• #PAUVRETÉ : “IL Y A LARGEMENT ASSEZ DE RICHESSES POUR TOUT LE MONDE”

    Les pauvres sont paresseux, ils ne savent pas gérer leur argent, et ils méritent la situation qui est la leur. Voici quelques clichés sur la pauvreté que l’économiste #Esther_Duflo démonte depuis des années, au travers de son vaste travail sur la pauvreté.
    A l’heure où les #inégalités explosent, qu’une poignée de privilégiés détiennent un niveau de richesses toujours plus important, et ce alors qu’ils sont ceux qui polluent le plus, comment réduire ce fossé, comment lutter contre la pauvreté et offrir des conditions de vie dignes à toutes et à tous ?
    Comment les économistes peuvent-ils impacter les prises de décision des dirigeants politiques, comment lutter contre les #clichés sur les pauvres ? Esther Duflo répond à toutes ces questions au micro de Salomé Saqué.

    0:00 : Introduction
    1:36 : La pauvreté expliquée aux enfants
    8:09 : #Définition de la pauvreté
    9:29 : Pauvreté et #universalité
    12:35 : Le bond en arrière de la pauvreté
    14:13 : L’#extrême_pauvreté
    16:35 : Comment répartir les richesses ?
    20:42 : Un #impôt_international sur les #grandes_fortunes ?
    27:07 : Pauvreté : quel est le #discours_politique ?
    34:38 : Faut-il distribuer de l’argent aux pauvres ?
    36:34 : L’impact de l’#économie sur la #politique
    44:46 : Que peut-on faire en tant que citoyen ?

    https://www.youtube.com/watch?v=H7syPQvbHOU


    #richesse #idées-reçues #répartition_des_richesses #préjugés #interview #vidéo

  • Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

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    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

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    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

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    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

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    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

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    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1016060

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  • Emergence d’économie hors-pétrole en Arabie Saoudite, perçue par le FMI.
    http://www.argotheme.com/organecyberpresse/spip.php?article4508

    Les atouts de l’Arabie Saoudite qui ont pesé auprès des décideurs des BRICS, dans le processus d’élargissement ouvert aux candidatures peu soupçonneuses pour leur admission, sont les vrais critères financiers, ainsi que la teneur des réformes politiques. Ils ont tranché favorablement pour les Ibn-Saoud. Les flux financiers qui s’articulent dans une dynamique de changement, Ryad a déjà un florissant secteur, le tourisme religieux, d’où sont puisées de faramineuses taxes de séjours. Grands événements : Gigantisme de l’inattendu.

    / #Arabie_Saoudite,_Qatar,_Koweït,_EAU,_Moyen-Orient,_monarchies,_arabes,_musulmans, #diplomatie,_sécurité,_commerce,_économie_mondiale, Russie, Poutine, Europe de l’Est, , Chine, réforme, développement, environnement, Asie, , Terrorisme , islamisme , Al-Qaeda , politique , , (...)

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  • Incapables de faire face à l’afflux de demandeurs, les Restos du cœur appellent à l’aide

    L’association a annoncé qu’elle allait devoir éconduire 150 000 personnes. Le gouvernement a promis 100 balles par tête (15 millions d’€), mais pas de Mars.

    « Nous demandons des réponses concrètes, précises, immédiates, et le lancement d’un plan d’urgence alimentaire. » Le président des #Restos_du_cœur, Patrice Douret, a adressé un appel à l’aide aux « forces politiques et aux forces économiques » lors du « 13 heures » de TF1, dimanche 3 septembre. Il décrit une « situation inédite » : jamais, depuis leur création en 1985 par Coluche, les Restos du cœur n’avaient aidé autant de monde – ils ont déjà accueilli 1,3 million de personnes cette année, contre 1,1 million en 2022. Et jamais l’association n’avait autant dépensé, du fait de ces besoins accrus et de l’inflation : elle doit acheter plus du tiers de la nourriture qu’elle distribue et faire face aux surcoûts d’électricité, de transports…
    « A ce rythme-là, si on ne fait rien, les Restos du cœur pourraient [comme l’école et l’hôpital] mettre la clé sous la porte d’ici trois ans ». Ils vont « réduire fortement » le nombre de personnes accueillies pour se concentrer sur ceux qui ont les plus faibles « restes à vivre ». « On devra aussi réduire les quantités pour tous ceux qu’on pourra accueillir ».
    (...) Avec les trois autres associations bénéficiant de l’#aide_alimentaire européenne – les banques alimentaires, le Secours populaire et la Croix-Rouge –, il a demandé au printemps à rencontrer Maquereau. Il a aussi appelé, dans une tribune au Monde, à renforcer le Soutien européen à l’aide alimentaire. Sans résultat.

    Cette fois, des élus de nombreux partis (HellFI, RN, Pécéèfe, EELV, Répoublicains, P$) se sont émus de la situation, plusieurs ont soutenu l’idée du « plan d’urgence alimentaire ». Les Mousquetaires et Carrefour ont promis d’effectuer des dons et d’organiser des #collectes.

    La ministre des solidarités, Aurore Bergé a indiqué que l’aide alimentaire du gouvernement avait été portée à 156 millions d’euros cette année et que, « dans les prochains jours, 15 millions d’euros » seront « mis sur la table » pour aider les Restos du cœur à « passer cette période », et 6 millions d’euros débloqués en faveur des associations d’aide aux tout-petits. Elle a elle-aussi lancé « un appel solennel aux grandes entreprises », qui avaient su se mobiliser pour la reconstruction de la cathédrale Notre-Dame de Paris, et compte les recevoir rapidement, en même temps que les présidents des grandes associations de solidarité.

    Cette annonce « ne répond pas à l’urgence », puisque « même en réduisant le nombre de personnes accueillies et les quantités données, nous avons besoin de 35 millions d’euros pour terminer notre exercice à l’équilibre en mars, réagit le pédégé des Restos. De plus, arnaque classique, les 15 millions annoncés englobent une dizaine de millions d’euros déjà budgétés dans le cadre du plan “Mieux manger pour tous”.

    Les autres grands acteurs de l’aide alimentaire soulignent l’urgence à agir. « Nous recevons moins de dons de nourriture de la #grande_distribution et de l’#industrie_agroalimentaire, et nous avons moins d’aides européennes que durant la crise sanitaire, tandis que les besoins augmentent fortement, résume Laurence Champier, D.G. des B.A.. Nous sommes obligés de rationner les associations que nous aidons et de limiter leur nombre. Notre secteur a besoin de crédits suffisants et pérennes, d’autant plus que les particuliers risquent de moins pouvoir donner ! »
    Côté du Secours pop : « Nous accompagnons désormais 3,5 millions de personnes, y compris de plus en plus d’étudiants, de retraités et des personnes qui travaillent. Nous essayons de partager plutôt que de refuser des gens, car il y en a déjà beaucoup trop qui sont en dehors des radars, explique le D.G. de l’association, Thierry Robert. Il faut plus de soutien, et aussi plus d’accompagnement humain de la part de l’Etat. Nos bénévoles constatent combien la dématérialisation des services publics prive de nombreuses personnes de leurs droits. »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/09/04/l-appel-a-l-aide-des-restos-du-c-ur-confrontes-a-une-situation-inedite_61876

    #alimentation #plan_d’urgence_alimentaire

  • "Moi, mon colon celle que j’préfère, c’est la guerre de 14-18". Traces de la grande guerre dans la chanson populaire.

    « La première guerre mondiale fait plus de 10 millions de morts, dont près de 9 millions de soldats. On déplore également des millions de blessés, invalides, traumatisés, défigurés (gueules cassées). Par son ampleur inédite, sa dimension planétaire, le conflit s’impose comme la guerre de référence. Ce n’est pas ce bon vieux Georges qui dira le contraire : "La guerre de 14-18" "Depuis que l’homme écrit l’Histoire, / Depuis qu’il bataille à cœur joie / Entre mille et une guerr’s notoires, / Si j’étais t’nu de faire un choix, / A l’encontre du vieil Homère, / Je déclarerais tout de suit’ : / "Moi, mon colon, cell’ que j’préfère, / C’est la guerr’ de quatorz’-dix-huit !" On déplore également de très nombreux orphelins et veuves de guerre. Barbara se glisse dans la peau de l’une d’entre elles. Tourneboulée, fataliste, elle entend continuer à vivre, vaille que vaille. "Mon amant est mort à la guerre / Je venais d’avoir 19 ans / Je fus à lui seul toute entière / De son vivant / Mais quand j’ai appris ça / Je ne sais ce qui se passe / Je ne sais quelle folie / Je ne sais quelle furie / En un jour, je pris 3 amants / Et puis encore autant / Dans le même laps du temps

    Si ça devait arriver / C’est que ça devait arriver / Tout dans la vie arrive à son heure / Il faut bien qu’on vive / Il faut bien qu’on boive / Il faut bien qu’on aime / Il faut bien qu’on meure".

    Dès la fin du conflit, les femmes sont invitées à quitter leurs emplois pour regagner leurs foyers. En dépit de leur implication dans l’effort de guerre et de leurs sacrifices, elles n’obtiennent pas le droit de vote. Les voilà de nous nouveau cantonnées à leur rôle de mères comme le déplorent les Femmouzes T dans la chanson "La femme du soldat inconnu" "Il fallait qu’il s’en aille / Il est pas revenu / Il a eu sa médaille / Mon soldat inconnu / Des honneurs à la noix / Et quand la mort m’a prise / Je n’ai eu que l’honneur / De la femme soumise
    Ad vitam eternam j’aurai pas ma statue / Je n’étais que La Femme Du Soldat Inconnu". »

    A lire :
    https://lhistgeobox.blogspot.com/2023/09/moi-mon-colon-celle-que-jprefere-cest.html

    ou écouter :
    https://podcasters.spotify.com/pod/show/blottire/episodes/Moi--mon-colon-celle-que-jprfre--cest-la-guerre-de-14-18--La-grande-guerre-en-chansons-e26pigi/a-aa11iem

  • Designing Accessible Text Over Images: Best Practices, Techniques, And Resources — Smashing Magazine
    https://www.smashingmagazine.com/2023/08/designing-accessible-text-over-images-part1
    https://www.smashingmagazine.com/2023/08/designing-accessible-text-over-images-part2

    #CSS #gradient #Images #Text

    En complément de https://seenthis.net/messages/924372

  • Bourges : le 1er septembre, les bus deviennent gratuits
    https://www.francebleu.fr/infos/transports/bourges-le-1er-septembre-les-bus-deviennent-gratuits-7867380

    Il n’y a donc pas de file d’attente en cette rentrée scolaire dans les locaux d’agglobus : les familles n’ont plus besoin de demander des cartes de transport, avec à la clef une belle économie, rappelle Jean-Michel Guérineau : « Un abonnement annuel, c’était 180 euros par personne pour le tarif le plus élevé, qui était calculé en fonction des revenus et de la famille. Plus besoin d’en souscrire. Plus besoin d’abonnement pour les écoliers. Plus de ticket à acheter non plus. C’est une belle économie pour les familles et aussi pour les salariés, même si l’employeur remboursait la moitié du prix d’un abonnement. En moyenne, on estime l’économie de l’ordre de 300 à 400 euros par an, par famille. Sans parler des économies de carburant, si vous décidez de délaisser votre voiture. »

    Mais ce n’est pas gratuit pour tout le monde. Ce sont les entreprises de onze salariés et plus qui financent cette nouvelle organisation : le versement mobilité, une taxe qu’elles doivent acquitter, passe progressivement de 1,25 % à 2 % de la masse salariale, d’ici juillet prochain. C’est ainsi huit millions d’euros supplémentaires (en année pleine) qui arrivent dans les caisses du syndicat des transports. Pas de quoi réjouir le président de la chambre de commerce du Cher, Serge Richard : «  Cette augmentation tombe mal. Les entreprises doivent investir pour s’adapter au déréglement climatique. Elles doivent faire face à l’inflation avec la hausse du prix de l’énergie notamment. En plus le gouvernement a décidé de repousser sa promesse de suppression de la CVAE (cotisation sur la valeur ajoutée des entreprises) à 2027. L’augmentation du versement mobilité tombe donc mal. D’un autre côté, on le savait puisque les transports gratuits, c’était une promesse de campagne du maire de Bourges, Yann Galut. »

    Moins de 1% de ponctionné sur la masse salariale, et les transports sont gratuits ? J’adhère immédiatement de mon côté, tellement l’augmentation serait bénigne. Mais à Bourges, le patronat local parvient à pleurnicher. Le patronat, quand il n’exulte pas en palpant le CIR ou le CICE, il pleurniche en faisant croire qu’il s’intéresse au changement climatique ; il faudra lui signaler que le changement climatique, on s’y adapte aussi en prenant les transports en commun.

  • Le “#navi_quarantena” sono costate più di 130 milioni di euro in due anni

    Tra l’aprile 2020 e il giugno 2022 almeno 56mila persone sono transitate dalle imbarcazioni messe a disposizione da operatori privati su volere del governo, per una spesa pro-capite di 220 euro al giorno. Dati inediti evidenziano un esborso pubblico molto più elevato di quanto avrebbe richiesto una più dignitosa accoglienza a terra

    Le “navi quarantena” utilizzate per oltre due anni dal governo italiano per l’isolamento preventivo dei richiedenti asilo arrivati sulle coste italiane durante l’emergenza sanitaria sono costate, in totale, quasi 132 milioni di euro: 220 euro a persona al giorno. “Una follia fuori da ogni logica, un simile costo è più di quattro volte quello che si sarebbe speso utilizzando soluzioni residenziali a terra. Un paradosso, considerando che oggi si grida all’emergenza ma si continua a spendere pochissimo per creare un sistema d’accoglienza dignitoso”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano solidarietà di Trieste (Ics) e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

    L’86% di quanto speso è andato a Grandi navi veloci Spa, la principale azienda che ha fornito le navi, ma il conto potrebbe essere parziale: dai documenti consultati da Altreconomia non è chiaro se la rendicontazione dei soggetti coinvolti sia già conclusa. Quel che è certo è che vanno aggiunti a questa cifra almeno 420mila euro per i costi sostenuti per la Raffaele Rubattino, proprietà della Compagnia italiana navigazione Spa, per l’accoglienza di 180 profughi tra il 17 aprile e il 5 maggio 2020.

    Ma andiamo con ordine. Nel pieno della pandemia da Covid-19, con il lockdown nazionale proclamato il 9 marzo 2020, un doppio decreto istituisce il sistema delle cosiddette “navi quarantena”: da un lato, il 7 aprile 2020 un decreto interministeriale emanato dai ministeri dell’Interno, della Salute e delle Infrastrutture stabilisce che, per tutta la durata dell’emergenza sanitaria, i porti italiani non potevano essere considerati “luoghi sicuri” per lo sbarco dei migranti; dall’altro cinque giorni dopo, il 12 aprile, la Protezione civile affida al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno la gestione dell’isolamento e della quarantena dei cittadini stranieri soccorsi o arrivati autonomamente via mare. È sulla base di questo decreto che il Viminale, insieme alla Croce rossa italiana, viene autorizzato a utilizzare navi per lo svolgimento della sorveglianza sanitaria “con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro)”. Quelle, quindi, non sbarcate autonomamente. Comincia così la stagione delle navi quarantena: tra il 17 aprile e il 5 maggio 183 persone vengono “ospitate”, come detto, sulla nave Rubattino seguita dal traghetto Moby Zaza (attivo dal 12 maggio), che può ospitare fino a 250 persone appartenente anche esso alla Compagnia di navigazione italiana. Sarà poi Grandi navi veloci, successivamente, a fornire quasi tutti i servizi.

    Traghetti su cui, in totale, dal 17 aprile 2020 al 7 giugno 2022 secondo i dati forniti ad Altreconomia dall’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, sono salite in totale 56.007 persone, per una permanenza media nel 2021 e 2022 di 10,7 giorni. Considerando un costo totale di 132 milioni di euro significa quindi più di 2.300 euro a persona e 220 al giorno.

    “Ipotizziamo di aumentare da 30 a 50 euro il costo pro-capite pro-die per l’accoglienza di queste persone in strutture residenziali sul territorio -osserva Schiavone-. Aumentiamo la diaria perché consideriamo l’oggettiva situazione di emergenza sanitaria che alza i costi. Ebbene, anche così facendo e considerando che comunque la spesa totale potrebbe essere al ribasso significa un costo quattro volte più alto. È irragionevole”. Di questi soldi, ricavati da Altreconomia dai giustificativi di pagamento dei servizi effettuati dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, come detto 113 milioni sono stati destinati a Grandi navi veloci (tra nave, carburante e personale), quasi sei milioni a Moby Zaza e poco più di 12 alla Croce rossa italiana (Cri) che assisteva le persone trattenute sulle navi. La stessa Croce rossa a gennaio 2022 aveva minacciato di non garantire più il servizio a seguito del ripetuto superamento del periodo massimo di permanenza sulla nave -10 giorni- per almeno mille persone e che, anche per questo motivo, aveva preoccupato tra gli altri l’Asgi che in un dettagliato report aveva pubblicato le sue perplessità sui rischi di un simile sistema.

    “L’accoglienza a terra avrebbe evitato note criticità logistiche, violazioni di alcune procedure e soprattutto, da un punto di vista strettamente economico avrebbe fatto risparmiare il ministero e aiutato, per esempio, albergatori in difficoltà che si sono trovati a dover chiudere le proprie attività. Chi non avrebbe accettato le accoglienze a 50 euro? Di certo, nessuno, ai 220 costati per le navi”. E forse si sarebbero anche evitate le morti di Bilal, ragazzo tunisino di 22 anni che si è suicidato dalla Moby Zaza a maggio 2020; Abou Diakite, 15 anni, nato in Costa d’Avorio e deceduto nell’ospedale di Palermo dopo essere stato trasportato d’urgenza dalla Gnv Allegra; Giorgio Carducci, psicologo volontario di 47 anni stroncato da un arresto cardiaco. E poi Abdallah Said deceduto a settembre 2020 all’ospedale di Catania dopo due settimane di permanenza sulla Gnv Azzurra.

    Abbiamo chiesto a Croce rossa italiana se era già terminata la rendicontazione delle spese effettuate ma non abbiamo ricevuto risposta nel merito. Il periodo di riferimento dei pagamenti effettuati va dall’ottobre 2020 al 24 febbraio 2023. Mancano però le informazioni del primo trimestre del 2021 che hanno una tabella “vuota”: non è chiaro se perché non sono state effettuati pagamenti o per un errore di caricamento.

    Un capitolo chiuso che ha ancora molto da “insegnare” anche per il presente. “Evidenzia come non ci sia nessun tipo di ragionata pianificazione che consenta di trovare delle soluzioni adeguate anche in contesti straordinari, come è indubbiamente stato il Covid-19, ma sulla base di criteri e paletti di ragionevolezza -conclude Schiavone-. Passiamo dalla spesa folle fatta con le navi quarantena al rifiuto attuale di adeguare e prevedere un corrispettivo pro die-pro capite dignitoso per l’accoglienza nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) con la conseguenza che le gare vanno deserte perché le condizioni sono economicamente insostenibili. La stessa amministrazione, certo con tempi diversi e governi, sembra non abbia nessun parametro logico su come operare in emergenza, su cosa e quanto sia ragionevole spendere per conseguire gli obiettivi pubblici. Tutto sembra invece avvenire in modo molto casuale in contrasto con il principio di efficienza che deve guidare l’operato della pubblica amministrazione”.

    https://altreconomia.it/le-navi-quarantena-sono-costate-piu-di-130-milioni-di-euro-in-due-anni
    #budget #coût #asile #migrations #réfugiés #Italie #privatisation #covid #Grandi_navi_veloci #navires #bateaux #Raffaele_Rubattino #Compagnia_italiana_navigazione #lockdown #confinement #isolement #quarantaine #Place_of_Safety #Rubattino #Moby_Zaza #ferry #Croce_rossa_italiana #croce_rossa #hébergement #accueil #GNV

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    voir aussi ce fil de discussion:
    Rights in route. The “#quarantine_ships” between risks and criticisms
    https://seenthis.net/messages/866072

  • Coop ou pas coop de trouver une alternative à la grande distribution ?

    Un #magasin sans client, sans salarié, sans marge, sans contrôle, sans espace de pouvoir où la confiance règne vous y croyez ? Difficile, tant le modèle et les valeurs de la grande distribution, et plus largement capitalistes et bourgeoises ont façonnés nos habitus. Néanmoins, parmi nous certains cherchent l’alternative : supermarchés coopératifs, collaboratifs, épiceries participatives, citoyennes, etc. Des alternatives qui pourtant reprennent nombre des promesses de la grande distribution et de ses valeurs. Les épiceries “autogérées”, “libres” ou encore en “gestion directe” tranchent dans ce paysage. Lieux d’apprentissage de nouvelles habitudes, de remise en cause frontale du pouvoir pyramidal et pseudo-horizontal. Ce modèle sera évidemment à dépasser après la révolution, mais d’ici-là il fait figure de favori pour une #émancipation collective et individuelle.

    Le supermarché : une #utopie_capitaliste désirable pour les tenants de la croyance au mérite

    Le supermarché est le modèle hégémonique de #distribution_alimentaire. #Modèle apparu seulement en 1961 en région parisienne il s’est imposé en quelques décennies en colonisant nos vies, nos corps, nos désirs et nos paysages. Cette utopie capitaliste est devenue réalité à coup de #propagande mais également d’adhésion résonnant toujours avec les promesses de l’époque : travaille, obéis, consomme ; triptyque infernal où le 3e pilier permet l’acceptation voire l’adhésion aux deux autres à la mesure du mérite individuel fantasmé.

    Malgré le succès et l’hégémonie de ce modèle, il a parallèlement toujours suscité du rejet : son ambiance aseptisée et criarde, industrielle et déshumanisante, la relation de prédation sur les fournisseurs et les délocalisations qui en découlent, sa privatisation par les bourgeois, la volonté de manipuler pour faire acheter plus ou plus différenciant et cher, le greenwashing (le fait de servir de l’écologie de manière opportuniste pour des raisons commerciales), etc., tout ceci alimente les critiques et le rejet chez une frange de la population pour qui la recherche d’alternative devient motrice.

    C’est donc contre ce modèle que se (re)créent des #alternatives se réclamant d’une démarche plus démocratique, plus inclusive, ou de réappropriation par le citoyen… Or, ces alternatives se réalisent en partant du #modèle_dominant, jouent sur son terrain selon ses règles et finalement tendent à reproduire souvent coûte que coûte, parfois inconsciemment, les promesses et les côtés désirables du supermarché.
    Comme le dit Alain Accardo dans De Notre Servitude Involontaire “ce qu’il faut se résoudre à remettre en question – et c’est sans doute la pire difficulté dans la lutte contre le système capitaliste -, c’est l’#art_de_vivre qu’il a rendu possible et désirable aux yeux du plus grand nombre.”
    Le supermarché “coopératif”, l’épicerie participative : des pseudo alternatives au discours trompeur

    Un supermarché dit “coopératif” est… un supermarché ! Le projet est de reproduire la promesse mais en supprimant la part dévolue habituellement aux bourgeois : l’appellation “coopératif” fait référence à la structure juridique où les #salariés ont le #pouvoir et ne reversent pas de dividende à des actionnaires. Mais les salariés ont tendance à se comporter collectivement comme un bourgeois propriétaire d’un “moyen de production” et le recrutement est souvent affinitaire : un bourgeois à plusieurs. La valeur captée sur le #travail_bénévole est redistribuée essentiellement à quelques salariés. Dans ce type de supermarché, les consommateurs doivent être sociétaires et “donner” du temps pour faire tourner la boutique, en plus du travail salarié qui y a lieu. Cette “#coopération” ou “#participation” ou “#collaboration” c’est 3h de travail obligatoire tous les mois sous peine de sanctions (contrôles à l’entrée du magasin pour éventuellement vous en interdire l’accès). Ces heures obligatoires sont cyniquement là pour créer un attachement des #bénévoles au supermarché, comme l’explique aux futurs lanceurs de projet le fondateur de Park Slope Food le supermarché New-Yorkais qui a inspiré tous les autres. Dans le documentaire FoodCoop réalisé par le fondateur de la Louve pour promouvoir ce modèle :”Si vous demandez à quelqu’un l’une des choses les plus précieuses de sa vie, c’est-à-dire un peu de son temps sur terre (…), la connexion est établie.”

    L’autre spécificité de ce modèle est l’#assemblée_générale annuelle pour la #démocratie, guère mobilisatrice et non propice à la délibération collective. Pour information, La Louve en 2021 obtient, par voie électronique 449 participations à son AG pour plus de 4000 membres, soit 11%. Presque trois fois moins avant la mise en place de cette solution, en 2019 : 188 présents et représentés soit 4,7%. À Scopeli l’AG se tiendra en 2022 avec 208 sur 2600 membres, soit 8% et enfin à la Cagette sur 3200 membres actifs il y aura 143 présents et 119 représentés soit 8,2%

    Pour le reste, vous ne serez pas dépaysés, votre parcours ressemblera à celui dans un supermarché traditionnel. Bien loin des promesses de solidarité, de convivialité, de résistance qui n’ont su aboutir. Les militants voient de plus en plus clairement les impasses de ce modèle mais il fleurit néanmoins dans de nouvelles grandes villes, souvent récupéré comme plan de carrière par des entrepreneurs de l’#ESS qui y voient l’occasion de se créer un poste à terme ou de développer un business model autour de la vente de logiciel de gestion d’épicerie en utilisant ce souhait de milliers de gens de trouver une alternative à la grande distribution.

    #La_Louve, le premier supermarché de ce genre, a ouvert à Paris en 2016. Plus de 4000 membres, pour plus d’1,5 million d’euros d’investissement au départ, 3 années de lancement et 7,7 millions de chiffre d’affaires en 2021. À la création il revendiquait des produits moins chers, de fonctionner ensemble autrement, ne pas verser de dividende et de choisir ses produits. Cette dernière est toujours mise en avant sur la page d’accueil de leur site web : “Nous n’étions pas satisfaits de l’offre alimentaire qui nous était proposée, alors nous avons décidé de créer notre propre supermarché.” L’ambition est faible et le bilan moins flatteur encore : vous retrouverez la plupart des produits présents dans les grandes enseignes (loin derrière la spécificité d’une Biocoop, c’est pour dire…), à des #prix toujours relativement élevés (application d’un taux de 20% de marge).

    À plus petite échelle existent les épiceries “participatives”. La filiation avec le #supermarché_collaboratif est directe, avec d’une cinquantaine à quelques centaines de personnes. Elles ne peuvent généralement pas soutenir de #salariat et amènent des relations moins impersonnelles grâce à leur taille “plus humaine”. Pour autant, certaines épiceries sont des tremplins vers le modèle de supermarché et de création d’emploi pour les initiateurs. Il en existe donc avec salariés. Les marges, selon la motivation à la croissance varient entre 0 et 30%.

    #MonEpi, startup et marque leader sur un segment de marché qu’ils s’efforcent de créer, souhaite faire tourner son “modèle économique” en margeant sur les producteurs (marges arrières de 3% sur les producteurs qui font annuellement plus de 10 000 euros via la plateforme). Ce modèle très conforme aux idées du moment est largement subventionné et soutenu par des collectivités rurales ou d’autres acteurs de l’ESS et de la start-up nation comme Bouge ton Coq qui propose de partager vos données avec Airbnb lorsque vous souhaitez en savoir plus sur les épiceries, surfant sur la “transition” ou la “résilience”.

    Pour attirer le citoyen dynamique, on utilise un discours confus voire trompeur. Le fondateur de MonEpi vante volontiers un modèle “autogéré”, sans #hiérarchie, sans chef : “On a enlevé le pouvoir et le profit” . L’informatique serait, en plus d’être incontournable (“pour faire ce que l’on ne saurait pas faire autrement”), salvatrice car elle réduit les espaces de pouvoir en prenant les décisions complexes à la place des humains. Pourtant cette gestion informatisée met toutes les fonctions dans les mains de quelques sachant, le tout centralisé par la SAS MonEpi. De surcroit, ces épiceries se dotent généralement (et sont incitées à le faire via les modèles de statut fournis par MonEpi) d’une #organisation pyramidale où le simple membre “participe” obligatoirement à 2-3h de travail par mois tandis que la plupart des décisions sont prises par un bureau ou autre “comité de pilotage”, secondé par des commissions permanentes sur des sujets précis (hygiène, choix des produits, accès au local, etc.). Dans certains collectifs, le fait de participer à ces prises de décision dispense du travail obligatoire d’intendance qui incombe aux simples membres…

    Pour finir, nous pouvons nous demander si ces initiatives ne produisent pas des effets plus insidieux encore, comme la possibilité pour la sous-bourgeoisie qui se pense de gauche de se différencier à bon compte : un lieu d’entre-soi privilégié où on te vend, en plus de tes produits, de l’engagement citoyen bas de gamme, une sorte d’ubérisation de la BA citoyenne, où beaucoup semblent se satisfaire d’un énième avatar de la consom’action en se persuadant de lutter contre la grande distribution. De plus, bien que cela soit inconscient ou de bonne foi chez certains, nous observons dans les discours de nombre de ces initiatives ce que l’on pourrait appeler de l’#autogestion-washing, où les #inégalités_de_pouvoir sont masqués derrière des mots-clés et des slogans (Cf. “Le test de l’Autogestion” en fin d’article).

    L’enfer est souvent pavé de bonnes intentions. Et on pourrait s’en contenter et même y adhérer faute de mieux. Mais ne peut-on pas s’interroger sur les raisons de poursuivre dans des voies qui ont clairement démontré leurs limites alors même qu’un modèle semble apporter des réponses ?

    L’épicerie autogérée et autogouvernée / libre : une #utopie_libertaire qui a fait ses preuves

    Parfois nommé épicerie autogérée, #coopérative_alimentaire_autogérée, #épicerie_libre ou encore #épicerie_en_gestion_directe, ce modèle de #commun rompt nettement avec nombre des logiques décrites précédemment. Il est hélas largement invisibilisé par la communication des modèles sus-nommés et paradoxalement par son caractère incroyable au sens premier du terme : ça n’est pas croyable, ça remet en question trop de pratiques culturelles, il est difficile d’en tirer un bénéfice personnel, c’est trop beau pour être vrai…Car de loin, cela ressemble à une épicerie, il y a bien des produits en rayon mais ce n’est pas un commerce, c’est un commun basé sur l’#égalité et la #confiance. L’autogestion dont il est question ici se rapproche de sa définition : la suppression de toute distinction entre dirigeants et dirigés.

    Mais commençons par du concret ? À #Cocoricoop , épicerie autogérée à Villers-Cotterêts (02), toute personne qui le souhaite peut devenir membre, moyennant une participation libre aux frais annuels (en moyenne 45€ par foyer couvrant loyer, assurance, banque, électricité) et le pré-paiement de ses futures courses (le 1er versement est en général compris entre 50€ et 150€, montant qui est reporté au crédit d’une fiche individuelle de compte). À partir de là, chacun.e a accès aux clés, au local 24h/24 et 7 jours/7, à la trésorerie et peut passer commande seul ou à plusieurs. Les 120 foyers membres actuels peuvent venir faire leurs courses pendant et hors des permanences. Ces permanences sont tenues par d’autres membres, bénévolement, sans obligation. Sur place, des étagères de diverses formes et tailles, de récup ou construites sur place sont alignées contre les murs et plus ou moins généreusement remplies de produits. On y fait ses courses, pèse ses aliments si besoin puis on se dirige vers la caisse… Pour constater qu’il n’y en a pas. Il faut sortir une calculatrice et calculer soi-même le montant de ses courses. Puis, ouvrir le classeur contenant sa fiche personnelle de suivi et déduire ce montant de son solde (somme des pré-paiements moins somme des achats). Personne ne surveille par dessus son épaule, la confiance règne.

    Côté “courses”, c’est aussi simple que cela, mais on peut y ajouter tout un tas d’étapes, comme discuter, accueillir un nouveau membre, récupérer une débroussailleuse, participer à un atelier banderoles pour la prochaine manif (etc.). Qu’en est-il de l’organisation et l’approvisionnement ?

    Ce modèle de #commun dont la forme épicerie est le prétexte, cherche avant tout, à instituer fondamentalement et structurellement au sein d’un collectif les règles établissant une égalité politique réelle. Toutes les personnes ont le droit de décider et prendre toutes les initiatives qu’elles souhaitent. “#Chez_Louise” dans le Périgord (Les Salles-Lavauguyon, 87) ou encore à #Dionycoop (St-Denis, 93), comme dans toutes les épiceries libres, tout le monde peut, sans consultation ou délibération, décider d’une permanence, réorganiser le local, organiser une soirée, etc. Mieux encore, toute personne est de la même manière légitime pour passer commande au nom du collectif en engageant les fonds disponibles dans la trésorerie commune auprès de tout fournisseur ou distributeur de son choix. La trésorerie est constituée de la somme des dépôts de chaque membre. Les membres sont incités à laisser immobilisé sur leur fiche individuelle une partie de leurs dépôts. Au #Champ_Libre (Preuilly-Sur-Claise, 37), 85 membres disposent de dépôts moyens de 40-50€ permettant de remplir les étagères de 3500€ selon l’adage, “les dépôts font les stocks”. La personne qui passe la commande s’assure que les produits arrivent à bon port et peut faire appel pour cela au collectif.

    D’une manière générale, les décisions n’ont pas à être prises collectivement mais chacun.e peut solliciter des avis.

    Côté finances, à #Haricocoop (Soissons, 02), quelques règles de bonne gestion ont été instituées. Une #créditomancienne (personne qui lit dans les comptes bancaires) vérifie que le compte est toujours en positif et un “arroseur” paye les factures. La “crédito” n’a aucun droit de regard sur les prises de décision individuelle, elle peut seulement mettre en attente une commande si la trésorerie est insuffisante. Il n’y a pas de bon ou de mauvais arroseur : il voit une facture, il paye. Une autre personne enfin vérifie que chacun a payé une participation annuelle aux frais, sans juger du montant. Ces rôles et d’une manière générale, toute tâche, tournent, par tirage au sort, tous les ans afin d’éviter l’effet “fonction” et impliquer de nouvelles personnes.

    Tout repose donc sur les libres initiatives des membres, sans obligations : “ce qui sera fait sera fait, ce qui ne sera pas fait ne sera pas fait”. Ainsi, si des besoins apparaissent, toute personne peut se saisir de la chose et tenter d’y apporter une réponse. Le corolaire étant que si personne ne décide d’agir alors rien ne sera fait et les rayons pourraient être vides, le local fermé, les produits dans les cartons, (etc.). Il devient naturel d’accepter ces ‘manques’ s’il se produisent, comme conséquence de notre inaction collective et individuelle ou l’émanation de notre niveau d’exigence du moment.

    Toute personne peut décider et faire, mais… osera-t-elle ? L’épicerie libre ne cherche pas à proposer de beaux rayons, tous les produits, un maximum de membres et de chiffre d’affaires, contrairement à ce qui peut être mis en avant par d’autres initiatives. Certes cela peut se produire mais comme une simple conséquence, si la gestion directe et le commun sont bien institués ou que cela correspond au niveau d’exigence du groupe. C’est à l’aune du sentiment de #légitimité, que chacun s’empare du pouvoir de décider, de faire, d’expérimenter ou non, que se mesure selon nous, le succès d’une épicerie de ce type. La pierre angulaire de ces initiatives d’épiceries libres et autogouvernées repose sur la conscience et la volonté d’instituer un commun en le soulageant de tous les espaces de pouvoir que l’on rencontre habituellement, sans lequel l’émancipation s’avèrera mensongère ou élitiste. Une méfiance vis-à-vis de certains de nos réflexes culturels est de mise afin de “s’affranchir de deux fléaux également abominables : l’habitude d’obéir et le désir de commander.” (Manuel Gonzáles Prada) .

    L’autogestion, l’#autogouvernement, la gestion directe, est une pratique humaine qui a l’air utopique parce que marginalisée ou réprimée dans notre société : nous apprenons pendant toute notre vie à fonctionner de manière autoritaire, individualiste et capitaliste. Aussi, l’autogestion de l’épicerie ne pourra que bénéficier d’une vigilance de chaque instant de chacun et chacune et d’une modestie vis-à-vis de cette pratique collective et individuelle. Autrement, parce que les habitudes culturelles de domination/soumission reviennent au galop, le modèle risque de basculer vers l’épicerie participative par exemple. Il convient donc de se poser la question de “qu’est-ce qui en moi/nous a déjà été “acheté”, approprié par le système, et fait de moi/nous un complice qui s’ignore ?” ^9 (ACCARDO) et qui pourrait mettre à mal ce bien commun.

    S’affranchir de nos habitus capitalistes ne vient pas sans effort. Ce modèle-là ne fait pas mine de les ignorer, ni d’ignorer le pouvoir qu’ont les structures et les institutions pour conditionner nos comportements. C’est ainsi qu’il institue des “règles du jeu” particulières pour nous soutenir dans notre quête de #confiance_mutuelle et d’#égalité_politique. Elles se résument ainsi :

    Ce modèle d’épicerie libre diffère ainsi très largement des modèles que nous avons pu voir plus tôt. Là où la Louve cherche l’attachement via la contrainte, les épiceries autogérées cherchent l’#appropriation et l’émancipation par ses membres en leur donnant toutes les cartes. Nous soulignons ci-dessous quelques unes de ces différences majeures :

    Peut-on trouver une alternative vraiment anticapitaliste de distribution alimentaire ?

    Reste que quelque soit le modèle, il s’insère parfaitement dans la #société_de_consommation, parlementant avec les distributeurs et fournisseurs. Il ne remet pas en cause frontalement la logique de l’#économie_libérale qui a crée une séparation entre #consommateur et #producteur, qui donne une valeur comptable aux personnes et justifie les inégalités d’accès aux ressources sur l’échelle de la croyance au mérite. Il ne règle pas non plus par magie les oppressions systémiques.

    Ainsi, tout libertaire qu’il soit, ce modèle d’épicerie libre pourrait quand même n’être qu’un énième moyen de distinction sociale petit-bourgeois et ce, même si une épicerie de ce type a ouvert dans un des quartiers les plus défavorisés du département de l’Aisne (réservée aux personnes du quartier qui s’autogouvernent) et que ce modèle génère très peu de barrière à l’entrée (peu d’administratif, peu d’informatique,…).

    On pourrait aussi légitimement se poser la question de la priorité à créer ce type d’épicerie par rapport à toutes les choses militantes que l’on a besoin de mettre en place ou des luttes quotidiennes à mener. Mais nous avons besoin de lieux d’émancipation qui ne recréent pas sans cesse notre soumission aux logiques bourgeoises et à leurs intérêts et institutions. Une telle épicerie permet d’apprendre à mieux s’organiser collectivement en diminuant notre dépendance aux magasins capitalistes pour s’approvisionner (y compris sur le non alimentaire). C’est d’autant plus valable en période de grève puisqu’on a tendance à enrichir le supermarché à chaque barbecue ou pour approvisionner nos cantines et nos moyens de lutte.

    Au-delà de l’intérêt organisationnel, c’est un modèle de commun qui remet en question concrètement et quotidiennement les promesses et les croyances liées à la grande distribution. C’est très simple et très rapide à monter. Aucune raison de s’en priver d’ici la révolution !
    Le Test de l’Autogestion : un outil rapide et puissant pour tester les organisations qui s’en réclament

    À la manière du test de Bechdel qui permet en trois critères de mettre en lumière la sous-représentation des femmes et la sur-représentation des hommes dans des films, nous vous proposons un nouvel outil pour dénicher les embuscades tendues par l’autogestion-washing, en toute simplicité : “le test de l’Autogestion” :

    Les critères sont :

    - Pas d’AGs ;

    - Pas de salarié ;

    - Pas de gestion informatisée.

    Ces 3 critères ne sont pas respectés ? Le collectif ou l’organisme n’est pas autogéré.

    Il les coche tous ? C’est prometteur, vous tenez peut être là une initiative sans donneur d’ordre individuel ni collectif, humain comme machine ! Attention, le test de l’autogestion permet d’éliminer la plupart des faux prétendants au titre, mais il n’est pas une garantie à 100% d’un modèle autogéré, il faudra pousser l’analyse plus loin. Comme le test de Bechdel ne vous garantit pas un film respectant l’égalité femme-homme.

    Il faut parfois adapter les termes, peut être le collectif testé n’a pas d’Assemblée Générale mais est doté de Réunions de pilotage, n’a pas de salarié mais des services civiques, n’a pas de bureau mais des commissions/groupe de travail permanents, n’a pas de logiciel informatique de gestion mais les documents de gestion ne sont pas accessibles sur place ?
    Pour aller plus loin :

    Le collectif Cooplib fait un travail de documentation de ce modèle de commun et d’autogestion. Ses membres accompagnent de manière militante les personnes ou collectifs qui veulent se lancer (= gratuit).

    Sur Cooplib.fr, vous trouverez des informations et des documents plus détaillés :

    – La brochure Cocoricoop

    – Un modèle de Statuts associatif adapté à l’autogestion

    – La carte des épiceries autogérées

    – Le Référentiel (règles du jeu détaillées)

    – Le manuel d’autogestion appliqué aux épiceries est en cours d’édition et en précommande sur Hello Asso

    Ces outils sont adaptés à la situation particulière des épiceries mais ils sont transposables au moins en partie à la plupart de nos autres projets militants qui se voudraient vraiment autogérés (bar, librairie, laverie, cantine, camping,…). Pour des expérimentations plus techniques (ex : garage, ferme, festival,…), une montée en compétence des membres semble nécessaire.

    D’autres ressources :

    – Quelques capsules vidéos : http://fede-coop.org/faq-en-videos

    – “Les consommateurs ouvrent leur épiceries, quel modèle choisir pour votre ville ou votre village ?”, les éditions libertaires.

    https://www.frustrationmagazine.fr/coop-grande-distribution
    #alternative #grande_distribution #supermarchés #capitalisme #épiceries #auto-gestion #autogestion #gestion_directe #distribution_alimentaire

    sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/1014023

  • #Otto_Neurath, sur les traces d’une #planification_écologique

    Organiser l’#économie à partir des #besoins, en se focalisant sur des #grandeurs_physiques plutôt que leur #valeur en monnaie, tel était le projet subversif de ce philosophe des sciences qui eut à affronter les néolibéraux et les fascistes de son temps.

    Otto #Neurath, un philosophe autrichien du début du siècle dernier, tiendrait-il sa revanche ? La planification écologique, dont on peut le considérer comme étant un des ancêtres intellectuels, est en tout cas sortie des catacombes doctrinales. Pièce maîtresse du programme présidentiel de Jean-Luc Mélenchon, elle est également devenue, avec des intentions certes différentes, un objectif affiché par le pouvoir macroniste. Un secrétariat général auprès de la première ministre lui est dévolu, et des annonces détaillées sont prévues pour la fin de cet été.

    Parler de planification tout court n’a pas toujours été aussi évident dans le débat public. Il fallait montrer patte blanche, en rappelant qu’il a existé des planifications différentes, et que toutes n’ont pas conduit à l’autoritarisme et aux dysfonctionnements de l’Union soviétique et de la Chine maoïste. Mais au moins y avait-il des précédents historiques à invoquer, des travaux intellectuels à citer. La planification écologique, elle, souffre du handicap supplémentaire de ne pas s’être déjà incarnée dans des expériences à grande échelle.

    Celles et ceux qui la promeuvent aujourd’hui ont à surmonter une défaite vieille de près d’un siècle, lorsque de rares penseurs socialistes ont élaboré des modèles économiques démocratiques, attentifs à l’environnement et aux générations futures. Une « brèche écologiste [qui] fut dans l’ensemble colmatée et oubliée », regrette Serge Audier dans son travail sur L’Âge productiviste (La Découverte, 2019). Encore plus qu’à Karl Polanyi (1886-1964), connu pour ses appels à « réencastrer » l’économie dans la société, c’est à un autre intellectuel de la Mitteleuropa que l’on doit cette brèche : Otto Neurath.

    Philosophe des sciences, économiste, ce dernier a connu la prison pour avoir participé à la république des conseils de Bavière en 1919. Durant la décennie suivante, il a polémiqué avec certains des pères fondateurs du néolibéralisme, Ludwig von Mises (1881-1973) et Friedrich Hayek (1899-1992). Dans le même temps, il s’impliquait dans la vie politique et associative de « Vienne la Rouge ». Après que celle-ci a été écrasée par la dictature du chancelier Dollfuss en 1934, il a pris le chemin de l’exil, d’abord aux Pays-Bas puis au Royaume-Uni, où il est mort en 1945.

    En dépit de ce pedigree, on aurait tort de voir en lui une tête brûlée imprégnée d’idéaux marxistes. Tout aussi pacifiste et attaché à la préservation des ressources qu’il fût, il serait également déraisonnable d’en faire un « Vert » avant l’heure. Mais à quelques décennies de distance, sa figure intéresse à la fois la tradition socialiste et la tradition écologiste : d’abord par sa critique frontale et assumée de la logique de marché, ensuite par sa quête optimiste d’un chemin rationnel et méthodique vers l’amélioration du bien-être collectif.
    Un cocktail d’ingénierie et d’utopies sociales

    Né en 1882 à Vienne, le jeune Otto Neurath est élevé dans une famille de la bourgeoisie intellectuelle austro-hongroise, qui lui fait profiter du dynamisme culturel de la capitale impériale autant que de contacts répétés avec la nature.

    Dans un mémoire universitaire en forme de biographie intellectuelle, Billal Tabaichount mentionne l’influence durable exercée sur Neurath par son père. Ce dernier portait en effet un regard négatif sur la concurrence capitaliste, en raison de ses conséquences socialement décevantes et moralement dommageables sur la population.

    Le même chercheur souligne aussi l’influence de l’intellectuelle suédoise Ellen Key (1849-1926), avec qui Neurath a entretenu une correspondance. De cette féministe engagée sur les questions de pédagogie, le jeune homme aurait retenu qu’une « réforme sociale » désirable doit viser le « bonheur humain », compris de façon non religieuse, et ne doit pas « passe[r] uniquement par l’élite d’une société, mais […] concerner de larges pans de la population ».

    Formé aux sciences sociales à Berlin, Neurath revient à Vienne en 1907. Il y côtoie des intellectuels réunis par leur insatisfaction envers les approches idéalistes et métaphysiques qui dominent dans l’université de l’époque. D’horizons différents, ils privilégient les faits observables et les raisonnements logiques pour mieux appréhender le monde réel, et tenter d’améliorer l’insertion et le développement de l’humanité en son sein.

    Spécialisé en économie, Neurath travaille sur la théorie de la valeur. Il se familiarise notamment avec des travaux de statisticiens réfléchissant aux méthodes les plus rationnelles pour répondre à la subsistance des populations. Il observe le fonctionnement de sociétés en guerre, d’abord dans les Balkans au début des années 1910, puis dans toute l’Europe à partir de 1914. Il est alors frappé par la capacité de la puissance publique à répertorier, affecter et redistribuer des ressources de manière volontariste, la décision politique se substituant au « laisser-faire » du marché.

    « L’économie monétaire qui existait avant la guerre, écrit-il en 1916, n’était pas capable de remplir les nouvelles exigences qui étaient celles de peuples intéressés par la victoire. Il est apparu que la guerre se mène avec des munitions et de la nourriture, pas avec de la monnaie. » Dès lors, explique-t-il, l’attention s’est focalisée sur les structures concrètes de production et de distribution. L’évolution de ces dernières était pourtant jusque-là négligée, ou considérée comme une fatalité même lorsqu’elle causait des souffrances sociales.

    L’épisode conforte Neurath dans son rejet de l’aspect anarchique et « sous-optimal » du #capitalisme. Sa condamnation ne repose pas tant sur les asymétries de pouvoir, les rapports d’exploitation et l’aliénation que ce mode de production implique, que sur son caractère irrationnel. Comme le résume l’économiste Gareth Dale dans la revue Jacobin, « le capitalisme n’est pas suffisamment moderne » à ses yeux.

    De la révolution bavaroise à #Vienne la Rouge

    Même en temps de paix, pense Neurath, un autre ordre économique est possible, qui ne serait plus structuré par la maximisation individuelle du profit. Grâce à la délibération et l’expertise, la société doit pouvoir s’organiser consciemment pour mieux diffuser le bien-être. Neurath est d’ailleurs avide d’expériences dans ce sens. Selon le chercheur Thomas Kayzel, historien de la planification économique aujourd’hui affilié au CEE de Sciences Po, « c’est un penseur pragmatique, politiquement flexible et toujours à la recherche de nouvelles voies d’engagement et de réalisation ».

    Ainsi se comprend sa participation à la #révolution déclenchée contre la monarchie bavaroise, en novembre 1918. Nommé à la tête du Conseil économique central de Munich, dans le cadre de la république nouvellement instituée, il œuvre en faveur de la socialisation de l’économie de la région. Il y acquiert la conviction qu’un tel programme nécessite de forger un « bloc anticapitaliste » allant bien au-delà de la classe ouvrière industrielle.

    Dans l’immédiat, cependant, il se heurte aux intérêts du patronat, à ceux de la paysannerie, mais aussi aux velléités anarchisantes des groupes les plus révolutionnaires, là où lui défend la centralisation des décisions économiques une fois les besoins identifiés. Et s’il s’efforce de défendre une conception « technique » de sa tâche pour mieux l’isoler des soubresauts politiques permanents de l’expérience bavaroise, ceux-ci le rattrapent.

    Après qu’un gouvernement de type soviétique a pris le contrôle de Munich, une violente répression s’abat au printemps 1919. Elle est soutenue par les sociaux-démocrates au pouvoir à Berlin, qui ont déjà maté une première insurrection en début d’année dans la capitale – celle au cours de laquelle Rosa Luxemburg et Karl Liebknecht furent assassinés. Neurath échappe à un sort aussi funeste, mais il est emprisonné pour haute trahison, avant d’être exfiltré en Autriche grâce au social-démocrate Otto Bauer, ministre des affaires étrangères de ce pays.

    Si c’est à Vienne que l’économiste s’épanouira, ces années tumultueuses sont importantes. Elles sont d’abord l’occasion pour Neurath d’exprimer sa croyance en la nécessité d’« #utopies_scientifiques », contre tout fatalisme ou déterminisme historique. Sous ce terme, il désigne des conceptualisations de futurs possibles, d’ordres sociaux améliorés, qui tiennent compte des contraintes naturelles et du type de personnalités qui auront été façonnées par l’ordre antérieur. Ces exercices intellectuels ne peuvent se substituer à des mobilisations sociales et politiques, mais sont propres à les encourager, en leur fixant un cap à la fois désirable et atteignable.

    Ensuite, ces années de guerre et de sortie de guerre sont celles où Neurath formule la proposition iconoclaste de se passer des prix, exprimés en argent, pour prendre des décisions économiques, voire pour échanger des biens et des services. « Ce qui remplaçait le motif du profit comme principe conducteur, dans la conception de Neurath d’une économie socialisée, était le plan économique, résume le philosophe des sciences Thomas Uebel, spécialiste de son œuvre. Ce plan était basé sur des calculs statistiques de production et de consommation – et ceci en nature, pas en termes monétaires. »
    Un plaidoyer pour une économie « en nature »

    Son approche suscite une réplique de l’économiste autrichien Ludwig von Mises, attaché à démontrer l’irrationalité du socialisme. Le débat sur la possibilité d’un calcul économique dans une économie collectivisée se poursuivra tout au long des années 1920, mais ne deviendra fameux qu’après avoir changé de nature. Entretemps, il a en effet impliqué l’économiste polonais Oskar Lange, qui s’est efforcé de défendre la rationalité d’un socialisme de marché.

    Neurath, qui a été oublié au passage, défendait le point de vue plus radical d’une économie sans marché, c’est-à-dire sans système de prix pour décider de l’allocation des ressources. Comme le précise Bilal Tabaichount, « Neurath ne veut pas d’une économie de troc, [mais] plutôt d’une économie où les biens et services transitent par des organisations centrales de coordination », les ménages pouvant disposer de « bons de rationnement non échangeables ».

    À l’époque, von Mises pointe la difficulté d’appliquer une telle proposition à grande échelle. Neurath ne lui répond que partiellement et tardivement. Mais son argument le plus important, qui n’implique pas forcément de se passer de tout marché, réside dans son refus de réduire les choix économiques à une seule unité de mesure.

    « Neurath conteste que la monnaie puisse être un résumé adéquat de la valeur des choses, explique la militante et chercheuse Claire Lejeune, engagée dans une thèse en science politique sur la planification. La réduction aux prix lui semble une mesure trop grossière pour penser notre rapport aux ressources et au temps. » Cette conviction vaut d’ailleurs pour toute autre unité de mesure à prétention universelle. Pour lui, il y a une incommensurabilité indépassable entre les différentes facettes du bien-être à travers les générations.

    C’est ici que se repère la dimension écologique de l’argument de Neurath. Dans un article de 1925 paru dans la presse sociale-démocrate, il affirme que l’économie socialiste doit viser « le bien-être de tous ses membres ». « Dès le début, ajoute-t-il, doit être déterminé ce qu’est “l’intérêt de la totalité sociale”. Est-ce que cela inclut la prévention de l’épuisement prématuré des mines de charbon ou de la karstification des montagnes ou encore, par exemple, de la santé et de la force de la prochaine génération ? »

    Comme l’illustrent aujourd’hui les émissions excessives de carbone et les nouveaux projets d’exploitation d’énergies fossiles, la centralité du marché et de la quête de profit est incompatible avec un tel souci pour le long terme. « L’argument écologique fut le principal argument de Neurath contre le fondamentalisme de marché, c’est-à-dire l’idée que les marchés sont la clé de résolution universelle des problèmes de coordination sociale », remarque Thomas Uebel.

    Cela fait-il de Neurath un écologiste ? L’homme avait conscience du caractère irréversible de certains dégâts infligés à la nature. Dressant une comparaison avec la reprise d’une production de pain ou la reconstitution d’un cheptel, il relève dans un de ses derniers textes « qu’il faut un temps beaucoup plus long pour reboiser des vastes zones de territoires et pour en changer le climat – et en quel temps bref une forêt et un climat peuvent être détruits ! ».

    Pour autant, il a aussi défendu avec peu de prescience la monoculture en matière agricole. Plus généralement, Thomas Kayzel le voit davantage comme une source d’inspiration que comme un véritable précurseur de l’économie écologique. Celle-ci conçoit l’économie comme un sous-système inscrit à l’intérieur du système Terre et soumis à la finitude des ressources planétaires, ce qui correspond à des intuitions mais pas à une vision aboutie chez Neurath.
    Pédagogie et délibération

    On peut également estimer incomplète sa compréhension du capitalisme. Focalisé sur la concurrence et la quête du profit, il a négligé la domination et la conflictualité sociales inhérentes à ce mode de production, de même que ses effets sur d’autres sphères de l’existence, comme l’oppression de genre et les rivalités impérialistes. Selon Gareth Dale, il a ainsi manqué la façon dont le capitalisme – a fortiori un capitalisme d’État – pouvait trouver un intérêt fonctionnel à la planification. Pour les mêmes raisons, sa critique du nationalisme et du racisme serait restée « rudimentaire ».

    Il n’en reste pas moins qu’Otto Neurath s’est distingué par sa conception « inclusive » de la planification. « Sa position est celle d’une construction démocratique de la rationalité, affirme Claire Lejeune. À ses yeux, les planificateurs et le centre politique n’ont pas le monopole de la décision, il est important de ménager une place à la pluralité des visions de ce que doit être un bon ordre social. »

    S’il s’est lui-même présenté comme un ingénieur social, il ne confondait pas ce rôle avec celui de philosophe-roi, ou d’un expert au-dessus des masses ignares. « Sa foi était grande dans le fait de définir et d’appliquer des programmes, précise Thomas Kayzel. Mais l’aspect délibératif comptait, car le but de la planification ne peut pas être établi de manière solitaire. Les “bonnes conditions de vie”, ce n’est pas quelque chose que des économistes et des ingénieurs peuvent calculer, les communautés concernées doivent s’exprimer dessus. »

    Neurath a ainsi distingué deux types de plans : un « plan directeur », fruit d’un processus démocratique d’identification et de hiérarchisation des besoins ; et un « plan technique », par lequel les experts mettent concrètement en musique la satisfaction de ces besoins, en tenant compte des diverses contraintes et en optimisant les ressources. Pour cela, Neurath accorde beaucoup d’importance aux données statistiques collectées et partagées de manière compréhensible par les pouvoirs publics.

    Ce n’est pas un hasard si l’économiste a travaillé pour plusieurs musées d’économie, notamment à Vienne, et sur la mise en forme visuelle d’informations, qu’elles soient chiffrées ou non. Avec sa compagne graphiste Marie Neurath et l’artiste Gerd Arntz, il a fondé un langage visuel international connu sous le nom de « système isotype », dont sont issus des pictogrammes que nous croisons tous les jours. « Sa visée était plus pédagogique que scientiste, défend Claire Lejeune. Il souhaitait inclure le corps social dans une prise de décision consciente. »

    La pensée de Neurath s’inscrit ainsi dans une tradition socialiste souhaitant poursuivre l’ambition des Lumières dans ses implications les plus radicales, c’est-à-dire l’exercice collectif de la raison, y compris dans le domaine de la production où l’on s’est habitués à ce que des décisions structurantes soient prises par une poignée de personnes, selon des critères éloignés de l’intérêt général et de la justice.

    C’est l’objectif de la démocratie économique qui est ainsi pointé. Rendu nécessaire pour lutter contre les « forçages » dont le système Terre fait l’objet, il a été perdu de vue par la social-démocratie au cours du XXe siècle. Ici réside l’actualité de Neurath, en plus du refus de la monétarisation et de la marchandisation des richesses naturelles.

    Même son souhait de raisonner « en nature » et « hors marché », qui pourrait apparaître hors de portée au regard de la complexité des économies actuelles, rencontre les nouvelles possibilités techniques de calcul et d’accumulation des données. Il fait en tout cas écho à la diversité des indicateurs dont le guidage de l’économie a désormais besoin, au lieu du simpliste produit intérieur brut (PIB).

    « Nous disposons aujourd’hui d’une grande quantité d’informations, qui devraient être considérées comme des “communs” pour naviguer dans l’anthropocène, et perfectionner nos outils d’action publique, estime Claire Lejeune. Otto Neurath nous rappelle qu’il ne sert à rien de rejeter la modernité en bloc, comme sont tentés de le faire certains écolos. L’héritage des Lumières comme l’histoire du socialisme ne sont pas monolithiques. »

    Neurath apparaît en tout cas comme une figure ayant plaidé pour une coordination centralisée et démocratique des activités économiques, au nom d’une répartition égale du bien-être qui ne soit pas opérée au détriment des générations futures. Si son socialisme proto-écologique laisse à désirer et n’offre pas de solutions clés en main à un siècle de distance, les coordonnées du défi qu’il proposait de relever nous sont familières.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/190823/otto-neurath-sur-les-traces-d-une-planification-ecologique

  • Migranti, dalla Lombardia al Veneto all’Emilia la rivolta dei sindaci del Nord. Zaia : “Rischiamo di avere le tendopoli”

    Aumentano i minori affidati ai Comuni, i primi cittadini sindaci leghisti guidano il fronte degli amministratori che accusano Roma: «Così mettono in ginocchio i bilanci»

    Mentre il governo si prepara per l’approvazione di un provvedimento sul modello dei decreti sicurezza voluti nel 2018 da Matteo Salvini, il tema immigrazione diventa materia di scontro, non solo tra maggioranza e opposizione e tra alleati di governo, ma anche tra Roma e il Nord. Con il fronte dei sindaci - leghisti in testa - che si sente abbandonato. A partire dalla Lombardia dove, mettendo in fila i dati, al 31 luglio 2023 si registrano 16.232 migranti: 2.156 in più rispetto al mese precedente e 5.481 in più rispetto al 31 luglio 2022. Secondo il piano di redistribuzione del Viminale, entro il 15 settembre la quota arriverà a 6.000. La fetta più grande, insomma, per cercare di ripartire gli oltre 50 mila richiedenti asilo. «I comuni sono diventati i centri di costo dell’immigrazione. La politica si ricorda di noi solo quando ci sono le elezioni e ha bisogno di voti. Poi, ci lascia le grane da risolvere». Roberto Di Stefano, sindaco leghista di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, parla di una situazione che «mette in ginocchio i bilanci: siamo costretti a distrarre fondi che potremmo spendere per gli anziani, per i disabili, per occuparci dell’accoglienza agli stranieri». A destare maggiore preoccupazione, spiega ancora Di Stefano, sono minori non accompagnati che vengono assegnati ai comuni direttamente dal Tribunale. «Ho l’impressione che il ruolo dei sindaci non sia capito. Non basta il rimpatrio di qualche centinaio di persone, perché gli arrivi sono molti di più. E il lavoro va fatto a monte: investendo in democrazia nei Paesi da cui queste persone scappano».

    Nella provincia di Brescia, l’insoddisfazione è la medesima: il sindaco di Edolo, Luca Masneri (civico), dalla Valle Camonica ricorda di aver chiesto alla Prefettura «di iniziare a pensare a una exit strategy. Negli anni passati abbiamo avuto anche 200 migranti su una popolazione di 4.400 persone. Ora siamo a 70 e vogliamo arrivare a 40». Marco Togni, primo cittadino leghista di Montichiari (Brescia), non si pone proprio il problema: «Immigrati non ne voglio. Non ho posti in cui accoglierli e quindi non me ne preoccupo. Non posso impedire che strutture private nel mio comune partecipino ai bandi della Prefettura per l’accoglienza ma quando chiedono il mio parere dico sempre che sarebbe meglio non farlo». E in mancanza di strutture in cui ospitarli, Togni ribadisce la sua «indisponibilità a qualsiasi conversione di strutture di proprietà comunale». Anche Sebastian Nicoli, sindaco Pd di Romano di Lombardia, nella bergamasca, ha contestato l’arrivo di una trentina di richiedenti asilo nell’ex hotel La Rocca, struttura privata gestita da una cooperativa: «Ancora una volta affrontiamo un’emergenza calata dall’alto. La Prefettura mi ha avvisato solo informalmente dell’arrivo dei richiedenti asilo. Non mi è stato neanche comunicato il numero esatto».

    In terra lombarda il tema degli alloggi è stato anche materia di scontro tra alleati in giunta regionale: l’assessore alla Casa Paolo Franco (in quota Fdi) era stato costretto a un dietrofront sulla proposta di utilizzare le case popolari non occupate (e pronte all’uso) per allargare la rete dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria) come richiesto dal governo. Immediate le proteste da parte della Lega con tanto di precisazione del governatore Attilio Fontana.

    Seconda solo alla Lombardia, l’Emilia-Romagna ha ospitato nei primi sette mesi di quest’anno il 9% dei migranti sbarcati in Italia. Poco meno di 12 mila al 15 luglio, se ne attendono altri 4.000 tra la fine di agosto e settembre. Principalmente maschi, giovani e adulti, provenienti da Costa D’Avorio, Guinea, Egitto, Bangladesh, Pakistan, Tunisia, Burkina Faso, Siria, Camerun e Mali. I minori non accompagnati sono il 10%, ma rilevante è anche la quota dei nuclei familiari, che il sistema d’accoglienza prevede di tenere uniti. Da mesi, la crisi degli alloggi viene denunciata da prefetti, sindaci, cooperative di settore che reclamano più sostegno da parte di Roma ma anche collaborazione nella ricerca di soluzioni rapide. L’hub di via Mattei a Bologna, per esempio, accoglie da settimane i richiedenti asilo in una tendopoli, non essendoci più camere disponibili. Una soluzione che il sindaco Matteo Lepore (centrosinistra) definisce «non dignitosa» e «preoccupante» , segno che al ministero dell’Interno «non c’è alcuna idea su come gestire l’emergenza». Proprio al Viminale, l’assessore al Welfare del comune di Reggio-Emilia Daniele Marchi (Pd), ha minacciato di portare i molti rifugiati assegnati al suo distretto: «Se il governo va avanti così, carico dei pullman e li porto tutti a dormire al ministero».

    Il Veneto, che dai piani del Viminale dovrebbe accogliere 3.000 migranti entro settembre, arriverà a quota 200 mila, secondo il presidente Luca Zaia: «Di questo passo avremo presto le tendopoli». A Legnago, in provincia di Verona, il sindaco Graziano Lorenzetti ha riposto la fascia tricolore in protesta: «Tornerò a utilizzarla quando lo Stato metterà i sindaci e le forze dell’ordine nelle condizione di poter garantire la sicurezza ai propri cittadini». Il sindaco leghista di Chioggia Mauro Armelao è stato chiaro: «Non disponiamo di strutture pubbliche in cui accogliere i migranti, abbiamo già famiglie in attesa di un alloggio».

    https://www.lastampa.it/cronaca/2023/08/18/news/migranti_sindaci_del_nord_in_rivolta-13000355

    #résistance #maires #asile #migrations #réfugiés #Italie #accueil #Lega #Lombardie #MNA #mineurs_non_accompagnés #Luca_Masneri #Edolo #Roberto_Di_Stefano #Sesto_San_Giovanni #Valle_Camonica #Montichiari #Marco_Togni #Sebastian_Nicoli #Romano_di_Lombardia #Matteo_Lepore #Bologna #hébergement #Reggio-Emilia #Daniele_Marchi #Legnago #Graziano_Lorenzetti #Chioggia #Mauro_Armelao

    C’était 2019... j’avais fait cette #carte publiée sur @visionscarto des "maires qui résistent en Italie". 2023, on en est au même point :
    En Italie, des maires s’opposent à la politique de fermeture des États

    « Quand l’État faillit à ses responsabilités, l’alternative peut-elle provenir des municipalités ? » se demandait Filippo Furri dans le numéro 81 de la revue Vacarme en automne 2017. La réponse est oui. Et pour illustrer son propos, Furri cite en exemple le mouvement des villes-refuge, avec des précurseurs comme Venise. Un mouvement qui se diffuse et se structure.


    https://visionscarto.net/italie-resistances-municipales

  • Où le #classement_de_Shanghaï mène-t-il l’#université française ?

    Le classement de #Shanghaï, dont les résultats sont publiés mardi 15 août, a façonné une idée jamais débattue de l’« #excellence ». Des universitaires appellent à définir « une vision du monde du savoir » propre au service public qu’est l’enseignement supérieur français.

    Des universités à la renommée mondiale qui attirent les meilleurs étudiants, les chercheurs les plus qualifiés et les partenaires financiers les plus magnanimes : depuis l’avènement des classements internationaux dans l’#enseignement_supérieur, il y a vingt ans, la quête d’une certaine idée de l’« excellence » a intégré le vocabulaire universitaire, jusqu’à se muer en un projet politique.

    En France, en août 2003, la première édition du classement de Shanghaï, qui publie mardi 15 août son édition 2023, a été un coup de tonnerre : ignorant les subtilités administratives hexagonales et la tripartition entre #universités, grandes écoles et organismes de recherche, le palmarès n’avait distingué dans son top 50 aucun des fleurons nationaux. Piqués au vif, les gouvernements successifs se sont engouffrés dans la brèche et ont cherché les outils pour se conformer aux #standards. En 2010, le président de la République, #Nicolas_Sarkozy, avait fixé à sa ministre de l’enseignement supérieur, #Valérie_Pécresse, un #objectif précis : placer deux établissements français dans les 20 premiers mondiaux et 10 parmi les 100 premiers du classement de Shanghaï.

    La loi relative aux libertés et responsabilités des universités, votée en 2007, portait alors ses premiers fruits, présentés en personne par Mme Pécresse, en juillet 2010, aux professeurs #Nian_Cai_Liu et #Ying_Cheng, les deux créateurs du classement. Les incitations aux #regroupements entre universités, grandes écoles et organismes de recherche ont fleuri sous différents noms au gré des appels à projets organisés par l’Etat pour distribuer d’importants investissements publics (#IDEX, #I-SITE, #Labex, #PRES, #Comue), jusqu’en 2018, avec le nouveau statut d’#établissement_public_expérimental (#EPE). Toutes ces tactiques politiques apparaissent comme autant de stigmates français du palmarès chinois.

    Ces grandes manœuvres ont été orchestrées sans qu’une question fondamentale soit jamais posée : quelle est la vision du monde de l’enseignement supérieur et de la recherche que véhicule le classement de Shanghaï ? Lorsqu’il a été conçu, à la demande du gouvernement chinois, le palmarès n’avait qu’un objectif : accélérer la #modernisation des universités du pays en y calquant les caractéristiques des grandes universités nord-américaines de l’#Ivy_League, Harvard en tête. On est donc très loin du #modèle_français, où, selon le #code_de_l’éducation, l’université participe d’un #service_public de l’enseignement supérieur.

    « Société de marché »

    Pour la philosophe Fabienne Brugère, la France continue, comme la Chine, de « rêver aux grandes universités américaines sans être capable d’inventer un modèle français avec une #vision du savoir et la perspective d’un bonheur public ». « N’est-il pas temps de donner une vision de l’université ?, s’interroge-t-elle dans la revue Esprit (« Quelle université voulons-nous ? », juillet-août 2023, 22 euros). J’aimerais proposer un regard décalé sur l’université, laisser de côté la question des alliances, des regroupements et des moyens, pour poser une condition de sa gouvernance : une #vision_du_monde_du_savoir. »

    Citant un texte du philosophe Jacques Derrida paru en 2001, deux ans avant le premier classement de Shanghaï, la professeure à Paris-VIII définit l’université comme « inconditionnelle, en ce qu’elle peut #repenser_le_monde, l’humanité, élaborer des #utopies et des #savoirs nouveaux ». Or, « vingt ans après, force est de constater que ce texte reste un objet non identifié, et que rien dans le paysage universitaire mondial ne ressemble à ce qu’il projette, regrette Fabienne Brugère. Les grandes universités américaines que nous admirons et dans lesquelles Derrida a enseigné sont habitées par la société de marché ».

    Ironie du sort, c’est justement l’argent qui « coule à flots » qui garantit dans ces établissements de l’hyperélite des qualités d’étude et de bon encadrement ainsi qu’une administration efficace… Autant de missions que le service public de l’université française peine tant à remplir. « La scholè, le regard scolastique, cette disposition à l’étude, ce temps privilégié et déconnecté où l’on apprend n’est possible que parce que la grande machine capitaliste la fait tenir », déplore Mme Brugère.

    En imposant arbitrairement ses critères – fondés essentiellement sur le nombre de #publications_scientifiques en langue anglaise, de prix Nobel et de médailles Fields –, le classement de Shanghaï a défini, hors de tout débat démocratique, une #vision_normative de ce qu’est une « bonne » université. La recherche qui y est conduite doit être efficace économiquement et permettre un #retour_sur_investissement. « Il ne peut donc y avoir ni usagers ni service public, ce qui constitue un #déni_de_réalité, en tout cas pour le cas français », relevait le sociologue Fabien Eloire dans un article consacré au palmarès, en 2010. Est-il « vraiment raisonnable et sérieux de chercher à modifier en profondeur le système universitaire français pour que quelques universités d’élite soient en mesure de monter dans ce classement ? », questionnait le professeur à l’université de Lille.

    Derrière cet effacement des #spécificités_nationales, « une nouvelle rhétorique institutionnelle » s’est mise en place autour de l’« #économie_de_la_connaissance ». « On ne parle plus de “l’#acquisition_du_savoir”, trop marquée par une certaine #gratuité, mais de “l’#acquisition_de_compétences”, efficaces, directement orientées, adaptatives, plus en phase avec le discours économique et managérial », concluait le chercheur.

    Un poids à relativiser

    A y regarder de plus près, Shanghaï et les autres classements internationaux influents que sont les palmarès britanniques #QS_World_University_Rankings (#QS) et #Times_Higher_Education (#THE) valorisent des pays dont les fleurons n’accueillent finalement qu’un effectif limité au regard de leur population étudiante et du nombre total d’habitants. Le poids réel des « #universités_de_prestige » doit donc être relativisé, y compris dans les pays arrivant systématiquement aux tout premiers rangs dans les classements.

    Pour en rendre compte, Le Monde a listé les 80 universités issues de 16 pays qui figuraient en 2022 parmi les 60 premières des classements QS, THE et Shanghaï. Grâce aux sites Internet des établissements et aux données de Campus France, le nombre total d’étudiants dans ces universités a été relevé, et mis en comparaison avec deux autres statistiques : la démographie étudiante et la démographie totale du pays.

    Le cas des Etats-Unis est éclairant : ils arrivent à la 10e position sur 16 pays, avec seulement 6,3 % des étudiants (1,2 million) dans les 33 universités classées, soit 0,36 % de la population américaine.

    Singapour se place en tête, qui totalise 28,5 % des étudiants inscrits (56 900 étudiants) dans les huit universités de l’hyperélite des classements, soit 0,9 % de sa population. Suivent Hongkong, avec 60 500 étudiants dans quatre universités (20,7 % des étudiants, 0,8 % de sa population), et la Suisse, avec 63 800 étudiants dans trois établissements (19,9 % des étudiants, 0,7 % de sa population).

    Avec 98 600 étudiants dans quatre universités classées (Paris-Saclay, PSL, Sorbonne Université, Institut polytechnique de Paris), la France compte 3,2 % des étudiants dans l’hyperélite universitaire mondiale, soit 0,1 % de la population totale.

    La Chine arrive dernière : 255 200 étudiants sont inscrits dans les cinq universités distinguées (Tsinghua, Peking, Zhejiang, Shanghai Jiao Tong et Fudan), ce qui représente 0,08 % de sa population étudiante et 0,018 % de sa population totale.

    https://www.lemonde.fr/campus/article/2023/08/14/ou-le-classement-de-shanghai-mene-t-il-l-universite-francaise_6185365_440146

    #compétences #critique

    • Classement de Shanghaï 2023 : penser l’enseignement supérieur en dehors des palmarès

      Depuis vingt ans, les responsables politiques français ont fait du « standard » de Shanghaï une clé de #réorganisation des établissements d’enseignement supérieur. Mais cet objectif d’inscription dans la #compétition_internationale ne peut tenir lieu de substitut à une #politique_universitaire.

      Comme tous les classements, celui dit « de Shanghaï », censé comparer le niveau des universités du monde entier, suscite des réactions contradictoires. Que les championnes françaises y soient médiocrement placées, et l’on y voit un signe de déclassement ; qu’elles y figurent en bonne place, et c’est le principe du classement qui vient à être critiqué. Le retour de l’université française Paris-Saclay dans le top 15 de ce palmarès de 1 000 établissements du monde entier, établi par un cabinet chinois de consultants et rendu public mardi 15 août, n’échappe pas à la règle. Au premier abord, c’est une bonne nouvelle pour l’enseignement supérieur français, Paris-Saclay se hissant, derrière l’américaine Harvard ou la britannique Cambridge, au rang de première université non anglo-saxonne.

      Pourtant, ce succès apparent pose davantage de questions qu’il n’apporte de réponses sur l’état réel de l’enseignement supérieur français. Certes, la montée en puissance du classement chinois, créé en 2003, a participé à l’indispensable prise de conscience de l’inscription du système hexagonal dans un environnement international concurrentiel. Mais les six critères qui président arbitrairement à ce « hit-parade » annuel, focalisés sur le nombre de prix Nobel et de publications dans le seul domaine des sciences « dures », mais qui ignorent étrangement la qualité de l’enseignement, le taux de réussite ou d’insertion professionnelle des étudiants, ont conforté, sous prétexte d’« excellence », une norme restrictive, au surplus indifférente au respect des libertés académiques, politique chinoise oblige.

      Que les responsables politiques français aient, depuis vingt ans, cédé à ce « standard » de Shanghaï au point d’en faire une clé de réorganisation des établissements d’enseignement supérieur ne laisse pas d’étonner. Le principe « grossir pour être visible » (dans les classements internationaux) a servi de maître mot, il est vrai avec un certain succès. Alors qu’aucun établissement français ne figurait dans les cinquante premières places en 2003, ils sont trois aujourd’hui. Paris-Saclay résulte en réalité de la fusion d’une université, de quatre grandes écoles et de sept organismes de recherche, soit 13 % de la recherche française.

      Mais cette politique volontariste de #fusions à marche forcée, soutenue par d’importants crédits, n’a fait qu’alourdir le fonctionnement des nouvelles entités. Surtout, cette focalisation sur la nécessité d’atteindre à tout prix une taille critique et de favoriser l’excellence n’a fait que masquer les #impensés qui pèsent sur l’enseignement supérieur français : comment améliorer la #qualité de l’enseignement et favoriser la réussite du plus grand nombre ? Quid du dualisme entre universités et grandes écoles ? Quelles sources de financement pour éviter la paupérisation des universités ? Comment éviter la fuite des chercheurs, aux conditions de travail de plus en plus difficiles ? Et, par-dessus tout : quel rôle dans la construction des savoirs dans un pays et un monde en pleine mutation ?

      A ces lourdes interrogations, l’#obsession du classement de Shanghaï, dont le rôle de promotion des standards chinois apparaît de plus en plus nettement, ne peut certainement pas répondre. Certes, l’enseignement supérieur doit être considéré en France, à l’instar d’autres pays, comme un puissant outil de #soft_power. Mais l’objectif d’inscription dans la compétition internationale ne peut tenir lieu de substitut à une politique universitaire absente des débats et des décisions, alors qu’elle devrait y figurer prioritairement.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/08/15/classement-de-shanghai-2023-penser-l-enseignement-superieur-en-dehors-des-pa

    • Au même temps, #Emmanuel_Macron...

      Avec 27 universités représentées, le classement de Shanghai met à l’honneur l’excellence française.

      Acteurs de l’enseignement et de la recherche : merci !

      Vous faites de la France une grande Nation de formation, de recherche et d’innovation. Nous continuerons à vous soutenir.


      https://twitter.com/EmmanuelMacron/status/1691339082905833473
      #Macron

    • Classement de Miamïam des universités françaises.

      Ayé. Comme chaque année le classement de Shangaï est paru. Et l’auto-satisfecit est de mise au sommet de l’état (Macron, Borne, et bien sûr Oui-Oui Retailleau). Imaginez un peu : 27 de nos établissements français (universités et grandes écoles) y figurent.

      Rappel pour les gens qui ne sont pas familiers de ces problématiques : le classement de Shangaï est un classement international très (mais vraiment très très très) sujet à caution, qui s’est imposé principalement grâce à une bonne stratégie marketing (et à un solide lobbying), et qui ne prend en compte que les publications scientifiques des enseignants-chercheurs et enseignantes-chercheuses de l’université : ce qui veut dire qu’il ne regarde pas “l’activité scientifique” dans sa globalité, et que surtout il n’en a rien à secouer de la partie “enseignement” ni, par exemple, du taux de réussite des étudiants et étudiantes. C’est donc une vision a minima hémiplégique de l’université. Il avait été créé par des chercheurs de l’université de Shangaï comme un Benchmark pour permettre aux université chinoises d’essayer de s’aligner sur le modèle de publication scientifique des universités américaines, donc dans un contexte très particulier et avec un objectif politique de soft power tout à fait explicite. Ces chercheurs ont maintenant créé leur boîte de consultants et se gavent en expliquant aux universités comment l’intégrer. L’un des co-fondateurs de ce classement explique notamment : “Avant de fusionner, des universités françaises nous ont demandé de faire une simulation de leur future place dans le classement“.

      Bref du quantitatif qui vise à souligner l’élitisme (pourquoi pas) et qui n’a pour objet que de le renforcer et se cognant ostensiblement de tout paramètre qualitatif a fortiori si ce qualitatif concerne les étudiant.e.s.

      Mais voilà. Chaque été c’est la même tannée et le même marronier. Et les mêmes naufrageurs de l’action publique qui se félicitent ou se navrent des résultats de la France dans ledit classement.

      Cette année c’est donc, champagne, 27 établissements français qui se retrouvent “classés”. Mal classés pour l’essentiel mais classés quand même : les 4 premiers (sur la jolie diapo du service comm du gouvernement) se classent entre la 16ème (Paris-Saclay) et la 78ème place (Paris Cité) et à partir de la 5ème place (sur la jolie diapo du service comm du gouvernement) on plonge dans les limbes (Aix-Marseille est au-delà de la 100ème place, Nantes au-delà de la 600ème). Alors pourquoi ce satisfecit du gouvernement ? [Mise à jour du 16 août] Auto-satisfecit d’ailleurs étonnant puisque si l’on accorde de la valeur à ces classements, on aurait du commencer par rappeler qu’il s’agit d’un recul : il y avait en effet 30 établissements classés il y a deux ans et 28 l’année dernière. Le classement 2023 est donc un recul. [/mise à jour du 16 août]

      Non pas parce que les chercheurs sont meilleurs, non pas parce que la qualité de la recherche est meilleure, non pas parce que les financements de la recherche sont plus importants et mieux dirigés, mais pour deux raisons principales.

      La première raison est que depuis plusieurs années on s’efforce d’accroître le “rendement” scientifique des personnels en vidant certaines universités de leurs activités et laboratoires de recherche (et en y supprimant des postes) pour le renforcer et le concentrer dans (très peu) d’autres universités. C’est le grand projet du libéralisme à la française qui traverse les présidences de Sarkozy à Macron en passant par Hollande : avoir d’un côté des université “low cost” dans lesquelles on entasserait les étudiant.e.s jusqu’à bac+3 et où on ferait le moins de recherche possible, et de l’autre côté des “universités de recherche et d’excellence” où on n’aurait pas grand chose à foutre de la plèbe étudiante et où on commencerait à leur trouver un vague intérêt uniquement à partir du Master et uniquement pour les meilleur.e.s et uniquement dans certains domaines (genre pas en histoire de l’art ni en études littéraires ni dans la plupart des sciences humaines et sociales).

      La seconde raison de ce “bon” résultat est que les universités se sont regroupées administrativement afin que les publications de leurs chercheurs et chercheuses soient mieux prises en compte dans le classement de Shangaï. Exemple : il y a quelques années, il y avait plusieurs sites universitaires dans les grandes villes. Chaque site était celui d’une discipline ou d’un regroupement de discipline. On avait à Toulouse, à Nantes et ailleurs la fac de droit, la fac de sciences, la fac de lettres, etc. Et les chercheurs et chercheuses de ces universités, quand ils publiaient des articles dans des revues scientifiques, “signaient” en s’affiliant à une institution qui était “la fac de sciences de Toulouse Paul Sabatier” ou “la fac de lettre de Toulouse le Mirail” ou “la fac de droit de Toulouse”. Et donc au lieu d’avoir une seule entité à laquelle rattacher les enseignants-chercheurs on en avait trois et on divisait d’autant les chances de “l’université de Toulouse” de monter dans le classement.

      Donc pour le dire rapidement (et sans pour autant remettre en cause l’excellence de la recherche française dans pas mal de disciplines, mais une excellence dans laquelle les politiques publiques de ce gouvernement comme des précédents ne sont pas pour grand-chose), la France gagne des places dans le classement de Shangaï d’une part parce qu’on s’est aligné sur les règles à la con dudit classement, et d’autre part parce qu’on a accepté de sacrifier des pans entiers de financements publics de la recherche dans certains secteurs (notamment en diminuant drastiquement le nombre de postes disponibles).

      Allez je vous offre une petite comparaison. Évaluer la qualité de l’université et de la recherche française à partir du classement de Shangaï c’est un peu comme si on prétendait évaluer la qualité de la gastronomie française à partir d’un référentiel établi par Mac Donald : on serait rapidement en capacité de comprendre comment faire pour gagner des places, mais c’est pas sûr qu’on mangerait mieux.

      Je vous propose donc un classement alternatif et complémentaire au classement de Shangaï : le classement de Miamïam. Bien plus révélateur de l’état actuel de l’université française.
      Classement de Miamïam.

      Ce classement est simple. Pour y figurer il faut juste organiser des distributions alimentaires sur son campus universitaire.

      Le résultat que je vous livre ici est là aussi tout à fait enthousiasmant [non] puisqu’à la différence du classement de Shangaï ce sont non pas 27 universités et établissements mais (au moins) 40 !!! L’excellence de la misère à la française.

      Quelques précisions :

      – ce classement n’est pas exhaustif (j’ai fait ça rapidement via des requêtes Google)
      – l’ordre des universités ne signifie rien, l’enjeu était juste de lister “l’offre” qu’elles proposaient sans prendre en compte l’ancienneté ou la fréquence de ces distributions ni le nombre d’étudiant.e.s touché.e.s
      - ce classement est très en dessous de la réalité : par exemple je n’ai inscrit qu’une seule fois l’université de Nantes alors que des distributions alimentaires sont aussi organisées sur son campus de la Roche sur Yon. Beaucoup des universités présentes dans ce classement organisent en fait des distributions alimentaires sur plusieurs de leurs campus et devraient donc y figurer 2, 3 ou 4 fois au moins.
      - je me suis autorisé, sans la solliciter, à utiliser comme crédit image la photo de Morgane Heuclin-Reffait pour France Info, j’espère qu’elle me le pardonnera.

      [Mise à jour du 16 Août]

      On invite aussi le gouvernement à regarder le classement du coût de la vie pour les étudiantes et étudiants : en constante augmentation, et atteignant une nouvelle fois, pour cette population déjà très précaire, des seuils d’alerte indignes d’un pays civilisé.

      Enfin on pourra, pour être complet dans la recension de l’abandon politique de l’université publique, signaler la stratégie de mise à mort délibérée par asphyxie conduite par les gouvernements successifs depuis plus de 15 ans. Extrait :

      “En dix ans, le nombre de recrutements d’enseignants-chercheurs titulaires a diminué de près de moitié, avec 1 935 ouvertures de poste en 2021, contre 3 613 en 2011. En 2022, on enregistre un léger sursaut, avec 2 199 postes de professeur d’université et de maître de conférences ouverts.

      La situation est d’autant plus paradoxale que les universités se vident de leurs enseignants-chercheurs chevronnés, avec un nombre de départs à la retraite en hausse de + 10,4 % en 2021 et de + 10,5 % en 2022, selon une note statistique du ministère publiée en juin. Un avant-goût de la décennie qui vient, marquée par des départs massifs de la génération du baby-boom : entre 2021 et 2029, le ministère prévoit une augmentation de 53 % en moyenne, et de 97 % en sciences – le bond le plus élevé.“

      https://affordance.framasoft.org/2023/08/classement-shangai-miam-miam

  • Progetto Zinco Gorno

    La vidéo commence avec la voix-off d’un vieux monsieur (#Sergio_Fezzioli, ex mineur), qui dit comment c’était beau quand la minière était ouverte. Et que depuis qu’elle est fermée, il n’y a maintenant qu’un « silence profond ».
    « J’ai beaucoup cru dans la minière », dit-il, et il ne pensait pas qu’un jour ils allaient les ré-ouvrir...

    Le maire de Oltre il Colle, Valerio Carrara, dit que la municipalité est née « sur les minières », jusqu’à il y a 30-40 où elles fonctionnaient encore « parfaitement ». A l’époque, Oltre il Colle avait environ 2000 habitants, puis depuis la fermeture des mines (1984), la commune a connu un dépeuplement.

    #Giampiero_Calegari, maire de Gorno :


    Il explique que Gorno est jumelée (depuis 2003) avec la commune de #Kalgoorlie (#Kalgoorlie-Boulder), en #Australie, ville minière :
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Kalgoorlie

    Le jumelage a été fait car par le passé beaucoup d’habitants du Gorno ont émigré en Australie pour travailler dans les minières d’or.
    Le maire dit que quand ils ont été en Australie pour le jumelage, en 2003, « nous ne pensions pas à ce futur industriel à Gorno ». « Cela semble un signe du destin que nous sommes allés en Australie pour se souvenir de nos mineurs qui ont travaillé dans les minière d’or et maintenant l’Australie vient à Gorno pour faire quelque chose d’intéressant », dit le maire. « Nous avons le passé, le présent et le futur. Pour le futur nous avions un gros point d’interrogation et aujourd’hui on essaie d’interpréter ce point d’interrogation, de le transformer en une proposition. Nous sommes convaincus que ça apportera des bénéfices à notre petite commune ».

    Selon le maire de Oltre il Colle, la population a perçu le projet de manière positive, car depuis 2 ans qu’ils sont en train de préparer la réouverture des mines « ils ont apporté des retombées économiques importantes »

    #Marcello_de_Angelis, #Energia_Minerals_Italia


    de Angelis dit que Energia Minerals ont été « complètement adoptés par les gens du lieu », car ils sont « très très cordiaux » et car « ils voient les possibilités de développement de ces vallées ».
    A Gorno « on fait quelque chose qui est très compatible avec l’#environnement ». Il vante des technologies « éco-compatibles ».

    Le directeur des « opérations », l’ingénieur #Graeme_Collins


    Collins explique qu’il est difficile de trouver des collaborateurs italiens, car cela fait longtemps que les minières ont été fermées en Italie. Et que pour l’heure ils comptent sur du personnel qui vient notamment d’Angleterre et d’Allemagne, mais que dans le futur c’est leur intention de « monter une opération qui sera gérée totalement par du personnel italien ».

    #Simone_Zanin :

    Le maire de Oltre il Colle explique comment la rencontre avec tous (il souligne le « tous ») les dirigeants de Energia Minerals a été positive : des gens très sérieux, très déterminés, très pragmatiques. « Ils sont entrés en syntonie avec notre manière de vivre ». Et l’administration a vu immédiatement les potentialités : les places de travail.

    https://vimeo.com/202730506

    La vidéo existe aussi en anglais :
    https://vimeo.com/202722268

    #Oltre_il_Colle #mines #extractivisme #Italie #Alpes #montagne #Gorno #zinc #Valerio_Carrara #Lombardie #histoire #tradition #Energia_Minerals #Zorzone #technologie #impact_environnemental #plomb

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Les premiers m3 d’eau, vitaux, gratos et droit fondamental - merci LFI | Reporterre | 14.08.23

    https://reporterre.net/Rendons-gratuits-les-metres-cubes-d-eau-vitaux

    Ceci dit, c’est pas joué, du tout :

    proposition de loi « visant à garantir l’accès à l’eau potable », présentée jeudi 24 novembre [2022] à l’Assemblée nationale, pourrait apporter des pistes de solution. Le député insoumis Gabriel Amard, à l’origine du texte, en explique les enjeux à Reporterre.
    [...]
    Cette loi vise à garantir l’accès à l’eau, avec une mesure principale : rendre gratuits les mètres cubes vitaux. L’Organisation mondiale de la santé (OMS) fixe entre 50 et 100 litres par jour le minimum vital pour boire, faire la cuisine et l’hygiène. Nous proposons que ce volume de 50 litres soit gratuit.

    Nous souhaitons aussi que [...]

    https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/16/textes/l16b0325_proposition-loi#D_Article_1er

    [...]

    Lors de son examen en commission, votre proposition a pourtant été rejetée par les députés Les Républicains et Renaissance.
    [...]
    Il y a de forts risques que votre proposition de loi soit [aussi] rejetée lors de son examen par l’Assemblée nationale. Quelle est l’étape suivante ?

    Nous ne nous arrêterons pas là. En 2010, les Nations unies ont adopté une résolution faisant de l’accès à l’eau et à l’assainissement un droit humain fondamental. Il y a urgence à agir à l’échelle nationale. La France peut et doit faire plus. Je plaide notamment pour que ce droit essentiel soit inscrit dans notre Constitution.

    #eau #accès_à_l'eau #gratuité

  • Naufrage de migrants dans la Manche : le parquet de Paris se saisit de l’enquête
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/08/13/naufrage-de-migrants-dans-la-manche-un-nouveau-drame-lie-aux-small-boats_618

    Naufrage de migrants dans la Manche : le parquet de Paris se saisit de l’enquête
    Une embarcation de fortune avec, à son bord, une soixantaine de personnes qui tentait de rejoindre l’Angleterre a chaviré, samedi, au large des côtes du Pas-de-Calais. Six hommes originaires d’Afghanistan sont morts.
    Par Soren Seelow
    Publié hier à 15h08, modifié à 06h54
    Depuis le verrouillage du port de Calais et du tunnel sous la Manche, en 2018, afin d’empêcher les tentatives de passages de migrants en camion vers le Royaume-Uni, chaque année, ou presque, a connu au moins un naufrage meurtrier de small boat, cette petite embarcation pneumatique dont l’usage a explosé ces dernières années pour les candidats à la traversée du détroit du Pas-de-Calais. Samedi 12 août, à l’aube, c’est un canot gonflable transportant 65 à 66 hommes tentant d’atteindre les côtes anglaises – Afghans dans leur grande majorité, avec quelques Soudanais et des mineurs – qui a chaviré dans les eaux de la Manche, au large de Sangatte (Pas-de-Calais).Six Afghans sont morts, et l’incertitude régnait toujours dimanche quant à la possibilité que des passagers soient toujours portés disparus. « On ne sait pas si on recherche vraiment quelqu’un », a précisé la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord, qui avait fait état, la veille, d’un ou deux disparus potentiels, alors que les recherches se poursuivaient dans le détroit. (...)Une soixantaine de rescapés du naufrage ont pu être repêchés en vie : trente-six ont été déposés au port de Calais par les gardes-côtes français, et vingt-deux ou vingt-trois ont été déposés à Douvres par les moyens britanniques, a fait savoir dans un communiqué la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord. Le bateau, un canot gonflable récupéré crevé, sera expertisé, a précisé le parquet de Boulogne-sur-Mer, qui s’est dessaisi de l’enquête, dimanche, au profit de celui de Paris.
    La juridiction nationale chargée de la lutte contre la criminalité organisée (Junalco) à Paris s’est saisie de cette enquête ouverte pour « homicides et blessures involontaires, aide au séjour irrégulier et association de malfaiteurs », a précisé le parquet de Paris. La Junalco a saisi la police aux frontières, la section de recherche de la gendarmerie maritime et l’Office de lutte contre le trafic illicite de migrants. Depuis mercredi soir, les tentatives de traversées se sont multipliées avec le retour du beau temps. Londres a ainsi recensé, pour la seule journée de jeudi 10 août, 755 arrivées – un record depuis le début de l’année –, et environ un millier de migrants attendent toujours un passage, selon les autorités françaises. D’après un décompte effectué par l’AFP, plus de 100 000 migrants ont traversé la Manche depuis le développement du phénomène des small boats, en 2018, année à partir de laquelle les passages en camion ont été supplantés par les traversées à bord de ces petites embarcations pneumatiques dangereuses et surchargées. En 2022, ces traversées ont pris des proportions inédites, 45 000 personnes ayant traversé le Channel, selon le Home Office britannique, soit 17 000 de plus que l’année précédente. Côté français, la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord a recensé 1 304 tentatives de traversée impliquant 51 786 personnes en 2022. Depuis le verrouillage du port de Calais et du tunnel sous la Manche, ce bilan annuel ne cesse de progresser. Et les drames de se multiplier. Pour ne citer que les principaux naufrages récents, sept personnes se sont noyées en octobre 2020, vingt-sept exilés, âgés de 7 à 46 ans, ont perdu la vie en novembre 2021, et au moins cinq en décembre 2022. Selon un communiqué du « groupe décès », qui soutient les proches des exilés morts à la frontière franco-britannique, « au moins 376 personnes » ont perdu la vie depuis 1999, dont onze depuis le début de l’année. Le naufrage de novembre 2021, le plus meurtrier recensé au cours d’une tentative de traversée maritime vers l’Angleterre, fait toujours l’objet d’une instruction judiciaire en France. Des éléments de l’enquête, révélés par Le Monde, ont montré que les secours français appelés à l’aide n’étaient pas intervenus, semblant attendre que leurs homologues britanniques prennent le relais. Paris et Londres sont depuis convenus de renforcer les moyens de sauvetage et leur lutte contre ce trafic migratoire.
    La première ministre, Elisabeth Borne, a adressé ses « pensées » aux victimes sur X (ex-Twitter), saluant « l’engagement » des équipes de secours, tout comme la ministre britannique de l’intérieur, Suella Braverman. Le secrétaire d’Etat à la mer, Hervé Berville, qui s’est rendu sur le port de Calais samedi, a déclaré que la responsabilité de ce drame incombait aux passeurs, « des trafiquants criminels qui envoient jeunes, femmes, adultes à la mort », et s’est engagé à intensifier la lutte contre ces réseaux. La maire de Calais, Natacha Bouchart (Les Républicains, LR), a posé un regard plus politique sur cette tragédie, déplorant un « constat d’échec » de l’exécutif. Sur Franceinfo, le député LR du Pas-de-Calais, Pierre-Henri Dumont, a considéré que « le laxisme migratoire crée des morts dans la Manche » : « Chaque mois qui n’est pas utilisé au Parlement pour travailler sur ce sujet, pour faire du Calaisis une bande où il y aurait une tolérance zéro migrant, permet à des passeurs de faire leur business de la mort », a-t-il déclaré en référence à la loi immigration dont l’examen a été repoussé. Le député a demandé aux autorités britanniques d’ouvrir « une voie de passage sûre », tout en appelant la France à continuer de démanteler les camps, « ces points de fixation où les passeurs peuvent faire leur business de la mort ». Pour un porte-parole de l’association Utopia 56, présente sur le littoral en soutien aux migrants, c’est au contraire « la répression » à cette frontière qui « augmente la dangerosité des traversées », a-t-il déclaré à l’AFP. Un constat partagé par le « groupe décès », qui explique dans son communiqué que « les politiques migratoires et la militarisation accrue poussent les personnes à prendre de plus en plus de risques ».

    #Covid-19#migrant#migration#grandebretagne#france#traversee#manche#naufrage#mortalite#politiquemigratoire#mortalite#sante#postcovid

  • Naufrage de migrants dans la Manche : le parquet de Paris se saisit de l’enquête
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/08/13/naufrage-de-migrants-dans-la-manche-un-nouveau-drame-lie-aux-small-boats_618

    Naufrage de migrants dans la Manche : le parquet de Paris se saisit de l’enquête
    Une embarcation de fortune avec, à son bord, une soixantaine de personnes qui tentait de rejoindre l’Angleterre a chaviré, samedi, au large des côtes du Pas-de-Calais. Six hommes originaires d’Afghanistan sont morts.
    Par Soren Seelow
    Publié hier à 15h08, modifié à 06h54
    Depuis le verrouillage du port de Calais et du tunnel sous la Manche, en 2018, afin d’empêcher les tentatives de passages de migrants en camion vers le Royaume-Uni, chaque année, ou presque, a connu au moins un naufrage meurtrier de small boat, cette petite embarcation pneumatique dont l’usage a explosé ces dernières années pour les candidats à la traversée du détroit du Pas-de-Calais. Samedi 12 août, à l’aube, c’est un canot gonflable transportant 65 à 66 hommes tentant d’atteindre les côtes anglaises – Afghans dans leur grande majorité, avec quelques Soudanais et des mineurs – qui a chaviré dans les eaux de la Manche, au large de Sangatte (Pas-de-Calais).Six Afghans sont morts, et l’incertitude régnait toujours dimanche quant à la possibilité que des passagers soient toujours portés disparus. « On ne sait pas si on recherche vraiment quelqu’un », a précisé la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord, qui avait fait état, la veille, d’un ou deux disparus potentiels, alors que les recherches se poursuivaient dans le détroit. (...)Une soixantaine de rescapés du naufrage ont pu être repêchés en vie : trente-six ont été déposés au port de Calais par les gardes-côtes français, et vingt-deux ou vingt-trois ont été déposés à Douvres par les moyens britanniques, a fait savoir dans un communiqué la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord. Le bateau, un canot gonflable récupéré crevé, sera expertisé, a précisé le parquet de Boulogne-sur-Mer, qui s’est dessaisi de l’enquête, dimanche, au profit de celui de Paris.
    La juridiction nationale chargée de la lutte contre la criminalité organisée (Junalco) à Paris s’est saisie de cette enquête ouverte pour « homicides et blessures involontaires, aide au séjour irrégulier et association de malfaiteurs », a précisé le parquet de Paris. La Junalco a saisi la police aux frontières, la section de recherche de la gendarmerie maritime et l’Office de lutte contre le trafic illicite de migrants. Depuis mercredi soir, les tentatives de traversées se sont multipliées avec le retour du beau temps. Londres a ainsi recensé, pour la seule journée de jeudi 10 août, 755 arrivées – un record depuis le début de l’année –, et environ un millier de migrants attendent toujours un passage, selon les autorités françaises. D’après un décompte effectué par l’AFP, plus de 100 000 migrants ont traversé la Manche depuis le développement du phénomène des small boats, en 2018, année à partir de laquelle les passages en camion ont été supplantés par les traversées à bord de ces petites embarcations pneumatiques dangereuses et surchargées. En 2022, ces traversées ont pris des proportions inédites, 45 000 personnes ayant traversé le Channel, selon le Home Office britannique, soit 17 000 de plus que l’année précédente. Côté français, la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord a recensé 1 304 tentatives de traversée impliquant 51 786 personnes en 2022. Depuis le verrouillage du port de Calais et du tunnel sous la Manche, ce bilan annuel ne cesse de progresser. Et les drames de se multiplier. Pour ne citer que les principaux naufrages récents, sept personnes se sont noyées en octobre 2020, vingt-sept exilés, âgés de 7 à 46 ans, ont perdu la vie en novembre 2021, et au moins cinq en décembre 2022. Selon un communiqué du « groupe décès », qui soutient les proches des exilés morts à la frontière franco-britannique, « au moins 376 personnes » ont perdu la vie depuis 1999, dont onze depuis le début de l’année. Le naufrage de novembre 2021, le plus meurtrier recensé au cours d’une tentative de traversée maritime vers l’Angleterre, fait toujours l’objet d’une instruction judiciaire en France. Des éléments de l’enquête, révélés par Le Monde, ont montré que les secours français appelés à l’aide n’étaient pas intervenus, semblant attendre que leurs homologues britanniques prennent le relais. Paris et Londres sont depuis convenus de renforcer les moyens de sauvetage et leur lutte contre ce trafic migratoire.
    La première ministre, Elisabeth Borne, a adressé ses « pensées » aux victimes sur X (ex-Twitter), saluant « l’engagement » des équipes de secours, tout comme la ministre britannique de l’intérieur, Suella Braverman. Le secrétaire d’Etat à la mer, Hervé Berville, qui s’est rendu sur le port de Calais samedi, a déclaré que la responsabilité de ce drame incombait aux passeurs, « des trafiquants criminels qui envoient jeunes, femmes, adultes à la mort », et s’est engagé à intensifier la lutte contre ces réseaux. La maire de Calais, Natacha Bouchart (Les Républicains, LR), a posé un regard plus politique sur cette tragédie, déplorant un « constat d’échec » de l’exécutif. Sur Franceinfo, le député LR du Pas-de-Calais, Pierre-Henri Dumont, a considéré que « le laxisme migratoire crée des morts dans la Manche » : « Chaque mois qui n’est pas utilisé au Parlement pour travailler sur ce sujet, pour faire du Calaisis une bande où il y aurait une tolérance zéro migrant, permet à des passeurs de faire leur business de la mort », a-t-il déclaré en référence à la loi immigration dont l’examen a été repoussé. Le député a demandé aux autorités britanniques d’ouvrir « une voie de passage sûre », tout en appelant la France à continuer de démanteler les camps, « ces points de fixation où les passeurs peuvent faire leur business de la mort ». Pour un porte-parole de l’association Utopia 56, présente sur le littoral en soutien aux migrants, c’est au contraire « la répression » à cette frontière qui « augmente la dangerosité des traversées », a-t-il déclaré à l’AFP. Un constat partagé par le « groupe décès », qui explique dans son communiqué que « les politiques migratoires et la militarisation accrue poussent les personnes à prendre de plus en plus de risques ».

    #Covid-19#migrant#migration#grandebretagne#france#traversee#manche#naufrage#mortalite#politiquemigratoire#mortalite#sante#postcovid

  • Au Royaume-Uni, controverses et impuissance face aux migrants qui traversent la Manche
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/08/14/au-royaume-uni-controverses-et-impuissance-face-aux-migrants-qui-traversent-

    Au Royaume-Uni, controverses et impuissance face aux migrants qui traversent la Manche
    Alors que six Afghans sont morts, samedi, dans le naufrage de leur embarcation, le gouvernement britannique durcit son accueil et tient un discours très ferme.
    Par Eric Albert(Londres, correspondance)
    La deuxième semaine d’août avait été décrétée « small boats week » par le gouvernement britannique, qui voulait démontrer ses efforts pour mettre fin aux traversées de migrants en bateaux pneumatiques à travers la Manche. Elle a tourné au fiasco. Elle a commencé mardi 8 août avec les provocations du vice-président du Parti conservateur, Lee Anderson, qui a déclaré que les migrants pouvaient « foutre le camp en France » s’ils n’aimaient pas les conditions offertes au Royaume-Uni. Elle s’est terminée samedi 12 août par le naufrage au large de Sangatte (Pas-de-Calais), dans la Manche, d’un bateau transportant 65 migrants. Six Afghans sont morts noyés. Entre les deux, profitant du beau temps, 1 600 migrants sont arrivés sur les côtes anglaises entre le 10 et le 12 août, un record pour cette année, faisant franchir la barre symbolique des 100 000 migrants ayant traversé la Manche depuis 2018. « La semaine des small boats a été un désastre pour les tories », estime Stephen Kinnock, député travailliste, spécialiste des questions migratoires.
    Depuis 2014, le port de Calais et l’entrée de l’Eurotunnel sont progressivement devenus inaccessibles. Sous la pression des autorités britanniques, la France a multiplié les patrouilles et installé des barbelés, des caméras infrarouges, des caméras de surveillance, des détecteurs de CO₂… Le passage des migrants s’est déporté vers la traversée en mer, généralement à bord de gros bateaux pneumatiques. Ils étaient 300 à le faire en 2018, 2 000 en 2019, 8 500 en 2020, 28 500 en 2021 et 45 700 en 2022. Cette année, près de 16 700 ont déjà été détectés, un nombre en baisse d’environ 15 % par rapport à l’an dernier à la même période. La majorité vient de pays en guerre (Afghanistan, Syrie, Irak…), mais d’étranges filières apparaissent parfois : pendant l’été 2022, les Albanais ont brièvement représenté plus du tiers des arrivants.
    Cet afflux très spectaculaire, avec ses drames réguliers, provoque une crise politique latente au Royaume-Uni. Parmi les cinq priorités qu’il affiche pour son mandat, le premier ministre, Rishi Sunak, a promis d’« arrêter les bateaux ». Il compte pour cela sur une politique très dure. Il a fait adopter une nouvelle loi, approuvée définitivement par le Parlement le 20 juillet, qui interdit toute demande d’asile aux personnes entrées illégalement au Royaume-Uni. « Si les gens savent que, s’ils viennent ici illégalement, ils ne pourront pas rester, alors ils ne viendront plus », assurait M. Sunak en juin. Son gouvernement affirme que toute personne entrée illégalement sera « renvoyée rapidement, soit vers son pays d’origine, soit vers un pays tiers ».
    Au cœur de ce dispositif se trouve un accord avec le Rwanda, où les migrants doivent théoriquement être envoyés et où leur dossier doit être traité. Annoncé en grande pompe en avril 2022, l’accord avec Kigali est cependant bloqué par la justice britannique. En juin, la Haute Cour a rappelé qu’une expulsion ne peut avoir lieu que vers « un pays sûr » et elle a estimé que ce n’était pas le cas du Rwanda. Le gouvernement a fait appel, la Cour suprême doit trancher à l’automne. En attendant, les autorités britanniques espéraient malgré tout envoyer quelques signaux forts la semaine dernière. Une barge pouvant loger 500 migrants, le Bibby Stockholm, a été installée dans un port du Dorset, dans le sud de l’Angleterre. Ce mastodonte de trois étages devait recevoir les demandeurs d’asile récemment arrivés. L’endroit, décrit comme « spartiate » par le gouvernement britannique, est censé prouver qu’aucun traitement de faveur n’est réservé aux migrants. Las, l’affaire a rapidement tourné court : seuls 39 migrants ont eu le temps de s’y installer, avant qu’une alerte à la légionellose n’oblige à l’évacuer.
    De toute façon, l’impact de la barge ne peut être que « symbolique », explique au Times Peter Walsh, de l’Observatoire des migrations, basé à l’université d’Oxford. Elle peut abriter 500 personnes, alors qu’il y a actuellement 50 000 demandeurs d’asile installés dans des hôtels à travers le Royaume-Uni, ce qui coûte 6 millions de livres par jour (7 millions d’euros). « La barge est une façon d’envoyer un message au public britannique, pour lui dire que ses inquiétudes sont prises au sérieux », poursuit M. Walsh. Face à ce constat d’impuissance des autorités, les élus britanniques pointent souvent du doigt la responsabilité des autorités françaises, accusées de laisser passer les bateaux. « Sans les Français qui interceptent et arrêtent ces bateaux, on a un problème », estime Tim Loughton, un député conservateur. Son collègue Iain Duncan Smith dénonce même la « folie » des gardes-côtes français, dont les navires, selon lui, escorteraient les bateaux de migrants jusqu’aux eaux britanniques. « Cela leur donne une incitation à tenter la traversée », affirme-t-il au journal dominical Mail on Sunday.
    De fait, Londres et Paris coopèrent sur le sujet depuis des années. L’an dernier, les autorités françaises ont intercepté 33 000 tentatives de traversée. En mars, lors d’un sommet franco-britannique, l’accord a été renforcé, toujours selon le même schéma : les Britanniques paient, les Français font la police. Le gouvernement britannique a versé 232 millions de livres (270 millions d’euros) depuis 2014 ; pour les trois prochaines années, la somme doit atteindre 476 millions de livres (550 millions d’euros).
    Comme toujours dans ce débat, les autorités britanniques oublient une mise en perspective. Le Royaume-Uni est l’un des pays qui reçoit le moins de demandes d’asile : 89 000 en 2022, environ le même nombre qu’en Italie (84 000), mais nettement moins qu’en Espagne (118 000), en France (156 000) ou en Allemagne (244 000) : « 8 % des demandes d’asile [à travers l’Europe] ont été déposées au Royaume-Uni », note l’Observatoire des migrations. L’opposition travailliste en appelle à la fin des gesticulations politiques. « Il faut arrêter avec ces fausses annonces qui font les gros titres, alors que les gens meurent en mer », estime M. Kinnock. L’association Care4Calais estime que la seule solution est que le gouvernement britannique offre une voie d’accès légale aux demandeurs d’asile, pour qu’ils puissent poser leur dossier sans risquer leur vie en traversant la Manche. Mais, dans le climat politique actuel, personne, au gouvernement britannique, ne veut en entendre parler.

    #Covid-19#migrant#migration#grandebretagne#france#manche#traversee#mortalite#demandeasile#politiquemigratoire#rwanda#naufrage#postcovid#sante

  • Naufrage de migrants dans la Manche : au moins six morts
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/08/12/naufrage-de-migrants-dans-la-manche-un-mort-cinq-personnes-dans-un-etat-grav

    Naufrage de migrants dans la Manche : au moins six morts
    Une cinquantaine de passagers ont pu être secourus, selon la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord.
    Le Monde avec AFP
    Six personnes sont mortes après le naufrage d’une embarcation de migrants dans la Manche samedi 12 août, a annoncé la préfecture maritime de la Manche et de la mer du Nord (Premar). « Cinq à dix » passagers étaient toujours recherchés à la mi-journée, selon la Premar. L’embarcation a fait naufrage au large de Sangatte, dans le Pas-de-Calais, sur le littoral nord de la France, « autour de 2 heures », a précisé le parquet de Boulogne-sur-Mer, qui a ouvert une enquête. En milieu de matinée, « six personnes ont été récupérées dans un état grave et l’une d’entre elles, évacuée par hélicoptère vers l’hôpital de Calais a été déclarée décédée », avait d’abord annoncé la Premar dans un communiqué. Les cinq autres victimes, prises en charge par un canot de sauvetage de la Société nationale de sauvetage en mer (SNSM), ont été déclarées décédées à l’arrivée au port de Calais, a précisé une porte-parole de la Premar. La première victime recensée est un homme d’origine afghane âgé de 25 à 30 ans, a détaillé le parquet.
    Une cinquantaine de passagers de cette embarcation ont pu être secourus, a précisé la Premar. Le bateau a été repéré en cours de naufrage « en tout début de matinée », par le patrouilleur français de service public Cormoran, qui a immédiatement lancé les secours. Côté français, les recherches mobilisent à la mi-journée trois navires, un hélicoptère et un avion pour quadriller au mieux la zone. Deux navires britanniques ont aussi participé aux secours. Au total, selon la Premar, 39 personnes sont à bord du patrouilleur Cormoran revenu s’amarrer à Calais, les autres rescapés ayant été secourus par les garde-côtes britanniques.
    « Mes pensées vont aux victimes », a écrit Elisabeth Borne sur X (ex-Twitter), saluant « l’engagement des équipes de secours mobilisées autour de la marine nationale ». Le secrétaire d’Etat français à la mer, Hervé Berville, est attendu sur place, ajoute la première ministre. Depuis mercredi soir, les tentatives de traversées de migrants à bord de petites embarcations se sont multipliées au départ du littoral nord de la France, à la faveur de conditions météorologiques redevenues plus favorables. Pour la nuit de jeudi à vendredi, la Premar avait fait état du sauvetage, côté français, de 116 migrants, parmi lesquels des enfants, sur trois embarcations distinctes. Le ministère de l’intérieur britannique a pour sa part signalé que, jeudi, 755 migrants ayant effectué la traversée à partir de la France ont été repérés, un record journalier depuis le début de l’année. Plus de 100 000 migrants ont traversé illégalement la Manche à bord de petites embarcations depuis 2018, une traversée très périlleuse, selon un décompte effectué vendredi par l’Agence France-Presse à partir des chiffres officiels britanniques. En 2022, cinq personnes migrantes sont mortes en mer et quatre ont été portées disparues en tentant de rejoindre les côtes anglaises au départ du littoral nord de la France. En novembre 2021, 27 migrants avaient péri dans le naufrage de leur embarcation.

    #Covid-19#migrant#migration#france#manche#traversee#naufrage#grandebretagne#routemigratoire#migrationirreguliere#mortalite

  • [A Question Of Listening] # 030 - La #musique est un loisir à part
    https://www.radiopanik.org/emissions/a-question-of-listening/030-la-musique-est-un-loisir-a-part

    Le déclin du marché du disque amorcé au début des années 2000 (en baisse continue depuis – le retour des vinyles, épiphénomène de mode, vintage et éphémère, se chargeant depuis peu de ralentir le mouvement), suivi de celui des téléchargements dès 2013 (après une forte progression), est largement compensé par le développement (exponentiel pendant les premières années) de l’écoute en streaming. Même si on a du mal à comparer (alors qu’on compte dans un premier temps les consommations – les achats, d’albums en particulier, les singles ayant presque disparu depuis les années 1990 –, on inventorie aujourd’hui les usages – le nombre d’écoutes, y compris du même titre, dans une offre où l’éventail de choix dépasse très largement celui des bacs des disquaires), l’écoute de musique continue à progresser, et profite de (...)

    #psychologie_cognitive #gratification #usage #musique,psychologie_cognitive,gratification,usage
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/a-question-of-listening/030-la-musique-est-un-loisir-a-part_16300__1.mp3

  • Une entrée dans la #carrière_universitaire toujours plus entravée

    De nombreux jeunes docteurs ne parviendront jamais à obtenir un poste d’#enseignant-chercheur titulaire à l’université. En dix ans, le nombre de #recrutements a chuté de près de moitié, un paradoxe à l’heure où les départs à la retraite se multiplient.

    Qui peut encore embrasser la carrière d’enseignant-chercheur à l’université ? La question se pose alors que les portes apparaissent de plus en plus étroites pour des centaines de jeunes docteurs, soit bac + 8, qui voient les campagnes de recrutement se succéder sans jamais pouvoir accéder à un poste de titulaire dans un établissement.

    Chaque printemps, les postes ouverts sont publiés sur Galaxie, une plate-forme du ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche. Pour postuler, les candidats doivent au préalable avoir été « qualifiés » aux fonctions de maître de conférences ou de professeur des universités par le Conseil national des universités, qui certifie la valeur du diplôme de doctorat. Il faut ensuite passer un concours, localement, sur dossier et après audition par un jury.

    Le grand flou sur les perspectives de carrière académique freine les ambitions d’un nombre grandissant de chercheurs qui doivent attendre l’âge de 34 ans, en moyenne, avant de décrocher leur premier poste, la titularisation n’intervenant réellement qu’un an plus tard.

    « 20 candidatures, 0 poste »

    Chercheur en sciences du langage et détenteur d’une habilitation à diriger des recherches, la plus haute qualification universitaire, Albin Wagener a livré son bilan de la dernière campagne de recrutement, sur son compte Twitter, le 12 mai : « 20 candidatures, 2 auditions (dont une que je n’ai pas pu faire), 0 poste. Comme quoi on peut avoir publié 10 bouquins, 42 articles scientifiques, 15 chapitres d’ouvrage, fait 87 interventions orales de natures diverses et ne pas avoir de poste de recherche dans une université publique française. »

    Cette réalité est autant connue que redoutée. « Il faut tenir psychologiquement, quand on ne reçoit tous les ans que des signaux de refus », commente Marieke Louis, maîtresse de conférences en science politique à Sciences Po Grenoble, dans le podcast « Politistes dans la Cité » consacré, le 19 juin, aux « différentes facettes de la #maltraitance_institutionnelle dans le monde de l’#enseignement_supérieur_et_de_la_recherche ».

    Manuel Cervera-Marzal, docteur en science politique, y détaille son parcours : 82 dossiers de candidature restés sans lendemain. Après sept années de contrats précaires aux quatre coins de la France, il a obtenu un poste en septembre 2022… à l’université de Liège, en Belgique. « Je suis très heureux à Liège, mais je ressens un pincement quand même, témoigne-t-il. On se demande ce qu’on a mal fait pour ne pas mériter sa place parmi les siens en France. »

    Le chercheur se félicite que « la parole se libère aujourd’hui », permettant de découvrir « l’ampleur des dégâts ». En dix ans, le nombre de recrutements d’enseignants-chercheurs titulaires a diminué de près de moitié, avec 1 935 ouvertures de poste en 2021, contre 3 613 en 2011. En 2022, on enregistre un léger sursaut, avec 2 199 postes de professeur d’université et de maître de conférences ouverts.

    La situation est d’autant plus paradoxale que les universités se vident de leurs enseignants-chercheurs chevronnés, avec un nombre de départs à la retraite en hausse de + 10,4 % en 2021 et de + 10,5 % en 2022, selon une note statistique du ministère publiée en juin. Un avant-goût de la décennie qui vient, marquée par des départs massifs de la génération du baby-boom : entre 2021 et 2029, le ministère prévoit une augmentation de 53 % en moyenne, et de 97 % en sciences – le bond le plus élevé.

    Baisse du #taux_d’encadrement

    Dans ce contexte, il est donc peu étonnant que le nombre de doctorants (15 700 en 2022) soit en baisse de 4 % en un an des effectifs inscrits en première année de thèse. France Universités, l’association des présidents d’établissement, s’en est inquiétée début juillet par voie de communiqué. « Les mathématiques (– 10,1 %) et la chimie et la science des matériaux (– 14,7 %) subissent particulièrement cette désaffection », relève-t-elle avant d’alerter sur le « risque de décrochage pour la recherche publique française ».

    La biologie des populations-écologie est la discipline enregistrant le plus gros déficit de postes (– 80 % entre 2010 et 2021), a calculé Julien Gossa, maître de conférences en sciences informatiques à l’université de Strasbourg, qui a compilé un ensemble de données sur l’entrée dans la carrière universitaire. « On a recruté moins d’une dizaine de maîtres de conférences dans cette discipline, ce qui est absolument navrant », commente-t-il dans une analyse publiée sur le site de la Conférence des praticiens de l’enseignement supérieur et de la recherche.

    Entre 2010 et 2021, le nombre de néorecrutés a été divisé par deux, passant d’environ 2 000 à 1 000. « Le secteur sciences et technologies est le plus fortement touché, avec près de 60 % de recrutements en moins, observe M. Gossa. Le nombre global de concurrents par poste est passé de 4,6 à 7,7, soit une augmentation de la tension à l’entrée dans la carrière de près de 70 %. » Conséquence : alors qu’il fallait attendre vingt-neuf ans en 2010 pour renouveler entièrement les effectifs au rythme du recrutement annuel, il en faudrait cinquante-deux au rythme du recrutement annuel tel qu’il est advenu en 2021.

    Cette #pénurie de postes conduit à une baisse du taux d’encadrement pédagogique de 17 %, passant sur la période de 3,7 titulaires pour 100 étudiants à 3,1, poursuit l’auteur de cette étude. Une baisse particulièrement marquée dans le domaine des lettres, langages et arts/sciences humaines et sociales et sciences et technologies, où le nombre d’enseignants-chercheurs par étudiant a baissé de près d’un quart en dix ans.

    La conclusion est sans appel, pour M. Gossa : « Au total, il faudrait désormais ouvrir plus de 11 000 postes pour retrouver les taux d’encadrement de 2010 » dans les universités.

    https://www.lemonde.fr/campus/article/2023/08/10/une-entree-dans-la-carriere-universitaire-toujours-plus-entravee_6185034_440
    #université #postes #ESR #France #conditions_de_travail #statistiques #chiffres #enseignement_supérieur

  • Conference on innovative technologies for strengthening the Schengen area

    On 28 March 2023, the European Commission (DG HOME), Frontex and Europol will jointly hold a conference on innovative technologies for strengthening the Schengen area.


    The conference will provide a platform for dialogue between policy decision-makers, senior technology project managers, and strategic industry leaders, essential actors who contribute to making the Schengen area more secure and resilient. The conference will include discussions on the current situation and needs in Member States, selected innovative technology solutions that could strengthen Schengen as well as selected technology use cases relevant for police cooperation within Schengen.

    The conference target participants are ‘chief technology officers’ and lead managers from each Member State’s law enforcement and border guard authorities responsible for border management, security of border regions and internal security related activities, senior policy-makers and EU agencies. With regards to the presentation of innovative technological solutions, a dedicated call for industry participation will be published soon.

    https://www.europol.europa.eu/publications-events/events/conference-innovative-technologies-for-strengthening-schengen-area

    Le rapport est téléchargeable ici:
    Report from the conference on innovative technologies for strengthening the Schengen area

    In March 2023, the European Commission (DG HOME), Frontex and Europol jointly hosted a conference on innovative technologies for strengthening the Schengen area. The event brought together policy makers, senior technology project managers, and strategic industry leaders, essential actors who contribute to making the Schengen area more secure and resilient. The conference included discussions on the current situation and needs in Member States, selected innovative technology solutions that could strengthen Schengen as well as selected technology use cases relevant for police cooperation within Schengen.

    https://frontex.europa.eu/innovation/announcements/report-from-the-conference-on-innovative-technologies-for-strengtheni
    Lien pour télécharger le pdf:
    https://frontex.europa.eu/assets/EUresearchprojects/2023/Conference_on_innovative_technologies_for_Schengen_-_Report.pdf

    #technologie #frontières #Frontex #Europol #conférence #Schengen #UE #EU #commission_européenne #droits #droits_fondamentaux #biométrie #complexe_militaro-industriel #frontières_intérieures #contrôles_frontaliers #interopérabilité #acceptabilité #libre-circulation #Advanced_Passenger_Information (#API) #One-stop-shop_solutions #données #EU_Innovation_Hub_for_Internal_Security #Personal_Identification_system (#PerIS) #migrations #asile #réfugiés #vidéosurveillance #ePolicist_system #IDEMIA #Grant_Detection #OptoPrecision #Airbus_Defense_and_Space #Airbus #border_management #PNR #eu-LISA #European_Innovation_Hub_for_Internal_Security

  • Piemonte, corsa alle nuove miniere : da #Usseglio al Pinerolese si cercano nichel, cobalto, grafite e litio

    Scatta la corsa alle terre rare: la Regione deve vagliare le richieste delle multinazionali su una decina di siti

    Nei prossimi anni il Piemonte potrebbe trasformarsi in una grande miniera per soddisfare le esigenze legate alla costruzione degli apparecchi digitali e all’automotive elettrico. È un futuro fatto di cobalto, titanio, litio, nichel, platino e associati. E non mancano nemmeno oro e argento. Un grande business, infatti oggi si parla di «forti interessi» di aziende estrattive nazionali e straniere. Anche perché la Commissione Europea ha stabilito che «almeno il 10% del consumo di materie prime strategiche fondamentali per la transizione green e per le nuove tecnologie dovrebbe essere estratto nell’Ue, il 15% del consumo annuo di ciascuna materia prima critica dovrebbe provenire dal riciclaggio e almeno il 40% dovrebbe essere raffinato in Europa». In questo contesto il Piemonte è considerato un territorio strategico. Anche perché l’anno scorso il mondo ha estratto 280mila tonnellate di terre rare, circa 32 volte di più rispetto alla metà degli anni 50. E la domanda non farà che aumentare: entro il 2040, stimano gli esperti, avremo bisogno di sette volte più terre rare rispetto a oggi. Quindi potrebbero essere necessarie più di 300 nuove miniere nel prossimo decennio per soddisfare la domanda di veicoli elettrici e batterie di accumulo di energia, secondo lo studio condotto da Benchmark Mineral Intelligence.

    «Al momento abbiamo nove permessi di ricerca in corso, ma si tratta di campionature in superficie o all’interno di galleria già esistenti, come è avvenuto a Punta Corna, sulle montagne di Usseglio – analizza Edoardo Guerrini, il responsabile del settore polizia mineraria, cave e miniere della Regione -. C’è poi in istruttoria di via al ministero dell’Ambiente un permesso per la ricerca di grafite nella zona della Val Chisone». Si tratta di un’area immensa di quasi 6500 ettari si estende sui comuni di Perrero, Pomaretto, San Germano Chisone, Perosa Argentina, Pinasca, Villar Perosa, Pramollo, Roure e Inverso Pinasca che interessa all’australiana Energia Minerals (ramo della multinazionale Altamin). E un’altra società creata da Altamin, la Strategic Minerals Italia, nella primavera prossima, sulle montagne di Usseglio, se non ci saranno intoppi, potrà partire con le operazioni per 32 carotaggi nel Vallone del Servin con una profondità variabile da 150 a 250 metri. Altri 25 sondaggi verranno invece effettuati nel sito di Santa Barbara, ma saranno meno profondi. E, ovviamente, ambientalisti e amanti della montagna, hanno già espresso tutti i loro timori perché temono uno stravolgimento del territorio. «Nelle settimane scorse ho anche ricevuto i rappresentati di una società svedese interessati ad avviare degli studi di valutazione in tutto il Piemonte con l’obiettivo di estrarre minerali – continua Guerrini – anche perché l’Unione Europea spinge per la ricerca di materie prime indispensabili per la conversione ecologica e quindi l’autosufficienza energetica».

    È la storia che ritorna anche perché il Piemonte è stata sempre una terra di estrazione. Basti pensare che, solo nel Torinese, la cavi attive «normali» sono 66. E ora, a parte Usseglio e il Pinerolese, ci sono richieste per cercare nichel in Valle Anzasca, rame, platino e affini nel Verbano Cusio Ossola, dove esiste ancora una concessione non utilizzata per cercare oro a Ceppo Morelli nella Val d’Ossola (anche se il giacimento più sfruttato per l’oro è sempre stato quello del massiccio del Rosa) e la richiesta di poter coltivare il boro nella zona di Ormea. E pensare che, dal 2013 al 2022, le aziende che si occupano di estrazione di minerali da cave e miniere in Piemonte sono scese da 265 a 195. «Il settore estrattivo continua a essere fonte di occupazione – riflette l’assessore regionale Andrea Tronzano -. Con il piano regionale in via di definizione vogliamo dare certezze agli imprenditori e migliorare l’attuale regolamentazione in modo che ci siano certezze ambientali e più facilità nel lavorare. Le miniere su materie prime critiche sono oggetto di grande attenzione e noi vorremmo riattivare le nostre potenzialità come ci chiede la Ue. Ci stiamo lavorando con rispetto per tutti, anche perché qui non siamo nè in Cina nè in Congo. Vedremo le aziende che hanno chiesto di fare i carotaggi che cosa decideranno. Noi le ascolteremo».

    https://www.lastampa.it/torino/2023/08/06/news/piemonte_nuove_miniere_usseglio_nichel_cobalto-12984408

    #extractivisme #Italie #mines #nickel #cobalt #graphite #lithium #Alpes #montagnes #Piémont #Pinerolo #terres_rares #multinationales #transition_énergétique #Punta_Corna #Val_Chisone #Energia_Minerals #Altamin #Strategic_Minerals_Italia #Vallone_del_Servin #Santa_Barbara #Valle_Anzasca #Verbano_Cusio_Ossola #cuivre #platine #Ceppo_Morelli #Val_d'Ossola #or #Ormea

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Remote Atlantic Ocean rock could host migrants, UK says

    The UK is threatening to deport irregular migrants to Ascension Island if its plan to send people to Rwanda fails, amid another lethal shipwreck in the Mediterranean.

    British officials briefed national press anonymously on the Ascension Island idea on Sunday (6 August).

    “It’s pragmatic to consider all options and it makes sense to draw up proposals to stop the boats that could work alongside our Rwanda policy,” a “senior government source” told The Sunday Times.

    “We’re still confident that our Rwanda scheme is lawful, but having alternative proposals on the table would provide us with a back-up if we’re frustrated legally,” the source said.

    “All options were on the table”, British home secretary Suella Braverman also told the Mail on Sunday.

    Ascension Island is part of the Saint Helena, Ascension and Tristan da Cunha British overseas territory in the South Atlantic Ocean.

    The volcanic outcrop is just 88 km squared and located 6,000 km away from Europe.

    Braverman had planned to start deporting people to Rwanda on flights in January to act as a deterrent.

    But this was ruled illegal by the Court of Appeal in June over deficiencies in Rwanda’s asylum system, with a final verdict due by the Supreme Court in late autumn.

    Other “Plan B” locations alongside Ascension Island included Alderney in the Channel islands, a British military base in Cyprus, Ghana, Nigeria, Namibia, and Morocco, the Sunday Times reported.

    Niger had been on the list, but a coup in Niamey in July now threatened to see military intervention by neighbouring states, making the region a source of even higher numbers of refugees.

    The Falkland Islands had also been considered, but were deemed too sensitive due to the 1982 Falklands War between Britain and Argentina.

    And British officials cited Australia’s policy of processing asylum claims on Nauru in the South Pacific as a model for their far-flung schemes.

    The Rwanda Plan A has been pasted by human-rights groups as demonisation of vulnerable people by Britain’s ruling Conservative Party, which trails in polls ahead of elections likely in 2024.

    About 15,000 have crossed to the UK on small boats from France so far this year, down 15 percent on the same period in 2022.

    But arrivals to Europe are on the rise, via dangerous Mediterranean crossings and Turkey.

    Over 127,300 people came in the first seven months of this year compared to 189,600 in all of last year, according to the International Organisation for Migration, a UN limb.

    More than 2,330 people lost their lives or went missing, compared to 2,965 in 2022.

    Another woman and child died and 30 were still missing after two boats capsized near the Italian island of Lampedusa on Sunday, Italian authorities said.

    The coastguard saved 57 people so far.

    They also airlifted 34 others, including two pregnant women and a child, who had been clinging to a cliff face on Lampedusa since Friday following a previous shipwreck.
    Unwelcoming mood

    The right-wing government of Italian prime minister Giorgia Meloni has been accused of complicating rescues by forcing charity ships to disembark at far-away ports, echoing the UK approach.

    And migration is likely to feature heavily in the European Parliament elections next year, just as in post-Brexit Britain.

    Germany’s far-right AfD party declared the EU a “failed project” and promised to crack down on migrants in its programme for next June’s vote, unveiled on Sunday.

    It called for the EU to reform as a “federation of European nations” that protected “different identities” in Europe.

    It also spoke of a “Europe of fatherlands, a European community of sovereign, democratic states”.

    The AfD is poles apart from the old German spirit under former conservative chancellor Angela Merkel, who welcomed refugees in 2015.

    But the far-right party is now polling at 19 to 22 percent, making it the second strongest political force in the EU’s largest member state.

    https://euobserver.com/world/157327

    #UK #Atlantique #Angleterre #île #île_de_l'ascension #externalisation #modèle_australien #asile #migrations #réfugiés #océan_atlantique

    L’île de l’Ascension après d’autres magnifiques idées :
    – le Rwanda : https://seenthis.net/messages/966443
    – la Bibby Stockholm : https://seenthis.net/tag/bibby_stockholm

    Et ça rappelle farouchement ce que les Australiens ont mis en place (la #Pacific_solution) sur l’île de #Nauru : https://seenthis.net/tag/nauru

    D’ailleurs, je découvre grâce aux archives seenthis (#merci @seenthis) qu’en 2020, la #Grande-Bretagne avait déjà imaginé d’envoyer les demandeurs d’asile sur une autre île au milieu de l’Atlantique qui leur appartient : l’île de #Saint-Hélène : https://seenthis.net/messages/881888

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    ajouté à la métaliste autour des #îles qui sont utilisées (ou dont il a été question d’imaginer de le faire) pour y envoyer des #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/881889

    • L’ultima idea di Londra per i richiedenti asilo: «spedirli» su un’isola in mezzo all’Atlantico

      All’Ascensione, territorio dipendente da Sant’Elena. Intanto da ieri decine spostati su una chiatta a Portland

      La buona notizia è che, causa golpe, è tramontata definitivamente l’ipotesi di spostare i migranti in Niger. La cattiva notizia? Tutto il resto.

      Gli arrivi record nel Regno Unito stanno mettendo a durissima prova il governo Sunak, anche se tra i presunti vantaggi di Brexit c’era proprio quello di «riprendere il controllo dei confini britannici» sottraendoli agli odiati burocrati di Bruxelles.

      Così l’ultima ipotesi è quella di portare migliaia di persone — in attesa di verdetto sulla richiesta d’asilo — su un’isola sperduta tra costa africana (1.600 chilometri) e costa sudamericana (2.300 chilometri), l’Isola dell’Ascensione, nell’amministrazione di Sant’Elena di napoleonica memoria. Charles Darwin, che durante il suo viaggio con il veliero Beagle la visitò nel 1836, la definì «orribile».

      L’esilio agli antipodi dei migranti non è neanche il problema più urgente di Sunak, che peraltro è in vacanza negli Stati Uniti con la famiglia, sadicamente pedinato dai tabloid inglesi anche alla lezione di spinning in una palestra di lusso a Santa Monica con accompagnamento musicale di Taylor Swift.

      È cominciato infatti ieri pomeriggio il trasferimento di alcune decine di migranti su una chiatta, la Bibby Stockholm, ancorata nel porto di Portland . Arrivano da alberghi di Oxford, Bristol, Torbay e Bournemouth: proprio il problema degli hotel è quello più urgente. Il governo paga infatti sei milioni di sterline al giorno (sette milioni di euro) per ospitare in albergo migliaia di migranti. L’idea della chiatta è venuta, semplicemente, per risparmiare mentre le lista d’attesa per le richieste d’asilo si allungano spaventosamente.

      Neanche i tabloid stanno facendo sconti al governo: due mesi fa campeggiava sulle loro prime pagine la protesta dei migranti iraniani che rifiutavano la sistemazione in un albergo londinese di Pimlico (centralissimo, 175 euro a notte) perché pretendevano camere singole, e per questo si erano accampati in strada.

      La capacità ricettiva dell’apparato dello Stato britannico pare uscita da un vecchio sketch dei Monty Python, e sarebbe un brutto gesto, oggi, quello di rinfacciare alla fazione pro-Brexit le vecchie critiche alle (effettive) falle nell’accoglienza ai migranti targata Ue. Ma certo è che il «piano B» è una priorità del governo Sunak: s’intende l’idea di trasferire fuori dai confini nazionali i migranti finché non sarà definito l’esito delle loro richieste d’asilo. Soltanto quattordici mesi fa, quando il governo Johnson ormai al capolinea ipotizzò di utilizzare il Ruanda come parcheggio per i migranti desiderosi di vivere nel Regno Unito stringendo con Kigali un accordo di cooperazione da 160 milioni di euro, l’allora principe Carlo con una clamorosa e inedita violazione della tradizionale neutralità politica della Corona — sempre silente sulle scelte governative — lasciò trapelare di essere rimasto «allibito».

      Un trasferimento di seimila chilometri nel territorio britannico d’oltremare nell’Atlantico meridionale provocherebbe, al netto di ogni altra considerazione politica e umanitaria, una serie di complessi problemi organizzativi, dato che l’isola di 88 chilometri quadrati ha soltanto ottocento abitanti e non è ovviamente attrezzata per diventare un campo profughi. Perfino il Daily Mail, giornale per nulla favorevole all’apertura delle frontiere, la definiva ieri «una pietra vulcanica in mezzo al nulla».

      Al momento il piano di collaborazione con Kigali è stato bloccato da un tribunale, ma il governo aspetta il pronunciamento definitivo della Corte suprema in ottobre.

      https://www.corriere.it/esteri/23_agosto_07/ultima-idea-londra-richiedenti-asilo-spedirli-un-isola-mezzo-all-atlantico-