon stable pendant la durée de la réunion. Mais déjà cette hypothèse se trouve infirmée par les relocalisations pré-confinement de plusieurs titulaires dans des zones rurales au câblage moins puissant ; les conversations sont hâchées, coupées pendant plusieurs minutes, interrompues ; le son est quelquefois exécrable, sans même parler des cris d’enfants au milieu des discussions. Si bien évidemment, on souhaite la réunion de l’ensemble du jury, et pas seulement la poignée de membres qui aura réussi à se connecter sans encombre, on peut donc raisonnablement penser que ces réunions seront matériellement impossibles à tenir3.

      Pour ce qui est des #auditions, la perspective n’est même pas envisageable. Le ministère peut-il fournir à l’ensemble des candidat·es l’équipement et la connexion nécessaire à son domicile ? Non. Alors il y a rupture d’#égalité. Jusqu’à présent, les auditions en visio-conférence pouvaient être organisées sur le site universitaire le plus proche du ou de la candidate, plus rarement au domicile. Dans la situation du confinement, ce sera simplement impossible.

      Cela, c’est sans tenir compte de l’inconnue que représente l’évolution de l’épidémie sur la vie quotidienne. Nous pouvons d’ores et déjà que la séquence examens des dossiers + concours se produira au moment attendu du pic de mortalité, en avril. À un moment où les membres des jurys et les candidat·es, s’ils ou elles ne sont pas affectées dans leur corps, auront sans doute à gérer de près ou à distance un décès d’un parent ou d’un proche — sans parler des difficultés inhérentes à toute épidémie, comme les pénuries, les soucis financiers, etc.

      Il sera regrettable qu’en raison de la gestion irresponsable du Ministère, à l’origine de nombreuses ruptures d’égalité ou d’annulations techniques de concours, les candidat·es subissent par des procédures pour #rupture_d’égalité une #double_peine. Ou pire, qu’arguant de la loi d’exception, le Ministère cesse de considérer que les principes d’#impartialité et d’égalité qui régissent les concours de la #fonction_publique cessent d’opérer.

      –------------

      Décret n° du

      fixant les conditions de recours à la #visioconférence pour l’organisation des concours des chargés de recherche et des directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques et des enseignants-chercheurs des établissements d’enseignement supérieur au titre de l’année 2020

      Publics concernés : chargés de recherche et directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques (EPST) et enseignants-chercheurs des établissements d’enseignement supérieur et de recherche

      Objet : utilisation de la visioconférence pour les études des dossiers, les auditions ainsi que pour les réunions de délibération des jurys des concours de chercheurs et des comités de sélection et autres jurys de recrutement d’enseignants-chercheurs.

      Entrée en vigueur : lendemain de la publication

      Notice : le décret vise à ouvrir à l’ensemble des membres des jurys des concours de chercheurs et des comités de sélection et jurys d’enseignants-chercheurs organisés au titre de l’année 2020 la possibilité d’utiliser la visioconférence pour les études des dossiers, les auditions et les délibérations.

      Références : le décret peut être consulté sur le site Légifrance (http://www.legifrance.gouv.fr).

      Le Premier ministre,

      Sur le rapport du ministre de l’action et des comptes publics, du ministre de l’éducation nationale et de la jeunesse et de la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation,

      Vu la loi n° 83-634 du 13 juillet 1983 modifiée portant droits et obligations des fonctionnaires, ensemble la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 modifiées portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu le décret n°82-451 du 28 mai 1982 modifié relatif aux commissions administratives paritaires ;

      Vu le décret n°83-1260 du 30 décembre 1983 modifié fixant les dispositions statutaires communes aux corps de fonctionnaires des établissements publics scientifiques et technologiques ;

      Vu le décret n°84-431 du 6 juin 1984 fixant les dispositions statutaires communes applicables aux enseignants-chercheurs et portant statut particulier du corps des professeurs des universités et du corps des maîtres de conférences ;

      Vu le décret n°84-1185 du 27 décembre 1984 modifié relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires du centre national de la recherche scientifique ;

      Vu le décret n°84-1207 du 28 décembre 1984 relatif au statut particulier des corps de fonctionnaires de l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement ;

      Vu le décret n°84-1206 du 28 décembre 1984 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national de la santé et de la recherche médicale (I.N.S.E.R.M.) ;

      Vu le décret n°85-1060 du 2 octobre 1985 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut de recherche pour le développement (IRD) ;

      Vu le décret n° 86-83 du 17 janvier 1986 relatif aux dispositions générales applicables aux agents contractuels de l’Etat pris pour l’application des articles 7 et 7 bis de la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu le décret n°86-576 du 14 mars 1986 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national de recherche en informatique et en automatique ;

      Vu le décret n°88-451 du 21 avril 1988 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national d’études démographiques ;

      Vu le décret n°99-272 modifié du 6 avril 1999 relatif aux commissions paritaires d’établissement des établissements publics d’enseignement supérieur ;

      Vu le décret n°2011-184 du 15 février 2011 relatif aux comités techniques dans les administrations et les établissements publics de l’Etat ;

      Vu le décret n° 2017-1748 du 22 décembre 2017 fixant les conditions de recours à la visioconférence pour l’organisation des voies d’accès à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu l’avis du comité technique du ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche du ;

      Vu l’avis du comité technique des personnels titulaires et stagiaires de statut universitaire du XXX ;

      Après avis du Conseil d’Etat (section de l’administration),

      Décrète

      Article 1er

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres des jurys des concours d’accès aux corps de chargés de recherche et de directeurs de recherche régis par les dispositions du décret du 30 décembre 1983 susvisé peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par l’établissement dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 2

      La dernière phrase du 4ème alinéa de l’article 9-2 du décret du 6 juin 1984 susvisé ne s’applique pas aux concours de recrutement de professeur des universités ou de maître de conférences régis par ce même décret organisés au titre de l’année 2020.

      Article 3

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres du jury mentionné à l’article 46-1 du décret du 6 juin 1984 susmentionné peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par arrêté ministériel dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 4

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres des jurys des concours d’accès aux corps assimilés aux enseignants-chercheurs relevant du décret du 6 juin 1984 susmentionné peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par l’établissement dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 5

      Les commissions administratives partiaires relevant du décret du 28 mai 1982 susvisé, les commissions consultatives paritaires relevant de l’article 1-2 du décret du 17 janvier 1986 susvisé et les commissions paritaires d’établissement relevant du décret du 6 avril 1999 susvisé, instituées dans les services et les établissements publics du ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation peuvent, pour leurs réunions organisées en 2020, appliquer les dispositions de l’article 42 du décret du 15 février 2011 susvisé.

      Article 6

      Le ministre de l’action et des comptes publics, la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation et le secrétaire d’Etat auprès du ministre de l’action et des comptes publics sont chargés, chacun en ce qui le concerne, de l’exécution du présent décret, qui sera publié au Journal officiel de la République française.

      Par le Premier ministre :

      Le ministre de l’action et des comptes publics,

      Gérald Darmanin

      La ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation

      Frédérique Vidal

      Le secrétaire d’Etat auprès du ministre de l’action et des comptes publics,

      Olivier Dussopt

      https://academia.hypotheses.org/21391

    • Continuité pédagogique ? Témoignages d’enseignantes-chercheuses

      Nous avons recueilli, au hasard des listes de discussions, sur Twitter, en échangeant avec les collègues, plusieurs témoignages qu’il nous semble indispensable de publier pour saisir la distinction entre ce que j’ai appelé la névrose de la continuité pédagogique,et les tentatives, sincères, désespérées quelquefois, de faire vivre le lien pédagogique, ayant conduit Julien Gossa à lancer un appel pour un plan de (dis)continuité pédagogique. Car l’Université, c’est avant tout ces chaînes de transmission de savoir, qui sont aussi des liens éthiques et des valeurs.

      –-------

      Caroline Muller – Rennes-2

      « Chères toutes, chers tous,Je prends conscience que, dans l’effervescence de la mise en place de la « continuité pédagogique », je ne vous ai sans doute pas assez dit l’essentiel : cette période étrange n’est en aucun cas le moment de paniquer ou stresser sur vos cours. Nous savons que tout le monde n’a pas une bonne connexion internet ou des conditions de travail optimales ; je sais aussi que le confinement a des effets psychologiques qui peuvent rendre difficile la concentration. Mon mail précédent était indicatif : l’idée est de garder un peu d’activité intellectuelle et d’éviter un « décrochage » trop violent, pas de préparer à tout prix tout ce qui était prévu.

      Profitez de vos proches s’ils sont avec vous, jouez à la console, écoutez de la musique, plongez dans Gallica ou toutes ces très belles offres culturelles qui nous parviennent (comme quoi, en temps de crise, on se rend compte qu’on pourrait inventer une culture gratuite et accessible à tous), regardez des films, cuisinez si vous pouvez, faites du yoga (sans vous cogner aux meubles si vous êtes dans 12 mètres carrés), applaudissez aux fenêtres, observez ce que l’événement fait à la société, fomentez la fin du capitalisme, dormez, rêvez, parlez à vos amis, organisez des apéros Skype si vous avez une connexion, écrivez à vos professeur(e)s qui sont là pour vous, ressortez les puzzle et les lego, bref : faites ce qui vous fait du bien. Et n’hésitez pas à m’écrire si vous êtes angoissés. On peut même créer un groupe de discussion si vous avez besoin.
      Pour ceux et celles qui sont salarié(e)s, ces temps sont aussi particulièrement difficiles à gérer, entre inquiétude de contamination, pressions hiérarchiques, injonctions contradictoires et nécessité de subvenir à ses besoins. N’hésitez pas à nous contacter pour nous faire part de toute situation de grande fragilité ou de précarité et surtout ne vous donnez pas une pression supplémentaire quant au suivi de votre cursus : nous trouverons des solutions ensemble le moment venu ».

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      VB – Région Rhône-Alpes

      J’ai quand même un collègue qui nous dit, quand on discute des difficultés des étudiants, « Oui enfin bon c’est peut-être juste de la fainéantise et il ne faudrait pas que nous baissions notre niveau d’exigence ».
      Au même moment une étudiante m’écrivait pour s’excuser de ne pas avoir participé au chat que j’avais planifié, parce qu’elle est caissière en supermarché et fait plus d’heures à cause des absences. Au supermarché, bordel, pendant que nous on est confinés avec nos 2500 bouquins et qu’on glose sur « oui mais alors faudrait pas donner leur semestre aux fainéants ».

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      CP – Grand Est

      Mail de la hiérarchie demandant, UE par UE, un tableau des aménagements prévus pour la continuité pédagogique, et disant que d’autres formations ont déjà remonté les tableaux le week-end dernier. Je ne sais pas dans quel monde c’est humainement possible. On a besoin de TEMPS là. Jean-Michel Blanquer déteint sur l’ESR ou bien ? Les demandes comminatoires de trucs pas raisonnables et précipités, quand on n’a ni pratique, ni formation, ni anticipation vague du passage en distanciel, ça remet une pièce dans le juke box de l’anxiété.
      Du coup, ma réponse :

      CR – Région Centre – Message envoyé au doyen le 20 mars au doyen

      « Il est clair aujourd’hui que les étudiants sont en train de supporter un stress considérable dans ce système improvisé (improvisation qui n’est la faute de personne) : on leur laisse à penser qu’ils doivent suivre des formations à distance qui seront l’objet d’évaluation.
      De mon point de vue, c’est totalement injuste et irresponsable de notre part.
      Nous savons que les inégalités d’accès à Internet nous obligeront à renoncer à toute évaluation sur les « enseignements » donnés dans ce cadre.

      Il est donc de notre responsabilité de dire clairement le plus vite possible aux étudiants que seuls les cours faits avant la fermeture et éventuellement après la reprise feront l’objet d’une évaluation selon des modalités que nous ignorons aujourd’hui.

      Et, en même temps , leur dire que nous les encourageons malgré tout à ne pas se démobiliser en utilisant les ressources données par les enseignants pour réviser et travailler le reste du programme même si cela ne fera pas partie de ce qui sera évalué. Nos étudiants sont assez intelligents pour comprendre cela.

      C’est ce que nous avons fait pendant et à la suite des grèves de 1995-1996 et 2007-2009 ».

      –----------

      VM – Île-de-France

      « Je me posais déjà la question de l’accès aux outils numériques pour les étudiants, mais j’ai reçu des messages complètement catastrophés d’étudiantes et d’étudiants ces derniers jours : pas d’internet autrement qu’un petit forfait sur le téléphone (donc des devoirs à la main envoyés en photos), un ordi pris d’assaut par la famille, pas de BU, etc.

      Les conditions de confinement sont très variables. Certains sont seuls chez eux, d’autres avec un.e ami.e, d’autres avec leurs parents, leurs frères et sœurs, leurs grands-parents. Certains sont dans leur petite chambre d’étudiants, d’autres dans l’appartement familial, certains en ville, d’autres à la campagne. Certains continuent à travailler pour leur job étudiant, d’autres se demandent comment ils vont faire financièrement maintenant qu’ils n’ont plus cette source de revenus. Certains ont des proches malades, voire sont malades eux-mêmes. Certains ont besoin de travailler pour mettre à distance ce qui nous arrive, d’autres sont trop angoissés pour le faire.

      Comment alors leur demander de rendre des devoirs en laissant peser la menace du contrôle continu ? Et quand nous reviendrons ou pas et tenterons de valider le semestre, comment faire pour que ceux qui n’ont pas pu travailler ne soient pas pénalisés ?

      J’ai donc décidé pour la semaine prochaine de mettre sur notre ENT un cours et une correction d’un commentaire qui était à me rendre hier. Nous ferons une heure de classe virtuelle pour que je réponde à leurs questions et que nous maintenions un lien. Ensuite, je continuerai à mettre à l’heure normale du cours des textes, des articles, des liens, toujours en rapport avec l’histoire, mais pas nécessairement en lien avec la thématique exacte de mon cours. Je conserve aussi 1h d’échange par chat ou par classe virtuelle par semaine pour continuer à apprendre. Ceux qui peuvent et veulent me renvoient les devoirs initialement prévus : je n’en tiendrai compte dans l’évaluation que si cela leur est favorable. Et je vais réfléchir à des modalités d’évaluation raisonnables et justes pour la fin du semestre.

      Il me semble absolument nécessaire de continuer à réfléchir, à lire, à faire preuve d’esprit critique, à échanger des idées et des connaissances avec eux. Mais je ne veux mettre aucun d’eux dans une situation encore plus difficile et stressante ».

      –------

      6° BS – Région Bretagne

      Echange de courriels
      a. Du Département Suptice

      Chers collègues,
      En cette période de crise sanitaire et de confinement, nous sommes tous mobilisés pour assurer une continuité pédagogique auprès de l’ensemble de nos étudiants, notamment par le recours aux outils et aux ressources d’enseignement en ligne. Dans ce contexte, une attention particulière doit être apportée à nos étudiants en situation de handicap.
      C’est pourquoi nous nous faisons le relais des recommandations proposées par Monsieur XXX , enseignant et référent pédagogique Handicap, en matière de consignes pour la création de supports en ligne respectueux des règles d’accessibilité.
      Nous vous invitons à en prendre connaissance et à les appliquer lors de la création de vos supports de cours.
      Restant à votre écoute,
      Bien cordialement
      b. Message de la Présidence

      Chères et chers collègues,
      Dans ce contexte difficile de crise sanitaire et de confinement, la DGESIP met à notre disposition des fiches relatives à la continuité des activités que vous pouvez consulter ici. Elles traitent d’un sujet par fiche et sont mises à jour au fil de l’eau.
      En parallèle, notre ministre a rappelé cette semaine la nécessité de veiller à ce qu’aucun étudiant ne se retrouve complètement isolé, même s’il est connecté, suite aux mesures de confinement. Il est important de dispenser des informations régulièrement dans toutes nos formations et, dans la mesure du possible, de proposer des temps d’interaction avec les étudiants pendant ou en marge de nos enseignements (mails, classes virtuelles, forum moodle, etc.). De même, un petit nombre d’entre nous peut se sentir isolé, il nous appartient, en particulier lorsque nous connaissons les collègues, de maintenir le contact.
      Comme précisé précédemment, la plus grande liberté est laissée aux équipes pédagogiques pour mettre en place les adaptations les plus appropriées à chaque enseignement et aux besoins de chaque population d’étudiants. Le SUPTICE est mobilisé pour vous conseiller et, si vous le souhaitez, vous former et vous accompagner. La Direction de la Communication met à jour quotidiennement des pages d’information pour tous, personnels et étudiants avec des Foires aux Questions. La possibilité d’organiser une banque de prêt de matériel informatique est à l’étude à la DFVU pour les étudiants qui en sont dépourvus et qui se font connaitre auprès de vous. Pour eux également, des pistes pour participer au financement de forfaits internet adéquats sont examinées. Le pôle handicap est également mobilisé.
      Nous remercions les composantes pour le recensement en cours afin d’identifier les étudiants qui ont besoin de matériel, d’aide ou d’accompagnement spécifique durant cette période. Rester attentif au suivi de nos stagiaires sur le territoire, comme à l’étranger, est une autre priorité et vous êtes nombreux à vous impliquer aux cotés des services, dont la DARI, le SFCA et le SOIE. Avec l’aide de la Fondation de l’Université, un fonds d’aide d’urgence pour les étudiants en mobilité en difficulté à l’étranger en vue de leur rapatriement, est aussi lancé. Le soutien s’organise et se met en place progressivement au fil des jours, à tous les niveaux. Merci à tous pour votre implication.Concernant la continuité pédagogique et l’évolution des modalités des enseignements et des formations, les modifications que vous retiendrez peuvent porter sur les calendriers, les contenus et activités pédagogiques et/ou les MCCC des formations. Il convient de systématiquement les faire valider par les responsables de parcours et de mention, en lien avec les directions de composante. La cohérence et la coordination au sein de nos mentions de diplômes demeurent indispensables, tout comme les échanges préalables sont nécessaires au sein des équipes sur les choix que chacun(e) peut être amené(e) à proposer. Partager l’information et échanger, en toutes situations y compris celle-ci, contribue à la qualité de nos formations.
      Je vous remercie au nom des étudiants pour votre engagement et je vous souhaite de vivre du mieux possible cette période.
      Bien à vous, PRESIDENCE
      c. BS, enseignante-chercheuse

      Bonsoir … , chers collègues,

      Je ne supporte plus ces injonctions impossibles à mettre en œuvre pour nos étudiant.es. Merci de m’indiquer quel est le papier à renvoyer (ASA1 pour dire que je garde mes enfants et ne peux pas travailler. Mon directeur d’UFR est super et soutient tous les personnels de l’UFR. J’essaie de mon côté tant bien que mal de maintenir un lien avec les étudiant·es connecté·es, et notre université nous parle jour après jour de continuité pédagogique. C’est une pression intolérable.

      Je n’ai absolument pas le temps ni les compétences pour faire dans l’urgence depuis mon domicile des supports de cours à distance adaptés aux étudiant.es en situation de handicap.
      De nombreux étudiants confinés seuls, y compris non handicapés, m’ont dit déprimer et ne pas réussir à travailler. Je suis plus inquiète pour leur santé mentale et physique que leurs talents mathématiques présents futurs.
      De nombreux étudiants ne répondent pas aux sollicitations électroniques, je n’ai pas de nouvelles, je ne sais pas où ni comment ils sont confinés.
      Je n’ai pas envie de culpabiliser de ne pas réussir à tout gérer : les devoirs des enfants, les courses et repas, et les étudiants.
      Je n’ai pas une situation plus compliquée que d’autres collègues, et j’imagine que dans le confinement, la plupart des collègues sont dans l’impossibilité matérielle, psychologique ou temporelle de répondre à de telles injonctions, si tant est qu’ils sachent rédiger leurs polys en braille.

      Par conséquent, je souhaite être sous le régime de l’ASA pour garde d’enfant de moins de 16 ans plutôt que de télétravail, et si possible rétroactivement depuis lundi 16 mars, date à laquelle l’école des enfants s’est arrêtée.
      Cordialement, BS

      –--------

      Véronique Beaulande- Université Grenoble Alpes

      https://academia.hypotheses.org/21372

    • Ma vie de prof mise a distance : première semaine

      Jean-Michel #Blanquer a assuré la semaine dernière que tout était prêt pour l’enseignement à distance, mais les enseignants n’en avaient même pas été informés. Nous ne devions donc pas compter dans ce dispositif ? Ou bien nous n’étions attendus que comme « petites mains » de son plan génial ? Malaise.

      Travail du weekend : habituellement, je me limite au maximum sur le travail du weekend, pour… avoir une vie de famille, et essayer d’avoir un temps où je décroche du travail*.

      Malgré tout, comme beaucoup de mes collègues, je travaille le weekend. Et là, il y a une urgence exceptionnelle.

      Samedi 14 : J’ai contacté mes collègues de philosophie pour voir comment nous pourrions mutualiser notre travail pour les semaines à venir. Rédaction et lecture de plusieurs mails à différents moments (samedi après-midi, dimanche après-midi). Deux de mes collègues ont de jeunes enfants qu’elles devront garder à la maison, et m’informent qu’elles ne pourront assurer que le minimum.

      Nous ne savons pas encore si nous aurons l’obligation de nous rendre dans nos établissements sur nos horaires de cours habituels. Cet ordre a été donné par certains recteurs. Ce serait absurde, car nous n’avons pas de bureaux, pas de livres, parfois même pas d’ordinateurs pour travailler sur place, évidemment pas de conditions de sécurité sanitaire minimales, mais cela permettrait à notre institution de nous avoir à l’œil comme des petits moutons, dont on pourrait s’assurer qu’ils ne prennent pas du bon temps pendant la fermeture des établissements scolaires…. Cela semble être la première crainte, la première précaution que notre administration souhaite prendre, j’allais dire « à notre égard », mais c’est plutôt « à notre encontre ». Certains proviseurs envisagent même d’organiser des réunions toute la semaine, et tentent d’intimider et d’humilier les professeurs qui protestent au cours du weekend contre ces mesures.

      Échange mail avec la Cheffe d’Etablissement, pour l’informer de mon inquiétude pour les élèves qui n’auront pas accès à Internet (pas d’ordinateur individuel, pas de connexion de qualité suffisante), ou qui devront faire face à d’autres urgences.

      Retour de mail à tous les enseignants dans l’après-midi, qui nous informe qu’il sera de notre responsabilité d’identifier les élèves qui ne se connecteraient pas. Voilà, la responsabilité est pour nous.

      Dimanche : Je me lève à 7h00 du matin, car je suis prise d’une inspiration subite, et j’écris une longue lettre à mes élèves, avec lesquels je n’ai pas pu communiquer de vive voix après l’annonce de la fermeture des établissements scolaires, pour les inviter, en cas de difficultés de connexion, à lire de beaux livres, de ces livres capables de porter et ouvrir le monde. Le meilleur enseignement à distance ! Ce qui ne signifie pas que nous n’avons pas besoin de passeurs ou de passeuses pour accéder aux grands textes. (J’ai soigneusement travaillé la rédaction de ma lettre, car je compte sur le travail de l’écriture pour compenser, un peu, la non présence en chair et en os !).

      Je prends mon petit déjeuner en même temps que j’écris, pour ne pas perdre l’inspiration.

      Envoi de ma lettre vers 9h00. J’espère que mes élèves la trouveront en ouvrant l’ENT lundi. Qu’ils aient au moins ça.

      Je vais voter.

      Visite à ma mère qui a quatre-vingts ans. Dernière visite avant combien de temps ? J’ai mal dans les poumons. La perspective de mourir, peut-être dans les deux ou trois semaines à venir, m’a motivée pour arrêter de fumer. Ma mère, en pleine forme, me dit qu’elle a bien vécu sa vie, et m’invite à ne pas m’inquiéter pour elle.

      18h00 : je réponds à une élève qui a déjà lu ma lettre, et me demande des précisions pour se procurer un livre.

      LUNDI :

      Dès 8h00 (mon horaire de début de travail habituel le lundi) : recherche de ce qui est immédiatement disponible (cours déjà prêts et tapés) pour pouvoir les distribuer au plus vite aux élèves.

      9h30 : rédaction de petites fiches de programme de travail pour les élèves que j’ai habituellement en classe les mardi et mercredi.

      9h45 : première tentative de connexion sur l’ENT (Environnement Numérique de Travail) : inaccessible.

      Recherche de textes, mise sous format PDF de mes cours et de documents.

      Re tentative de connexion à l’ENT : inaccessible.

      J’annonce à mon collègue de philosophie que je ne serai vraisemblablement pas disponible pour la réunion téléphonique que j’avais initialement proposée à 14h00.

      13h00 : Re-tentative de connexion à l’ENT, qui plante. Début d’inquiétude : comment faire pour communiquer avec les élèves ? Recherche de solutions : créer des mailing listes ? Communication par liste de diffusion avec les collègues qui constatent le même plantage de l’ENT, et cherchent et proposent des solutions d’accès, qui ne fonctionnent que très ponctuellement.

      Je commence à organiser le lockdown avec mes fils : lequel ira chez moi, lequel ira chez leur père. Préparation des valises et organisation de l’échange de domicile. Appel à ma maman, à ma sœur, pour lesquelles je suis inquiète, car elles seront seules chez elles.

      14h30 : re-tentative de connexion à l’ENT. Sans succès.

      15h00 : préparation du travail pour les classes que j’ai jeudi. Rédaction de contenu de cours, impression de documents, rédaction d’exercices.

      16h30 : échanges avec collègue de philo sur les cours déjà prêts que nous pouvons partager, et ceux que nous aurions à rédiger.

      J’ai renoncé à l’idée de proposer des petits exercices sur les outils de l’ENT, puisque celui-ci n’est pas accessible.

      Pas d’accès sur le site du CNED, pas de possibilité de tester le dispositif de « classe à la maison ».

      Echanges avec les collègues et avec la Cheffe d’Etablissement, pour voir si nous pouvons créer des mailing listes. La CDE m’invite à patienter, « les choses vont se mettre en place ».

      18h00 : Je vais chercher mon fils et ses valises chez son père. Je dis au-revoir à mes deux autres fils. Je ne sais pas quand je vais les revoir.

      20h00 : tentative de connexion à l’ENT.

      22h30 : je reçois un mail, sur une adresse mail de secours (hors ENT) que j’ai pu communiquer à quelques élèves, de la part d’un élève consciencieux, lequel est très inquiet, car une consigne d’un exercice donné par une collègue de physique ne lui parait pas complète. Je pressens qu’à 22h30, dans les premiers temps de la fermeture des établissements scolaires, et juste avant le lockdown, son inquiétude n’est pas que scolaire. Je transfère sa question à ma collègue. Au passage, il me souhaite « bonne nuit » : c’est mignon, ça ne m’était jamais arrivé, qu’un élève me souhaite « bonne nuit » ; je lui souhaite « bonne nuit » à mon tour. Il me pose d’autres questions, mais je cesse de lui répondre, car je suis… au lit !

      MARDI :

      Je me lève à 6h00. Angoissée ? oui.

      J’en profite pour tenter de me connecter à l’ENT. Je parviens à envoyer un mail.

      Petit déjeuner et douche : je ne sais plus si c’est sur mon temps de travail ou pas : on en est où ?

      Tentative de création et d’envoi sur une mailing liste : ça ne marche pas correctement. Protestation inquiète ou amusée d’élèves, sur l’adresse mail de secours. Je leur réponds. Echanges avec les collègues sur le plantage de l’ENT, sur les possibilités de prendre d’autres chemins de communication avec les élèves. Est-ce légal, est-ce une bonne chose pour eux et pour nous ? Débat sur fond de désarroi et sentiment d’être abandonnés par notre institution. Question à la Cheffe d’Etablissement : je lui demande des instructions claires sur ce point. Elle m’invite à patienter. Certains collègues sont parvenus à créer eux-mêmes des moyens de communication avec les élèves, mais avouent déjà craquer, car ils/elles travaillent 12h00 par jour depuis le weekend.

      L’institution semble s’inquiéter grandement de la manière de nous surveiller, de disposer de nous pour toute nouvelle mission, par exemple, contacter les familles avec nos téléphones personnels, faire des photocopies sur nos imprimantes, mais pas de nous informer ni de nous donner les outils de travail qui nous sont indispensables. Mais qui, parmi nos « managers », nos « super managers », sait ce que c’est qu’un travail de prof ? Aucun. De là à penser que ce que l’on ignore n’existe pas : erreur classique, basique. Et alors, comment exploiter, diriger ce dont on ignore tout, si ce n’est en compartimentant en petites cases méthodiquement, en contrôlant on ne sait pas trop quoi, en mettant tout en pièces, personnes et savoirs ?

      Beaucoup de collègues sont angoissés, car ils/elles ne veulent pas abandonner leurs élèves les plus fragiles : les élèves qui n’auront pas à leur domicile des conditions correctes d’études.

      Rédaction de fiches d’exercices et de contenus. Proposition à mon collègue de philosophie de contenus que je peux mettre à sa disposition, et proposition d’un nouveau programme de travail pour nous, si il est possible de le tenir !

      J’ai des copies en retard : je culpabilise.

      J’ai des bulletins à remplir : pas d’accès à l’ENT.

      Après-midi : je ne sais plus quelle heure, tout se mélange.

      J’ai enfin accès à l’ENT, je poste le maximum d’infos et contenus que je peux à destination des élèves, dans leurs casiers, le cahier de texte, en documents partagés. Pas d’accès à la messagerie. Pas de possibilité de remplir les bulletins. Les élèves n’ont pas accès à l’ENT.

      Echange par mail avec les professeures principales de mes classes, sur leurs adresses personnelles, car pas d’accès à la messagerie de l’ENT. Je leur transmets un scan de mes appréciations et avis sur les élèves pour les prochains conseils de classe.

      J’informe les collègues, avec lesquels je suis en contact, de l’accès possible à l’ENT pour les professeurs.

      Je prends la résolution de respecter le temps de travail pour lequel je suis rémunérée= 80%. En gros, soit quatre jours pleins, soit trois jours pleins plus deux demi-journées.

      Je m’occupe de mon fils qui a un gros coup de déprime ce soir.

      MERCREDI :

      Réveil 6h00 et gros coup de déprime pour moi aussi. Déjà ? Comment est-ce que je vais tenir ? Comment est-ce que l’on va tenir ?

      Échange avec des élèves qui me demandent quel est le travail à faire, sur mails persos, car ils ont difficilement accès à l’ENT ou pas du tout. Je les rassure : je n’exige pas le rendu du travail immédiatement, et je leur donne jusqu’à la fin de la semaine, pour rendre ce travail de préférence, sur l’ENT.

      Rédaction d’un cours pour les élèves de TS pour la semaine prochaine, sur les Propos sur les pouvoirs d’Alain.

      Après-midi : il fait beau, je jardine, et j’alterne la rédaction de mon cours et le jardinage. Le jardinage me fait du bien : être dehors, travailler avec son corps, toucher les plantes et la terre, travailler à la beauté.

      Une élève, inquiète, m’écrit pour me dire que certains des élèves de la classe ont pu avoir accès à l’ENT, mais pas elle. Elle me demande si je peux lui proposer une autre solution. Je lui réponds que non, pour le moment.

      Un élève se plaint de ce que j’ai envoyé trop de messages, et dans des dossiers différents : il ne s’y retrouve plus.

      Un élève n’a pas compris la consigne. En classe, on répète les consignes plusieurs fois, on les écrit au tableau, dans le cahier, on les reformule, on commente. Pas question de jouer à cela par mail, sinon les élèves vont être perdus. Je laisse tomber.

      21h00 : mon compagnon, qui est prof aussi, m’indique qu’il a pu enfin avoir accès à la classe virtuelle du CNED. Je me connecte, je crée des groupes, je poste du contenu : celui que j’ai déjà posté à destination de mes élèves sur l’ENT.

      C’est peut-être la solution pour mon élève qui n’y a pas accès. Je me réjouis d’avoir trouvé la solution, et de pouvoir la lui proposer dès demain matin.

      21h30 : réception de deux photos : un élève à photographié son travail manuscrit. Il a pris soin de bien calligraphier. Je désespère : comment vais-je pouvoir lire et corriger cela ? Comment vais-je m’en sortir, si mes 130 élèves m’envoient, par différents canaux, plusieurs pages manuscrites, copiées sous différents formats ? Comment vais-je pouvoir m’y retrouver : les classer, les lire et les corriger, les rendre ?

      22h00 : j’arrête pour ce soir.

      22h45 : Je supplie mon compagnon, qui répond encore à des mails d’élèves, d’arrêter de travailler. Je suis déjà au lit avec un livre, j’ai hésité à lire le livre de philosophie que j’étudie avec mes élèves, mais finalement, j’ai choisi un roman. Je suis incapable de lire.

      JEUDI :

      Réveil à 6h20 : je progresse, je dors un peu mieux…

      Mon compagnon se lève, prend un petit déjeuner vite fait, et s’installe pour corriger des copies. Je le supplie de définir des horaires de travail.

      Il me propose de venir voir son travail sur la classe en ligne. Je proteste : il est 8h00, je ne suis pas encore au « bureau ».

      8h30 : j’ouvre ma classe virtuelle du CNED : tout ce que j’ai créé la veille, les groupes, et les documents que j’au cru pouvoir mettre à la disposition des élèves a disparu… Que de temps perdu !

      Mon compagnon est en classe virtuelle avec ses élèves, de 9h00 à 10h30. Je regarde comment cela fonctionne.

      Échange de mails pour prendre des nouvelles de collègues que je sais isolés.

      Recherche et rédaction de cours à partager avec mes collègues de philosophie.

      Récréation : je jardine une demie heure. En rentrant dans la maison, je m’arrête devant la porte d’entrée. C’est le choc :

      L’HORREUR DE LA CLÔTURE, LA TERREUR DE L’ENFERMEMENT !

      Je respire. Je bois un café.

      Réponse à quelques mails d’élèves, paumés, qui n’ont pas accès aux documents, ne parviennent pas à les ouvrir. Je reçois par mail un exercice d’élève enregistré dans un format que je ne parviens pas à ouvrir.

      C’est vrai que leur demander un exercice écrit tapé au clavier est une difficulté supplémentaire pour eux. Très difficile pour moi de corriger des exercices rendus manuscrits, très difficile pour eux de composer des écrits sur clavier. Comment faire ?

      Échanges avec des collègues sur la situation.

      14h00 : Je prépare la séance avec les élèves de première prévue demain, sur la révolution astronomique : visionnage et sélection de vidéos (trois heures), rédaction de questions pour guider leur activité (une heure trente).

      J’envisage un rendez-vous avec eux en classe virtuelle via le CNED. Problème : comment faire un cours de philosophie à distance ? Le cours de philosophie suppose un temps de travail et de réflexion des élèves, qu’ils peuvent faire en « autonomie guidée » (les vidéos avec les questions à préparer), mais il suppose aussi un dialogue avec la classe. Cela peut-il fonctionner en classe virtuelle ? Que faire si je n’ai aucune réaction en face de moi ? Vais-je discourir toute seule devant mon écran ? Cela n’a aucun sens.

      Comment lire avec eux un texte ? Comment construire avec eux un problème ? Comment faire sans les visages ?

      Je me propose de donner tout de même rendez-vous aux élèves pour tester le dispositif demain, et pouvoir les écouter et répondre à leurs questions.

      Test du dispositif classe virtuelle chez moi (une heure) : problème de son. Je ne peux ni recevoir, ni émettre.

      J’arrête à 19h00 : ma séquence pour demain n’est pas prête. Je n’ai pas non plus pu adapter le cours que je me proposai d’envoyer à mon collègue : ce sera pour vendredi.

      Copies non corrigées : je culpabilise.

      Bulletins pas encore remplis : je culpabilise.

      Je consulte la messagerie professionnelle.

      Pas de retours d’exercices d’élèves sur l’ENT.

      22h05 : mail d’un élève qui m’annonce qu’il m’envoie son exercice. Pas de pièce jointe.

      22h06 : la pièce jointe.

      22h30 : j’essaie de lire, je n’y arrive pas. Trop de tension, c’est la surchauffe.

      Le bruit commence à courir que l’année scolaire pourrait être prolongée, le bac reporté en juillet…

      VENDREDI :

      Nouveau visionnage des vidéos que j’ai sélectionnées pour les élèves de première. Le deuxième documentaire que j’avais sélectionné n’est plus accessible : il me faut en choisir un autre.

      Vont-ils pouvoir consulter l’ENT, lire les vidéos ? Seront-ils au rendez-vous tout à l’heure ? Aurais-je du son ?

      Ou bien : est-ce que j’aurais travaillé plusieurs heures pour rien ?

      Invitation lancée à mes collègues pour une réunion syndicale, par téléphone, lundi prochain à 16h30 : il faut que l’on puisse réfléchir ensemble à ce que l’on est en train de faire, à ce que l’on nous demande, aux limites que nous rencontrons, et à celles que nous devons poser. Reprendre une réflexion collective et politique.

      Je reçois encore quelques exercices d’élèves, par des canaux différents. Les élèves n’ont pas respecté la consigne de les envoyer sur l’ENT. Pas pu ? Heureusement qu’il n’y en a pas trop : il me faudra vite les classer.

      Une collègue a ouvert un forum de discussion à destination de ses élèves sur l’ENT. Je fais de même pour trois de mes classes, afin de pouvoir répondre à leurs questions et être informée de leurs problèmes matériels. Les questions arrivent tout au long de la journée, sur tous les sujets, et pas seulement celui de la philosophie…

      Des collègues témoignent sur les réseaux sociaux de chefs d’établissements qui leur demandent des preuves de leur travail : horaires de connexion, échanges par mail, par téléphone avec les élèves, fiches de préparation. Ça y est, l’institution retrouve de sa vigueur, la grande surveillance va tenter de se mettre en place. L’institution n’est pas bienveillante. L’institution n’a aucune notion de la confiance. L’institution est aveugle et méfiante.

      13h30. Je m’installe dans ma classe virtuelle. Déconnexion toutes les quarante secondes. Je revisionne une dernière fois les vidéos. Je télécharge les documents que je souhaite partager avec la classe.

      Déconnexion.

      14h30 : Top départ : c’est l’heure du rendez-vous avec les élèves. J’ai le trac.

      J’essaie d’ouvrir ma session, et je reçois le message selon lequel je suis déjà connectée.

      Je réessaie. Dix fois. Je suis déconnectée. Je suis déjà connectée. Déconnectée. Je redémarre l’ordinateur : je suis déjà connectée.

      A 14h45, je reçois un mail d’une élève sur l’adresse mail de secours. Elle ne parvient pas à se connecter. Elle reçoit un message qui lui indique qu’elle est déjà connectée. Nous tournons en rond. Nous finissons par comprendre que nous avons le même lien, et que personne ne peut se connecter…

      Je vérifie : sur mon bloc note, j’ai effectivement deux fois le même lien. Je recherche le mail de confirmation d’inscription reçu du CNED : la messagerie académique ne fonctionne pas.

      Et puis tout d’un coup j’ai mal au dos. Grosse montée d’angoisse. Je devrais sortir, mais, dehors, c’est tellement désespérant.

      J’imagine une « manifestation fantôme » : nous irions à notre tour déposer nos pancartes, nos gilets jaunes, sur une place, au pied des arbres. Demain ?

      https://blogs.mediapart.fr/arielle-kies/blog/200320/ma-vie-de-prof-mise-distance-premiere-semaine

    • Bonjour

      En tant qu’enseignant-chercheur, j’approuve sans réserve la lettre de l’enseignante postée plus haut sur ses interrogations à propos de ce qui se passe du côté des étudiant⋅e⋅s. Du côté des enfants je n’ai pas de souci particulier, j’ai mon fils à la maison, mais c’est un « grand » de terminale, il ne réclame pas une attention constante.

      Pour en revenir au chapitre des étudiant⋅e⋅s, il y a plusieurs choses qui me chiffonnent. J’ai monté dans l’urgence tout un tas de dispositifs pour essayer de continuer à faire mes TP (j’enseigne l’info en IUT, et en ce moment j’ai une longue période de TPs, en programmation, et en administration système, pour ceux qui connaissent). Je passe sur les aspects techniques qui sont hors-sujet dans cette discussion, pour perler du lien aux étudiant⋅e⋅s.

      Le premier jour (mercredi dernier donc) j’ai du avoir 95% de taux de présence et beaucoup d’interaction. En gros : ils ou elles accédaient à distance à une de nos salles à l’université, ce qui était déjà tout un souk, tout en pouvant interagir avec moi par chat, et quand je voyais qu’un problème ou une question était récurrente, je faisais un petit billet sur un forum dédié pour que ça serve aux suivants. 4 groupes dans la journée, 2h chacun. À la fin j’étais nerveusement épuisé, vidé.

      Jeudi j’ai du avoir a peu près le même taux de présence, peut-être un peu moins (même matière, même nombre de groupes). Même état d’épuisement à la fin.

      Vendredi c’était programmation, 4 groupes toujours, elles ou ils bossent chez eux, interagissent par chat (+forum là aussi pour globaliser et pérenniser les retours), me déposent des travaux à évaluer sur un ensemble de points de dépôt correspondant à des étapes dans le projet qu’ils doivent réaliser. 50% de présence... J’appréhende la semaine prochaine, et j’ai pas envie de jouer au flic.

      Bon, tout ça c’est essentiellement du factuel. Ce que je retire de tout ça maintenant : Le « groupe de tête », celles et ceux qui sont toujours en avance sur les autres, s’accommode fort bien de ce mode de fonctionnement. Ils ou elles adorent même. De toutes façon celles ou ceux-là, je pense que tu peux avoir n’importe quelle attitude pédagogique, ils ou elles sont quasi autonomes dans l’acquisition des connaissances. Je dis bien quasi, parce que je sais aussi le nombre de trucs qu’ils ou elles croient savoir et que je corrige mine de rien.

      Vient la masse de celles et ceux pour qui ça se passe pas trop mal, à des degrés divers. Ils avancent à peu près correctement. C’est plus compliqué avec celles et ceux-ci, par manque d’interaction, c’est pas immédiat le chat, et puis ça permet pas tout, et puis je peux pas d’un coup attraper un feutre pour aller gribouiller un truc au tableau. Voilà c’est ça : je ne peux pas alterner mode individuel et mode groupe comme je veux. C’est pas possible. Donc je répète sans arrêt les conseils, je fais les mêmes réponses à x étudiants. C’est extrêmement usant. J’ai beau essayer d’amortir ça en me servant du forum pour faire remonter des informations synthétisées à tou⋅te⋅s, c’est usant.

      Et puis il y a celles et ceux qui s’accrochent mais ont de réelles difficultés pour plein de raisons, personnelles (problèmes de communication, problèmes familiaux...). Là c’est terrible, parce-que tu les sens partir. Tu les sens glisser alors que quand tu les as devant toi tu peux les maintenir à flot, parce que tu es présent, tu as un lien avec eux et tu peux les encourager, d’un mot, d’un geste, d’un regard, de petits riens de la communication qui changent absolument tout. Et là je les vois s’éloigner, et je crains la semaine qui vient, en me demandant combien je vais en perdre d’autres.

      Je pourrais aussi parler de l’étudiant qui m’écris pour me dire qu’il est pompier volontaire et donc réquisitionné, et donc qu’il ne pourra pas suivre mes TP en ligne ; celui qui bosse dans une supérette et qui a aussi été réquisitionné (je vous laisse apprécier la différence entre ces deux réquisitions... le deuxième j’ai été très tenté de lui répondre qu’il devrait foutre son poing dans la gueule de son patron).

      Le vendredi d’avant le confinement, lors de la dernière journée de TP, j’ai demandé aux étudiant⋅e⋅s qui n’auraient pas accès à un ordinateur de tout suite prendre contact avec moi. Je n’ai pas eu de retour, est-ce que ça veut dire qu’il n’y en a pas, je ne sais pas.

      Ce que je sais c’est qu’au final cette histoire de continuité pédagogique c’est la continuité du hamster dans sa roue : on essaie de se persuader qu’on va continuer « presque comme avant », mais en réalité on fait du tri social : les plus faibles vont dégager, sauf que c’est rendu invisible par l’interface technologique. Mais ça va tout à fait dans le sens de l’université voulue par les peigne-culs qui nous gouvernent : le high-tech pour les classes aisées, la caisse du supermarché pour les autres. Le tri social par l’accès aux technologies, et le recul de la réflexion sur le savoir : tournez petits hamsters.

      Bon voilà. En relisant je me dis que c’est un peu le bordel ce texte, je crois que j’avais besoin de dire tout ça, mais maintenant il faudrait faire le tri et revoir le tout sous plusieurs angles.

      Si vous aussi vous êtes confrontés au télé-enseignement j’aimerais bien avoir votre avis et le récit de votre vécu.

    • A la «continuité», le CDNT répond «solidarité» !

      En pleine crise sanitaire, alors que nous devrions tout faire pour faciliter la vie des plus vulnérables d’entre nous, l’injonction à la "continuité" pédagogique tient de l’acharnement. Or, nous ne pouvons accepter de sacrifier nos conditions de travail et les conditions de vie de nos étudiant.e.s pour satisfaire à la seule rhétorique guerrière de nos pouvoirs publics.

      De toute évidence, la pandémie de Covid-19 est une crise sanitaire sans précédent qui exige des mesures économiques et sociales exceptionnelles, à l’instar de ces mesures de confinement que nous nous devons de respecter dans l’intérêt de tou.te.s. Cependant, si la situation est exceptionnelle, nous ne pouvons tolérer que des décisions puissent être prises sans respect du cadre démocratique et du dialogue social. Ainsi, si nous souhaitons bien évidemment que ce temps de confinement soit dédié au partage et à la solidarité, l’injonction à la « continuité pédagogique » qui nous est faite par le gouvernement, et relayée localement par la présidence de notre établissement et nos directions de composantes nous semble complètement déconnectée de la réalité présente et des enjeux actuels. Elle n’est ni réalisable, ni souhaitable, tout en n’ayant pas fait l’objet d’une réelle consultation préalable des équipes pédagogiques et administratives et de leurs organisations représentatives.

      Déconnectée, tout d’abord, parce qu’au moment où nous devons organiser localement de nouvelles solidarités pour faire face au défi posé par le Covid-19 (pour nos familles, pour nos proches, pour nos voisin.e.s, et notamment pour les plus vulnérables d’entre elleux), le maintien d’une activité d’enseignement à distance n’est pas une priorité. Nous ne considérons pas l’enseignement et la recherche comme des activités non-essentielles ; au contraire, nous nous battons depuis des années pour que celles-ci puissent être exercées dans des conditions dignes, et puissent occuper une place d’autant plus importante dans notre société. Mais s’acharner à vouloir « enseigner » alors que nos étudiant.e.s et nous-mêmes avons certainement d’autres priorités tiendrait, pour reprendre ce terme à un camarade strasbourgeois syndiqué au SNESUP, de « l’indécence »[1].

      Irréalisable, ensuite, parce que nous ne disposons pas des moyens adéquats pour maintenir notre activité là où personnels et étudiant.e.s sont inégalement équipé.e.s et disponibles pour enseigner et apprendre. Qu’en est-il de la fracture numérique, là où nous savons qu’une part non-négligeable de nos étudiant.e.s, parmi les plus précaires, ne sont pas équipé.e.s d’ordinateurs personnels à domicile ? Qu’en est-il de la qualité du suivi, quand la principale alternative semble être la seule mise en ligne de nos cours sur une plateforme numérique (ce qui pose des problèmes de propriété intellectuelle au demeurant) ? Qu’en est-il de la qualité du travail, quand nous devons parfois nous occuper de nos enfants ou des personnes les plus vulnérables de notre entourage ?

      Et si cette « continuité pédagogique » n’est pas souhaitable, c’est parce qu’elle s’inscrit en faux avec tout ce pour quoi nous nous battons afin d’améliorer nos conditions de travail et d’étude dans l’ESR. Elle est à la fois un dévoiement du sens de notre métier, qui est un métier de contact et d’accompagnement qui ne saurait être réduit à la seule production de contenus, et une attaque contre nos conditions de travail, en nous imposant une organisation du travail à laquelle nous n’avons pas consentie et qui est inadaptée aux enjeux réels de l’Université.

      Signalons par ailleurs que la dématérialisation de l’enseignement est l’un des objectifs des réformes successives que l’université publique subit depuis plusieurs années. Montrer que notre métier est « dématérialisable », c’est aussi accepter les suppressions de postes que nous connaissons déjà et que nous connaîtrons encore avec cette gestion néo-libérale de l’ESR.

      Nous continuerons à être en contact avec nos étudiant.e.s. Mais si nous le faisons, c’est pour construire de nouvelles solidarités à un moment où nous en avons tou.te.s particulièrement besoin. Nous continuerons à construire l’université publique que nous désirons : une université ouverte et démocratique. Mais nous refusons d’être les promoteur.ices d’une université marchande réduite à la seule production industrielle de connaissances scientifiques. Nous refusons de sacrifier nos existences et celles de nos étudiant.e.s avec pour seule finalité celle de continuer pour continuer. Nous refusons enfin de fermer les yeux sur les profondes inégalités qui existent au sein du corps étudiant et que nous ne ferons qu’aggraver en défendant cette forme d’enseignement à distance : si nous devions défendre l’enseignement à distance, ce serait sous la forme d’un suivi particulier, notamment à destination des personnes qui ne peuvent se rendre à l’Université, mais celui-ci nécessite des moyens dont nous ne disposons pas en l’état.

      En somme, la crise sanitaire actuelle, bien loin de suspendre les enjeux politiques et sociaux face auxquels nous nous engageons depuis plusieurs années, et en particulier depuis le mois de novembre, les exacerbe. Cette situation, d’ores et déjà dénoncée par de nombreux collectifs étudiants, n’est pas digne de notre institution.

      Les inégalités sociales et la précarité étudiante et enseignante continuent d’être pensées "au cas par cas" alors qu’elle constitue une problématique sociale, structurelle que l’ESR semble vouloir continuer d’ignorer. Les réformes en cours, bien que "suspendues" ou "reportées" présentent toujours un danger pour l’avenir de nos retraites, de nos parcours professionnels, et pour l’enseignement et la recherche. Par conséquent, la rétention des notes engagée au premier semestre pour toutes ces raisons reste d’actualité. Nous ne nous "encombrerons pas des casseroles" de celleux qui considèrent à la fois qu’il faut continuer le travail pédagogique et clôturer les luttes engagées jusque-là. Si besoin, nous continuerons de communiquer ces notes aux étudiant.e.s qui en font la demande et nous pourrons faire des attestations au cas par cas si celles-ci sont nécessaires dans le cadre de candidatures à des formations ou de démarches administratives.

      Pour terminer, nous serons vigilant.e.s. à ce que les personnels les plus précaires, les personnels vacataires, soient bel et bien rémunéré.e.s pendant cette période de confinement. Nous demandons à ce titre le versement rapide de leurs salaires dus et que la mensualisation soit effective et scrupuleusement respectée en cette période où ielles en ont plus que besoin, ainsi qu’à l’avenir. Nous serons également vigilant.e.s à ce que cette période ne soit pas l’occasion pour certain.e.s de sanctionner et de contrôler d’autant plus nos collègues. Nous appelons par ailleurs à l’annulation des examens et autres modalités d’évaluation au profit d’une validation du semestre avec une note unique (18/20) pour tou.te.s, ceci en considérant l’impossibilité de garantir des conditions d’examen égalitaires. Enfin, nous souhaitons faire part de notre solidarité à celleux qui luttent au quotidien contre cette crise sanitaire, les personnels de santé, mais aussi les personnels d’entretien, de la distribution, et tous.tes celles.eux qui aident, par leur travail trop souvent invisibilisé, à faire face à cette crise dans les meilleures conditions.

      Force à elles et eux au cours des prochaines semaines !

      Le collectif des doctorant.e.s et non-titulaires de Lyon 2

      https://blogs.mediapart.fr/enseignant-vacataire-en-greve-lyon-2/blog/200320/la-continuite-le-cdnt-repond-solidarite

    • « Restez chez vous » mais « continuez l’activité » : trois temps d’une lecture syndicale pour un paradoxe de crises

      Dans le cadre de la pandémie du COVID-19, nous ne pouvons que saluer la décision du gouvernement de protéger les étudiants et les personnels de l’université, en privilégiant le télétravail pour le plus grand nombre et en accordant des autorisations spéciales d’absences aux personnels lorsque le télétravail n’est pas possible. Nous soutenons de tout cœur les personnels amenés à continuer à se rendre au travail, pour assurer les fonctions vitales de notre Université.

      Cependant, les injonctions du gouvernement sont à la fois « restez chez vous » et « continuez l’activité », et ce paradoxe demande réflexion. La vie de notre université doit effectivement continuer, mais la crise et les réponses gouvernementales et locales appellent des actions et des propositions.

      Dans une demande certaine d’unité nationale, les organisations syndicales continuent à avoir des choses à faire et à dire. Le paradoxe des injonctions gouvernementales contradictoires, ancré dans des crises multiples, nous semble appeler trois temps d’une lecture syndicale, pour aujourd’hui, pour hier et pour demain.

      Aujourd’hui, et dans les jours et les semaines à venir, l’heure est à l’action pour organiser la vie de et dans notre université. Nous saluons et appuyons la volonté des équipes de direction de l’Université de fournir une réponse cohérente et précise qui permette à chacun de s’adapter au mieux aux conséquences graves de cette crise. Concrètement, nous sommes engagés dans cette réponse collective, comme tous les membres de notre communauté académique, mais aussi comme élus au CT, au CHSCT, aux conseils centraux, et comme organisation syndicale. Nous avons porté au CT dématérialisé de ce lundi 23 mars à l’UGA et en réunion intersyndicale avec la présidence de Grenoble-INP un certain nombre de questions portant sur les points suivants :

      · Continuité des rémunérations – Nous saluons les engagements pris par l’UGA et de Grenoble-INP pour garantir la continuité des rémunérations, pour les titulaires, les contractuels et les vacataires. Un problème subsiste concernant les gratifications de stages : en effet, les stages en cours peuvent être arrêtés à la demande des structures d’accueil, ce qui suspend de fait le versement des gratifications. Nous demandons que l’établissement mette en place des aides individualisées, comme le prévoit la "FICHE 6 stage" du courrier du ministère du 17 mars 2020 et conformément à l’article L. 821-1, alinéa 2, du Code de l’éducation.

      · Fracture numérique – Des dispositifs sont mis en place à Grenoble pour tenter de venir en aide aux étudiants confinés dans leur famille, en colocation ou dans les résidences universitaires, mais, à notre connaissance, ceux-ci sont disponibles uniquement par internet (pour le moment). Comment aider les étudiants dénués d’accès à l’internet ? (dans leur vie quotidienne et dans le cadre de leurs études). L’enquête de l’UGA a recensé 45 étudiants dénués d’ordinateur pour suivre les cours. L’UGA leur fournira une tablette afin qu’ils puissent travailler. Cependant, ce nombre nous semble sous-estimé, étant donné que le recensement des étudiants n’est pas terminé dans toutes les composantes.
      Cette fracture touche aussi certains personnels qui -même s’ils ont pu bénéficier des mesures facilitant le télétravail mises en place à l’UGA- n’ont pas forcement tous une connexion internet haut débit, une imprimante, etc… Plus globalement, les outils de travail collaboratifs sont saturés (par exemple, ENT, framapad). Comment envisager la « continuité » du travail dans un cadre aussi inégalitaire ? Ne faudrait-il pas nous concentrer sur l’absolu nécessaire, en acceptant pleinement l’idée que nous travaillions en mode « dégradé » ?

      · Conditions de travail des personnels – Les personnels sont invités à continuer leurs activités administratives. Au-delà d’une simple « relocalisation de l’activité » (de l’université vers la maison), il s’agit d’un changement radical de l’environnement de travail, dans lequel les collectifs de travail sont disloqués et les individus se retrouvent bien souvent livrés à eux-mêmes. Comment organiser des réponses collectives, comment bien répartir les situations et la charge de travail ? Et les conditions de sécurité des personnels qui doivent aller travailler à l’UGA, sont-elles suffisantes, adaptées et respectées ?

      · Continuité pédagogique – Les enseignants sont appelés à assurer la « continuité pédagogique ». Mais comment transposer les cours, travaux dirigés et travaux pratiques, initialement élaborés pour du présentiel, en un contenu à distance, avec une situation dégradée sur le plan pédagogique, qui fait fi de la nécessaire interaction collective ? Comment corriger les inégalités d’accès aux enseignements (que crée cette situation de confinement) pour nos étudiants ? Pouvons-nous décemment organiser des examens ou des évaluations dans ces conditions (comme le prévoit le ministère en proposant de recourir à des sociétés privées pour organiser des examens « dématérialisés ») ? Comment empêcher que les étudiants ne se découragent et n’abandonnent leurs études ? Ces questionnements sont tout à fait en phase avec les inquiétudes légitimes de nos étudiants (voir communiqué en pièce jointe) et nous demandons à la présidence d’y répondre.

      En général, nous insistons sur la nécessité d’alléger le programme des UE, sur le besoin de flexibilité des emplois du temps (par exemple, ne pas suivre forcément les calendriers de cours tels que prévus sur ADE avant le confinement), sur l’utilisation de moyens les plus simples et les plus légers possible pour enseigner à distance, et bien sûr nous insistons pour ne pas contrôler l’assiduité des étudiants lorsqu’ils se connectent aux plateformes numériques (et nous nous opposons à tout moyen de pression à destination des étudiants en général). Des dispositions particulières pour les examens devront aussi être trouvées, afin de ne pénaliser aucun·e étudiant·e face à la fracture numérique.

      · Appels à projets – Les chercheurs et enseignants-chercheurs doivent-ils continuer à répondre aux appels à projets (deux appels IDEX pour la mobilité internationale ont été lancés la semaine dernière, ainsi qu’un appel de Grenoble INP sur les dispositifs bourses présidence …) ? Ces appels ne sont-ils pas un peu « décalés » dans le contexte de confinement global de la population ? Plus généralement, faut-il maintenir la compétition entre collègues ou, au contraire, l’université doit-elle assurer la solidarité entre les personnels qui voient leurs recherches arrêtées, avec parfois des répercussions qui s’étaleront sur plusieurs mois, voire quelques années ?

      · Accréditations – Le report d’un mois de la remontée des dossiers HCERES annoncée par le ministère est une bonne nouvelle mais ne suspend pas le travail. Les responsables pédagogiques doivent-ils continuer d’assurer la préparation de la prochaine accréditation (qui plus est anticipée par rapport aux autres établissements de la vague A) ? doivent-ils dès maintenant organiser la rentrée 2020 comme prévu ? Les contenus ne devront-ils pas être adaptés en septembre, pour tenir compte de la période de confinement et de la dégradation des conditions d’études de nos étudiants ? Et vu des nombreux incidents qui émaillent l’usage des environnements numériques de travail dans les établissements du second degré (voir cet article), ne serait-il pas urgent d’obtenir de la ministre la suspension du processus Parcoursup, comme de toutes les procédures d’inscription en ligne (ecandidat, PEF) dont l’accès n’est plus garanti pour tout le monde ?

      Mais la situation d’aujourd’hui ne peut s’analyser sans revenir dès à présent sur ce qu’était celle d’hier. Dans le domaine de la santé, la solidarité et l’immense respect qui accompagne le dévouement sans limites des personnels hospitaliers ne peut se passer du rappel de la déshérence organisationnelle et matérielle dans laquelle l’hôpital public est placé depuis des années. Dans le domaine de l’éducation, dans l’Enseignement Supérieur et la Recherche, le dévouement des enseignants, des enseignants chercheurs, des chercheurs, des personnels techniques et administratifs pour assurer un minimum de continuité de service ne peut masquer l’incompréhension et la colère qui ont monté depuis des mois face à une politique gouvernementale à la fois libérale et autoritaire, sure d’elle-même et systématiquement sourde et méprisante face à toutes les analyses et revendications portées par les personnels. Jour après jour et depuis des mois, jusqu’au 13 mars, date du début des annonces qui ont mené au confinement que nous connaissons, nous avons dénoncé des projets de loi construits sur les inégalités et la mise en concurrence et en opposition des individus à tous les niveaux. Plus que jamais, ce qui était et reste dans les cartons du gouvernement, retraite à points, LPPR, doit être dénoncé et combattu. Plus que jamais, la défense du service public, de l’hôpital, de l’éducation, de la formation, de la recherche, des transports, de l’énergie, de la culture, du sport, est nécessaire, et nos luttes d’hier construisent, à travers les grandes difficultés d’aujourd’hui, les transformations nécessaires de demain.

      Car effectivement, il va bien falloir penser à demain. Même si nos énergies sont tendues aujourd’hui dans l’engagement individuel et collectif, le souci des proches, la solidarité au quotidien, demain est déjà en vue, et peut proposer le meilleur comme le pire.

      Le meilleur, ce serait que cette pandémie dramatique permette enfin d’affronter les autres crises qui nous menacent, au-delà de la crise sanitaire et de la crise économique – crise climatique, crise démocratique qui oppose des gouvernances inflexibles à des populations qui veulent changer de modèles. Le meilleur, ce serait dans l’ESR de prendre enfin la mesure de ce que devrait être une formation universitaire démocratique et ouverte, une recherche collaborative et libre au service de la société. Le meilleur pourrait être, à l’UGA, de redéfinir comment notre « université d’excellence » constamment soumise aux directives de l’IDEX pourrait redevenir une communauté académique sachant réfléchir collectivement à ses fonctionnements, à ses stratégies et à l’utilisation de ses moyens, et comment l’UGA pourrait construire un plan d’urgence à destination des personnels et des étudiants permettant un redéploiement des ressources de l’IDEX et de l’ANR pour mieux assurer les besoins « de base » de l’université.

      Mais demain peut aussi nous apporter le pire. Les crises fournissent des occasions fortes, pour des lobbys bien organisés à proximité des pouvoirs, de rebattre fortement et durablement les cartes dans une « stratégie du choc » bien décrite par ailleurs (voir ici). Demain est déjà en préparation dans la loi d’urgence du gouvernement, avec des évolutions dangereuses et potentiellement durables de nos conditions de travail (voir ici et là).

      Le débat commence, nous proposons à chacun d’y participer et de ne pas abandonner, dans les solidarités conjoncturelles d’aujourd’hui, la construction de solidarités plus profondes qui devraient être celles de demain …

      Nous appelons nos collègues et nos étudiants à rejoindre toutes les formes de solidarité qui sont en train de se construire : les démarches collectives qui retissent un "tou·te·s ensemble" et toutes les formes d’expression pour soutenir les personnes qui assurent la continuité des soins et de la vie quotidienne, ou analyser sans complaisance les risques de décisions d’un gouvernement "guerrier" sont notre meilleure réponse au confinement !

      Reçu par mail du syndicat SNESUP-FSU, le 23.03.2020

    • Communiqué signé par l’Association 11ème Thèse, la section CNT Sup Recherche Bordeaux, le Collectif Marcel Mauss, le collectif des Précaires de l’ESR de Bordeaux, SOlidaires étudiant-e-s Bordeaux ainsi que SUD Recherche Bordeaux :

      Nous ne sommes pas en guerre, restons vénères et solidaires !

      On s’y attendait : Macron a ordonné le confinement généralisé de la population à compter du mardi 17 mars à midi. Cette mesure fait suite à la décision, jeudi dernier, de fermer tous les établissements scolaires et tous les établissements de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche (ESR) à compter du lundi 16 mars, puis à celle du vendredi 13 mars, d’interdire tout rassemblement de plus 100 personnes.

      Ces réponses à la crise sanitaire causée par l’épidémie du Covid-19 cachent mal le fait que cette crise n’est en rien le fruit d’un hasard malheureux. Il s’agit d’une crise sanitaire mais également et surtout d’une crise systémique. Les gouvernements néolibéraux précédents et actuels, ici comme ailleurs, ont participé à en créer les conditions par leur inaction écologique, leurs politiques anti-sociales qui accroissent la vulnérabilité des plus fragiles, et leur démantèlement des services publics de santé. Comme de nombreux chercheurs l’affirment [1], cette crise résulte d’un système d’exploitation de la nature et des humains : la perte de biodiversité liée à la destruction des habitats naturels, l’urbanisation débridée, les élevages industriels intensifs ; autant de facteurs qui concourent aux développements de zoonoses (c’est-à-dire de maladies transmissibles entre animaux humains et non humains) par une promiscuité croissante entre espèces sauvages et domestiques et à la propagation de maladies infectieuses, dont le nombre de crises se multiplient de manière inquiétante à travers le monde ces dernières années (SRAS, grippe aviaire, Ebola, Covid-19, etc.). Par ailleurs, l’amenuisement du soutien à la recherche fondamentale publique, que manifeste la politique de suppression de postes et de réduction des budgets, a conduit à une situation de vulnérabilité face aux risques sanitaires qui aurait pu être évitée [2]. La crise actuelle est le résultat de politiques de démantèlement et de privatisation des services publics de recherche, de santé et d’éducation.

      Les mesures prises dans l’urgence, en décalage avec les
      recommandations de l’OMS et dans la cacophonie d’un gouvernement qui semble ne rien maîtriser de la situation, ne font qu’aggraver la situation des plus précaires et des plus vulnérables. A cela s’ajoute, le tournant autoritaire et répressif que prend l’opération de confinement ordonnée par le gouvernement. Tandis que 100 000 policiers et gendarmes sont déployés dans les rues pour contrôler et mettre des
      amendes à celles et ceux qui ne respecteraient les normes du
      confinement, le mot d’ordre « Restez chez vous » n’empêche pas les employeurs d’imposer aux travailleu.r.se.s des conditions de travail qui mettent en danger leur vie et la santé.

      La mise en place de « plans de continuité d’activités pédagogiques » alors même que les universités sont fermées compte parmi les mesures qui sont en total décalage avec l’urgence de la situation des étudiants et personnels les plus précaires et vulnérables. Cette exigence de continuité pédagogique par voie numérique que cherchent à mettre en place les universités et le ministère de l’éducation nationale relève en effet d’une fausse logique : celle de maintenir « coûte que coûte » un système social et économique qui étale pourtant au grand jour son inadéquation et ses injustices. La précarité n’est pas seulement un concept mais une réalité qui affecte la plupart d’entre nous de façon croissante : c’est l’impossibilité de s’en sortir quand on perd ses maigres sources de revenus en tant qu’étudiant.e salarié.e ; c’est
      l’isolement psychologique et social quand on est étudiant.e étranger.e sans structure de soutien ; c’est l’exposition aux risques sanitaires quand on est personnel BIATSS ; c’est le risque de ne pas être payé quand on est personnel précaire, etc. Ceci expose clairement l’aveuglement du gouvernement actuel qui ne prend aucunement la mesure
      de la nature des problèmes économiques, sociaux et sanitaires que pose l’épidémie du Covid-19.

      L’urgence pour une grande partie des étudiant.e.s aujourd’hui, c’est d’abord le besoin de structures solidaires pour s’alimenter ou se procurer des produits de première nécessité. Il est absolument vital de fournir des autorisations de circuler aux associations et de mobiliser l’entraide. En ces temps de crise, il relève de la responsabilité du
      CROUS de maintenir des distributions de nourriture par solidarité avec les étudiant.e.s en manque de revenus, isolé.e.s psychologiquement, socialement et géographiquement. Rappelons que la moitié des étudiant.e.s doivent travailler pour subvenir à leurs besoins et se retrouvent par conséquent dans une situation critique, en particulier les étudiant.e.s résidant dans des logements du CROUS et les étudiant.e.s étranger.e.s. Sans plus de sources de revenus, sans possibilité d’êtres aidé.e.s par leurs familles, et sans une aide
      sociale d’urgence, les étudiant.e.s vont être les premier.e.s à pâtir d’une longue situation de confinement. Les risques psycho-sociaux pour des étudiant.e.s déjà précarisé.e.s et isolé.e.s sont importants.

      À cet égard la volonté de continuité pédagogique paraît bien loin des réalités du terrain, sans compter qu’elle provoquera une rupture d’égalité, qui accentuera encore la situation de précarité des plus fragiles. Pour rappel en effet, une partie importante des étudiant.e.s salarié.e.s ou des étudiant.e.s résidant dans des logements du CROUS n’ont pas d’accès personnel garanti à internet, ni même d’ordinateur
      portable individuel. Les plus isolé.e.s sont éloigné.e.s de leurs
      familles et n’ont pas d’accès aux ressources culturelles (bibliothèques fermées, peu ou pas de livres sous la main, etc.) pourtant nécessaires
      pour assurer des conditions matérielles et psychologiques propices au suivi de cours numériques et à la préparation des examens. Le simple accès à leur messagerie, essentiel pour être informé.e des directives de la présidence ou de leurs enseignant.e.s, leur est compromis.

      À cet égard, sur le campus bordelais, des personnels et étudiant.e.s mobilisé.e.s ce lundi 16 mars ont pu recueillir des témoignages directs de la détresse des étudiant.e.s qui se sont trouvé.e.s dans l’impossibilité de s’approvisionner (isolement sur le campus, étudiant.e.s étranger.e.s esseulé.e.s, étudiant.e.s se retrouvant sans revenus, structures du CROUS fermées pour l’alimentation, etc.). Plus de 160 étudiant.e.s ont pu être aidé.e.s en urgence pour des besoins de première nécessité, mais c’est une réponse hélas bien dérisoire au regard des dizaines de demandes locales qui ne cessent d’affluer.

      Pour ce qui est des personnels précaires de l’ESR, il est aberrant que la production de cours numériques par télétravail soit exigée de la part des enseignants vacataires. En effet, non seulement, pour le moment, aucune garantie n’a été donnée concernant le paiement de leurs services, mais encore, les moyens techniques fournis par le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche ne sont pas adaptés. Qu’en est-il par ailleurs de la prise en charge des coûts matériels et
      économiques liés au télétravail (ordinateur adapté, accès internet, logiciels payants, imprimante et scanner pour la correction d’éventuels travaux, etc.) ? Dans la situation actuelle, des règles strictes encadrent le télétravail (horaires, jours travaillés, matériel, etc.) et les droits des travailleur.ses doivent être respectés [3][4]. Concernant les personnels BIATSS, et notamment les personnels de nettoyage et de maintenance, les risques sanitaires doivent être précisément évalués et des moyens alloués pour assurer leur sécurité,
      puisque l’injonction qui leur est faite de se rendre sur leurs lieux de travail et la nature de leurs tâches les exposent plus que jamais.

      Au vu des manquements, des risques sanitaires et psycho-sociaux, des précipitations et des incohérences dans les mesures prises, souvent dans la poursuite d’intérêts économiques supposés et jamais dans l’intérêt des travailleur.ses, personnels et étudiant.es, nous appelons tous les personnels précaires et titulaires de l’ESR à exercer leur droit de retrait !

      Si elle rendra d’autant plus manifestes et critiques les situations de précarité économique, psychologique et sociale, la crise du Coronavirus ne doit pas nous faire oublier ni arrêter le combat mené contre la réforme des retraites et la réforme de l’ESR.

      Précaires de l’ESR de Bordeaux, nous renouvelons l’appel au droit de retrait de tous les personnels et à la grève de toutes et tous ! Libérons-nous du temps, mobilisons-nous dans l’entraide aux étudiant.e.s les plus démuni.e.s et isolé.e.s et non pour des « cours numériques » ou pour la préparation d’examens dans ces conditions iniques et selon un calendrier hypothétique !

      Face à la crise actuelle maintenons une vigilance à tous égards pour les travailleurs.ses précaires et vulnérables ! Faisons respecter nos droits et intensifions la lutte contre un système qui nous rend vulnérables !
      Seule une stratégie de solidarité pourra nous permettre de faire face à la crise du Covid-19 et de faire plier le gouvernement ! Tou.te.s pour l’abrogation de la LPPR et du projet de réforme des retraites !!! Une fois le confinement levé, ne nous laissons pas endormir et réinvestissons nos lieux de travail et la rue au service de la lutte sociale ! Penser la suite demande de s’engager maintenant !

      Sources :
      [1]
      https://charliehebdo.fr/2020/02/societe/la-crise-de-la-biodiversite-favorise-les-maladies-infectieuses-emergent
      [2]
      https://lejournal.cnrs.fr/articles/la-science-fondamentale-est-notre-meilleure-assurance-contre-les-epid

      [3]
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000035994394&categorieLien=id

      [4]
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000032036983&categorieLien=id

    • Les étudiants face à la pression scolaire : « je n’ai jamais eu autant de travail que depuis le confinement »

      L’Université a affiché cette semaine sa priorité : la « continuité pédagogique », sans considérer les inégalités entre les étudiants, que ce soit au niveau sanitaire, des conditions de confinement ou d’accès aux matériels informatiques : témoignages d’étudiants de l’Université Paris 1 confinés.

      La « continuité pédagogique », c’est tout ou rien : #surcharge_de_travail ou silence Radio du corps enseignants. De la même manière qu’elle avait maintenu des partiels en période de grève, l’université, toujours sous couvert de sa « valeur du diplôme », s’acharne à maintenir une #notation plutôt que de dispenser un enseignement.

      A Paris 1, malgré les directives de la Présidence, les étudiants sont soumis aux exigences inégales de leurs professeurs. La plupart font reposer sur leurs chargés de TD la tâche de rassurer les étudiants, sans leur donner de réelles informations à communiquer. S’il faut reconnaitre que certains ont assoupli le contrôle continu, en évaluant sur la base du volontariat, la majorité laisse les étudiants totalement livrés à eux même.

      Comme le témoigne Maria et Irene* (les prénoms ont été modifiés), étudiantes en Droit, le #stress et la pression sont décuplés : « je suis plus stressée qu’en présentiel. Sous prétexte d’une soi-disant #valeur_du_diplôme, on autorise ce genre de conditions. Il est temps que les étudiants se fassent entendre, on n’est pas des robots ».

      Alors que les étudiants se retrouvent dans des situations très inégalitaires, et que les pressions de la #sélection pèsent sur les élèves, les règles sont pourtant les mêmes pour tout le monde : « je n’ai jamais eu autant de travail que depuis le confinement. Entre les préparations de TD notées, à rendre à heures fixes, auxquelles s’ajoutent les devoirs supplémentaires, les évaluations et les examens en ligne, certains professeurs nous laissent carrément élaborer notre cours tout seul. Dans le meilleur des cas on reçoit les plans, avec des références à des manuels. Les manuels en question peuvent couter plus de 50€, on avait l’habitude de les consulter en bibliothèque, surtout qu’ils ne sont pas tous accessible en ligne. En plus, c’est l’année de la sélection. On a l’impression que l’université s’en fou, est dans le #déni total. Moi j’ai pas d’ordinateur, je galère. Je pense même pas à ceux qui n’ont pas internet, ou qui sont confinés dans un 9m carré. Quand tu sais pas comment payer ton loyer, acheter un livre à 50€, c’est la dernière de tes priorités ».

      Plutôt que d’installer un système d’#entraide entre les étudiants, l’université semble accroître sa logique de #pression_scolaire, le tout pour maintenir la sélection en master 1 et master 2, et nourrir l’illusion de la valeur du diplôme. Dans de telles conditions, elle ne sélectionnera pas sur des compétences, mais bien en fonction de critères sociaux.

      Finalement, cette crise met en lumières tous les problèmes liés à la #précarité_étudiante : un étudiant sur trois est bousier, un sur quatre est salarié, ce seront eux les plus touchés.

      Pour Lucien, étudiant en Histoire de l’art et archéologie, « ce virus n’a fait qu’exacerber les contradictions de classes au sein de notre système éducatif […] C’est comme si la fac fermait les yeux sur les #inégalités entre ses étudiants. Certains élèves sont cloitrés chez eux, seuls, avec un minimum de moyen financier. »

      Comme l’explique Nadia*, étudiante en Économie, une nouvelle fois l’université met de côté ceux qui sont dans des situations précaires, et qui ont par exemple été licenciés ces derniers jours : « Avec le confinement, on a perdu notre boulot. Il faut pas oublier que quand t’es étudiant, t’as pas beaucoup de choix pour travailler. On travaille dans la restauration, ou en tant que baby sitter, la plupart du temps non déclaré. Y a pas de chômage technique quand tu travailles au black. »

      Lola, elle, est en régime terminal : un régime spécifique souvent utilisé par les étudiants qui sont obligés de se salarier à côté de leurs études, ou qui ont des problèmes de santé : « Dans tout ça, on oublie les étudiants en #examen_terminal. Pour nous, on ne sait pas, c’est silence radio. L’administration ne donne aucune réponse claire sur la tenue des examens. On est déjà livrés à nous même toute l’année. Il faut pas oublier qu’on a choisi ce régime pour des raisons de santé, ou parce que notre situation financière ne nous permet pas de vivre avec la bourse et les petits boulots. Là on nous laisse sur le carreau, j’ai l’impression qu’on est même pas considéré dans la gestion de la crise ».

      Face à cette crise, l’obstination dont fait preuve l’université à noter ses étudiants et à maintenir une sélection, malgré leur état de stress, les inégalités de confinement et d’accès à l’enseignement qui les divisent, illustre ce qu’elle est devenue depuis plusieurs années et notamment depuis 2018 et la loi ORE : une institution qui se complet dans un système concurrentiel, au mépris de sa vocation première, l’accessibilité, et l’égalité devant l’instruction.

      https://www.revolutionpermanente.fr/Les-etudiants-face-a-la-pression-scolaire-je-n-ai-jamais-eu-aut

    • « Continuité pédagogique » : Méfiance... - Lettre flash n°10 du 25 mars 2020

      La pandémie provoquée par le Covid-19 a entraîné un certain nombre de mesures sanitaires d’une dimension exceptionnelle. Parmi elles, les mesures de confinement ont un impact très important sur l’ensemble des secteurs de l’Éducation, de l’Enseignement supérieur et de la Recherche. Dans l’état actuel des informations, les établissements devraient continuer à être fermés jusqu’à la fin du mois d’avril. De telles mesures, indispensables, bouleversent les calendriers universitaires du second semestre et posent la question de la continuité du service public de l’ESR, traduite hâtivement et sans précaution en “continuité pédagogique”.

      Les consignes gouvernementales demandent expressément de rester confiné-es et de recourir au télétravail ou au travail à distance. Aucun personnel ne peut être sommé de déroger au confinement, sauf absolue nécessité justifiée par l’organisation concrète de la continuité du service. Les déplacements doivent être réduits à l’essentiel et il convient de ne pas se rendre sur son lieu de travail. Le SNESUP-FSU rappelle que les moyens nécessaires doivent être donnés aux personnels pour qu’ils assurent à distance les missions considérées comme d’absolue nécessité.

      Cela implique par conséquent que des mesures soient prises pour assurer l’égalité dans l’accès aux outils numériques pour l’ensemble des étudiant·es. Et pour les enseignant-es, de mettre en place les moyens de la concertation pour trouver des solutions, dans le respect du confinement, en ce qui concerne les disciplines où le travail à distance est particulièrement difficile voire impossible. Cela implique aussi d’engager la concertation avec les personnels pour étudier les conditions de validation du semestre et de l’année en cours en garantissant l’égalité de traitement pour tou·tes les étudiant-es. L’engagement collectif de toutes et de tous est le meilleur garant de la qualité des formations et des diplômes qui seront délivrés cette année.

      Le SNESUP-FSU rappelle, qu’en tout état de cause, les dispositifs pédagogiques mis en place par les enseignant-es sont transitoires et répondent à une situation tout à fait exceptionnelle. En aucun cas, ils ne peuvent être envisagés de façon pérenne comme des mesures servant à pallier le manque dramatique de postes de titulaires.

      Les personnels de tous les métiers de l’Enseignement Supérieur font preuve de la plus grande responsabilité et de professionnalisme. Les enseignant·es mettent tout en œuvre pour maintenir le lien avec tou·tes leurs étudiant·es. Il faut leur faire confiance. Pour le SNESUP-FSU, l’urgence n’est pas dans le maintien total des contenus des cours mais dans le maintien pour toutes et tous les étudiant·es d’un lien avec les apprentissages et la recherche, dans le respect de la protection due aux agent·es. La situation est suffisamment anxiogène pour rester raisonnable dans les attentes. Elle demande une attention particulière aux difficultés rencontrées par les étudiant·es. L’accompagnement des étudiant·es ne doit pas conduire à la normalisation des pratiques pédagogiques prônée par le ministère et certains établissements. Il est illusoire de chercher à délivrer des notes et des évaluations à un rythme ordinaire et coûte que coûte. Les enseignant·es et les étudiant·es font le maximum en fonction de leurs moyens et de leur vie extra-universitaire. Nous devons accepter de fonctionner dans un mode “dégradé”, respecter les consignes de confinement ainsi que les contraintes et les rythmes nouveaux qu’elles entraînent.

      Dans ce contexte, le SNESUP-FSU réaffirme la nécessité que pour tous les personnels, tous statuts confondus, y compris pour les contractuel·les et les vacataires, l’intégralité du service soit réputé fait et que toutes les heures prévues à l’emploi du temps soient prises en compte pour les rémunérations.

      https://www.snesup.fr/article/continuite-pedagogique-mefiance-lettre-flash-ndeg10-du-25-mars-2020

    • Détenu·es confin·ées : #discontinuité_pédagogique

      Aucun plan de gestion de la crise du COVID-19 en prison n’a vraiment été prévu, à l’instar de l’Italie. On s’achemine donc vers une situation tout aussi explosive : un risque d’épidémie grave ; l’arrêt des contacts avec l’extérieur, des surveillant·es en première ligne d’exposition au virus, des mutineries, des drames.

      Toutes les prisons ne sont pas dans la même situation. Les prisons centrales, pour les longues peines, dont la plupart des personnes incarcérées bénéficient d’une cellule individuelle, sont relativement moins surpeuplées que les maisons d’arrêt. En revanche, les maisons d’arrêts, qui mélangent toutes les peines, sont, quant à elles, vraiment surpeuplées et atteignent aujourd’hui 138%, selon l’Observatoire international des prisons (1e janvier 2020)2.

      On pourrait avoir l’illusion que les détenu∙es étaient déjà confinés. Ce serait ignorer la vie d’une prison : il y a de nouveaux arrivants tout le temps ; des extérieurs qui s’y rendent. Aujourd’hui, familles, avocat∙es, enseignant∙es n’ont plus le droit de s’y rendre. Mais il faut bien administrer la prison : les surveillant·es continuent d’y travailler.

      Des cas de coronavirus ont été déclarés en prison. Vu la surpopulation en détention, le confinement individuel des personnes atteintes est impossible. Le virus risque de se répandre très rapidement, tant chez les personnes détenues que les surveillant∙es. L’épidémie risque d’y être d’autant plus grave que 1° la promiscuité et la surpopulation facilitent les contaminations 2° les bâtiments sont insalubres, l’hygiène insuffisante, les systèmes de santé vétustes. Qui plus est, les populations carcérales s’avèrent particulièrement à risque, en raison de leur mauvais état de santé général.

      Mais ce n’est pas tout : parmi les personnes-cibles de l’épidémie en prison, on risque non seulement les surveillant∙es, donc, mais aussi le personnel de santé. On trouvera bien sûr des personnes condamnées, mais aussi des personnes en incarcération préventive3, soit un quart de la population carcérale (21 000/80 000 personnes détenues)4. Dans la prison surpeuplée de Fresnes, un homme testé positif au coronavirus est mort. Il avait été incarcéré dix jours avant, alors qu’il était très âgé (74 ans) et de santé fragile – indice, s’il en était besoin, des inégalités exacerbées par la situation carcérale, entre un Balkany et un détenu anonyme. Le jour même, deux infirmières y étaient testées positives au coronavirus.

      Quelles sont les mesures qui sont prises ? Pour l’instant, surtout l’arrêt presque total des interventions extérieures, des parloirs, etc. Or beauoup de détenus auront d’immenses difficultés à vivre, physiquement5 et mentalement sans contacts extérieurs. En conséquence, des incidents ont éclaté dans de nombreuses prisons – et même un début de mutinerie à Réau, Perpignan, Angers, Maubeuge, Bois d’Arcy, La Santé6 et des émeutes à Grasse, avec interventions des ERIS et tirs de sommations. Le problème c’est qu’on risque une escalade de la violence : interdiction possible des promenades, par exemple, pour éviter tout regroupement collectif, détenus encore plus à cran, surveillants déjà à cran, sans protection (masques, par ex) encore plus exposés, etc.

      https://twitter.com/AdelineHazan/status/1239986843757826048?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

      Devant cette situation, la Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté a demandé la mise en place de visioconférences pour compenser la fin des parloirs ainsi que la gratuité du téléphone.7

      La seule mesure efficace serait le désengorgement des prisons et la fermeture des centres de rétention8. C’est ce à quoi appellent plusieurs associations, syndicats et la Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté elle-même. Ce serait un changement majeur.

      D’autres lieux de privation de liberté sont concernés par l’épidémie : les geôles, en cas de gardes à vue prolongées, et de comparution immédiate. Ces pratiques judiciaires se poursuivent en dépit de risques sanitaires graves.

      Le coronavirus expose tous les dysfonctionnements de notre société. Il suffit de peu de choses pour que tout explose. Ça vaut pour nos services publics exsangue, mais aussi pour les prisons. Et devant la maladie, ce sont toujours les plus fragiles et les plus précaires qui sont aussi le plus exposés.


      *

      Ailleurs dans le monde, on retrouve la même situation explosive. Émeutes, grèves de la fin, destructions matérielles, évasions : les prisons italiennes ont déjà connu plusieurs morts, dans un système pénitentiaire surpeuplé à 130%, où la moitié de la population a plus de 50 ans. Avec 2,2 millions de détenus, les États-Unis abritent les prisons les plus peuplées au monde, laissant craindre une flambée de l’épidémie de coronavirus en milieu carcéral. En Iran, l’un des pays les plus touchés du monde par le coronavirus, 85.000 détenus ont été libérés : il s’agit d’hommes et de femmes condamnés à moins de 5 ans, qui devront finir de purger leur peine à une date indéterminée.

      Le manque de communication claire a des conséquences particulièrement graves en prison, où n’importe quel petit rien peut favoriser la psychose et le développement de rumeurs qui enflent en raison de l’enfermement, des addictions, de la santé mentale fragique des populations carcérales, sans même de l’incompréhension de la situation par les personnes non francophones.

      Mais même dans ces situations-là on traite les détenus de sales privilégiés : un article, intitulé « Nous allons distribuer 100 000 masques en prison », annonce Nicole Belloubet, se trouvent rapidement assortis de commentaires de type « eux ont le droit à des masques, pas nous ! », alors que les masques sont destinés aux surveillant∙es…

      Le 19 mars, le Ministère de la Justice annonce quelques mesures : à partir du lundi 23 mars, chaque détenu aura d’un crédit de 40€ par mois pour téléphoner ; la télé sera gratuite ; les détenus indigents recevront une aide majorée de 40€/mois pour cantiner.

      https://twitter.com/OIP_sectionfr/status/1240602063224156161?s=20

      En revanche, il n’y a aucune continuité pédagogique mise en place en détention. Les enseignant∙es ont été prévenu·es au dernier moment, n’ont rien pu préparer. En l’absence d’Internet, les cours sont suspendus. Simplement.

      https://academia.hypotheses.org/21331
      #prisons #prison

    • Des enfants confiés et confinés à domicile

      « Je suis éducateur dans une association de la protection de l’enfance, dans un service qui intervient auprès de famille où l’enfant est confié par le juge des enfants au département, mais reste domicilié chez leurs parents (chez l’un d’entre eux du moins).

      En cette période, ma collègue et moi-même avons pour directive de ne pas nous rendre dans les familles. Nous sommes donc en lien téléphonique avec elles. En cas d’urgences réelles, que nous nous devons d’évaluer nous-même ou si les familles nous sollicitent, nous pouvons être amené à nous y déplacer.

      Il est compliqué à l’heure actuelle de dire que c’est difficile pour les enfants d’être H24 avec leurs parents sans que ces derniers bénéficient d’un soutien éducatif plus soutenu, comme le demandent les mesures de placement.

      Cependant, nous nous devons de faire confiance, faire confiance en ces parents qui, bien qu’ils aient des compétences (sur lesquelles on s’appuie énormément), peuvent être défaillants ou en difficultés. Je leur tire mon chapeau car ils font au moins pire. Malgré cela, sur les 12 enfants accompagnés, la scolarité est grandement impactée pour plus de la moitié d’entre eux.

      Alors que sur les groupes d’internat de l’association qui accueillent des jeunes confiés quotidiennement, des moyens ont été trouvé pour assurer le minimum de continuité scolaire avec la présence d’éducateurs scolaires et d’éducateurs techniques, les parents auprès desquelles j’interviens, sont livrés à eux-mêmes. Rares sont ceux qui bénéficient d’un accès à un PC où PRONOTE, Maxicours ou le CNED permettent (lorsqu’il y a suffisamment de connexion) d’avoir accès à des supports de cours.

      Certains ont pu se mettre en lien avec l’enseignant pour avoir des documents papiers imprimés. D’autres utilisent simplement leur smartphone pour avoir accès aux plateformes….

      Pour certaines familles, nous avons pu imprimer énormément de documents, et nous leur avons fait parvenir…

      Quelle utopie maintenant ? Celle d’avoir des enfants qui se mettent à travailler d’eux-mêmes, aidés si besoin par leurs parents qui peuvent leur expliquer les cours de physique, chimie, SVT, Français, Histoire-Géographie, Anglais, Espagnol…. Je ne cible pas leurs incompétences, car ils s’essaient tous tant bien que mal. Mais nous même, nous ne sommes pas capables de fournir un tel accompagnement, alors comment demander, à des familles où la problématique est souvent ailleurs, d’assurer cette scolarité ? A cela, s’ajoute les pathologies psychologiques (TDAH, trouble déficit de l’attention avec ou sans hyperactivité, par exemple) et difficultés scolaires de ces enfants qui en temps normal bénéficient d’une scolarité spécifique et/ ou de soins. Cette charge est donc laissée quotidiennement aux parents qui ont probablement d’autres choses à gérer (comme un budget repas par exemple, où l’aide à la cantine scolaire ne fonctionne pas à la maison….).

      Alors, oui, en ces temps de confinement, nous veillons à ce que le domicile reste un environnement sain, moins pire qu’ailleurs. Quitte à passer la scolarité au troisième plans. Tant pis si lorsque le confinement sera terminé, nous auront creusé de nouvelles inégalités… »

      https://www.modop.org/se-relier/#26mars

    • La continuité pédagogique, vraiment ?

      Dès avant la fermeture des établissements le 16 mars dernier, les enseignant.es ont reçu des consignes pour leur demander d’assurer ce qu’on a appelé la “continuité pédagogique” : il fallait aussi rapidement que possible imaginer et mettre en oeuvre des solutions pour continuer d’assurer les cours magistraux et les travaux dirigés, les séminaires et les stages. Face à cette injonction pressante, des solutions ont été très vite expérimentées, dès le début de la semaine dernière. Des solutions très variables, pour ce que j’ai pu en observer dans mon université grenobloise, et dans quelques autres à travers les récits de collègues : certain.es enseignant.es ont pu très rapidement trouver des formes alternatives d’enseignement en utilisant des plateformes collaboratives permettant d’utiliser la vidéo ou l’audio, comme Discord ou Zoom ; d’autres enseignant.es ont enregistré leurs cours dans des fichiers audio ; d’autres enfin, moins habitué.es à utiliser les outils numériques, ont déposé des versions écrites de leurs cours dans les ENT (environnements numériques de travail) de leur établissement. Tout y poussait : la conscience professionnelle, le souhait de maintenir le contact avec les étudiant.es pour éviter les abandons, la crainte de leur faire “manquer” un semestre.

      Il m’a pourtant très vite semblé qu’on mettait en quelque sorte la charrue avant les boeufs et qu’on essayait de mettre ainsi en oeuvre cette “continuité pédagogique”, de façon un peu désordonnée, sans se demander ni si c’était souhaitables, ni si c’était possible et à quelles conditions. Mes interrogations me venaient de mes propres difficultés : comme les autres, je cherchais des solutions, et dans mon cas particulier, j’avais beaucoup de mal à les trouver : comment faire, en effet, pour enseigner les méthodes quantitatives avec R à distance, dans des groupes de TD de plusieurs dizaines d’étudiant.es de deuxième année de licence ou de première année de master de sociologie ? Tout ce que nous avions “en présentiel”, était-il possible de le reconstituer à distance : des ordinateurs suffisamment puissants, des logiciels correctement installés, le travail en groupes, l’accompagnement individuel, face aux écrans ?

      Plutôt que supposer que tout cela était possible, nous avons alors choisi, avec mon collègue Olivier Zerbib qui co-anime avec moi ces travaux dirigés, de réaliser un sondage auprès de nos étudiant.es pour essayer d’évaluer leur capacité à suivre des cours à distance. Ce sont les résultats de ce sondage, que nous avons finalement étendu à la totalité des étudiant.es de licence de sociologie de l’Université Grenoble Alpes ainsi qu’aux quelques étudiants du master (SIRS) “Sociologie de l’innovation et recompositions sociales”, que je voudrais vous présenter rapidement dans ce billet.
      Un sondage sur les capacités à suivre des cours à distance ? Encore faut-il pouvoir même y répondre…

      Le questionnaire de cette mini-enquête a été mis en ligne sur Moodle (la plateforme ENT de l’UGA) le jeudi 19 mars, et il est resté ouvert jusqu’au samedi 21 mars à midi. Les étudiant.es ont été invité.es à y répondre par plusieurs messages envoyés là encore par Moodle, et relayés de différentes façons (pages Facebook, forums Discord, emails personnels…) par les enseignant.es et les étudiant.es de sociologie. Le choix de mesurer la capacité des étudiant.es à suivre des cours à distance à partir d’un sondage sur Moodle était délibéré : cela devait permettre déjà tout simplement de déterminer la proportion des étudiant.es qui recevraient le message les invitant à répondre à ce sondage, par un canal ou un autre, et qui arriveraient à y répondre dans Moodle. La non-participation au sondage pourrait de ce fait être tenue comme un indice d’une très grande difficulté à utiliser même les outils les plus simples à notre disposition pour faire cours à distance, et qui sont aussi ceux que notre établissement nous recommande très fortement d’utiliser.

      De ce point de vue, la conclusion est malheureusement sans ambiguïté. Même après avoir restreint la population étudiée à la liste des étudiant.es qui se sont connecté.es à Moodle au moins une fois depuis le début de l’année universitaire, le taux de réponse général au sondage est très faible (voir tableau ci-dessous).

      Seulement 92 des 334 étudiant.es de sociologie ont pu répondre à l’enquête, soit 28% d’entre eux. Et on constate de fortes disparités : les meilleurs taux de réponse sont observés en L2 et M1, et les plus faibles en L1 et en L3. Ce faible taux de réponse ne s’explique probablement pas fondamentalement par des difficultés “techniques” de connexion : ces étudiant.es ont pratiquement tou.tes des smartphones avec des abonnements internet mobiles, et comme on sait qu’ils.elles sont déjà allé.es au moins une fois sur Moodle depuis le début de l’année universitaire, on peut faire l’hypothèse qu’ils connaissent leur identifiant et leur mot de passe.

      La première explication est liée aux variations de leur “implication”, autrement dit du lien qu’ils.elles ont pu maintenir avec les préoccupations universitaires, ou que nous, enseignant.es, avons pu maintenir. Ce sont les fortes variations du taux de réponse en fonction du niveau qui permettent de le penser. Les meilleurs taux de réponse sont en effet observés en L2 et M1, et les plus faibles en L1 et en L3, et cela peut s’expliquer en partie par le fait que le sondage a été transmis aux étudiant.es de L2 et M1 dans le Moodle de cours où ils m’ont comme enseignant ce semestre : cela a pu favoriser leur implication. On note du reste qu’un sondage similaire réalisé par Olivier Zerbib directement dans son cours de “Sociologie de l’innovation” en L3 a reçu 19 réponses sur 24 inscrit.es au cours, alors que le sondage mis dans le Moodle dans le cours de “sociologie des réseaux” du premier semestre n’a reçu que 4 réponses sur 47. Mais il n’en reste pas moins qu’en L1 le taux de réponse est très faible, et qu’en L2, où les étudiant.es ont reçu plusieurs relances par plusieurs canaux pour répondre au sondage, cette capacité à répondre à une demande très simple dans Moodle en moins de trois jours n’est observable que dans à peine la moitié de la promotion. Et en L2, les ayant vu vendredi juste avant la fermeture, Olivier a pu leur recommander très fortement de rester connectés.

      La seconde explication n’est pas liée aux événements. Avant même d’invoquer des difficultés de connexion liées à la crise sanitaire et au confinement, ou la démobilisation, il faut d’abord tout simplement se demander si même avant le début de cette crise, les étudiant.es de sociologie utilisaient Moodle. Or, la date de la dernière connexion permet de voir que c’est loin d’être le cas de tout.es : en réalité, déjà un quart d’entre eux ne s’étaient pas connectés à Moodle depuis le début du semestre.

      Le résultat : une très faible capacité générale à suivre des cours à distance

      De ce qui précède, il ressort que déjà, même en L2 où le taux de réponse a été “élevé”, c’est en réalité à peine la moitié des étudiant.es qui a pu répondre à un questionnaire de 3 questions dans Moodle. Dans les autres niveaux, que ce soit en licence ou en master, ces taux sont bien moindres. Qu’ont-ils.elles répondu, celles et ceux qui sont parvenu.es à le faire ? Pour évaluer la capacité des étudiant.es de sociologie à suivre des cours à distance, trois questions leur avaient été posées, dont vous trouverez les réponses dans les tableaux ci-dessous, calculées en fonction du niveau de licence et de master.
      Une accès basique à internet apparemment correct, mais un accès compliqué aux plateformes nécessitant un débit élevé et un ordinateur fixe.

      Les réponses à la première question sont pratiquement unanimes : en tout cas parmi celles et ceux qui ont pu répondre au sondage, il n’y a en tout et pour tout que 2 étudiant.es qui n’ont pas les moyens d’accéder aux outils les plus basiques, soit la messagerie électronique et Moodle. Par construction, cela dit, on peut estimer que les étudiant.es qui ont pu répondre à ce sondage sur Moodle après avoir reçu un message sur leur messagerie universitaire disposaient par définition de ces moyens élémentaires de travail à distance. Les réponses à cette question démontrent toutefois qu’il reste possible de communiquer avec cette moitié-là de nos étudiant.es via Moodle et la messagerie universitaire, qu’ils.elles peuvent consulter au moins sur leur smartphone.

      Ils.elles sont déjà un peu plus nombreux.ses, une quinzaine sur la centaine de répondant.es, à ne pas avoir les moyens de suivre des cours à distance qui mobiliseraient des outils plus complexes ou plus gourmands en bande passante, comme les outils et plateformes de visio- ou d’audio-conférence. Les très nombreux commentaires libres donnés en réponse à la dernière question du sondage sont particulièrement éclairants de ce point de vue. Ils permettent en effet de prendre la dimension des très nombreuses difficultés qui vont faire obstacle à la possibilité de suivre des cours et de produire des travaux universitaires en utilisant les outils bureautiques habituels : accès à internet seulement avec des abonnements mobiles dont les plafonds sont très rapidement atteints, difficultés à s’approprier des outils instables, pas d’ordinateur, ordinateurs trop anciens ou pas suffisamment puissants…

      Cela dit, il faut en partie relativiser ces difficultés : sur la quinzaine d’étudiant.es indiquant de telles difficultés, il y en a 9 qui sont en L2. Or, cela tient certainement en partie au fait que le sondage leur ait été diffusé dans le Moodle du TD de méthodes quantitatives, et qu’ils.elles s’inquiètent pour l’utilisation de R à distance et le travail de groupe avec ce logiciel, comme en témoignent les commentaires libres.
      Des conditions de travail dégradées pour un nombre significatif d’étudiant.es

      Enfin, et surtout, la dernière question montre qu’on aurait tort de penser que les obstacles sont seulement techniques. En effet, presque la moitié des étudiant.es de sociologie qui ont pu répondre au sondage ne s’estiment pas dans des “conditions matérielles, intellectuelles, économiques et sociales” (on aurait dû ajouter également “psychologiques” dans la formulation de la question) qui leur permettraient de suivre correctement des cours et d’effectuer leur travail universitaire à distance. Là encore, les commentaires libres sont instructifs : pertes des emplois qui leur permettaient de financer les études, horaires des cours incompatibles avec des obligations professionnelles ou familiales, conditions de logement ne permettant pas de s’isoler pour travailler, anxiété, inquiétudes face au caractère inégalitaire de l’enseignement à distance…


      Le tableau ci-dessus indique aussi qu’il faudrait dissocier les réponses pédagogiques à apporter en L1 de celles pour les autres niveaux de formations. Parmi celles et ceux qui ont pu répondre au sondage, ce sont les étudiant.es de première année qui indiquent le plus nettement qu’ils.elles ne sont pas dans des conditions générales qui leur permettent d’étudier à distance. La question reste de savoir s’il faut en conclure qu’il faut renoncer à le faire, ou au contraire qu’il faut prendre le problème à bras le corps pour leur proposer des solutions pédagogiques spécifiques, parce que l’enjeu est crucial et les conséquences sur le taux d’abandon potentiellement dramatiques.
      La continuité pédagogique, à toutes forces ?

      On peut résumer les résultats qui précèdent en un seul tableau très simple, synthétisant les différents critères utilisés pour mesurer la capacité des étudiant.es à suivre des cours à distance. On utiliser pour cela une échelle unique, allant du simple fait de n’avoir même pas pu répondre au sondage sur Moodle (qu’on appellera le niveau 0 de la capacité à suivre des cours à distance), jusqu’à un niveau 3 correspondant à l’absence totale de difficultés à suivre de tels cours.

      La conclusion reste quantitativement sans ambiguïté : seule une très faible minorité d’étudiant.es est parvenue à nous indiquer qu’elle se trouve dans des conditions générales permettant d’étudier correctement à distance. Cette conclusion peut néanmoins être légèrement nuancée selon les niveaux : en L2, un tiers tout de même des étudiant.es ont pu indiquer qu’ils étaient dans des conditions correctes pour étudier à distance, et c’est le cas également de plus de la moitié des étudiant.es de M1 SIRS (voir tableau ci-dessous). On peut aussi redire que dans le cours de L3 de sociologie de l’innovation animé par Olivier, 18 des 19 étudiant.es qui ont répondu au sondage d’Olivier ont indiqué être en capacité de suivre ce cours à distance. Il en reste tout de même 6 (soit un peu plus de 20%) qui ne le peuvent pas, soit parce qu’ils.elles ne sont pas dans la capacité de le faire, soit parce qu’ils.elles y ont renoncé.

      Dans tous les cas, et probablement même dans le cas des L3, ces proportions ne semblent pas suffisantes pour garantir que la mise en place d’enseignements à distance, et a fortiori d’évaluations de ces enseignements à distance, ne produira pas d’importantes inégalités entre des étudiant.es de sociologie dont les commentaires libres témoignent qu’ils.elles y sont particulièrement sensibles. Comment s’en étonner ? D’une part nos étudiant.es n’appartiennent pas forcément aux mêmes milieux sociaux que d’autres composantes de l’université qui ont mis en place des enseignements à distance sans se préoccuper de la rupture d’équité que cela pouvait occasionner. Et d’autre part, cette attention de nos étudiant.es aux inégalités, nous devrions au contraire en être fier.es, puisque c’est aussi notre métier que de leur en montrer et en démonter les mécanismes.

      En tout état de cause, les résultats de ce sondage plaideraient plutôt en faveur des conclusions suivantes :

      Seulement une très faible minorité des étudiant.es de sociologie de l’UGA se déclare pour l’instant en situation de suivre correctement des cours à distance.
      Dans ces conditions, instaurer des cours à distance dont les évaluations participeraient à la validation du second semestre provoquerait une profonde rupture de l’équité entre les étudiant.es.
      La seule mesure générale qu’il est possible de préconiser au vu de ces résultats est la validation de l’ensemble des enseignements dont les modalités de contrôle n’avaient pas été satisfaites à la date de la fermeture de l’université, ou reposeraient sur des connaissances qui devraient être acquises après cette date.
      La traduction la plus simple possible de cette mesure générale consisterait à valider le second semestre pour l’ensemble des étudiant.es ayant validé des UE de premier semestre, de façon à permettre à ces étudiant.es de poursuivre normalement leurs études sans “perdre” un semestre ou un an.

      Ces conclusions n’interdisent bien entendu pas, dans certains cas particuliers et clairement identifiés, de mettre en place des formes d’activités pédagogiques à distance. Il faut peut-être par exemple appliquer des règles différentes en L1 et dans les niveaux suivants de licence, où les effectifs plus réduits et la socialisation plus ancienne aux études universitaires permettent d’expérimenter des formes pédagogiques alternatives.

      En TD de méthodes quantitatives de L2, avec Olivier, nous allons essayer de continuer à accompagner le travail de nos étudiants sur les données de leur belle enquête sur les couples et le numérique (ils.elles venaient de finir d’en saisir les 1759 questionnaires quand nous avons fermé), en nous appuyant sur Moodle et sur Discord. Plusieurs commentaires libres, et nos échanges de la semaine écoulée avec nos étudiant.es, pointent l’importance du rôle socialisateur de ces initiatives développées par certain.es d’entre nous.

      En master au contraire, il peut être tout-à-fait bénéfique de renoncer aux cours magistraux pour permettre aux étudiant.es de se concentrer sur la rédaction de leurs mémoires de recherche (ils étaient en train de terminer leurs terrains) et de stage (si celui-ci a pu être réalisé, ou peut être réalisé en télétravail), en leur proposant des formes d’accompagnement à distance adaptées (forums, rendez-vous par Skype, séminaires d’accompagnement et de méthodologie de la recherche en ligne…).

      On peut néanmoins redire que toutes ces activités pédagogiques à distance devraient au minimum respecter un certain nombre de règles importantes, pour atténuer la rupture d’équité qu’entraîne leur maintien :

      Ces activités devraient avoir principalement pour fonction de maintenir des formes de communication et de socialisation avec celles et ceux des étudiant.es pour qui elles exercent un effet socialement structurant, qui peut être précieux dans ce contexte de crise.
      Ces activités ne devraient pas être évaluées, ou en tout cas ces évaluations doivent avoir une visée purement pédagogique et ne pas conditionner la validation des enseignements.
      En licence au moins, ces activités ne devraient pas se dérouler seulement en direct sur des plateformes de diffusion vidéo ou audio, dans la mesure où de nombeux.ses étudiant.es n’ont pas la possibilité d’être disponibles aux horaires des cours, ou ne bénéficient pas de conditions permettant de les suivre correctement (pas de wifi, pas d’ordinateur, impossibilité de s’isoler…). Il faudrait que les cours puissent être suivis en différé, et donc que les documents à lire et les enregistrements vidéo et audio restent facilement accessibles même après la fin de la séance.
      Ces activités ne devraient pas obliger les étudiant.es à utiliser un nombre trop élevé de plateformes et d’outils différents. Elles devraient centralement utiliser les possibilités offertes par Moodle et à l’intérieur de Moodle. L’expérience de la semaine écoulée a montré que des étudiant.es avaient apprécié l’utilisation de Discord par certains enseignants, même si là encore nous n’avons aucune garantie du caractère égalitaire du recours à cet outil. Dans tous les cas, on devrait éviter de multiplier les outils utilisés, au gré des initiatives individuelles, et on devrait éviter en particulier les outils nécessitant des ressources techniques trop importantes, et a fortiori les outils payants.

      Et pour clore provisoirement cette présentation des résultats de notre petite enquête, on peut également dire qu’en fonction des solutions adoptées, il faudra certainement en observer avec la plus grande attention les effets, aussi bien sur les étudiant.es et leurs cursus, que sur l’enseignement supérieur même et les évolutions des études universitaires dans les mois et les années à venir. Force est de constater que la crise sanitaire en cours, et en particulier le confinement, fabriquent de fait le consommateur et la consommatrice dont rêvaient les plateformes numériques. Et donc peut-être aussi l’étudiant.e dont rêvaient les établissements d’enseignement supérieur : assigné.e à résidence, moins coûteux.se en locaux et en personnels, privé.e de sa capacité à se mobiliser… En nous précipitant sur les outils numériques permettant de faire cours à distance à un nombre très restreint d’étudiant.es bénéficiant de conditions matérielles, économiques et sociales privilégiées, et disposant aussi des capacités socialement construites à l’auto-discipline que nécessitent les auto-apprentissages, on prend le risque de faire croire que c’est possible, sans se demander ni se soucier ce qui est réellement transmis de cette façon, ni à qui. Quand on a ouvert la boîte de Pandore, il est très difficile de la refermer…

      http://pierremerckle.fr/2020/03/la-continuite-pedagogique-vraiment

    • … et il n’y a toujours pas de masques

      Il y a elle ; elle est chez ses parents au fin fond de quelque part, et ne capte pas grand chose, d’un point de vue informatique je veux dire, elle a bien la 3G mais c’est littéralement au fond du jardin.

      Il y a ma compagne ; elle est professeure de français histoire géographie dans un lycée professionnel. Elle a des classes et des élèves. Elle a des « elle » et des « il » aussi. Il faut qu’elle s’en occupe.

      Il y a mon groupe 2 en DIG2 ; il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe, il faut que…

      Il y a lui ; il est réquisitionné et travaille dans l’alimentaire à 125% depuis le début du confinement, il est inquiet pour la suite de ses études.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste.

      Il y a elle ; elle dit que “Nous n’entendons pas demander à un enseignant qui aujourd’hui ne travaille pas, compte tenu de la fermeture des écoles, de traverser la France entière pour aller récolter des fraises gariguette”…

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a iel ; son père/ sa mère est docteur.e/infirmier.ère, iel est inquiète et a du mal à travailler.

      Il y a ma fille ; elle a 7 ans, cette semaine elle a appris deux nouveaux sons sans sa maîtresse. Elle a besoin de ses parents.

      Il y a mon groupe 1 en découverte 2, il ne faut pas que je les oublie, il ne faut pas que je les oublie …

      Il y a lui ; il est juste inquiet, juste angoissé, il n’a jamais vu ça. Il ne sait pas s’il arrivera à finir son semestre.

      Il y a elles et ils ; iels font la queue devant le magasin de fruits et de légumes, une file étrange au milieu d’une route sans voiture. Eloigné.es les un.es des autres d’un mètre au moins ; iels attendent, iels ne parlent pas.

      Il y a le service public télé et radio qui organise une soirée de soutien pour trouver des sous pour le service public hospitalier… et tout le monde a l’air de trouver ça normal de faire nos fonds de poches pour les services publics que nos gouvernements managérisent, déstructurent, détruisent depuis des années.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle, elle a besoin d’une lettre de recommandation. C’est pour partir à l’étranger l’année prochaine. Ah. C’est bien, il y aura une année prochaine…

      Il y a ma fille de 11 ans ; elle a des devoirs tous les jours. On n’a pas d’imprimante alors elle recopie ses leçons à la main. Elle râle un peu mais ça va. Elle a besoin de ses parents.

      Il y a mon amphi de L1 ; il faut que je transforme mon CM en chapitre de livre, il faut que je transforme mon CM en chapitre de livre, …

      Il y a ce mail là, un peu bizarre pour une réunion le 3 juillet…

      Il y a iel ; iel ne comprend pas comment compléter des diaporamas sans support de cours et juste avec des liens internet… moi non plus. Je ne sais pas trop quoi lui dire, ce n’est pas mon cours.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste. Il y a un temps à la fois long et court, bref et étonnamment élastique.

      Il y a les cloches qui sonnent huit heures, on va applaudir sur le balcon toustes celles et ceux qui luttent pour sauver des vies.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle ; par chance elle a pris une UE de sport ce semestre. Cette UE est considérée comme acquise.

      Il y a mes parents ; iels sont âgé.es. Je suis inquiet et j’ai besoin de mes parents. Il y a mon groupe 6 en DIG2, il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe, il faut que…

      Il y a lui, par malchance il y pris une ETC disciplinaire comme « égalité femmes hommes » par exemple et doit quand même rendre quelque chose.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste. Il y a un temps à la fois long et court, bref et étonnamment élastique. Il y a les informations qui hantent nos journées.

      Il y a le président ; il a l’air de trouver que finalement l’hôpital c’est pas mal et que ça vaut le coup d’investir dedans.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle ; elle est dans la réserve sanitaire, mobilisable à tout moment. Il y a lui ; il est dans la réserve militaire ; il est mobilisable à tout moment.

      Il y a ma fille ; elle a 13 ans, ses enseignant.es du collège ont pris leur rythme de croisière, elle travaille au moins 5 heures par jour. Elle a besoin de ses parents. Il y a lui ; ils sont à cinq dans un petit appartement, il y a un PC, le papa travaille en télétravail, la maman travaille en télétravail, son frère fait l’école à la maison et ses cours arrivent par internet et sa sœur fait l’école à la maison et ses cours arrivent par internet. Et puis il y a celui qui n’a qu’un téléphone dans sa chambre de 11m² du CROUS.

      Il y a mon groupe de Géo & média, il ne faut pas que je les oublie, il ne faut pas que je les oublie …

      Il y a elle ; elle m’envoie un courriel pour me dire qu’elle est en quatorzaine dans sa chambre ;

      Il y a chamilo, un jour je le ferai griller au-dessus d’un feu de bois ou dans une cheminée,

      Il y a les questions nombreuses qui affluent par courriel : et le confinement ? monsieur, s’il se prolonge ? et les notes monsieur ? comment on fait ? monsieur on n’a pas de nouvelle d’untel ? monsieur, monsieur ?

      Il y a mon groupe 1 en découverte 2, il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe…

      Et il y a les miennes de questions. Pourquoi on continue de faire comme si c’était normal ? Comment on va gérer tous les « il » et toutes les « elle » qui se multiplient ces derniers jours et qui ne pourront pas être traité.es comme toustes les autres ?

      Et pour les stages ? il y a elle ou lui qui l’ont déjà et il y a elle ou lui qui ne l’ont pas fait ; comment les noter équitablement ? et quand est-ce qu’on décide d’arrêter la mascarade et d’annoncer que l’année est terminée ? et quand est-ce qu’on admet qu’on n’était pas prêt ? et que ce n’est pas grave ? et qu’en est-ce qu’on arrête le délire sur les maquettes et que l’université nous dit que « c’es bon » on décale tout de trois mois…

      Et quand est-ce qu’on arrête de faire semblant, de faire comme si tout était normal alors que pas grand choses ne l’est en ce moment…

      Et puis, il y a Jérôme Salomon qui prend la parole et qui compte les morts…

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      https://academia.hypotheses.org/21695

    • Message d’une promo de l’IUGA à Grenoble :

      Suite à de nombreux échanges entre nous, vous voulons vous faire part de notre avis sur la situation actuelle et les différents travaux demandés.
      Tout d’abord, nous sommes conscients que la période que nous traversons est autant difficile pour nous que pour vous. Cependant, les projets notés que nous devons vous rendre ne semblent pas en adéquation avec ce que nous vivons, et nous voulons vous faire part de notre inquiétude. En effet, nos conditions de travail en cette période de confinement sont toutes très différentes, certains n’ayant plus d’espace de travail approprié, un accès à un internet limité et les différentes ressources auxquelles on peut accéder (bibliothèques, espaces de travail...) étant fermées.
      A des fins égalitaires, il nous paraît injuste de nous noter sur un même piédestal. De plus nous ne reconnaissons pas l’aspect pédagogique de certains travaux, nous avons l’impression de travailler sans rien apprendre, bien loin de la fonction principale d’une université. Nous avons peur que ces notes soient préjudiciables pour la suite de nos études.
      Nous savons que la situation est loin d’être évidente pour vous également mais il nous paraissait important de vous faire part de la situation qui préoccupe l’ensemble de la promo, mais également le corps enseignant de part l’appel a la grève promulguée par certains de vos collègues que nous rejoignons (notamment par la lettre de Sébastien Leroux « Il y a iel » : https://academia.hypotheses.org/21695).
      Par conséquent, et compte tenu de cette situation inédite ne permettant pas une évaluation équitable entre les étudiants, nous souhaiterions une organisation différente nous permettant d’être évalué sur nos réelles capacités (comme ce fut le cas lors du premier semestre) et non sur des travaux n’ayant pour seul but le remplissage d’un bulletin qui n’aura aucune réelle valeur pédagogique.

    • Ma réponse à mon collègue Sébastien Leroux (https://academia.hypotheses.org/21695) :

      Et puis… la colère, et puis …la peur

      « En lisant le texte de mon collègue Sébastien, je me demande comment il fait et comment font mes collègues enseignant·es à la fac qui ont beaucoup de cours à donner ce semestre. Par chance, mon semestre est chargé en automne, mais beaucoup moins au printemps.

      Et je n’ai pas d’enfants. Nous accueillons chez nous à la maison un demandeur d’asile, mais il est majeur, autonome et est surtout une aide… Il nous fait souvent à manger, il nous aide dans les tâches ménagères et aide mon compagnon à terminer les petits travaux qui restent à faire dans notre nouvel appartement.

      Malgré ma situation décidément privilégiée, je n’arrête pas. Il y a des étudiant·es étrangères dont je m’occupe en tant que responsable du master international que je dirige et qui sont en difficulté. Cela m’a pris beaucoup de temps. Mais en réalité, ce n’est pas vraiment cela qui me prend plus de temps. Et ce n’est pas cela qui m’empêche d’avoir du temps et de l’énergie. C’est la multiplication des mails de gestion administrative de la crise. Et ce sont des pensées qui trottent dans la tête, en ces temps bien étranges. Car, comme me l’a dit hier une collègue, on voit tellement clairement avec cette crise qu’on a tout un arsenal prêt pour une guerre, la « vraie guerre », pas celle contre l’ « ennemi invisible » de Macron… On a une armée et des soldats, des bombes, on a mis en place des tactiques et des stratégies… Mais rien pour contrer ce virus, dont son émergence était tout de même « annoncée », comme le dit si bien le microbiologiste Sansonetti ; on est complètement démuni·es. Seule solution : le confinement. Seule solution car il n’y a pas de tests de dépistages, il n’y a pas de masques et il n’y a pas assez de lits dans nos hôpitaux, que les gouvernements successifs ont démantelé, brique par brique.

      Et la colère monte, en pensant à cela. C’est cette colère qui m’empêche de me concentrer. Et qui me pousse à faire ce que fais en temps « normaux », mais ce travail prend désormais plus de temps car aux thèmes habituels s’ajoutent ceux liées à la crise sanitaire : prendre et archiver des infos, les partager. En « temps normaux », je fais ce travail sur mes thèmes de recherche : migrations, réfugiés et frontières. Mais désormais s’ajoutent à cela des infos sur ce virus et cette crise sanitaire, pour que l’info critique puisse circuler. Alors je trie l’info, je la mets sur mon réseau social préféré et sur lequel j’archive des infos depuis des années : seenthis.net. Et en plus, je partage l’info avec celleux qui m’ont dit vouloir se tenir informé·es par des canaux autres que ceux gouvernementaux ou des médias mainstream.

      Du coup, j’ai créé un fil sur seenthis sur la maudite continuité pédagogique, car en tant qu’enseignante, c’est parmi les thèmes qui m’agacent le plus.

      Mais il y a aussi cette autre question, très peu traitée par les médias, celle du lien entre confinement et violences domestiques, dont se préoccupent pas mal de personnes autour de moi, mais dont on parle très peu, en réalité. Car le mot d’ordre est « restez chez vous ». Mais quand le « chez soi » n’est pas un refuge mais un condensé de violence, quoi faire ? Et quand, à vrai dire, on n’a pas du tout de chez soi ?

      (…)

      Et puis, dans notre amap, c’est la trêve hivernale pour notre maraîcher. Pas de légumes, jusqu’au mois de mai. Trop difficile, une vie sans les légumes d’Yvan. Et alors, j’essaie d’organiser un moyen pour ne pas devoir me rendre dans les supermarchés où je ne vais plus depuis que je suis arrivée en France… Il y a un « plan légumes via notre amap ». J’y adhère, je partage avec des ami·es qui, elleux aussi, sont à la recherche de légumes. C’est parti, petit tableau pour regrouper les commandes, organisation de la distribution…

      Tout cela, ça prend du temps. Mais c’est ce qui me donne de la vie et de l’énergie en ces temps de confinement. Confiné·es, mais pas isolé·es. Et alors j’essaie de me dire que c’est une chance peut-être de pouvoir s’organiser autrement, de pouvoir trouver d’autres liens. On peut enfin apprécier une ville sans trafic motorisé. Et ça fait du bien, oh que ça fait du bien ! Je me dis, parfois, qu’il y a de l’espoir… c’est peut-être une chance. Pour repenser notre monde. Un jour, peut-être, on dira « merci coronavirus ». Les gens ont enfin compris que l’hôpital public, c’est essentiel. Que nos maraîchers et maraîchères, sont essentiels. A la survie. A la vie.

      Mais souvent, c’est la peur qui me prend à la gorge. Non pas la peur de ce virus, malgré les nouvelles inquiétantes qui nous arrivent d’Italie, que j’ai commencé à suivre bien avant mes ami·es et collègues ici en France. Je savais que ça allait arriver ici aussi. Cela semble se confirmer : 11 jours de retard sur l’Italie. 11 jours. Et tout sera comme en Italie. Et les nouvelles de Bergame, ça fait peur. Je ne sais pas si le fait d’être de langue maternelle italienne est une chance ou pas, dans ces conditions. Je ne l’ai pas encore compris.

      La peur, je disais… La peur qu’en réalité, dans l’après covid-19, on se réveillera et ça fera mal. La peur que ce que Naomi Klein décrivait pour l’Irak, est en train de se passer ici et maintenant. En Europe, en 2020. La stratégie du choc. C’est cela, la peur qui me prend à la gorge. C’est cela qui m’empêche de penser à ce que je dois faire comme si « tout était normal ». C’est cette peur qui ne me fait pas croire à la « continuité pédagogique ». Pour moi, un seul cours à assurer (et l’appui à un autre), mais je n’arrive pas à m’y mettre vraiment. Pourtant, pour ce cours, les étudiant·es sont là, présent·es. Ielles travaillent et s’y mettent. Avec ma collègue nous avons adapté le cours, et ça a l’air de marcher. Je n’avais pas de nouvelles d’un sous-groupe, j’étais inquiète. Après quelques jours, j’arrive à atteindre les étudiants du groupe, une personne sans internet dans le groupe. Et tout s’écroule. Mais il va bien. C’est ce qui compte. On adaptera. On ne pénalisera pas. Mais j’ai cette étrange impression que ces étudiant·es de L3 GES sont bien plus présent·es que moi. Ou alors ielles jouent. The show must go on. Continuité pédagogique oblige. Je ne sais pas si ielles font semblant ou si ielles y croient vraiment à ce beau projet qu’on était en train de construire ensemble : améliorer l’offre alimentaire des étudiant·es de l’IUGA. Je pense qu’ielles y croient et c’est pour cela qu’ielles sont là, présent·es. Ou peut-être ielles ont juste peur de ne pas avoir les crédits à la fin de l’année. Je pense qu’on ne le saura jamais. Mais je leur suis vraiment très reconnaissante, car ielles me motivent à ne pas lâcher. A les accompagner. On se donne tous les vendredis RV sur Discord. Et ça marche. Parce qu’ielles sont là au RV. Là avec leurs idées et leur envie d’avancer. Juste pour cela, ielles méritent une bonne note. Une belle leçon. »

      https://www.modop.org/se-relier/#29mars

      Le texte complet : https://www.modop.org/wp-content/uploads/2020/03/Et-puis-la-col%C3%A8re-et-puis-la-peur.pdf

    • Lettre ouverte adressée au président de l’université Savoie Mont Blanc par des étudiant.e.s mobilisé.e.s, à travers le syndicat Solidaires Etudiant-es, 31.03.2020

      Monsieur le Président de l’Université Savoie Mont Blanc,

      Le syndicat Solidaire Etudiant·e·s Savoie a pris l’initiative de créer un questionnaire à destination des étudiant·e·s sur la situation actuelle de la crise sanitaire et sociale. Le but de celui-ci est d’identifier les problèmes rencontrés par les étudiant·e·s durant cette période exceptionnelle de confinement pour tou·te·s, en se basant aussi bien sur l’aspect matériel que psychologique. Nous vous adressons donc aujourd’hui, Monsieur le Président, une lettre pour vous faire état de cette situation. 
Nous avons conscience que cette période apporte beaucoup d’inquiétudes, de questions et que les réflexions à distance sont compliquées. Cependant, nous souhaitons faire entendre les voix des étudiant·e·s. Le confinement nous oblige à modifier le déroulement de la fin de ce second semestre tant pour la continuité pédagogique que pour les examens qui devaient se tenir entre le 27 avril et le 16 mai 2020. Les craintes étudiantes concernant les modalités d’évaluation sont plus que présentes. C’est pourquoi nous vous demandons de prendre en considération les conséquences que pourrait avoir le maintien des examens. Aussi, ce questionnaire n’a aucune vocation scientifique ; il a été créé dans l’urgence et en réponse au questionnaire envoyé par la direction LLSH de l’USMB, que nous jugeons insuffisant puisque la seule dimension technique (connexion internet, ou pas) y est abordée. Pourtant, c’est loin d’être l’unique difficulté rencontrée. D’autres facteurs sont tout autant importants, à commencer par l’aspect psychologique, non négligeable, qui compte de cette situation inédite.

      Nous avons voulu connaître la situation des étudiant·e·s. C’était donc le but de notre questionnaire qui a été mis en ligne entre jeudi 26 mars et lundi 30 mars 14 heures. Il a été clôturé temporairement pour nous laisser le temps d’analyser les 808 réponses récoltées à l’heure de ces lignes. Nous le remettrons en ligne suite à la demande de plusieurs personnes. Les questions portent sur les conséquences du confinement ; l’état émotionnel, l’organisation personnelle dans la continuité pédagogique, sur les difficultés à suivre les cours à distance aussi bien au niveau des problèmes de matériel, de connexion qu’au niveau de la mise en place d’un environnement de travail approprié pour étudier.

      Dans un premier temps, nous pensons qu’il est important de souligner le taux d’inquiétude, de stress et d’angoisse incroyablement élevé des étudiant·e·s. En effet, à la question « êtes-tu angoissé·e, stressé·e, inquièt·e ? » 74,6% ont répondu par l’affirmative. Ce niveau d’angoisse extrême est facilement explicable par la crise sanitaire que nous vivons et beaucoup l’ont développé : la peur de tomber malade ou bien qu’un proche le soit a envahi leur quotidien. Face à ce taux particulièrement haut, nous avons cherché à savoir qu’elle était la source de cette inquiétude à travers les études. Le plus évident est d’abord la validation de leur année (506 personnes sur 808 se sentent concernées) mais également les concours reportés (170 sur 808). L’angoisse vis-à-vis des examens s’accroît d’autant plus avec les conditions de travail à la maison, qui ne garantissent pas l’égalité des chances. Certain·e·s étudiant·e·s doivent assurer la continuité pédagogique de leur·s frère·s ou soeur·s en plus de la concentration demandée pour leurs propres études. De même, les conditions de travail sont radicalement changées et ce malgré la volonté des professeur·e·s de bien faire : débit internet insuffisant, partage d’ordinateur avec les autres membres de la famille notamment pour le télétravail, impossibilité d’avoir un endroit au calme et de pouvoir travailler sans être dérangé·e, activités professionnelles qui continuent dans la grande distribution par exemple donc dans des lieux à risques ce qui engendre une inquiétude en plus et une méfiance parfois. Travailler chez soi est difficile pour beaucoup. Sur 808 étudiant·e·s, seulement 176 ont la possibilité de suivre correctement leurs cours, soit 21,8%, ce qui ne représente qu’un cinquième des étudiant·e·s sondé·e·s. C’est peu et insuffisant pour permettre la tenue d’examens en de bonnes conditions. Les étudiant·e·s sont également anxieux·ses face au report des examens ; vous n’êtes pas sans savoir que beaucoup sont obligé·e·s de travailler dès les mois de mai ou juin pour assurer une stabilité financière qui leur permettra d’avoir des conditions de vie décentes (567 étudiant·e·s sondé·e·s sur 808 soit 70,2% déclarent qu’un report des examens aurait des conséquences financières dramatiques pour eux·elles)
Un report des examens en présentiel ne ferait que renforcer le statut déjà précaire des étudiant·e·s. 
Les inquiétudes sont aussi tournées vers les conséquences de cette situation sur les sélections en master, la mobilité étudiante ou encore les stages et concours reportés.
      Nous demandons des décisions à la hauteur de la situation actuelle, égalitaires et équitables pour tou·te·s et surtout qui élimineraient les différents problèmes mentionnés ici.

      Monsieur le Président, nous voulons sincèrement croire en votre « sincère et fidèle soutien dans la situation particulière que nous traversons ». Mais les effets de manche ne suffiront pas aux étudiant·e·s : les actes doivent suivre les discours. Ainsi, vu la situation sanitaire et sociale d’un bon ensemble de vos étudiant·e·s, les modalités d’évaluation classiques ne pourront pas s’appliquer.
      Premièrement, nous demandons la suppression des évaluations en contrôle continu (en ligne) durant la période de confinement et de fermeture de l’Université. Ensuite, en ce qui concerne les contrôles terminaux : un report des examens durant les mois de mai ou de juin, en présentiel, est inconcevable pour différentes raisons : certain·e·s n’auront pas la possibilité de se loger en mai et juin, d’autres se sont déjà engagé·e·s dans des responsabilités professionnelles, familiales ou associatives. Un report des examens en présentiel impliquera de facto des conséquences financières et logistiques nuisant à beaucoup. Comme nous l’avons précédemment évoqué, l’enseignement pédagogique à distance n’est pas possible pour tout un ensemble d’étudiant·e·s, malgré la bonne volonté des différentes équipes pédagogiques. Une évaluation terminale, sur des contenus et relations pédagogiques fragiles de part la distance, que certain·e·s n’auront pas vécu·e·s, est donc totalement incohérente.
      Pour ce même objet, l’alternative numérique est un danger. Nous implorons donc à chacun et chacune ne pas céder à quelque démagogie ou essentialisme que ce soit : non, les « jeunes » ne préfèrent pas, par nature, l’usage du numérique. Si elle peut apparaître comme une solution par défaut, nous y voyons au contraire un outil excluant bon nombre d’entre nous.

      Mais alors... quelles solutions ? Nous demandons la validation de tous les enseignements dont les modalités de contrôle n’ont pas été faites avant la fermeture de l’Université. La condition sine qua non de cette mesure est l’établissement d’une note plancher de 12 pour toutes et tous, ou en fonction des notes correspondantes à celles des UE du premier semestre ou alors la validation automatique. Pour les étudiant·e·s en rattrapages, une solution devra être proposée, en prenant considération des contraintes de ce second semestre.
      Cette modification administrative concernant les notes et la validation du semestre ne signifie pas la fin de la continuité pédagogique, bien au contraire. Beaucoup d’équipes pédagogiques font des efforts considérables pour permettre à toutes et tous d’avoir des éléments et ressources pédagogiques. Nous demandons que cet effort soit maintenu, et que les échanges pédagogiques perdurent.

      Nos sincères salutations,

      Solidaire Etudiant·e·s Savoie

      –-> reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte

    • Lettre écrite à l’initiative de plusieurs enseignant.e.s du département des sciences de l’éducation de Paris8

      Bonjour à tous et toutes,
      Nous sommes quelques enseignant·e·s de l’UFR de sciences de l’éducation de l’université
      Paris 8 à nous poser des questions sur ce qui nous arrive et nous tenons à partager avec
      vous nos interrogations.
      Nous voici confiné.e.s pour au moins quinze jours, mais probablement le double si l’on en
      croit les expériences du Hubeï ou d’Italie.
      Nous sommes passé·e·s d’une vie publique et politique intense à une vie resserrée sur
      l’espace domestique. Pourtant rien ne cesse vraiment de nous indigner.
      Paraît-il que les journalistes se sont organisé·e·s pour assurer la « continuité de
      l’information » et nous voici avec un flot continu de discours sur l’évolution à la minute de
      la pandémie, la réaction de nos politiques en temps réel et les soubresauts de la bourse,
      tout ceci bien enrobé « d’unité nationale ». Alors à nous tous et toutes, professionnel·le·s
      de l’éducation de la maternelle à l’université, de prendre nos responsabilités pour assurer
      la « continuité pédagogique » et de faire vivre cette « nation apprenante » dont on voit mal
      ou trop bien (c’est selon) ce qu’elle peut bien signifier ! Nous savons tous et toutes que les
      plus vulnérables seront les plus touché·e·s par le virus, mais aussi par la nécessité
      d’assurer toutes formes de continuité, de s’occuper des proches, de gérer le quotidien.
      La grève prend ainsi une drôle de tournure dans un moment où la défense de nos services
      publics et une plus juste répartition des richesses semblent d’une brûlante actualité. Il ne
      s’agit évidemment pas de contester la décision de confinement mais de ne pas cesser
      d’être critiques et solidaires parce que nous avons cessé de sortir et de nous réunir. Il ne
      s’agit peut-être pas non plus d’assurer une « continuité de la grève » plutôt qu’une
      continuité pédagogique… mais peut-être d’accepter la rupture !
      Cessons de tenter de télé-travailler, tout en essayant de télé-enseigner, de télé-s’éduquer,
      de télé-s’angoisser les un·e·s les autres. Partageons plutôt des ressources, des attentions,
      des idées, des sourires, des réflexions, des lectures...
      Cette année a été chamboulée et tout ne sera pas rattrapé, quelle que soit la date de
      sortie de confinement. Les mouvements sociaux suspendus en plein vol n’ont pas perdu
      de leur pertinence, bien au contraire. La lettre d’un chercheur travaillant sur le coronavirus
      et exposant ces difficultés récurrentes à obtenir des financements pour ses recherches au

      cours des dernières années en est un exemple frappant. Il s’agira donc d’en tenir compte
      et d’avancer à partir de ces données. Peut-être arriverons-nous à trouver les espaces pour
      nous demander collectivement ce que nous avons appris de cette drôle d’année et la
      manière dont ces apprentissages résonnent avec nos projets individuels et collectifs.
      Peut-être arriverons-nous à penser et mettre en oeuvre une université de service public qui
      soit une réelle institution des communs.
      En définitive, nous refusons fermement :
      ● De passer de la grève à la continuité pédagogique sans nous interroger sur ce que
      cela signifie.
      ● Que l’on continue à nous faire croire que notre société peut persévérer dans ses
      routines de vitesse, de performance, de résultats et de compétition généralisée.
      C’est ce qui se joue derrière les injonctions faites aux enseignant·e·s et aux parents
      de continuer l’école à la maison, au détriment des foyers les moins équipés et des
      familles les moins familières de la culture scolaire. C’est ce qui se joue également
      dans l’injonction faite aux élèves et aux étudiant·e·s de continuer à étudier sans
      tenir compte de la grande précarité de certaines situations.
      ● De faire comme si les élèves et les étudiant·e·s pouvaient passer les examens de
      fin d’année comme si de rien n’était alors qu’ils et elles sont matériellement et
      culturellement dans une situation d’inégalité face à l’offre d’apprentissage à
      distance proposée par le ministère de l’éducation et par les universités.
      ● De répondre à l’injonction de télé-enseigner alors que nous nous occupons de nos
      enfants et de nos proches, fonction dont on sait que, socialement, elle incombe
      surtout aux femmes.
      ● De demander à nos élèves et étudiant·e·s de répondre à l’injonction de télé-étudier
      alors que certain·e·s sont dans des situations de précarité, ont des familles à
      charge, n’ont pas cessé leur activité salariée ou dépendent de parents qui n’ont pas
      le temps de les aider à prendre en main les outils numériques.
      ● De taire nos critiques au nom d’une prétendue solidarité qui arrive bien tardivement
      dans le quinquennat présidentiel !
      Nous voulons pouvoir parler de ce qui fâche : l’avenir de nos sociétés mondialisées
      néo-libérales et celui de nos démocraties qui, les unes après les autres, renoncent aux
      libertés fondamentales pour faire face à l’épidémie.
      À partir de là et poing à point contre les inquiétudes, nous voulons adresser les messages
      suivants à nos étudiant.e.s :
      ● La priorité est au soin de soi et de ses proches (idée : une carte des solidarités -
      sans se mettre en danger !)
      ● Si vous rencontrez des difficultés particulières face à cette situation de confinement,
      des professionnel·le·s et des militant·e·s sont disponibles par mail et par téléphone
      pour répondre à vos questions et besoins : violences conjugales (appeler le 3919 – Il
      est déconseillé de sortir, mais il n’est pas interdit de fuir), problème de logement,
      situation de travail, éventuelles questions sur le droit de retrait (lire par exemple le
      communiqué de solidaires étudiant·e·s ).
      Vous pouvez évidemment vous confier aux enseignant·e·s en qui vous avez confiance. Ils
      et elles feront de leur mieux pour vous aider et/ou vous orienter vers les personnes
      compétentes.
      ● Nous tenterons, quoiqu’il arrive, de rester en contact mais sans pression de part et
      d’autre. Nous restons joignables à nos adresses mails et ferons au mieux, avec tout
      ce que nous avons à gérer de quotidien, pour y répondre avec précision.
      ● Le semestre sera validé pour tous les étudiants et toutes les étudiantes qui suivent
      nos cours. Les modalités se discuteront collectivement autant que faire se peut, mais
      chaque enseignant·e·s reste décisionnaire pour les cours qui le concernent.
      Des enseignant·e·s de l’UFR SEPF - Université Paris8.

      –-> reçue le 30.03.2020 via la mailing-list Facs et labos en lutte

    • « Des gens vont mourir, mais il faut que tu passes ton bac »

      Les mots sortent avec difficulté. Le constat est douloureux. « Je suis dépassée », confie Milouda, 51 ans, une femme de ménage qui élève seule ses deux enfants de 11 et 18 ans en Ariège. Elle continue de travailler à un rythme réduit. Comme tous les élèves de France, son fils, qui est en sixième, a du travail à faire. Et cela au nom de la sacro-sainte « continuité pédagogique » voulue par Jean-Michel Blanquer, au mépris des multiples réalités sociales des familles.

      La mère explique que ses difficultés à faire la classe à la maison sont imputables, entre autres, à sa mauvaise maîtrise de l’informatique. Elle dispose d’une tablette mais « n’y arrive pas » et ne possède pas d’imprimante. Il lui est donc difficile de suivre les consignes des enseignants, eux-mêmes assez absents. Une fois, en ces deux semaines, un enseignant a donné un cours d’histoire-géographie à distance. Il s’agit du seul contact que Milouda et son fils ont eu avec le corps enseignant.

      La situation semble inextricable. Cela génère tensions et souffrances pour la mère et son fils. « Je suis à bout, j’ai lâché, je ne peux plus rien faire, on ne fait plus rien du tout. Je n’arrive pas à lui expliquer les cours. Je me sens impuissante de ne pas pouvoir faire d’autres exercices. J’ai du mal à avoir les devoirs aussi, car je n’ai pas le matériel. Comme je suis arrivée tard du Maroc, je n’ai pas le niveau et je ne sais pas quoi faire. Mon fils ne se sent pas bien, il se dit qu’il est nul », soupire Milouda. Son fils sait accéder à l’espace numérique de travail (ENT) seul mais c’est tout.

      Alors, elle veut témoigner pour alerter sur sa situation et celle d’autres familles dans son cas. Elle veut raconter à quel point cette configuration est injuste pour une population modeste déjà oubliée. Milouda doit tout assumer seule, sans aide. « Je me sentais déjà larguée, il fallait que je me batte pour beaucoup de choses. Là, il n’y a rien de pire, on est des sacrifiés. Déjà qu’on avait l’impression que tout le monde se fout de nous… »

      Nordy Granger, responsable de l’association Sorosa, dans la Drôme, connaît les difficultés induites par l’école à distance. Elle accompagne des jeunes mineurs non accompagnés et des jeunes majeurs étrangers scolarisés en lycée professionnel ou en centre de formation d’apprentis (CFA) éventuellement. Les mineurs sont pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance (ASE). Il a fallu là encore s’organiser pour faire face à l’école à distance, particulièrement délicate en filière professionnelle.

      « Au début, raconte la responsable, la première semaine, il y a eu un cafouillage, la continuité pédagogique n’a pas été tellement mise en place. Puis, il y a eu une accélération. Les profs ont envoyé des devoirs par mail. »

      Depuis le début de la fermeture des établissements scolaires, il y a deux semaines, des difficultés techniques sur les plateformes officielles de travail à distance ont obligé les enseignants à faire preuve de créativité. Certains ont conçu des groupes WhatsApp. D’autres envoient simplement des consignes et exercices par courriel. Un peu trop parfois.

      Un jeune s’est retrouvé aussi avec 40 pages de travail, avec un rendu la semaine suivante.

      Certains élèves n’ont pas d’adresse mail, d’ordinateur, Internet ou de smartphone. Les éducateurs du département n’ont pas le droit de se déplacer. « Personne ne savait comment procéder. Pour les familles exilées, c’est compliqué. Parfois, elles ne parlent pas français. S’il y a un grand frère ou une grande sœur adolescente qui parle français, il ou elle va expliquer ce que les petits doivent faire. S’il n’y a pas de grands, cela signifie que les petits ne vont pas faire de devoir tout le temps du confinement ? Vont-ils redoubler ? », s’interroge encore Nordy Granger.

      Elle explique qu’ils sont livrés à eux-mêmes. Certains sont francophones mais ont des difficultés à l’écrit et besoin d’un enseignant pour tout comprendre. « Les éducateurs font tout ce qu’ils peuvent, ils sont eux-mêmes en télétravail, ils essaient d’aider par téléphone. Les enseignants de français langue étrangère, le FLE, appellent les élèves pour discuter avec eux et les rassurer. Mais c’est un tel chantier… »

      Alors l’association a décidé de tenir une permanence le mercredi et le samedi, en respectant les règles sanitaires et en filtrant l’accès au local, personne par personne. Ainsi une adolescente de 14 ans est-elle venue faire ses devoirs dans le petit bureau de la permanence, car elle vit dans un squat sans ordinateur.

      Nordy Granger s’inquiète de ces bouleversements de la scolarité, même s’ils sont indépendants de leur volonté. Quid des diplômes ? Comment vont faire les élèves en apprentissage pour valider leur cursus alors que les entreprises – hors BTP – sont à l’arrêt ?

      Elle craint que cela les pénalise pour obtenir un titre de séjour, lequel est conditionné par « suivi réel et sérieux de leurs études ». Or, s’il est écrit que le demandeur n’a pas fait d’effort pour suivre les cours dans son bulletin du troisième trimestre, la préfecture pourrait bien refuser sa délivrance.

      De son côté Aurore, mère de deux enfants, enceinte du troisième et proche du terme, joue de malchance. L’ordinateur familial a planté. Il n’est pas possible de le faire réparer ni d’aller en acheter un nouveau, faute d’avoir le budget et de pouvoir se rendre dans les magasins. Ses enfants, respectivement en sixième et en troisième, se débrouillent avec les smartphones de leurs parents.

      Seulement, il est difficile d’aller sur Pronote, l’une des plateformes utilisées pour l’école à distance, sur un simple téléphone. « Nous avons accès à tous les cours mais impossible d’être évalués », résume Aurore.

      L’école française se distingue pour sa propension à nourrir les inégalités qui la traversent. Ce moment inédit qui voit 12 millions d’élèves suivre leurs cours à distance met au jour ce que tous les observateurs du monde scolaire s’échinent à dénoncer. L’école est loin d’être aveugle aux différences sociales et, pire, elle ne fait pas grand-chose pour les corriger.

      Le ministre de l’éducation nationale l’a reconnu mardi 31 mars sur CNews. Selon Jean-Michel Blanquer, il y a « un grand risque » que la situation actuelle « creuse les inégalités » entre les familles qui ont la possibilité de faire la classe à la maison et les autres. Il a estimé qu’entre 5 et 8 % des élèves ont été perdus par leurs professeurs, qui ne peuvent pas les joindre depuis deux semaines.

      Pour lutter contre cela, un accord a notamment été passé avec La Poste, qui « va permettre à chaque professeur d’envoyer à partir de son ordinateur un document imprimé à un élève qui n’a pas d’équipement numérique ou qu’il n’a pas réussi à joindre autrement », a-t-il détaillé. Des tablettes peuvent être distribuées par des collectivités locales ou des associations aux familles qui n’ont pas d’équipement informatique, a promis le ministre.
      Le système D prévaut

      En attendant, pour les familles comme pour les enseignants, le système D prévaut.

      Virginie*, professeure des écoles dans une école Réseau d’éducation prioritaire (REP) à Pantin, en Seine-Saint-Denis, a fait en sorte de contourner les difficultés des familles de sa classe et a scanné un maximum d’exercices pour faire écrire les petits de CM2. Elle regrette simplement de n’avoir pas pensé à donner des crayons de couleur et des feutres aux élèves les plus démunis, car elle leur a aussi demandé de colorier des cartes et n’est pas sûre que tous possèdent le matériel idoine. Mais dans la précipitation, elle a paré au plus urgent.

      Depuis le début du confinement, Julien enseignant dans le Morbihan, s’occupe de sa classe de CM2 et de ses filles. Comme sa collègue de Pantin, il a veillé à limiter au maximum le stress. Il sait que des familles dysfonctionnent et que mettre une trop grande pression aux petits pourrait créer des conflits dans des foyers déjà violents. Certains n’ont pas d’équipement numérique ou pas de réseau internet. Il a donc évincé tout exercice nécessitant une imprimante et a privilégié les ressources gratuites et activités ludiques. Il fait écrire ses élèves « pour qu’ils ne perdent pas tout ».

      Parce qu’il sait aussi que la réalité scolaire, plus que jamais, est conditionnée par le milieu social des enfants.

      « Je fais attention au vocabulaire que j’emploie dans mes consignes pour ne pas utiliser le jargon pédago incompréhensible pour le commun des mortels. Malgré tout, plein de parents m’écrivent, car leur enfant pleure tous les jours et ne veut rien faire. Je leur dis de le laisser appréhender la situation car c’est incroyable ce qu’on vit. »

      La responsable de l’association Sorosa a contacté les enseignants, « bienveillants » pour leur demander de restreindre les demandes d’impression, « car on ne sait pas comment on va se procurer de l’encre quand on n’aura plus de réserves. Et surtout, on a envie de leur dire d’arrêter de mettre la pression aux élèves ».

      Pour sa part Milouda se débrouille malgré le confinement et réussit à se rendre chez un camarade de son fils, à deux kilomètres de là. « Le problème, c’est que son beau-père est raciste, il refuse que je vienne. Alors, j’y vais très tôt, avant qu’il ne se réveille, je récupère des devoirs que me donne la maman par la fenêtre. Mais elle ne peut pas tout imprimer car elle aussi est en rade. » Mais c’est déjà ça.

      Milouda est inquiète, car son fils a déjà des difficultés à l’école. En temps normal, il fréquente l’aide aux devoirs. Un soutien appréciable mais inaccessible aujourd’hui. « En milieu rural, il n’y a pas de MJC, pas de service public. Il n’y a rien pour les ados, pas de solidarité », regrette-t-elle.

      Des difficultés dans toutes les familles

      Des parents, mieux armés, font eux aussi part de leurs difficultés à assurer la mission qui leur est dévolue. À tel point que la FCPE de Paris a réclamé dans un communiqué qu’il y ait moins de pression sur les parents, les enfants et les enseignants de la part du ministère, qui tient à ce que tout continue.

      Marie a 46 ans et vit à Bayonne avec ses deux enfants de 10 et 2 ans. Adjointe administrative, elle est en télétravail. Son conjoint est à son compte mais avec une activité ralentie. De son propre aveu, elle se sent « privilégiée », même si l’école à la maison n’est pas une sinécure. Elle est très angoissée pour sa fille. Résultat, les premiers jours ont été très tendus.

      Sa fille est en CM1 et reçoit un planning quotidien, « assez ludique », par mail. Une fois par semaine, il y a une classe virtuelle d’une heure pour que tous les élèves se voient. Enfin… pour ceux qui possèdent le matériel informatique idoine… De son côté, Marie explique que tout est chronométré dans la journée de l’écolière.

      « Nous on déborde sur le temps de pause, ce qui nous met la pression. J’ai peur que ma fille n’y arrive pas et qu’elle accumule du retard. » Au bout de quelques jours, la mère de famille s’est dit qu’il fallait dédramatiser et que ce n’était pas grave de louper quelques exercices. « Sinon cela va devenir irrespirable. »

      Même les parents d’adolescents peuvent se sentir submergés. C’est le cas de France, 48 ans. Elle travaille à Paris dans la communication et s’occupe de son fils, élève de première. Celui-ci, comme tous les élèves de son niveau, a connu une année mouvementée, entre les grèves de transports, les blocus contre les « E3C », les nouvelles épreuves de contrôle continu, et maintenant le confinement pour cause de coronavirus. Les jeunes qui préparent un examen attendent encore des réponses claires de la part du ministre pour connaître les modalités du baccalauréat, ce qui ajoute un peu plus d’angoisse.

      La mère de cet adolescent reconnaît tout de go « ne pas être une super pédagogue », malgré ses diplômes de l’enseignement supérieur. « À 17 ans, ce n’est pas sa meilleure période, ni avec moi ni avec lui-même. Famille recomposée. On a un seul ordinateur, pas d’imprimante, ça complique les choses. »

      Elle ne se voit pas non plus dispenser à son fils un cours de sociologie ou disserter avec lui sur Le Rouge et le Noir de Stendhal, au programme, mais qu’elle a lu il y a une éternité.

      Eva* a 40 ans et vit dans le Val-de-Marne. Elle a deux enfants en primaire, en CE2 et en CM2. Responsable des ressources dans une association, elle gère son équipe à distance. Son conjoint est infirmier, donc impossible pour lui de l’aider dans le contexte actuel. Alors, la mère de famille s’est organisée le mieux possible. Elle a constitué des plannings avec des temps de travail, de pause et de déjeuner. Elle s’astreint à une routine avec ses enfants « pour différencier les jours de la semaine ».

      Sur le plan scolaire, Eva explique qu’elle gère au fil de l’eau, surtout avec un fils qui réclame une attention particulière : « On fait comme on peut, on reçoit par mail tout ce qu’il faut faire chaque soir. Autant l’aînée est autonome, elle a peu besoin d’aide. Mais son petit frère est en CE2, avec des difficultés de concentration et d’apprentissage. Ce n’est pas inquiétant mais il ne peut pas travailler tout seul. Et là c’est dur. Avec la maîtresse, il n’y a pas de lien affectif dans la dimension éducative. Là, tout vire au conflit. »

      Elle craint que son fils ne décroche s’il n’écrit pas et ne lit pas régulièrement. « Je vois tout ce qu’il aurait dû faire en une journée et qu’on n’a pas réussi… »
      Et si on arrêtait l’école à la maison ?

      Marwa aussi se démène comme elle peut avec deux enfants atteints de troubles de l’attention. À 43 ans, elle vit dans le VIIIe arrondissement à Paris, un quartier chic. Cette commerciale « à temps partiel » tient à préciser qu’elle élève seule ses deux enfants de 7 et 10 ans et occupe un logement social. Les deux souffrent d’un trouble du déficit de l’attention avec hyperactivité (TDAH).

      La mère a entretenu une relation complexe avec l’école. Victime d’une orientation forcée en BEP secrétariat, elle regrette de n’avoir pu suivre les études longues dont elle rêvait. Elle raconte encore que son fils aîné a subi du harcèlement à l’école plus jeune et craint surtout que ses deux fils ne soient « catalogués comme futurs ratés en allant dans une école de bourgeois sans l’être eux-mêmes ».

      Alors, elle fait en sorte qu’ils poursuivent tant bien que mal leur scolarité, même confinés. L’aîné a été diagnostiqué tardivement, il accuse un retard dans son cursus. Marwa possède « une imprimante mais pas d’encre ». Elle se rend régulièrement à l’école – malgré les dangers – pour récupérer des exercices auprès du directeur.

      Marwa constate que la charge de travail est énorme. Elle tente de s’adapter. « C’est dur pour une maman solo. Ils ne savent pas se canaliser, ça hurle, ça chahute. Le matin, ce sont des piles électriques, impossible de les calmer. Après le déjeuner, j’arrive à avoir un moment d’attention. En temps normal, le premier a un AESH [accompagnant des élèves en situation de handicap − ndlr]. Là, il est greffé à moi. Le dernier arrive à peu près à travailler ; mais au bout d’un quart d’heure, il a besoin d’une pause. »

      Son fils aîné se braque dans un contexte tendu qui exacerbe son hypersensibilité, explique encore Marwa. « Il refuse de faire le minimum et se trouve des excuses. Je me retrouve à me battre pour un exercice. Je me suis battue deux heures pour une fraction… Ce n’est pas mon métier, on est à la maison. Lui-même n’arrive plus à se contenir. L’école le calme, c’est un cadre pour lui, il y a des règles là-bas. »

      D’ordinaire, un enseignant de collège, formé à travailler avec des enfants souffrant d’un TDAH, vient deux fois par semaine, le mercredi et le samedi pour aider les deux fils de Marwa. Ce qui lui permet un peu de souffler. Ce n’est pas le cas en ce moment.

      Aujourd’hui, elle vit mal son isolement et son sentiment d’impuissance. « On nous met une espèce de culpabilité, car on n’a pas toujours les moyens intellectuels ou la méthodologie pour expliquer à nos enfants. Rien que les divisions, ça a changé. On ne les pose plus pareil. » Elle craint qu’à la rentrée, une partie des élèves « ne soit complètement larguée, car dans le VIIIe, c’est marche ou crève ».

      France identifie une multitude « de micro-choses » qui font que c’est stressant. Le contexte général, très anxiogène, la pression volontaire ou involontaire des enseignants et des parents, la masse considérable de travail à rendre, parfois sur des notions à peine survolées en cours.

      « C’est un peu culpabilisant. J’ai l’impression d’être l’artisan de l’échec de nos enfants. Il y aura deux camps. Ceux qui auront su et ceux qui n’auront pas pu. Je ne comprends pas l’acharnement à maintenir tout cela. À part quelques ados qui ont le plaisir de l’apprentissage, on va dégoûter cette génération parce qu’on ne veut pas prendre en compte la réalité. On marche sur la tête. Il y a une pandémie, des gens vont mourir, mais il faut que tu passes ton bac. On ne peut pas fonctionner normalement quand rien ne fonctionne normalement. »

      Eva plaide en faveur d’une solution radicale. Arrêter l’école à la maison. « Il est impossible d’enseigner et de télétravailler en même temps. Stopper les cours desserrerait la pression, mettrait tout le monde à égalité, même si on sait que les CSP+ ne laisseront pas leurs enfants devant la télé. Mais du point de vue de l’institution, il n’y aura pas d’injonction remplie d’un côté et pas de l’autre… »

      Julien, l’enseignant du Morbihan, s’est aussi étonné que sa propre fille, en CM1, ait reçu une somme considérable de travail, une quarantaine de pages. À tel point qu’il a été surpris du nombre de feuilles sorties de l’imprimante qu’il a lancée sans regarder. Sans compter qu’il est difficile d’enseigner à son propre enfant, quand bien même c’est son métier. Lui aussi a dû faire face à des crises avec sa fille, qui s’est braquée à plusieurs reprises.

      Pour toutes ces raisons, il aurait aimé que tous les enseignants n’obéissent pas à la consigne ministérielle et proposent, au lieu des révisions des leçons, des activités pédagogiques. Histoire de réussir à ne pas trop creuser les inégalités dont est percluse l’école française.

      Le professeur ne se fait guère d’illusions : « De toute façon, on dénonce le mythe de l’école républicaine qui abolirait les différences. On savait que c’était faux, mais là, ça l’accentue. Là, le grand public les vit au quotidien, ces inégalités et leurs conséquences, ce qu’on dénonce tous depuis des années. »

      Certaines familles se sont « évanouies dans la nature », constate Virginie. Sur une vingtaine, une petite quinzaine ne donne pas de nouvelles. Les autres se surinvestissent au contraire. « Elles poussent leurs enfants, ce que j’arrivais à contenir quand on était en classe. Ces parents m’envoient cinq messages par jour pour me poser des questions. Ce sont ceux de la classe moyenne qui veulent que leurs enfants prennent l’ascenseur social », analyse Virginie.

      L’enseignante est inquiète des conséquences du confinement, car elle sait que certains sont inscrits sur des sites qui prétendent offrir des cours particuliers efficaces en ces temps inhabituels. « J’ai peur que les parents prennent trop d’initiatives. Quand je vais les récupérer, ils auront vu de nouvelles notions, ça va creuser les inégalités. En fait, cette situation exacerbe les comportements habituels. Ça laisse libre cours à ceux qui s’en fichent et à ceux qui mettent trop de pression à leurs enfants. »

      La « continuité pédagogique » voulue par le ministre Jean-Michel Blanquer suscite de plus en plus de critiques. De nombreux parents, notamment dans les familles modestes, se sentent dépassés. Témoignages de parents qui galèrent.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/310320/des-gens-vont-mourir-mais-il-faut-que-tu-passes-ton-bac?onglet=full

    • M. Blanquer, arrêtez de #faire_semblant

      Si l’on en croit M. Le ministre de l’Education nationale, tout est sous contrôle. Tout le monde a trouvé son « rythme de croisière » sur la plateforme Ma classe à la maison, les jeunes de Terminale pourront passer leur bac d’ici la fin du mois de juin, les élèves rattraperont leurs retards d’apprentissage cet été grâce à des modules gratuits…
      Mais M. Blanquer, si vous arrêtiez de faire semblant ?
      Semblant de maîtriser une situation imprévisible, ou à tout le moins imprévue, semblant de faire comme si la continuité pédagogique fonctionnait, semblant de penser que plus de 90 % des élèves n’ont pas « décroché »… Bien sûr, les parents sont reconnaissants du travail réalisé par des professeurs mis en demeure d’enseigner à distance alors même qu’ils n’ont jamais, ou presque, été formés à ces nouvelles pratiques. Bien sûr, les parents ont répondu présent quand le Ministre leur a demandé d’accompagner leurs enfants dans ce processus. Mais voilà, ils n’en peuvent plus ! Ils disent stop à la pression qui s’exerce sur eux et les élèves.
      Ils ne veulent plus qu’on leur donne des dates de sortie de confinement sujettes à caution, recevoir des injonctions sur ce qu’ils devraient faire ou ne pas faire durant leurs vacances, préparer leurs enfants à des examens dont on ne connaît même pas l’organisation, aller chercher des devoirs photocopiés alors qu’ils devraient rester confinés. Tous se plaignent des devoirs trop lourds, du coût matériel induit par cette « continuité pédagogique » ou encore de l’impossibilité de se connecter à Parcoursup en respectant les dates limites.
      Nous, nous ne faisons pas semblant, tous les jours nous devons répondre aux parents stressés par leur difficulté à ne pas perdre pied dans le travail qui est demandé à leur enfants et qui s’ajoute à l’inquiétude causée par la pandémie.
      Désormais, nous exigeons :
      – la suspension immédiate de Parcoursup ;
      – l’arrêt des notes données aux élèves en cette période de confinement ;
      – l’allégement des travaux à réaliser à la maison ;
      – la garantie d’une reprise des cours là où les enseignants les avaient arrêtés le 16 mars dernier ;
      – la garantie que les diplômes des élèves ne prendront en compte que les notes obtenues en présentiel.

      https://www.fcpe.asso.fr/sites/default/files/2020-03/31-03-2020-M%20Blanquer%20arre%CC%82tez%20de%20faire%20semblant%281%29.pdf

    • La #loi_organique_d’urgence, le #Conseil_constitutionnel et la continuité pédagogique

      Démarrons par un point apparemment éloigné de la continuité pédagogique : le Conseil constitutionnel a rendu jeudi 26 mars sa décision sur la « loi organique d’urgence pour faire face à l’épidémie de Covid-19 ». La loi « organique » d’urgence est une loi qui vient compléter la loi « ordinaire » d’urgence du 23 mars dernier, sur un point bien précis : elle suspend jusqu’au 30 juin 2020 les délais dans lesquels doivent être normalement examinées les questions prioritaires de constitutionnalité, « afin de faire face aux conséquences de l’épidémie du virus covid-19 » (article unique de la loi, qui n’a toujours pas été publiée au Journal officiel).

      Les lois organiques sont des lois d’un type très particulier. Leur adoption étant prévue par la Constitution elle-même, elles sont d’une valeur juridique supérieure aux lois ordinaires et doivent être promulguées selon une procédure spéciale fixée à l’article 46 de la Constitution. Entre autres choses, un projet de loi organique ne peut pas « être soumis à la délibération de la première assemblée saisie avant l’expiration d’un délai de quinze jours après son dépôt » (alinéa 2). L’objectif poursuivi par cette règle est simple : si la Constitution de la Ve République impose qu’entre le dépôt du projet de loi organique par le gouvernement sur le bureau de l’Assemblée nationale ou du Sénat et sa discussion par le Parlement, quinze jours au moins se soient écoulés, c’est parce que les lois organiques sont trop importantes pour que l’on puisse prendre le risque de les adopter dans la précipitation.

      Pour la loi organique d’urgence, cette condition n’était pas remplie. Le projet de loi a été déposé mercredi 18 mars 2020 sur le bureau du Sénat et a commencé à être examiné dès le lendemain. Le non-respect du texte de la Constitution était donc indiscutable. Et pourtant… Dans sa décision du jeudi 26 mars, le Conseil constitutionnel ne voit là aucun motif d’inconstitutionnalité. Plus précisément, il estime que « compte-tenu des circonstances particulières de l’espèce, il n’y a pas lieu de juger que cette loi organique a été adoptée en violation des règles de procédure prévues à l’article 46 de la Constitution ». « Compte tenu des circonstances particulières de l’espèce », une demi-phrase, et c’en est tout de l’argumentation juridique. C’est qu’il n’y a pas grand-chose à expliquer, en fait : face à une loi organique qui viole de manière flagrante l’article 46 de la Constitution, le Conseil constitutionnel n’a pas eu d’autre choix que de créer une « théorie des circonstances exceptionnelles » en droit constitutionnel français. C’était, pourrait-on dire, le prix constitutionnel à payer à partir du moment où son choix était de sauver la loi organique.
      On comprend que le Conseil constitutionnel, eu égard à l’âge vénérable de ses membres – 72 ans de moyenne d’âge – et aux risques qui y sont associés, se sente en première ligne face à l’épidémie de covid-19, et panique quelque peu. Mais la décision de jeudi dernier est proprement indigne : indigne de toutes celles et tous ceux qui, des caisses de supermarché aux hôpitaux, sont vraiment en première ligne ; indigne, surtout, des fonctions d’une institution qui, normalement, ne devrait pas avoir vocation – en tout cas pas si facilement – à être aux ordres. Perd-on donc toute lucidité juridique dès que la situation devient exceptionnelle et urgente ?

      C’est à tous les niveaux que cette perte de lucidité juridique s’observe en ce moment, en réalité. L’enseignement supérieur et la recherche, on l’aura compris des différents articles publiés sur Academia depuis le début de l’épidémie, n’échappe pas à ce constat1. Que les circonstances soient exceptionnelles, c’est une chose ; qu’elles autorisent le ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et les établissements qui en relèvent, à faire n’importe quoi, c’en est une autre. Pour la communauté de l’ESR, la situation devient très désagréable : englué dans l’urgence de la situation et le bouleversement de nos quotidiens, on regarde, sidéré, les « consignes » tomber. Il est temps, cependant, de reprendre collectivement notre lucidité juridique2, pour ne pas être écrasés par l’exceptionnalité du moment : vérifions une à une la validité de ces injonctions, et faisons la part des choses.
      La continuité pédagogique, certes, mais à quelles conditions juridiques ?

      La continuité pédagogique est la grande injonction du moment, et elle autorise tous les abus. À l’évidence, certains – au ministère, dans les rectorats et dans nos universités – semblent intimement persuadés que le vieux principe juridique de « continuité du service public », associé aux circonstances exceptionnelles qui sont les nôtres, suffit à recouvrir d’un voile de légalité chacune des décisions qui sont prises.

      Qu’il existe un principe de continuité du service public, c’est certain, tout comme il est certain que le juge administratif a toujours été compréhensif vis-à-vis des administrations qui, confrontées à une circonstance exceptionnelle, prenaient quelques largesses avec le droit auquel elles étaient soumises. Mais il serait désastreux que l’on prenne ces deux certitudes pour un argumentaire juridique à toute épreuve : à ce niveau de généralité, il ne s’agit que d’une mauvaise bouillie de droit administratif.

      Commençons plutôt par rappeler une donnée simple. Ni les « plans de continuité pédagogique » divers et variés qui inondent nos boîtes mail, ni les « plans de continuité des activités » (PCA) que tous les établissements arborent désormais pompeusement ne produisent du droit et n’ont pas davantage d’autorité réglementaire. Ils ne le peuvent tout simplement pas : ce sont tantôt des conseils, tantôt des mesures d’organisation des services ; mais, dans tous les cas, ce ne sont pas des mesures d’une force juridique suffisante pour introduire des dérogations au droit de la fonction publique, et encore moins des limitations aux libertés universitaires.

      Reprenons, à partir de là, les choses dans l’ordre. La réalité juridique actuelle dans les universités est bien plus prosaïque qu’on ne le croit, en fait. Elle tient en deux phrases : sur le fondement du décret du 23 mars 2020 « prescrivant les mesures générales nécessaires pour faire face à l’épidémie de covid-19 dans le cadre de l’état d’urgence sanitaire »,

      1° nos universités sont fermées aux « usagers des activités de formation », c’est-à-dire aux étudiants (article 9) ; et
      2° nous n’avons, pas davantage que nos étudiants, le droit d’y accéder, car, pour l’immense majorité d’entre nous, les trajets entre nos domiciles et nos établissements ne sont pas considérés comme des déplacements « insusceptibles d’être différés » (article 3).

      À ce stade, nous ne voyons rien d’autre sur le plan des textes juridiques. Ce ne sont pas les occasions légistiques qui ont manqué, pourtant : une loi et 31 ordonnances ont été publiées au Journal officiel la semaine dernière pour « faire face à l’épidémie », sans compter les multiples décrets et arrêtés. Mais c’est ainsi : le décret du 23 mars 2020 ne dit rien qui pourrait concerner la continuité pédagogique, pas plus que la loi d’urgence du 23 mars 2020. Aucune mesure d’« adaptation provisoire » du décret du 6 juin 1984 – le statut particulier du corps des professeurs des universités et du corps des maîtres de conférences –, et en particulier de son article 7 sur les services d’enseignement, n’a par ailleurs été prise. Et rien n’a été modifié quant aux conditions d’application du décret du 11 février 2016 sur la mise en œuvre du télétravail dans la fonction publique.

      Cette donnée juridique là, ce ne sont pas les « fiches » de la direction générale de l’Enseignement supérieur et de l’Insertion professionnelle qui y changeront quoi que ce soit, pas plus que la flopée de mails de nos présidents d’université. Pour le dire autrement, s’il existe bien un principe de continuité du service public, et quand bien même les circonstances sont exceptionnelles, ni la DGESIP, ni les présidents d’université n’ont un titre juridique suffisant pour ordonner ce que l’on doit faire pour assurer la continuité pédagogique. Il serait très grave que ce principe soit oublié dans le contexte dramatique actuel, et il est crucial de tenir bon sur ce point, alors que les présidents viennent déjà de recevoir des pouvoirs exorbitants pour décider des formes des prochains examens – une question qui relève, pourtant, directement des choix pédagogiques ((Sur les marges de manœuvre considérables qui sont reconnues aux présidents, ainsi que sur les interrogations quant aux concours de recrutement, nous renvoyons aux analyses – encore à approfondir – de l’ordonnance du 27 mars 2020 relative à l’organisation des examens et concours pendant la crise sanitaire née de l’épidémie de covid-19 : « Il n’est pas besoin de beaucoup de mots » : dérogations à tout va dans les universités, 28 mars 2020 et Oups ! Fin prématurée des mandats de présidents d’université ?, 29 mars 2020.)).

      Sans texte juridique, aucun dispositif précis de contrôle ne peut d’ailleurs être introduit. Qui aurait le droit de décider qu’une heure d’enseignement vaut une heure de vidéo ou de son, ou X pages de cours ? Qui aurait le droit de procéder à de telles équivalences, alors même que le bouleversement de notre cadre de travail est sans équivalent ? La règle, si règle il y a, elle est bien simple : chacun fait ce qu’il peut et ce qu’il se sent de faire, selon ses possibilités personnelles et familiales, son environnement de travail et son état psychologique. Personne, en particulier, ne pourra être sanctionné parce qu’il n’a pas assuré l’intégralité de son service : il manquerait un fondement juridique à cela, tout simplement parce que personne n’aura enfreint aucune règle, tant que les règles n’auront pas été modifiées. N’inversons pas l’ordre des choses, tout simplement : ce que fait le droit pour l’instant, ce n’est pas de nous obliger à une quelconque continuité pédagogique ; ce qu’il fait, c’est de nous confiner, donc de nous empêcher d’assurer nos heures d’enseignement relevant de nos obligations statutaires ou de nos contrats.

      Pour que les choses soient parfaitement claires : cela ne signifie pas qu’il n’y a aucune obligation de télétravail. En effet, même si, du côté de la fonction publique, il n’existe pas l’équivalent de l’article L. 1222-11 du code du travail, il ne fait aucun doute qu’en cas de contentieux, le juge administratif soutiendra qu’en période d’épidémie, la mise en œuvre du télétravail doit être considérée comme un aménagement du poste de travail rendu nécessaire pour permettre la continuité du service public et garantir la protection des agents. Mais cela signifie, en revanche, qu’on ne saurait se laisser dicter les conditions de la continuité pédagogique.

      Celle-ci est littéralement nue : faute de fondement juridique, elle n’est qu’une injonction. Bien sûr, il n’est pas impossible que de nouveaux textes soient édictés dans les prochaines semaines ; mais pour l’instant, la continuité pédagogique, ce n’est que ça : une injonction parfois autoritaire, qui se drape dans l’intérêt supérieur de nos étudiants, tout en oubliant qu’elle passe en réalité par pertes et profits la dégradation considérable de la qualité des enseignements que ces mêmes étudiants reçoivent et les inégalités tout aussi considérables que l’on crée entre eux. De ce point de vue, faute de fondement juridique, la continuité pédagogique ne s’apprécie que sur le plan pédagogique, de sorte que chaque enseignant-chercheur et enseignant, au titre de sa liberté d’enseigner, est légitime à apporter sa réponse aux problèmes pédagogiques lourds que soulève l’épisode actuel : combien d’étudiants perdons-nous en route dans toute cette affaire ? Quel est, plus précisément, notre seuil d’acceptabilité ?

      Bref, s’il est évidemment crucial qu’en ces temps tourmentés, nous accompagnions du mieux que l’on peut nos étudiants, il ne faudrait pas, pour autant, que quelques collègues – parfois devenus plus managers que collègues, d’ailleurs – perdent de vue que si continuité pédagogique il y a, elle procède d’abord et avant tout de la bonne volonté et du sens du service public des personnels de l’ESR. Il ne faudrait pas non plus, d’ailleurs, qu’ils perdent de vue que dans tous les cas, l’enseignement n’occupe qu’une partie de nos fonctions : les conditions d’une continuité de la recherche doivent aussi être respectées. Nous devons avoir un peu de temps pour bosser sur nos articles et nos livres, en somme.

      Hors ce dernier point, et quand bien même la « liberté pédagogique » des enseignants de l’éducation nationale n’offre pas le même niveau d’indépendance que les libertés universitaires, on observe que ce constat vaut largement, aussi, pour les collègues enseignant dans le premier degré et dans le second degré. C’est sans doute pourquoi, d’ailleurs, la porte-parole du gouvernement a si vite rétropédalé, mercredi dernier, après ses propos sur les « enseignants qui ne travaillent pas ». Ce n’est pas seulement que ses propos étaient factuellement faux ; c’est qu’ils présentent l’inconvénient d’attirer l’attention sur une réalité juridique dont chacun devrait prendre conscience : si la « continuité pédagogique » est à l’œuvre, c’est d’abord et avant tout en raison de la bienveillance des enseignants à l’égard de leurs élèves, beaucoup plus qu’en raison d’une obligation juridique. C’est aux enseignants qu’il revient d’en déterminer le contenu et la forme.

      Voilà le fin mot : sans nous, l’éducation nationale, l’enseignement supérieur et la recherche ne sont rien, car nous portons le système. Et en ce moment – dans les « circonstances particulières de l’espèce », pour reprendre la formule du Conseil constitutionnel –, nous le portons bien au-delà de ce à quoi nous sommes obligés.

      https://academia.hypotheses.org/21798

    • Message reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte, le 17.4.2020 :

      Je partage avec vous un email reçu il y a 2 ans m’indiquant que la visioconférence prise en charge avec un équipement professionnel n’était pas envisageable mais aujourd’hui l’université impose la continuité pédagogique de la même discipline sur la plateforme #moodle avec des heures fixées et un temps imparti pour réaliser le devoir.
      Il paraît évident qu’à présent que les étudiants sont enfermés chez eux avec un ordinateur de fortune et une connexion internet basique, tout devient possible.

      C’est #carnavalesque !

      –-----------

      Bonsoir,

      J’ai lu avec attention votre message concernant $$$$$$$$.
      Je comprends aisément, à l’insistance de vos messages, combien la discipline vous tient à cœur au sein de l’université.

      Toutefois, je tiens à vous informer que le $$$$$$$$ n’est pas référencé dans les maquettes pédagogiques proposées par $$$$$$$$ ... et il n’est donc pas envisageable, sous quelque régime que ce soit, d’organiser un enseignement de $$$$$$$$.

      De manière complètement partagée par l’ensemble de l’équipe pédagogique locale, la formule de la visio conférence reste perçue comme la « pire » des choses quant à l’efficacité pédagogique, notamment, et surtout, pour ce type de matière, basée d’abord (et surtout) sur la notion de « dialogue permanent et fluide ». « L’échange » (réel, et non pas biaisé) avec un enseignant reste primordial si l’on désire garantir un certain niveau de résultat, ce que le système ne permet pas vraiment à ce jour, aussi performant soit-il technologiquement.

      Nos étudiants le savent parfaitement et en ont accepté le principe : le niveau d’exigence attendu dans toutes les matières dispensées présentiellement est perçu par eux comme relativement élevé.

      Je ne voudrais pas néanmoins que vous en concluiez que le $$$$$$$$ restera, par choix institutionnel, à jamais « sinistré » $$$$$$$$.
      S’il est une solution à envisager, je pense qu’il conviendrait de la mettre en œuvre en partenariat avec le service du $$$$$$$$, dont $$$$$$$$ constitue la mission première. A travers lui, des étudiants passionnés isolés pourraient trouver tout à loisir réponse à leurs attentes.
      Je vous invite donc désormais à plutôt vous adresser à $$$$$$$$, qui en est la directrice à $$$$$$$$.

      Ayant je l’espère apporté tous les éclairages nécessaires (et suffisants) à vos préoccupations et à votre démarche,
      Bien cordialement,

      –-> vous avez vu cette phrase, qui date, selon la personne qui envoyé le message, d’il y a 2 ans ??

      "la formule de la #visioconférence reste perçue comme la « pire » des choses quant à l’efficacité pédagogique"

      #visio-conférence

    • Oui à la continuité pédagogique à l’université, mais sans évaluation !

      Plus de 120 enseignants-chercheurs, issus de différentes universités, s’élèvent contre l’évaluation des étudiants pendant cette période de confinement. « Cette continuité pédagogique, imprévue et donc mise en place brutalement, exacerbe les inégalités sociales déjà présentes ». Une évaluation reviendrait à les renforcer davantage.

      Nous vivons une situation de crise exceptionnelle et historique, malgré cela de nombreux acteurs de l’enseignement supérieur sont dans la continuité (des examens, des concours…) comme si tout pouvait se poursuivre normalement. Or pour de nombreux étudiants, la situation actuelle de confinement n’est pas propice pour étudier convenablement à l’université. S’il est ainsi souhaitable de leur proposer des enseignements à distance, les évaluer sur des notions travaillées pendant cette période reviendrait à créer de profondes inégalités.

      Tout comme l’enseignement primaire et secondaire, l’université s’est lancée dans la poursuite des enseignements (cours magistraux, travaux dirigés, parfois même travaux pratiques) effectués avant le début du confinement. Les enseignants et enseignants-chercheurs ont souvent dû faire preuve d’ingéniosité et de ténacité pour continuer sur leur lancée. Contrairement au primaire et au secondaire où les enseignants doivent suivre les directives ministérielles, ceux de l’université ont une certaine liberté sur le contenu et les modalités pédagogiques (notamment l’évaluation) de leurs enseignements.

      Cette continuité pédagogique, imprévue et donc mise en place brutalement, exacerbe les inégalités sociales déjà présentes. En temps normal, elles sont quelque peu lissées : les étudiants peuvent tous assister (au moins en partie) aux cours, même s’ils ont de longs trajets ou s’ils doivent travailler à côté pour subvenir à leurs besoins… L’université met en effet à leur disposition des bibliothèques universitaires pour travailler au calme et utiliser des ressources documentaires, des ordinateurs, du réseau (wifi), parfois des imprimantes… Comme elle ne fournit pas ou peu d’ordinateurs portables aux étudiants ni de connexion Internet « à la maison », cette période de confinement et de « continuité pédagogique » repose uniquement sur les outils et accès au réseau personnels des étudiants.

      Des sondages réalisés récemment auprès d’étudiants de différents instituts montrent qu’un nombre non négligeable d’étudiants dispose uniquement d’un smartphone, ou doit partager ordinateur ou tablette avec le reste de la famille. L’étudiant muni seulement de son smartphone est alors fortement dépendant de son forfait personnel, mais aussi du réseau local. Une de nos étudiantes, confinée à la campagne, doit aller en haut d’une colline pour simplement lire ses mails ! Ne parlons pas de suivre des cours en ligne… Ou de lire un polycopié sur un écran de téléphone. Même avec un ordinateur, la qualité de la connexion peut être insuffisante pour assurer le suivi de cours en ligne avec des vidéos particulièrement gourmandes en termes de débit numérique.

      Au-delà de ces conditions techniques, il faut également bénéficier d’un endroit calme pour travailler pendant une partie substantielle de la journée, ce qui n’a rien d’évident. Dans une filière de l’université Paris Saclay où un sondage auprès des étudiants a été effectué, seuls les deux tiers des étudiants peuvent s’isoler pour travailler. Nombre d’étudiants doivent ainsi composer avec un logement étroit pour une famille, garder des frères et sœurs, etc. Certains doivent poursuivre leur travail alimentaire à côté : une étudiante caissière doit faire plus d’heures qu’en temps normal à cause de l’épidémie, elle est donc moins disponible pour suivre les cours. Il peut en outre y avoir des tensions au sein de la famille, moins perceptibles habituellement. On peut ainsi constater toutes sortes de situations bien réelles, qui sont objectivement un frein à l’apprentissage à distance.

      Malgré cela des cours en ligne ont lieu. On peut ici saluer le travail remarquable fait par les enseignants qui, s’ils sont en général confinés dans de meilleures conditions que leurs étudiants, sont également confrontés à certaines difficultés évoquées plus haut.

      La situation exceptionnelle que nous vivons est particulièrement anxiogène : étudier dans ces conditions est loin d’être optimal. Prolonger alors un cours à distance, en confinement, est une façon de penser à autre chose non seulement pour les étudiants qui peuvent le suivre décemment, mais aussi pour les enseignants. « Je dirais que les cours en visio sont ce qu’il y a de plus constructif et agréable, les rapports humains étant presque absents dans ce confinement, ils permettent d’entretenir du lien et d’entendre la voix de nos professeurs », témoigne ainsi une étudiante de l’Inalco.

      Compte tenu de toutes ces raisons, il est important que les enseignants poursuivent tant bien que mal leurs cours et travaux dirigés par l’intermédiaire d’outils de visualisation en ligne. En revanche, ces parties de cours effectuées depuis le début du confinement ne doivent pas faire l’objet d’une évaluation des étudiants ⎼⎼ à distance ou pas ⎼⎼ visant à l’attribution d’une note comptant dans la scolarité, sous peine d’amplifier les inégalités entre eux. Des examens pourront éventuellement se tenir à l’issue du confinement, dans les locaux des universités, et non en ligne, et ne devront pas porter sur des concepts vus pendant le confinement.

      Le service public d’enseignement supérieur fait un travail admirable pour le suivi pédagogique des étudiants à distance. Néanmoins, les processus d’enseignement à distance mis en place doivent faire figure d’exception et non devenir une norme, rien ne peut remplacer la présence physique d’un enseignant dans le processus d’apprentissage. « Par rapport à un cours présentiel, chaque activité me demande deux fois plus de temps. Les cours en ligne me demandent un travail très important et j’ai du mal à tout assimiler. Apprendre un concept seul ou avec de faibles interactions est beaucoup plus compliqué qu’en présentiel. » rapporte une étudiante de l’université Grenoble Alpes.

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/220420/oui-la-continuite-pedagogique-l-universite-mais-sans-evaluation

  • Face à la crise du #coronavirus, où sont les #mesures_concrètes face aux enjeux de #justice_sociale ?

    Ce 12 mars, Emmanuel #Macron a cherché a gagner du temps et obtenir un moment de répit politique face à l’aggravation de la #crise_sanitaire liée au #Covid-19. Il n’a pourtant mis sur la table aucune #mesure précise et chiffrée, notamment pour résoudre la crise de l’#hôpital_public et satisfaire les revendications des personnels hospitaliers mobilisés depuis des mois. Face à la gravité de la crise sanitaire, doublée désormais d’une déstabilisation boursière de grande ampleur, les annonces en matière sociale et économique sont tout aussi floues alors qu’Emmanuel Macron aurait du annoncer des mesures d’ampleur, précises et chiffrées.


    C’est un président largement déconsidéré qui a appelé l’#unité_nationale et à la #solidarité. Lorsque l’#urgence est la crise sanitaire, il faut effectivement se protéger et protéger la collectivité. Les risques liés à la diffusion du Covid-19 ne doivent pas être minimisés au prétexte d’une vulnérabilité qui se réduirait aux plus âgé.es ou aux personnes fragiles : ce sont nos ami.es, nos parents ou grand parents. La réduction des risques est une responsabilité de tou·tes.

    Ce même esprit de #responsabilité devrait animer Emmanuel Macron et son gouvernement. Eux qui ont cru bon en début d’épidémie de convoquer un conseil des ministres déclenchant le 49.3 en urgence sur le projet de loi sur les retraites, doivent immédiatement, au nom même de cet esprit de responsabilité, suspendre le processus législatif sur la réforme des retraites, comme les organisations syndicales l’ont réclamé.

    Les personnels hospitaliers, en première ligne face à la crise sanitaire, n’attendent pas du chef de l’État une reconnaissance dans les mots, mais de voir leurs revendications satisfaites dans les plus brefs délais. Or, Emmanuel Macron n’a fait aucune proposition concrète en la matière : aucun chiffre, aucune mesure précise pour débloquer de nouveaux financements ou de nouvelles places ou services, alors que notre #système_de_santé, notamment hospitalier a été mis à mal par des années de casse, aucune prime exceptionnelle alors que les personnels sont totalement mobilisé·es pour faire face à l’épidémie. Emmanuel Macron a évoqué la nécessité de « libérer des #lits », mais il est urgent d’ouvrir de nouveaux lits. Au delà des moyens propres aux #hôpitaux, il faut distribuer à la population des #masques et #gel_anti-bactérien.

    Emmanuel Macron annonce enfin la fermeture de tous les établissements scolaires (crèches, écoles, collèges, lycées et universités) dès lundi « jusqu’à nouvel ordre » mais n’est pas en mesure de garantir que les frais de #garde_d’enfants seront couverts, ni l’intégralité des #salaires des parents garantis, en renvoyant leur mise en œuvre concrète à plus tard.

    La gravité de la crise sanitaire et l’approfondissement de la crise financière exigent une série de #mesures_sociales d’urgence, qui n’ont pas été annoncées ce soir. La mise en oeuvre de la réforme de l’#assurance_chômage, et notamment son volet qui doit entrer en application le 1er avril, vont générer une double réduction, terrible, des droits et des indemnités pour des centaines de milliers de chômeur.ses. Elle doit immédiatement être annulée. De même, le #chômage_technique va être généralisé : il aurait fallu que le Président de la République annonce un maintien intégral des #salaires. Les salarié·es potentiellement exposé.es au risque doivent se voir garantir un #droit_de_retrait.

    Les #mal_logés et sans logis sont en première ligne, susceptibles d’être durement affectés si l’épidémie gagne du terrain. Des mesures d’urgence doivent être appliquées, au-delà du prolongement de la trêve hivernale : réquisition des logements vacants, moratoire sur la baisse des aides au logement, sur les coupures d’énergie et d’eau, etc.

    En matière économique, les mesures d’urgence doivent en priorité aller aux entreprises sous-traitantes et aux PME, qui sont en général les premières victimes des contractions subites de l’activité, afin d’assurer aux salariés de ces #entreprises le maintien de leurs #emplois et de leurs salaires.

    Alors que deux krachs boursiers viennent de se dérouler coup sur coup, le jeu de ping-pong entre la BCE et les États-membres, qui se renvoient la responsabilité d’une réponse économique appropriée en pointant leurs insuffisances réciproques, comme l’a fait Emmanuel Macron ce jeudi 12 mars, est proprement irresponsable. Il est urgent que les États de l’UE, plutôt que prendre des mesures unilatérales, proposent un front uni, une solidarité entre pays - comme ça aurait du être le cas avec l’Italie - et des mesures sanitaires, économiques et financières qui soient à la hauteur des enjeux.

    Dans cette optique, face à Donald Trump qui prend des mesures unilatérales discutables, la Commission européenne doit immédiatement cesser de négocier un accord commercial annoncé pour la semaine prochaine (le 18 mars) : l’urgence est de résoudre la crise sanitaire et de limiter autant que faire se peut les conséquences sociales, pas d’approfondir la mondialisation néolibérale en accédant aux exigences de l’hôte de la Maison-Blanche.

    Enfin, puisque Emmanuel Macron a renvoyé au gouvernement la mise en œuvre de nombre de ses déclarations restées générales, Attac France appelle à faire preuve de la plus grande vigilance vis-à-vis de la façon dont ces engagements seront mis en œuvre.

    https://france.attac.org/actus-et-medias/le-flux/article/face-a-la-crise-du-coronavirus-ou-sont-les-mesures-concretes-face-aux-
    #coronavirus #covid_19

  • Migrants : des #enregistrements attestent de la #collaboration entre #UE et #gardes-côtes_libyens

    Pour la première fois, des conversations captées au-dessus de la Méditerranée illustrent la #coopération cynique entre les États européens et Tripoli, destinée à bloquer les traversées de migrants. Obtenues par The Guardian et le collectif The Migration Newsroom, dont Mediapart est partenaire, ces enregistrements de 2019 font entendre les conséquences, en pleine mer, d’une politique qui interroge jusqu’au patron de Frontex, d’après des courriers confidentiels.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/120320/migrants-des-enregistrements-attestent-de-la-collaboration-entre-ue-et-gar
    #EU #Frontex #union_européenne #frontières #asile #migrations #réfugiés #Libye #externalisation

    Ajouté à cette métaliste sur l’externalisation, et plus précisément avec la Libye :
    https://seenthis.net/messages/731749#message765324

  • En #Libye, les oubliés

    #Michaël_Neuman a passé une dizaine de jours en Libye, auprès des équipes de Médecins Sans Frontières qui travaillent notamment dans des #centres_de_détention pour migrants. De son séjour, il ramène les impressions suivantes qui illustrent le caractère lugubre de la situation des personnes qui y sont retenues, pour des mois, des années, et celle plus difficile encore de toutes celles sujets aux #enlèvements et aux #tortures.

    La saison est aux départs. Les embarcations de fortune prennent la mer à un rythme soutenu transportant à leur bord hommes, femmes et enfants. Depuis le début de l’année, 2300 personnes sont parvenues en Europe, plus de 2000 ont été interceptées et ramenées en Libye, par les garde-côtes, formés et financés par les Européens. Les uns avaient dès leur départ le projet de rejoindre l’Europe, les autres ont fait ce choix après avoir échoué dans les réseaux de trafic d’êtres humains, soumis aux tortures et privations. Les trajectoires se mêlent, les raisons des départs des pays d’origine ne sont souvent pas univoques. En ce mois de février 2020, ils sont nombreux à tenter leur chance. Ils partent de Tripoli, de Khoms, de Sabrata… villes où se mêlent conflits, intérêts d’affaires, tribaux, semblants d’Etat faisant mine de fonctionner, corruption. Les Libyens ne sont pas épargnés par le désordre ou les épisodes de guerre. Pourtant, ce sont les apparences de vie normale qui frappent le visiteur. Les marchés de fruits et légumes, comme les bouchons qui encombrent les rues de Tripoli en témoignent  : la ville a gonflé au rythme des arrivées de déplacés originaires des quartiers touchés par la guerre d’attrition dont le pays est le théâtre entre le gouvernement intérimaire libyen qui règne encore sur Tripoli et une partie du littoral ouest et le LNA, du Maréchal Haftar, qui contrôle une grande partie du pays. Puissances internationales – Italie, France, Russie, Turquie, Emirats Arabes Unis – sont rentrées progressivement dans le jeu, transformant la Libye en poudrière dont chaque coup de semonce de l’un des belligérants semble annoncer une prochaine déflagration d’ampleur. Erdogan et Poutine se faisant face, le pouls du conflit se prend aujourd’hui autant à Idlib en Syrie qu’à Tripoli.

    C’est dans ce pays en guerre que l’Union européenne déploie sa politique de soutien aux interceptions et aux retours des ‘migrants’. Tout y passe  : financement et formation des gardes côtes-libyens, délégation du sauvetage aux navires commerciaux, intimidation des bateaux de sauvetage des ONG, suspension de l’Opération Sophia. Mais rien n’y fait  : ni les bombardements sur le port et l’aéroport de Tripoli, ni les tirs de roquettes sur des centres de détention situés à proximité d’installation militaire, pas davantage que les témoignages produits sur les exécrables conditions de vie qui prévalent dans les centres de détention, les détournements de financements internationaux, ou sur la précarité extrême des migrants résidant en ville n’ébranlent les certitudes européennes. L’hypocrisie règne  : l’Union européenne affirme être contre la détention tout en la nourrissant par l’entretien du dispositif libyen d’interception  ; le Haut-Commissariat des Nations unies pour les Réfugiés condamne les interceptions sans jamais évoquer la responsabilité des Européens.

    Onze centres de détention sont placés sous la responsabilité de la Direction chargée de l’immigration irrégulière libyenne (la DCIM). La liste évolue régulièrement sans que l’on sache toujours pourquoi, ni si la disparition d’un centre signifie véritablement qu’il a été vidé de ses détenus, ou qu’ils y résident encore sous un régime informel et sans doute plus violent encore. Une fois dans ces centres, les détenus ne savent jamais quand ils pourront en sortir  : certains s’en échappent, d’autres parviennent à acheter leur sortie, beaucoup y pourrissent des mois voire des années. L’attente y est physiquement et psychologiquement dévastatrice. C’est ainsi le lot des détenus de Dar El Jebel, près de Zintan, au cœur des montagnes Nafusa, loin et oubliés de tous : la plupart, des Erythréens, y sont depuis deux ans, parfois plus.

    La nourriture est insuffisante, les cellules, d’où les migrants ne sortent parfois que très peu, sont sombres et très froides ou très chaudes. Les journées sont parfois rythmées par les cliquetis des serrures et des barreaux. Dans la nuit du samedi 29 février au dimanche 1er mars 2020, une dizaine de jours après mon retour, un incendie sans doute accidentel à l’intérieur du centre de détention de Dar El Jebel a coûté la vie à un jeune homme érythréen.

    Nous pouvons certes témoigner que le travail entamé dans ces centres, l’attention portée à l’amélioration des conditions de vie, les consultations médicales, l’apport de compléments alimentaires, mais aussi et peut-être surtout la présence physique, visible, régulière ont contribué à les humaniser, voire à y limiter la violence qui s’y déploie. Pour autant, nous savons que tout gain est précaire, susceptible d’être mis à mal par un changement d’équilibre local, la rotation des gardes, la confiance qui se gagne et se perd, les services que nous rendons. Il n’est pas rare que les directeurs de centre expliquent que femmes et enfants n’ont rien à faire dans ces endroits, pas rare non plus qu’ils infligent des punitions sévères à ceux qui auraient tenté de s’échapper  ; certains affament leurs détenus, d’autres les libèrent lorsque la compagnie chargée de fournir les repas interrompt ses services faute de voir ses factures réglées. Il est probable que si les portes de certains centres de détention venaient à s’ouvrir, nombreux sont des détenus qui décideraient d’y rester, préférant à l’incertitude de l’extérieur leur précarité connue. Cela, beaucoup le disent à nos équipes. Dans ce pays fragmenté, les dynamiques et enjeux politiques locaux l’emportent. Ce qu’on apprend vite, en Libye, c’est l’impossibilité de généraliser les situations.

    Nous savons aussi que nous n’avons aucune vocation à devenir le service de santé d’un système de détention arbitraire  : il faut que ces gens sortent. Des hommes le plus souvent, mais aussi des femmes et des enfants, parfois tout petits, parfois nés en détention, parfois nés de viols. L’exposition à la violence, la perméabilité aux milices, aux trafiquants, la possibilité pour les détenus de travailler et de gagner un peu d’argent varient considérablement d’un centre à l’autre. Il en est aussi de leur accès pour les organisations humanitaires.

    Mais nous savons surtout que les centres de détention officiels n’abritent que 2000, 3000 des migrants en danger présents en Libye. Et les autres alors  ? Beaucoup travaillent, et assument une précarité qui est le lot, bien sûr à des degrés divers, de nombreux immigrés dans le monde, de Dubaï à Paris, de Khartoum à Bogota. Mais quelques dizaines de milliers d’autres, soit par malchance, soit parce qu’ils n’ont aucun projet de vie en Libye et recourent massivement aux services peu fiables de trafiquants risquent gros  : les enlèvements bien sûr, kidnappings contre rançons qui s’accompagnent de tortures et de sévices. Certains de ces «  migrants  », entre 45 000 et 50 000, sont reconnus «  réfugiés ou des demandeurs d’asiles  » par le Haut-Commissariat pour les réfugiés : ils sont Erythréens, Soudanais, Somaliens pour la plupart. De très nombreux autres, migrants économiques dit-on, sont Nigérians, Maliens, Marocains, Guinéens, Bangladeshis, etc. Ils sont plus seuls encore.

    Pour les premiers, un maigre espoir de relocalisation subsiste  : l’année dernière, le HCR fut en mesure d’organiser le départ de 2400 personnes vers le Niger et le Rwanda, où elles ont été placées encore quelques mois en situation d’attente avant qu’un pays, le plus souvent européen, les accepte. A ce rythme donc, il faudrait 20 ans pour les évacuer en totalité – et c’est sans compter les arrivées nouvelles. D’autant plus que le programme de ‘réinstallation’ cible en priorité les personnes identifiées comme vulnérables, à savoir femmes, enfants, malades. Les hommes adultes, seuls – la grande majorité des Erythréens par exemple – ont peu de chance de faire partie des rares personnes sélectionnées. Or très lourdement endettés et craignant légitimement pour leur sécurité dans leur pays d’origine, ils ne rentreront en aucun cas ; ayant perdu l’espoir que le Haut-Commissariat pour les réfugiés les fassent sortir de là, leur seule perspective réside dans une dangereuse et improbable traversée de la Méditerranée.

    Faute de lieux protégés, lorsqu’ils sont extraits des centres de détention par le HCR, ils sont envoyés en ville, à Tripoli surtout, devenant des ‘réfugiés urbains’ bénéficiant d’un paquet d’aide minimal, délivré en une fois et dont on peine à voir la protection qu’il garantit à qui que ce soit. Dans ces lieux, les migrants restent à la merci des trafiquants et des violences, comme ce fut le cas pour deux Erythréens en janvier dernier. Ceux-là avaient pourtant et pour un temps, été placés sous la protection du HCR au sein du Gathering and Departure Facility. Fin 2018, le HCR avait obtenu l’ouverture à Tripoli de ce centre cogéré avec les autorités libyennes et initialement destiné à faciliter l’évacuation des demandeurs d’asiles vers des pays tiers. Prévu à l’origine pour accueillir 1000 personnes, il n’aura pas résisté plus d’un an au conflit qui a embrasé la capitale en avril 2019 et à la proximité de milices combattantes.

    D’ailleurs, certains d’entre eux préfèrent la certitude de la précarité des centres de détention à l’incertitude plus inquiétante encore de la résidence en milieu ouvert  : c’est ainsi qu’à intervalles réguliers, nous sommes témoins de ces retours. En janvier, quatre femmes somalies, sommées de libérer le GDF en janvier, ont fait le choix de rejoindre en taxi leurs maris détenus à Dar El Jebel, dont elles avaient été séparées par le HCR qui ne reconnaissaient pas la légalité des couples. Les promesses d’évacuation étant virtuelles, elles sont en plus confrontées à une absurdité supplémentaire  : une personne enregistrée par le HCR ne pourra bénéficier du système de rapatriement volontaire de l’Organisation Internationale des Migrations quand bien même elle le souhaiterait.

    Pour les seconds, non protégés par le HCR, l’horizon n’est pas plus lumineux : d’accès à l’Europe, il ne peut en être question qu’au prix, là encore, d’une dangereuse traversée. L’alternative est le retour au pays, promue et organisée par l’Organisation internationale des Migrations et vécue comme une défaite souvent indépassable. De tels retours, l’OIM en a organisé plus de 40 000 depuis 2016. En 2020, ils seront probablement environ 10 000 à saisir l’occasion d’un «  départ volontaire  », dont on mesure à chaque instant l’absurdité de la qualification. Au moins, ceux-là auront-ils mis leur expérience libyenne derrière eux.

    La situation des migrants en Libye est à la fois banale et exceptionnelle. Exceptionnelle en raison de l’intense violence à laquelle ils sont souvent confrontés, du moins pour un grand nombre d’entre eux - la violence des trafiquants et des ravisseurs, la violence du risque de mourir en mer, la violence de la guerre. Mais elle est aussi banale, de manière terrifiante : la différence entre un Érythréen vivant parmi des rats sous le périphérique parisien ou dans un centre de détention à Khoms n’est pas si grande. Leur expérience de la migration est incroyablement violente, leur situation précaire et dangereuse. La situation du Darfouri à Agadez n’est pas bien meilleure, ni celle d’un Afghan de Samos, en Grèce. Il est difficile de ne pas voir cette population, incapable de bouger dans le monde de la mobilité, comme la plus indésirable parmi les indésirables. Ce sont les oubliés.

    https://www.msf-crash.org/index.php/fr/blog/camps-refugies-deplaces/en-libye-les-oublies
    #rapport_d'observation #torture #détention #gardes-côtes_libyens #hypocrisie #UE #EU #Union_européenne #responsabilité #Direction_chargée_de_l’immigration_irrégulière_libyenne (#DCIM) #Dar_El_Jebel #Zintan #montagne #Nafusa (#montagnes_Nafusa) #attente #violence #relocalisation #Niger #Rwanda #réinstallation #vulnérabilité #urban_refugees #Tripoli #réfugiés_urbains #HCR #GDF #OIM #IOM #rapatriement_volontaire #retour_au_pays #retour_volontaire

    ping @_kg_

  • Près de 600 migrants portés disparus en Libye, alerte l’OIM

    Les autorités libyennes disent avoir libéré 600 personnes, dont des femmes et des enfants, détenus dans un établissement sous le contrôle du ministère de l’Intérieur. L’Organisation internationale pour les migrations (OIM) s’inquiète du sort de ces migrants volatilisés.

    L’Organisation internationale pour les migrations (OIM) a indiqué avoir perdu la trace de 600 migrants en Libye. « Des femmes et des enfants de tous âges font partie des disparus, ce sont des personnes vulnérables », a alerté Safa Msehli, porte-parole de l’OIM, contactée par InfoMigrants jeudi 20 février.

    Ce groupe de migrants était enfermé dans un établissement sous le contrôle du ministère de l’Intérieur libyen à Tripoli depuis début janvier, après avoir été intercepté en mer Méditerranée et débarqué en Libye par les garde-côtes.

    L’OIM indique ne jamais avoir eu l’autorisation d’accéder à ce #centre. « Ce que nous savons c’est que le gouvernement libyen dit avoir libéré les 600 migrants, mais nous n’avons #aucun_signe_de vie d’eux. Nous sommes très inquiets. Nous avons demandé des éclaircissements aux autorités libyennes », a précisé Safa Msehli.


    https://twitter.com/ONUmigration/status/1230168903348891651?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

    Bombardements d’un port de débarquement des migrants

    Sur place, la situation humanitaire continue de se détériorer, 10 mois après le début de l’offensive du maréchal Khalifa Haftar sur Tripoli, a prévenu l’OIM.

    Dernier incident en date, quelques heures à peine avant un débarquement de migrants interceptés en Méditerranée mardi : le port maritime de Tripoli ainsi que celui d’al-Chaab, un port secondaire, ont été la cible de plus de 15 roquettes. C’est la première fois que ces ports sont ciblés par de si lourds bombardements.

    « La Libye ne peut pas attendre », a réagi Federico Soda, chef de la mission de l’OIM en Libye, dans un communiqué. Dans un appel à la communauté internationale émis après cet incident, l’organisation enjoint plus spécifiquement l’Union européenne à réagir au plus vite en prenant « des mesures concrètes pour s’assurer que les vies sauvées en mer soient acheminées vers des ports sûrs, et pour mettre fin au système de détention arbitraire ».

    L’OIM plaide pour « un mécanisme de débarquement rapide et prévisible, dans lequel les États méditerranéens prennent une responsabilité égale pour trouver un port sûr aux personnes secourues ». Il demande aussi la reconnaissance des « efforts de sauvetage des navires des ONG opérant en Méditerranée » et une levée « de toute restriction et tout retard dans le débarquement ».

    Au moins 1 700 migrants ont été interceptés et renvoyés en Libye par les garde-côtes libyens depuis le début de la nouvelle année, selon l’OIM.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/22909/pres-de-600-migrants-portes-disparus-en-libye-alerte-l-oim
    #disparitions #IOM #OIM #Libye #asile #migrations #réfugiés #disparitions #gardes-côtes_libyens #sauvetage (?) #Méditerranée #push-back #refoulements #Mer_Méditerranée

    @sinehebdo... c’est aussi un nouveau mot ?
    #migrants_volatilisés

  • Une enquête accablante de l’ONU condamne le projet phare du WWF au #Congo et révèle l’ampleur massive des abus - Survival International
    https://survivalinternational.fr/actu/12341

    C’est la première fois que l’ONU enquête sur un projet du #WWF, et ses conclusions sont accablantes :

    – Les #gardes_forestiers armés soutenus par le WWF frappent et maltraitent fréquemment les « #Pygmées » #baka vivant à Messok Dja.

    – Le projet a causé « des traumatismes et des souffrances » aux Baka.

    – Le #PNUD, l’un des bailleurs de fonds du projet, a violé ses propres politiques et normes en soutenant le projet sans avoir obtenu au préalable l’accord des Baka. Ils n’ont pas pris la peine de demander ce consentement, car ils ont simplement supposé qu’un projet de « conservation » de la #nature serait bénéfique aux Baka.[...]

    – Le projet n’a eu aucun impact sur « le démantèlement des réseaux criminels qui se cachent derrière le commerce illégal de la faune et de la flore sauvages ».

    https://www.theguardian.com/global-development/2020/feb/07/armed-ecoguards-funded-by-wwf-beat-up-congo-tribespeople

    via @fil

  • Les #E3C de monsieur #Blanquer : #Confusion, #Chaos, #Colère, ou l’école de la #défiance

    En #solidarité avec les lycéennes, les lycéens et tous les collègues du secondaire qui se mobilisent contre les #réformes_Blanquer.

    Douze cars de CRS tous gyrophares allumés à l’aube devant le lycée Basch de Rennes, contrôle des lycéens à l’entrée dans le lycée, intervention policière « musclée » (comme on dit pudiquement) à Rennes, à Nantes, à Libourne, à Paris… Est-ce un nouveau mai 68 ? Non, ce sont les « #Épreuves_communes_de contrôle_continu », dites E3C de Jean-Michel Blanquer.

    La présentation il y a plus d’un an des réformes voulues par le Ministre de l’Education Nationale a soulevé d’emblée bien des #inquiétudes : #différences_de_traitement des lycéens et lycéennes face à l’examen, #inégalités entre les territoires, installation d’une sorte de #bachotage permanent pendant dix-huit mois, lié aux modalités mal pensées d’un faux #contrôle_continu envahissant. C’est peu de dire que ces problèmes et ces risques maintes fois exposés n’ont trouvé ni écoute ni embryon de réponse au ministère de l’Education Nationale.

    Tout se passe comme on pouvait le craindre : les programmes de 1ère qui ne suivent plus ceux de seconde conduisent à une sorte de course infinie pour « rattraper » ce qui n’a pas été fait parce que non prévu, les conseils de classe ne réunissent plus tous les enseignants et toutes les enseignantes d’une classe puisque l’éclatement des spécialités et des options conduit les enseignants à accueillir le plus souvent des élèves de classes différentes (d’où par exemple la distribution des élèves d’une classe entre 4 ou 5 professeurs de la même matière selon les particularités de leur parcours). Surtout, l’#évaluation_permanente est désormais le principe organisateur de ces années de lycée pourtant si cruciales pour la formation des jeunes gens : en lieu et place de la réflexion critique fondé sur l’échange entre l’enseignant et ses élèves, l’enchainement infernal des #épreuves conduit les enseignants à faire le programme au pas de charge et les adolescents sont forcés à un #apprentissage_mécanique. Ils sont nombreux à raconter la situation d’#anxiété perpétuelle dans laquelle ils sont plongés.

    Tout cela a été annoncé et dénoncé. Tout cela est arrivé.

    Mais le pire était encore à venir.

    En effet, l’administration de l’Éducation Nationale de haut en bas - de son ministre, aux recteurs, aux inspecteurs et jusqu’aux proviseurs - s’est lancée dans une défense et illustration du bien-fondé de la réforme en cours au mépris de la réalité de ce qui se passe dans les établissements. Confusion, #précipitation et #opacité règnent en maîtresses dans l’organisation des premières épreuves de la réforme du Bac, les fameux E3C. Rien n’est respecté : ni le cadre chronologique des épreuves qui devrait être commun alors qu’elles sont étalées sur trois semaines —voire plus désormais puisque de nombreuses épreuves ont été reportées sine die, ni la gestion rationnelle des banques de sujet (certains sujets n’ont pas été retirés desdites banques et ont donc été redonnés quelques jours plus tard ailleurs, après avoir circulé sur internet !), ni l’identification d’un protocole commun pour le choix des sujets ou les corrections des épreuves, ni la logistique de ce qui est censé être une épreuve d’examen national : horaires fantasques, espaces impropres à un examen, absence de banalisation de la semaine concernée sont courants, à quoi s’ajoute le scannage extrêmement chronophage de copies en partie inutilisables.

    Face aux réactions de défiance ou de refus devant les E3C, réactions prévisibles et légitimes, chez de nombreux lycéens et lycéennes comme chez un grand nombre d’enseignant.e.s, la réponse apportée s’avère d’une dureté et parfois d’une #violence inouïes, au sens strict du terme, parfaitement étrangères aux coutumes de #gestion_des_conflits dans le second degré. Certains chefs d’établissement, après avoir interdit l’expression libre des lycéens et lycéennes au sein des établissements, ont appelé la #police pour rompre des blocus conduits par des adolescents ; des lycéens mineurs ont été placés en #garde_à_vue jusqu’à 35 heures sans justification, sans que leurs parents en soient prévenus ; certains ont été malmenés ; d’autres, après avoir été identifiés comme des « meneurs », ont été emmenés en minibus pour #comparution_au_rectorat sans être accompagnés par des professeurs ou des parents d’élèves ; à l’occasion, ceux qu’on accuse du #blocus n’ont pas le droit de repasser les épreuves et se retrouvent avec une note de 0/20 illégale (que les universitaires devront « oublier » au moment des évaluations sur ParcourSup) ; d’autres encore sont cadenassés dans leurs salles pour composer, alarme incendie désactivée, ou filtrés par les CRS à Rennes (les informations qui remontent des réseaux sociaux sont à cet égard concordantes et très alarmantes) ; des enseignant.e.s sont menacé.e.s de #rétorsions ; d’absurdes rappels à un devoir de #neutralité ou de « réserve » ont été adressés à des collègues du secondaire.

    Quel autre mot que « #répression », que beaucoup d’entre nous auraient trouvé naguère excessif, pour nommer ce qui se passe autour de la mise en place des réformes de M. Blanquer ?

    Dans ces circonstances, la tribune des « 50 chefs d’établissement parisiens » (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/01/27/plus-de-cinquante-chefs-d-etablissements-scolaires-parisiens-demandent-que-c), publiée récemment dans un grand quotidien du soir, est une véritable provocation : rassemblés pour se plaindre des blocus de lycées et en appeler à des interventions plus fréquentes des forces de l’ordre en feignant de se soucier de la « fragilité » de certains de leurs élèves, et sans faire la moindre allusion aux raisons de la protestation ni même à ce que les réformes en cours font et feront subir justement aux plus fragiles, ces irresponsables, confits dans l’obéissance à leurs « supérieurs », manifestent la même propension à la surdité, à la morgue et à l’aveuglement qui règne actuellement au sommet de l’État.

    Cette situation nous concerne tous, de la maternelle à l’Université : ce qui est mis en jeu dans cette répression, ce sont les libertés propres à l’exercice de nos métiers, quel que soit l’âge de ceux et celles à qui nous transmettons des connaissances et des savoirs, c’est la nature même d’un service public de l’enseignement (et de la recherche) qui suppose à la fois d’articuler des droits et des devoirs, de réaffirmer constamment le rôle social de notre travail et de nourrir la tension éthique qui l’anime et le justifie. La solidarité avec nos collègues du secondaire relève de la défense partagée de ce qui nous est commun.

    Sauvons l’université !
    7 février 2020

    http://www.sauvonsluniversite.fr/spip.php?article8640
    #lycée #lycées #France #bac_Blanquer

  • Bac : Un pas de plus dans l’inacceptable
    http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2020/02/04022020Article637163983199660629.aspx
    Et si vous n’êtes pas contents, vous pouvez toujours essayer la dictature.

    N’oubliez pas de mettre une couverture et un slip propre dans le cartable de votre enfant qui part au lycée. Il pourrait rentrer très tard et en avoir besoin. Avec les deux journées de garde à vue pour aucune poursuite infligée aux lycéens parisiens de 16 ans, on pensait avoir atteint le maximum de la répression contre les lycéens mobilisés contre la réforme du bac. La journée du 3 février nous détrompe : on en est maintenant à l’arrestation préventive avant tout blocage. La fuite des responsabilités a elle aussi progressé.

  • Migrants en Libye, les oubliés de l’exil

    Venus le plus souvent d’Érythrée, les migrants sont détenus dans des conditions lamentables, et souvent les victimes de milices qui les torturent et les rançonnent. Les Nations unies et l’Union européenne préfèrent détourner le regard. Témoignages.

    L’odeur d’excréments s’accentue à mesure que nous approchons de l’entrepôt qui constitue le bâtiment principal du centre de détention de #Dhar-El-Djebel, dans les montagnes du #djebel_Nefoussa. Un problème de plomberie, précise le directeur, confus.

    Il ouvre le portail métallique du hangar en béton, qui abrite environ 500 détenus, presque tous érythréens. Les demandeurs d’asile reposent sur des matelas gris à même le sol. Au bout d’une allée ouverte entre les matelas, des hommes font la queue pour uriner dans l’un des onze seaux prévus à cet effet.

    Personne dans cette pièce, m’avait expliqué un détenu lors de ma première visite en mai 2019, n’a vu la lumière du jour depuis septembre 2018, quand un millier de migrants détenus à Tripoli ont été évacués ici. #Zintan, la ville la plus proche, est éloignée des combats de la capitale libyenne, mais aussi des yeux des agences internationales. Les migrants disent avoir été oubliés.

    En Libye, quelque 5 000 migrants sont toujours détenus pour une durée indéterminée dans une dizaine de #centres_de_détention principaux, officiellement gérés par la #Direction_pour_combattre_la_migration_illégale (#Directorate_for_Combatting_Illegal_Migration, #DCIM) du gouvernement d’entente nationale (#GEN) reconnu internationalement. En réalité, depuis la chute de Mouammar Kadhafi en 2011, la Libye ne dispose pas d’un gouvernement stable, et ces centres sont souvent contrôlés par des #milices. En l’absence d’un gouvernement fonctionnel, les migrants en Libye sont régulièrement kidnappés, réduits en esclavage et torturés contre rançon.

    L’Europe finance les garde-côtes

    Depuis 2017, l’Union européenne (UE) finance les #garde-côtes_libyens pour empêcher les migrants d’atteindre les côtes européennes. Des forces libyennes, certaines équipées et entraînées par l’UE, capturent et enferment ainsi des migrants dans des centres de détention, dont certains se trouvent dans des zones de guerre, ou sont gardés par des milices connues pour vendre les migrants à des trafiquants.

    Contrairement à d’autres centres de détention que j’ai visités en Libye, celui de Dhar-El-Djebel ne ressemble pas à une prison. Avant 2011, cet ensemble de bâtiments en pleine campagne était, selon les termes officiels, un centre d’entraînement pour « les bourgeons, les lionceaux et les avant-bras du Grand Libérateur » — les enfants à qui l’on enseignait le Livre vert de Kadhafi. Quand le GEN, basé à Tripoli, a été formé en 2016, le centre a été placé sous l’autorité du DCIM.

    En avril, Médecins sans frontières (MSF) pour lequel je travaillais a commencé à faire des consultations à Dhar-El-Djebel. Le centre retenait alors 700 migrants. La plupart étaient enregistrés comme demandeurs d’asile par l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés (UNHCR), mais selon la loi libyenne, ce sont des migrants « illégaux » et ils peuvent être détenus pour une durée indéterminée.

    N’ayant que peu d’espoir de sortir, plusieurs ont tenté de se suicider au contact de fils électriques. D’autres avaient placé leur foi en Dieu, mais aussi dans les réseaux sociaux et leurs talents de bricoleurs. La plupart des détenus érythréens sont chrétiens : sur le mur face à la porte, ils ont construit une église orthodoxe abyssine au moyen de cartons colorés de nourriture et de matelas verts du HCR, avec des croix en cire de bougie. Sur d’autres matelas, ils ont écrit, avec du concentré de tomates et du piment rouge, des slogans tels que « Nous sommes victimes du HCR en Libye ». Avec leurs smartphones, ils ont posté des photos sur les réseaux sociaux, posant avec les bras croisés pour montrer qu’ils étaient prisonniers.

    Leurs efforts avaient attiré l’attention. Le 3 juin, le HCR évacuait 96 demandeurs d’asile à Tripoli. Une semaine plus tard, l’entrepôt bondé dans lequel j’avais d’abord rencontré les migrants était enfin vidé. Mais 450 Érythréens restaient enfermés dans le centre, entassés dans d’autres bâtiments, à plus de vingt dans une vingtaine de cellules, bien que de nombreux détenus préfèrent dormir dans les cours, sous des tentes de fortune faites de couvertures.

    « Ils nous appellent Dollars et Euros »

    La plupart des Érythréens de Dhar-El-Djebel racontent une histoire proche : avant d’être piégés dans le système de détention libyen, ils ont fui la dictature érythréenne, où le service militaire est obligatoire et tout aussi arbitraire. En 2017, Gebray, âgé d’un peu plus de 30 ans, a laissé sa femme et son fils dans un camp de réfugiés en Éthiopie et payé des passeurs 1 600 dollars (1 443 euros) pour traverser le désert soudanais vers la Libye avec des dizaines d’autres migrants. Mais les passeurs les ont vendus à des trafiquants libyens qui les ont détenus et torturés à l’électricité jusqu’à ce qu’ils téléphonent à leurs proches pour leur demander une #rançon. Après 10 mois en prison, la famille de Gebray avait envoyé près de 10 000 dollars (9 000 euros) pour sa libération : « Ma mère et mes sœurs ont dû vendre leurs bijoux. Je dois maintenant les rembourser. C’est très dur de parler de ça ».

    Les migrants érythréens sont particulièrement ciblés, car beaucoup de trafiquants libyens croient qu’ils peuvent compter sur l’aide d’une riche diaspora en Europe et en Amérique du Nord. « Nous sommes les plus pauvres, mais les Libyens pensent que nous sommes riches. Ils nous appellent Dollars et Euros », me raconte un autre migrant.

    Après avoir survécu à la #torture, beaucoup comme Gebray ont de nouveau payé pour traverser la mer, mais ont été interceptés par les garde-côtes libyens et enfermés en centre de détention. Certains compagnons de cellule de Gebray ont été détenus depuis plus de deux ans dans cinq centres successifs. Alors que la traversée de la Méditerranée devenait plus risquée, certains se sont rendus d’eux-mêmes dans des centres de détention dans l’espoir d’y être enregistrés par le HCR.

    Les ravages de la tuberculose

    Dans l’entrepôt de Dhar-El-Djebel, Gebray a retrouvé un ancien camarade d’école, Habtom, qui est devenu dentiste. Grâce à ses connaissances médicales, Habtom s’est rendu compte qu’il avait la tuberculose. Après quatre mois à tousser, il a été transféré de l’entrepôt dans un plus petit bâtiment pour les Érythréens les plus malades. Gebray, qui explique qu’à ce moment-là, il ne pouvait « plus marcher, même pour aller aux toilettes », l’y a rapidement suivi. Quand j’ai visité la « maison des malades », quelque 90 Érythréens, la plupart suspectés d’avoir la tuberculose, y étaient confinés et ne recevaient aucun traitement adapté.

    Autrefois peu répandue en Libye, la tuberculose s’est rapidement propagée parmi les migrants dans les prisons bondées. Tandis que je parlais à Gebray, il m’a conseillé de mettre un masque : « J’ai dormi et mangé avec des tuberculeux, y compris Habtom ».

    Habtom est mort en décembre 2018. « Si j’ai la chance d’arriver en Europe, j’aiderai sa famille, c’est mon devoir », promet Gebray. De septembre 2018 à mai 2019, au moins 22 détenus de Dhar-El-Djebel sont morts, principalement de la tuberculose. Des médecins étaient pourtant présents dans le centre de détention, certains de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), et d’autres d’#International_Medical_Corps (#IMC), une ONG américaine financée par le HCR et l’UE. Selon un responsable libyen, « nous les avons suppliés d’envoyer des détenus à l’hôpital, mais ils ont dit qu’ils n’avaient pas de budget pour ça ». Les transferts à l’hôpital ont été rares. En revanche, une quarantaine des détenus les plus malades, la plupart chrétiens, ont été transférés dans un autre centre de détention à Gharyan, plus proche d’un cimetière chrétien. « Ils ont été envoyés à Gharyan pour mourir », explique Gebray. Huit d’entre eux sont morts entre janvier et mai.

    Contrairement à Dhar-El-Djebel, #Gharyan ressemble à un centre de détention : une série de containers entourés de hauts grillages métalliques. Yemane a été transféré ici en janvier : « Le directeur de Dhar-El-Djebel et le personnel d’IMC nous ont dit qu’ils allaient nous conduire à l’hôpital à Tripoli. Ils n’ont pas parlé de Gharyan... Quand on est arrivés, on a été immédiatement enfermés dans un container ».
    Des migrants vendus et torturés

    Selon Yemane, une femme a tenté de se pendre quand elle a compris qu’elle était à Gharyan, et non dans un hôpital, comme le leur avaient promis les médecins d’IMC. Beaucoup gardaient de mauvais souvenirs de Gharyan : en 2018, des hommes armés masqués y ont kidnappé quelque 150 migrants détenus dans le centre et les ont vendus à des centres de torture. Le centre a alors brièvement fermé, puis rouvert, avec à sa tête un nouveau directeur, qui m’a expliqué que des trafiquants l’appelaient régulièrement pour tenter de lui acheter des migrants détenus.

    En avril 2019, des forces de Khalifa Haftar, l’homme fort de l’est de la Libye, ont lancé une offensive contre les forces pro-GEN à Tripoli et se sont emparées de Gharyan. Les troupes d’Haftar se sont installées à proximité du centre de détention et les avions du GEN ont régulièrement bombardé la zone. Effrayés par les frappes aériennes autant que par les migrants tuberculeux, les gardes ont déserté. Chaque fois que je me suis rendu sur place, nous sommes allés chercher le directeur dans sa maison en ville, puis l’avons conduit jusqu’au portail du centre, où il appelait un migrant pour qu’il lui ouvre. Les détenus lui avaient demandé un cadenas pour pouvoir s’enfermer et se protéger des incursions. De fait, des forces pro-Haftar venaient demander aux migrants de travailler pour eux. Yemane indique qu’un jour, ils ont enlevé quinze hommes, dont on est sans nouvelles.

    MSF a demandé au HCR d’évacuer les détenus de Gharyan. L’agence de l’ONU a d’abord nié que Gharyan était en zone de guerre, avant de l’admettre et de suggérer le transfert des détenus au centre de détention #Al-Nasr, à #Zawiya, à l’ouest de Tripoli. Pourtant, le Conseil de sécurité de l’ONU a accusé les forces qui contrôlent ce centre de trafic de migrants, et placé deux de leurs dirigeants sous sanctions.

    « Si vous êtes malades, vous devez mourir ! »

    Les détenus étaient toujours à Gharyan quand, le 26 juin, les forces du GEN ont repris la zone. Le jour suivant, ils ont forcé le portail du centre de détention avec une voiture et demandé aux migrants de se battre à leurs côtés. Les détenus effrayés ont montré leurs médicaments contre la tuberculose en répétant des mots d’arabe que des employés du HCR leur avaient appris − kaha (#toux) et darn (#tuberculose). Les miliciens sont repartis, l’un d’eux lançant aux migrants : « Si vous êtes malades, on reviendra vous tuer. Vous devez mourir ! ».

    Le 4 juillet, le HCR a enfin évacué les détenus restants vers Tripoli. L’agence a donné à chacun d’eux 450 dinars (100 euros) pour qu’ils subvenir à leurs besoins dans une ville qu’ils ne connaissaient pas. L’abri où ils étaient censés loger s’avérant trop coûteux, ils ont déménagé vers un endroit moins cher, jadis une bergerie. « Le HCR dit qu’on sera en sécurité dans cette ville, mais pour nous, la Libye n’offre ni liberté ni sécurité », explique Yemane.

    La plupart des 29 migrants évacués de Gharyan sont maintenant bloqués, et en danger, dans les rues de Tripoli, mais espèrent toujours obtenir l’asile en dehors de Libye. Les combats se poursuivant à Tripoli, des miliciens ont proposé à Yemane de s’enrôler pour 1 000 dollars (901 euros) par mois. « J’ai vu beaucoup de migrants qui ont été recrutés ainsi, puis blessés », m’a-t-il raconté récemment sur WhatsApp. Deux de ses colocataires ont été à nouveau emprisonnés par des milices, qui leur ont demandé 200 dollars (180 euros) chacun.

    Les migrants de Gharyan ont si peur dans les rues de Tripoli qu’ils ont demandé à retourner en détention ; l’un d’entre eux est même parvenu à entrer dans le centre de détention d’Abou Salim. Nombre d’entre eux ont la tuberculose. Fin octobre, Yemane lui-même a découvert qu’il en était porteur, mais n’a pas encore de traitement.
    « Ils nous ont donné de faux espoirs »

    Contrairement à Gharyan, Dhar-El-Djebel est loin des combats. Mais depuis avril, des migrants détenus à Tripoli refusent d’y être transférés car ils craignent d’être oubliés dans le djebel Nefoussa. Selon un responsable de la zone, « notre seul problème ici, c’est que le HCR ne fait pas son travail. Cela fait deux ans qu’ils font de fausses promesses à ces gens ». La plupart des détenus de Dhar-El-Djebel ont été enregistrés comme demandeurs d’asile par le HCR, et espèrent donc être relocalisés dans des pays d’accueil sûr. Gebray a été enregistré en octobre 2018 à Dhar-El-Djebel : « Depuis, je n’ai pas vu le HCR. Ils nous ont donné de faux espoirs en nous disant qu’ils allaient revenir bientôt pour nous interviewer et nous évacuer de Libye ».

    Les 96 Érythréens et Somaliens transférés en juin de Dhar-El-Djebel au « centre de rassemblement et de départ » du HCR à Tripoli étaient convaincus qu’ils feraient partie des chanceux prioritaires pour une évacuation vers l’Europe ou l’Amérique du Nord. Mais en octobre, le HCR aurait rejeté une soixantaine d’entre eux, dont 23 femmes et 6 enfants. Ils n’ont plus d’autre choix que de tenter de survivre dans les rues de Tripoli ou d’accepter un « retour volontaire » vers les pays dont ils ont fui la violence.

    Le rapport de la visite de l’ONU à Dhar-El-Djebel en juin, durant ce même transfert, avait prévenu que « le nombre de personnes que le HCR sera en mesure d’évacuer sera très faible par rapport à la population restante [à Dhar-El-Djebel] en raison du nombre de places limité offert la communauté internationale ».

    De fait, le HCR a enregistré près de 60 000 demandeurs d’asile en Libye, mais n’a pu en évacuer qu’environ 2 000 par an. La capacité de l’agence à évacuer des demandeurs d’asile de Libye dépend des offres des pays d’accueil, principalement européens. Les plus ouverts n’accueillent chaque année que quelques centaines des réfugiés bloqués en Libye. Les détenus de Dhar-El-Djebel le savent. Lors d’une de leurs manifestations, leurs slogans écrits à la sauce tomate visaient directement l’Europe : « Nous condamnons la politique de l’UE envers les réfugiés innocents détenus en Libye ».

    « L’Europe dit qu’elle nous renvoie en Libye pour notre propre sécurité, explique Gebray. Pourquoi ne nous laissent-ils pas mourir en mer, sans souffrance ? Cela vaut mieux que de nous laisser dépérir ici ».

    https://orientxxi.info/magazine/migrants-en-libye-les-oublies-de-l-exil,3460
    #Libye #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_érythréens #santé #maladie #externalisation

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    Et pour la liste de @sinehebdo, deux nouveaux #mots : #Dollars et #Euros

    Les migrants érythréens sont particulièrement ciblés, car beaucoup de trafiquants libyens croient qu’ils peuvent compter sur l’aide d’une riche diaspora en Europe et en Amérique du Nord. « Nous sommes les plus pauvres, mais les Libyens pensent que nous sommes riches. Ils nous appellent Dollars et Euros », me raconte un autre migrant.

    #terminologie #vocabulaire

    • Libye : que se passe-t-il dans le « #centre_d’investigations » de #Tripoli ?

      La semaine dernière, environ 300 migrants interceptés en mer par les garde-côtes libyens ont été transférés dans le centre de #Sharah_Zawiya, au sud de la capitale libyenne. Ouvert depuis au moins un an – avec une fermeture de quelques mois fin 2019 – le lieu est depuis peu contrôlé par le #DCIM et accessible à l’Organisation internationale des migrations (#OIM).

      #Centre_de_détention « caché », #centre_de_transit ou centre « d’investigations » ? Le centre de Sharah Zawiya, dans le sud de Tripoli, est l’objet d’interrogations pour nombre d’observateurs des questions migratoires en Libye.

      Selon l’Organisation internationale des migrations (OIM), contactée par InfoMigrants, le lieu est supposé être un centre de transit : les migrants interceptés en mer sont envoyés dans cette structure afin d’y subir un interrogatoire avant leur transfert vers un centre de détention officiel.

      « Théoriquement, ils [les migrants] ne restent pas plus de 48 heures à Sharah Zawiya », précise l’OIM.

      « Je suis resté au moins trois mois dans ce centre »

      Or plusieurs migrants, avec qui InfoMigrants est en contact et qui sont passés par ce centre, affirment avoir été enfermés plus que deux jours et disent n’avoir jamais été interrogés. « Je suis resté au moins trois mois là-bas l’été dernier, avant de réussir à m’en échapper », indique Ali, un Guinéen de 18 ans qui vit toujours en Libye. « Durant toute cette période, on ne m’a posé aucune question ».

      Ce dernier explique qu’à leur arrivée, les gardiens dépouillent les migrants. « Ils prennent tout ce qu’on a, le plus souvent nos téléphones et de l’argent ». Ibrahim, un Guinéen de 17 ans qui a – lui aussi - réussi à s’échapper du centre ce week-end après avoir été intercepté en mer, raconte la même histoire. « Ils m’ont forcé à leur donner mon téléphone et les 100 euros que j’avais sur moi », soupire-t-il.

      Ali assure également que les Libyens demandent une #rançon pour sortir du centre, avoisinant les 3 000 dinars libyens (environ 1 950 euros). « Un monsieur, un Africain, nous amenait des téléphones pour qu’on contacte nos familles et qu’on leur demande de l’argent. Un autre, un Arabe, récupérait la somme due ». Il détaille également les #coups portés sur les migrants « sans aucune raison » et le #rationnement_de_la_nourriture – « un morceau de pain pour trois personnes le matin, et un plat de pâtes pour six le soir ».

      D’après des informations recueillies et vérifiées par InfoMigrants, le centre est ouvert depuis au moins un an et a fermé quelques mois fin 2019 avant de rouvrir la semaine dernière avec l’arrivée d’environ 300 migrants. Un changement de chefferie à la tête du centre serait à l’origine de cette fermeture temporaire.

      Changement d’organisation ?

      Ce changement de responsable a-t-il été accompagné d’un changement de fonctionnement ? Ali explique qu’il s’est enfui vers le mois d’octobre, après trois mois de détention, avec l’aide de l’ancienne équipe. « Les Libyens qui contrôlaient le centre nous ont dit de partir car un nouveau chef devait arriver. L’ancien et le nouveau responsable n’étaient d’ailleurs pas d’accord entre eux, à tel point que leurs équipes ont tirés les uns sur les autres pendant que nous prenions la fuite ».
      L’OIM signale de son côté n’avoir reçu l’autorisation d’entrer dans le centre que depuis la semaine dernière. « Avant, le lieu était géré par le ministère de l’Intérieur, mais depuis quelques jours c’est le DCIM [le département de lutte contre la migration illégale, NDLR] qui a repris le contrôle », explique l’agence onusienne à InfoMigrants.

      Ibrahim assure, lui, qu’aucune somme d’argent n’a été demandée par les gardiens pour quitter le centre. Les personnes interceptées en mer, mardi 18 février, ont en revanche été transférées samedi vers le centre de détention de #Zaouia, où une rançon de 2 000 dinars (environ 1 300 euros) leur a été réclamée pour pouvoir en sortir.
      Ce genre de centre n’est pas une exception en Libye, prévient une source qui souhaite garder l’anonymat. « Il existe d’autres centres de ce type en Libye où on ne sait pas vraiment ce qu’il s’y passe. Et de toute façon, #centre_d’investigation, de transit ou de détention c’est pareil. Les migrants y sont toujours détenus de manière arbitraire pour une période indéfinie ».

      https://www.infomigrants.net/fr/post/22991/libye-que-se-passe-t-il-dans-le-centre-d-investigations-de-tripoli
      #Zawiya #IOM #détention