[…] Non ho altra malattia che le mura del campo attorno. Le nere guardie. Il filo spinato che ci separa dalla strada del ritorno.
‘Canto del campo di al-‘Aqila’ di Rajab Bu-Huwayish
La necessità di comunicare ci ha portato ad assegnare nomi a cose, oggetti, concetti e luoghi che abbiano un significato condiviso e questo naturalmente vale anche per le strade. Quando nel medioevo si rogava l’acquisto di un immobile, i notai dovevano annotare dove si trovasse. Per farlo, esso veniva identificato attraverso i luoghi confinanti. I nomi di questi luoghi venivano codificati solo nell’uso comune di cui erano oggetto: per esempio tutti sapevano dov’era il Trivio di Porta Ravegnana, l’attuale piazza di Porta Ravegnana, attraverso la quale, percorrendo la strada San Vitale, si raggiungeva – e si raggiunge tuttora – Ravenna.
Se avete preso un taxi in Giappone saprete che da quelle parti le cose funzionano ancora più o meno così… ma qui, la necessità di dare stabilità a un’odonomastica tramandata oralmente ha portato alla produzione di documenti che descrivono le vie della città attraverso i loro nomi.
Da qualche anno l’Università di Tor Vergata ha istituito un laboratorio internazionale di onomastica (LIOn) a cui lavorano glottologi, linguisti, dialettologi e altri esperti. Tra i vari progetti portati a termine c’è anche un censimento a tappeto dello stradario nazionale.
MA CHE COS’È L’ODONOMASTICA?
L’odonomastica è lo studio storico-linguistico dei nomi delle aree di comunicazione di un centro urbano, delle sue vie e delle sue piazze (dal greco hodós, via, strada e onomastikòs, onomastica: studio dei nomi propri, delle loro origini e dei processi di denominazione nell’ambito di una o più lingue o dialetti).
Si tratta di un ambito più ristretto e specifico della toponomastica (dal greco tòpos, luogo e onomastikòs), che si occupa dello studio storico-linguistico dei nomi dei luoghi geografici. L’odonomastica, in breve, è la toponomastica stradale.
COSA CI DICONO I NOMI DELLE STRADE?
I nomi delle vie, delle piazze e dei vicoli raccontano la storia di un paese, perché nella maggioranza dei casi ricordano luoghi, fatti e personaggi.
Un tempo le strade portavano i nomi delle famiglie che ci abitavano o possedevano proprietà in loco come via de’ Castagnoli o piazza de’ Calderini; dei mestieri e delle botteghe che le animavano come via dei Falegnami, via degli Orefici o via Calzolerie. In altri casi le vie dovevano i loro toponimi ai santi ai quali le chiese erano dedicate come via Santo Stefano o alle caratteristiche del paesaggio come nel caso di via Frassinago e via Nosadella per i frassini e i noci.
Si racconta poi che alcune vie debbano i loro nomi a usi più triviali, come via Centotrecento per le tariffe del quarto d’ora di piacere che un tempo ci si poteva concedere da quelle parti o via Ca’ Selvatica in cui, nel 1521, vennero trasferite le meretrici.
Dopo l’Unità d’Italia e sul finire dell’Ottocento prese piede l’uso di intitolare le vie a personaggi di rilievo come Luigi Zamboni, protomartire del Risorgimento italiano che a Bologna nel 1794 guidò una sommossa contro lo Stato Pontificio e morì in una cella nota come Inferno nelle carceri del Torrone.
All’epoca si diffuse anche l’uso di intitolare le strade a eventi storici come il XX Settembre che ricorda la presa di Roma, la famosa breccia di Porta Pia, il nodo gordiano risorgimentale che sancì la fine dello Stato Pontificio e l’annessione della futura capitale al Regno d’Italia.
PERCHÉ GLI ODONIMI RIPORTANO NOMI, DATE O SIMBOLI?
La tendenza che prese piede dopo l’Unità d’Italia di chiamare le vie con date di fatti storici importanti o con nomi di personaggi illustri deriva, palesemente, dal bisogno di ‘fare gli italiani’. In questo paese, gli odonimi contribuirono – e contribuiscono – alla costruzione dell’identità nazionale, carattere intimamente legato alla storia di un popolo e, pertanto, in continua trasformazione.
Si rende omaggio a patrioti, letterati, scienziati, ecc. che si sono distinti in grandi imprese o si ricordano determinati momenti storici per costruire, imporre o consolidare un racconto che si vuole sia o divenga collettivo e condiviso.
Sappiamo bene, però, che la memoria collettiva è la memoria di un determinato gruppo di appartenenza, un gruppo ristretto rispetto all’insieme della popolazione.
A Bologna la riuscita dell’impresa coloniale in Tripolitania e Cirenaica venne celebrata nel 1913 con la delibera del Consiglio Comunale che approvava gli odonimi via Tripoli, via Bengasi, via Libia, via Due Palme, ecc. per il reticolo di strade fuori porta comprese tra via San Donato e via San Vitale.
Nel 1938, in pieno ventennio fascista invece venne edificato il Villaggio della Rivoluzione, un quartiere nato per ospitare le famiglie dei caduti, dei feriti e dei mutilati per la causa della rivoluzione fascista e le strade presero i nomi dei simboli del regime. Così fecero capolino via delle Camicie Nere, via dello Squadrista, via del Legionario.
Colonialismo e fascismo non finirono con la Liberazione e continuano a vivere negli spazi costruiti, negli usi di quegli spazi, nei significati e in quell’insieme attraverso il quale il potere politico – e simbolico – si esprime nella vita quotidiana di una città.
Nel caso del rione Cirenaica, per esempio, la celebrazione del colonialismo persiste tuttora in via Libia che né il trattato di Pace del 1947 che privava l’Italia delle sue colonie né l’approvazione della proposta della Commissione Consultiva per la denominazione delle vie del 1949 riuscirono o vollero modificare.
GLI ODONIMI COME LUOGHI DELLA MEMORIA
L’espressione ‘luoghi della memoria’ rimanda a una pluralità di situazioni e significati la cui indagine consente una pluralità di approcci.
Sono luoghi della memoria Porta Lame a Bologna, dove il 7 novembre 1944 i partigiani della 7ª GAP combatterono un’importante battaglia o il parco storico di Monte Sole, il colle dove i nazisti compirono una feroce strage tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944.
Anche i nomi delle vie sono ‘luoghi della memoria’ come via Caduti di Amola: una frazione di S. Giovanni in Persiceto in cui Il 5 dicembre 1944 le SS e i paracadutisti della divisione Göring, grazie ai fascisti locali, circondarono il rifugio dei partigiani della 63^ brigata Bolero Garibaldi e rastrellarono circa trecento persone. Molti di loro vennero fucilati a Sabbiuno del Monte a Paderno, mentre altri furono trasferiti al lager di Bolzano e da lì deportati a Mauthausen.
Un luogo della memoria non è solo un luogo fisico ma, come spiega lo storico Mario Isnenghi, può contenere dati materiali e simbolici, richiamare eventi o figure e partecipare al consolidamento e alla diffusione di miti e riti collettivi.
I luoghi della memoria indicano chi e cosa ricordare, sono il riflesso dell’anima di un paese, della sua comunità. L’odonomastica quindi è uno dei tanti specchi in cui il paese e la sua storia si riflettono, sono ‘supporti memoriali’ – come li definisce la professoressa Patrizia Violi – di un passato che si vuole tramandare.
POLITICHE DELLA MEMORIA E DELL’OBLIO E TRASFORMAZIONI DELL’IDENTITA’ NAZIONALE.
La memoria è una narrazione con carattere retrospettivo e a livello soggettivo seleziona e assimila ciò che ha senso in funzione del proprio presente e del proprio futuro.
Questo vale anche per la memoria istituzionale, costruita dallo Stato e dal governo in carica. La sostanziale differenza è che nel caso della memoria istituzionale si tratta di memoria che diventa Storia e che viene trasmessa alle generazioni future attraverso l’educazione scolastica. La storia da tramandare è, pertanto, il risultato di una scelta politica e il revisionismo, per esempio, è uno dei vari strumenti con il quale l’avvicendarsi di governi di diversi orientamenti cercano di modificare le interpretazioni ormai consolidate dei più importanti avvenimenti storici per mitigare le memorie in conflitto, sopratutto in relazione al fascismo, alla Resistenza e alla shoah.
Sempre Isnenghi, intervistato da Barbara Bertoncin nel 2016 a proposito dell’opportunità di fare un museo nella casa del fascio di Predappio, ci ricorda che «Nel ’45 molte di queste case del fascio sono diventate case del popolo, come a suo tempo le case del popolo erano diventate case del fascio; questo fa parte della guerriglia politica. Nelle nostre città, che lo sappiamo o no, ci aggiriamo continuamente fra le macerie di antiche guerriglie politiche, guerre semiologiche in cui gli ex conventi sono stati espropriati dal benemerito Napoleone e sono diventate caserme o scuole, magari intitolandosi a Giordano Bruno o a Paolo Sarpi o a Galileo Galilei, all’interno cioè di una lotta dello stato laico contro la tradizione clericale. Questo è fisiologico. Naturalmente spetta poi agli storici contribuire alla costruzione di una coscienza pubblica diffusa di questo processo dentro cui molti nostri concittadini si possono aggirare senza averne piena coscienza, così come ci aggiriamo in una nomenclatura viaria che via via perde di significato. Un mucchio di gente certamente si aggira nelle vie Battisti senza sapere chi fosse, confondendolo col cantante o peggio.»
Se ci fosse qualche improbabile dubbio, ricordiamo che le strade sono intitolate a Cesare Battisti, il politico socialista e irredentista che si batté per l’autonomia del Trentino dall’Impero austro-ungarico e che durante la Grande guerra si arruolò come volontario negli alpini. Catturato dall’esercito austriaco, fu processato e impiccato per alto tradimento.
La scelta di chi o cosa ricordare comporta di conseguenza la decisione di chi o cosa dimenticare. Le politiche della memoria e dell’oblio dunque hanno un ruolo determinante nella costruzione dell’identità nazionale, intesa come progetto in divenire.
In History as Social Memory, lo storico britannico Peter Burke ricorda che la parola ‘amnesia’ è etimologicamente imparentata con la parola ‘amnistia’ (dal greco amnestía cioè oblio e questo da amnestèo cioè dimenticare: da A negativo e dalla radice mnéme, memoria) e che l’‘amnistia’ è un atto di oblio volontario e al tempo stesso una cancellazione ufficiale della memoria.
La delibera del Consiglio Comunale di Bologna del 1949 segnò un cambio d’indirizzo, in tutti i sensi: il racconto condiviso dalla collettività non doveva più celebrare i luoghi del colonialismo fascista, ma onorare gli uomini che avevano contribuito a liberare la città dall’occupante.
Così i nomi delle strade della Cirenaica cambiarono e oggi ricordano alcuni partigiani: via Tripoli divenne via Paolo Fabbri, via Bengasi divenne via Giuseppe Bentivogli, via Zuara prese il nome di via Massenzio Masia, via Due Palme quello del comandante Lupo, Mario Mussolesi, ecc.
L’odonimo di #via_Libia, invece, rimase immutato.
Perché? Cosa si è scelto di ricordare e cosa si è pensato di cancellare? La risposta più ovvia sembra riguardare l’intenzione di condannare il colonialismo di stampo fascista, ma non il colonialismo in tutte le sue espressioni, visto che le aspirazioni di ottenere il proprio posto al sole dell’Italia risalgono agli anni che seguono l’Unità e l’occupazione della Libia al finire dell’età giolittiana.
Uno dei problemi più importanti delle società contemporanee è quello d’imparare a elaborare il passato nel rispetto di quell’etica che si trova alla radice di storia e memoria.
Come sostiene Paolo Jedlowski nell’introduzione a Memoria e storia: il caso della deportazione di Anna Rossi-Doria: «[…] Ricordare è infatti serbare traccia non solo di ciò che genericamente ‘è stato’, ma anche e sopratutto di ciò che siamo stati: per questa via è accrescimento della consapevolezza di sé. La consapevolezza è responsabilità nel senso etimologico del termine: capacità di rispondere dei nostri atti; ricordare ciò che siamo stati serve a assumere la responsabilità di ciò che abbiamo compiuto… Ricordare i torti che abbiamo subito è cosa da poco: ma la memoria e la storia mostrano tutta la loro carica etica quando ricordiamo i torti che abbiamo inflitto.»
DI ODONIMI DISCUTIBILI E DI STRUMENTI CHE FANNO CILECCA
A nessuno verrebbe in mente di rispolverare i nomi delle vie del Villaggio della Rivoluzione perché renderebbe evidente il reato di apologia del fascismo da cui la Legge Scelba (legge n. 645 del 20 giugno 1952) cercò di tutelarci. Senza molto successo, verrebbe da aggiungere, data la diffusione del saluto romano e di altre amenità nelle sempre più frequenti manifestazioni neofasciste.
Isnenghi ci viene ancora una volta in aiuto fornendoci una spiegazione del perché la sola legge non potè né può tutelarci.
«… il Movimento Sociale c’era ed era anche un partito in grado di accogliere un bel po’ di voti. Teoricamente la Costituzione non avrebbe permesso l’esistenza di un simile partito; di fatto era così grosso che sarebbe stato un bel problema politico concretizzare il discorso giuridico costituzionale e metterlo fuorilegge.
«Tant’è vero che nel secondo dopoguerra non mancavano le forze (oltreoceano, ma anche all’interno del paese) che casomai avrebbero preferito mettere fuorilegge il PCI e non il MSI [il Movimento Sociale Italiano confluito poi in Alleanza Nazionale]. Così stavano realisticamente le cose.
«Stando così le cose, si capisce che anche le sinistre antifasciste abbiano infine accettato questo tran tran parlamentare, purché il MSI se ne stesse nelle sue ridotte.»
La proibizione per legge del neofascismo fu un provvedimento che si rivelò puramente di facciata, una strategia che finì per deludere le aspettative di molti perché a decidere furono i rapporti di forza e gli accomodamenti tra partiti.
Ma quanto è diffusa l’intitolazione di vie a personaggi e luoghi che celebrano il fascismo o il colonialismo? Per farsene un’idea basta realizzare una ricerca in rete.
Prendiamo, per esempio, la recente diatriba sull’intitolazione di una via di Roma a Giorgio Almirante, senza dimenticare che di vie a lui dedicate ne esistono a Foggia, Agrigento, Aversa, Fiumicino, Molfetta, Lecce, Trani, San Severo, Rieti, Francavilla Fontana, Viterbo e solo per citarne alcune.
Ma chi era costui? Basti ricordare che aderì al fascismo quando era ancora un liceale e non rinnegò mai la sua lealtà al regime e al Duce. Nel 1938 fu tra i firmatari del Manifesto della razza e collaborò alla rivista La difesa della razza come segretario di redazione.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale ottenne una promozione come corrispondente di guerra e partì per la Libia al seguito della Divisione 23 marzo delle Camicie Nere, una divisione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale che scelse il nome del giorno della fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento, avvenuta per l’appunto il 23 marzo 1919.
Nel 1944 aderì alla RSI, dove ricoprì la carica di capo gabinetto del ministero della Cultura Popolare e firmò un manifesto ritrovato negli archivi di Massa Marittima in cui ordinava di passare per le armi i renitenti alla leva della Repubblica di Salò.
Nel dopoguerra partecipò alla riunione costitutiva del MSI di cui fu segretario e nel 1972 fu accusato di voler ricostituire il partito fascista, mentre nel 1986 fu rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato verso i due terroristi di Ordine Nuovo colpevoli della strage di Peteano e poi venne amnistiato.
Dopo aver ricordato chi era Giorgio Almirante, sorge spontaneo domandarsi: chi vorrebbe intitolargli una via? E la risposta più ovvia potrebbe essere: un fascista, un neofascista, uno stragista. Allora com’è possibile che diversi politici avanzino proposte di questo genere? Non possiamo certo dire che si tratti di stragisti o terroristi neri.
La risposta va cercata altrove.
Come abbiamo accennato, oltre a essere un provvedimento generale di clemenza con cui lo Stato rinuncia alla punizione di un determinato numero di reati, l’amnistia è un atto di oblio volontario e al tempo stesso una cancellazione ufficiale della memoria.
La proposta di intitolazione di una via a Giorgio Almirante non lascia alcun dubbio sul potere amnesico dell’amnistia.
È proprio nell’ambito di ciò che è stato dimenticato, scordato, obliato, rimosso, che si gioca un’importante battaglia politica, in cui gli odonimi rappresentano solo uno dei tanti indicatori dello stato delle cose e cioè dell’affermarsi e del consolidarsi di un’immagine annacquata ed edulcorata del fascismo e dei suoi crimini, dell’idea stessa degli italiani brava gente.
Il punto di vista sempre più diffuso; veicolato, ahimè, anche da molti soggetti che dovrebbero vegliare e contribuire alla costruzione della coscienza pubblica; è quello di un fascismo bonario che, in fin dei conti, non ha commesso gli orrendi crimini contro l’umanità di cui si è macchiato il nazismo.
Ma un’affermazione simile non solo pecca di amnesia perché cancella con un colpo di spugna lo squadrismo; le marce forzate, la deportazione e i campi di concentramento in Libia ancor prima che Hitler diventasse cancelliere del Reich; l’uso di gas e armi chimiche in violazione dell’allora
recente Protocollo di Ginevra del 1925; il primo bombardamento aereo di un ospedale della croce rossa nel 1935 a Malca Dida; le leggi razziali e la deportazioni degli ebrei, per citare solo le atrocità più note, ma assolve e amnistia tutti noi da ciò che siamo stati, dispensandoci dal compito di accrescere la nostra consapevolezza e, pertanto, dalla gravosa assunzione di responsabilità dei nostri atti.
Forse lo storico statunitense di origine ebraica Yosef Hayim Yerushalmi con le sue Riflessioni sull’oblio, può darci una mano a capire il problema davanti al quale ci troviamo.
Prendendo spunto dall’Ebraismo, lo studioso propone un’analisi che pone l’accento sulle dinamiche della trasmissione e della ricezione della memoria.
Per lo storico, a rigor di logica gli individui possono dimenticare solo i fatti che sono avvenuti nel corso della loro esistenza. Quando si dice che un popolo ricorda, in realtà prima si afferma che il passato viene attivamente trasmesso alle generazioni contemporanee attraverso i canali e i ricettacoli della memoria – i ‘luoghi della memoria’ di Pierre Nora – e dopo si sostiene che quel passato che è stato trasmesso è stato anche ricevuto.
Pertanto, secondo Yerushalmi, un popolo dimentica quando la generazione che ha vissuto il passato non lo trasmette a quella successiva o quando quest’ultima rifiuta ciò che le è stato trasmesso o smette di trasmetterlo a sua volta.
«L’oblio in senso collettivo compare quando certi gruppi umani non riescono – volontariamente o passivamente, per rifiuto, indifferenza o indolenza o per una catastrofe storica che ha interrotto il trascorrere dei giorni e delle cose – a trasmettere alla posterità ciò che hanno imparato del passato…»
Se condividiamo le affermazioni di Yerushalmi, l’affievolirsi di una condanna del fascismo potrebbe derivare dall’incapacità volontaria e/o passiva, da un rifiuto, dall’indifferenza, dall’indolenza e aggiungerei dall’assenza di un linguaggio che abbia un significato condiviso tra generazioni e, più probabilmente, dall’insieme di tutte queste ragioni.
Ascoltando le dichiarazioni sul fascismo dell’attuale classe politica risulta evidente che la trasmissione e la ricezione del passato hanno fatto cilecca e ci hanno condotti a una de-responsabilizzazione per cui, oltre a chiederci come, quando e perché sia successo, dobbiamo trovare un modo di ristabilire la trasmissione e garantire la ricezione.
Lo storico continua segnalando che la fenomenologia della memoria e dell’oblio collettivi sono essenzialmente gli stessi in tutti i gruppi sociali e che a cambiare sono solo i dettagli.
Yerushalmi spiega che non c’è popolo per il quale alcuni elementi del passato, siano essi storici o mitici o una combinazione di entrambi, non diventino una ‘Torah’, cioè un insieme di insegnamenti e precetti riconosciuti, e pertanto condivisi, trasmessi oralmente o in forma scritta che hanno bisogno di consenso.
Secondo lo storico ebreo, questi insegnamenti possono sopravvivere solo nella misura in cui diventano una tradizione. Lo studioso crede che ogni gruppo, ogni popolo ha la sua ‘halakhah’, la sua Legge intesa come tradizione normativa che include anche usi e costumi.
«La parola ebrea deriva da halakh, che significa ‘camminare’, halakhah pertanto è il cammino sul quale si procede, il Cammino, la Via, il Tao, quell’insieme di riti e credenze che danno a un popolo il senso della sua identità e del suo destino. Del passato solo si trasmettono gli episodi che si giudicano esemplari o edificanti per l’halakhah di un popolo tale e quale la si vive nel presente.»
Yerushalmi, quindi, oltre ad affermare che l’identità di un popolo sia il risultato di un processo di selezione e assimilazione di ciò che ha senso in funzione del presente e del futuro, ci mette in guardia da un pericolo: se del passato si trasmettono solo gli episodi che si giudicano esemplari o edificanti, non è probabile che quelli riprovevoli, col passare del tempo, vengano edulcorati se non dimenticati?
E allora, l’accento messo sulla lotta partigiana potrebbe in qualche modo aver contribuito a mettere in ombra i crimini del fascismo? E ancora, perché la memoria e la storia sprigionino tutta la loro carica etica non dovremmo ricordare anche i torti che abbiamo inflitto?
D’altro canto, lo studioso ci indica anche una strada da percorrere: per sopravvivere, gli elementi del passato che compongono la ‘Torah’ devono diventare una ‘tradizione’.
Ma, come e cosa fare? Come potete immaginare gli ambiti sui quali lavorare e gli strumenti da utilizzare per riprenderci dall’amnesia sono molteplici.
RISVEGLIARE GLI ANTICORPI DELLA SOCIETÀ: STRUMENTI.
Tra i tanti mezzi su cui contare per ripristinare la ‘trasmissione’, favorire la ricezione, creare o ristabilire una ‘tradizione’ e/o vegliare sulla memoria da tramandare, ne esistono alcuni promossi dal basso che si propongono di ristabilire la verità per rendere giustizia e che risultano utili sopratutto quando le istituzioni o gli organi competenti per convenienza, impossibilità, pigrizia o incapacità non si adoperano in tal senso.
A metà degli anni Novanta, in Argentina nacque H.I.J.O.S. (Hijos por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y el Silencio), un’organizzazione che radunò – e raduna – i figli di desaparecidos che si battono per l’identità e la giustizia, contro l’oblio e il silenzio dei crimini dell’ultima dittatura.
H.I.J.O.S. ha ideato e promosso una modalità inedita con cui affrontare l’impunità dei militari: l’‘Escrache’, che in spagnolo significa ‘sputtanamento’, e che consisteva nell’organizzare delle manifestazioni presso le abitazioni degli individui direttamente compromessi col regime.
Le loro abitazioni venivano ‘marchiate’ col lancio di un palloncino pieno di vernice rossa.
Lo scopo dell’‘Escrache’ non era solo quello di sopperire alle mancanze della giustizia, ma anche di avvertire i vicini che un complice del regime viveva tra loro, promuovendo così una sorta di giustizia popolare o sociale.
I marchiati, condannati all’infamia, non erano più benaccetti nei luoghi pubblici, il panettiere non gli vendeva il pane, i vicini gli toglievano il saluto , ecc.
Luoghi e spazi pubblici e di socialità dell’intero paese diventavano per loro una prigione fatta di disprezzo e condanna sociale.
Queste politiche ebbero successo e, col passare del tempo, vennero applicate anche in altri ambiti non necessariamente legati alla dittatura militare. Vennero utilizzate infatti per denunciare ogni tipo di reato e contribuirono a sviluppare anticorpi nel tessuto sociale della comunità.
In Italia, quale antidoto all’amnesia, il collettivo Resistenze in Cirenaica, noto con l’acronimo RIC, ha scelto di rispolverare la tradizione folclorica dei cantastorie e, come annota Wu Ming 1 nell’articolo in uscita su Linus, in particolare «A Bologna e in Emilia, negli anni si è sviluppata una peculiare forma di reading-concerto, di declamazione narrativa su musica. L’esperienza dei CCCP ha influenzato le sperimentazioni di band come Massimo Volume, Starfuckers, Offlaga Disco Pax; sperimentazioni che a loro volta si sono ibridate con l’approccio alla lettura scenica di vari scrittori (su tutti Stefano Tassinari), teatranti, di musicisti provenienti dal jazz e dal punk. RIC ha ripreso questa tradizione, fondando una vera e propria officina di reading.»
Lo strumento di cui RIC spesso si è avvalso è una miscela di performance artistica, trekking urbano, reading-concerto e guerriglia odonomastica.
DI ASSEGNAZIONE DI ODONIMI A VIE E PIAZZE
Nel caso delle grosse città, l’iter amministrativo che porta all’assegnazione di un odonimo a una strada è subordinato al parere di una commissione composta di solito da rappresentanti del Comune e dell’ufficio toponomastica.
La delibera della commissione deve essere sottoposta al vaglio della giunta comunale e al prefetto per l’autorizzazione definitiva.
Nella scelta dell’odonimo, la commissione tiene conto della toponomastica preesistente e della particolare storia di un quartiere. Può prendere in considerazione segnalazioni di comitati di cittadini, associazioni pubbliche o private. A loro sta il compito di raccogliere e presentare la documentazione sul personaggio a cui si desidera dedicare una via. In questi casi la persona deve essere morta da almeno dieci anni, fatta salva qualche personalità di spicco.
Nel caso di piccoli centri urbani, l’iter prevede il coinvolgimento della polizia municipale e dell’urbanistica, sempre previa approvazione della giunta comunale.
Alcune delle amministrazioni più ‘illuminate’ hanno preso coscienza della capacità degli odonimi di riflettere l’anima di un paese e della sua comunità e sono intervenute per modificare l’intitolazione di vie a personaggi e luoghi del fascismo e del colonialismo.
A Madrid, grazie a una legge del governo spagnolo del 2007, sono state sostituite una cinquantina di odonimi dedicati a Franco e ad altri gerarchi franchisti, mentre a Berlino, sempre
nell’aprile di quest’anno, i nomi di personaggi legati al colonialismo africano sono stati sostituiti con nomi di combattenti per la liberazione.
In Italia un’esempio è stato quello della commissione alla toponomastica di Udine che, nel 2011 ha deciso di cambiare il nome di piazza Luigi Cadorna, il cui conclamato disprezzo per la vita dei soldati impiegati al fronte offende non solo la memoria dei tanti caduti sotto il suo comando, ma quella di chiunque ricordi il suo spocchioso agire alla testa delle truppe. La piazza oggi si chiama ‘piazzale Unità d’Italia’.
Il 27 settembre 2015 il collettivo Resistenze in Cirenaica, il cantiere culturale permanente che si è proposto di fare del rione Cirenaica un laboratorio di memoria storica per riportare alla luce il rimosso coloniale, unificare le resistenze, opporsi all’antirazzismo e all’antifascismo ed essere solidale coi migranti e profughi, ha fatto un primo intervento di rinominazione dal basso di via Libia coprendo i cartelli stradali ufficiali con quelli recanti l’odonimo Vinka Kitarovic.
Per l’intera giornata, e fino a quando le autorità e qualche solerte cittadino con ‘poca simpatia per l’iniziativa’, non hanno rimosso i cartelli, la via è stata intitolata a una partigiana croata di Šibenik deportata in Italia nel 1942 che, dopo essere stata rinchiusa nell’istituto per la rieducazione delle minorenni traviate in via Viola a Borgo Panigale, nel 1943 divenne staffetta della 7^ GAP, adottando il nome di Lina.
Da allora, molto altri cartelli in diverse città d’Italia sono stati ‘hackerati’ o ‘aumentati’. In via Libia a Bologna e in via Tripoli a Casalecchio, per fare degli esempi locali, sotto il nome della strada è apparsa la scritta Luogo di crimini del colonialismo italiano, o in via Vittorio Bottego, sempre in città: esploratore e pluriomicida.
La guerriglia odonomastica è uno strumento per riscuoterci dall’amnesia, un atto di resistenza con valore contro-informativo che contribuisce a smontare le false credenze e a mettere in rilievo storie accantonate o ignorate.
È un gesto di riappropriazione degli spazi cittadini, dell’ambiente circostante; è un atto di consapevolezza e di coscienza per ricordare ciò che siamo stati e assumerci la responsabilità di ciò che abbiamo compiuto.
Perché sapere ciò che è stato in passato, alla luce di ciò che siamo oggi, permette di promuovere il dibattito sulle figure ignobili della nostra storia. La guerriglia odonomastica pertanto è un atto politico.
LA NASCITA DI RIC, DELLA GUERRIGLIA ODONOMASTICA E NON SOLO.
Come già detto RIC è un cantiere culturale permanente con l’obiettivo di liberarsi di ogni sguardo italocentrico ed eurocentrico, che si propone di leggere le resistenze europee come parte di un ciclo più lungo e d’inserirle in un contesto planetario, quello della lotta anticoloniale attraverso la valorizzazione del ‘rovescio’ del Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire: «se il progetto hitleriano, all’osso, consisté nell’aver applicato all’Europa metodi colonialistici che fino a quel momento avevano subito solo gli arabi d’Algeria, i coolies dell’India e i negri dell’Africa», allora la resistenza al nazifascismo fu anche una guerra anticoloniale nel cuore d’Europa.
RIC crede che si possa e si deva ‘sprovincializzare’ e ‘creolizzare’ la narrazione delle guerre partigiane e i doppi nomi delle vie della Cirenaica gli hanno fornito un utilissimo spunto narrativo, che si integra alla perfezione col fatto che durante l’occupazione, nel rione si trovasse una tipografia clandestina e la sede del CUMER, il comando militare della Resistenza in Emilia-Romagna.
Il 27 settembre 2015, oltre all’intitolazione dal basso a di via Libia a Vinka Kitarovic, a conclusione di un’intera giornata di reading, storie musica e performance, RIC insieme a centinaia di persone ha reso omaggio a Lorenzo Giusti con una targa col suo nome e la scritta ‘ferroviere anarchico’ nel giardino a lui dedicato e strappato alla speculazione edilizia grazie a un movimento di cittadini dal basso.
La giornata è cominciata al Vag61 con un pranzo seguito da un trekking urbano per le vie del rione in cui Wu Ming 2 ha fatto tappa nella già via Rodi per raccontare la storia della famiglia Rossi e dei due fratelli, Giovanni detto Gianni e Gastone un coraggioso partigiano morto a soli sedici anni.
La passeggiata è proseguita e, all’imbocco dell’’ex via Zuara, si è narrata la storia di Massenzio Masia, che si distinse tra le altre cose per aver messo in salvo dalla requisizione nazi-fascista la dotazione di radio custodita all’ospedale Sant’Orsola.
In via Mario Musolesi grandi e piccoli hanno ascoltato la storia del comandante Lupo e della brigata Stella Rossa. Le soste sono state introdotte dal canto delle giovani voci del coro R’esistente, mentre le camminate erano accompagnate dalla musica delle Brigate Sonore.
L’ultima tappa del trekking è stata in via Libia, ovviamente dedicata alla storia di Vinka. A seguire, tutti si sono spostati al Giardino Lorenzo Giusti per lo spettacolo della Compagnia Fantasma, che ha messo in scena il processo al capo della resistenza libica Omar al-Mukhtār; per il reading di Kai Zen J con il Buthan Clan sul bombardamento aereo dell’ospedale della Croce Rossa nei pressi di Malca Dida, per quello di Wu Ming 1 su Ilio Barontini, l’antifascista internazionalista per eccellenza conosciuto col nome di battaglia ‘Paulus’ e quelli di Valerio Monteventi su Paolo Fabbri, il figlio di mezzadri che dedicò anima e corpo alle lotte contadine, subì la galera e il confino e si uni ai partigiani e infine quello di Serafino D’Onofri su Lorenzo Giusti, il ferroviere anarchico che combatté in Spagna e partecipò alla resistenza nell’imolese.
A questa giornata inaugurale ne sono seguite molte altre a Bologna e in altre città tra cui Ferrara e Bolzano. La più recente si è svolta lo scorso ottobre a Palermo nell’ambito della dodicesima edizione di Manifesta, la biennale nomade europea di arte contemporanea, che ha ospitato la più grossa iniziativa di guerriglia odonomastica, intitolata Viva Menilicchi!, descritta con estro in un post su Giap, il blog di Wu Ming Foundation.
Resistenze in Cirenaica pubblica a cadenza irregolare i Quaderni di Cirene che riportano queste e altre esperienze oltre a saggi e interventi esterni.