• Migranti lungo la Rotta, quarantena permanente versione testuale

    A partire da marzo, mano a mano che il coronavirus dilagava per l’Europa, alcuni stati disposti lungo la dorsale balcanica hanno messo in atto provvedimenti che hanno interessato non solamente la popolazione locale, ma anche e soprattutto la popolazione migrante che vive all’interno dei centri di transito e per richiedenti asilo, allestiti e istituiti lungo la cosiddetta Rotta balcanica a partire dal 2016.
    Dopo il 2015, anno della “crisi dei rifugiati”, che ha visto arrivare in Unione europea quasi un milione di persone (di cui oltre 850 mila transitate dalla Grecia), a partire da marzo 2016 la Rotta balcanica è stata dichiarata ufficialmente chiusa, in base al controverso accordo turco-europeo, che prevede fondamentalmente che la Turchia – in cambio di 6 miliardi di euro versati dall’Ue e di un’accelerazione nelle trattative legate all’ingresso in Europa – gestisca i quasi 4 milioni di richiedenti asilo che si trovano nel suo territorio.
    Di fatto, però, quell’accordo (in realtà una dichiarazione congiunta tra le parti coinvolte) non ha fermato il flusso di persone on the move, ma lo ha solamente rallentato e reso più pericoloso; si calcola, in effetti, che tra il 2016 e il 2019 siano comunque passate circa 160 mila persone lungo questo corridoio migratorio.

    Confini incandescenti
    I paesi maggiormente interessati dalla presenza dei migranti in transito sono Grecia, Serbia e – a partire dal 2018 – Bosnia Erzegovina, diventata nella zona nord-occidentale il collo di bottiglia prima di entrare in Croazia e da lì nei Paesi Shengen, la meta cui maggiormente aspirano le persone, che provengono principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria, Iran e Iraq.
    Poco prima che la pandemia prendesse piede a livello globale, a partire da fine febbraio, la Rotta balcanica era tornata sui principali giornali e siti di notizie, perchè il presidente turco Recep Tayyp Erdo?an aveva annunciato di aver aperto i confini del paese ai migranti intenzionati a raggiungere l’Europa. Quella che sino a poco tempo prima sembrava solo una minaccia si è fatta realtà; nel giro di pochi giorni almeno 10 mila persone hanno raggiunto il confine terrestre tra Turchia e Grecia e hanno provato a sfondare i cordoni di sicurezza greci, trovando una risposta violenta, anche con il sostegno delle polizie e dei militari di altri governi europei.
    La situazione incandescente sul confine, che faceva immaginare uno scenario simile a quello del 2015, con migliaia di persone in transito lungo la rotta, si è però interrotta bruscamente con l’arrivo del virus e le misure di chiusura, limitazione di movimento e autoisolamento messe in atto in pratica da quasi tutti gli stati del mondo.
    Gli stati posti lungo la Rotta balcanica hanno non solo imposto misure restrittive alla popolazione locale, ma hanno chiuso la popolazione migrante all’interno dei campi, dispiegando forze speciali a controllarne i perimetri: nessuna nuova persona entra e nessuno esce, in una quarantena permanente.

    Prendono la strada dei boschi
    In Grecia si calcola una presenza di oltre 118 mila tra rifugiati e richiedenti asilo; circa 20 mila abitano nei 30 campi dislocati sul continente, molti vivono in appartamenti o shelter e oltre 38 mila sono bloccati nei campi ufficiali e informali sulle isole di Lesvos, Chios, Samos e Kos.
    In Serbia sono oltre 8.500 i richiedenti asilo e i migranti distribuiti nei 17 centri in gestione governativa all’interno del paese. Durante il mese di marzo polizia ed esercito locali hanno portato le persone che vivevano negli squat delle periferie di Belgrado e di Šid all’interno dei campi, che sono ora sovraffollati.
    Infine si calcola che in Bosnia Erzegovina ci siano circa 5.500 persone alloggiate in 9 campi per l’accoglienza, ma che almeno 2 mila vivano dormendo in edifici e fabbriche abbandonati o in tende e accampamenti di fortuna nei boschi lungo i confini con la Croazia. L’ampia presenza di persone che vivono fuori dai campi ufficiali ha fatto sì che il 17 aprile il consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina decidesse che ogni straniero che non ha un documento di identità valido e un indirizzo di residenza registrato presso l’ufficio stranieri del comune di competenza, verrà obbligatoriamente portato nei centri di ricezione, dove dovrà risiedere senza possibilità di uscire.
    Per questo motivo già dalle settimane precedenti, in località Lipa, cantone di Una Sana, territorio di Bihac, sono stati avviati di gran lena i lavori per mettere in piedi un nuovo centro temporaneo di transito. Il campo, costituito da ampi tendoni in cerata con letti a castello, container sanitari e toilette chimiche, è stato fortumente voluto dalla municipalità di Bihac per spostare dalle strade e da edifici diroccati le migliaia di persone che vagano tra le rovine senza cibo, acqua corrente, elettricità e vestiti. A partire dalla mattina del 21 aprile sono iniziati in maniera pacifica i trasporti dei migranti, scortati dalla polizia locale, al nuove centro in gestione all’Organizzazione mondiale dei migranti e al Danish Refugee Council. Al tempo stesso, decine di persone che non vogliono vivere nei centri e rimanere bloccate in quarantena a tempo indeterminato, hanno deciso di prendere la strada dei boschi e tentare di andare verso la Croazia o rimanere tra le foreste, in attesa che si allentino nei paesi europei le misure anti-Covid.
    Le preoccupazioni nutrite dalle diverse organizzazioni non governative e associazioni in tutti i contesti citati sono le medesime: i campi sono sovraffolati e non permettono di prevenire la diffusione del contagio, in molti centri i servizi igienici e i presidi sanitari sono insufficienti, in alcune realtà l’acqua non è potabile e fondamentalmente è impossibile mantenere le distanze. Le persone passano le giornate chiuse dentro strutture nella maggior parte dei casi fatiscenti, costrette a lunghe file per ricevere i pasti e sotto il controllo o della polizia e dell’esercito (come in Serbia e Grecia), che impediscono i tentativi di fuga dai campi, o delle imprese di sorveglianza private nei campi in Bosnia (campi gestiti da Iom, a differenza di Serbia e Grecia, dove sono in gestione governativa).
    Naturalmente, se già per la popolazione locale è difficile trovare mascherine usa e getta e guanti, per i migranti nei campi è pressochè impossibile, al punto che sia in Grecia che in Serbia, in alcuni dei centri i migranti hanno cominciato a cucire mascherine in stoffa, per la popolazione dei campi ma anche per la popolazione locale, supportati da alcune organizzazioni.
    In tutti i campi le organizzazioni che non si occupano di servizi primari, ma per esempio di interventi psico-sociali come Caritas, hanno dovuto sospendere o modificare le loro attività e instaurare una modalità di lavoro degli staff a rotazione, per preservare i propri operatori.

    Distanziamento impossibile
    Nonostante in Serbia e in Bosnia Erzegovina non siano stati ufficialmente accertati casi di persone positive al Covid19 tra i migranti nei centri, la stessa cosa non si può dire della Grecia, dove sono scoppiati almeno tre focolai, il primo a Ritsona, una ex base militare a 70 chilometri da Atene, che ospita oltre 3 mila persone, il secondo nel campo di Malakasa, dove è stato trovato un caso positivo tra gli oltre 1.600 residenti, il terzo nel sud della Grecia, a Kranidi, dove 150 su 497 persone di un ostello che ospita famiglie monogenitoriali sono risultate positive al test. In tutti i casi i campi sono stati posti in totale isolamento e quarantena per 14 giorni, e le persone non sono autorizzate a uscire dai loro container, stanze o tende. Per evitare che il fenomeno esploda soprattutto nei contesti come le isole, dove i campi sono sovraffolati e le condizioni di vita più miserevoli, il governo greco ha previsto lo spostamento di almeno 2.300 persone considerate più vulnerabili al virus sulla terraferma, in appartamenti, hotel e altri campi.
    In generale le reazioni dei migranti alle misure che sono state messe in atto sono state simili in tutti i luoghi. In primis vi è la sincera preoccupazione di ammalarsi nei campi; le persone sono consapevoli che igiene e misure di distanziamento sociale sono impossibili da tenere. Per fare un esempio, il Bira, un campo in Bosnia Erzegovina per uomini single e minori non accompagnati, che ha una capacità ufficiale di 1.500 persone, ne ospita più di 1.800 e nei container abitativi vivono non 6 persone, ma almeno il doppio. In luoghi così è impossibile fisicamente mettere in atto tutte le procedure necessarie a evitare il contagio.
    Altro punto che risulta particolarmente frustrante, soprattutto nei campi in Serbia e in Bosnia Erzegovina, è l’impossibilità di uscire fisicamente dai centri. Questo significa non poter esercitare nessuna libertà di movimento, non poter andare a comprare beni e cibo, magari non necessari per la sopravvivenza, ma di aiuto per resistere psicologicamente. Significa non poter andare a ritirare i soldi che i parenti mandano tramite Western Union e Money gram e ovviamente significa non poter tentare il game, il “gioco” di recarsi a piedi, da soli o guidati dai trafficanti, verso i confini, per cercare di valicarli.

    Gli interventi Caritas e Ipsia
    La frustrazione di rimanere bloccati a tempo indeterminato è molto alta; in molti dei campi sono scoppiate risse a volte anche molto violente, tra gli stessi migranti ma anche con le forze di polizia e di sicurezza preposte al controllo dei centri. Questi episodi, in Bosnia Erzegovina, sono avvenuti tra i minori non accompagnati del campo Bira, al Miral di Velika Kladuša, a Blažuj vicino a Sarajevo. Stesse dinamiche, con conseguente intervento pesante della security, a Krnja?a, Preševo e Adaševci in Serbia.
    Le organizzazioni impegnate nei centri per migranti potrebbero avere un importante ruolo di stress-relief (supporto in situazione di pressione psicologica) in un contesto di frustrazioni e violenze così diffuse, ma le organizzazioni che gestiscono i campi e i governi locali preferiscono una dimesione di chiusura quasi totale, senza capire che sarebbe importante prevenire la crescita di ulteriori tensioni.
    Caritas e Ipsia Acli, partner dei progetti lungo la rotta dei Balcani dal 2016, continuano – nella misura del possibile – le loro attività in Grecia, Serbia e Bosnia. Gli operatori locali sono portavoce e testimoni dei bisogni delle persone; anche se, a seguito dell’emergenza sanitaria, i ragazzi e le ragazze in Servizio civile all’estero hanno dovuto tornare in patria per non rimanere bloccati, e ciò ha tolto forze ed energie ai team locali, gli operatori sul terreno continuano il supporto alla popolazione migrante lungo la Rotta. Un piccolo apporto, in un mare di bisogni, ma il segno di un’attenzione e una prossimità che non devono essere cancellate dal virus.

    https://www.caritas.it/home_page/attivita_/00008790_Migranti_lungo_la_Rotta__quarantena_permanente.html

    #route_des_balkans #Balkans #Grèce #Croatie #campement #hébergement #camps #forêt #masques #distanciation_sociale #Grèce #Serbie #Bosnie #fermeture_des_frontières #frontières #coronavirus #covid-19 #Lipa #Bihac #OIM #IOM #Danish_Refugee_Council #Ritsona #Athènes #Malakasa #Kranidi #Bira #confinement #liberté_de_mouvement #Miral #Velika_Kladuša #Velika_Kladusa #Blažuj #Blazuj #Preševo #Adaševci #Krnja #Presevo #Adasevci

    ping @luciebacon

    • [Traduit par Chiara Lauvergnac, via Migreurop] 

      Migrants along the Route, permanent quarantine
      April 27, 2020
      Starting in March, as the coronavirus spread to Europe, some states located along the rear Balkan have implemented agreements that have affected not only the local population, but also and above all the migrant population living inside the transit and asylum seeker centers, set up and set up along the so-called Balkan route from 2016.
      After 2015, the year of the “refugee crisis”, which saw almost one million people arrive in the European Union (of which more than 850 thousand passed through Greece), starting from March 2016 the Balkan route was officially declared closed, on the basis of the controversial Turkish-European agreement, which basically provides that Turkey - in exchange for € 6 billion paid by the EU and an acceleration in negotiations related to entry into Europe - handles almost 4 million asylum seekers who we are in its territory.

      In fact, however, that agreement (actually a joint declaration between the parties involved) did not stop the flow of people on the move, but really slowed it down and made it more dangerous; it is estimated, in fact, that between 2016 and 2019 around 160 thousand people have passed through this migratory corridor.

      Red-hot borders

      The countries mainly affected by the presence of migrants in transit are Greece, Serbia and - starting from 2018 - Bosnia and Herzegovina, that became the bottleneck in the north-western area before entering Croatia and from there the Shengen countries, the destination which people aspire to, who are mainly from Afghanistan, Pakistan, Syria, Iran and Iraq.

      Shortly before the pandemic took off globally, starting from the end of February, the Balkan Route had returned to the main newspapers and news sites, because Turkish President Recep Tayyp Erdogan announced he had opened the borders to migrants willing to reach Europe. What seemed only a threat became reality; within a few days at least 10,000 people reached the land border between Turkey and Greece and tried to push through the security cordons, finding a violent response, also with the support of the police and military personnel from other EU countries.
      The incandescent situation on the border, which showed a scenario similar to that of 2015, with thousands of people in transit along the route, however, was abruptly interrupted with the arrival of the virus and the measures of closure of movement and the self-isolation put into practice by almost all states of the world.
      The states located along the Balkan route have not only imposed restrictive measures on the local population, but have closed the migrant population inside the camps, deploying special forces to control their perimeters: no new person enters and no one excludes, in a permanent quarantine.
      They take the road in the woods

      In Greece there are an estimated 118,000 refugees and asylum seekers; about 20 thousand inhabitants in the 30 camps located on the continent, many residents in apartments or shelters and over 38 thousand are blocked in the official and informal camps on the islands of Lesvos, Chios, Samos and Kos.
      In Serbia there are over 8,500 asylum seekers and migrants distributed in the 17 government-run centers within the country. During the month of March the police and army brought the people who lived in the squat on the outskirts of Belgrade and Šid into the camps, which are now overcrowded.
      Finally, it is estimated that in Bosnia and Herzegovina there are about 5,500 people housed in 9 camps for reception, but that at least 2,000 live sleeping in abandoned buildings and factories or in makeshift tents and camps in the woods along the borders with Croatia. On April 17, the Council of Ministers of Bosnia and Herzegovina decided that every foreigner who does not have a valid identity document and a residence address registered at the foreign office of the municipality of competence, will be obligatorily taken to the reception centers, where he must reside without possibility to go out. For this reason, work has already started in the past weeks, in Lipa, in the canton of Una Sana, in the Bihac area, to set up a new temporary transit centre. The camp, consisting of large tents with bunk beds, sanitary containers and chemical toilets, was fortuitously desired by the municipality of Bihac to move the thousands of people who wander through streets and ruined buildings without food, running water, electricity and clothes. Transportation of migrants, escorted by local police, to the new centre managed by the the World Organization for Migrants and the Danish Refugee Council began peacefully from the morning of April 21. At the same time, dozens of people who do not want to live in the centres and remain stuck in quarantine indefinitely, have decided to take the road through the woods and try to go to Croatia or stay in the forests, waiting for anti-Covid measures to loosen in the various countries.
      The concerns raised by the various non-governmental organizations and associations in all the contexts mentioned are the same: thecamps are overcrowded and do not allow to prevent the spread of the infection, in many centers the toilets and health facilities are insufficient, in some situations the water is not drinkable and basically it is impossible to keep your distance. People spend their days locked in structures in most cases dilapidated, forced to wait in long lines to receive meals and under the control of the police and the army (as in Serbia and Greece), which prevent attempts to flee the camps, or private surveillance companies in the camps in Bosnia ( managed by IOM, unlike Serbia and Greece, where they are under government management).
      Of course, if it is already difficult for the local population to find disposable masks and gloves, for migrants in the camps it is almost impossible, to the point that both in Greece and Serbia, in some of the centers the migrants have begun to sew masks in cloth , for the population of the campss but also for the local population, supported by some organizations.
      In all camps, organizations that do not deal with primary services, but for example with psycho-social interventions such as IPSIA/Caritas, have had to suspend or modify their activities and establish a rotating staff working mode, to preserve their operators.
      Impossible distancing

      Although cases of positive Covid19 people among migrants in the centers have not been officially recognized in Serbia and Bosnia and Herzegovina, the same cannot be said of Greece, where at least three outbreaks have erupted, the first in Ritsona, a former military base 70 kilometers from Athens, which houses over 3,000 people, the second in the Malakasa camp, where a positive case was found among the more than 1,600 residents, the third in southern Greece, in Kranidi, where 150 out of 497 people from a hostel hosting single parent families tested positive. In all cases the camps were placed in total isolation and quarantined for 14 days, and people are not allowed to leave their containers, rooms or tents. To prevent the phenomenon from exploding especially in contexts such as the islands, where the camps are overcrowded and the living conditions most miserable, the Greek government has disposed the movement of at least 2,300 people considered most vulnerable to the virus on the mainland, in apartments, hotels and other camps.
      In general, the reactions of migrants to the measures that have been put in place have been similar in all places. First of all, there is the sincere concern of getting sick in the camps; people are aware that hygiene and social distancing measures are impossible to maintain. For example, the Bira, a camp in Bosnia and Herzegovina for single men and unaccompanied minors, which has an official capacity of 1,500 people, is home to more than 1,800 and not just 6 people live in one container, but at least twice as many. In places like this it is physically impossible to put in place all the necessary procedures to avoid contagion.
      Another point that is particularly frustrating, especially in the camps in Serbia and Bosnia and Herzegovina, is the impossibility of physically leaving the centers. This means not being able to exercise any freedom of movement, not being able to go and buy goods and food, perhaps not necessary for survival, but of help to resist psychologically. It means not being able to go and collect the money that relatives send via Western Union and Money gram and obviously means not being able to try the game, the “game” to go on foot, alone or guided by traffickers, to the borders, to try to cross them.
      .
      The Caritas and Ipsia interventions

      The frustration of getting stuck indefinitely is very high; in many of the camps brawls sometimes even very violent broke out, among the migrants themselves but also with the police and security forces in charge of the control of the centers. These incidents in Bosnia and Herzegovina occurred among unaccompanied minors from the Bira camp, in Velika Kladuša’s Miral, in Blažuj near Sarajevo. Same dynamics, with consequent heavy security intervention, in Krnja? A, Preševo ​​and Adaševci in Serbia.
      Organizations engaged in migrant centers may have an important stress-relief role (support in situations of psychological pressure) in a context of such widespread frustrations and violence, but the organizations that manage the camps and local governments prefer an almost closed closure total, without understanding that it would be important to prevent the growth of further tensions.
      Caritas and Ipsia Acli, partners of projects along the Balkan route since 2016, continue - as far as possible - their activities in Greece, Serbia and Bosnia. Local operators are spokespersons and witnesses to people’s needs; even though, following the health emergency, the young men and women in the Civil Service abroad had to return to their homeland in order not to get stuck, and this took away local forces and energies. The operators on the ground continue to support the migrant population along the Route. A small contribution, in a sea of ​​needs, but the sign of attention and proximity that must not be erased by the virus.

      Silvia Maraone

      Caritas Italiana - Migranti lungo la Rotta, quarantena permanente

  • Asile : bilan en #France et en Europe pour #2019

    #Eurostat a publié le 3 mars 2020 des données relatives aux demandes d’asile, aux décisions prises et aux demandes en instance pour 2019. Cela complète des données publiées par le ministère de l’intérieur, l’#OFII et la #CNDA en janvier et permet de dresser une #cartographie de la demande d’asile en France et en Europe.
    Demandes d’asile en France : trois chiffres différents

    La particularité de la France est qu’elle ne comptabilise pas les demandes de la même manière que les autres pays européens et qu’il existe trois ou quatre données différentes.

    L’OFPRA comptabilise les demandes introduites auprès de lui, cela comprend les demandes des réinstallés qui sont,en pratique sinon en droit, exemptées d’enregistrement en GUDA, les réexamens et les demandes des « Dublinés » arrivés au terme de la procédure et qui peuvent introduire une demande OFPRA (les « requalifiés »)
    A partir de ces données, le ministère de l’intérieur transmet des donnés à Eurostat en retirant les demandes des réinstallés. Les données sont alors arrondies.
    L’OFII et le ministère de l’intérieur publient le nombre de demandes enregistrées dans les guichets unique des demandes d’asile ( GUDA) ainsi que le nombre de demandes enregistrées les années précédentes comme Dublinées qui à l’issue de la procédure, peuvent saisir l’OFPRA.

    En 2019, selon ces différentes sources, 119 915 (Eurostat), 123 530 (OFPRA), 143 040 (ministère de l’intérieur et OFII) premières demandes (mineurs compris) ont été enregistrées ou introduites soit une hausse de 10 à 11% des demandes par rapport à l’année précédente. S’ajoutent pour le chiffres du ministère de l’intérieur , 16 790 « requalifications » des années précédentes soit 171 420 demandes. Ce nombre est un nouveau record.

    Si on reprend les statistiques précédemment publiées, environ 135 000 personnes adultes ont été l’objet d’une procédure Dublin depuis 2016, environ 75 000 ont finalement accédé à la procédure OFPRA, près de 13 000 ont été transférées, un peu plus de 30 000 sont toujours dans cette procédure et près de 19 000 ont un destin indéterminé (une bonne part d’entre elles sont considérées en fuite)

    Selon le ministère de l’intérieur, un peu plus de 110 000 premières demandes adultes ont été enregistrées par les GUIDA. 39 630 étaient au départ « Dublinées » mais un peu plus de 9 000 ont vu leur demande « requalifiée en cours d’année. A la fin de l’année 51 360 demandes enregistrées en 2019 étaient en procédure normale et 37 770 en procédure accélérée (soit 26%). Si on ajoute à ce nombre, celui des requalifiés des années précédentes et les réexamens adultes, le nombre de demandes adultes est de 134 380 dont 31% sont en procédure accélérée et 25% Dublinées

    Nationalités de demandeurs d’asile

    L’Afghanistan est redevenu le premier pays de provenance des demandeurs d’asile avec selon Eurostat 10 140 demandes, principalement le fait d’adultes. Viennent ensuite deux pays considérés comme sûrs avec l’Albanie ( 9 235) et la Géorgie (8 280 demandes). La Guinée, le Bangladesh et la Côte d’Ivoire complètent le quintet de tête.

    Demandes d’asile des mineurs non accompagnés

    Le nombre de demandes des mineurs non-accompagnés est de 755 en 2019 contre 690 en 2018 soit une « hausse » de 9,4%. La première nationalité est l’Afghanistan avec 207 demandes suivi de la RDC, de la Guinée et du Burundi (vraisemblablement Mayotte).

    Réinstallations

    Le Gouvernement s’était engagé à accueillir 10 000 personnes réinstallées en 2018-2019. il a presque réalisé son objectif puisque 9 684 personnes sont arrivées dont 4 652 en 2019. La première nationalité est la Syrie avec plus de 6 600 personnes (en provenance de Turquie, du Liban et de Jordanie) , suivie de loin par le Soudan (1 372 en provenance principalement du Tchad) , l’Erythrée (474 en provenance du Niger et d’Égypte), la Centrafrique (464 en provenance du Tchad) et du Nigeria (261 en provenance du Niger)

    Décisions prises par l’OFPRA

    Selon le ministère de l’intérieur, l’OFPRA a pris près de 96 000 décisions hors mineurs accompagnants, dont 14 066 reconnaissances du statut de réfugié et 8 466 protections subsidiaires, soit un taux d’accord de 23.6% qui est en baisse par rapport à 2018.

    Les statistiques fournies par Eurostat sont nettement différentes puisque le nombre de décisions adultes est de 87 445 avec 9395 statuts de réfugiés et 8085 PS soit 20% d’accord. Cela s’explique par le fait que l’OFPRA comptabilise les statuts de réfugiés reconnus à des mineurs à titre personnel parmi les décisions « adultes » et par l’inclusion des personnes réinstallées (ce qui fait une différence non négligeable de 5 500 décisions).

    Comme pour les demandes d’asile, l’Afghanistan est la première nationalité à qui est octroyée une protection avec 4 660 décisions dont 4 235 protections subsidiaires (soit 60,3% d’accords). Malgré la baisse de la demande, le Soudan est la deuxième nationalité avec 1 915 protections (soit 59%). La Syrie arrive troisième avec 1 145 protections (sans compter les personnes réinstallées au nombre de 2 435 selon le HCR). A l’inverse, les trois pays comptabilisant le plus grand nombre de rejets sont l’Albanie (7 125, soit 6,1% d’accord), la Géorgie (7 080, soit 3,2% d’accord) et la Guinée ( 5 920, soit 10,1%).

    Quant aux décisions prises pour les mineurs, le taux d’accord est de 67% variant de 100% pour le Yemen, 95% pour le Burundi, 83% pour l’Afghanistan. En comptant les annulations CNDA le taux d’accord est de 82%.

    Une année exceptionnelle pour la CNDA

    La Cour nationale du droit d’asile qui a publié un rapport d’activité a quant à elle enregistré un peu plus de 59 000 recours dont 42% devaient être jugés en cinq semaines.

    La principale nationalité qui a déposé des recours est l’Albanie suivie de la Géorgie de la Guinée,du Bangladesh et de l’ Afghanistan.

    La répartition régionale réserve quelques surprises avec un poids relatif de certaines régions plus important que celui des demandes d’asile (notamment pour la Bourgogne Franche Comté et l’Occitanie). Il s’agit de régions où les ressortissants de pays d’origine sûrs sont assez nombreux.

    Le nombre de demandes et de décisions sur l’aide juridictionnelle est assez logiquement à la hausse avec plus de 51 000 demandes. Le bureau d’aide juridictionnelle a pris un nombre équivalent de décisions, favorables pour 94% des cas (contre 96% en 2018 , ce qui montre l’impact de la disposition de la loi obligeant à formuler cette demande dans un délai de quinze jours).

    La CNDA a pris un nombre record de 66 464 décisions dont 44 171 après une audience collégiale ou de juge unique et plus de 22 000 ordonnances, soit 33.5% des décisions.

    Pour les décisions prises après une audience, le taux d’annulation est de 35% en collégiale, de 23% pour celles à juge unique.

    Le délai moyen constaté pour les premières est de 294 jours, de 120 jours pour les secondes. Le délai moyen constaté est de 218 jours donc on peut déduire que les ordonnances sont prises dans un délai de 169 jours

    Le « stock » de dossiers s’est réduit à 29 245 dossiers (soit environ 35 000 personnes, mineurs compris) contre 36 388 en 2018. En conséquence, le délai moyen prévisible est de 5 mois et 9 jours. Cette baisse contraste avec l’augmentation sensible à l’ofpra (58 000 dossiers adultes en novembre).

    En ce qui concerne les nationalités, le plus grand nombre de décisions ont été prises pour des demandes albanaises, géorgiennes, ivoiriennes, guinéennes et haïtiennes. la Guinée devient la première. nationalité pour le nombre de reconnaissances du statut devant le Soudan et la Syrie (principalement des requalifications) Mais ce sont les Afghans avec 1 729 protections dont 1 208 PS , à qui la CNDA accorde le plus de protections (75% d’annulation) . A l’inverse, le taux d’accord est de 3% pour la Géorgie et de 1% pour la Chine (vraisemblablement massivement par ordonnances)

    On peut estimer le nombre de décisions définitives. Le taux d’accord est alors de 35% contre 41% en 2019.

    A la fin de l’année 2019 environ 110 000 demandes étaient en cours d’instruction à l’OFPRA ou la CNDA avec un nombre très important de dossiers afghans et bangladais.

    Un dispositif d’accueil saturé ?

    En données brutes, selon l’OFII, le dispositif national d’accueil comptait 81 866 places stables fin 2019 . Parmi elles, 78 105 soit 95.4% étaient occupées. 73 468 personnes sont entrées dans un lieu contre 73 396 en 2018 dont 13 372 Afghans et 65 079 en sont sorties (contre 66 006 en 2018)

    Parmi les 71 805 places, 53 319 sont occupées par des demandeurs à l’OFPRA, 7 201 par des Dubliné·e·s (soit à peine 20% de cette catégorie), 12 306 par des réfugié·e·s et 5 279 par des débouté·e·s. Les personnes « en présence indue » représente 12.3% des places.

    Mais à regarder de plus près, ces chiffres semblent erronées. D’abord parce que le parc géré par l’OFII est en diminution (81 866 contre 93 000 en 2018) car il a été décidé d’exclure les places CAES et les hébergement non stables (hôtels). Mais le bât blesse encore plus lorsque l’on compare les données du ministère et celle de l’OFII : il manque ainsi plus de 2 360 places de CADA, 369 places de PRADHA et 600 places d’HUDA stables (les hôtels avoisinant 11 000 places)

    Dès lors, si on rapporte le nombre de personnes présentes à celui des places autorisées fourni par le ministère, le taux d’occupation dans les CADA est de 90% et même en deçà dans trois régions (AURA, Nouvelle Aquitaine, et Occitanie) et de 93% au total (soit 7 000 places vacantes ou non répertoriées à la fin de l’année). En clair, c’est la confirmation qu’il y a un sérieux problème d’attribution des places CADA (et des CPH) . Surtout la moitié des personnes qui demandent asile ne sont pas hébergées avec des grandes variations entre régions (71.5% en Ile-de-France et 12% en Bourgogne-Franche-Comté)

    La France au coude à coude avec l’Allemagne.

    Pour la première fois depuis 2012, la France a enregistré plus de premières demandes que l’Allemagne : 143 030 contre 142 450. C’était déjà le cas pour les premières demandes adultes depuis 2018 mais le nombre de mineurs était nettement plus important outre-Rhin. L’Espagne, qui est devenue le troisième pays d’accueil en Europe, compte plus de premières demandes adultes que l’Allemagne. En revanche, l’Allemagne reste en tête si on comptabilise les réexamens. Le nombre de demandes d’asile en Italie a diminué de moitié tandis que la Grèce connait une forte hausse avec 77 200 demandes.

    Quant aux décisions de première instance, l’Italie a « déstocké » massivement en prenant plus de 88 000 décisions adultes dépassant légèrement la France. L’Espagne a délivré des statuts humanitaires aux nombreux vénézuéliens qui ont demandé asile.

    Enfin la situation est contrastée en ce qui concerne les demandes d’asile en instance. L’Italie a diminué de moitié ce nombre, L’Allemagne l’a réduit de 40 000 tandis que l’Espagne et la Grèce ont dépassé les 100 000 demandes en instance. La France qui frôle les 80 000 dossiers en instance à l’OFPRA (donc sans compter les 50 000 Dublinés en cours d’instruction) a connu une forte hausse.

    https://www.lacimade.org/asile-bilan-de-lasile-en-france-et-en-europe2019
    #asile #statistiques #chiffres #visualisation (mais elle est tellement moche que ça fait mal aux yeux...) #Dublin #recours #demandes_d'asile #nationalité #MNA #mineurs_non_accompagnés #réinstallation #décisions #accueil #hébergement #taux_d'acceptation

    ping @reka @isskein @karine4

    • Dispositif d’#accueil des demandeurs d’asile : état des lieux 2020

      Etat des lieux des dispositifs d’accueil et d’hébergement dédiés aux personnes demanderesses d’asile et réfugiées.

      43 600 PLACES DE CADA
      Au 1er janvier 2020, le dispositif national d’accueil compte environ 43 600 places autorisées de centres d’accueil pour demandeurs d’asile (#CADA). Le parc est principalement situé en Ile- de-France, Auvergne-Rhône-Alpes et Grand Est. Cependant, ce sont les régions Pays de la Loire, Bretagne, Nouvelle Aquitaine et Occitanie qui ont connu le plus grand nombre de créations. Le principal opérateur est #ADOMA devant #COALLIA, #FTDA, #Forum_réfugiés-Cosi. A l’occasion des appels à création des dernières années , le groupe #SOS et #France_Horizon ont développé un réseau important.

      Selon le ministère de l’intérieur, le dispositif est destiné à accueillir des personnes dont la demande est en procédure normale et les plus vulnérables des personnes en procédure accélérée

      64 500 PLACES D’AUTRES LIEUX D’HÉBERGEMENT (APPELÉS GÉNÉRIQUEMENT #HUDA)
      Pour pallier le manque de places de CADA, un dispositif d’#hébergement_d’urgence_des_demandeurs_d’asile (HUDA) s’était développé au cours des décennie 2000 et 2010. Ce dispositif est géré régionalement. Il est très développé en Auvergne-Rhône-Alpes et dans le Grand Est et a intégré en 2019 les 6 000 places d’#ATSA qui naguère était géré par le ministère et l’#OFII central et la majorité des places dites CHUM qui existaient en Ile-de-France. Selon la circulaire du 31 décembre 2018, ce dispositif est destiné à accueillir des personnes en #procédure_accélérée ou Dublinées. 36% des places sont des nuitées d’hôtel notamment à Paris, à Lyon, à Marseille ou à Nice. Une information du ministère de l’intérieur du 27 décembre 2019 veut réduire cette part à 10% en ouvrant des structures stables.

      Mis en place pour orienter des personnes vivant dans le campement de la Lande à Calais et développé pour son démantèlement, le dispositif des centres d’accueil et d’orientation (#CAO) a compté selon le ministère de l’intérieur 10 000 places dont 2 000 ont été dédiés à des mineurs entre novembre 2016 et mars 2017. Ce dispositif a été rattaché budgétairement depuis 2017 aux crédits de la mission asile et immigration (BOP 303) et est géré depuis par l’OFII. Ces places sont intégrés dans le dispositif HUDA

      5 351 places ont été créées dans le cadre d’un programme d’accueil et d’hébergement des demandeurs d’asile (#PRAHDA). Lancé par appel d’offres en septembre 2016 remporté pour tous les lots par ADOMA, il consiste en grande partie en des places situées dans d’anciens #hôtels formule 1, rachetés au groupe #Accor. Ces places, gérées par l’OFII, accueillent pour moitié des personnes isolées, qui ont demandé l’asile ou qui souhaitent le faire et qui n’ont pas été enregistrées. Ce dispositif s’est spécialisé dans beaucoup de lieux dans l’hébergement avec #assignation_à_résidence des personnes Dublinées notamment ceux situés à proximité d’un #pôle_régional_Dublin. Cependant des personnes dont la demande est examinée à l’OFPRA ou à la CNDA y sont également logées.

      Dernier dispositif mis en place en 2017 mais destiné aux personnes qui souhaitent solliciter l’asile, les #centres_d’accueil_et_d’étude_de_situations (#CAES) comptent environ 3000 places. Leur particularité est un séjour très bref (en théorie un mois, deux mois en réalité) et d’avoir un accès direct aux #SPADA.

      L’ensemble des structures sont des lieux d’hébergement asile où l’accueil est conditionné à la poursuite d’une demande d’asile. Des arrêtés du ministre de l’intérieur en fixent le cahier des charges, le règlement intérieur et le contrat de séjour. L’OFII décide des entrées, des sorties et des transferts et les personnes qui y résident sont soumises à ces prescriptions, notamment à ne pas les quitter plus de sept jours sans autorisation ou peuvent y être assignées à résidence.

      Enfin, environ 1000 places de #DPAR sont destinées à l’assignation à résidence des déboutées du droit d’asile sur orientation des préfets et de l’OFII. Ces structures sont financées par une ligne budgétaire distincte des autres lieux.

      PLUS DE 8 700 PLACES DE #CPH POUR LES BÉNÉFICIAIRES DE PROTECTION INTERNATIONALE.
      Historiquement, première forme de lieu d’accueil lié à l’asile, le centre provisoires d’hébergement accueille des réfugié·e·s et des bénéficiaires de la protection subsidiaire. Limité pendant vingt ans à 1 083 places, le dispositif a connu un doublement avec la création de 1 000 places supplémentaires en 2017. 3 000 places supplémentaires ont été créées en 2018 et 2000 autres en 2019 soit 8 710 places.

      Pour accélérer les arrivées de personnes réinstallées, l’État a mis en place des centres de transit d’une capacité de 845 places au total.

      En tout le dispositif d’accueil dédié compte plus de 108 000 places. Selon l’OFII, il est occupé à 97% soit 87 000 personnes hébergées dont 75% ont une demande d’asile en cours d’examen.

      Cependant il reste en-deça des besoins d’hébergement car le nombre de demandeurs d’asile en cours d’instance bénéficiant des conditions d’accueil est de 152 923 en octobre 2019 contre 127 132 en mai 2018. Une partie des places (environ 25%) est occupée par des personnes qui ne sont pas encore ou plus demanderesses d’asile (demandes d’asile non enregistrées dans les CAES, bénéficiaires de la protection internationale ou déboutées). Malgré la création massive de places, le dispositif national d’accueil n’héberge que les deux cinquièmes des personnes. En conséquence, plus de 70 000 personnes perçoivent le montant additionnel de l’allocation pour demandeur d’asile de 7,40€ par jour pour se loger. Environ 20 000 autres sont dépourvues de ces conditions car ayant demandé l’asile plus de 90 jours après leur arrivée, ayant formulé une demande de réexamen ou sont considérés en fuite.

      https://www.lacimade.org/schemas-regionaux-daccueil-des-demandeurs-dasile-quel-etat-des-lieux

      #Dublinés

  • Via Migreurop

    Grèce, le 10 avril 2020
    Mouvement de protection des réfugiés et par l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés

    L’Agence des Nations Unies pour les réfugiés a proclamé hier la location d’hôtels pour l’accommodation de demandeurs d’asile et de réfugiés qui se trouvent dans des îles grecques. Le but est l’accommodation immédiate de tous ceux qui vivent à ce moment dans des camps et qui appartiennent aux groupes vulnérables, lesquels seront affectés directement par la pandémie de covid 19 dans le cas de son expansion dans les camps.
    L’appel d’offres s’adresse aux propriétaires des entreprises d’hébergement qui sont fermées aujourd’hui (hôtels, auberges, chambres d’hôtes etc), se trouvant dans les îles de Lesvos, de Chios, de Samos, de Kos et de Leros, ainsi qu’en Crète et Rhodes. La disponibilité des lieux offerts doit être IMMEDIATE et la durée de la location sera de trois mois.

    L’appel d’offres en détail à lire sur :
    https://www.unhcr.org/gr-tenders/entry/17409

    Source (en grec) : https://www.stonisi.gr/post/8276/kinhsh-prostasias-ntopiwn-kai-prosfygwn-apo-thn-ypath-armosteia-toy-ohe

    #Covid-19 #Migration #Migrant #Balkans #Grèce #Camp #Hébergement #UNHCR #appeldoffre #transfert #ilegrecques #entreprises #Lesbos #Chios #Samos #Kos #Leros #Crète #Rhodes

  • Mise à l’abri des personnes sans domicile à #Grenoble dans les places d’internat restées vacantes

    Notre association est préoccupée de l’état de #santé des personnes sans abri ou dans des logements de fortune particulièrement exposées au virus. Le #confinement généralisé suppose d’avoir la capacité d’héberger ou de loger toute personne vivant à la rue. Or si l’Etat a décidé de prolonger de deux mois la #trêve_hivernale, permettant ainsi le maintien ouvert des #hébergements_hivernaux et la #suspension des #expulsions locatives, le parc d’#hébergement_d’urgence reste structurellement sous- dimensionné au regard des besoins. Il en va de même de l’hébergement pour demandeurs d’asile dans le #dispositif_national_d’accueil géré par l’#OFII. Si le Ministère de l’Intérieur a suspendu l’enregistrement des nouvelles demandes, les personnes n’auront pas accès à l’hébergement via l’OFII. Nous notons, par ailleurs, que les entrées dans les dispositifs dédiés se trouvent entravées par les difficultés liées au pilotage particulièrement en cette période de #crise_sanitaire. Des places sont disponibles mais les #demandeurs_d’asile n’y ont pas accès en raison de l’approche catégorielle de l’hébergement et de la lourdeur du pilotage de l’orientation. Les conséquences à ces entraves à un #accueil digne et humain sont perçues et subies très directement à l’échelle du territoire grenoblois par l’ensemble des acteurs. Les demandeurs d’asile, finiront pour certains à renoncer à leur droit à l’hébergement, ce qui peut avoir des conséquences particulièrement graves en termes de #santé_publique. Ces personnes sans domicile qui sont parmi les plus vulnérables au virus sont aussi les moins protégées, confrontées aux défaillances chroniques d’un système de l’hébergement structurellement sous doté. L’annonce des mesures de confinement a provoqué la fermeture de notre accueil au public et un fonctionnement dégradé de nos services, mais nous tentons de garder le lien avec les personnes que nous accompagnons.
    Nous nous sentons néanmoins démunis et en appelons à la #réquisition des places dans les internats restées vacantes pour éviter une catastrophe humanitaire. Aussi, nous vous invitons à vous rapprocher de la Direction Départementale de la Cohésion Sociale afin d’organiser des orientations permettant de mettre à l’abri ces populations vulnérables et de fournir au personnel bénévole des protections dans cet accompagnement.
    Nous nous tenons à votre disposition pour tout renseignement complémentaire.
    Jacqueline Leininger,
    Présidente de l’ADA – #Accueil_Demandeurs_d’Asile

    –-> #Lettre de l’ADA à #Laurent_Wauquiez, président de la région #Auvergne-Rhône-Alpes du 30.03.2020, reçue via mail le 07.04.2020

    #mise_à_l'abri #SDF #sans-abri #coronavirus #France #covid-19 #hébergement #asile #migrations #réfugiés

  • Dans les #Alpes, face au #coronavirus, mettre les migrant·es à l’abri

    Alors que les #Hautes-Alpes regorgent d’#infrastructures_touristiques inutilisées pendant la période de #confinement, aucune #mise_à_l’abri préventive n’a été décidée pour les 120 personnes précaires du département. Malgré tout, les associations s’organisent et ripostent.

    Depuis le début de l’épidémie de coronavirus, les migrant·es ne viennent plus, après avoir traversé le col de Montgenèvre à pied de nuit, toquer à la porte du #Refuge_solidaire de #Briançon (Hautes-Alpes). De chaque côté de la frontière, les populations sont confinées, coronavirus oblige. Les #maraudes, qui venaient en aide aux exilé·es dans la #montagne, sont suspendues. Depuis le début du confinement, le Refuge, qui fourmillait de bénévoles venu·es donner un coup de main, est désormais fermé au public et quasiment autogéré par les 14 migrants accueillis.

    « On fait en sorte qu’il y ait le moins de #bénévoles possible qui passent, explique Pauline, coordinatrice du Refuge. On a peur de leur transmettre le #virus. Si quelqu’un l’attrape, on peut être sûr que tout le refuge sera infecté. » Les exilé·es ont compris les enjeux sanitaires, mais, dans un lieu de vie collectif, le respect des #mesures_barrières et de la #distanciation_sociale est difficile.

    Limiter le risque de contamination grâce à l’#hébergement_préventif

    Si le problème se pose à Briançon, où 14 personnes sont accueillies dans le Refuge solidaire et 15 autres dans le squat #Chez_Marcel, à Gap (Hautes-Alpes), la situation est plus grave encore. Là-bas, une soixantaine de personnes vivent au #squat du #Cesaï dans des conditions de #promiscuité et d’hygiène « déplorables » selon les associations. « Toutes les fontaines de la ville de #Gap sont fermées, constate Carla Melki, qui gère la crise sanitaire du coronavirus dans les Hautes-Alpes pour Médecins du monde. Une mesure dont souffrent les migrants : « C’est impossible pour les personnes précaires de se doucher, ou même de se laver les mains. » Après des demandes insistantes, des #douches ont été ouvertes trois fois par semaine « pour un minimum de #dignité ». Les conditions d’habitat précaires sont loin de permettre les mesures de protection qu’impose l’urgence sanitaire.

    « On pourrait limiter le risque contamination de ces publics précaires en leur offrant un hébergement préventif, regrette Carla Melki. Dans les Hautes-Alpes, on parle de 120 personnes à héberger. Dans un département où il y a d’énormes infrastructures touristiques qui ne sont plus utilisées, la possibilité de mettre à l’abri paraît plutôt facile. »

    « Ce qu’on déplore toujours c’est la prévention »

    À l’absence de possibilité de confinement correct pour les personnes démunies, s’ajoute un #accès_aux_soins rendu plus difficile par la fermeture des Permanences d’accès aux soins (Pass). Elles permettaient aux personnes sans couverture maladie de bénéficier d’une offre de #santé. Leur personnel soignant a été redéployé dans les services hospitaliers surchargés. « On fait face à une #crise_sanitaire. On comprend que les hôpitaux centrent leurs forces sur les urgences et les tensions qui risquent d’arriver dans les prochains jours », estime Carla Melki.

    Pour pallier ce manque, Médecins du monde, financé par l’Agence régionale de santé (ARS), a mis en place une #unité_mobile #Santé_précarité. Elle prend en charge les publics fragiles, notamment les migrants, dans le cadre de l’#épidémie de coronavirus. « On va vers les personnes dans les lieux d’accueil, comme le Refuge solidaire, Chez Marcel ou le Cesaï à Gap », détaille Carla Melki. Là, l’équipe effectue un travail de #prévention et d’#information autour de la #Covid-19, ainsi qu’une #veille_sanitaire. « Dans les #Hautes-Alpes, le dispositif mis en place me semble adapté, conclut-elle. Ce qu’on déplore toujours, c’est la prévention. Il vaut mieux prévenir que guérir. C’est là-dessus qu’on aimerait voir un pas en avant de la préfecture. »

    https://radioparleur.net/2020/04/03/urgence-sanitaire-mise-a-labri-migrants-coronavirus-dans-les-hautes-al
    #asile #migrations #réfugiés #tourisme #précarisation #frontière_sud-alpine

    ping @thomas_lacroix @karine4 @isskein

  • Berlin ready to airlift Greek island refugees

    German activists have collected funds to start airlifting refugees and asylum seekers from the Greek islands to Berlin.

    “If the governments say yes, we can start immediately. It is a matter of organisation with a flight broker, which means it could take two days,” Axel Steier of the German NGO #Mission_Lifeline, told EUobserver on Tuesday (31 March).

    Steier, who co-founded the NGO, says they collected €55,000 in donations following plans by city of Berlin state politicians to relocate 1,500 people or possibly more stuck on the Greek islands to the German capital.

    He says German church affiliated charity organisations like #Diakonie and #Stadtmission_Berlin have agreed to help when it comes to housing the new arrivals.

    The money collected covers two flights but the NGO is seeking more donations to continue future airlifts.

    “We try to finance more now so we can make an airlift between #Lesbos and Berlin and if there is more money and more willing local governments we can bring more,” said Steier.

    Some 42,000 refugees, asylum seekers and migrants are spread out across five Greek Aegean islands. Of those, around 20,000 are crammed into Moria, a camp on the island of Lesbos, and whose facilities are designed to accommodate 3,000.

    Faced with deplorable conditions described as among the worst in the world when it comes to refugee camps, fears are mounting of a looming Covid-19 outbreak amid reports by Human Rights Watch that Greece is also arbitrarily detaining nearly 2,000 people on the mainland.

    The urgency of the efforts to decongest the islands has since led to a new proposal by the Berlin state government to bring in the most vulnerable.

    In an interview with German media outlet Der Tagesspiegel, Berlin’s justice minister Dirk Behrendt said the idea had received cross party support at the state level and that the city is ready to take in people.

    “The red-red-green state government is completely on the same page,” he said, in reference to party coalition colours spanning the Social Democratic Party, Left Party, and the Greens.

    “If something doesn’t happen very quickly at the federal level - and for me this is more a question of hours than days - then Berlin is also prepared to take its own steps together with civil society organisations and fly people out of Lesbos,” he said.

    He noted while Germany was able to repatriate 170,000 holiday-makers around the world in a matter of days due to the pandemic, the federal government is still dithering about on earlier pledges to relocate unaccompanied minors from Greece.

    “There is apparently a reluctance in Germany because there are fears of playing into the hands of the AfD [Alternative for German, a far-right political party] with a large-scale evacuation operation,” he told Tagesspiegel.

    The EU had earlier this year cobbled together a plan to evacuate 1,600 unaccompanied minors in the aftermath of Turkey’s failed efforts to force political concessions after opening its borders for migrants to cross into Greece.

    Croatia, France, Germany, Ireland, Italy, Luxembourg and Portugal were among the first to agree to take in the minors but the proposal stalled following the outbreak of Covid-19. Some states, such as the Netherlands, have flat out refused.

    “We are not willing to take over children,” said Dutch migration minister Ankie Broekers-Knol earlier this month.

    https://euobserver.com/coronavirus/147944
    #Allemagne #asile #migrations #réfugiés #pont_aérien #Grèce #îles #évacuation #relocalisation #société_civile #Berlin #solidarité #accueil #hébergement #coronavirus #vulnérabilité

    ping @thomas_lacroix @isskein

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    @karine4 en lien avec la question des #villes-refuges, quelques citations :

    Berlin’s justice minister Dirk Behrendt said the idea had received cross party support at the state level and that the city is ready to take in people.

    “If something doesn’t happen very quickly at the federal level - and for me this is more a question of hours than days - then Berlin is also prepared to take its own steps together with civil society organisations and fly people out of Lesbos,” he said.

    Ajouté à la métaliste sur les villes-refuge

  • Le #mal-logement et ses enjeux à #Marseille, une veille cartographique (2018-2020)

    L’effondrement de deux immeubles dégradés du centre ville le 5 novembre 2018, faisant huit victimes, a déclenché une vague sans précédent de milliers d’évacuations préventives d’immeubles dégradés reconnus “en péril”, éclairant subitement les problèmes anciens de logement, de pauvreté et les besoins en matière de politiques publiques à Marseille. L’un des deux immeubles non entretenus et effondrés appartenait depuis des années à la Ville à travers sa société Marseille Habitat, l’autre à des propriétaires privés.
    Ce double effondrement a provoqué un choc émotionnel et politique, révélant le bilan de décennies de “laisser-faire” face au mal-logement et aux risques environnementaux urbains dans le centre de Marseille (la pluie et les glissements de terrain, invoqués comme cause des effondrements). La soudaineté des évacuations déclenchées ensuite (entre 3000 et 4000 personnes) évoque un contexte d’urgence humanitaire plus habituel dans les villes des Suds qu’en France. En février 2020, ce sont 497 adresses qui au total ont été évacuées en urgence . En mars 2020, ces évacuations se poursuivent et continuent à toucher des habitants de quartiers centraux (Noailles, Belsunce, Panier, Joliette) et péri-centraux (Belle de mai, Versailles), et de quelques copropriétés dégradées périphériques.
    Ces événements, cette crise et sa gestion questionnent la responsabilité des pouvoirs publics, celle des acteurs privés et la place des habitants plus précaires dans la cité. Après de fortes mobilisations sociales, de longues négociations entre pouvoirs publics et associations ont abouti à l’adoption d’une charte du relogement , signée entre la Ville, l’Etat, des collectifs et associations le 8 juillet 2019. Le suivi de cette charte se fait à travers des réunions périodiques entre signataires, non sans tensions dans un contexte pré-électoral. En janvier 2020, la conseillère municipale en charge de ce dossier démissionne de ses fonctions d’ajointe au logement en regrettant le manque de moyens publics et le non respect de cette charte. Plus d’un an après, le bilan de la gestion de cette crise humanitaire et du respect de cette charte n’a toujours pas été réalisé, un appel d’offre est en cours. La mobilisation d’associations pour remettre le mal-logement au centre de l’agenda politique marseillais a trouvé un écho néanmoins assez atténué au moment des élections municipales de mars 2020.

    Sur ces questions, nous avons contribué au rapport du Haut Comité au Logement des Personnes Défavorisées (HCLPD), Marseille, de la crise du logement à la crise humanitaire (novembre 2019) puis en lui fournissant unRecueil_de cartes_2019_sur_Marseilleet son contexte social, notamment celui du logement social (mise en ligne sur le site du HCLPD février 2020).
    Le caractère dramatique de l’événement déclencheur ne doit pas occulter les problèmes de fond, structurels, bien connus des observateurs à Marseille : fortes inégalités sociales et fragmentation urbaine, pauvreté (26%, 200 000 personnes) très concentrée au centre ville, dans plusieurs grosses copropriétés dégradées excentrées, et dans les quartiers où se concentre le logement social ancien.
    Ces problèmes sont aggravés par des inégalités de traitement entre les territoires de la ville, le manque de logements “très sociaux”, accessibles aux plus modestes, à la mesure des besoins (surtout en centre ville).


    Le mal-logement en période de confinement

    L’entassement des habitants dans des logements surpeuplés des quartiers populaires du centre-ville, des copropriétés dégradées et dans certaines cités de logements sociaux (Air bel) renforce les autres formes d’inégalités au quotidien en période de confinement face au Covid. Rappelons que les inégalités ne sont pas seulement intra-marseillaises, mais encore plus forte à l’échelle de la métropole Aix Marseille Provence. Cela nous est montré par l’analyse du nombre de personnes par pièce (qui rentre dans la composition de l’indice de surpeuplement, ce dernier, plus complexe, tient compte de la surface et de la proportion d’enfants). la carte suivante a été élaborée réalisée pour analyser les conditions de vie des jeunes en situation de confinement (dans le cadre du projet Graphite 2020).

    1.2018-2019 : une vague d’évacuations préventives dans le parc d’habitat dégradé des quartiers centraux
    Entre novembre 2018 et novembre 2019, selon nos estimations croisant et recoupant des sources officielles et d’associations, au moins 1300 foyers (plus de 3000 personnes) ont été évacués en urgence, d’immeubles principalement situés au centre et déclarés inhabitables. Début novembre 2019, nous avons dressé la carte des 409 immeubles touchés par l’un des 68 arrêtés et/ou des 330 arrêtés de péril qui se sont succédé et comportent une interdiction d’occuper (en examinant et en géolocalisant toutes les adresses concernées par les arrêtés, car un même arrêté peut concerner plusieurs immeubles, certains ne préconisent pas d’évacuation).

    A cette date, 399 immeubles avaient été évacués tout ou partie (immeuble entier en général, quelques appartements dans certains cas). La moitié environ d’entre eux font aujourd’hui l’objet d’une “mainlevée” de l’arrêté de péril.
    Ces arrêtés de péril concernent majoritairement des habitants très modestes, violemment déstabilisés par ces délogements. Après une gestion improvisée au début, parfois brutale et souvent conflictuelle, la mise en place de dispositifs professionnalisés a permis de mieux prendre la mesure de cette crise inédite. D’abord la mise en place de deux MOUS[1] , l’une pour le relogement temporaire des ménages évacués (10 décembre), l’autre pour leur accueil et leurs suivi social ( février). Les associations ont mené à bien la longue négociation d’une la charte du relogement (janvier-juin, validée en conseil municipal le 17 juin, signée le 8 juillet) entre Mairie, Etat, collectifs et associations, avec la création d’un comité de suivi partenarial. Elle garantit, entre autres, un “droit au retour au centre” des habitants évacués.
    Malgré la mise en place de ce comité de suivi réunissant régulièrement Ville, Etat, opérateurs privés (France Horizon, Soliha) et associations, les pouvoirs publics n’ont longtemps pas communiqué d’informations précises et localisées sur le devenir des ménages évacués. Une polémique sur les risques d’éviction de ces ménages les plus modestes hors du centre-ville s’est nourrie de ce climat d’urgence et d’opacité dans le contexte des forts enjeux de renouvellement urbain pour les vieux quartiers de Marseille proches du Vieux Port.

    2. Arrêtés de périls, évacuations : banalisation des procédures d’urgence
    Au fil des mois, et tandis que se mettent en place des plans de rénovation du centre-ville, les arrêtés de périls imminents et les évacuations se poursuivent. Chercheurs et étudiants d’Aix Marseille Université (LPED) ont continué la veille En février 2020, ce sont 497 adresses qui sont touchées par des arrêtés d’évacuation et/ou de péril imminent. On ne constate pas de changement majeur dans la localisation des zones concernées : hypercentre ville ancien, toujours. Dans le détail, on constate que certains nouveaux espaces sont concernés principalement à partir de l’été 2019, correspondant à des zones de chantiers de rénovation, comme si l’arrêté de péril imminent et l’évacuation en urgence des habitants devenait un outil pour sécuriser les aménagements en cours.

    3. une cartographie des évacuations d’urgence et des relogements : un travail collaboratif entre géographes universitaires, la Commission des délogés du Collectif 5 novembre, les associations Marseille en Colère, Un Centre Ville pour tous, en lien avec la Fondation Abbé Pierre
    L’initiative d’une cartographie des arrêtés de péril avait été lancée dès le mois de janvier 2019, en collaboration avec le journal Marsactu qui a créé une animation accessible en ligne [https://marsactu.fr/cest-mon-data-chronologie-dune-vague-de-perils/]. Puis, face à la carence et l’imprécision des données publiques sur les trajectoires des ménages évacués, nous avons élaboré un outil de suivi indépendant, en collaboration avec l’Association Un Centre Ville Pour Tous, la Fondation Abbé Pierre et avec un développeur informatique bénévole (Datas-Collect). [présentation de l’initiative ici, par le journal Marsactu]
    Ce travail, réalisé selon les règles de l’art scientifique (questionnaire, géoréférencement, saisie, vérifications, validation) a démarré avec des étudiants en février 2019. Il s’est appuyé sur la veille réalisée depuis novembre 2018 par les permanences de la Commission des délogés du Collectif 5 novembre et de l’Association Marseille en Colère. Depuis le 5 novembre 2018, les deux cellules de crise bénévoles de ces associations soutiennent et accompagnent sans relâche dans leurs démarches environ 500 ménages évacués[2].
    Après avoir conçu et construit l’outil en collaboration avec les associations (décembre-février), défini le cadre déontologique de la démarche (mars), il a été possible, avec l’appui d’étudiants volontaires, de cartographier et de documenter les trajectoires d’une partie de ces ménages.
    La démarche, basée sur de nombreuses rencontres avec les associations et des habitants évacués, a été volontairement tenue discrète, les participants s’y étant engagés afin d’éviter toute instrumentalisation des observations qui concernent 368 ménages sur les 500 environ référencés par les collectifs et associations (ceux pour lesquels les associations disposent d’une information suffisante).

    368 ménages évacués
    Hébergement temporaire 1 : 302
    Hébergement temporaire 2 : 100
    Hébergement temporaire 3 : 27
    Hébergement temporaire 4 : 11
    Relogement proposé 1 : 43
    Relogement proposé 2 : 9
    Relogement proposé 3 à plus : 6
    Relogement longue durée ou réintégration : 93

    En septembre 2019 les 368 ménages dont les trajectoires sont directement suivies par les collectifs et associations représentaient 955 personnes déplacées, 554 adultes, 309 mineurs de 4 à 18 ans, 72 enfants moins de 4 ans (dont 11 naissances pendant l’hébergement en hôtel). Le suivi des associations s’est concentré, au début, sur la gestion du quotidien. Les évacuations, surtout les premières semaines, ont été brutales, dans une ambiance de stress lié à une vague de signalements d’immeubles à risque à Marseille.
    Jusqu’en novembre 2019, et malgré une amélioration suivant la signature de la charte du relogement, certaines évacuations ont continué à être diligentées hors cadre légal, sans arrêté officiel (l’arrêté venant plusieurs jours après l’évacuation). Des habitants ont été évacués par les marins pompiers et la police en quelques dizaines de minutes, disposant ensuite d’une brève visite sous escorte pour récupérer quelques objets de première nécessité. les personnes ont alors été orientées vers des hôtels, une “cantine” d’urgence étant mise en place par la Ville sur la Canebière (Maison des associations). Sous la pression des associations, nombre de familles ont ensuite été placés dans des appart’hotels permettant la préparation de repas et un semblant de vie familiale.
    Au stade actuel de la saisie (mi sept. 2019), la carte montre 368 domiciles de ménages évacués depuis le 5 novembre (avec ou sans arrêtés de péril), leurs 441 hébergements temporaires successifs (hôtels, appart’hôtels), les appartements qui leur ont été proposés en convention d’occupation provisoire. Dans 93 cas, la trajectoire du ménage va jusqu’à la réintégration du domicile initial ou le relogement de longue durée, que ce soit via la médiation de SOLIHA ou par les propres moyens des ménages.
    Depuis l’été, de nouvelles évacuations d’immeubles en péril, parfois déclenchées par le voisinage, parfois associées à des travaux, à des projets de réaménagements du centre ville (périmètre de l’Opération d’Intérêt national EUROMED notamment) accroissent la pression.

    les hébergements d’urgence (hôtels et appart’hôtels)

    Pour les locataires évacués dans le cadre d’un Arrêté de péril (ce qui est la voie légale ), l’hébergement incombe légalement au propriétaire bailleur, le temps de réaliser les travaux prescrits. Nombre de propriétaires ont assumé correctement ce devoir. Mais les défaillances sont nombreuses, et sous la pression des associations, la Ville a assuré le relais – à charge pour les propriétaires de rembourser. Certains “marchands de sommeil” ont fait réaliser des travaux bâclés, insuffisants pour permettre une réintégration, ou réduits au strict minimum relatif à la sécurité, sans traiter l’insalubrité des immeubles (ou même en l’aggravant). Soucieux de rentabiliser la situation, certains propriétaires ont tenté de reloger leurs locataires dans d’autres logements tout aussi indignes. L’un a tenté de profité du relogement provisoire de ses locataires évacués pour détruire leurs affaires personnelles et relouer les appartements. Plusieurs immeubles évacués, mal sécurisés, ont été squattés, cambriolés en l’absence des habitants, et certains évacués ont tout perdu. Habitants et associations, soutenus par la fondation Abbé Pierre, ont lancé des procédures judiciaires. Très longues, certaines commencent tout juste à aboutir.
    Pendant des mois, le provisoire s’est prolongé pour les ménages les plus fragiles suivis par le Collectif du 5 novembre et Marseille en Colère.

    Le lancement d’une MOUS “relogement”[1] confiée à SOLIHA les 10 décembre a ouvert des perspective de captation de logements à titre temporaire auprès de bailleurs sociaux et privés afin que ces ménages retrouvent un équilibre, pendant les travaux de mise en sécurité de leurs immeubles demandés aux propriétaires. Nombre de séjours forcés en hôtels ont duré de plusieurs semaines à plusieurs mois, dans l’attente de ces travaux. A l’été, nombre de ménages n’avaient toujours pas pu regagner leur domicile initial , ni récupérer meubles et vêtements, ni être relogés. Beaucoup demeurent encore, 1 an après, dans l’incertitude, en situation d’attente de relogement pérenne. Selon la « MOUS Relogement », 142 ménages et 336 personnes étaient encore “hébergés à l’hôtel” au 18 octobre 2019.

    Mais où se trouvent-ils, dans quels hôtels ? Et où se situaient les offres de relogements temporaires de longue durée ou définitifs proposés au ménages évacués au cours de ces 10 mois ? Faute d’information, les bénévoles des associations ont réalisé un travail de suivi quotidien dans les hôtels. C’est ainsi qu’a été réalisée cette cartographie, avec la collaboration des familles concernées : elle montre qu’à part quelques hôtels très excentrés, surtout lors des premières semaines (La Valentine, l’Estaque), la plupart des hébergements provisoires ont été ensuite rapprochés du centre-ville. Mais pour des raisons logistiques, beaucoup des ménages non relogés ont du changer plusieurs fois d’hôtels, certains plus de 5 fois en quelques mois, cette instabilité accentuant le traumatisme initial.
    L’une des priorités des associations a été d’accompagner ceux qu’elles appellent les “délogés” dans cette période traumatisante, palliant ainsi les fortes carences publiques. Réconfort moral et écoute, collectes de vêtements d’hiver (en décembre), puis d’été (en mai juin), de jeux pour enfants, organisation des fêtes de fin d’année, aide aux démarches administratives, prise de contact avec des avocats, cellule psychologique assurée par des professionnels bénévoles etc.
    Collectifs et associations ont exercé leur influence pour obtenir des hébergement plus conforme à une vie familiale, le regroupement des familles, le rapprochement des hébergements du logement d’origine.

    des réintégrations sous tension

    Un an après, 181 immeubles objet d’un AP sont officiellement considérés comme “réintégrables” (novembre 2019) après travaux prioritaires de mise en sécurité et main levée partielle d’arrêté de péril. Mais certains d’entre eux sont toujours lézardés de fissures inquiétantes et demeurent, par ailleurs, insalubres, conduisant des habitants à craindre de s’y réinstaller. Ils se souviennent qu’au 65 rue d’Aubagne, en 2018, les habitants avaient été autorisés à réintégrer leur immeuble après une telle mainlevée d’arrêté de péril, avant que celui-ci ne s’effondre sur eux.

    Après la mainlevée d’arrêté de péril, la réintégration du domicile de départ est parfois refusée et souvent contestée : travaux incomplets, appartements non remis en état d’occupation après travaux de sécurisation, persistance de fragilités dans l’immeuble, insalubrité qui était parfois associée au péril, et n’a pas été résorbée, voire s’est aggravée suite à des mois de non occupation.
    Tout comme les permanences bénévoles d’accueil et d’aide aux évacués[3], ou l’accompagnement juridique et social des ménages, cette veille cartographique associant universitaires et bénévoles a fonctionné pendant l’été 2019 : informaticien, géographes, membres de la Commission des délogés du Collectif 5N, de Marseille en Colère, Un Centre Ville pour Tous avec l’appui de la Fondation Abbé Pierre.
    4.Bilan du suivi officiel des relogements temporaires en septembre 2019 : 1186 ménages évacués

    La description de ce dispositif collaboratif lors d’un entretien collectif auprès du journal MARSACTU le 5 juillet 2019 a suscité des échanges lors des comité de suivi de la charte du relogement de l’été 2019. Nous avions proposé aux pouvoirs publics et à SOLIHA (opérateur de la MOUS qui gère la recherche de relogements et l’accompagnement des familles) de s’associer à cette démarche. La préfecture a accepté le principe d’une collaboration en juillet 2019, des données nous ont été remises fin septembre 2019.Les pouvoirs publics (préfecture, Ville) ont alors commencé à donner plus de transparence aux chiffres de la MOUS relogement.

    Le 18 septembre 2019, avec l’accord de la préfecture et de la ville, SOLIHA a remis à l’Université des données chiffrées détaillées, anonymisées mais géolocalisables (adresses évacuées, adresses des relogements proposés et acceptés par les familles) concernant la MOUS relogement. Elles permettent de dresser un bilan de près d’une année de suivi des ménages évacués éligibles au relogement (locataires titulaires d’un bail). Plusieurs réunions et des échanges ont eu lieu pour valider, cartographier et diffuser ensemble des données de cette gestion de crise. Les cartes et graphiques qui en résultent ont été présentés en comité de pilotage de la MOUS relogement le 21 novembre 2019. [4]

    Il est donc possible de rendre compte de cette année de gestion de crise en combinant données officielles, éclairages du terrain et explications, ce qui peut favoriser le suivi de la “charte du relogement” et la concertation entre toutes les parties prenantes : habitants, organisations sociales, Collectivité, Etat.

    capter et sélectionner les logements

    La mission de la MOUS qui est de reloger temporairement les ménages évacués (locataires titulaires d’un bail) se base sur un repérage et une captation de logements sociaux et privés. Au début de sa mission le 10 décembre 2018, SOLIHA ne dispose que d’une centaine de logements pour plusieurs centaines de ménages évacués. En une année, plus d’un millier de logements ont fini par lui être proposés par bailleurs sociaux et privés, mais la moitié ont du être refusés en raison de leur éloignement du centre, ou de leur mauvais état. Seuls 550 baux environ ont été signés entre SOLIHA et les bailleurs, permettant ensuite d’y loger les ménages sous forme de “convention d’occupation temporaire”.

    les contraintes de l’offre de logements sociaux

    La mission de relogement des ménages évacués butte particulièrement sur le manque de logements sociaux au centre-ville ancien où prédomine d’un habitat privé, de rente locative, très dégradé. Dans l’ensemble, malgré une légère progression récente la ville de Marseille est légèrement déficitaire en logement SRU (21,01%), mais le déficit est plus fort si l’on exclut du calcul les logements étudiants et les logements de loyers “intermédiaires” qui, de fait, ne sont pas accessibles aux plus modestes… et de manière criante dans certains arrondissements : les logements sociaux familiaux, surtout les “très sociaux” sont peu nombreux au centre (1er, 2eme,4eme, 5eme) concentrés au Nord (15eme) et au centre nord de la ville(3eme), absents des arrondissements du sud (6eme, 7eme, 8eme) et du 12eme. La production de logements sociaux de ces dernières années a produit quelques milliers de logements “très sociaux”, mais presque tous dans les quartiers nord. Quelques milliers de logements “intermédiaires” créés autour des périmètres de projets (Euromed, ZAC ou zones de rénovation) sont inaccessibles aux plus modestes.

    Les contrastes, carences et besoins en logement social doivent aussi êtres lus à l’échelle de la métropole AMP (Aix Marseille métropole), dont les inégalités et le déficit de solidarité territoriale ont été pointées par un récent rapport de l’OCDE. La Métropole elle même s’est constituée tardivement et sous la pression de l’Etat, une partie des communes très favorisées du pays d’Aix refusant de s’associer à Marseille. En pleine crise du logement indigne et des évacuations, le programme local de l’habitat (PLH) métropolitain à l’échelle des 92 communes réunies, difficilement élaboré (et pourtant jugé trop timide par nombre d’associations) a été repoussé par une majorité des élus de la métropole, alors que plusieurs de ces communes comptent parmi les plus fortement carencées de France en logement social.

    4. Les enjeux
    En pleine période pré-électorale (élections municipales, mars 2020) et au moment ou des documents d’urbanisme importants pour la politique de logement abordable (PLUI et PLH) sont débattus, cette crise éclaire aussi brutalement les effets d’un système séculaire d’arrangements et d’informalité qui, certes, a permis à des ménages populaires de demeurer en centre ville… mais parfois dans des conditions indignes, et pour le plus grand profit de certains propriétaires privés indélicats ne mettant pas leur patrimoine aux normes d’habitabilité.

    La fabrique urbaine de Marseille est, historiquement, dominée par des logiques privées et par des arrangements les plus divers entre public et privé, pour le meilleur (tolérance, convivialité) et pour le pire (clientélisme). Nous l’avons déjà étudié en analysant la genèse historique des fermetures résidentielles à Marseille. Cette forme de “compromis de coexistence” est constitutif tant des formes d’urbanités marseillaises que de son histoire politique. La planification et les régulations ont été réduites au minimum, conduisant, à plusieurs reprises dans l’histoire, à des interventions directes de l’Etat face à des urgences.

    Dans les années 60, la stratégie de construction des logements sociaux, majoritairement dans les quartiers nord était sous-tendue par des logiques clientélistes, a accentué un dualisme urbain de part et d’autre du centre paupérisé, lui-même abandonné au marché locatif puis spéculatif. Les quartiers centraux de Marseille ont ainsi joué, depuis longtemps, une fonction de transit et de logement des habitants plus pauvres dans un habitat de plus en plus dégradé, après le “glissement” des classes aisées et moyennes vers le sud et les périphéries. Ce centre, demeuré populaire jusqu’à cette dernière décennie, demeure très déficitaire en habitat social, surtout familial, malgré des projets successifs de résorption de l’habitat dégradé. Diverses initiatives de préemptions d’immeubles par la Ville ont été freinées par d’interminables procédures judiciaires. Bien des immeubles rachetés, pour créer du logement social n’ont pas été rénovés, sont restés des hôtels meublés, ont été maintenus vacants et/ou se sont dégradés, faute de moyens publics. Ainsi l’un d’entre eux, spécialement étudié, est loué 700 euros par mois par la Ville a un hôtelier. En échange de cette contrepartie, l’hôtel génère plus de 50000 euros de chiffre d’affaires déclaré et 12000 euros environ de bénéfices déclarés annuels.

    Les investissements de la Ville se sont orientés ailleurs : comme beaucoup de villes portuaires en crise post-industrielle, Marseille mise sur le tertiaire… En tant que ville subalterne, incapable d’attirer de véritables investissements productifs, il s’agit surtout d’économie résidentielle et de rente immobilière et touristique. Les options néolibérales sont assumées : rentabiliser le foncier, qui est supposé financer la fabrique urbaine, activer le potentiel des quartiers déjà attractifs (littoraux) et de quelques spots patrimoniaux, encourager le secteur immobilier locatif touristique et les centres commerciaux, au moyen de quelques partenariats publics-privés phares. Cela suppose mécaniquement un glissement des populations insolvables hors des espaces rentables, notamment ceux proches du Vieux Port. Divers projets comme celui de la rue de la République, artère haussmanienne reliant le Vieux Port et le port de croisières de la Joliette (2004-2007) ont déjà conduit, il y a 10 ans, à l’éviction d’une partie des locataires modestes d’immeubles privés anciens, délogés lors d’une vaste opération spéculative. Cet épisode avait déjà mobilisé des collectifs d’habitants et associations autour d’”Un Centre ville pour tous“, mobilisations déjà accompagnées par diverses études scientifiques.
    Ce défi d’un renouvellement concerté pour les quartiers centraux populaires et délabrés de Marseille, proche du Vieux port est à nouveau placé au centre des revendications de collectifs militants dans le cadre de cette crise des évacuations (associations historiques, comme Un centre Ville Pour Tous, collectifs récents directement liés aux effondrements, comme le Collectif du 5 novembre, ou Marseille en Colère, ou encore les tous nouveaux Conseils citoyens crés dans le cadre de la Politique de la Ville). Des mouvements informels comme “Marseille Vivant et Populaire” témoignent aussi d’une revendication de la diversité cosmopolite du vieux Marseille, au moment même où celui-ci commence à se transformer socialement (Belsunce, Noailles, le Panier, la Joliette). S’opposant à ce qui est qualifié de “stratégie de gentrification”, associations et collectifs contestant aussi, par diverses méthodes d’agit’propre, parfois humoristiques, des opérations urbaines de prestige menées dans ces périmètres d’où sont évacués les ménages les plus précaires.
    Cette année de crise a également eu pour effet de renforcer une presse locale très dynamique et souvent mobilisée (La Provence, Marsactu, la Marseillaise, le Ravi, avec la collaboration de Médiapart…), collaborant tant avec le monde associatif qu’universitaire, et qui a su se placer à la pointe d’investigations menées en réseau : analyses historiques, événements, monographies d’immeubles, de quartiers, chroniques des “marchands de sommeil” , critique du déficit historique des régulations et contrôles, tant de la part de la municipalité que de certains services d’Etat, comme l’ARS. [voir l’enquête de presse commune “la grande vacance”].

    https://urbanicites.hypotheses.org/2872
    #cartographie #visualisation #logement #relogements_temporaires #MOUS #hébergements_d’urgence #évacuations

  • Il y a donc désormais les confiné.e.s et les non-confiné.e.s qui assurent leur vie quotidienne des premiers...

    « Il y a donc désormais les confiné.e.s et les non-confiné.e.s qui assurent leur vie quotidienne des premiers – qui apportent les denrées aux boutiques, qui rangent sur les étagères, nettoient, tiennent la caisse, les éboueurs, les postier.e.s, les livreurs (j’en ai vu 3 déjà depuis ce matin), les conductrices/conducteurs de transport, les femmes de ménage des hôtels et les serveuses/serveurs des hôtels (qui restent ouverts et assurent un room service), et tant d’autres. Classe, genre, âge, racialisation, santé traversent les deux groupes mais les non-confiné.e.s sont les plus exposé.e.s. Dans les éléments du confinement, il y a celles/ceux qui vivent dans 12m2 et celles/ceux dans 150m2, qui peuvent se faire livrer ou pas, qui ont de quoi s’abonner à des tas de sites de streaming ou pas, qui ont un grand débit pour assurer les cours à la maison ou pas, qui peuvent aider les enfants à faire les leçons ou pas, qui ont un ordinateur et une imprimante ou pas, qui sont totalement isolées ou pas, qui ont des papiers ou pas, qui sont financièrement à l’aise ou pas, les femmes et enfants qui vivent avec des compagnons violents, les femmes seules avec des enfants, bref, des milliers et milliers de situations noyées sous le discours d’#union_nationale dans un pays où les #inégalités, les violences d’état, le #racisme et le #sexisme organisent la #vie_sociale depuis des années. Les actes de #solidarité, nombreux, qui s’organisent et sont formidables ne doivent pas remplacer les responsabilités de l’état. (Je parle là de la #vie_quotidienne, pas du personnel médical et de toutes les personnes qui assurent la vie d’un hôpital – donc aussi celles/ceux qui nettoient, gardent, font l’administration…- évidemment très exposé).

    Le confinement est rendu possible grâce à toutes ces personnes invisibilisées et bien trop souvent mal payées et exploitées. »

    #Françoise_Vergès

    Texte publié le 17 mars 2020 sur la page « Faire lien en vivant le confinement » de l’association grenobloise Modus Operandi :
    https://www.modop.org/se-relier/#17mars

    #confinement #violence #non-confinés #confinés #travail #classes_sociales #invisibilité #invisibilisation #exploitation

    • Confinement révélateur

      « Il a été évident au premier jour du confinement qu’il exacerbait les #inégalités : certains seraient enfermés dans un espace de vie confortable et généreux, quand d’autres le seraient dans des appartements au contraire trop petits pour une famille entière toute une journée et sans possibilité de sortir, voire dans des lieux juste pas prévus pour y passer des journées entières, je pense aux centres d’hébergement du #dispositif_hivernal ; enfin d’autres seraient « #enfermés_dehors ».
      Après une semaine, ce confinement agit comme un révélateur de la #violence restée jusque-là invisible. Désormais, elle devient évidente :
      – des personnes vivent à la rue ; un genre d’indifférence s’était installée sur ces situations, et comme une habitude scandaleuse. Une fois tout le monde confiné « #chez_soi », seules les personnes qui n’ont pas de « chez soi » restent dans les rues, on ne voir plus qu’elles. On a rarement autant parlé d’elles dans les médias.
      Le confinement nous révèle cette anormalité de s’habituer et d’accepter que des personnes vivent dans la rue.
      – pour se nourrir, des personnes dépendent de manière régulière de #distributions_alimentaires organisées par les associations, grâce à des dons et du travail bénévole. Ces pratiques ont été mises hors-jeu au premier jour du confinement, créant le besoin urgent de palier ce manque et en imposant à de nouveaux acteurs de prendre en charge ce besoin, l’a mis sur le devant de la scène. Dans les centres de l’#hébergement_d’urgence, les personnes accueillies ont d’abord manqué de nourriture avant que de nouvelles pratiques puissent se mettre en place pour fournir cette #nourriture. Mais surtout, cette urgence-là a rendu criante combien notre société organise des #dépendances, là où une #autonomie des personnes pourrait trouver une place.
      – les personnels soignants dans les hôpitaux accumulent environ 18 mois de mobilisation pour dénoncer le manque de moyens, les pénuries, la logique néo-libérale qui détruit le service public de santé. S’ils et elles ont pu bénéficier épisodiquement d’une certaine couverture médiatique, rien n’y a changé. Cette épidémie rend insupportable le manque de masques, et d’autres matériels de protection, et dévoile au grand jour des modes de gestion des stocks à l’opposé des logiques médicales de prévention. Des personnes se sont mises à coudre des masques en tissu pour les personnes soignants… alors que le ministère avait fait le choix de réduire le nombre de masques stockés.
      – les inégalités sociales entre les #étudiants ont pu être évoquées l’automne dernier dans la presse au détour d’un événement dramatique ; le confinement en organisant une continuité pédagogique dépendante de moyens technologiques en ordinateurs et connexions Internet rend criante la fracture numérique. Des associations et le CROUS essaient d’y palier en distribuant ici des tablettes, là des portables… mais les exclus des réseaux restent exclus.

      Voici seulement quelques uns des exemples éloquents de ce confinement comme un révélateur de #ce_qui_déconne. Qu’avons-nous envie de faire de ces « révélations », maintenant qu’elles ont éclaté au grand jour ? Serons-nous capables de fermer à nouveau les yeux ? Et de continuer à bricoler pour les réparer avec les moyens imparfaits du bénévolat ? Ou bien voulons-nous profiter de cette aubaine que nous donne l’épidémie pour s’en saisir et chercher à transformer ces situations ?

      Aidez-nous à recenser de telles situations révélées au grand jour par la gestion de l’épidémie par le confinement, là où vous les observez, là où vous êtes, pour essayer de faire ensemble la première étape sous la forme d’un diagnostic le plus large possible de ces situations. »

      https://www.modop.org/se-relier/#27mars
      #SDF #vivre_à_la_rue

  • The geography of the ‘#ESTIA’ accommodation program for asylum seekers in Athens

    A series of scattered programs targeting asylum seekers and refugees have been planned and implemented by various actors in the urban space of Athens, following the arrivals of large numbers of refugees from 2015 onward. These programs, directly or indirectly affect aspects of the socio-spatial settlement of asylum seekers and refugees in the city, raising questions about the informal trends and the institutional actions that concern interethnic cohabitation at the local level.

    This paper addresses the socio-spatial dimension and the geography of the ‘ESTIA’ accommodation program for asylum seekers in Athens. This dimension was not explicitly and publicly documented during the planning stage of the program. It is selectively explored in this paper by analyzing a) the placement criteria of ESTIA units (apartments and buildings) in the urban fabric and b) the discourse of competent bodies and their perceptions concerning ethnic diversity, dispersal and socio-spatial segregation in Athens. The paper also addresses the planning framework for ESTIA, driven by notions of “emergency” and “integration”, as well as the importance of associated urban actions.. These aspects of the analysis relate to interethnic interaction in the city and correspond to theoretical perceptions of urban studies that regard interethnic cohabitation as a process inextricably interdependent with place. They also re-introduce to the debate crucial questions on ethnic diversity, socio-spatial mix and segregation.

    The research is part of the author’s doctoral thesis and it was conducted through the analysis of relevant legislation, systematic mapping of policies, collection, processing and mapping of quantitative data and qualitative semi-structured interviews with representatives of key stakeholders.


    https://www.athenssocialatlas.gr/en/article/the-geography-of-the-estia-accommodation-program
    #Athènes #demandeurs_d'asile #asile #migrations #réfugiés #logement #hébergement #Grèce #cartographie #visualisation

  • #Gandiblog ferme - Open Time
    https://open-time.net/post/2020/01/17/Gandiblog-ferme

    J’ai reçu un mail de Gandi, hier, qui m’annonçait qu’ils allait mettre fin à l’offre Gandiblog, auparavant gratuite dès lors que vous louiez un nom de domaine chez eux. Ils préviennent que ça sera clos fin juin 2020, dans un peu moins de 6 mois donc, et qu’on a tout intérêt à #exporter nos données.

    #migration #blog
    @antonin1

  • Chère cliente, cher client,

    Avec l’arrivée à maturité de la plateforme Gandi V5, Gandi a pris la
    décision d’initier le processus de fin vie du produit *GandiBlog*,
    dont vous êtes utilisateur(trice).

    Dans cette optique, ce produit sera déprécié durant les prochains 6
    mois. Le service sera ensuite définitivement interrompu à compter du 30
    juin 2020.

    Quels sont les impacts liés à cette décision ?

    Une fois que l’interruption du service prendra effet, il ne vous sera
    plus possible d’accéder à votre GandiBlog, que ce soit publiquement, ou
    via l’interface d’administration de celui-ci.

    Si vous souhaitez conserver vos contenus et les médias associés, nous
    vous invitons à utiliser la fonctionnalité d’exportation de DotClear,
    dont vous pouvez retrouver les instructions détaillées sur :

    http://oldwiki.gandi.net/fr/blogs/backup

    Accédez à votre espace d’administration depuis https://blog.gandi.net

    Quelle solution alternative s’offre à vous ?

    Pour remplacer votre GandiBlog, nous vous encourageons à tester une
    instance Simple Hosting S+, où vous aurez la possibilité d’installer
    votre propre Wordpress. Pour cela voici un coupon unique qui vous
    permettra de bénéficier de 12 mois gratuits. Ce coupon est valable
    jusqu’au 31 juillet 2020 (23h59 heure de Paris).

    GANDIBLOG-xxx

    Notez que ce coupon est à usage unique. Pour l’utiliser, saisissez ce
    code au moment de la validation de votre panier.
    Pour toute question concernant la fermeture de GandiBlog ou l’activation
    de votre nouvelle instance PaaS, n’hésitez pas à nous contacter en
    répondant à ce mail.

    Merci de votre confiance,
    L’équipe gandi.net

    Et on te le dit six mois avant, quand tu viens de renouveler un nom de domaine pour douze mois... Fuck !
    #blog #hébergement

  • Métropole de Lille : près de 3000 sans-abris recensés, dont 680 enfants Quentin Vasseur - 24 Décembre 2019 - France 3

    Invisibles ou presque, les personnes sans-abri sont pourtant nombreuses dans la métropole lilloise. Dans un rapport paru fin novembre https://www.adu-lille-metropole.org/wp-content/uploads/2019/11/SansAbrisme_web.pdf , la MEL fait le triste compte du nombre de personnes vivant à la rue, en campement ou en squat : celui-ci s’établirait à 2830 personnes, parmi lesquelles 686 enfants, et même 51 enfants en bas âge.

    Ce calcul s’établit sur la base des 2281 personnes déjà recensées par le SI-SIAO, la base de données des services intégrés d’accueil et d’orientation. À ce chiffre doivent s’ajouter « d’autres personnes connues des associations et ne figurant pas dans le SI-SIAO », parmi lesquelles une quarantaine de ménages non-connus des maraudes, un peu plus de 80 jeunes migrants, et 430 personnes de culture roms présentes en campement ou en squat.
     

    Parmi les 686 enfants dénombrés dans ce compte, on en trouve de tous les âges :
    • 51 enfants âgés de moins d’un an
    • 200 enfants âgés d’un à quatre ans
    • 195 enfants âgés de cinq à neuf ans
    • 151 enfants âgés de 10 à 14 ans
    • 89 mineurs âgés de 15 à 17

    L’étude de la MEL révèle également une disparité dans les situations familiales : 62% des sans-abris sont des hommes isolées, 13% des femmes seules et 19% des familles.
    . . . . . . . .
    La suite : https://france3-regions.francetvinfo.fr/hauts-de-france/nord-0/lille-metropole/infographies-metropole-lille-pres-3000-abris-recenses-d

    #invisibles #SDF #enfants #Lille #France #ps #roms #sans-abri #pauvreté #sans-abris #hébergement #guerre_aux_pauvres #Invisibles

  • Sous-traitance et bureaucratisation néolibérale : une analyse de l’interface de la distance dans l’accueil des demandeurs d’asile

    En mettant à l’épreuve de l’ethnographie les questions posées par la sous-traitance, cet article s’intéresse à la #bureaucratisation_néolibérale de l’accueil des demandeurs d’asile en Suisse. Sur la base des données récoltées dans deux structures d’hébergement cantonales gérées par des organisations privées, il étudie comment cette dynamique s’incarne dans le quotidien de la mise en oeuvre de la #politique_d’accueil. L’analyse montre que les pouvoirs publics et leurs mandataires sont de facto séparés par une « interface de la distance », composée principalement de trois rouages interdépendants : la gestion par les #indicateurs, la définition de #standards et une #rationalité_économique. Cet article interroge les effets de la délégation d’une tâche régalienne à la sphère privée, en ce qui concerne non seulement la conception de la politique publique, mais également la responsabilité et les opportunités de contestation. Il montre que la bureaucratisation néolibérale est à la fois une #technologie_de_gouvernement permettant à l’État de se redéployer et une conséquence de son réaménagement continu.

    https://www.erudit.org/fr/revues/lsp/2019-n83-lsp04994/1066087ar

    #ORS #privatisation #sous-traitance #asile #migrations #réfugiés #Suisse #accueil #hébergement #Fribourg #Berne #Asile_Bienne_et_Région (#ABR)

    Ajouté à la métaliste sur ORS :
    https://seenthis.net/messages/802341

  • Retour sur une expérience de logement des migrants. Le conventionnement du #squat des #Jardins_de_la_Poterie à #Rennes

    Entre décembre 2016 et l’été 2017, un squat occupé par des migrants avec l’aide d’associations locales a été l’objet d’un conventionnement avec la mairie de Rennes. Ce conventionnement des « Jardins de la Poterie », qui reste une modalité d’action éphémère, a donné lieu à des expériences et à des interactions inédites, tant pour les résidents du squat que pour les acteurs impliqués et les habitants du quartier.

    Cet article propose de revenir sur un terrain de recherche portant sur l’hébergement des migrants [1] en France, en particulier ceux qui sont confrontés à la précarité et à l’éphémère (Bergeon 2014) et contraints d’occuper des formes de logement « hors normes », ainsi que sur les actions et mobilisations observées dans les sphères militantes et de l’action publique locale (pour les références bibliographiques sur ce domaine, voir en fin d’article la rubrique « pour aller plus loin »).

    Le terrain se déroule à Rennes, entre juin 2016 et juillet 2017 [2], où un lieu est occupé par 160 personnes migrantes et sans-abri. Initialement « squat », le lieu a été conventionné sous un régime inédit à partir de décembre 2016, reprenant le nom de « Jardins de la Poterie » (Hoyez, Bergeon et Viellot-Tomic 2017). Nous retraçons ici cet épisode en interrogeant a posteriori l’enchaînement des étapes qui ont conduit des associations et une mairie à conventionner un « squat » pour en faire un lieu de vie « régulé » (pourquoi et comment un squat a-t-il pu être conventionné ? pourquoi l’a-t-il été pendant huit mois avant d’être évacué ?), tout en analysant les régimes d’occupation du lieu par les habitants et les habitantes et l’appui des associations. La question de la finitude de cette occupation restera le grand hiatus entre toutes les parties : si la fin de l’occupation était connue très tôt, elle n’a pourtant pas été anticipée par les institutions politiques locales et les personnes n’ont été réorientées qu’aux derniers instants de vie du lieu. Cette première expérience de légalisation de squat à grande capacité d’accueil ouvrira cependant, à l’échelle locale, vers de nouvelles possibilités de logement, toujours temporaires et changeantes, des populations migrantes.

    Les intérêts de chacun des acteurs (associatifs, institutionnels et privés) en ce qui concerne le logement des migrants étant souvent divergents, comment se sont déroulées les négociations autour des cadres de ce conventionnement ? Quels apprentissages théoriques et pratiques peut-on tirer de cette expérience ? Quels en sont les effets sur le quotidien des migrants qui y vivent et des associations qui sont impliquées ?
    Le conventionnement des Jardins de la Poterie : les étapes d’une « légalisation » inédite

    En juillet 2016, une association rennaise active dans le champ de la lutte contre le mal-logement des migrants (UTUD, Un toit c’est un droit) parvient à ouvrir un squat à grande capacité d’accueil : une ancienne maison de retraite. Le lieu investi se situe dans un quartier à la sortie sud-ouest de la ville de Rennes, marqué par un habitat pavillonnaire résidentiel, comptant plusieurs services de proximité (écoles, collèges, lycées ; commerces ; maison de quartier) et bien connecté aux infrastructures de transport le reliant au reste de la ville. Le squat est composé de chambres et studios qui permettent d’accueillir des individus et des familles dans des espaces privés et au sein de plusieurs espaces collectifs (cuisines, halls et pièces communes, couloirs, jardins). 160 personnes y sont logées immédiatement, dont presque la moitié sont des enfants. Rapidement, le promoteur immobilier (propriétaire des lieux) demande l’expulsion des habitants et souhaite la restitution de son bien. Le jugement lui est défavorable : le juge décide que l’hébergement des 160 personnes est prioritaire au regard d’un projet immobilier resté au point mort depuis plus de deux ans. Le promoteur est donc débouté de sa demande d’expulsion par le tribunal administratif, et le juge repousse l’examen de l’appel à fin janvier 2017. Cependant, la fin de la trêve hivernale intervenant fin mars, les habitants peuvent se projeter sur une occupation de plus de six mois de ce lieu. Devant cette situation inédite et inattendue, des échanges et pourparlers se sont mis en place dans le but d’organiser au mieux, et collectivement (habitants du squat et associations), le lieu de vie et sur tous les plans. C’est ainsi le cas sur le plan logistique, avec par exemple de fortes mobilisations de toutes les associations impliquées de septembre à décembre 2017 pour assurer l’accès du squat au chauffage, accès qui sera assuré à la mi-décembre 2016 ; sur le plan juridique : le lieu, une fois relié au réseau de chauffage urbain, doit être légalisé pour en bénéficier, mais sous quel type de contrat ? Ou encore sur le plan humain et social : comment organiser l’animation de la vie interne du squat comme sa vie « externe », c’est-à-dire sa connexion avec la vie du quartier, avec la ville ?

    Au bout de longues négociations, lors de différentes assemblées générales et réunions officielles à la mairie, les différentes parties, sans conflictualités politiques notables à ce moment-là, signent un conventionnement en trois actes en janvier 2017 :

    1. un commodat [3] est rédigé et signé devant un notaire entre l’association UTUD et le propriétaire pour la mise à disposition du bâtiment dans un cadre légal ;
    2. une convention financière est signée entre l’association UTUD, la Fondation Abbé Pierre (FAP), le Centre communal d’action sociale (CCAS) de la Ville de Rennes s’engageant à prendre en charge les frais d’assurance et les fluides pour la remise en route du chauffage ;
    3. un protocole de partenariat entre le CCAS de la Ville de Rennes, le Secours catholique, la FAP, le Comité catholique contre la faim et pour le développement-Terre solidaire (CCFD-Terre solidaire) et UTUD est conclu pour le suivi des habitants du squat par l’État en prévision de la fin de l’occupation.

    Ces trois actes du conventionnement forment donc le cadre des règles, usages et engagements des différentes parties impliquées dans la « stabilisation temporaire » de ce squat. La date de fin d’occupation des Jardins de la Poterie a été inscrite de façon arbitraire dans le commodat pour le 17 juillet 2017, ce qu’associations et habitants se sont engagés à respecter. Cependant, le troisième volet du conventionnement a connu un destin plus mitigé. En effet, les premières réunions et visites de terrain par les élus et les services sociaux de la Mairie pour traiter des situations administratives des habitants ne sont intervenues qu’en avril 2017. La préfecture n’a pour sa part jamais effectué de visite, ni assisté à aucune réunion avec la Mairie, malgré les invitations qui leur ont été adressées par les élus. L’image de la « patate chaude » que se renvoyaient les services préfectoraux a souvent été mentionnée par les associations et les services sociaux de la Ville. Plusieurs raisons ont présidé à cette inaction : d’une part, la préfecture, centrée sur son rôle de régulation des titres de séjours, a préféré renvoyer les compétences sociales de la prise en charge de l’hébergement des migrants aux services de la ville. Mais elle s’explique d’autre part par un bras de fer politique entre la préfecture et la Mairie lié au contexte préélectoral des élections présidentielles de mai 2017, comme nous le verrons infra.
    Le reflet des mobilisations associatives locales

    Sur toute la période, 42 associations se sont déclarées solidaires des Jardins de la Poterie et signataires d’un tract de solidarité « perpétuel » avec ceux-ci et la cause des migrants en général. Ces associations recouvrent une diversité substantielle : représentations de partis politiques, syndicats, diverses associations de soutien aux migrants, associations étudiantes ou lycéennes. Une dizaine d’associations était constamment sur le terrain et menait des actions concrètes à destination des habitants. Quatre d’entre elles ont été déclarées « gestionnaires » du squat (UTUD, CCFD-Terre solidaire, FAP, Secours catholique). Mais, dans les faits, nous avons pu constater des implications inégales au cours de la période, le travail de terrain reposant principalement sur l’association UTUD. Cette association a un rôle de premier plan sur le terrain pour plusieurs raisons : elle est connue localement pour être à l’initiative d’ouvertures de squats, notamment celui de la Poterie ; ses membres dialoguent régulièrement avec les instances municipales ; elle a pris en mains la négociation avec la Mairie ; et, enfin, elle est une ressource identifiée par les migrants à Rennes.

    Ces associations formaient un réseau militant local et organisé au sein d’un collectif interorganisations mis en place de façon ad hoc autour de ce squat. La mobilisation pour la Poterie a représenté de ce point de vue une opportunité pour ce tissu associatif de mettre en place des cultures de fonctionnement collectif dans le paysage politique rennais. Ce réseau mobilisait de nombreux savoir-faire techniques, culturels ou intellectuels, auxquels s’ajoutaient les mobilisations des habitants du quartier qui ont accueilli positivement l’occupation de ce lieu de vie : par exemple, participation aux manifestations de soutien, campagne d’information bienveillante par affichettes.

    Enfin, cet élan collectif associatif et citoyen, en organisant des actions dans l’espace public (manifestations, événements festifs), a permis à la Mairie de mesurer l’importance des solidarités en faveur des habitants de la Poterie. Cela a conduit les services de l’action publique locale à s’engager en actes : en plus du conventionnement déjà mentionné, la ville de Rennes, via ses services sociaux, et Rennes métropole ont débloqué des financements supplémentaires pour subvenir aux besoins quotidiens des habitants (distribution d’eau et de chauffage, entre autres).
    Les habitants de la Poterie, entre appartenances de groupe et trajectoires individuelles

    Sur le terrain, nous nous sommes régulièrement demandé si ces personnes migrantes formaient une communauté (au sens utilisé dans la littérature scientifique anglophone, c’est-à-dire un groupe autodésigné autour d’une identité commune et reconnu comme tel), quand bien même les origines nationales, les appartenances linguistiques, et les situations administratives étaient contrastées.

    L’examen des situations administratives révélait une pluralité de situations : on trouvait des personnes demandeuses d’asile, des réfugiés statutaires, des personnes en procédure Dublin, des déboutés du droit d’asile, des personnes en attente de rendez-vous ou sous OQTF (obligation à quitter le territoire français), des personnes sans existence administrative, d’autres ayant déposé un dossier « étranger malade ». L’un des grands enjeux politiques, pour les associations et les habitants des Jardins de la Poterie, fut l’accompagnement administratif et social des personnes relevant des cinq dernières catégories citées, qui sont considérées comme « sans papiers ». Cette liste n’est pas exhaustive, les situations des résidents de la Poterie se caractérisant par une grande diversité de statuts administratifs, de situations familiales et d’états de santé. Par ailleurs, au sein des habitants des Jardins de la Poterie, nous avons pu noter de fortes volontés de différenciation entre groupes et entre individus, qui se manifestent souvent autour des modalités de partage des espaces collectifs et individuels, la plupart des habitants n’ayant pas choisi un mode de vie collectif. Au quotidien, les habitants ont surtout évoqué des situations plus ou moins conflictuelles. Ces situations conflictuelles s’exprimaient notamment entre habitants aux statuts familiaux différents, avec une difficile conciliation des agendas et modes d’occupation des lieux collectifs entre familles et célibataires, par exemple quand le silence est requis aux heures nocturnes pour les enfants, qui sont cependant des heures d’activité pour les célibataires sans enfants, ou encore quand les enfants courent, crient et jouent dans les espaces communs, entraînant des dissensions autour du niveau sonore. Elles se manifestaient aussi du fait d’origines différentes, avec des difficultés de communication au quotidien entre francophones et non-francophones, ou encore résultaient de difficultés classiques liées à la cohabitation. Par ailleurs, une même nationalité d’origine ou des convergences linguistiques conduisent à produire des regroupements affinitaires dans le squat. L’organisation sociale de celui-ci et sa microgéographie sont pensées par les associations et les habitants en fonction de ces deux variables afin de faciliter la vie au quotidien.

    Au-delà de l’hétérogénéité des situations individuelles et des aspirations de différenciations, les habitants des Jardins de la Poterie se sont à plusieurs reprises identifiés comme unis par la circonstance de la précarité résidentielle et la quête d’obtenir un titre de séjour. Cette prise de conscience nous a notamment été rapportée par les associations lors des moments marquants de la vie du lieu : lors des réunions avec la Mairie ou lors des visites par les services sociaux pendant lesquelles les habitants se présentaient en tant que groupe, lors des événements culturels et festifs qui amenaient du public et les mettaient en position d’accueillants, lors de manifestations dans l’espace public sous les mêmes banderoles et slogans, le jour de la sortie où « ceux de la Poterie » se retrouvaient sans solution d’hébergement. En effet, l’évocation d’une appartenance collective aux Jardins de la Poterie a surtout émergé en point d’orgue, en fin d’occupation, lors de la résurgence du sentiment collectif de vulnérabilité et de précarité résidentielle à venir pour l’« après-17 juillet 2017 ». À l’échelle des trajectoires migratoires des personnes, la solution de logement bricolée aux Jardins de la Poterie pendant une année entière a été vécue comme une respiration, une trêve, dans des trajectoires résidentielles découpées, sans cesse recomposées, et dont les effets s’avèrent délétères pour la vie quotidienne.

    Or, si le conventionnement a permis de lever l’insécurité domiciliaire du squat, celle-ci a resurgi à la fin du conventionnement, au moment de la sortie du lieu, car elle n’avait pas été anticipée par les pouvoirs publics. L’impensé, voire l’absence de réflexion concernant l’issue du conventionnement s’inscrit dans un contexte électoral national (élections présidentielles de 2017) qui a contribué à de longues phases de statu quo, entre décembre 2016 et juillet 2017. D’une part, les services de la Préfecture, en attente des renouvellements des nominations (Préfet, chefs de service), n’ont pas engagé de processus de régularisation des situations administratives des personnes. D’autre part, les élus de la Ville de Rennes sont restés en retrait, freinant les prises de décision des services sociaux par crainte des répercussions que celles-ci, médiatisées, pourraient avoir sur l’électorat local.

    Malgré tout, plusieurs mois après la fin de l’occupation, le sentiment d’appartenance à une communauté habitante semble perdurer pour certains individus et familles encore présents sur le territoire rennais, grâce aux sociabilités habitantes induites par les actions militantes et par la vie commune qu’il a fallu négocier et aménager.
    Enjeux locaux et devenirs de l’action associative et politique

    Localement, l’arrivée de ces populations de migrants, leur stabilisation et la visibilité prise par ce lieu de vie à l’échelle de la ville et d’un quartier ont conduit à l’élaboration de plusieurs partenariats, débats, prises de responsabilités dans la sphère publique et/ou privée.

    La recherche de terrain a permis de révéler la gamme des acteurs institutionnels avec lesquels les migrants sont en dialogue autour des questions de leur logement : associations, ville, Samu social, préfecture, initiatives citoyennes. Un hiatus apparaît cependant. Les Jardins de la Poterie s’est avéré être un lieu qui déchargeait les dispositifs d’hébergement d’urgence en offrant un logement stable et habitable. Il est donc vite devenu un lieu à fort enjeu politique dont la survie tenait au maintien du dialogue entre toutes les parties concernées. Il a donné lieu à une forme d’urbanisme négocié, la Ville de Rennes ayant enjoint au promoteur immobilier, propriétaire du lieu, de mettre à disposition son bien dans le cadre d’une convention en attendant de faire avancer son projet initial. Enfin, il est apparu comme un haut lieu des mouvements de soutien et de solidarité organisés autour d’associations, riverains, citoyens agissant à titre individuel.

    Aussi, les enjeux forts qui ont émergé autour des Jardins de la Poterie ont été source de conflictualité entre les différentes parties, soulevant des questions importantes sur la nature de ce conventionnement : s’agit-il de réels partenariats ou de simples transferts de compétences ? Cette prise en charge des populations migrantes à l’échelle locale n’est-elle pas une délégation indirecte de l’accueil vers les associations et les actions citoyennes ? La question de la déresponsabilisation des collectivités locales se pose ici, car elle engage des moyens financiers (qui paie ?) et des moyens humains (qui va y consacrer énergie et temps ?).

    Quand la Ville met en évidence que l’État se décharge sur elle de son devoir d’hébergement des migrants sur le territoire métropolitain, quand les associations font valoir que la Ville se décharge sur elles de l’accompagnement social des habitants des Jardins de la Poterie, nous pouvons prendre la mesure des enjeux collectifs et de la responsabilité sociale et politique qui incombent à toutes les parties engagées.

    L’expérience du conventionnement du squat des Jardins de la Poterie ouvrait en 2017 une perspective nouvelle sur les possibilités d’accueil des populations migrantes et plus largement des personnes touchées par des problématiques de logement. Cet exemple d’urbanisme négocié montre aussi les tensions importantes autour de l’accueil de l’autre et de la prise en charge de la précarité dans l’espace local quand les enjeux économiques (promoteurs), politiques (Ville de Rennes) et humains (associations) se jouent sur un même terrain.

    Aujourd’hui, la modalité de conventionnement pour le logement des migrants est rentrée dans les pratiques d’occupation des lieux dans les luttes à Rennes comme dans d’autres villes, non seulement dans le cadre de la légalisation de squats, mais aussi en ce qui concerne la construction de partenariats entre mairies, bailleurs sociaux et promoteurs immobiliers. Elle s’inscrit également à l’échelle nationale au travers des nouvelles orientations prescrites par la loi ELAN pour le développement de conventions de protection de bâtiments vides par l’occupation à destination d’un public vulnérable. Mais elle reste une modalité éphémère, utilisée de façon cyclique, qui s’essouffle et montre ses limites à l’heure actuelle, où les renouvellements de conventions sont suspendus au profit de l’ouverture de… gymnases.

    https://www.metropolitiques.eu/Retour-sur-une-experience-de-logement-des-migrants.html
    #logement #hébergement #asile #migrations #réfugiés #occupation

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  • Un sistema desbordado deja sin techo a los refugiados

    Los 95.000 solicitantes de asilo que llegaron este año —el doble que en 2018— llenan la red de acogida. La solidaridad de vecinos impide que duerman en la calle.

    Claudia, Eduardo y sus dos hijos de 10 y 7 años han pasado tres noches esta semana durmiendo en el suelo de una parroquia de Madrid. En El Salvador, donde vivían, tenían buenos trabajos, pero huyeron de allí por la extorsión de las maras. “Nos pedían dinero constantemente, pero a la tercera ya no teníamos más y empezaron las amenazas de muerte. Nos vigilaban. En septiembre nos llamaron por última vez y nos dijeron: ‘El dinero que no pagáis lo vais a gastar enterrando a vuestros hijos’. Colgamos y decidimos vender todo”. La pareja desembarcó el jueves de la semana pasada en el aeropuerto de Barajas e inmediatamente fue a la comisaría para intentar registrar su demanda de asilo. Aseguran que traen pruebas de su persecución y piden protección. Las cuatro noches de hotel que reservaron terminaron y solo les quedan 50 euros. La quinta noche no tuvieron dónde dormir. En teoría, el Estado debe encargarse de dar alojamiento a todos aquellos solicitantes de asilo que no tienen medios, al menos hasta que se resuelva su petición. Pero no lo consigue. Si no fuese por la solidaridad de vecinos, voluntarios y párrocos, decenas de familias como la de Claudia y Eduardo dormirían cada noche sobre cartones en las calles de Madrid.

    Este año han llegado a España unos 95.000 solicitantes de asilo. La Secretaría de Estado de Migraciones asume que no tiene capacidad para dar un techo a todos los que lo necesitan. Tampoco el Ayuntamiento de Madrid, que debe atender las emergencias sociales. Ninguna de las dos Administraciones tiene un plan que pueda ejecutarse a corto plazo. El resultado es una imagen que comienza a ser recurrente: familias enteras con niños que cada noche se acurrucan bajo mantas térmicas a las puertas del Samur Social, el servicio municipal de la capital que, en última instancia, debería evitar que duerman a la intemperie. Todos esperan una cama para dormir. No todos la consiguen.

    Es medianoche. Martes. Hace un frío húmedo: el termómetro marca seis grados. Otra familia salvadoreña, de siete miembros, se encoge bajo un andamio de la Carrera de San Francisco, la calle de la capital donde está el edificio del Samur Social al que peregrinan los recién llegados. Son la abuela, tres hermanas, el marido de una de las hermanas y dos nietos. A los pequeños ni siquiera se les ve, tapados con kilos de mantas y el abrazo de los padres. Los mayores solo enseñan los ojos bajo la ropa de abrigo. Están muy apretados y, al moverse un poco, activan la alarma antirrobos del andamio que les cobija. El guardia de seguridad acude cuando oye la sirena. “A ver si no os movéis mucho”, les pide bronco. Creen que si se marchan de allí perderán su lugar en la lista de espera, pero el frío es insoportable y deciden aceptar la oferta del padre Javier Baeza, que les ofrece unos colchones en la parroquia San Carlos Borromeo, en Vallecas.

    La red nacional de acogida para solicitantes de asilo está al borde del colapso. Las 95.000 demandas presentadas este año, entre las que hay un 20% de menores de edad, doblan prácticamente las del año anterior. El ritmo es de 9.000 al mes. Más de un tercio de los solicitantes que han llegado a España este año son venezolanos, inmersos en una crisis humanitaria. Pero también hay colombianos, hondureños, nicaragüenses y salvadoreños que escapan de la violencia de sus países. Todo apunta a que los números, debido a la inestabilidad creciente en América Latina, seguirán aumentando.
    Red de vecinos

    Frente al Samur Social viven Eneko, Sandra y sus dos hijos. Desde su ventana han visto cómo la cola de personas que duermen en la calle ha aumentado en los últimos meses. Al final se decidieron a intervenir. Fue una noche de septiembre, cuando Sandra vio por primera vez que los trabajadores del servicio de emergencias dejaban en la calle a una pareja marroquí con cinco niños. “Me pongo los botines y le digo a Eneko: ‘Pues voy a bajar’. Consigo hablar con el encargado de turno y me dice que no puede hacer nada. Me empiezo a desesperar y a llamar a conocidos que me pudieran ayudar. Uno de ellos me habla de la Iglesia del Padre Ángel. Llamo allí y me dicen que aunque no tenían camas libres podían dormir en los bancos, así que los enviamos en dos Cabify. Empezamos a dar a conocer su caso a los medios, a hacer presión y a los dos días se les alojó”, cuenta la vecina. Ese mismo día, Eneko y Sandra volvieron a ver a otra pareja sin techo que se disponía a pasar la noche frente a su casa. En este caso eran venezolanos y tenían tres niños. Desde entonces no han parado de llegar familias.

    Eneko y Sandra fueron la punta de lanza de un movimiento más grande de solidaridad que suple la incapacidad de las instituciones. Hay otros vecinos, como Gabriela García, que les llevan sopa todas las noches, pero también abogados y párrocos. Cocinan para las familias y les llevan mantas y ropa de abrigo y, cuando no hay más suelo en las iglesias, los alojan en sus casas o les pagan una pensión.

    El sistema de asilo español solo concede algún tipo de protección a uno de cada cuatro solicitantes, una de las tasas más bajas de Europa, así que la inmensa mayoría verá rechazada su petición. España, por ejemplo, no reconoce como refugiado a prácticamente ninguno de los centroamericanos que, hostigados por la violencia, no encuentran protección en su propio país. Los venezolanos también suelen quedarse fuera, pero a ellos el Gobierno les concede un permiso de residencia y trabajo de un año por razones humanitarias. En todos los casos, de cualquier forma, mientras se estudia su situación la ley les permite vivir regularmente en España y a los seis meses, trabajar.

    Un sistema insuficiente

    La Secretaría de Estado de Migraciones tiene la obligación de acoger a los más vulnerables, pero está fallando. Nadie se preparó para estos números. España, que hasta ahora veía en la distancia el desafío que asumían sus socios europeos con la llegada de miles de refugiados, se ha colocado entre los cinco países de la UE que más demandas recibe, a poca distancia de Francia y Alemania. El Defensor del Pueblo lleva desde 2013 advirtiendo de las graves deficiencias del sistema.

    Margareth Yanett Jiménez y Julio César Aponte son una pareja de funcionarios venezolanos que desde el 15 de julio también duermen en la parroquia San Carlos Borromeo. Tienen dos niños mellizos de ocho años, Sarah Valentina y Moisés Nicolás. La niña rompió a llorar el viernes de la semana pasada cuando, tras ver que llegaban nuevas familias de solicitantes de asilo, creía que iban a perder la suerte de almacén donde duerme junto a sus padres. “Hace tres meses que nos reunimos con una trabajadora social de la Secretaría de Migraciones para que nos buscase un sitio donde vivir”, cuenta Jiménez. No tuvieron más noticias hasta el viernes 22. “La trabajadora nos llamó y nos dijo que el lunes nos dirían a qué sitio ir. Gloria a Dios”, celebró Jiménez. Diez minutos después llegó el jarro de agua fría: se habían equivocado con el número de plazas y no les correspondía ninguna. Hasta que les vuelvan a llamar. Durante los cuatro meses que la familia Aponte Jiménez lleva en la parroquia se ha dedicado a ayudar a los que van llegando. Les acompañan a poner las demandas de asilo, les indican dónde gestionar los papeles y qué documentos hay que llevar. A Julio César Aponte, agotado mentalmente de tanto llamar y esperar en vano, los voluntarios de la parroquia ya le conocen como “el conserje” o “el monaguillo”.

    El primer escollo administrativo que encuentra el solicitante de protección internacional está en el Ministerio del Interior. La Oficina de Asilo, con un programa informático de los noventa y el mismo personal desde hace 26 años, ha sido un departamento tradicionalmente olvidado. Solo el año pasado se puso en marcha un plan de choque con más funcionarios y medios con los que se ha quintuplicado el ritmo de resolución. Pero no es suficiente. Por cada dos solicitudes que entran se resuelve solo una. En los cajones hay más de 120.000 expedientes abiertos. Casos que deberían cerrarse en unas semanas, pueden llevar hasta dos años.

    Interior se ocupa de tramitar las solicitudes, pero la Secretaría de Estado de Migraciones, dependiente de otro ministerio, el de Trabajo, ha de gestionar el alojamiento de los que no tienen dónde vivir. El departamento de Consuelo Rumí ha estirado la red de acogida de 11.400 camas a 14.000 en el último año, pero, aunque varía según la semana, sigue habiendo miles de personas en lista de espera que duermen donde pueden. Como la familia Aponte o la familia de El Salvador cobijada bajo el andamio. “No tenemos suficientes recursos para responder al ritmo de llegadas actual”, afirman fuentes de Migraciones. “Si se resolviese con más agilidad, se descartarían expedientes y se aliviaría el sistema. Así podríamos dar una respuesta adecuada”, señalan apuntando a Interior.

    El desbordamiento del Estado obliga a los Ayuntamientos a hacerse cargo de los solicitantes que quedan fuera del sistema y ha llevado a ciudades como Madrid, puerta de entrada de casi la mitad de ellos, y Barcelona, el segundo destino, a atender un perfil desconocido en España de personas sin hogar: familias extranjeras con niños.

    “Si esto no se aborda, seguiremos teniendo niños en la calle durante todo el invierno”, mantiene el concejal de Familias, Igualdad y Bienestar Social de Madrid, José Aniorte, de Ciudadanos. “Ningún Ayuntamiento del mundo puede soportar esta presión”, asegura el edil, que dedica un cuarto de las 4.000 plazas para gente sin hogar a solicitantes de asilo. Su homólogo en Barcelona, el concejal Marc Serra (Barcelona en Comú), asegura que la ciudad tiene una alta demanda de alojamiento que antes no existía y que cada noche dan cobijo a cerca de 150 migrantes, la mayoría solicitantes de asilo de los que debería ocuparse Migraciones. Todas son familias con menores. Serra reconoce que también se queda gente en la calle, pero nunca con un perfil tan vulnerable. “En términos cuantitativos puede no ser mucho, pero hay familias desatendidas que acabamos asumiendo nosotros. Es lo suficientemente grave como para este sea un tema prioritario”, advierte.

    El volumen de solicitudes y la consecuente crisis de gestión ha llevado al Gobierno socialista a endurecer su discurso y hablar de “abuso” en el sistema. “Vemos con preocupación la utilización de la solicitud de asilo como vía de entrada a España por personas que van a ver denegada su petición porque no tienen perfil de beneficiario de protección internacional”, advierten fuentes de la Secretaría de Estado de Migraciones. Y aquí reside la paradoja. El tapón que alarga los plazos de resolución perjudica al conjunto de los solicitantes de asilo, pero ha acabado convirtiéndose en una puerta para miles de personas que pretenden mudarse a un país al que resulta extremamente complicado migrar de forma regular.

    https://elpais.com/politica/2019/11/23/actualidad/1574521465_352891.html
    #SDF #Espagne #sans-abri #asile #migrations #réfugiés #hébergement
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  • Des parents et des enfants sans domicile hébergés dans des écoles à Lyon

    Des parents d’élèves de cinq écoles se sont mobilisés pour mettre à l’#abri dans les #locaux_scolaires des élèves et leurs parents qui n’ont pas de logement.

    Pour échapper à la rue, ils ont trouvé refuge à l’école. Depuis la rentrée des vacances de la Toussaint, le groupe scolaire Michel-Servet, dans le Ier arrondissement de Lyon, héberge la nuit 17 enfants, âgés de 2 à 12 ans, et 9 parents. C’est l’une des cinq écoles occupées à ce jour par le collectif Jamais sans toit : des parents d’élèves, des enseignants, des habitants qui se mobilisent chaque année pour mettre à l’abri les familles en difficulté en attendant les hypothétiques places en hébergement ouvertes dans le cadre du plan froid. Au total, 30 enfants seraient hébergés dans ces établissements scolaires. « Aujourd’hui, les administrations trient et dissèquent les critères de vulnérabilité des familles pour ne pas les prendre en charge », dénonce le collectif, à l’origine d’un rassemblement de plusieurs centaines de personnes mercredi soir devant l’hôtel de ville de Lyon.

    En 2018, Jamais sans toit a pu faire dormir au chaud une centaine d’enfants pendant plusieurs semaines avant leur prise en charge, qui s’est soldée pour une partie d’entre eux par un retour à la rue aux beaux jours. « Le grand changement cette année, c’est que même les demandeurs d’asile se retrouvent dehors, une marche de plus a été franchie », constate Pauline Manière, mère d’élève à Michel-Servet. Raphaël Vulliez, enseignant de l’école, pointe un « manque de volonté politique » : « Il y a 24 000 logements vides, pour certains chauffés et surveillés, dans la métropole mais on en est encore à ce faux concept de l’appel d’air, de dire que si on loge tout de suite les gens, ça va en attirer d’autres. » Pour lui, payer sporadiquement des nuits d’hôtel ne règle rien : « C’est brutal pour les familles, ça coûte cher à la collectivité et ça condamne à être chaque année dans ce schéma d’urgence plutôt que de pérennisation. »
    « Tenir sur la durée »

    Alors l’entraide prend le pas au quotidien. En parallèle de la collecte de nourriture, de couettes, de vêtements chauds, Jamais sans toit organise des « goûters solidaires » pour constituer une cagnotte. Elle sert à faire des courses pour les dîners et les petits-déjeuners des familles, parfois à leur payer l’hôtel le week-end. La mairie du Ier arrondissement s’est également engagée à en financer un certain nombre. L’objectif du collectif Jamais sans toit : « tenir sur la durée », explique Céline Hernu, mère présente ce mercredi soir à Michel-Servet.

    Il est 19 heures, Naslati vient d’arriver dans le hall de l’école avec ses 4 enfants, âgés de 3 à 12 ans. Les trois plus jeunes sont nés à Mayotte, sur le territoire français donc, tandis que leur mère et son aîné sont comoriens. Naslati, 31 ans, a atterri en métropole en février pour « trouver une vie meilleure », « voir grandir ses petits sans bêtises ». Elle a d’abord été hébergée chez des amis, avant d’obtenir un récépissé de carte de séjour l’autorisant à travailler. Mais depuis un mois, elle est à court de solution de logement.
    « J’ai honte, je n’ai jamais été assistée »

    Elle a essayé de s’installer pour la nuit dans le hall d’un hôpital avant d’en être chassée. Alors elle s’est débrouillée une dizaine de jours, campant sous le porche de stations de métro, veillant sur ses enfants endormis contre elle. Depuis le 5 novembre, le dortoir de fortune de Michel-Servet est sa bouée. Elle va pouvoir entamer sa formation en français à Pôle Emploi, peut-être trouver quelques heures de ménage. « A Mayotte, je m’occupais du nettoyage chez des gens. Mais même en travaillant cinq jours par semaine, je gagnais 200 euros par mois et je n’avais pas de fiches de paie », raconte-t-elle.

    Fatima et Abdel El Marhani, 40 ans, ont, eux, déjà des promesses d’embauche, comme employée en grande surface et agent d’entretien, mais n’ont pas réussi à trouver un appartement en arrivant le 12 novembre de Colmar (Haut-Rhin), où leurs affaires attendent dans un garage. Ils sont sur liste d’attente pour un logement social. D’abord hébergés avec leurs trois filles chez des amis, ils sont venus par le bouche-à-oreille à l’école. « J’ai honte, je n’ai jamais été assistée. Je ne demande pas une villa en centre-ville, je veux juste un appartement avec une chambre pour les filles, de quoi faire à manger chaud », dit Fatima, « citoyenne française qui paie ses impôts ».

    « On a de plus en plus l’impression de faire le travail de l’Etat qui ne veut pas assumer », souligne Raphaël Vulliez. Alors Jamais sans toit a décidé « d’aller plus loin » en organisant, samedi, les baptêmes républicains des enfants accueillis. « Chaque fois que les familles frappent à une porte administrative, elles sont retoquées. C’est un moyen de leur signifier qu’elles ont leur place dans notre société, qu’on veille sur elles, qu’on ne va pas les lâcher », explique Anne Lasseur, conservatrice des musées Gadagne et habitante du quartier. Egalement en première ligne de la « crise » de l’hébergement dans la métropole, un collectif de travailleurs sociaux appelle à une grève le 28 novembre.

    https://www.liberation.fr/france/2019/11/21/des-parents-et-des-enfants-sans-domicile-heberges-dans-des-ecoles-a-lyon_
    #occupation #école #SDF #sans-abris #France #Lyon #hébergement #résistance

  • Le #campement sauvage près de la gare de #Grenoble sur le point d’être démantelé

    #Lionel_Beffre, le préfet de l’#Isère a annoncé ce mardi 19 novembre l’#évacuation imminente du campement de migrants situé entre la gare de Grenoble et le quartier Saint-Bruno. Une annonce intervenue lors de la présentation du dispositif mis en place dans le cadre du plan d’#hébergement_d’urgence hivernal. D’après Droit au logement, l’expulsion est imminente et aura lieu dès ce jeudi matin à 7 h 30.

    Alors qu’il présentait le plan d’hébergement d’urgence hivernal 2019-2020, Lionel Beffre, le préfet de l’Isère a annoncé le prochain démantèlement du camp de migrants situé sous l’estacade entre la gare de Grenoble et le quartier Saint-Bruno.


    Ce campement, déjà plusieurs fois évacué, notamment au mois de juin, abrite sous des tentes plusieurs dizaines de personnes, dont des enfants. Leurs profils ? Des demandeurs d’asile et des migrants, arrivés pour la plupart des Balkans, n’ayant pas encore fait de demande administrative d’asile.

    En toile de fond, un nouveau duel à fleurets mouchetés entre le représentant de l’État et la #Ville_de_Grenoble. La #municipalité demandant au préfet « de respecter les compétences de l’État et de la loi pour mettre toutes les personnes à l’abri à Grenoble […] pour que personne ne reste dans le plus grand dénuement après l’évacuation […] », rapporte le Dauphiné libéré.

    « Les services de l’État seront mobilisés pour procéder à l’évacuation »

    « Nous serons amenés prochainement à prendre nos responsabilités parce que ce campement devient dangereux à bien des égards », a ainsi prévenu Lionel Beffre. « Des immondices en tous genres, des braséros de fortune dans lesquels sont brûlés du bois, des cartons... Sans oublier la production de fumées incommodantes », liste le haut fonctionnaire. De surcroît, ajoute-t-il, « il y a parmi les occupants des passeurs, voire des dealers. Mais aussi et surtout la présence d’enfants dans une situation préoccupante ».

    Devant l’état sanitaire déplorable du campement, Corinne Torre. cheffe de mission à Médecins sans frontières (MSF) venue à Grenoble le visiter, avait rappelé à l’État ses responsabilités. Pour mémoire, Eric Piolle avait signé, en avril dernier avec treize autres édiles, une lettre adressée au gouvernement dénonçant les conditions d’accueil des migrants.

    « J’ai fait savoir au maire de Grenoble, puisque le pouvoir de police lui appartient, qu’il pouvait prendre un arrêté pour mettre un terme à cette situation et mettre ces personnes à l’abri », déclare Lionel Beffre. Une décision dont il pense « qu’elle ne viendra pas » et qu’en conséquence, « les services de l’État procéderont à l’évacuation ».

    Par ailleurs, le préfet assure qu’il prendra « des mesures empêchant que d’autres personnes en difficulté se réinstallent sur le site ». De quoi rappeler, dans un autre registre, les dix-neuf blocs rocheux destinés à dissuader « les passeurs et les locataires d’emplacements » installés par la mairie de Grenoble au mois de juillet dernier.

    « Nous ne reconduisons pas assez vite à la frontière les demandeurs d’asile déboutés »

    Pourquoi des demandeurs d’asile se retrouvent-ils dans ce genre ce campement ? « Parce que nous n’avons pas assez de places d’hébergement et n’arrivons pas à reconduire assez vite à la frontière les demandeurs d’asile déboutés ». Si c’était le cas, « ces derniers n’occuperaient pas des places indument, pérennisant ainsi au fil du temps leur situation », explique le préfet.

    « Aujourd’hui nous sommes dans une situation où le droit d’asile est très clairement dévoyé », lance Lionel Beffre. Qui s’en explique. « Une partie non négligeable des ces demandeurs d’asile sont originaires des Balkans. Or, dans ces pays-là, même si ça a été le cas dans le passé, il n’y a plus de dictatures, persécutions ou oppressions qui sont le fondement du droit d’asile », expose le préfet.

    Pour le haut fonctionnaire, les chances qu’ont donc leurs ressortissant d’obtenir le sésame du droit d’asile est très minime, « de l’ordre de 10 à 15 % ». Pour les autres, « notre devoir c’est de les accueillir dans des lieux spécialisés », conclut le préfet. Notamment pour les accompagner dans la constitution de leur dossier de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra).

    Si aucune date n’a été officiellement annoncée pour l’expulsion, elle aura lieu ce jeudi 21 novembre au matin selon Droit au logement. Qui déplore qu’« au moins un tiers des familles, si ce n’est plus, ne seront pas relogées, et laissées dans le froid, sans tente ni lieu ou s’installer, après un tri humain effectué par l’État. » Le Dal appelle ainsi à un rassemblement en solidarité à 7 h 30 en face du camp, côté Saint-Bruno.

    https://www.placegrenet.fr/2019/11/20/campement-gare-de-grenoble-demantele/268584
    #SDF #sans-abrisme #sans-abri #démantèlement #destruction #campement_sauvage #préfecture #migrations #asile #réfugiés #hébergement #logement #déboutés #expulsions #renvois

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  • Ruling allowing Serco to evict asylum seekers sets ‘dangerous precedent’

    Campaigners are warning that a “dangerous precedent” has been set by a “brutal” ruling from Scotland’s highest court that evicting asylum seekers by changing their locks is lawful.

    The judgement means an estimated 150 people in Glasgow can now be evicted. The Inner House of the Court of Session rejected an appeal by Govan Law Centre and upheld an earlier court verdict in favour of the multinational housing provider, Serco.

    Most of those affected have had their pleas for asylum refused and have no right to public funds. They now face street homelessness even though they may working on appeals to Home Office decisions to deport them. Serco claimed it could now evict up to 20 people per week.

    Lawyers, including those from the Scottish Human Rights Commission, said they had “serious” concerns that the judgement meant the rights of vulnerable people living in Scotland would be breached.

    The court found that because Serco is a private organisation, it does not have to meet human rights obligations. The company lost its Home Office contract to house asylum seekers in Glasgow to the Mears Group in September.

    If the court had found in Govan Law Centre’s favour, Serco would have been forced to get a court order before making each eviction, giving asylum seekers greater protection. The company has previously sought court orders in some cases.

    At a press conference held by Govan Law Centre, which was representing clients in the case, those living in Serco accommodation and facing eviction spoke about their fears of ending up on the streets in the depths of winter.

    Campaigners said they had deep concerns for clients and were frustrated that many of those facing eviction are still fighting appeals. People can spend years in the asylum system, falling in and out of destitution and their right to accommodation, before their right to protection is recognised.

    Lorna Walker, instructing solicitor for Govan Law Centre, said: “To lose your home and become street homeless, especially when you have no right to public funds, is one of the worst things that could happen to a human being.

    “It is our position that without a court of law the outcome can be catastrophic. We are deeply concerned that it is held that the human rights act does not extend far enough to protect this most vulnerable group of people from being evicted.”

    Khadija Anwar, from Kenya, spoke of her shock and confusion following the decision. She and her husband, Muhammad, from Pakistan, are facing eviction from their Serco flat after having their case refused. Now in their seventies, they have been destitute for five months, relying on support from Positive Action in Housing, food banks and other charities.

    “Both of us are very tired,” she said. “I am struggling with arthritis and vertigo and my husband has heart problems, dementia problems. It’s very difficult.”

    She added: “Already I can’t bear this cold, even inside the house. How can they do this? Do they think we can stay out on the street in this cold? I’m so worried about my husband, my loving husband. This is not the stage where we can leave [the UK] without each other.”

    Robina Qureshi, chief executive of Positive Action on Housing, said: “What the court has done is legally institute a form of housing apartheid in Glasgow where one section of our community have their housing and human rights upheld, yet another can be dragged from their homes and on to the streets without recourse to public funds, to work or any form of support.

    “What does an eviction without due process look like? Where are the police, where are the sheriffs officers? Serco and other private housing companies now have carte blanche. They have the freedom to do this. What we have seen that people are enduring destitution for years and finally getting leave to remain.

    “But the fight does not stop here. And we are ready for it.”

    Positive Action on Housing is hoping to find additional capacity in its rooms for refugees programme, where volunteer hosts offer someone a bed. But Qureshi acknowledged it was not a perfect set-up, claiming people should be able to build their lives without the support of charity.

    Currently the only other option is the Glasgow Night Shelter for Destitute Asylum Seekers, which has space for about 20 men but is often full. The Glasgow Winter Shelter will not open until December.

    Govan Law Centre is currently consulting with clients. But it may appeal to the UK Supreme Court, while the Scottish Human Rights Commission, which intervened in the case, confirmed it is also considering further legal action.

    Judith Robertson, chair of the commission, said: “We have serious concerns about the implications of this ruling, both for the people directly affected and for the protection of human rights more broadly.

    “The court’s finding that Serco is not acting as a public authority in this context, and therefore is not bound by human rights legal obligations, has profound consequences for how people’s rights are protected when public services are delivered by private providers.

    “Governments should not be able to divest themselves of their human rights obligations by outsourcing the provision of public services.”

    Fiona McPhail, Shelter Scotland’s principle solicitor, agreed the decision was “deeply concerning”. She added: “It’s the state that has the statutory obligation to accommodate asylum seekers. If by privatising those services, the state can avoid its obligations under human rights law, this sets a dangerous precedent.”

    Glasgow City Council has recently made cuts of over £3m to existing homeless services. Shelter Scotland is taking the council to court for failing to meet its duty to accommodate homeless people.

    https://theferret.scot/serco-judgement-evictions-glasgow-lock-change
    #SDF #sans-abrisme #sans-abri #Ecosse #asile #migrations #réfugiés #UK #privatisation #serco #hébergement #logement

    • Lock change evictions ruled lawful

      Refugee Survival Trust fears a humanitarian crisis on Glasgow’s streets, as lock change evictions of asylum seekers approved by Court of Session.

      A humanitarian catastrophe created by the UK Home Office and Serco, its former housing contractor, will force hundreds of vulnerable asylum seekers onto the streets of #Glasgow, warns the Refugee Survival Trust.

      This follows a ruling by the Court of Session, which found Serco’s controversial ‘lock change’ eviction policy to be lawful. This ruling will see people who are fleeing war and persecution evicted from their homes and forced onto the city’s streets into destitution.

      Cath McGee, Destitute Asylum Seeker Service Manager at the Refugee Survival Trust said, “We’ve been hearing from asylum seekers living under enormous stress who have told us that they are terrified of losing the roof over their head in the harsh winter months. We now fear a humanitarian crisis on Glasgow’s streets involving hundreds of already vulnerable people who have no other means to support themselves as they cannot work or claim benefits.”

      “These people have nowhere else to go. They are not permitted to access homeless services so throwing them out of their homes onto the streets will place them at enormous risk. They have fled war and persecution and are seeking asylum in Scotland. Now they will be forced to fight for their daily survival.”

      “With their basic right to shelter taken from them they won’t have a postal address to collect important letters related to their asylum case. Nor will they be in a position to seek legal advice or gather new evidence to support a fresh asylum claim to help them stay in the UK.”

      Scots housing law prevents Scottish families from being evicted without a court order. The Refugee Survival Trust, a charity that leads the Destitute Asylum Seeker Service in Glasgow and provides practical support including small emergency cash grants to asylum seekers facing destitution, says this should apply to everyone in Scotland, regardless of their immigration status.
      “Vulnerable people seeking asylum should be afforded the same housing rights as Scottish families. We should not tolerate a system that treats people seeking international protection in this brutal way,” said Ms McGee.

      In September 2019, the #Mears_Group took over the contract to provide housing to asylum seekers in Glasgow. The Group is yet to give a formal undertaking that it won’t force asylum seekers into homelessness and destitution.

      “We’re calling on the Mears Group to make a public commitment that they won’t pursue lock change evictions to forcibly remove vulnerable people seeking asylum here in Scotland from their homes,” added Ms McGee.

      https://www.rst.org.uk/archives/3232

    • Disappointing decision on Serco lock changes

      Today the Court of Session found in favour of Serco in a test case for asylum seeker lock changes.

      Our Principal Solicitor Fiona McPhail commented:

      “This decision is deeply disappointing news for all those directly affected.

      “We now face a situation where around 300 people will be at risk of summary eviction, with no right to homeless assistance or no right to work to earn their own income to cover rent, meaning there is a high risk they will end up on the streets of Glasgow.

      “Our clients are continuing to progress their asylum claims and cannot return to their country of origin.

      “The finding that Serco is not a public authority and therefore does not need to comply with the Human Rights Act or the Equality Act is deeply concerning. It’s the state that has the statutory obligation to accommodate asylum seekers - if by privatising those services, the state can avoid its obligations under human rights and equalities law, this sets a dangerous precedent.

      Gordon MacRae, Assistant Director for Communications and Policy, Shelter Scotland said:

      “At Shelter Scotland we think there are both moral and legal cases to be heard. It is morally repugnant to force anyone out of their home with nowhere for them to go. Public bodies must not stand by while people face winter on the streets.

      “Shelter Scotland exist to protect everyone’s housing rights no matter their circumstances. We will continue to do what we can protect those whose rights are denied. “

      Fiona McPhail added:

      “The Court appears to have placed some emphasis on the type of case it was- and the fact that it was not a judicial review. Hopefully the solicitors in this case will reflect on these observations, as judicial review proceedings were raised by another party and have been put on hold whilst this case has been taken as the lead case.”

      https://scotland.shelter.org.uk/news/november_2019/disappointing_decision_on_serco_lock_changes

    • #Glasgow faces homeless crisis with asylum seeker evictions

      With temperatures plunging, night shelters scramble to deal with fallout after court ruled to allow ‘lock-change evictions’.

      Asylum seekers in Glasgow are facing the prospect of sleeping on the streets in freezing conditions when the wave of “lock-change evictions” – held off for nearly 18 months by public protests and legal challenges – finally begins in earnest over the next fortnight, with the only available night shelter already full to capacity and frontline workers desperately scrambling to secure more emergency accommodation.

      Earlier this month, Scotland’s highest court upheld a ruling that Serco, which claims it has been “demonised” over its controversial policy of changing the locks on the homes of refused asylum seekers, did not contravene Scottish housing law or human rights legislation. The private housing provider now plans to evict 20 people a week.
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      Annika Joy, who manages the Glasgow night shelter for destitute asylum seekers, is blunt about the prospects of avoiding a homelessness crisis across the city, where temperatures plummeted to below zero last week. “We don’t have any slack,” she says. “We have 24 beds here, booked to capacity every night. We believe there are already 150 asylum seekers at any time who are making survival decisions, perhaps being forced to sell sex or labour for accommodation, or sofa surfing. Now we estimate that another 150 people will be evicted by Serco over the winter.”

      Joy is painfully aware of how basic the shelter’s provisions are. There are no showers in the building, nor sufficient secure space where guests can store possessions. Without enough power for a catering cooker, the hot breakfasts and dinners provided with donated food are made on a minimal four-ring hob. In the bunk room itself, colourful blankets and sheets are draped around beds. It looks like a children’s sleepover party, but these are adult males desperately trying to create privacy among strangers, many of whom suffer from insomnia or night terrors.

      Refused asylum seekers in the UK find themselves in an almost uniquely unsupported position, with no right to homeless assistance or to work to provide for themselves.

      Graham O’Neill of the Scottish Refugee Council says many of those initially refused have their claims accepted on appeal – 55% according to most recent figures. A quarter of those Serco planned to evict when it first announced its lock-change policy in July 2018 have since returned to Section Four homelessness support.

      For O’Neill, there is a deep frustration that many of those still facing eviction are waiting weeks for decisions that should be made within days, or have fresh asylum claims ready but aren’t allowed to lodge them because of Home Office bureaucracy. “They are facing street homelessness, when actually in law they have an entitlement to support.”

      Joy says that a longer-term solution is needed across the city: “These are not people who will need a bed for a few nights until they have their lives sorted out, and we won’t end homelessness in Glasgow without a proper plan for asylum seekers.”

      The city is already facing a winter crisis, with demands for the council night shelter to open early because of freezing temperatures, while last month Shelter Scotland launched a judicial review that claims Glasgow city council has illegally denied temporary accommodation to homeless applicants.

      With this in mind, campaigners are working together with local housing associations and charities who have spare rooms, and in discussion with Glasgow’s city council and the Scottish government – who are limited because they are not legally allowed to directly fund accommodation for over-stayers - to put together a critical mass of long-term accommodation.

      The plan is to offer accommodation along with wraparound legal and health support, which can also serve the women who make up one in five of those facing eviction and who currently have nowhere to go.

      Robina Qureshi, director of Positive Action in Housing, which has been supporting a number of those anticipating eviction, emphasises the long-term psychological toll of the lock-change policy, saying: “People are very frightened about the prospect of being turfed onto the street at any time.”

      Joy emphasises how much living circumstances impact on people’s capacity to access support. “It’s striking how many rights our guests who have been refused by the Home Office have. When people are less anxious about where they are going to spend the night, when they have the encouragement to open up about their experiences, we often discover new information that can help their claims.”

      https://www.theguardian.com/society/2019/nov/27/glasgow-faces-homeless-crisis-with-asylum-seeker-evictions-set-to-begin

  • Analyse de la situation des réfugiées. Analyse de la situation des #femmes et des #filles relevant du domaine de l’asile dans les #centres_fédéraux pour requérants d’asile et les centres d’hébergement collectif cantonaux. Rapport du Conseil fédéral,en réponse au postulat 16.3407, Feri, du 9 juin 2016


    https://www.sem.admin.ch/dam/data/sem/aktuell/news/2019/2019-10-16/ber-br-fluechtlingsfrauen-f.pdf

    #Rapport #asile #migrations #réfugiés #réfugiées #femmes_réfugiées #Suisse #centre_fédéral #victimes #hébergement #CFA #violences_sexuelles #violence_sexuelle #exploitation_sexuelle #centres_d'hébergement_collectifs

    –---
    Le postulat :

    Les réfugiées sont particulièrement exposées à la violence et à l’exploitation sexuelles, non seulement dans les zones de guerre qu’elles fuient, mais également pendant leur fuite et même dans le pays dans lequel elles demandent l’asile. Cette situation nous amène à reconsidérer deux pans de notre politique :

    1. La question se pose de savoir dans quelle mesure l’encadrement, le traitement et le soutien que la Suisse offre aux réfugiées victimes de violence et d’exploitation sexuelles remplissent leur fonction. En parallèle se pose également la question de savoir s’il ne serait pas judicieux que ces victimes puissent compter sur le soutien des organes d’aide aux victimes. Ce soutien ne leur est pas garanti à l’heure actuelle. En effet, l’article 3 de la loi sur l’aide aux victimes prévoit qu’il n’est accordé que lorsque l’infraction a été commise en Suisse.

    2. La question se pose de savoir si un besoin d’action existe aussi dans le cadre de l’hébergement des femmes et des filles requérantes d’asile, si ces dernières sont suffisamment encadrées et si elles bénéficient d’une protection suffisante contre le harcèlement. Par ailleurs, la question se pose de savoir s’il existe suffisamment de directives de qualité et de mesures sensibles au genre concernant l’hébergement des femmes et des filles requérantes d’asile, comme les dortoirs séparés pour les femmes seules et les familles ou la formation du personnel encadrant.

    Face à tant d’incertitudes, je demande au Conseil fédéral de rédiger un rapport dans lequel il analysera la situation d’encadrement actuelle des réfugiées et déterminera s’il y a lieu d’agir.

    https://www.parlament.ch/fr/ratsbetrieb/suche-curia-vista/geschaeft?AffairId=20163407

    • Sécurité des femmes dans le domaine de l’asile : le Conseil fédéral adopte des mesures décevantes

      Les femmes et les jeune-filles qui déposent une demande d’asile en Suisse ont souvent été victimes de violence ou d’exploitation sexuelle dans leur pays d’origine ou durant leurs parcours migratoires. Elles sont aussi souvent des cibles idéales dans les centres fédéraux ou les centres cantonaux et subissent régulièrement des actes de violence.

      Sur les cinq dernières années la proportion des requérantes d’asile nouvellement arrivées en Suisse représente en moyenne 30% du nombre total des demandes d’asile. Parmi elles se trouvent une majorité de femmes érythréennes, syriennes, afghanes, somaliennes, turques, irakiennes ou encore iraniennes. Souvent elles n’osent pas parler de leurs traumatismes ou encore reçoivent les mauvais soins. Certaines n’osent pas aller se doucher de peur de croiser certains hommes au passage, d’autres ne ferment pas l’oeil car elles ne peuvent verrouiller leur porte. Et si elles osent communiquer un problème grave elles n’ont personne pour traduire.

      Les témoignages de femmes, accessibles sur le site de l’organisation TERRE DES FEMMES Suisse et les informations révélées dans l’excellent rapport du Centre suisse de compétence pour les droits humains (CSDH) sur la situation dans les cantons, font froid dans le dos.

      Enquête sur la sécurité des femmes et des filles dans le domaine de l’asile

      Il y a quelques jours, le Conseil fédéral adoptait un rapport important en réponse au postulat Feri (16.3407) soumis en juin 2016 et qui avait pour objectif de déterminer quelles améliorations devaient être apportées à l’hébergement et à l’encadrement des femmes et des filles requérantes d’asile en Suisse.

      Il se base sur le rapport plus détaillé du Secrétariat d’État aux migrations (SEM), publié en septembre 2019 et élaboré avec la collaboration de représentants du SEM, de l’Office fédéral de la santé publique (OFSP), de la Conférence des directrices et directeurs cantonaux des affaires sociales (CDAS) et de plusieurs organisations qui ont fait partie du “groupe de suivi”.

      Le Centre suisse de compétence pour les droits humains (CSDH) a eu pour mission titanesque d’analyser la situation dans les cantons à la demande des cantons (CDAS). Son rapport séparé sur la situation des femmes hébergées dans plusieurs cantons est une mine d’information sur la pratique des autorités cantonales. Les autres organisations, le Centre d’assistance aux migrantes et aux victimes de la traite des femmes (FIZ), l’Organisation suisse d’aide aux réfugiés (OSAR), TERRE DES FEMMES Suisse et le Haut Commissariat des Nations-unies pour les réfugiés (HCR) se sont penchés sur tous les aspects de protection et d’assistance aux femmes et aux filles dans le domaine de l’asile y compris celles victimes de violence. Constituant le “groupe de suivi” qui a accompagné l’élaboration du rapport du SEM ces organisations se sont concentrées sur la situation des femmes dans les centres fédéraux (CFA).

      Après deux ans d’enquêtes dans les centre fédéraux et dans les foyers de plusieurs cantons, le SEM propose 18 mesures en précisant que les cantons devront s’aligner autant que possible sur ces dernières.
      Les mesures adoptées par le Conseil fédéral…

      Parmi les changements envisagés, celles qui concernent la sécurité des femmes dans les hébergements fédéraux et cantonaux sont prioritaires. Le SEM est d’avis que les structures d’hébergement doivent mieux tenir compte des différences entre les sexes. Les femmes doivent avoir la possibilité de verrouiller leurs dortoirs, accéder librement et sûrement aux sanitaires dont beaucoup devront être dotés d’éléments pare-vues pour garantir l’intimité. L’accès aux soins médicaux doit mieux prendre en compte les besoins spécifique des femmes et des victimes de violence. Le SEM reconnaît aussi le besoin de mettre en place des formations adaptées pour le personnel en charge de l’administration, de la sécurité et de l’encadrement dans les centres d’hébergement. Un programme de formation est aussi prévu pour les prestataires fournissant des soins médicaux. Comme il n’existe aucune donnée sur le nombre de femmes et de filles victimes de violence, le SEM prévoit de saisir les données sur les incidents de violence ou d’exploitation sexuelles.
      …Sont décevantes !

      Le HCR comme les autres organisations ont salué l’adoption de ces premières mesures tout en recommandant de les étoffer et de les compléter car elles sont jugées trop minimalistes et incomplètes. Ces organisations reprochent aussi le manque de professionnalisme du SEM qui aurait dû mener son enquête autrement. Ce n’était pas au SEM d’évaluer lui-même la situation dans les centres fédéraux. Il aurait fallu confier ce travail à une organisation externe. Pourquoi les requérantes d’asile n’ont pas été interrogées ? Pourquoi ce rapport ne contient aucun chiffre sur les violences subies par les femmes et les filles réfugiées ? Pour l’enquête, les organisations estiment que des mesures destinées à générer des données aurait dû être prises.

      Parmi les mesures recommandées par ces organisations mais passées à la trappe citons l’installation d’espaces non mixtes intérieurs et extérieurs dans les centres, des lieux d’hébergement externes aux centres fédéraux pour les personnes particulièrement vulnérables, la présence continue d’un personnel féminin formé à intervenir en cas de problèmes dans les hébergements, la prise en charge médicale par des doctoresses, un accès permanent à un service d’interprétariat professionnel et enfin l’instauration d’un système de dépistage systématique à l’arrivée dans les centres fédéraux.
      Les femmes à l’aide d’urgence et en détention provisoire doivent aussi bénéficier des mesures d’aide

      Avec les mesures du Conseil fédéral, on est encore bien loin des exigences d’assistance sans discrimination prévue par la Convention d’Istanbul qui est entrée en vigueur pour la Suisse en 2018. Selon ce texte toutes les femmes victimes de violence doivent avoir accès à des services de soutien facilitant leur rétablissement. Pourtant notre Loi fédérale sur l’aide aux victimes d’infractions (LAVI) conditionne les mesures d’assistances au lieu de l’infraction ou de résidence de la victime au moment des faits, à savoir la Suisse. Ainsi les violences subies par les femmes et les filles pendant leur fuite ou dans leur pays d’origine ne donnent pas droit à une prise en charge.

      Pour l’instant, le Conseil fédéral n’envisage pas de modification de la loi mais propose des “solutions pragmatiques” pour les femmes qui ne sont pas couvertes par la loi. Quelles solutions pragmatiques ? Comment les mettre en place dans les centres fédéraux et dans chaque canton ?

      Dans un Appel adressé aujourd’hui au Conseil fédéral et aux cantons, TERRE DES FEMMES Suisse et 108 services spécialisés, organisations, institutions religieuses et partis politiques demandent à la Confédération et aux cantons que des solutions pragmatiques soient mises en place rapidement.

      “Nous demandons qu’il n’y ait plus de discriminations selon le statut. Notre demande est très actuelle puisque le Conseil fédéral a annoncé dans son récent communiqué de presse du 16 octobre que ces solutions pragmatiques devront être trouvées. Nous exigeons l’accès à l’aide pour toutes les victimes de violence, indépendamment du lieu du crime ou de leur statut de résidence.” explique Georgiana Ursprung.

      L’organisation revendique beaucoup d’autres mesures et estime que les femmes réfugiées ne sont pas du tout en sécurité dans le système d’asile. Elle insiste pour que des mesures de protection et d’assistance soient mises en place dans les cantons suisses pour les femmes et les filles à l’aide d’urgence ou celles placées en détention administrative. La pratique de l’expulsion des femmes enceintes jusqu’à la 36e semaine de grossesse est particulièrement grave et doit cesser.
      Le groupe de suivi n’est plus et c’est dommage

      Fallait-il attendre 2019 pour concevoir des accès sécurisés aux toilettes, des verrouillages aux portes, des activités et des pièces réservées aux femmes, des formations spécifiques au personnel encadrant et au personnel de sécurité encore trop rarement féminin ?

      En adoptant ces mesures le Conseil fédéral reconnaît pour la première fois la nécessité d’aider les victimes de violence ou d’exploitation dans leur pays d’origine ou durant leur fuite. Féliciter le Conseil fédéral pour une telle reconnaissance c’est un peu désolant après toutes les informations à disposition des autorités sur les violences subies par les femmes déplacées de force dans le monde.

      Difficile de savoir si la restructuration de l’asile a permis des améliorations pour les femmes dans le domaine de l’asile. Le SEM prétend que oui parce qu’il a pu intégrer certains standards dans son Plan d’hébergement (PLEX) qui est sensé évoluer prochainement. Ce plan n’est pas accessibles au public.

      Pour Eliane Engeler, porte-parole de l’OSAR, « le fait de concentrer tous les intervenants dans les centres fédéraux est une opportunité pour améliorer l’encadrement et la protection des femmes et filles. Mais cela nécessite une bonne collaboration entre tous les acteurs dans les centres, ainsi qu’une étroite collaboration avec des professionnels externes. » Elle estime que c’est encore trop tôt pour le dire.

      Pour conclure, il faut préciser que rien n’oblige le SEM à mettre en oeuvre les mesures adoptées par le Conseil fédéral (sur ses propres recommandations) et le groupe de suivi pour l’élaboration du rapport n’est pas habilité à surveiller la suite des travaux. Il serait donc judicieux que les ONG s’organisent pour suivre les actions du SEM et des autorités cantonales. Enfin, aucun calendrier d’exécution n’est prévu pour l’instant. Seul un “rapport sur l’avancement de la mise en oeuvre des mesures prises au niveau fédéral” devra être soumis au Conseil fédéral dans deux ans. Les termes sont choisis pour ne pas aller trop vite en besogne.

      Heureusement, l’OSAR a bien l’intention de veiller à leur mise en place comme l’explique Eliane Engeler. “ Nous allons suivre les mesures qui seront prises. Le groupe de suivi a été constitué pour l’élaboration du rapport dans le cadre du postulat Feri. Le postulat ne prévoit pas de suivi. Néanmoins nous avons appelé à ce que les lacunes soient comblées au plus vite . Indépendamment du postulat Feri, nous avons élaboré des standards minimaux destinés aux hébergements.”

      https://blogs.letemps.ch/jasmine-caye/2019/10/31/securite-des-femmes-dans-le-domaine-de-lasile-le-conseil-federal-adopt

  • Social and spatial atlas of Refugee Pireaus

    “Refugee neighborhoods of #Piraeus and historical memory: From emergence to prominence” is an interdisciplinary research project by the National Hellenic Research Foundation and National Technical University of Athens, which aimed at studying the entirety of refugee settlements established in the wider area of Piraeus after 1922. The purpose of this report is to briefly present the findings both on the social and the urban planning level of the research, which was completed a few months ago.

    The urban refugee settlement in the wider area of Piraeus was a gradual process that had not been thoroughly studied until now. The research project attempted to examine the settlement, utilizing historical evidence, unprocessed archives, contemporaneous newspapers, as well as oral testimonies. At the same time, a large number of topographical diagrams and map extracts was collected from various services and involved entities. After their digitization and homogenization, these resources were placed in a cohesive framework, thus providing the possibilty for a comprehensive overview and understanding of the urban geography of the settlement.

    These resources provided the opportunity to formulate a new historical narrative of the urban refugee settlement in Piraeus, as well as to discover and highlight specific points of interest, both from a historical and an urban planning perspective. The collected materials will be further processed and, along with a deeper exploration of the process of residential development, will constitute the foundation for the creation of the refugee atlas of the wider area of Piraeus.


    https://www.athenssocialatlas.gr/en/article/social-and-spatial-atlas-of-refugee-pireaus
    #Athènes #asile #migrations #réfugiés #Grèce #Pirée #mémoire #histoire #réfugiés_urbains #villes #urban_matter
    #cartographie #visualisation #Germanika #Kokkinia #Agios_Georgios #Keratsini #Drapetsona #hébergement #logement

  • Des enfants migrants non accompagnés injustement poursuivis en France

    Faute d’accès à un hébergement, les enfants ont trouvé refuge dans un #squat.


    À Marseille, des enfants migrants non accompagnés auxquels l’#Aide_sociale_à_l’enfance (#ASE) n’a pas fourni d’hébergement squattent dans un bâtiment inoccupé du diocèse. Les enfants sont maintenant poursuivis en justice pour #occupation_illégale de ce bâtiment, alors même que c’est le département des #Bouches-du-Rhône qui a failli à son obligation de les protéger.

    Cette situation perverse illustre les #défaillances des autorités françaises dans la protection de ces enfants. Environ 170 enfants non-accompagnés vivent dans le bâtiment, selon le Collectif 59 Saint-Just et le Réseau éducation sans frontières travaillant auprès de ces jeunes.

    Le squat est surpeuplé et infesté de punaises, et n’est en rien un hébergement approprié pour des enfants. Mais parce que l’ASE ne les a pas pris en charge comme elle aurait dû le faire, ce squat était la seule solution à leurs yeux.

    Certains des enfants convoqués devant le tribunal ont été reconnus mineurs par un juge et devraient en conséquence être pris en charge par les services de protection de l’enfance. D’autres sont en attente d’une évaluation de leur âge, parfois depuis des semaines, et devraient bénéficier d’une mise à l’abri. Selon les associations locales, 36 enfants vivant encore dans le squat à la date d’hier ont reçu une ordonnance de placement par un juge des enfants et auraient dû être pris en charge, comme le prévoit la loi.

    Les procédures d’évaluation de l’âge en France sont souvent injustes, et Human Rights Watch a documenté des procédures défectueuses d’évaluation de l’âge à Paris et dans les Hautes-Alpes. Mais à Marseille, même des enfants reconnus mineurs après ces procédures se retrouvent à la rue.

    Le 11 octobre, le tribunal administratif de Marseille a reconnu que les conditions de vie dans le squat ne sont pas acceptables pour des enfants non accompagnés et a enjoint le département des Bouches-du-Rhône d’assurer l’hébergement et la prise en charge de l’enfant requérant.

    Bien que forcés de vivre dans des conditions précaires du fait des défaillances des autorités, ce sont les enfants qui ont dû se présenter devant un tribunal à cause de la procédure d’expulsion les visant. C’est inacceptable. Il est grand temps que les autorités assument leurs responsabilités envers ces enfants, y compris ceux en attente d’une évaluation de leur âge, et leur garantissent la prise en charge et la mise à l’abri auxquelles ils ont droit.

    https://www.hrw.org/fr/news/2019/10/18/des-enfants-migrants-non-accompagnes-injustement-poursuivis-en-france
    #MNA #Marseille #France #hébergement #logement #justice #mineurs_non_accompagnés #asile #migrations #réfugiés #SDF

    ping @karine4

  • Le #Trièves, terre d’accueil des réfugiés

    Le Trièves, c’est un joli coin de campagne niché entre l’Obiou et le Mont-Aiguille, à une cinquantaine de kilomètres au Sud de Grenoble. Depuis cinq ans, une centaine d’habitants se sont regroupés dans le #CART, le « #Collectif_d'Accueil_de_Réfugiés_du_Trièves ». A #Mens, #Chichilianne et #Monestier_de_Clermont, ils hébergent et accompagnent ceux qui se sont « exilés », qui ont du quitter leur pays pour échapper à la mort ou à la misère.


    https://france3-regions.francetvinfo.fr/auvergne-rhone-alpes/isere/grenoble/trieves-terre-accueil-1734021.html
    #accueil #solidarité #asile #migrations #réfugiés #hébergement #campagne #rural #Isère #audio

    ping @karine4 @isskein