• Treize maires interpellent le gouvernement : « La rue n’est pas un lieu pour vivre »

    Face à la situation des réfugiés et demandeurs d’asile en France, qui se retrouvent souvent à la rue faute de places d’hébergement disponibles, treize maires, de bords politiques variés, en appellent aux ministres de l’Intérieur et du Logement.
    Un sur deux. C’est, d’après le directeur de la Fédération des acteurs de la solidarité, Florent Gueguen, le nombre de demandeurs d’asile hébergés dans le dispositif national d’accueil. Les autres ? S’ils ne trouvent personne pour les loger, ils se retrouvent à la rue, qui dans une tente d’un campement de fortune, qui sous une bretelle de périphérique, qui dans un squat…

    Pour les municipalités, la situation est complexe : elles sont au quotidien en première ligne, or l’hébergement d’urgence comme la politique de l’asile ne relèvent pas des compétences communales, mais de celles de l’Etat. Donc de financements sur lesquels les édiles locaux n’ont pas la main. « On est mobilisés tous les jours. Les villes sont volontaires mais on manque de moyens », résume Emmanuel Carroz, adjoint au maire de Grenoble.

    La maire de Paris, Anne Hidalgo, qui accuse le gouvernement de « déni de réalité » depuis plusieurs semaines déjà, juge que « le dispositif mis en place par l’Etat ne marche pas. Il est trop rigide parce qu’il ne considère pas que l’accueil doit être inconditionnel ». Avec douze autres maires, de droite comme de gauche, la socialiste a donc écrit aux ministres de l’Intérieur et du Logement, estimant ne pas pouvoir « accepter plus longtemps cette situation indigne de nos valeurs et de la tradition humaniste de notre pays ».

    « Malgré les dispositifs mis en place par l’Etat et les efforts réalisés en matière de création de places d’hébergement, les besoins restent largement supérieurs à l’offre », écrivent encore Nathalie Appéré (Rennes), Martine Aubry (Lille), François Baroin (Troyes), Damien Carême (Grande-Synthe), Nicolas Florian (Bordeaux), Eric Piolle (Grenoble), Johanna Rolland (Nantes), Laurent Russier (Saint-Denis), Jean-Luc Moudenc (Toulouse), Roland Ries (Strasbourg), Dominique Gros (Metz), Meriem Derkaoui (Aubervilliers) et Anne Hidalgo.


    https://twitter.com/Anne_Hidalgo/status/1120969177735618561?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E11

    « La rue n’est pas un lieu pour vivre, c’est un lieu pour se promener », estime la première magistrate de Paris, qui peste contre la théorie de « l’appel d’air », qui voudrait qu’offrir des conditions décentes de subsistance aux demandeurs d’asile débouche sur des arrivées massives. « Quand on a ouvert la Bulle [le centre d’hébergement de la porte de la Chapelle, ndlr], explique-t-elle, les flux sont restés constants ».

    Selon Florent Guegen, il faudrait « ouvrir 40 000 places d’ici la fin du quinquennat » pour parvenir à loger tout le monde correctement. Mais aussi en finir avec le règlement de Dublin, qui veut qu’une demande d’asile soit traitée dans le premier pays européen d’arrivée, par exemple l’Italie, ou l’Espagne. Or, toutes les personnes qui débarquent dans le sud de l’Europe n’entendent pas forcément y rester, ayant parfois de la famille dans un autre pays, et se retrouvent en errance. « Seulement 13% des personnes sous statut "Dublin" sont transférées vers le pays européen instructeur de leur demande », rappelle le responsable associatif, qui appelle également à « une politique pragmatique de régularisation des personnes qui ne seront pas expulsées vers leur pays d’origine » et qui peuplent les campements indignes des grandes villes.

    Pierre Henry, directeur général de France Terre d’asile, rappelle de son côté qu’évacuer régulièrement les campements, qui se reforment tout aussi régulièrement, coûte cher. Il faut mobiliser des hébergements, des travailleurs sociaux, des policiers, des agents de nettoyage… Les « politiques d’urgence sont plus dispendieuses » que les investissements de long terme dans l’hébergement digne.

    https://www.liberation.fr/france/2019/04/24/treize-maires-interpellent-le-gouvernement-la-rue-n-est-pas-un-lieu-pour-
    #villes-refuge #asile #migrations #réfugiés #maires #municipalité #France #hébergement #SDF #sans-abrisme #sans-abris #logement

    J’imagine que les treize maires sont les maires qui ont initié le réseau #ANVITA (https://seenthis.net/messages/759638), même si il n’est pas mentionné dans l’article.

    Ajouté à ici :
    https://seenthis.net/messages/759638

    ping @karine4

  • #Campania. Con i nuovi bandi, l’esodo è forzato. Chiudono le
    esperienze positive e si aprono spazi alla mala accoglienza

    Anche in Campania, le novità sono arrivate con i nuovi bandi. Nuovi bandi che, va sottolineato, sono stati emanati dalle Prefetture prima che entrasse in vigore il decreto Salvini, ma che non si sono comunque fatti scrupolo di anticipare le modalità e le logiche annunciate dal ministro dell’Interno. “Si sono allineate prima ancora che ce ne fosse bisogno” commenta amaramente Gennaro Avallone, attivista della campagna LasciateCIEntrare. Anche in Campania, quindi, una parte dei piccoli #Cas è stata chiusa e gli ospiti dirottati su strutture più grandi, anche a 50 o 60 chilometri di distanza. “In provincia di #Salerno, ad esempio, i migranti che risiedevano nei centri dell’#Agro_Nocerino-Sarnese sono stati spostati verso la #Piana_del_Sele con un preavviso non superiore alle 24 o al massimo 36 ore. Ho visitato personalmente un centro a Pagani, piccolo Comune dell’Agro Nocerino e ho conosciuto persone che erano in quel comune da oltre due anni e che già lavoravano e cominciavano a intascare un piccolo reddito, sia pure inferiore a quanto richiesto per rimanere in accoglienza. Come faranno a raggiungere il posto di lavoro ora? Un amico pakistano di nome Mohamed frequentava l’università a Napoli. Dall’Agro Nocerino-Sarnese arrivava in città col treno, ma adesso ha grandi difficoltà per farlo. Ma anche senza citare questi casi, sappiamo tutti che la vita quotidiana è fatta di relazioni e anche di piccole cose. C’è chi, molto più banalmente, aveva investito in una scuola guida e ora non può più seguire le lezioni”.

    Qualcuno è riuscito a rimanere o a ritornare nei luoghi in cui viveva grazie all’aiuto di amici o della rete di attivisti. Ma per i più è stato un esodo forzato.

    “Proprio in previsione di questa situazione, il 26 gennaio, abbiamo organizzato una manifestazione a Salerno che ha visto la partecipazione di circa un migliaio di cittadini e di migranti. Il primo punto delle richieste manifestate, quello che in maniera più semplice si sarebbe potuto affrontare, era proprio il mantenimento delle piccole strutture dislocate nel territorio ma la Prefettura non ci ha voluto ascoltare. Eppure l’esperienza dei Cas e degli sprar della provincia di Salerno non è stata così totalmente negativa, pure se ha presentato situazioni pessime sotto diversi punti di vista ed altre che si sarebbero potute migliorare – continua Gennaro. In particolare, stava dando buoni frutti il Cas per nuclei familiari nel comune di Piaggine che dava assistenza a 22 persone migranti, chiuso recentemente”.

    Capitolo a parte per #Caserta dove si è costituita un’originale alleanza sociale, che comprende, ad esempio, la collaborazione tra le suore Orsoline e le attiviste e gli attivisti del Centro sociale Ex Canapificio legati al locale movimento Rifugiati e migranti. “Questa alleanza si è tradotta nella gestione dello Sprar, in cui la rete costituita attorno al centro sociale ha fatto da punto di riferimento a centinaia di richiedenti asilo, con l’organizzazione di un’accoglienza diffusa che ha evitato grandi strutture concentrate ma si è organizzata attraverso piccoli appartamenti dislocati in tutta la città. Questa esperienza diffusa ha aiutato a combattere anche su fronti difficili come lo sfruttamento della prostituzione e quello lavorativo, specialmente agricolo. Come già avvenuto per Riace, anche in questa situazione è arrivata puntuale una inchiesta della magistratura che il 7 febbraio ha accusato alcune persone dell’Ex Canapificio di associazione a delinquere finalizzata a truffa aggravata. Il 12 marzo, poi, come sappiamo, anche il centro sociale è stato sgomberato dalle forze dell’ordine”. Tuttavia, lo sprar di Caserta comunque continua a funzionare, sebbene il bando scadrà quest’anno “e non abbiamo ancora idea di cosa farà l’amministrazione comunale”.

    In una regione che ha conosciuto la vergogna della pessima accoglienza, come abbiamo ricostruito anche nel libro Il sistema di accoglienza in Italia. Esperienze, resistenze, segregazione, del quale con l’editore Orthotes stiamo per pubblicare la seconda edizione aggiornata con gli effetti del Decreto Salvini, non ci possiamo permettere una gestione che continua a subordinare i bisogni e i percorsi di inclusione sociale delle persone richiedenti asilo alle necessità della propaganda o della cieca burocrazia”, conclude Gennaro Avallone, evidenziando la necessità, in ogni caso, di pensare ad un superamento radicale di questo sistema, assumendo la necessità di far ripartire in Italia una politica universalistica per la casa.

    https://www.lasciatecientrare.it/campania-con-i-nuovi-bandi-lesodo-e-forzato-chiudono-le-esperienze
    #décret_salvini #decreto_salvini #decreto_sicurezza #Italie #fermeture #conséquences #asile #migrations #réfugiés #hébergement #SPRAR #accueil

  • Le droit d’asile malmené : le Conseil d’État appelé à se prononcer sur le refus des conditions d’accueil aux personnes « dublinées »

    Douze associations et syndicats ont déposé devant le Conseil d’État une requête en annulation, accompagnée d’un référé-suspension, contre le décret du 28 décembre 2018 relatif aux conditions matérielles d’accueil (CMA), versées aux demandeur·e·s durant l’examen de leur dossier. Il s’agit de contester un système inique visant à couper irrévocablement le #droit_à_l’hébergement et à une #allocation aux personnes dublinées prétendues « en fuite ».

    Ce #décret met en application les dispositions de la loi du 10 septembre 2018 qui prévoient la fin des CMA pour plusieurs catégories de personnes en demande de protection, ainsi que la possibilité de les assigner à résidence ou de les placer en rétention dès la notification d’une décision défavorable de l’Ofpra (Office français de protection des réfugiés et apatrides). Le décret prévoit également que l’Ofii (Office français de l’immigration et de l’intégration) peut désormais refuser ou retirer automatiquement le droit à l’hébergement et à l’allocation notamment aux personnes dublinées placées « en fuite » ou à celles qui n’ont pas respecté l’orientation directive vers un hébergement ou une région de résidence.

    Au cours de l’audience, qui s’est déroulée le 28 mars 2019, le juge des référés a pointé plusieurs difficultés dans le dispositif critiqué. Sa décision sur la suspension du décret, et donc de la loi, est attendue dans quelques jours.

    En plus de cette requête, de nombreux contentieux individuels sont également en cours contre cette procédure-piège qui place les personnes dans l’extrême précarité. Depuis plusieurs mois, le nombre de personnes dublinées accueillies dans les permanences associatives, à la suite du retrait ou du refus de leur accorder des CMA au prétexte qu’elles ont été déclarées « en fuite » par les préfectures, ne cesse d’augmenter. Car en cas de « fuite », l’Ofii leur retire mécaniquement les droits sociaux sans leur notifier une décision motivée et individualisée.

    Le 5 avril 2019, le Conseil d’État va examiner la légalité de ces coupes claires de droits pratiquées par l’Ofii dans cinq dossiers individuels en appui desquels nos organisations ont déposé des interventions volontaires. Or l’Ofii a la main de plus en plus lourde : selon ses propres chiffres, plus de 15 417 décisions de suspension des CMA ont été prises en 2018, soit 5 fois plus qu’en 2017.

    Les campements aux portes de Paris ou d’autres grandes métropoles abritent désormais une part importante de ces demandeur·e·s d’asile jeté·e·s à la rue parce que considéré·e·s comme « en fuite », alors que leur demande d’asile est en cours d’instruction devant l’Ofpra ou la CNDA. Sans aucune ressource, ni logement, leur état de santé physique et psychique se dégrade rapidement.

    Nous contestons cette logique manifestement contraire au droit européen. La directive « accueil » oblige en effet les États membres de l’UE à garantir aux demandeur·e·s d’asile « des moyens de subsistance permettant d’assurer la dignité des personnes ».

    L’accueil des demandeur·e·s d’asile par la France est mis à mal depuis des années, la dernière loi « asile et immigration » renforce son caractère dissuasif et punitif, mettant des milliers d’exilé⋅e⋅s dans le dénuement le plus total.

    https://www.gisti.org/spip.php?article6135
    #conditions_d'accueil #Dublin #dublinés #règlement_dublin #France #accueil #hébergement #conditions_matérielles_d'accueil #CMA #assignation_à_résidence

    Quand la France ce met à imiter la #Suisse...
    #modèle_suisse

  • Decreto sicurezza, entro l’estate 18mila giovani italiani senza lavoro (grazie a Salvini)

    Nella crociata contro quello che Salvini ha definito «un business fuori controllo pagato dal popolo italiano», quello cioè dell’accoglienza degli immigrati, finiscono anche professionisti italiani under 35: quasi tutti medici, infermieri, mediatori culturali, insegnanti, psicologi e avvocati.

    Entro fine anno 18mila italiani resteranno senza lavoro. Tutti laureati e con meno di 35 anni. È l’effetto del “decreto sicurezza” di Matteo Salvini, che ha ridotto la spesa per l’accoglienza degli immigrati da 35 euro lordi a una media di 21 euro lordi pro capite al giorno, cancellando dai centri di accoglienza (o riducendone le ore di lavoro) figure professionali come infermieri, mediatori culturali e insegnanti di italiano. Da Nord a Sud, le vertenze sindacali con le onlus e le cooperative si moltiplicano di giorno in giorno. E con i pochi nuovi bandi già pubblicati dalle Prefetture, in linea con le nuove tabelle governative, si contano già 4.100 esuberi. Da qui all’estate tutti si saranno adeguati. E la stima della Fp Cgil è che si arriverà a un bacino di 16-18mila disoccupati. Per i quali non è stato previsto nemmeno alcun ammortizzatore sociale ad hoc.

    Nella crociata contro quello che Salvini ha definito «un business fuori controllo pagato dal popolo italiano», sparando a zero contro il modello d’accoglienza Sprar di Riace, finiscono così anche molti giovani professionisti italiani. L’impianto del decreto (poi convertito in legge) prevede che chi arriva in Italia e chiede asilo, prima del via libera avrà a disposizione solo i servizi essenziali. Vale a dire cibo, pulizia e vestiti. Solo per chi ha diritto a restare, invece, saranno garantiti poi anche i corsi di italiano e i servizi per l’inserimento e l’integrazione che fino ad oggi spettavano a tutti i migranti che presentavano domanda d’asilo. La spesa per l’accoglienza così passa dai famosi 35 euro a una forbice tra i 19 e i 26 al giorno. La logica del Viminale è: non ha senso offrire servizi in più se poi il soggetto sarà giudicato irregolare da espellere. E con l’abolizione della protezione umanitaria, il numero di chi ha diritto ai servizi scende a picco.

    Quindi niente (o quasi) mediatori culturali, psicologi, assistenti legali e insegnanti di italiano. Che significa meno servizi per gli immigrati, ma anche tagli di posti di lavoro per i tanti italiani occupati nel settore. Che ad oggi, su 131mila ospiti, tra centri di accoglienza straordinari e quel poco che resta degli Sprar, sono circa 40mila. Gran parte sotto i 35 anni di età, molti appena usciti dai corsi di laurea in Mediazione culturale.

    Da Nord a Sud, le vertenze sindacali con le onlus e le cooperative si moltiplicano di giorno in giorno. E con i pochi nuovi bandi già pubblicati dalle Prefetture, si contano già 4.100 esuberi. Entro l’estate si arriverà a 16-18mila

    Per capire quale sarà l’impatto occupazionale dei prossimi bandi in uscita, basta mettere a confronto le nuove tabelle dei servizi offerti dal decreto Salvini con quelle del decreto Minniti. Per fare qualche esempio, gli operatori diurni nelle strutture fino a 50 posti scendono da tre a uno. E nei grandi centri da più di 1.500 ospiti vengono dimezzati da 24 a 12. Anche i direttori dei centri fino a 50 posti si vedranno le ore di lavoro tagliate da 36 a 18. Cancellando del tutto la presenza di almeno un infermiere (come previsto dal decreto Minniti) nei centri fino a 150 posti e dimezzando l’orario dei turni in quelli più grandi. E lo stesso vale per i medici e gli assistenti sociali. La mediazione linguistica passa da 54 a 10 ore a settimana; la consulenza legale da 24 a 3. Gli insegnanti di italiano, invece, nelle nuove tabelle scompaiono del tutto, mentre nei vecchi bandi si partiva da 8 ore a settimana. Il minimo per i migranti per cominciare a comunicare, nell’attesa, spesso lunga, dell’esito delle commissioni territoriali.

    «Gli esuberi in corso, tra licenziamenti e riduzioni d’orario, oggi sono già 4.100», dice Stefano Sabato, responsabile delle Cooperative Sociali della Fp Cgil nazionale. Per l’estate, quando arriveranno tutti i bandi, questi numeri saranno destinati a essere più che quadruplicati. La previsione è che si possa toccare quota 18mila. «E la parte preponderante degli esuberi interesserà le professionalità più alte e qualificate», aggiunge Sabato. «Mentre gli operatori delle mense o dei servizi di pulizia saranno interessati di meno, a essere colpiti di più sono mediatori culturali, infermieri, avvocati, insegnanti, psicologi, medici. Gran parte dei quali giovanissimi e neolaureati».

    Cancellata la presenza di almeno un infermiere nei centri fino a 150 posti; la mediazione linguistica passa da 54 a 10 ore a settimana; la consulenza legale da 24 a 3. Gli insegnanti di italiano, invece, nelle nuove tabelle scompaiono del tutto

    Finora i bandi aggiornati sono stati già stati pubblicati dalle prefetture di Cagliari, Messina, Frosinone e Como. In città come Bologna, invece, il vecchio capitolato è stato prorogato fino a fine marzo per attutire l’impatto delle nuove regole. E lo stesso ha fatto la prefettura di Genova, facendo slittare l’organizzazione attuale fino al 15 aprile, dopo la decisione di alcune cooperative e associazioni di non partecipare ai nuovi bandi in segno di protesta contro il decreto leghista, che avrebbe come effetto quello di mettere alla porta 300 migranti. Intanto, le vertenze sindacali si moltiplicano. Solo in Lombardia, si sono aperte crisi a Milano, Como, Lodi, Varese, Monza Brianza e Mantova. Ed essendo stata l’accoglienza distribuita a livello nazionale, il contagio è destinato a estendersi.

    «L’aspetto grave è che abbiamo le armi spuntate. Non abbiamo cioè ammortizzatori sociali adatti per far fronte a quella che si prospetta come una grande vertenza italiana», spiega Sabato. Il ministero del Lavoro di Luigi Di Maio ha appena pubblicato una circolare in cui autorizza la cassa integrazione straordinaria per le imprese appaltatrici di servizi di pulizia e mensa, ma non per i lavoratori che operano con i migranti. «Dopo l’accordo raggiunto per il contratto di solidarietà al Cara di Castelnuovo di Porto, non è stata prevista né cassa integrazione né ammortizzatori per la ricollocazione di queste persone», conferma Sabato. Lavoratori che forse, a questo punto, si ritroveranno a chiedere il reddito di cittadinanza. O, tutt’al più, a fare i navigator.

    https://www.linkiesta.it/it/article/2019/04/03/decreto-sicurezza-disoccupati-immigrazione/41666
    #décret_Salvini #décret_sécurité #decreto_Salvini #asile #migrations #réfugiés #chômage #travail #jeunes #Italie #chiffres #statistiques #SPRAR #hébergement

  • #L’Ouvre-Porte se lance à Grenoble pour aider les SDF

    L’association lyonnaise ouvre sa première antenne dans la commune.

    L’association l’Ouvre-Porte œuvre contre la précarité à Grenoble en mettant en relation des personnes sans domicile fixe avec des bénévoles prêts à les accueillir pour un temps. L’antenne grenobloise de l’Ouvre-Porte est née d’un ras-le-bol. Celui de Charlotte Doubovetzky, Grenobloise sensible aux problèmes de #logement et de ses colocataires, déçus du fonctionnement de certaines associations d’#hébergement d’urgence locales.

    Le leitmotiv de l’association est l’hébergement citoyen. Des #volontaires se proposent pour accueillir gratuitement des personnes en situation de grande précarité. Pour une douche, un repas, une nuit, ou plusieurs, ils leur offrent l’hospitalité sans contrepartie.

    Aujourd’hui, deux jeunes demandeurs d’asile sont pris en charge. Sidi et Chériff, deux Maliens de 19 ans arrivés en France il y a plus de deux ans. Ils sont sortis de la rue grâce à l’Ouvre-Porte.


    https://www.ledauphine.com/isere-sud/2019/03/31/l-ouvre-porte-se-lance-a-grenoble-pour-aider-les-sdf-ltoq
    #accueil #hospitalité #Grenoble #France #SDF #sans-abritisme #sans-abris

  • Bunker razzisti

    Perché nel Cantone Ticino da mesi ci sono decine di persone sepolte vive in tre bunker per rifugiati?
    Perché nel Cantone Ticino da mesi ci sono decine di persone sepolte vive in tre bunker per rifugiati? Perché sono neri. Scuri di pelle. Non sono di pelle bianca. Eritrei, Afgani, Irakeni, Turchi. Non sono quei “Veri Svizzeri” da tre generazioni, come discrimina da decenni Lorenzo Quadri, consigliere nazionale del Ticino, su quel suo Meschino della domenica che spiana la corsa alla preziosa cadrega per i consiglieri di Stato e granconsiglieri del biciclo Lega/Udc. Se fossero di razza bianca li terremmo ancora (per quanti mesi?) sottoterra?

    Durante le manifestazioni tenutesi nel cantone per la settimana contro il razzismo è circolato anche l’appello dei medici ticinesi per la chiusura dei bunker. Medici? Sì, proprio, perché lamentano il danno per la salute. Chiusura? Si, immediata, perché da mesi è in pericolo la salute di decine di persone. “Ma non abbiamo posto”. Ma come mai in altri cantoni, per esempio nel Canton Vaud, una rete di famiglie può ospitarli? E il Pontefice non aveva raccomandato anche alle Parrocchie di fare posto a qualcuno di questi sventurati? E il presidente della Croce Rossa internazionale (quell’altra, non quella che vigila sui “sepolti vivi”) che oggi si sgola elemosinando trattamento umano per i perseguitati? “Ma questi sono pericolosi”. Più dei condannati per rapina, stupro, pedofilia, che però beneficiano, almeno, delle regole minime del Consiglio d’Europa per i carcerati? Ma sì, teniamoli bene ammucchiati uno sopra l’altro, così un giorno scoppiano, si accoltellano, ci scappa il morto e di chi sarà la colpa? Ma dei neri, ovviamente, ve lo avevamo già scritto da tanti anni, sul Meschino della domenica.

    Ora ci ammoniscono anche questi medici ticinesi: a questi sventurati si riconoscono meno diritti dei condannati. E se fossero vostri figli o fratelli? “Non fare agli altri ciò che non vorresti venga fatto a te stesso”: ma non vale più nemmeno questo principio? Ma se persino il Parlamento e il Governo e i Municipi tollerano i “sepolti vivi“, ossia la violazione del diritto alla salute, ossia la violazione delle leggi più fondamentali, cosa sono pronti a tollerare in futuro? In Ticino i diritti umani non sono più universali. Valgono solamente per certe categorie di persone. Oggi soffrono quelli di pelle scura. Domani? Dopodomani? Chi saranno i prossimi vulnerabili vittime della attuale tolleranza verso il razzismo? Lo sappiamo fin troppo bene, l’abbiamo già visto anche nel secolo scorso.

    https://www.laregione.ch/opinioni/commento/1361673/bunker-razzisti?mr=1

    #bunker #bunkers #hébergement #asile #migrations #suisse #sous-terrain #underground #Tessin #racisme

  • Homeless asylum-seekers fall through the cracks in the UK

    When asylum-seekers register for asylum in Britain, having fled their home countries, they qualify for asylum support while their claim is assessed by the Home Office. This support should include safe, clean accommodation and a living allowance for food and other necessities.

    If the asylum-seeker’s claim is granted, they then gain refugee status, which means they can live in the UK as a settled person – they can then take on work or study, as they wish.

    If their claim is refused however, the asylum-seeker is given a strict 14-day deadline in which to lodge an appeal. This deadline is usually even shorter in practice, as it corresponds with the date provided on the refusal letter, which is usually dated a few days before it is received. If they do not lodge this appeal in time, they lose their right to remain in the UK, along with all forms of asylum support.

    While many would argue that this process – on paper – makes sense, there are certain flaws it presents when put into practice and when considered alongside the British government’s current attitudes towards asylum and immigration.

    The number of initial asylum denials which are overturned at the appeal stage year-on-year is rising. While in 2017 the number of rejected asylum claims which were granted on appeal was 57%, in 2018 this figure rose to 75% – in other words, three-quarters of all the asylum claims that were denied were later found to be genuine.

    This number shows the frequency with which the Home Office misjudges asylum claims in the first instance, begging the question, what happens to all the genuine asylum-seekers who do not lodge an appeal in time?

    Unable to return to their home countries, many turn to the streets and become part of the ever-growing UK homeless community.

    Homelessness in the UK is steadily rising. Shelter released analysis this winter that showed an increase of 13,000 people becoming homeless in 2018, with an average of 1 in every 200 people across the UK now homeless (including those sleeping on the streets and in temporary accommodation).

    In 2018, the outsourcing giant Serco, which is responsible for housing many asylum-seekers across the UK, launched a mass-eviction policy for those it deemed to be “failed asylum-seekers”. The contractor changed the locks on hundreds of asylum-seekers’ doors, including many who still had a legal right to remain in the UK. The occupants, most of whom were Glasgow-based, were then left to fend for themselves and many slept rough on the streets.

    This is one instance which shows the severity of the impact that the “hostile environment” policy has had on vulnerable people. The policy, which was first introduced by (then Home Secretary) Theresa May in 2012, targeted “illegal immigrants” with the sole aim of making the UK so inhospitable and unwelcoming to them that they would choose to “leave voluntarily”. It culminated last summer with the Windrush scandal, which saw hundreds of Windrush-generation citizens threatened and deported by the Home Office after their documents had been lost and destroyed by the Government. Following this, Home Secretary Sajid Javid has rebranded the policy, replacing “hostile environment” with the phrase “compliant environment.”

    Despite this change in name, the programs developed under the policy continue to impact the lives of legitimate migrants, asylum-seekers and refugees.

    For example, asylum-seekers are still not able to work in most instances in the UK while they wait for the outcome of their claim. The only current exception to this is for those who are able to fill a role on the UK Shortage Occupation list. This list is a resource used by the British government showing the professions that cannot be filled with domestic workers. Roles on this list include chemical engineers, physical scientists and classical ballet dancers – all positions which most asylum-seekers (many of whom are from war-torn or less-developed countries where access to wealth and education is limited) cannot fill. Even if an asylum-seeker were able to fill one of these positions, that person could only do so after being in Britain for 12 months.

    It is this restriction that makes life even harder for vulnerable asylum-seekers, who are seeking much needed refuge in the UK. With no access to work, individuals are unable to save funds, making them entirely reliant on the GBP 5.50 per day that they receive as support. If they then have their initial claim refused, they have nothing to fall back on – no income and no network of work colleagues. It is no wonder then that asylum-seekers are turning to the streets, falling through the cracks of the system.

    It is vital that the asylum process is reviewed, to account for this issue. The UK is able to welcome those who are fleeing from persecution: we must continue to meet our responsibilities if we are to consider ourselves an ethical nation.

    http://rightsinexile.tumblr.com/post/183856311837/homeless-asylum-seekers-fall-through-the-cracks-in
    #UK #Angleterre #hébergement #logement #réfugiés #demandeurs_d'asile #migrations #asile #SDF #sans-abri

  • Greece plans to phase out cash and housing for recognized refugees

    The Greek government has announced it will start asking people with refugee status or subsidiary protection to leave camps and UNHCR accommodation, starting with people who got their status before August 2017. Eventually, it will also end their access to cash assistance, Refugee.Info has learned.

    Gradually, authorities will ask all people who have had refugee status or subsidiary protection for more than 6 months to leave camps and UNHCR accommodation, and gradually it will stop providing them with cash assistance, the Greek Ministry of Migration Policy said.

    Why did the government make this new policy?

    The Greek government says it is not creating a new policy, just enforcing an existing policy. Under the policy, people lose access to camps and #UNHCR accommodation and cash 6 months after they get refugee status or subsidiary protection.

    That policy was made to meet the requirements of the European Union, which funds both the cash program and the UNHCR accommodation scheme. Under the European Union’s rules, cash and accommodation are meant for asylum-seekers — people who don’t yet have a decision on their asylum application.

    Up to now the government hasn’t enforced the 6-months policy strictly, recognizing that for many refugees in Greece, it is very difficult to find a place to stay and a way to support themselves financially.

    Why now?

    Now, the Greek government says it has to enforce the policy because:

    – Greece is still facing high numbers of new arrivals.
    – The islands are overcrowded.
    – There are not enough places in camps and UNHCR accommodation to meet the needs of asylum-seekers.

    The decision came from the Greek Directorate for the Protection of Asylum Seekers, the General Secretariat for Migration Policy and the Ministry of Migration Policy.

    https://blog.refugee.info/exit-accommodation-cash
    #Grèce #réfugiés #asile #migrations #hébergement #logement #HCR #vulnérabilité #demandeurs_d'asile #hotspots #îles

  • https://www.francetvinfo.fr/france/hauts-de-france/migrants-a-calais/jungle-de-calais-la-cour-europeenne-des-droits-de-l-homme-condamne-la-f

    La Cour européenne des droits de l’homme a condamné, jeudi 28 février, la France pour traitements dégradants à l’égard d’un jeune Afghan de 12 ans qui avait passé six mois dans la « jungle » de Calais sans être pris en charge par les services sociaux. La France est condamnée à verser 15 000 euros à l’enfant, devenu adolescent, au titre du dommage moral.

    [L]a Cour de Strasbourg [...] dit n’être « pas convaincue que les autorités (…) ont fait tout ce que l’on pouvait raisonnablement attendre d’elles pour répondre à l’obligation de prise en charge et de protection qui pesait sur l’État défendeur s’agissant d’un mineur isolé étranger en situation irrégulière âgé de douze ans, c’est-à-dire d’un individu relevant de la catégorie des personnes les plus vulnérables de la société. » L’arrêt a été rendu à l’unanimité des juges.

    #noborder #justice #hypocrite #hollande #valls #calais #jungle #ghetto

    • Migrants : comment un mineur afghan a fait condamner la France par la justice européenne ?

      La France a été reconnue jeudi coupable de traitements dégradants à l’égard d’un jeune Afghan qui a vécu six mois dans la jungle de Calais alors qu’il n’avait que douze ans. La Cour européenne des droits de l’Homme a estimé que Paris n’avait respecté ni le droit français, ni le droit international relatif à la protection de l’enfance.

      Jamil Khan avait déposé une requête contre le gouvernement français devant la Cour européenne des droits de l’Homme (CEDH) en mars 2016. Arrivé seul en France alors qu’il n’avait que 11 ans, il avait vécu pendant six mois dans la jungle de la Lande de Calais. Dans sa requête, il dénonçait le manque de protection et de prise en charge de la France envers « les mineurs isolés étrangers qui, comme lui, se trouvaient sur le site de la Lande de Calais », rappelle la CEDH dans son arrêt rendu public jeudi 28 février.

      Le jeune Afghan, aujourd’hui âgé de 15 ans et installé dans un foyer à Birmingham (Royaume-Uni), a obtenu gain de cause. La cour a condamné la France à lui verser 15 000 euros. Les juges ont estimé que la France n’a respecté ni son droit interne, ni le droit international relatif à la protection de l’enfance, en laissant ce mineur vivre « durant plusieurs mois (...) dans un environnement totalement inadapté à sa condition d’enfant, que ce soit en termes de sécurité, de logement, d’hygiène ou d’accès à la nourriture et aux soins ».

      Six mois dans la jungle

      Né en 2004 en Afghanistan, Jamil Khan a indiqué avoir quitté son pays à la mort de son père. Il souhaitait se rendre au Royaume-Uni pour y demander l’asile et s’était retrouvé à Calais « en suivant des exilés rencontrés sur la route, dans l’espoir d’y trouver un moyen de passer au Royaume-Uni ».

      Installé avec les autres migrants dans la jungle de la Lande à Calais, Jamil Khan a vécu pendant plusieurs mois au milieu d’adultes, dans une cabane de fortune, sans scolarisation.

      La CEDH note qu’il a fallu attendre le 22 février 2016 pour qu’un juge, saisi par une ONG, ordonne la prise en charge de l’adolescent alors âgé de 12 ans, alors que sa cabane venait d’être détruite dans le démantèlement de la zone sud du campement sauvage de migrants à Calais.

      Le gouvernement s’est défendu en affirmant que ni le jeune homme, ni son représentant ad hoc, ni son avocate ne s’était présenté aux services sociaux. Par ailleurs, l’adolescent a définitivement quitté la France environ un mois plus tard, en mars 2016, pour entrer clandestinement au Royaume-Uni où il a été recueilli par les services britanniques de l’aide à l’enfance, détaille la cour dans son arrêt.

      Mais la cour a fait savoir qu’elle n’était pas convaincue que les autorités françaises aient fait tout ce qui était en leur pouvoir pour offrir protection et prise en charge à l’adolescent.

      « La France viole le droit tous les jours en matière d’accueil des étrangers »

      « Avec cet arrêt, on pourra forcer un peu plus les autorités françaises à faire davantage pour les personnes vulnérables en situation d’exil », a estimé Me Lionel Crusoé, coreprésentant de Je Jamil Khan auprès de la CEDH.

      Car au-delà de ce cas précis, c’est l’obligation de prise en charge des mineurs isolés étrangers, « individu(s) relevant de la catégorie des personnes les plus vulnérables de la société », qui est rappelée par la CEDH à la France et plus généralement à l’Europe.

      « La France viole le droit tous les jours en matière d’accueil des étrangers », a réagi auprès de l’AFP François Guennoc, de l’Auberge des Migrants à Calais, qui s’attend à ce que le pays « s’assoie sur cette condamnation, comme d’habitude ».

      Didier Degrémont, président départemental du Secours catholique dans le Pas-de-Calais, met de son côté en garde : « Le problème existe encore aujourd’hui, avec un nombre important de mineurs non accompagnés qui dorment dehors ».

      Par ailleurs, une vingtaine d’associations emmenées par l’Unicef ont saisi jeudi le Conseil d’État contre le très controversé fichier des mineurs isolés étrangers, qu’elles accusent de servir la lutte contre l’immigration irrégulière au détriment de la protection de l’enfance.

      Les 19 requérants ont déposé un référé et une requête en annulation contre le décret du 31 janvier créant ce fichier biométrique. L’objectif est d’"obtenir rapidement la suspension de ce texte et à terme, son annulation", expliquent dans un communiqué ces associations, parmi lesquels l’Armée du salut, Médecins du monde, la Cimade et la Fédération des acteurs de la solidarité (FAS, qui revendique 850 associations).

      https://www.infomigrants.net/fr/post/15456/migrants-comment-un-mineur-afghan-a-fait-condamner-la-france-par-la-ju

    • Le jeune Afghan, aujourd’hui âgé de 15 ans et installé dans un foyer à Birmingham (Royaume-Uni), a obtenu gain de cause. La cour a condamné la France à lui verser 15 000 euros. Les juges ont estimé que la France n’a respecté ni son droit interne, ni le droit international relatif à la protection de l’enfance, en laissant ce mineur vivre « durant plusieurs mois (...) dans un environnement totalement inadapté à sa condition d’enfant, que ce soit en termes de sécurité, de logement, d’hygiène ou d’accès à la nourriture et aux soins ».

      Je parlerais plutôt d’un « un environnement totalement inadapté à sa condition d’humain »

    • Aujourd’hui en France, il faut donc aller jusqu’à saisir une juridiction internationale pour faire sanctionner des violations aussi graves et flagrantes du droit, commises régulièrement par l’administration. Et si un enfant maltraité a obtenu, cette fois, une réparation pécuniaire, qu’en est-il de toutes celles et ceux, expulsé·e·s de la même manière depuis 2016 et aujourd’hui quotidiennement à Calais, Grande-Synthe et sur le littoral, qui continuent de subir des traitements inhumains et dégradants ?

      https://www.gisti.org/spip.php?article6099
      #Gisti

  • Roma. La buona accoglienza avrà solo 200 posti

    Con il nuovo bando, penalizzato (anche in termini economici) il sistema più virtuoso, quello degli appartamenti e dei piccoli spazi. Il 75% dei posti destinati ai grandi centri collettivi.
    Più grandi centri per immigrati e meno accoglienza diffusa, quella virtuosa. Quasi destinata a sparire. È quello che accadrà a Roma, dopo il nuovo bando della Prefettura della Capitale che applica le nuove indicazioni del Viminale. Eppure lo scorso 31 gennaio il ministro dell’Interno Salvini, in occasione dell’inizio dello sgombero del Cara di Mineo, aveva affermato con orgoglio: «Avevamo promesso la chiusura dei grossi centri e lo stiamo facendo». Ma a Roma i numeri dicono proprio il contrario. La prefettura ha, infatti, messo a bando 3.970 posti di accoglienza. Di questi solo 200, il 5%, saranno in accoglienza diffusa in appartamenti, altri 800, il 20%, sono in centri collettivi fino a 50 posti, mentre la parte del leone la fanno i centri collettivi da 51 a 300 posti che avranno 2.970 posti, pari al 75% del totale. Una scelta che applica alla lettera il decreto ministeriale del 20 novembre riguardante i famosi tagli dei 35 euro al giorno di finanziamento ai centri, riducendo beni e servizi per il loro funzionamento. Un’impostazione che favorisce i centri di grandi dimensioni, anche in termini economici. Così, sempre secondo il bando, i centri ad accoglienza diffusa riceveranno 21,35 euro al giorno a persona, quelli collettivi fino a 50 posti ne avranno 26,35, quelli fino a 300 posti 25,25. Un taglio rispettivamente di 13,65 euro, 8,65 e 9,75. Si penalizzano, dunque, i centri che operano meglio, quelli che fanno davvero integrazione, come dimostrato anche da un recente dossier della Caritas di Roma, e che coinvolgono anche parrocchie e ordini religiosi.

    L’idea, sbagliata, che c’è dietro alle scelte del Viminale, applicate dalla Prefettura romana, è che l’accoglienza diffusa costi di meno. Ad esempio perché le persone cucinano da sole. Ma non tiene in conto che il costo degli affitti e delle utenze è proporzionalmente più alto (più appartamenti invece di un unico grande centro) o che un operatore in una struttura collettiva fa il giro delle stanze in pochi minuti, invece nell’accoglienza diffusa deve fare il giro di dieci appartamenti. Nella logica ministeriale gli immigrati devono stare per conto loro nell’appartamento e ogni tanto andare in un ufficio per risolvere i problemi. Ma in realtà l’accoglienza diffusa è più difficile e più costosa. Invece i grandi centri riceveranno di più e spenderanno di meno, grazie ai tagli dei servizi. Secondo un’analisi degli esperti della cooperativa InMigrazione, nel precedente bando del 2018 le ore giornaliere del personale da garantire per utente accolto, era 0,74 per centri piccoli e medi e 0,67 per quelli grandi. Col nuovo bando si scende a 0,36 per piccoli e medi e a 0,17 per quelli grandi. Un evidente calo della qualità dell’accoglienza, anche se sempre Salvini aveva detto «sono orgoglioso del nostro lavoro per offrire servizi migliori ai veri profughi e per stroncare l’illegalità». Ma l’illegalità, come emerso da moltissime inchieste, da ’mafia capitale’ in poi, riguarda soprattutto le grandi strutture.

    Ma proprio queste perderanno meno delle altre. Infatti col taglio dei servizi, i centri piccoli e medi risparmieranno 4,94 euro al giorno pro capite, mentre quelli grandi 6,50. Alla fine la perdita, rispetto al bando del 2018 a 35 euro, sarà di 8,71 euro per i centri piccoli ad accoglienza diffusa, 3,71 per quelli medi e di 3,25 per quelli grandi. Quest’ultima cifra può essere tranquillamente tamponata dalle economie di scala garantite dai grandi numeri: è evidente che con 300 utenti è possibile ottenere un prezzo vantaggioso da un catering che fornisce pasti rispetto a 20 utenti. A questo punto molti piccoli gestori rinunceranno a partecipare alla gara, soprattutto chi non vuole risparmiare sulla pelle degli immigrati. E si faranno avanti gli affaristi che li metteranno negli appartamenti dicendo «fate quello che vi pare, basta che non date fastidio ai vicini», col rischio che si creino situazioni pericolose.

    Si spiega così, molto probabilmente, la scelta della prefettura di Roma di limitare appena al 5% l’accoglienza diffusa. Devono coprire 4mila posti ma, conoscendo bene la realtà cittadina, sanno che con questi tagli, si corre il rischio di avere poche risposta per l’accoglienza diffusa. Così riduce il numero ad appena 200 posti. E Roma potrebbe fare presto scuola. Con tanti saluti alla buona accoglienza.

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/roma-la-buona-accoglienza-avr-solamente-200-posti
    #Rome #Italie #accueil #hébergement #logement #réfugiés #asile #migrations #décret_salvini #decreto_salvini #decreto_sicurezza #business
    ping @isskein

    • Accoglienza: nei nuovi bandi 21 euro a migrante. Via psicologi, trasporti tagliati

      Gianfranco Schiavone, vicepresidente Asgi, commenta i nuovi bandi della Prefettura di Milano per l’accoglienza ai richiedenti asilo. “La filosofia? Non devono muoversi, non hanno bisogno di parlare”. Cosa cambia? “Impossibile l’accoglienza diffusa, è diventato il servizio più economico di tutto il settore socio-assistenziale”

      “Il messaggio politico che si vuole mandare è chiaro: con i migranti non c’è nemmeno bisogno di parlare”. Usa questa sintesi Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), per definire i contenuti e le voci economiche dei nuovi bandi di Milano e area metropolitana e di altre città che si sono mosse mettendo a gara i centri per l’accoglienza degli stranieri. La Prefettura milanese è stata fra le prime, tra le grandi città, a pubblicare le gare per gli enti che vogliono gestire centri per richiedenti asilo nel 2019 e 2020: 2.900 posti complessivi, di cui 750 in appartamenti, 500 posti in strutture collettive fino a 50 posti, altri 1.650 per centri collettivi da 51 a 300 posti, a cui si aggiunge il Centro di accoglienza straordinaria “Caserma Mancini” di via Corelli 176. C’è tempo fino a metà marzo per rispondere all’appello della Prefettura, che ha scritto le gare basandosi sul nuovo capitolato della Direzione centrale del ministero dell’Interno. Lo ha fatto tagliando e sforbiciando soldi per le varie voci dell’accoglienza fino a scendere a una media di 21,35 euro per persona – più pocket money da 2,5 euro – per i centri da 50 posti di capienza. La filosofia che ci sta dietro? “Rendere impraticabile l’accoglienza diffusa e impossibile un minimo di qualità”, risponde Schiavone.
      Per il giurista “vengono penalizzate le strutture che non siano di mero parcheggio. Per cui la questione ora diventa che non siamo di fronte a un contenimento, anche drastico ma legittimo dei costi, ma all’impossibilità di fornire un servizio”. E secondo lui per rendersene conto basta “fare confronto con il costo di un qualunque piano freddo comunale per i senza dimora, dove peraltro si tratta di fornire servizi molto più ristretti. L’accoglienza agli stranieri diventerà il servizio più economico di tutto il settore socio-assistenziale, solo perché rivolto agli stranieri”.

      Sciorina numeri Schiavone: “Le basi d’asta non sono congrue, il più clamoroso scarto è su affitti e utenze. Nello schema di capitolato nazionale il ministero fa riferimento alla spesa mediana delle famiglie per affitti e utenze e le stima in 3,93 euro giornalieri per persona. In realtà i dati dall’Istat parlano di 11,91 euro. O è un clamoroso errore oppure una somma buttata lì. Un appartamento che ospita 5 persone secondo queste previsioni dovrebbe costare meno di 580 euro mensili tra affitto ed utenze. È impossibile che sia così a meno che non si tratti di situazioni degradate e geograficamente isolate con costi modesti, e ci sono aree di Italia in cui questo avviene, ma di certo non a Milano. L’associazione che vorrà realizzare accoglienza diffusa con i parametri del vecchio sistema Sprar non lo potrà fare”.

      Capitolo operatori sociali? “Viene stabilito che ce ne sarà 1 ogni 50 persone mentre la media Sprar era di a 1 a 10. Quindi l’operatore che deve gestire 10 appartamenti per 5 persone ciascuno come fa? Potrà seguire ogni ospite per dieci minuti al giorno, comprensivi di raccolta firme, distribuzione di beni, derrate alimentari, pocket money, mediazione linguistica e culturale. Le ore di dialogo sono 10 a settimana ogni 50 persone: significa 1,7 minuti al giorno”. Trasporti? “La logica del capitolato è quella per cui le persone non hanno bisogno di muoversi: 12 viaggi annuali da un massimo di 30 chilometri ciascuno. Significa non poter più frequentare i corsi di italiano gestiti dai Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, ndr) che non esistono nei paesini e si aggiunge al fatto che il decreto Salvini impedisce agli enti gestori di fare i corsi di italiano in loco, all’interno i centri. Qualcuno li raggiungerà a piedi ma i meno fortunati delle aree periferiche o hinterland non ce la faranno. L’Italia sarà l’unico Paese dell’Unione europea a non insegnare ai richiedenti asilo la lingua del Paese ospitante, con quella che è una politica del disprezzo per quanto riguarda la partecipazione di queste persone alla vita pubblica”.

      Tra i tanti temi sollevati dal vice presidente di Asgi anche quello delle persone vulnerabili: “Si parla solo di richiedenti asilo, senza nessuna differenza di categoria – spiega Schiavone –: Anziani? Bambini? Donne violentate? Uomini torturati? Nessun servizio specifico”. “Non è prevista nemmeno la figura dello psicologo che curiosamente viene mantenuta solo nel Centro per il rimpatrio, dove ci sono persone che con alta probabilità verranno espulse dall’Italia. Non c’è nessuna previsione di spesa per l’infanzia e le famiglie quelle scolastiche o per l’animazione dei bambini, come se non esistessero. Era indifferenziato anche il capitolato precedente, ma nel momento in cui l’aggancio economico era il parametro Sprar con cifre un po’ al di sotto dei famosi 35 euro, almeno le cooperative e le associazioni mosse da buona fede sopperivano a questa carenze. Erano le stesse prefetture a richiamare gli enti gestori a questi compiti, anche se ovviamente chi voleva fare poco e male non veniva obbligato. Sarebbe positivo se la politica decidesse di dettagliare queste voci. Nei nuovi bandi, incluso quello di Milano, non lo si fa: solo spariscono. Oppure non costano più nulla”.

      Da ultimo quello che Schiavone ipotizza essere un “profilo di violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo”. “Si parla chiaramente di fornitura di pasti e derrate alimentari – chiude Schiavone – a carico dell’ente gestore. Il punto è: queste persone non sono interdette, non sono in stato d’arresto, hanno anche doveri come il mantenimento della casa e possono uscire come e quando vogliono. Però si scrive che qualcuno gli deve portare la spesa a casa, come se non fossero in grado di farlo da soli, non potessero andare nei supermercati degli italiani per conto proprio”.

      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/620425/Accoglienza-nei-nuovi-bandi-21-euro-a-migrante-Via-psicologi-traspo

  • Assemblée ouverte Mouvement « DROIT À UN TOIT » (DAT) pour une fin du sans-abrisme à Bruxelles _ Ce Samedi 23 Février 11h30 au Kaaitheater - Square sainctelette 20, 1000 Bruxelles. _
    https://bxl.demosphere.net/rv/14064

    Le mouvement DROIT À UN TOIT mobilise, depuis juillet 2017, autour d’actions concrètes les personnes déterminées à avancer vers une fin du sans-abrisme.

    Les prochaines élections régionales, fédérales et européennes offrent l’occasion idéale pour envoyer un message clair aux instances décisionnelles : les Bruxellois sont résolus de mettre fin au sans-abrisme.

    La première « Assemblée ouverte » de DROIT À UN TOIT, le samedi 23 février 2019 de 11h30 à 14h30 au Kaaitheater, veut réunir un maximum de personnes, associations et citoyens et jeter les bases d’actions concrètes et d’engagements fermes.

    La page du site de DAT https://droitauntoit-rechtopeendak.brussels/fr/action-en-cours présentant l’Assemblée ouverte et les « slogans mobilisateurs » téléchargeables et imprimables est quasi finalisée.

    Le but principal de l’Assemblée ouverte est la mise sur pied de groupes de travail, réunissant chaque fois des citoyens et un(e) professionnel(le) d’une association du secteur bruxellois de lutte contre le sans-abrisme autour d’une action très concrète, à renforcer ou à lancer.

    Ce(tte) coordinateur(trice) professionnel(le) du groupe de travail est la garantie 1) de la pertinence de l’action pour avancer vers une fin du sans-abrisme et 2) du suivi de l’action, après le 23/2. Il est possible que, une fois le groupe sur les rails, la coordination passe des mains du (de la) professionnel(le) à un(e) citoyen(ne) engagé(e) dans le groupe.


    Assurer cette coordination ne signifie donc pas une surcharge de travail pour l’association, au contraire, puisqu’il s’agit de profiter du temps, de l’énergie, des compétences et/ou des contacts de citoyens pour renforcer une action déjà lancée par l’association ou pour permettre à celle-ci de lancer une action restée au stade de projet, faute de moyens humains.


    Bref, votre association est-elle désireuse de coordonner un (ou plusieurs) groupe(s) de travail ? Merci d’écrire àdroitauntoitrechtopeendak@gmail.com.

    https://droitauntoit-rechtopeendak.brussels/fr/action-en-cours

    Le mouvement DROIT À UN TOIT mobilise, depuis juillet 2017, autour d’actions concrètes les personnes déterminées à avancer vers une fin du sans-abrisme en Région Bruxelles-Capitale.

    La pertinence de DROIT À UN TOIT repose sur l’expertise professionnelle des 80 associations du secteur, signataires de l’appel à l’origine du mouvement.

    La stratégie d’action de DROIT À UN TOIT repose sur un constat clair : les professionnels, bénévoles ou bénéficiaires du secteur de la lutte contre la pauvreté doivent pouvoir compter sur :
    1) la collaboration étroite avec les secteurs limitrophes (prévention du sans-abrisme et promotion de logements abordables) et
    2) la mobilisation de la société civile , qu’il s’agisse d’investisseurs sociaux, de multipropriétaires engagés, de politiciens conscientisés ou de citoyens révoltés contre le manque de moyens mis en place pour venir à bout du sans-abrisme.

    Mettre fin au sans-abrisme est possible. Les villes qui y sont arrivées ont, un jour, décidé de s’en donner les moyens. C’est un choix de société et, en plus, un investissement rentable à long terme.

    Les prochaines élections régionales, fédérales et européennes offrent l’occasion idéale pour envoyer un message clair aux instances décisionnelles : les Bruxellois sont résolus de mettre fin au sans-abrisme, que celui-ci touche les avec-papiers ou les sans-papiers.

    La première « Assemblée ouverte » de DROIT À UN TOIT, le samedi 23 février 2019 de 11h30 à 14h30 au Kaaitheater, veut réunir un maximum de personnes et jeter les bases d’actions concrètes et d’engagements fermes.

    Venez nombreux, mobilisez vos contacts, likez la page FB de DAT https://www.facebook.com/Droit-%C3%A0-un-toit-ou-dans-le-mur-Recht-op-een-dak-of-het-dak-op-kunnen- , partagez l’événement Facebook du 23/2 ! https://www.facebook.com/events/611196272668936

     #sdf #logement #pauvreté #sans-abris #sans-abri  #sans-abrisme #hébergement #Bruxelles #Belgique #doucheflux

  • À #Nantes, environ 200 migrants vivent dans un #gymnase, sans douche ni chauffage

    Un gymnase non utilisé, en banlieue nantaise, est occupé depuis plusieurs semaines par environ 200 migrants, dont des femmes et des enfants. À l’intérieur, les conditions de vie y sont très précaires : absence d’eau chaude et de chauffage, peu de toilettes, insécurité, insalubrité, cas de gale et de tuberculose… Plusieurs collectifs leur viennent en aide.

    Depuis quelques semaines, plusieurs centaines de migrants occupent le gymnase Jeanne-Bernard, à Saint-Herblain, en banlieue nantaise, « dans des conditions de vie désastreuses », selon les collectifs qui leur viennent en aide. Le local, non-utilisé, appartient au diocèse de Nantes, qui ne l’exploite pas.

    « En octobre, au moment du début du squat, il y avait une soixantaine de personnes. Aujourd’hui ils sont environ 200 dont des femmes et des enfants », explique à InfoMigrants Xavier Brunier, responsable solidarité pour le diocèse de Nantes. La majorité des occupants est originaire du Soudan, d’Érythrée, de Somalie, d’Éthiopie, de Guinée et du Tchad. Leur profil administratif regroupe plusieurs statuts : des dublinés, des déboutés, des réfugiés statutaires et des demandeurs d’asile.

    « Face à la défaillance de l’État, les associations et collectifs trouvent des solutions »

    « On ne leur propose pas de mise à l’abri. La seule solution apportée par les autorités est le retour à la rue », déclare à InfoMigrants François Prochasson du collectif Soutien migrants Nantes. « Face à la défaillance de l’État, les associations et collectifs trouvent des solutions. On sait qu’il y a sur Nantes, de nombreux locaux vides où on pourrait héberger ces personnes », continue-t-il.

    Contactée par InfoMigrants, la mairie de Nantes se défend. Dans un communiqué daté du 31 octobre 2018, elle déclare que de nombreuses « personnes migrantes présentes sur le square Daviais [à la fin de l’été 2018] ont été mises à l’abri dans des lieux plus durables ». Sur 700 personnes qui étaient au square Daviais, « 587 ont été orientées depuis les gymnases vers des hébergements plus durables », écrit la mairie.

    Le gymnase occupé recense des « oubliés » du square Daviais, sans solution de relogement et des primo-arrivants.

    À l’intérieur du gymnase, où les migrants ont installé leurs tentes, la tension grandit chaque jour un peu plus. « La surpopulation crée de la promiscuité et la promiscuité engendre des conflits », déclare à InfoMigrants Juna, du collectif L’autre cantine qui apporte chaque soir des repas aux migrants installés dans le gymnase.

    « Lorsqu’il pleut, des gouttes d’eau tombent dans le gymnase »

    L’absence d’eau chaude et de chauffage n’arrange pas la situation. « Il y a des douches – collectives - mais que de l’eau froide, en plein hiver ! Les toilettes ? Seulement deux à l’intérieur », dit Juna qui précise cependant que la municipalité a fait installer des sanitaires dans la cour du gymnase.

    De plus, les locaux sont quasi insalubres. « Lorsqu’il pleut, des gouttes d’eau tombent dans le gymnase. Le toit fuit », note encore Juna.

    Les collectifs alertent également sur les problèmes de sécurité. « Certains ont des problèmes psychologiques : parfois, ils se bagarrent. D’autres prennent de la drogue ou boivent trop d’alcool et dérangent tout le monde en pleine nuit », assure François Prochasson. « Et le plus grave c’est qu’il y a des enfants au milieu de tout ça », s’inquiète le militant.

    Le manque d’#hygiène a des conséquences sanitaires : des cas de gale et de tuberculose ont été observés. Les collectifs orientent alors les personnes malades vers les #PASS de la ville (https://www.infomigrants.net/fr/post/10933/les-pass-des-centres-pour-soigner-les-personnes-invisibles-et-a-la-rue).

    Le diocèse de Nantes a demandé à la justice d’ordonner l’évacuation du gymnase occupé. « La situation n’est plus possible », estime Xavier Brunier qui demande la mise à l’abri de ces migrants dans des « conditions dignes ».
    « On sera attentif car il est hors de question d’évacuer le lieu sans solution d’hébergement pour tout le monde », conclut Juna.

    https://www.infomigrants.net/fr/post/15110/a-nantes-environ-200-migrants-vivent-dans-un-gymnase-sans-douche-ni-ch
    #hébergement #logement #France #asile #migrations #réfugiés #SDF #sans-abri

    ping @isskein

  • Il business dell’accoglienza lo fa chi non integra

    Una ricerca di #ActionAid e #Openpolis spiega come e perché le opacità del sistema si concentrino dove non si mira all’integrazione.

    Viviamo in tempi burrascosi per quanto riguarda le politiche sulle migrazioni e sull’accoglienza dei Richiedenti Protezione Internazionale. Oltre a riflettere sulle criticità del cosiddetto Decreto Sicurezza e Immigrazione, di recente approvato, conviene fare un passo indietro. E ragionare sulla gestione dell’accoglienza in Italia degli ultimi anni; di grande interesse a questo proposito è il Report di ricerca di ActionAid e Openpolis “Centri d’Italia. Bandi, gestori e costi dell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati” (https://www.openpolis.it/esercizi/i-centri-di-accoglienza-in-italia-la-spesa-e-i-contratti-pubblici).

    Innanzitutto appare utile inquadrare il fenomeno al quale spesso è erroneamente associato il termine “emergenza”. I flussi via mare verso il nostro paese hanno registrato un aumento nel 2014, fino a raggiungere un massimo di 181 mila sbarchi nel 2016. L’inversione di tendenza è avvenuta nel luglio del 2017, a settembre del 2018 i migranti sbarcati risultavano infatti essere poco più di 20 mila. Il calo così repentino è da attribuirsi agli accordi tra Italia e Libia del febbraio 2017, accordo - quest’ultimo - aspramente criticato sotto il profilo del rispetto dei diritti umani. Il calo delle partenze si è accompagnato - ci ricorda ActionAid - alla condanna a morte in mare di migliaia di persone e a trattamenti disumani e degradanti in Libia (come denunciato tra gli altri da Amnesty International).

    La capacità ricettiva del nostro sistema di accoglienza ha avuto bisogno di un paio di anni per adattarsi al fenomeno, le persone accolte sono passate da circa 66 mila nel 2014 a 176 mila nel 2016. I lunghi tempi di attesa hanno fatto sì che la riduzione degli arrivi non si sia tradotta in una riduzione del numero di persone in accoglienza: si pensi che nel 2017 erano necessari ben 18 mesi alle commissioni territoriali per valutare le richieste di asilo. I dati della presenza di stranieri e delle persone inserite nel sistema di accoglienza in rapporto alla popolazione residente aiutano ad inquadrare il fenomeno al di là delle percezioni distorte e dei toni allarmistici: al 1° dicembre del 2017 i residenti stranieri sul totale dei residenti in Italia sono l’8,33%, le presenze inserite nel sistema di accoglienza sono lo 0,31%.

    Ma quali sono i centri nei quali sono transitati i richiedenti asilo e i rifugiati? Il Report fotografa la situazione prima del DL 133/2018 (il Decreto Sicurezza). Ci sono i centri di soccorso, prima assistenza e identificazione, centri governativi situati nelle aree più soggette agli sbarchi. Si tratta dei cosiddetti hotspot, nati sostanzialmente per differenziare i richiedenti asilo dai cosidetti migranti economici. Ci sono poi gli hub regionali o interregionali, in teoria adibiti alla formalizzazione della domanda di asilo, alla verifica dello stato di salute e all’individuazione delle situazioni di vulnerabilità. Quest’ultimo tipo di centri ha avuto scarsa operatività (ad eccezione del centro di Settimo Torinese). C’era poi la seconda accoglienza, lo Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) composto da una rete di enti locali che hanno realizzato un’accoglienza integrata in piccoli centri sviluppando progetti personalizzati. Questo sistema è cambiato e appare oggi fortemente ridimensionato dal Decreto Sicurezza.

    Va evidenziato che già negli ultimi anni il circuito di gran lunga più importante dell’accoglienza è stato quello dei Cas (Centri di accoglienza straordinaria). Questi centri da misura straordinaria sono diventati l’ordinaria realtà dell’accoglienza: hanno infatti ospitato nel 2017 l’80% delle persone inserite nel sistema. Il modello Cas si è distinto peraltro per la sua opacità, infatti non è stato accompagnato da un sistema di informazione e rendicontazione affidabile. Il Report di ActionAid e Openpolis si concentra appunto sui costi e sulle modalità di gestione di questo sistema, sopperendo alla mancanza di informazioni attraverso l’analisi della Banca dati nazionale dei contratti pubblici (Bdncp) e la richiesta alle prefetture di accesso agli atti.

    Dal Report si evince che le Prefetture hanno seguito prassi diverse per quanto riguarda l’affidamento agli enti gestori dei centri di accoglienza: alcune sono ricorse a procedure competitive e più trasparenti, altre ad affidamenti diretti e a procedure più opache. Tuttavia dal 2012 al 2017 è aumentata la quota di procedure competitive (61,1% gli importi assegnati con procedura aperta nel 2017, rispetto al 54,84% nel 2016 e al 26,5% del 2013) e si è registrato contestualmente un calo dell’affidamento diretto. La situazione nello stivale è, come spesso accade, molto disomogenea. Il Report nella sua seconda parte si focalizza sui casi di Torino e Trapani, contesti geografici assai diversi: la prima una città del Nord industriale ai confini tra l’Italia e il resto d’Europa, la seconda una media città del Sud in cui si concentra la primissima accoglienza di una parte importante dei migranti arrivati via mare.

    La Prefettura di Trapani dal 2012 al 2017 ha quasi sempre scelto l’affidamento diretto (nel 95,5% dei casi), mentre la prefettura di Torino ha scelto questa modalità solo nel 12,6% dei casi. A Trapani, nel marzo del 2018 le persone inserite nel circuito dei Cas erano 1.453 (nel complesso le presenze nell’accoglienza rappresentavano lo 0,44% dei residenti). Si trattava di persone ospitate per la stragrande maggioranza in grandi centri: 70,6 sono le persone accolte in media nei centri trapanesi. Sono 12 gli enti che gestiscono i 22 Cas del trapanese e 3 di questi amministrano da soli quasi la metà dei posti in accoglienza. Nel torinese invece, al 31 dicembre del 2017, le persone accolte nei centri temporanei erano 4.520, il triplo di quelle presenti nel trapanese. Tuttavia i centri erano 409, circa 20 volte di più di quelli presenti nella provincia di Trapani. 11,1 sono le persone accolte in media nei centri della provincia di Torino.

    Certamente questi numeri non ci dicono tutto: in centri pur piccoli potrebbe essere ugualmente trascurata la qualità dei percorsi di integrazione, così come in centri nati come “meri contenitori” lo spirito di iniziativa di operatori volenterosi può sopperire a molte mancanze e fare la differenza. Tuttavia questa sproporzione nei numeri e nella tipologia dei centri tra le due città ci dice che in questi ultimi anni si è formato nel nostro paese un sistema di accoglienza molto diversificato e disomogeneo, con ombre e luci.

    Anche se il sistema torinese non è esente da criticità, è in quello trapanese che prevalgono le ombre. Alberto Biondo di Borderline Sicilia sostiene, infatti, che nel trapanese la crescita del numero dei Cas sia stata accompagnata dalla ricerca di posti isolati, abbondanati, fuori dai centri abitati, con il concentramento in grandi contenitori senza progettualità volte all’integrazione: “quando si dice il business dell’immigrazione bisogna capire che più migranti ci sono in un centro più ci si può guadagnare…”. Sembra di comprendere che le opacità e le ambiguità del sistema si concentrano nelle situazioni nelle quali non si investe in accoglienza diffusa e non si adottano procedure trasparenti. Come scrivono gli autori: “in questi anni la mancanza di strumenti di analisi del sistema nel suo complesso ha permesso che temi come quello del ‘business dell’accoglienza’ potessero svilupparsi nella loro ambiguità gettando un’ombra di sospetto sull’intero settore. A causa di a questa ambiguità è il concetto stesso di accoglienza che viene screditato senza distinzioni”.

    Per questa ragione è proprio dal monitoraggio delle politiche, dalla lettura dei dati, dall’analisi del sistema che bisognerà ripartire.

    http://secondowelfare.it/immigrazione-e-accoglienza/il-business-dellaccoglienza-lo-fa-chi-non-integra.html
    #business #asile #migrations #réfugiés #Italie #accueil #hébergement #logement #argent

    Pour télécharger le #rapport: #Centri_d'Italia


    https://www.openpolis.it/wp-content/uploads/2018/11/Centri-dItalia-2018.pdf

  • Un reportage / #enquête sur le système de l’#hébergement au #Tessin, en #Suisse. Et dans le canton des #Grisons...
    Un reportage de 2016, mis ici pour archivage.

    La stanza del profugo - Rifugiati nei Grigioni

    In Ticino a gennaio c’erano 2’000 richiedenti l’asilo. Circa la metà sono in attesa di una decisione per sapere se potranno rimanere in Svizzera oppure no. A tutti il Cantone deve trovare un tetto. Ed è qui che entra in gioco il settore privato: che ospita più di due terzi dei migranti. I profughi, in una prima fase, sono alloggiati in pensioni o hotel e poi, quando appare chiaro il loro diritto di restare, in appartamento. Diventano insomma clienti paganti: un introito sicuro, perché a saldare i conti è lo Stato. In un periodo di crisi del settore alberghiero questo business sembra far gola a molti imprenditori. Il reportage di Falò cerca di far luce sul sistema di accoglienza nelle pensioni: quali sono i guadagni, quali sono i rischi, come vengono scelte le strutture e come ci vivono i richiedenti asilo. E pone una domanda: perché il Cantone non prende in considerazione le offerte di privati cittadini che ospiterebbero gratuitamente, a casa propria, un profugo?

    https://www.rsi.ch/la1/programmi/informazione/falo/La-stanza-del-profugo---Rifugiati-nei-Grigioni-6867071.html
    #vidéo #Suisse #film #réfugiés #asile #migrations #business #hôtels #privatisation #accueil_privé #hôtellerie

  • L’étrange

    Récit polyphonique brillant et captivant, L’étrange nous fait percevoir le destin dramatique d’un étranger clandestin, en même temps qu’il met en lumière une douloureuse question d’actualité. Avec des animaux pour personnages, dans un pays qui n’est jamais cité, cette histoire revêt une dimension universelle et se lit comme une fable. La fable d’une épopée moderne dont personne n’est étranger.


    http://lagrume.org/collections/litterature/letrange

    #BD #bande_dessinée #sans-papiers #migrations #jungle #détention_administrative #rétention #campement #livre #Jérôme_Ruillier #langue #sans-abri #logement #hébergement #SDF #exploitation #travail #régularisation

    Je pense que c’est une très bonne #ressources_pédagogiques...

  • CNPT | Les centres fédéraux sont “conformes”, mais…
    https://asile.ch/2019/01/12/cnpt-les-centres-federaux-sont-conformes-mais

    Dans son communiqué publié le 11 janvier 2019 sur ses visites effectuées en 2017 et 2018 dans les centres fédéraux pour requérants d’asile, la Commission nationale de prévention de la torture (CNPT) estime que si ceux-ci sont “en général” conformes aux droits humains, un certain nombres d’atteintes liées à la privation de liberté et à […]

  • À #Paris, les migrants jouent à la #loterie leur place dans un centre d’accueil

    Dans un centre d’accueil de jour parisien, les places sont désormais jouées à la loterie. L’association #France_Horizon se désole de devoir faire face à beaucoup plus de demandes qu’elle ne peut en proposer. Les travailleurs sociaux organisent donc un #tirage_au_sort tous les matins à 9 heures.

    https://www.franceinter.fr/societe/une-place-au-chaud-jouee-a-la-loterie-pour-des-migrants-a-paris
    #France #hébergement #logement #it_has_begun #chance (ou pas) #cynisme #asile #migrations #réfugiés
    ping @reka

  • En Bosnie, l’#OIM se félicite d’avoir suffisamment de places d’hébergement pour tous les migrants

    L’organisation internationale des migrations (OIM) a déclaré fournir suffisamment de places d’accueil pour les migrants présents en Bosnie. La Croix-Rouge, pourtant, affirme qu’elle a besoin de davantage de moyens pour faire face aux besoins des migrants restés dans les camps de fortune, et exposés au froid glacial de l’hiver.

    Selon l’Organisation internationale des migrations (OIM), les milliers de migrants actuellement présents en Bosnie peuvent avoir accès à une place d’hébergement, et ainsi passer l’hiver au chaud. « Nous avons mis en place suffisamment de structures pour accueillir les personnes à la rue », a déclaré à InfoMigrants Peter Van der Auweraert, le responsable de l’OIM, en Bosnie, avec exemple à l’appui. « Les migrants de Velika Kledusha ont tous été relogés, ils ont été placés dans un centre humanitaire de 600 places », précise-t-il. Pendant des mois, la ville de #Velika_Kledusha, à quelques kilomètres seulement de la frontière croate, a abrité un campement sauvage de centaines de migrants. Les conditions de vie y étaient très précaires, exposant les migrants aux intempéries, à la boue, et au froid.

    À #Bihac, non loin de Velika Kledusha, le centre de #Borici, qui a abrité des centaines de migrants durant plusieurs mois, fait peau neuve et devrait être en capacité d’accueillir très prochainement des centaines de migrants. L’immeuble jusque là abandonné était particulièrement insalubre. « Le nouveau Borici devrait accueillir 500 personnes, principalement des familles de migrants. Et il devrait ouvrir d’ici les fêtes de fin d’année », précise Peter Van Auweraert.

    À #Sarajevo, aussi, près de 800 places supplémentaires ont été créées, précise l’OIM.

    « Nous avons en tout 5 000 places d’hébergement disponibles en Bosnie », affirme Peter Van der Auweraert. Le nombre de migrants présents en Bosnie oscille autour de 3 500 personnes. « Normalement, cet hiver, personne ne devrait mourir de froid », continue le responsable de l’OIM. "Il faut continuer à communiquer pour expliquer aux migrants que des structures existent".

    « La nuit, les températures descendent jusqu’à -15 degrés »

    En dépit du constat positif de l’OIM, la Croix-Rouge est inquiète. « La récente réinstallation des migrants dans des structures plus sûres et loin des camps sauvages est une évolution positive, mais nous pensons que la situation reste imprévisible », explique à InfoMigrants Elkhan Rahimov, un responsable de la Fédération internationale de Croix-Rouge (FICR). « La dynamique des arrivées peut varier. Nous restons vigilants quant au fait que des migrants peuvent quitter les centres d’hébergement et choisir de retourner à la rue. »

    Certaines personnes préfèrent en effet rester non loin de la frontière croate pour tenter de passer la nuit. « Mais le soir et la nuit, les températures descendent jusqu’à -15 degrés Celsius », rappelle Elkhan Rahimov. "Ces personnes ont besoin de couvertures, de vêtements chauds. Face à ce constat, la FICR de Bosnie a lancé lundi un appel de 3,3 millions de francs suisses (2,9 millions d’euros).

    « Par le biais de l’appel d’urgence, nous souhaitons attirer l’attention sur un problème humanitaire crucial qui ne disparaîtra pas dans les mois à venir », conclut-il.

    Auparavant évitée par les migrants, la Bosnie est confrontée depuis cette année à un afflux qu’elle peine à gérer. Depuis janvier, plus de 23 000 sont entrés dans ce pays.

    http://www.infomigrants.net/fr/post/13870/en-bosnie-l-oim-se-felicite-d-avoir-suffisamment-de-places-d-hebergeme

    #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #IOM #Croix-Rouge #hébergement #logement #asile #migrations #réfugiés #externalisation

    • En février 2019...
      Violence et désespoir s’emparent des migrants oubliés en Bosnie-Herzégovine

      Vendredi soir, de très violents affrontements ont éclaté dans le camp de réfugiés de #Bira, à #Bihać, au nord-ouest de la Bosnie-Herzégovine. Entre les squats de Sarajevo et les camps surpeuplés, des milliers de réfugiés sont toujours bloqués dans ce pays. Sans grand espoir de pouvoir passer dans l’Union européenne.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/040219/violence-et-desespoir-s-emparent-des-migrants-oublies-en-bosnie-herzegovin

    • #Bihać : Dove i corpi non si sfiorano

      Pubblichiamo il primo di due articoli dal confine tra Bosnia e Croazia, dove memorie di guerre e migrazioni del passato e del presente si incrociano. Il secondo articolo sarà di Gabriele Proglio, compagno di viaggio di Benedetta.

      Sono le 8 di mattina, e dopo una lunga giornata di viaggio e poche ore di sonno, Bihać ci sorprende nel tepore di una giornata inaspettatamente calda e soleggiata. La città bosniaca si circonda di montagne e colline, che ne tracciano fiere ed imponenti il confine che la separa dalla Croazia. Negli anni 90, queste cime sono state luogo di un assedio da parte dell’esercito serbo, fungendo da vera e propria prigione naturale. Oggi, invece, rappresentano, per migliaia di migranti in fuga da guerre, persecuzioni e povertà, l’unica speranza di giungere in Unione Europea.

      Il fascino delle terre di confine sta proprio nel loro essere allo stesso tempo luoghi di limite e superamento, di prigionia e di libertà, di antagonismo e di incontro. Inevitabilmente, questa eterna contraddizione li rende condanna e benedizione per i popoli che li abitano, e per quelli che vi passano.

      Io e Gabriele siamo arrivati fin qui con lo scopo di esplorare la sovrapposizione storica delle memorie di un popolo che ha visto la guerra, e che ora si ritrova ad essere luogo di passaggio di persone che dalla guerra stanno ancora scappando. Lo stimolo intellettuale di smascherare il confine, una conoscenza superficiale della storia del paese, ed un interesse accademico per la questione della crisi migratoria, sono i bagagli che ho con me. Sono ancora ignara dei fantasmi di questo posto, e degli scheletri che si porta dentro. In poco tempo il confine mi entrerà nella pelle, lo sentirò scorrere e spostarsi alterando le sicurezze che mi ero costruita attraverso lo studio minuzioso ma distaccato di questa realtà. Ma per ora, Bihać deve ancora svegliarsi e con lei, mi sveglierò anche io.

      Ad un primo sguardo, la città mi appare come un non luogo, dove l’apatia generale ha lentamente rimosso le ferite di una guerra fin troppo recente. Ma i resti sono evidenti. Monumenti ai caduti, cimiteri e colpi di mortaio che appaiono come cicatrici sui palazzi della città. Nella sua calma opprimente, Bihać ricorda molto la Seahaven di Truman Show. Una cittadina tranquilla dove non succede niente. Un posto come un altro dove mettere su famiglia e vivere una vita semplice. Come Seahaven, questa mattina Bihać si apre ai miei occhi come un palcoscenico pronto a mettere in scena uno spettacolo dell’inganno, che va avanti giorno dopo giorno da decenni, nel tentativo di legittimare la finzione di una serenità tanto desiderata quanto superficiale.

      Le strade sono pulite e silenziose e le comparse del grande spettacolo dell’inganno devono ancora apparire. Tutto è fermo. Tra poco si sparpaglieranno nei caffè del centro impersonando perfettamente il loro ruolo di cittadini annoiati e disillusi. Lo sguardo stanco dei cani randagi che si assopiscono all’ombra di alberi spogli, l’immagine stereotipata di ragazzi e anziani seduti ad un bar per riempire la giornata. Eccola Bihać nella sua stasi permanente e volontaria, nella sua apparente tranquillità che da due decenni tenta invano di smacchiarle l’anima dalle cicatrici di una guerra di cui non si parla e non si vuole parlare.

      È mezzogiorno. Improvvisamente noto che l’equilibrio che si è tanto faticato a costruire durante la mattinata si rompe. Appaiono degli estranei che spezzano l’atmosfera. Sono nuove comparse, che stonano con la scenografia e non conoscono il copione. La maggior parte sono uomini sui trenta, alcuni portano con loro zaini e sacchi a pelo. Sono le persone migranti giunte dopo mesi di viaggio per la rotta balcanica, arrivate fin qui per oltrepassare il confine e raggiungere la Croazia, l’Unione Europea. Alcuni vivono nei campi di Borici, Bira e Cedra. Ma da qualche settimana i campi sono pieni, e chi non può permettersi di pagare altissime somme di denaro per un affitto in città in nero, dorme per strada.

      Da circa un anno, a Bihać non si parla d’altro. Dall’estate scorsa, quando i flussi migratori si sono intensificati, i cittadini si sono trovati a dover gestire una situazione d’emergenza umanitaria, dove le uniche presenze di supporto sono la Croce Rossa, lo #IOM e poche ONG internazionali, come #IPSIA. Intanto gli abitanti della città cominciano ad innervosirsi.

      Ci hanno abbandonato’ mi dice Amir, riferendosi al governo centrale di Sarajevo, ‘non gli è mai importato di noi, nemmeno durante la guerra’. Amir vive a Bihać da tutta la vita, e come ogni bosniaco della sua generazione, ha visto la guerra e se la porta dentro e addosso, nella sua gestualità al limite del compulsivo e nell’azzurro glaciale del suo sguardo, che non si azzarda mai ad incrociare il mio, ma si focalizza sempre su zone limitrofe. ‘Non odio, ma sono arrabbiato’ mi confessa Amir mentre avvicina ripetutamente alle labbra la tazzina ormai vuota di caffè, come per rimarcare con quella pausa la scelta coraggiosa ed insolita di abbandonarsi al ricordo della guerra. Amir non se lo permette mai. ‘Non parliamo della guerra, non sono bei ricordi. Cerco di non stare solo. Quando sono solo, suono il piano. Questo è un altro modo per scappare. Lo faccio solo per me’. Amir ha combattuto sul fronte a Bihac e ‘probabilmente’, come tiene a sottolineare, ha ucciso qualcuno.

      Ma non lo vuole sapere, non ci vuole pensare. Un’altra pausa, un sospiro e di nuovo un finto sorso ad una tazzina ormai vuota da venti minuti. Mi trovo di fronte a questo signore di cinquant’anni a cui la guerra ne ha aggiunti almeno quindici in volto. Lo ascolto ed improvvisamente mi ritrovo a comprenderne la violenza, subita ed esercitata. D’un tratto, il confine tra bene e male che ho tracciato nella mia coscienza va a sgretolarsi nel dramma di un popolo che non comprende la ragione del proprio trauma, ma ne subisce ogni conseguenza.

      Nella costante rimozione di un passato scomodo e violento, la materializzazione della crisi migratoria risveglia la rabbia ed il senso di abbandono dei cittadini di Bihać. ‘Noi siamo un popolo aperto e tollerante, sappiamo cosa vuol dire dover scappare dalle proprie case. Ma io non so chi sono queste persone, e non mi sento al sicuro. Ho paura per mia figlia’ mi confessa Harun. ‘Queste persone non vogliono rimanere qui. Fosse per me, le condurrei io al confine. Questa situazione non va bene nemmeno per loro e sono le istituzioni che dovrebbero darci supporto.’

      ‘Il pisciatoio d’Europa’, cosi lo definisce Alessandra, italiana migrata a Bihać negli anni 90. Anche lei arrivata al limite della sopportazione nei confronti del fenomeno che ha sconvolto la realtà quotidiana di questa città. Dalle prime interviste agli abitanti di Bihać, mi appare chiara una cosa. Nessuno si azzarda a dire che il migrante è un problema in quanto tale. Tutti parlano di sicurezza, di identità. Il problema non è che so chi sei e per questo ti odio, il problema è che non so chi sei, e per questo ho paura. Ancora una volta, ‘non odio, ma sono arrabbiato’.

      Incontro gli abitanti di Bihać nei patii dell’Hotel Opal e Paviljon che si affacciano sulle due rive opposte del fiume Una. In mezzo, l’isolotto di verde che spezza il ceruleo del corso d’acqua si copre di ragazzi con zaini e sacchi a peli. Alcuni sono soli, altri in gruppo. Tutti hanno solo un obiettivo al momento: arrivare al confine. Invadono il paesaggio ma non le coscienze. Sono osservati costantemente, ma non vengono mai guardati. Tra di loro c’è Abdul, arrivato dall’Iraq dopo 9 mesi di viaggio attraverso la Turchia, la Grecia l’Albania e la Serbia. Domani tenterà di nuovo il game, nonostante non cammini ancora bene, dopo gli ultimi pestaggi della polizia croata. Il game, così lo chiamano, è il tentativo di valicare il confine, cercando di sfuggire alle violente deportazioni della polizia croata. Cosi nel grande spettacolo dell’inganno, la trama si infittisce di adrenalina e suspense. Migranti e forze dell’ordine croate si rincorrono e si combattono in un moderno guardia e ladri che avviene lassù, sulle montagne che separano il confine bosniaco da quello croato, lontano dagli occhi del mondo. Abdul mi dice che questo è il suo ottavo tentativo, ma che ha deciso che in caso venga respinto ancora, si sposterà a Velika Kladuša, altra città di confine, a pochi chilometri da Bihać. Abdul non mi parla di casa, non mi parla del futuro. Nei suoi occhi vedo solo il game. Eppure Abdul ha visto morire suo padre, ed è scappato lasciando una madre ed una sorella. Come Amir, ha la guerra negli occhi. Come Amir, non odia ma è arrabbiato. È arrabbiato con lo IOM che non lo ha fatto entrare nel campo di Bira. E’ arrabbiato con l’uomo della polizia croata che lo ha picchiato e gli ha rubato il cellulare. Ma Amir non odia, non ne vede il motivo. Vuole solo oltrepassare il confine, vuole solo una possibilità.

      In questa danza imbarazzata e goffa tra due storie di vite spezzate, presenti e passati di guerre e miseria, i corpi non si sfiorano. Accarezzano il lento scorrere del tempo tra la pesante presenza dei monumenti di guerra e lo sforzo collettivo di ignorali. Proprio come quei monumenti, i migranti sono altamente visibili, e sistematicamente ignorati. Proprio come quei monumenti, i cittadini portano addosso i marchi indelebili di una memoria sanguinolenta, che scorre attraverso le loro menti e le loro fisicità, ma viene anch’essa rimossa dalla coscienza.A Bihac oggi, coesistono due tragedie: quella di un passato macchiato di sangue e quella di un futuro incerto ed opprimente. Due linee parallele che non si toccano mai nella temporalità e nella geografia complesse di questo eterno enigma che è la Bosnia. Eppure, in qualche modo, queste due linee hanno entrambe attraversato i confini della mia soggettività, prima scontrandosi violentemente in uno scarabocchio emotivo che non riesce a dare senso a quello che prova e poi ridefinendo il perimetro curvo e fluido della mia certezza. Il confine si è spostato. Non ci sono più buoni o cattivi.

      A Bihać, per quanto lo si tenti di negare, si è tutti parte della stessa rabbia. E come in una tragedia greca, io, da spettatrice di questo spettacolo dell’inganno, ho vissuto la catarsi nel riscoprire che queste comparse stonate, nel loro essere fuori luogo, ignorate e non volute, sono in realtà parte integrante della trama. Lo sbaglio sta nel cercare il torto dove non c’è ragione, e nel cercare la ragione dove non c’è il torto. Quando si smette di farlo, Bihać non fa altro che rivelare le pieghe drammatiche della tragedia dell’essere umano nella sua costante ed insensata ricerca di un nemico a cui dare la colpa della propria sofferenza.

      http://www.lavoroculturale.org/bihac-dove-i-corpi-non-si-sfiorano
      #Croix-Rouge #OIM #frontières #Bosnie #Croatie #Balkans #route_des_Balkans

    • The City Council of Bihać unanimously made a decision (https://www.nezavisne.com/novosti/gradovi/Vucijak-nova-lokacija-za-izmjestanje-migranata/537203) to open a new accommodation facility for refugees - in #Vučijak, a suburb near #Plješevica, near the border with Croatia. There they found an object that meets the necessary conditions for refugee accommodation, and authorities have announced that this move will move refugees from the temporary center of Bira or the center of Bihać to the EU border. Although the new facility could provide better reception conditions for refugees in Bosnia, this move is an indication of how countries in the region share an ignorant integration policy.

      Reçu via la mailing-list Inicijativa dobrodosli, le 15.05.2019

    • New migrant reception center to be built in Bosnia

      Bosnian authorities have announced that a new migrant reception center will be built near Bihac. This center will replace two temporary reception centers.

      In Bosnia-Herzegovina, the Operating Unit for Migrants has decided to build a migrant and refugee center near Bihac, in the country’s northwest. The center will be built in Vucjak, eight kilometers from the Bihac city center, according to media sources.

      The new structure will take the place of two temporary reception centers: #Bira in Bihac and #Miral in #Velika_Kladusa, both near the Croatia border. In 2018, 25,000 migrants entered Bosnia illegally from Serbia and Montenegro. Since the start of this year, police have registered 8,930 arrivals.

      Bosnia is a transit country for many migrants who are trying to make it to Western Europe from Turkey or Greece. Bosnia is not a member of the European Union. But its neighbor Croatia is.


      Volunteers banned from providing aid

      Meanwhile, Bosnian authorities have banned the international aid group “#Aid_Brigade” from providing food to migrants and refugees at the main train station in Bosnia’s capital Sarajevo, according to the website Klix.ba.

      The volunteers reportedly also had to close the place where they were providing medical assistance to migrants. Since March 2018, Aid Brigade volunteers have prepared and distributed 120,000 meals to migrants and 600 jackets and sleeping bags.

      The volunteers are accused of violating public order and aiding migrants and refugees in violation of the law, as well as volunteering with a tourist visa.

      https://www.infomigrants.net/en/post/17270/new-migrant-reception-center-to-be-built-in-bosnia
      #accueil

    • Bosnie-Herzégovine : à Bihać, on transfère les réfugiés sur une ancienne #décharge

      16 juin -14h30 : Depuis samedi matin, quelque 500 migrants ont été déplacés de Bihać vers une ancienne décharge située sur localité de #Vučjak, tout près de la frontière croate. Les migrants s’opposent à ce transfert et en appellent à la communauté internationale. Des heurts ont éclaté lors des premières opérations de transfert, et quatre policiers ont été blessés selon les sources officielles.

      Des habitants de Bihać annoncent une grande manifestation ce dimanche pour dénoncer la dégradation de la situation en ville, due, selon eux, à la présence des migrants. Ils accusent les autorités locales, cantonales, fédérales et centrales de ne prendre aucune mesure.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/fil-info-refugies

      #Vucjak

    • A particularly worrying situation in the northwest of Bosnia and Herzegovina, in the Una-Sana Canton, is escalating. After the fire in the Miral camp and numerous conflicts between the refugees and the police, the situation seems to be unsustainable. Poor hygienic and living conditions led the refugees to despair. After the escalation of various forms of violence, local authorities decided to move all refugees outside the camps to an isolated area in Vučjak, at the same place where a waste landfill was once housed. The authorities de facto closed the camps, refusing refugees to enter or leave the building. Ironically, the UN and IOM, who have run camps in BiH, oppose this solution (http://ba.one.un.org/content/unct/bosnia_and_herzegovina/en/home/presscenter/un-country-team-in-bih--joint-statement-on-relocation-of-migrant.html. By using force, more than 600 people were transferred to that area, including searches and incursions into several private homes where nearly 300 people were accommodated. "Local police and local Red Cross teams are only present because international organizations do not support the idea and accommodation in Vučjak in the current circumstances. The Red Cross is allegedly only allowed to provide first aid, so there is no medical care for the people who are staying there. Also, food that is distributed is very basic and is not enough to feed people, "AYS reported.

      Reçu via la mailing-list Inicijativa dobrodosli, le 24.06.2019

    • The jungle camp #Vučjak in BIH exists in the last two weeks. There is no presence of medical staff in the camp which makes unacceptable hygienic and sanitary conditions even worse - especially due to reported skin infections among the people who are there. The only organization currently active in the camp is the Red Cross that provides food. The EU responded with additional approval of 14.8 million Euros (http://europa.ba/?p=64423 - of which 13 million are intended to support border management (June 21, signed by IOM), and 1.8 million for humanitarian aid. Thus, the EU has so far financially supported BiH with 24 million euros around the refugee situation. It is extremely worrying that the EU allocates 90% of its intended funds to migration management and a very small part to humanitarian support for people living in very poor conditions. This is a direct indication that the Commission is more concerned with border conservation than human life.

      Reçu via la mailing-list Inicijativa dobrodosli, le 03.07.2019

    • EU provides €14.8 million to assist refugees and migrants in BiH

      The European Union announced today €14.8 million to address the needs of migrants and refugees who remain present in Bosnia and Herzegovina. This includes €13 million of support to migration management – for which an implementation agreement was signed on 21 June with the International Organisation for Migration – and €1.8 million for humanitarian aid.

      This brings EU overall assistance to Bosnia and Herzegovina to cope with the increased migratory flow since 2018 to €24 million (€20.2 million from the Instrument for Pre-accession Assistance and €3.8 million of humanitarian aid). This is in addition to €24.6 million assistance the European Union has provided to Bosnia and Herzegovina in the area of asylum, migration and border management since 2007.

      Johannes Hahn, EU Commissioner for Neighbourhood Policy and Enlargement Negotiations, said: ‘As stated in the recent Commission Opinion, Bosnia and Herzegovina authorities need to ensure effective coordination, at all levels, of border management and migration management capacity, as well as the functioning of the asylum system. This is necessary for the country to take full advantage of the EU substantial assistance – in the interest of refugees and migrants and of the local communities.’

      Christos Stylianides, EU Commissioner for Humanitarian Aid and Crisis Management, said: ‘The EU is committed to help those most in need and cover the basic needs of refugees and migrants in Bosnia and Herzegovina, complementing national efforts. It is important that the well-being of the refugees and migrants is at the heart of decisions for the location and quality of accommodation centres.’

      Building on the results of the previous assistance, this funding will ensure accommodation for around 5,000 refugees, asylum seekers and migrants. It will provide access to health and protection assistance and outreach to people living outside of the reception facilities. Also, some items such as jackets, shoes and sleeping bags will be made available for people in need. The unhindered access of humanitarian partners to those in need is crucial in addressing these humanitarian needs.

      The EU funding will also strengthen the capacity of Bosnia and Herzegovina’s authorities in border management, as well as for identification, registration and referral to services for refugees, asylum-seekers and migrants. It will also support assisted voluntary returns.

      Background

      Since the beginning of the refugee crisis in Western Balkans the European Union has allocated more than €25 million in humanitarian aid to assist refugees and migrants in Serbia, and over €4 million to North Macedonia. EU humanitarian aid helps the most vulnerable refugees and migrants to meet basic needs and preserve their dignity. In addition to humanitarian assistance, the European Union has provided Western Balkans partners with significant financial support amounting to €98.2 million for activities related to migration and refugee crisis. This is done primarily through the Instrument for Pre-accession Assistance.

      Since 2007, the European Union has been providing assistance to Bosnia and Herzegovina worth amounting to € 44.8 million in the area of migration and border management through the Instrument for pre-accession assistance. The country has also benefited from the IPA regional programme ‘Support to Protection-Sensitive Migration Management’ worth up to €14.5 million. The emergency humanitarian assistance provided so far amounts to € 3.8 million.

      Over 33,300 refugees and migrants entered Bosnia and Herzegovina since January 2018, according to government estimates. Approximately 8,000 refugees and migrants in need of assistance are currently present in the country, mostly in the Una-Sana Canton. Approximately, 4,500 are accommodated in EU-funded temporary reception centres.

      As of Friday 14 June, local authorities proceeded with a forced relocation of 900-1000 refugees and migrants to a new location called Vučijak that has been deemed unsuitable by the European Union and UN. The above-mentioned venue, without the necessary infrastructure in terms of water, sanitation or electricity, surrounded by minefields, creates a clear danger for the life and health of migrants. Furthermore, the land is a former landfill and may still be toxic. The European Union is concerned about the well-being of the people moved there and has, together with its humanitarian partners, requested the authorities to stop forced relocations and provide dignified and secure shelter solutions. The European Union is also concerned about the authorities’ intention to take measures against humanitarian partners.

      The € 13 million is based on the Commission Decision C (2019) 3189 on supporting Bosnia and Herzegovina in managing the migration flows for 2019

      The €1.8 million announced today is based on the Commission Implementing Decision C(2019) 17 on the financing of humanitarian aid operational priorities from the 2019 general budget of the European Union ECHO/WWD/BUD/2019/01000.


      http://europa.ba/?p=64423

    • Rotta balcanica. Caritas: “Situazione a Bihac inaccettabile, Europa intervenga”

      “Mentre in Serbia la situazione è abbastanza buona, in Bosnia le condizioni dei migranti sono del tutto inaccettabili: hanno bisogno di tutto, alcuni si trovano in un centro informale, dove prima c’era una discarica. E’ inaccettabile che, a 4 ore di macchina dall’Italia, ci siano persone costrette a vivere così. Le istituzioni italiane ed europee devono iniziare a seguire in maniera seria la situazione”. A sottolinearlo è Oliviero Forti di Caritas italiana e Caritas Europa, di ritorno da una missione nei Balcani, nelle zone di confine con la Croazia. “Siamo stati prima in alcuni centri in Serbia: uno di questi era un ex ospedale psichiatrico e affaccia in territorio croato - . aggiunge Forti -. Ma devo dire che qui ci sono standard buoni, di qualità e non ci sono tantissime persone. Diversa è la situazione in Bosnia, lo stress psicologico delle persone è altissimo, i migranti provano costantemente a passare la frontiera ma vengono rimandati indietro. La violenza della polizia croata nei loro confronti sta diventando una vera emergenza”. Al confine, infatti, per i migranti (per lo più afgani, pakistani, iracheni e siriani) che provano il “game” (passaggio delle frontiere) a Bihac il trattamento è durissimo: secondo quanto testimoniato dagli stessi migranti gli abusi sono sistematici: vengono picchiati, i vestiti gli vengono tolti, così come i telefonini spesso distrutti. “A questa situazione va data una risposta diversa - aggiunge -. tra due mesi qui ci saranno due metri di neve, il gioco diventa molto rischioso. Inoltre c’è una difficoltà di integrazione evidente, le persone del luogo sono sempre più intolleranti e razziste nei loro confronti”. La Bosnia sta diventando così un buco nero, dove i migranti restano bloccati senza poter andare avanti né tornare indietro. “A breve la Serbia chiuderà l’accordo con Frontex per monitorare i confini - conclude Forti - anche questo rientra nella strategia di esternalizzazione delle frontiere, che ormai non vediamo più solo in mare ma anche via terra”.

      https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/rotta_balcanica_caritas_situazione_a_bihac_inaccettabile_europa_int

    • Il campo tossico dove l’Europa scorda i migranti

      Muri e migrazioni. A #Vucjak, in Bosnia, si sopravvive senza assistenza, tra rifiuti e mine anti-uomo: il campo si trova sopra una vecchia discarica, l’acqua non è potabile e la terra, mai bonificata, è intrisa di veleni. E chi tenta la fuga in Croazia trova la polizia e il suo «gioco»: cibo confiscato e zaini dati alle fiamme

      Nascosto tra le cime boscose del monte Plješevica e circondato da zone ancora minate delle guerre jugoslave, il campo rifugiati di Vucjak, nella Bosnia nord-occidentale, è una prova scioccante della crisi che si è abbattuta contro la porta di servizio dell’Unione europea. Le Nazioni unite hanno recentemente descritto questo campo, a pochi chilometri dal confine spinato croato, come del tutto inadeguato ad accogliere civili.

      UNICO CAMPO in cui non sono presenti le grandi organizzazioni non-governative internazionali, è ufficialmente gestito dalla municipalità della cittadina di Bihac. E sotto-affidata, non ufficialmente, ai volontari della Croce Rossa locale di Bihac.

      È sorto dopo che le autorità della Bosnia e i governi municipali del Cantone di Una-Sana, hanno deciso che i migranti non potevano più rimanere negli spazi pubblici o negli edifici abbandonati, entro i limiti della città.
      Plastica, vetro, vecchi vestiti ormai diventati stracci, copertoni di gomme usate giacciono sul terreno contaminato.

      Si tratta di resti tossici del passato. Il campo si trova sul sito di una vecchia discarica, in attività solo fino a qualche anno fa. Le condizioni sono terribilmente preoccupanti. La sopravvivenza è legata all’acqua non potabile, alla terra intrisa di anni di veleni, al solo lavoro dei volontari.

      ALMENO UN MIGLIAIO di migranti sono ammassati in questo inferno. Provengono da Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Pakistan. L’accesso all’acqua è ridotto a dieci ore al giorno, non esiste un approvvigionamento idrico permanente.

      Vucjak fa eco all’inumanità del campo profughi di Calais in Francia del nord e all’abietta inazione dei governi europei. La mancanza di infrastrutture di base e servizi igienico-sanitari a Vucjak viola profondamente le norme minime stabilite dai canoni delle Nazioni unite.

      Nel bel mezzo del campo, un’enorme mappa mostra la posizione dei campi minati locali. Ogni giorno, più volte al giorno, camionette della polizia bosniaca riversano su Vucjak migranti che sono fuori dai circuiti dei centri di accoglienza temporanei, quelli dell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni.

      Come cani randagi, vengono scaricati in mezzo al campo, dopo aver aperto il portellone posteriore del furgone, sigillato da uno sfolgorante lucchetto. È strettamente proibito riprendere queste scene, non ci sono fotografie, video o materiali propagandistici, ma è una pratica che va avanti indisturbatamente.

      Nonostante l’ingiustizia umanitaria, non sono le mine antiuomo, le condizioni precarie di salute o la mancanza di servizi igienico-sanitari che i migranti raccontano. Raccontano le violenze «passive» della polizia di confine. Nelle ultime settimane c’è un nuovo gioco che usa la polizia croata: rastrellare e bruciare cibo, vestiti, scarpe, zaini, telefoni dei ragazzi che tentano il game.

      Nella programmazione dell’attraversamento del confine croato-bosniaco, si spendono circa 100 marchi (poco più di 50 euro) in generi alimentari, per lo più pane e derivati. Spesso quei 100 marchi rappresentano i risparmi di mesi, così bruciare il cibo diventa un segnale di terribile spietatezza.

      Emad è fuggito dalla Siria, con la moglie e il figlioletto di appena due anni. Ha tentato il game ma l’hanno rispedito nel Borici temporary reception center della città di Bihac, derubandolo di tutto. Mentre lo staff medico dell’associazione italiana One Life Onlus visita il figlio, Emad ci porge una busta di plastica con un telefono all’interno. Ci chiede se lo vogliamo comprare, così con quei soldi può provare di nuovo ad attraversare il confine con la Croazia. È straziante. Non ci sono parole.

      DAL GENNAIO 2018, quasi 36mila migranti sono entrati in Bosnia, rimanendo intrappolati tra le politiche europee, progettate per ridurre gli attraversamenti irregolari, e la situazione di stallo politico in Bosnia, che di fatto impedisce alle autorità locali di fornire protezione.

      Dalla Turchia e dalla Grecia, sono due le principali vie di passaggio per la Bosnia: una attraversa la Macedonia del nord e la Serbia, l’altra attraversa l’Albania e il Montenegro.

      In piedi nel campo di Vucjak, tra una folla di corpi maltrattati e ossa rotte, ci si trova di fronte alle feroci conseguenze della geopolitica europea. Nel cinico sforzo del governo croato di dimostrare di avere le carte in regola per aderire all’area Schengen di libera circolazione, il Paese respinge i migranti senza seguire le adeguate procedure di asilo.

      IL VIAGGIO DI GULRAIZ inizia a Kunduz, in Afghanistan. Facciamo fatica a guadagnare la sua fiducia. La solitudine che accompagna i migranti è invalicabile. Sorridono, ma gli occhi sono vuoti. Mese dopo mese camminano senza alcun riposo e senza alcun appoggio. Si viaggia insieme ad amici di circostanza, a meri compagni di percorso.

      Per un marco ha ricaricato il suo prezioso e vecchio telefono a Vucjak. Dopo qualche racconto, ci mostra sul telefono la mappa che userà per tentare il game partendo dal monte Plješevica, addentrandosi nel fitto bosco bosniaco, passando per la cittadina bosniaca di Šturlic, fino ad arrivare agli anelati cartelli del granicni prelaz, il valico di frontiera. Un firmamento di punti rossi, di luoghi, di coordinate, di passi compaiono sulla funzione ‘satellite’ di Google Maps.

      Ci ferma un biondo poliziotto bosniaco. Camicia chiusa fino all’ultimo bottone, aria spavalda e bieche gambe di piombo. Ci prende i documenti. Cerca di intimorirci segnando i nostri nomi su un taccuino spiegazzato, senza darci alcuna spiegazione.

      Il favoreggiamento all’immigrazione clandestina ha un confine sottile. Siamo costretti ad allontanarci. Lo facciamo con l’immagine negli occhi della mappa satellitare di Gulraiz, con le mani segnate da un viaggio inumano di Abdurahman che con ago e filo riparava il suo zaino, con gli occhi sgranati dall’incertezza dei ragazzi che non hanno un badge per il ’5 stelle’ dei centri di accoglienza temporanei.

      Lasciamo la Bosnia con l’immagine di Ibrahim, poco più di tre anni, che segue camminando il suo papà, imitandolo con le braccia piegate all’indietro.

      https://ilmanifesto.it/il-campo-tossico-dove-leuropa-scorda-i-migranti

    • ‘Absurdistan’ : Migrants face dangerous winter in Bosnia

      Political inaction leaves hundreds living on former dump amid snake-infested minefields

      “This is jungle life,” says Wasim, a Pakistani who is among hundreds of migrants staying in a makeshift camp in northwestern Bosnia, from where they strike out at night in small groups for nearby Croatia and the European Union.

      “We are all like animals here just trying to survive. It’s the worst sentence I could say, but unfortunately it’s true.”

      The political science graduate from near Lahore speaks eloquently about how a famous son of the city, Pakistani prime minister Imran Khan, could transform life for his nation of 208 million and the quarter of its people who live in poverty.

      Wasim (34) plans to return when times are better, but now he must hike again through the thickly wooded hills above the camp, try to slip past Croatian border guards who are accused of beating and robbing migrants, and find the hoped-for job somewhere in the EU that was his reason for leaving home last year.

      Danger is all around: the squalid Vucjak camp is built on a former rubbish dump that may hold high levels of methane gas – prompting the UN’s International Organisation for Migration (IOM) to declare it unfit for human habitation – while the hills are infested with snakes and dotted with landmines from Bosnia’s 1992-1995 war.

      There are no toilets for the more than 500 men who live here and washing facilities are rudimentary, increasing the risk of disease; fights are common, particularly after dark when police and local aid workers go home. A man was stabbed to death here last week during a fight between Pakistanis and Syrians.

      “No one feels safe,” Wasim explains, as men who have fled conflict and poverty from North Africa to Afghanistan line up in the dust to receive food from the Bosnian Red Cross.

      “Might is right here. Everyone pushes each other, everyone is desperate and wants to move on,” he says of this remote corner of Europe where he has been stuck for three months, having failed “four or five times” to enter the EU undetected.

      “Everyone knows where to go. Even if they are illiterate, even if they didn’t go to school at all, they know Croatian and Slovenian and Italian cities by name. Everyone talks about this. Maybe they can’t even tell the time, but they know how to find locations with a mobile phone.”

      The so-called Balkan route did not cross Bosnia in 2015, when more than one million refugees and migrants followed it from Turkey towards Germany and other EU states, where their arrival sent immigration to the top of the political agenda.
      Derelict buildings

      Even in 2017, Bosnia registered only 755 migrants but, as the route shifted to bypass tighter border controls elsewhere in the Balkans, that number soared to 25,000 in 2018 – and 20,000 migrants have entered the country so far this year.

      They keep coming this way because it works – only about 6,500 of those people are still in Bosnia – but as months of cold, wet and snowy weather approach, up to 2,000 people are living rough at Vucjak and in parks, woods and derelict buildings in the border towns of Bihac and Velika Kladusa.

      “We’ve been warning since January of the need to increase the number of official migrant centres or their capacity . . . but there was no political decision to expand accommodation, even though international funding is available,” says Peter Van der Auweraert, the IOM representative in Bosnia.

      “Winter is just around the corner and any new location takes time to establish. We now have about 4,200 beds for migrants around the country, but we need about 2,000 more,” he told The Irish Times.


      “Vucjak is a disaster and it would be a bigger disaster if it’s still open in winter . . . If we don’t act now we will have people sleeping outside in Vucjak and other totally unacceptable places and we will be facing a threat to human life.”

      Yet Bosnian political leaders at all levels are unwilling to take any steps that rivals could portray as an “invitation” to migrants, or which would acknowledge the fact that they are likely to keep coming to the country for the foreseeable future.

      The local authorities in Bihac transported people to Vucjak despite objections from international aid groups, moving them from the city’s streets and parks to the edge of the forest – “the jungle” to migrants – which leads to Croatia.

      National politics is meanwhile paralysed, not for the first time under Bosnia’s fiendishly complex post-war system, as parties representing its Bosniak Muslim, Serb and Croat communities have yet to form a government nearly a year after elections.

      “This is ‘Absurdistan’,” declares Ale Siljdedic, police spokesman for Una-Sana canton, in his office in Bihac.

      “The problem is that no one cares in this country. They don’t care for local people, never mind the migrants. What is 5,000 migrants for a whole country if everyone shares them around? It’s nothing. But for a city of 50,000 like Bihac it’s too much.”
      Mass brawls

      The Pakistani stabbed at Vucjak last week was the second man to die in fights between migrants in Bihac. There have been a couple of mass brawls, but most of the cases he sees relate to minor thefts, particularly of phones and clothes, and break-ins at empty houses near the border where migrants sleep and then move on.

      “If you don’t have something to eat and you’re hungry you will go inside somewhere and get it. If it’s freezing cold and you could be dead the next morning then you’ll go into a house or abandoned building to sleep,” Mr Siljdedic says.

      “Maybe we’ll find you dead with two friends as happened last year, when they made a fire and it spread everywhere and they were killed. We’ve had 20 dead migrants in the last two years: two murdered, six drowned, three burned, some car accidents and a train hit one guy. This is the life we have here – people are coming and going and some die.

      “Camp Vucjak is not good and it will be much worse in winter. When the rain and snow come – and it can be minus 20 with two metres of snow up there – what will happen to those guys? They’ll come to Bihac and come into contact with locals and make some shit. And then we’ll have to deal with them.”


      Many migrants see the next few weeks as their last chance to reach the EU this year, creating a likely increase in movement towards Croatia, where officials deny claims that border guards beat and rob people that they push back into Bosnia.

      “With winter coming [migrants] are increasingly on edge and they feel like it’s ‘now or never’ to get across the border. At the same, the border guards in Croatia seem to be pushing people back more aggressively than before,” says Nihal Osman, deputy field co-ordinator in Bosnia and Serbia for Médecins Sans Frontières.

      “There’s been a noticeable increase of alleged push-back injuries in the last week or so, including people with broken bones and dog bites.”

      Sitting in a wheelchair in an IOM-run camp near Bihac, Amir Ali Mohammad Labaf accuses Croatian border guards of dumping him in the forest near the frontier just days after he suffered back injuries when he fell down a roadside embankment.

      Labaf says he was persecuted in Iran as an activist from the Gonabadi dervish order, a major Sufi sect that is denounced by country’s Shia theocracy; news reports from 2008 say a court in Qom sentenced a member of the sect with the same name to five years in jail, 74 lashes and internal exile for “spreading lies”.

      “I was in hospital for a day in Croatia and asked for asylum. They said no and deported me to the jungle,” says Labaf (40), referring to the forest that spans the border. “I want to go to France, but I can only walk a little and with great pain.”

      At Vucjak, meanwhile, Wasim is ready for another round of what migrants call “the game”.

      “I don’t have money to pay smugglers so I will try by myself to cross the border. I have some knowledge of the stars so I can travel by night,” he says. “You just have to try and try and try. And when you succeed, then you know it was the right time.”

      https://www.irishtimes.com/news/world/europe/absurdistan-migrants-face-dangerous-winter-in-bosnia-1.4027923

    • Water cut to crowded migrant camp as Bosnian authorities feud, seek to downsize its population

      Local authorities in the Bosnian town of Bihac on Monday cut off a nearby migrant camp’s water supply, to pressure the government into reducing the population of the overcrowded site that international organizations have criticized as unsuitable.

      But aid workers said the move will just cause additional suffering for the #Vucjak tent camp’s 1,000 residents, many of whom walked out of the site with empty plastic bottles to beg water from Bosnians living in the vicinity.

      Officials in the northwestern town also announced a crisis meeting to discuss what to do with the camp, which hosts migrants stopped in the impoverished Balkan country while trying to reach Western Europe.

      “It is obvious that the situation must be brought to the verge of absurdity in order to be solved,” complained Bihac Mayor Suhret Fazlic.

      Both the United Nations and the European Union missions in Bosnia have urged authorities to relocate the migrants from Vucjak — which is situated on a former landfill and near minefields left over from the 1992-95 war.

      Camp resident Osman Ali, from Pakistan, described conditions as “bad, very bad.”

      “I think all people here are seeking a better situation, situation is very dirty here,” he told The Associated Press.

      Ali and other migrants were lining up Monday for a meal from the local Red Cross. Police last week rounded up hundreds of migrants from Bihac and brought them all to Vucjak, nearly doubling the camp population.

      Fazlic has warned that the city will also cut waste collection services to draw attention to the camp’s failings and force the government to share the burden and move some of the migrants to other parts of the country.

      Thousands of migrants are stuck in northwestern Bosnia, unable to continue their trek north through neighboring Croatia whose police have been accused of violently repulsing migrants caught trying to illegally cross the border.

      Selam Midzic, a Red Cross representative at Vucjak, said cutting the water supply would just raise tensions among the migrants, and consequently with aid workers and locals.

      “In the camp itself, migrants will put pressure on the Red Cross representatives, who work here and who have no protection at all, demanding to be provided with drinking water,” he warned.

      The U.N. last week warned of a possible “humanitarian emergency” if aid is cut for the camp, urging Bosnia’s government to urgently find a new location.

      In the dusty camp, some migrants used puddle water to wash. Lounging outdoors during a spell of unusually warm weather, others said they fear conditions will deteriorate once winter cold sets in.

      Ahmed, from Pakistan, said many migrants have been sick: “(We don’t) have water, (or) food, (they) only give one person two (slices of) bread,” he said and added, pointing to his feet and clothing: “No have shoes and no jacket!”

      Tens of thousands of people from Asia, the Middle East and Africa emigrate illegally to Europe every year, braving perilous sea journeys and closed borders in the hope of securing a better life in the continent’s more affluent countries.

      On Monday, Libya’s coast guard said it intercepted 126 Europe-bound migrants in a rubber boat off the country’s Mediterranean coast.

      In Malta, authorities said police arrested 107 people following overnight riots in the Hal Fa migrant detention center.

      The interior ministry said the trouble, involving about 300 migrants, started late Sunday when a migrant tried to enter the center while allegedly drunk. A police vehicle was damaged and three police officers slightly injured in the violence.

      The U.N. refugee agency expressed concern.


      https://www.japantimes.co.jp/news/2019/10/22/world/social-issues-world/water-cut-crowded-migrant-camp-bosnian-authorities-feud-seek-downsize-
      #eau #coupure #dissuasion

    • Inside Bosnia’s ’nightmare’ camp for migrants trying to enter the EU

      Aid agencies are warning of a humanitarian disaster in Bosnia, with people facing a winter without proper accommodation.

      Bosnia is now a major route into the EU – 45,000 migrants have arrived in the country since the start of 2018.

      The country’s official refugee camps are full and the government has not allocated new sites, despite being given £10m by the EU this summer to do so.

      https://www.bbc.com/news/av/world-europe-50132250/inside-bosnia-s-nightmare-camp-for-migrants-trying-to-enter-the-eu
      #vidéo #gale #hiver #campement

      On dit dans le reportage que la zone autour du camp est entourée de #mines_anti-personnel

    • Réponse de Simon Missiri à ma question sur l’argent récolté par la #Croix-Rouge pour faire face à la situation humanitaire en Bosnie, via twitter 25.10.2109 :


      « We were able to raise only CHF 1.3 mln despite all efforts. This financed food non-food support to 41,000 migrants this year. Much more is needed in this desperate situation. »
      https://twitter.com/SimonMissiri/status/1187679349685645312

      Le lien vers le rapport « Emergency Plan of Action Operations Update No .3, Bosnia and Herzegovina : Population Movement » du 25.10.2109


      https://t.co/WBFbWSf3c2?amp=1

    • Bosnian authorities have announced the closure of the ad-hoc “camp” in Vučjak, where terrible conditions prevail and refugees have no access to water, toilets, or medical assistance (https://apps.derstandard.at/privacywall/story/2000110464615/bosnisches-aufnahmezentrum-fuer-fluechtlinge-wird-geschlossen). The camp, which was built on a former garbage dump, has been repeatedly criticised by a number of international and regional organisations for its range of health threats and non-compliance or minimum standards for refugee reception. With the previously announced closure of the temporary reception centres Bira in Bihać and Miral in Velika Kladuša, the question of accommodating thousands of refugees in Bosnia and Herzegovina arises, especially given that the weather is rapidly getting worse and winter is coming soon.

      Reçu via Inicijativa dobrodosli, mail du 06.11.2019.

      –---------------
      Bosnisches Aufnahmezentrum für Flüchtlinge wird geschlossen

      Ein neuer Standort soll gefunden werden, da das Lager nahe einer Mülldeponie und eines Minenfelds errichtet worden war.

      Bosniens Sicherheitsminister Dragan Mektić hat am Dienstag die Schließung des Flüchtlingszentrums Vučjak etwa zehn Kilometer von Bihać entfernt angekündigt. Dort halten sich laut dem Minister derzeit zwischen 800 und 1.000 Flüchtlinge und Migranten auf.

      Das Aufnahmezentrum war im Juni unweit einer Mülldeponie und eines Minenfelds errichtet worden. Mehrere internationale Organisationen hatten sogleich gewarnt, dass das Zentrum ein ernstes Gesundheits- und Sicherheitsrisiko darstelle und nicht den internationalen Normen entsprechend für die Unterbringung von Flüchtlingen ausgestattet sei.
      Keine ehemaligen Kasernen

      Föderationspremier Fadil Novalić hat Mektić zufolge dieser Tage einige Standorte für ein neues Aufnahmezentrum vorgeschlagen. Es würde sich um eine Investition von 1,5 bis zwei Millionen Euro handeln, berichtete der Minister. Die Kommunalbehörden sind weiterhin nicht bereit, den gesamtstaatlichen Behörden ehemalige Militärkasernen zur Aufnahme von Flüchtlingen zur Verfügung zu stellen.

      Die Behörden des Kantons Una-Sana hatten in der Vorwoche die Schließung von weiteren zwei Aufnahmezentren, Bira in Bihać und Miral in Velika Kladuša, angekündigt. In den beiden Zentren halten sich derzeit rund 2.000 Personen auf.

      Im Kanton Una-Sana befinden sich laut früheren Angaben der Regionalregierung etwa 5.000 Migranten und Flüchtlinge, heuer wurden bereits 36.000 registriert. (APA, 29.10.2019)

      https://apps.derstandard.at/privacywall/story/2000110464615/bosnisches-aufnahmezentrum-fuer-fluechtlinge-wird-geschlossen

    • Cold weather comes, no relief in sight for Bosnia’s migrants

      Despite the approach of harsh weather, hundreds of refugees and migrants are still stuck in northwest Bosnia in a makeshift camp described by international organizations as dangerous and inhumane.

      Desperate men, including many who have made several unsuccessful attempts to cross into neighboring European Union member Croatia, sleep in the ill-equipped Vucjak tent camp. It is located on a former landfill, not far from a minefield left over from Bosnia’s 1992-95 war.

      The men spend their days collecting wood from nearby forest to use for the small fires that are their only source of warmth during Bosnia’s chilly fall nights. They get only one meal per day, distributed by local Red Cross volunteers, and are forced to shower outside, with no privacy or even a semblance of comfort.

      The Vucjak camp, where they might end up spending the entire harsh Bosnian winter, was set up by local authorities to increase the pressure on the central government, which they have accused of not doing enough to distribute the migrant burden around the country.

      Bosnia has been overwhelmed by the arrival of migrants heading toward Europe along the Balkan route. Most migrants flock to its northwest region, which borders Croatia.

      This has led to tensions in the border area where most of the over 6,000 migrants now in the country are staying.

      https://apnews.com/c0c9dd7dcab444b791ce099feff6cb65

    • Bosnie : le projet d’ouverture de deux centres pour migrants stagne malgré l’urgence de l’hiver

      Entre travaux interminables et lenteurs administratives, l’ouverture de deux nouveaux centres d’hébergement pour faire face à l’afflux de migrants en Bosnie prend du retard. L’ONU appelle le gouvernement à débloquer la situation qui, en l’état, pourrait conduire à des décès de migrants sans abri au cours de l’hiver.

      À l’approche de l’hiver, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) s’est lancée dans une véritable course contre la montre pour mettre à l’abri les milliers de migrants qui survivent dans les bois ou dans le camp de Vucjak, dans le nord de la Bosnie, à la frontière avec la Croatie, membre de l’Union européenne (UE).

      Selon Peter Van Der Auweraert, représentant de l’OIM en Bosnie, quelque 2 500 migrants sont actuellement sans abri dans cette région : un millier d’entre eux vivent dans le camp de Vucjak, installés sur une ancienne décharge. Et 1 500 autres sont éparpillés dans les bois alentours, occupant souvent de vieilles bâtisses abandonnées et vétustes.

      Les deux centres d’hébergement de Bira à Bihać et Miral à Velika Kladuša tournent, eux, à pleine capacité avec 1 500 personnes dans le premier (principalement des hommes seuls) et 600 à 700 personnes dans le second (principalement des familles et des mineurs non-accompagnés).

      Chaque jour, de nombreux migrants continuent d’affluer dans le canton d’Una Sana avec l’espoir de réussir à franchir la frontière croate et ainsi entrer dans l’UE. Le ministère de la Sécurité évalue à au moins 50 000 le nombre de migrants ayant traversé le pays l’année dernière à destination de l’Europe.

      Les autorités locales du canton d’Una Sana peinent de plus en plus à faire face à l’afflux de migrants et se heurtent à la grogne des citoyens. Plusieurs centaines d’habitants de Bihac ont ainsi manifesté mi-novembre pour demander la fermeture des centres d’hébergement et du camp de Vucjak.

      Le gouvernement bosnien, de son côté, a approuvé début novembre deux nouveaux sites d’hébergement des migrants en dehors de la région d’Una Sana, l’un dans le canton de Tuzla et l’autre dans celui de Sarajevo. Après plusieurs jours d’attente, les équipes de l’OIM ont eu accès la semaine dernière aux bâtiments afin d’évaluer leur capacité et les travaux à faire.

      “Mauvaise nouvelle, le site de Tuzla est, pour l’instant, inutilisable. La protection civile nous a informés qu’il restait des mines anti-personnelles autour des anciens baraquements militaires qui devaient être convertis en centre d’hébergement”, indique Peter Van Der Auweraert de l’OIM Bosnie, joint par InfoMigrants. Selon lui, l’opération de déminage prendra plusieurs semaines. Le site ne devrait pas être disponible avant le printemps.
      "Le gouvernement n’a pas le sens de l’urgence"

      Le site du canton de Sarajevo, lui, est “utilisable”, poursuit Peter Van Der Auweraert. “Mais quatre semaines de travaux sont à prévoir car l’eau courante ne fonctionne pas, l’électricité n’est pas aux normes et il n’y a pas de raccordement aux égouts”, explique-t-il, estimant que ce site serait en mesure d’accueillir la quasi-totalité des migrants qui se trouvent dans les bois et dans le camp de Vucjak. Il vise une ouverture, au mieux, début 2020, à condition que le ministère de la Sécurité donne son feu vert rapidement. “Le problème c’est que le gouvernement central n’a absolument pas le sens de l’urgence, il n’y a pas de véritable volonté politique”, regrette-t-il.

      En attendant, l’OIM souhaiterait augmenter la capacité d’accueil du centre de Bira afin d’y transférer un maximum de migrants sans abri, mais les autorités cantonales font barrage. Elles ont même récemment menacé de mettre en place un blocus dans les centres de Bira et Miral empêchant la libre circulation des migrants.

      “La neige doit commencer à arriver la semaine prochaine, j’ai très peur que nous ayons rapidement des pertes de vies humaines à cause de l’inaction politique”, prévient Peter Van Der Auweraert, rappelant que que les conditions sanitaires dans lesquelles les migrants de Vucjak survivent sont, en outre, extrêmement précaires. “Ces personnes ont besoin d’une évaluation médicale avant même de pouvoir être transférés dans des centres. On estime, par exemple, que 70% des migrants de Vucjak ont la gale. Malgré l’urgence, on ne peut pas travailler car on dépend des décisions du gouvernement qui n’arrivent pas”, termine-t-il, appelant une nouvelle fois les autorités à réagir.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/21119/bosnie-le-projet-d-ouverture-de-deux-centres-pour-migrants-stagne-malg

    • Bosnie-Herzégovine : le Conseil de l’Europe demande la fermeture du camp de Vučjak

      « Ce camp devrait être fermé sans délai », a déclaré mardi la Commissaire aux droits humains du Conseil de l’Europe, Dunja Mijatović, lors de sa visite à Vučjak. Sur le terrain, les ONG dénoncent un « cauchemar », alors que les migrants et réfugiés se sont lancés dans une grève de la faim pour protester contre les conditions de vie catastrophiques.

      « Des gens vont mourir », a déclaré mardi à la presse Dunja Mijatović, la Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, lors de sa visite au camp de Vučjak. « Ce n’est pas un lieu pour des êtres humains. » Depuis trois jours, des migrants de ce campement informel situé à 8 km de la frontière croate et qui « accueille » environ 600 personnes, sont en grève de la faim, refusant la nourriture et les boissons chaudes que des bénévoles de la Croix-Rouge leur apportent une fois par jour. Ce qu’ils veulent, disent-ils, c’est poursuivre leur route vers l’Europe.

      Les photos dans la presse montrent des hommes blottis sous des couvertures, certains sans chaussures ni chaussettes, alors que la température a chuté en-dessous de zéro degré. « Nous ne sommes pas des criminels ni des terroristes », proteste un Pakistanais, cité par Radio Slobodna Evropa. « Pourquoi sommes-nous condamnés à vivre ainsi ? J’ai donné de nombreuses interviews pour alerter l’opinion, mais ça n’a rien changé. » Les ONG présentes sur le terrain dénoncent également une situation catastrophique. « Un cauchemar », selon Médecins sans frontières (MSF).

      « Les réfugiés et les migrants doivent être transférés dans un endroit chaud, où ils recevront un repas et où il sera possible de traiter leurs demandes de la façon la plus appropriée », a insisté Dunja Mijatović. Elle-même d’origine bosnienne, elle a reconnu qu’elle avait « honte qu’une chose pareille existe dans [son] pays ». « La solution est de fermer ce camp et de faire en sorte que ces gens survivent à l’hiver », a-t-elle plaidé. Dunja Mijatović a prévu de rencontrer vendredi des représentants des différents niveaux institutionnels en Bosnie-Herzégovine.

      Le ministre bosnien de la Sécurité, Dragan Mektić, a affirmé que les réfugiés et migrants seraient prochainement transférés dans un nouveau centre d’accueil temporaire à Blažuje, près de Sarajevo. « Les travaux de construction et de rénovation ont commencé et nous prévoyons que les premiers migrants y soient hébergés d’ici deux à trois semaines », a-t-il assuré. Selon le ministère de la Sécurité, la Bosnie-Herzégovine compte sept centres d’accueil officiels où se trouvent actuellement environ 4500 réfugiés et migrants.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Bosnie-Herzegovine-le-Conseil-de-l-Europe-demande-la-fermeture-du

    • Bosnie-Herzégovine : les migrants du camp de Vučjak en #grève_de_la_faim

      Alors que la neige s’est mise à tomber en Bosnie-Herzégovine, les conditions dans le camp de Vučjak, déjà misérables, ont empiré. Depuis mardi, plusieurs migrants qui tentent de survivre dans le camp refusent de boire et de s’alimenter pour protester contre la situation. Un membre de l’équipe mobile de la Croix-Rouge de Bihac a déclaré à Klix.ba qu’ils avaient refusé d’avaler le repas chaud préparé mardi matin et de boire du thé.

      « Nous avons faim, nous mourons, mais nous n’irons nulle part ailleurs en Bosnie-Herzégovine. Nous exhortons l’UE à ouvrir ses frontières », a déclaré l’un des migrants. Outre la nourriture, ils refusent également de nouvelles tentes – sous le poids de la neige, plusieurs se sont déjà écroulées – et des couvertures.

      La Commissaire aux droits humains du Conseil de l’Europe, Dunja Mijatović, a demandé mardi la fermeture immédiate du camp.
      Bosnie-Herzégovine : la neige est tombée sur le camp de Vučjak

      4 décembre - 8h30 : Les premières neiges sont tombées sur le camp de Vučjak, où survivent 800 à 1000 réfugiés, très mal vêtus, souvent sans chaussures. Plusieurs tentes fournies par le Croissant-Rouge turc se sont effondrées sous le poids de la neige.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/courrierdesbalkans-fr-fil-info-refugies-2019-novembre

    • Le camp de Vucjak évacué, mais le sort de ces migrants n’est en rien réglé

      Après des semaines de demandes d’ONG humanitaires et de pression de l’Union européenne sur les autorités de Bosnie-Herzégovine, le campement de Vucjak est en cours d’évacuation.


      https://fr.euronews.com/2019/12/09/le-camp-de-vucjak-evacue-mais-le-sort-de-ces-migrants-n-est-en-rien-reg
      #évacuation

    • Bosnia Puts Off Closing Makeshift Migrant Camp ’Until Further Notice’

      Bosnian authorities have indefinitely postponed the scheduled closing of a makeshift migrant tent camp in the northwest of the country.

      The closing of the Vucjak camp had been scheduled for December 9, following harsh international criticism of the improper conditions hundreds of people are being housed in. The camp is hosting some 600 migrants, according to the Red Cross.

      Rade Kovac, the director of the Bosnian Service for Foreigners’ Affairs, visited the camp on December 9 and said that the authorities had postponed closing the camp until further notice.

      Aid groups have repeatedly warned that the Vucjak camp is located on a former landfill and close to a mine field from Bosnia’s 1992-95 war, and has no running water or toilets. Living conditions worsened further after snow started falling last week.

      Kovac said the migrants will eventually be moved to one of the reception centers in the Sarajevo Canton. He gave no reason for the postponement, but media reports said the decision was prompted by a lack of proper accommodation at the reception centers.

      Bosnia-Herzegovina’s security minister, Dragan Mektic, last week announced that the occupants of the camp on the border with Croatia would be relocated to other camps outside the region.

      “It was agreed that migrants would be moved early next week from this locality to other reception centers...and that this makeshift camp would be closed,” Mektic said in a statement on December 6.

      The decision to close the camp came after Dunja Mijatovic, the Council of Europe commissioner for human rights, visited Vucjak last week and warned that deaths would be imminent if the camp were not closed at once. “If we don’t close the camp today, tomorrow people will start dying here,” she told reporters while visiting the snow-covered camp.

      On December 6, Mijatovic told a news conference in the Bosnian capital, Sarajevo, that it was now urgent to relocate the migrants and provide them with “decent accommodation.”

      "Many people lack adequate clothing and footwear,’’ she said. "It is inhumane and unacceptable to keep people in such conditions.’’

      However, some migrants said that despite snow and freezing weather, they will refuse to be moved farther away from the border. Most of the migrants flocked to the northwestern part of Bosnia because they want to continue their journey to Western Europe’s more prosperous countries by crossing the border into European Union member Croatia.

      On December 7, migrants at Vucjak resumed accepting food distributed by the Bihac branch of the Red Cross, after refusing it for several days in protest at the announced relocation of the camp.

      Bosnian authorities have struggled to accommodate thousands of people fleeing war and poverty in the Middle East, Africa, and Asia. Migrants enter Bosnia from neighboring Serbia or Montenegro.

      https://reliefweb.int/report/bosnia-and-herzegovina/bosnia-puts-closing-makeshift-migrant-camp-until-further-notice

    • Bosnia, “situazione insostenibile nel campo di Vucjak. Migranti al freddo senza acqua corrente e luce”. Ma la chiusura è rinviata

      Una situazione intollerabile, con tende coperte dalla neve e mancanza delle più elementari condizioni igieniche. È questo lo stato del campo profughi di Vucjak, nel Nord-Ovest della Bosnia-Erzegovina, vicino alla frontiera con la Croazia. Lunedì 9 dicembre le autorità ne hanno rinviato la chiusura, dopo averla annunciata nei giorni precedenti sotto la crescente pressione della comunità internazionale. I media locali, nel dare notizia del rinvio, non ne hanno chiarito i motivi. È possibile che le strutture indicate per l’accoglienza dei seicento profughi non siano ancora del tutto pronte.

      Il campo, aperto a giugno scorso vicino a Bihac, si trova su una ex discarica e vicino a terreni minati nella guerra degli anni novanta e non dispone delle infrastrutture più elementari, di acqua corrente o elettricità. I profughi, principalmente giovani uomini, vivono in tende non riscaldate, nonostante le temperature siano scese in questi giorni sotto lo zero.

      Era stata in particolare Dunja Mijatovic, commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa, a chiedere lo smantellamento del campo di Vucjak. La commissaria martedì 3 dicembre si era recata sul posto e aveva denunciato la passività delle autorità bosniache: “Se non si chiude questo campo oggi, domani le persone cominceranno a morire. Di chi sarà la responsabilità?”. Venerdì, davanti alla stampa, aveva di nuovo parlato di condizioni “molto difficili e vergognose”, dicendosi “scioccata” da ciò che aveva visto a Vucjak. Anche Medici senza Frontiere aveva segnalato la difficile situazione dei profughi, molti dei quali sprovvisti di vestiti adeguati ad affrontare il freddo. Le reazioni della comunità internazionale avevano spinto le autorità bosniache a decidere la chiusura immediata del campo all’inizio della settimana successiva, salvo poi tornare sui loro passi.

      L’obiettivo, dopo un passaggio temporaneo in vari centri di accoglienza, è accogliere i circa seicento profughi di Vucjak in una ex caserma nei pressi di Sarajevo. Non tutti i migranti sembrano però disposti ad accettare il trasferimento, che significa allontanarsi dalla frontiera con la Croazia, Paese membro dell’Unione europea nel quale intendono entrare per poi proseguire il viaggio verso l’Europa occidentale. Nei precedenti tentativi di trasferire i migranti nella capitale, infatti, i profughi avevano chiesto di tornare a Bihac per essere più vicini al confine.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/12/09/bosnia-situazione-insostenibile-nel-campo-di-vucjak-migranti-al-freddo-senza-acqua-corrente-e-luce-ma-chiusura-e-rinviata/5604973

    • En Bosnie-Herzégovine, l’un des pires camps de réfugiés d’Europe évacué

      L’évacuation du camp de migrants de Vucjak, en Bosnie-Herzégovine, a démarré mardi 10 décembre, après que la Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe a demandé aux autorités de « fermer sans délai ». Il y a quelques semaines, Mediapart y avait constaté les conditions de vie honteuses. Reportage.

      Début décembre, en visite sur place dans la neige, la Commissaire aux droits de l’homme du Conseil de l’Europe avait demandé aux autorités bosniennes de « fermer Vucjak sans délai ». Dans ce camp informel apparu en juin dernier à l’extrémité nord-ouest de la Bosnie-Herzégovine, des réfugiés s’entassent dans des conditions honteuses, cherchant à rallier à pied la frontière croate, puis la Slovénie et l’Italie derrière. Elle-même bosnienne, Dunja Mijatovic avait formulé cette requête à la mi-octobre déjà, sans succès.

      Cette fois, l’évacuation a commencé, mardi 10 décembre, en début d’après-midi. « Pour des raisons de sécurité », les journalistes n’ont pas eu le droit d’accéder au site, contraints de suivre le déroulé des opérations loin de cette ancienne décharge, sur laquelle les autorités du canton d’Una-Sana avaient établi un camp, à quelques kilomètres seulement de la Croatie (membre de l’UE). Le week-end dernier, des migrants résidant là s’étaient mis en grève de la faim à l’annonce de leur relogement loin de la frontière.

      En 2019, en Bosnie-Herzégovine, davantage d’arrivées de migrants ont été enregistrées qu’en Espagne ou en Italie.

      Bosnie-Herzégovine, envoyés spéciaux. – Chacun s’est emmitouflé du mieux qu’il a pu. Certains ont des couvertures roulées sur les épaules, un homme brandit un étonnant parapluie vert, tous portent un gros sac sur le dos et un duvet en bandoulière. Les adieux sont brefs avec les compagnons qui restent au camp de Vu#jak, en Bosnie-Herzégovine. Cet après-midi brumeux, ils sont vingt-cinq à prendre la route de la frontière avec la Croatie, membre de l’Union européenne, située à moins d’une heure de marche. Vingt-cinq à s’engager dans le game, le « jeu » très risqué du passage de la frontière.

      « J’ai déjà essayé six fois de passer », raconte Muhammad, un jeune Pakistanais. « À chaque fois qu’ils nous arrêtent, les policiers croates nous ordonnent de poser devant nous nos téléphones portables et ils les cassent. On doit aussi donner tout notre argent. Ensuite ils brûlent nos sacs, nos vêtements chauds et nos chaussures. Puis ils nous reconduisent jusqu’à la frontière de la Bosnie- Herzégovine. » Malgré ces mauvais traitements répétés, le jeune homme recommencera le gamedès qu’il aura réussi à réunir un peu d’argent pour s’équiper à nouveau. Selon lui, il faut compter 300 euros pour avoir de quoi refaire les dix jours de route à pied, caché, jusqu’en Slovénie. Pas pour les passeurs, mais pour se payer un téléphone, de nouveaux vêtements chauds et de la nourriture.

      Le camp de Vucjak a été établi le 16 juin dernier sur le site très pollué (au méthane, notamment) d’une ancienne décharge, à une dizaine de kilomètres de Biha#, dans le nord-ouest de la Bosnie-Herzégovine. La frontière croate se franchit dans la montagne. Durant la guerre des années 1990, la zone a été âprement disputée et les abords du camp restent truffés de mines.

      Tout l’été, le terrain était infesté de serpents. Cet automne, ce sont les sangliers qui, chaque nuit, viennent chercher de la nourriture jusque dans les tentes fournies par la Croix-Rouge turque. Ils sont 800 à 1 000 à dormir dans ce cloaque, au milieu des immondices. Des hommes seuls, à qui l’on refuse l’entrée dans les camps, surpeuplés, de Biha# et de Velika Kladuša, gérés par l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), qui n’acceptent plus que les mineurs et les familles.

      Selon Nihal Osman, coordinatrice locale de Médecins sans frontières (MSF), 7 à 8 000 migrants se trouvent aujourd’hui présents dans le canton de Biha# : 3 200 dans les camps de Bira, Miral, Sedra et Borici, plus de 4 000 dans les squats établis dans des maisons vides ou des usines abandonnées, ou bien sous les tentes de Vucjak. À l’intérieur du camp, le tableau sanitaire est affolant.

      De nombreux réfugiés reviennent blessés du game, à cause des sévices infligés par la police croate. Presque tous souffrent de diarrhée et de maladies de peau, dont de nombreux cas de gale. La mairie de Biha# livre chaque jour 20 000 litres d’eau, mais les douches en plein air sont jonchées d’immondices. Les résidents doivent faire leurs besoins dehors : les sanitaires sont depuis longtemps hors d’usage. Avec les brumes humides de l’automne, la température tombe déjà en dessous de zéro certains soirs, beaucoup souffrent de la grippe, tandis que MSF recense de nombreux cas de tuberculose et de sida.

      « Si ces personnes restent à l’extérieur, comme c’est le cas aujourd’hui, il y en a qui vont mourir cet hiver, prévient Nihal Osman. Ici, les températures peuvent descendre sous les – 20 °C et les feux de branchage ne suffiront pas. » L’ONG n’intervient pas à l’intérieur du camp de Vu#jak, refusant de cautionner son existence. Pour assurer malgré tout sa mission humanitaire, son personnel opère dans une petite clinique établie dans le village voisin, malgré l’hostilité des riverains. « On est obligé de se faire discrets. On ferme à 15 heures, avant que les gens reviennent du travail », explique Nihal Osman.

      Seule la Croix-Rouge locale délivre un repas par jour – ce lundi, c’était une louche de riz, un peu de sauce à la viande, quelques fines tranches de pain et un litre de soda. Depuis l’été, les organisations internationales pressent les autorités bosniennes de trouver un autre emplacement, mais celles-ci font la sourde oreille. « Tout le monde se focalise sur le scandale humanitaire de Vu#jak, nuance Nihal Osman, mais le problème est européen. De plus en plus de gens s’engagent sur la route des Balkans, et le canton de Biha# en est le débouché naturel. »

      De fait, Bihac, à l’extrémité nord-ouest de la Bosnie- Herzégovine, constitue le point le plus proche de la Slovénie et de l’Italie, l’objectif que veulent gagner tous ceux qui se massent ici. Pour y demander l’asile et poursuivre leur route plus sereinement vers les pays de l’ouest et du nord de l’Union européenne. Pour la Bosnie-Herzégovine, en 2019, 28 327 arrivées ont été officiellement enregistrées, en hausse de presque 5 000 par rapport à 2018 et presque 30 fois plus qu’en 2017. En Europe, seule la Grèce a enregistré plus d’arrivées. La Bosnie-Herzégovine dépasse désormais l’Espagne et l’Italie.

      Se souvenant de leur expérience personnelle pendant la guerre de 1992-1995, les habitants du canton d’Una Sana ont longtemps regardé avec bienveillance et solidarité les exilés bloqués dans cette impasse de la route des Balkans. Mais aujourd’hui, c’est un sentiment de lassitude et d’exaspération qui domine. Plusieurs manifestations anti-migrants ont eu lieu à Biha# ces dernières semaines, et les autorités locales mettent des bâtons dans les roues des rares humanitaires présents sur le terrain, comme Médecins sans frontières. En fait, les réfugiés paient au prix fort les sombres calculs politiques qui opposent les autorités locales à celles de la capitale, Sarajevo.

      Une longue odyssée balkanique

      Le contrôle des frontières et la gestion des migrations relèvent théoriquement de l’État central de Bosnie- Herzégovine et de son ministère de la sécurité, mais le canton d’Una Sana, qui possède son propre ministère de l’intérieur, relève de la Fédération de Bosnie- Herzégovine, l’une des deux « entités » de ce pays toujours divisé. Or, les autorités du canton estiment qu’elles sont abandonnées par les autorités fédérales et qu’elles doivent faire face seules à la crise. Leur politique vise à donc à rendre les conditions de vie des migrants les plus difficiles possibles afin de les dissuader de rester sur leur territoire. Depuis deux semaines, elles interdisent même la circulation des réfugiés. Ceux qui sont raflés dans la rue par la police sont immédiatement envoyés à Vucjak.

      Pour sa part, l’OIM, qui gère l’ensemble des camps de Bosnie-Herzégovine, par délégation des compétences normalement dévolues à l’État, cherche aussi à délocaliser les migrants en insistant pour l’ouverture d’autres camps officiels à l’intérieur du pays, vers Tuzla ou Sarajevo. Une politique qui a peu de chances d’être suivie d’effet, Biha# restant la « porte d’accès » à la Croatie. De surcroît, bien peu de migrants osent s’aventurer dans le nord de la Bosnie, qui dépend de la Republika Srpska, l’autre « entité » du pays, dont les autorités prônent une fermeté absolue et refusent l’ouverture de centres d’accueil.

      Dans les camps officiels, l’OIM multiplie les campagnes en faveur du retour volontaire. Beaucoup de travailleurs humanitaires estiment que l’organisation se préoccupe moins d’apporter une réponse humanitaire que de contribuer à la « gestion des migrations » – c’est-à-dire aux politiques visant à dissuader les exilés de tenter de gagner l’Union européenne. Et ils s’étonnent de l’absence quasi totale du Haut-Commissariat aux réfugiés (UNHCR), qui semble avoir délégué ses compétences à l’OIM. Même le Comité international de la Croix-Rouge (CICR) n’est pas présent. Seules quelques sections nationales de la Croix-Rouge ont envoyé des équipes.

      « Les autorités locales voudraient que ces gens aillent ailleurs, considérant qu’elles ont trop de migrants à gérer sur leur territoire, souligne Hannu Pekka Laiho, en mission d’observation pour la Croix-Rouge finlandaise. Le problème, c’est que chacun des acteurs impliqués dans cette crise se renvoie la balle : les Bosniens, mais aussi l’OIM et l’Union européenne. » Appuyé sur sa canne, le vieil homme s’émeut du sort réservé aux malheureux qui échouent ici. « Tout le monde veut se débarrasser de Vu#jak. En attendant, ces gens sont tout bonnement livrés à eux-mêmes. La tension est palpable, mais je m’étonne que ce ne soit pas pire encore vu les conditions dans lesquelles doivent vivre ces hommes. Tous les jours, ils m’interrogent pour savoir si de nouveaux camps vont ouvrir, en Bosnie, ou en Croatie. Je n’ai rien à leur répondre de concret. »

      ______________________________________________________________________________

      Deux nationalités dominent à Vucjak, les Afghans et les Pakistanais, qui se regardent en chiens de faïence, chacun occupant sa zone. Les Maghrébins, mal vus, n’osent pas y rester et se réfugient dans les squats. Cet été, un Palestinien a été tué d’un coup de couteau. On trouve pourtant aussi quelques Indiens, et même trois Sénégalais, qui ont trouvé refuge dans le secteur afghan. Djallo, 33 ans, est originaire de Kédougou, à la frontière de la Guinée et du Mali. Il a d’abord rejoint la Turquie, puis il est passé en Grèce, où il a travaillé deux ans dans des fermes. Il s’est ensuite engagé sur la route des Balkans, après avoir économisé suffisamment d’argent, pensait-il, pour rejoindre un pays riche de l’UE.

      Djallo détaille les étapes de sa longue odyssée balkanique. Il a franchi clandestinement les frontières de la Macédoine du Nord puis de la Serbie, versant à chaque fois plusieurs centaines d’euros aux passeurs. À Preševo, dans le sud de la Serbie, des Pakistanais lui ont vendu dix euros un faux récépissé de demande d’asile en Serbie, un document pourtant accessible gratuitement. Il a ensuite payé 150 euros le passage

      en barque de la Drina, la rivière qui sépare la Serbie et la Bosnie-Herzégovine, puis il a gagné la région de Biha# en bus et se trouve depuis un mois à Vu#jak.

      « Dans le nord de la Macédoine, je suis resté bloqué dans un village où ils gardent les gens, tant que les familles n’envoient pas l’argent », raconte-t-il, grelottant dans son manteau élimé, des claquettes en plastique dépareillées aux pieds. Deux jours plus tôt, Djallo a été rapatrié dans le camp, après avoir été violemment renvoyé de Croatie. « Cela faisait dix jours que nous marchions avec un groupe de Pakistanais et d’Afghans. On nous a arrêtés près de la Slovénie et on nous a ramenés jusqu’ici... Je n’ai opposé aucune résistance, mais les policiers m’ont tout pris. » Désespéré, sans un sou, Djallo envisage désormais de repartir en arrière. A minima jusqu’en Grèce, « parce que là-bas, au moins, on peut travailler et gagner un peu d’argent ». Les violences de la police croate visent à dissuader les gens de tenter le voyage. Zagreb a d’ailleurs été félicitée par ses partenaires européens pour sa « bonne gestion » des frontières et pourrait même être appelée prochainement à rejoindre l’espace Schengen.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/101219/en-bosnie-herzegovine-l-un-des-pires-camps-de-refugies-d-europe-evacue

    • After 179 days (5 months and 26 days) the Vucjak jungle was evacuated and its structures and tents destroyed with the excavator. 7 buses transported migrants to the Usivak camp in Hadzici, outside Sarajevo, managed by IOM. On 10 December, the eviction of the Vučjak area started. Volunteers from the region report that the authorities in Una Sana Canton and IOM announced that from this day on, Vucjak jungle will not exist. During the press conference on Monday, Bihac authorities announced that no media can be present at Vucjak during the eviction which is a serious issue restricting the work of the media, but also the right of the public to know what is happening.

      Volunteers and activists on the field denounce that “media freedoms are at serious risk at the moment in Bosnia and Herzegovina in many ways. The authorities and international organizations are doing everything they can in order to restrict the media from accessing the places where refugees are, being camps run by the IOM or places like Vucjak during the eviction. Additionally, all parties involved are investing a lot of effort in spearing propaganda of different types, including hate propaganda. Local volunteers strictly condemn that international organizations are still not doing enough: “volunteers in Sarajevo are noticing more and more people in the streets, sleeping rough, among them many minors, with no care at all. The only help provided comes from the citizens, while DRC, Red Cross, cantonal authorities, IOM, UN agencies are staying aside and ignoring this fact.” Updates come also from another city of Bosnia and Herzegovina: In Tuzla, over 100 people are staying outside. People are still arriving from Serbia, daily, even though much less than during previous months. As well as in Sarajevo, many people are hosted by the locals.

      If you want to keep updated on some border points like Lesbos, Patras, Athens, Šid and Velika Kladuša, you can listen the podcast that independent volunteers and volunteers working for small organizations in Greece and some of the EU’s external borders report weekly on their daily work and the dire conditions in which refugees and migrants are living. The audios are in Spanish and, time permitting, subtitles are also provided in Serbo-Croatian and English. Here the youtube channel (https://www.youtube.com/watch?v=2HjVrr5IF3Q

      ) where you can follow the weekly updates. Overall, they report a worsening situation at all these points. And not only because of the arrival of cold days, but above all because of the deliberate, and more and more systematic, violation of the rights of people on the move. Constant harassment and police violence, horrific and degrading living conditions, racist and inhumane treatment and much more, along with anti-immigration laws that are becoming more restrictive in all countries every day, all of this makes the lives of thousands of people destroyed on daily bases.

      Reçu via Inicijativa dobrodosli, mail du 17.12.2019.

  • Rapport d’observation sur les conditions de vie dans le #squat du “#5_étoiles” à #Lille

    La Cimade Lille est allée le 18 octobre à la rencontre des personnes vivant ce squat afin d’en savoir plus sur leurs accès à un certain nombre de droits fondamentaux.

    Alertée par des personnes étrangères accompagnées dans le cadre de ses activités et interpellée par des associations et citoyens, La Cimade Lille a mené une enquête le 18 octobre dernier sur le squat dit du « 5 étoiles » à Lille.

    Ce dernier est situé dans les locaux d’un ancien entrepôt et a été ouvert suite à l’évacuation le 24 octobre 2017 des personnes installées sur le site de l’ancienne gare Saint Sauveur.

    Les membres de l’association y ont rencontré 79 personnes, soit environ la moitié des personnes estimées sur le site, et les ont questionnées sur leur accès à un certain nombre de droits fondamentaux (accès à l’eau, à la lessive, aux toilettes, à une douche, nourriture, soins et hébergement) et sur leur statut (nationalité, âge, date d’arrivée en France et sur le squat, situation administrative).

    Nos constats, repris dans un rapport d’observation rendu public le 5 novembre, sont édifiants. Les lieux sont insalubres et les conditions de vie sur place précaires et indignes. Toutes les personnes ont exprimé des difficultés d’accès à l’eau et à l’hygiène. En effet, le seul point d’eau du squat, rétabli le 20 juillet 2018 après une coupure de plusieurs mois, ne garantit pas un accès suffisant à de l’eau potable. Le site n’est équipé ni de WC, ni de douches, alors que les accueils de jour présents sur la ville de Lille sont débordés. La faim fait partie du quotidien de plus de la moitié des personnes du squat qui ne mangent qu’une seule fois par jour, et pas toujours un repas chaud. En outre, alors que l’hiver arrive et que le froid se fait déjà ressentir, toutes les personnes présentes sur le squat n’ont pas de couverture et certaines dorment à même le sol, sans matelas.

    Originaires de 15 pays différents (principalement d’Afrique subsaharienne et plus particulièrement de Guinée), les personnes présentes sont âgées à 80% de moins de 30 ans et sont arrivées en France et sur le squat, pour la grande majorité, depuis moins de 3 mois, orientées sur le squat par le bouche à oreille, mais aussi par des agents du département et de la Préfecture.

    24% de personnes rencontrées se sont déclarées mineures. En attente d’un rendez-vous pour évaluer leur minorité ou en cours d’évaluation, la moitié de ces personnes auraient dû être prises en charge par le département dans le cadre de l’accueil provisoire d’urgence prévu à l’article L. 223-2 du Code de l’action sociale et des familles (seuls 2 mineurs l’étaient).

    Les autres personnes, majeures, sont quasiment toutes en demande d’asile et devraient à ce titre être hébergées durant toute la durée de la procédure d’asile dans le cadre du dispositif national d’accueil des demandeurs d’asile, conformément aux articles L 744-1 et suivants du Code de l’entrée et de séjour des étrangers et du droit d’asile.

    Ces conditions de vie amplifient la détresse morale des personnes vivant sur le squat et favorisent un climat d’insécurité et de tensions. Si 4 habitants sur 5 appellent le 115, aucune place ne leur est proposée, faute d’hébergement disponible au titre de la veille sociale. Alors que le délai d’attente est sur la métropole lilloise de 90 à 100 jours pour obtenir une première place d’hébergement d’urgence, rejoindre le squat semble être devenu la seule alternative à la rue.

    Notre rapport d’observation a été adressé aux autorités compétentes, dont Monsieur le Préfet du Nord et Madame la Maire de Lille. Nous appelons à des solutions d’hébergement pérennes pour l’ensemble de ces personnes conformément à la législation, et demandons, dans l’attente, que soient prises des mesures urgentes afin de garantir le respect de la dignité de ces personnes, notamment en termes d’alimentation, d’hygiène, de santé et d’accompagnement.


    https://www.lacimade.org/rapport-dobservation-sur-les-conditions-de-vie-dans-le-squat-du-5-etoiles-
    #France #logement #hébergement #asile #migrations #réfugiés

  • « Prisonniers du passage » : une ethnographie de la #détention_frontalière en #France

    A partir des années 1980, les conditions d’entrée dans les pays européens deviennent plus restrictives. Amorçant ce qui est désormais devenu la norme en Europe quels que soient les gouvernements, les politiques publiques migratoires se caractérisent par l’arrêt de l’immigration de travail, le durcissement des critères d’attribution de l’asile politique, l’expulsion des étrangers irréguliers ou ayant reçu une condamnation pénale et les modifications du code de la nationalité. Par ailleurs, dans le processus de construction européenne, la gestion des circulations s’organise à travers un régime double et différentiel, de libre circulation des personnes à l’intérieur de l’espace européen, et de construction renforcée des frontières extérieures. Ce cadre européen met en place un espace stratifié et complexe qui saisit les acteurs de la circulation dans un quadrillage de pratiques et de normes. Cet espace est fait de superpositions, de différences nationales, selon la culture et l’histoire de chaque pays européen, et d’homogénéisations – notamment à travers les accords de Schengen en 1985 et 1990 et le règlement de Dublin1 dont la troisième mouture est en vigueur, la quatrième en préparation.
    2

    Dans ce contexte, le contrôle des voyageurs et des migrants passe couramment par leur enfermement dans des espaces plus ou moins pénitentiaires. En France, la zone d’attente est une zone extraterritoriale de détention où les étrangers refusés à la frontière sont maintenus en attente de leur admission ou de leur « refoulement » pour une période allant jusqu’à vingt jours. Les zones d’attente sont situées dans ou à proximité des zones internationales aéroportuaires, portuaires, routières ou ferroviaires. En tant qu’assistante juridique pour l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), j’ai eu accès à l’intérieur de la zone d’attente, où j’ai mené une observation de 2004 à 20082 . Cette ethnographie d’une forme particulière de contrôle s’offre comme point de départ pour réfléchir sur le régime mis en place en Europe depuis quelques décennies en partant des différents espaces par lesquels ce régime procède.
    « Une frontière, c’est quoi ? Juste une ligne, rien de plus »
    3

    Comment se retrouve-t-on détenu « à la » frontière ? Que s’y passe-t-il ? Comment en sort-on ? Et qu’y a-t-il de l’autre côté ? La mise au ban dont témoignent les centres fermés aux frontières est une réalité difficile à saisir : les barrières instituées de l’illégalité, les enjeux de clandestinité, d’anonymat, d’identification font qu’en pratique, ce parcours ne se raconte pas et se dérobe face à l’observation empirique. En s’appuyant sur les expériences vécues d’enfermement et de circulation qui se tissent autour du maintien en zone d’attente, il s’agit d’approcher cette réalité en sondant les lieux par où les individus transitent et les techniques qui mettent en branle leur circulation faite de passages, d’immobilisations et de retours. Cette « errance individuelle »3 , dans la rugosité de ses parcours improbables, nous renseigne en retour sur l’évolution de l’espace public, du rapport au temps et au (non-)lieu qui fondent une modalité inédite de l’inclusion dans l’organisation politique étatique. Imaginons donc un parcours fait de multitude de parcours : un collage d’expériences qui fait surgir les nœuds du voyage et trace les possibles, suit les bifurcations, pointe les tensions. Entrons dans le dispositif.

    Kadiatou Fassi est née à Conakry en Guinée il y a seize ans. Son père était venu d’un village pour étudier dans la capitale, qu’il n’a plus quittée. Sa mère a rejoint son mari en ville après le mariage, mais « elle n’a pas duré » : elle est morte un peu après la naissance de sa fille. Le père de Kadiatou tenait un commerce, et la situation n’était pas mauvaise. Lors des grèves de 20074 , alors qu’on avait déclaré l’état de siège et le couvre-feu – Kadiatou préparait le dîner dans la cour – Monsieur Fassi est blessé par balle lors d’une émeute dans la rue commerçante où se trouve sa boutique. Il meurt.
    5

    Après l’enterrement de son père, Kadiatou rencontre un de ses anciens clients, qui lui propose de l’aider à partir du pays. Kadiatou sait qu’une cousine maternelle est en France, et elle rêve de s’appuyer sur cette cousine pour venir en France elle aussi. Elle explique son projet, pour lequel elle dispose de l’héritage laissé par son père. L’homme répond que cela tombe bien : il doit aussi se rendre en France. Il lui demande où est sa cousine. Elle ne le sait pas, mais elle a son numéro de téléphone. Kadiatou possède cinq millions de francs (CFA). Le client lui demande trois millions et fait fabriquer un passeport pour Kadiatou : il va devoir changer sa date de naissance pour qu’elle apparaisse comme majeure. Kadiatou accepte. Le client vient ensuite chercher le reste de l’argent : 2 millions. Kadiatou Fassi prend l’avion avec le client de son père, qui s’est occupé de ses papiers d’identité, de son billet d’avion, pour lequel il faut présenter un passeport et un visa, et de leur passage aux comptoirs de vérification à l’aéroport de Conakry.
    6

    Ils débarquent dans un pays dont elle n’a jamais entendu parler : l’Ukraine. Elle ne connaît personne et ne comprend pas la langue ; elle demande au client de l’emmener chez sa cousine. Il lui demande d’attendre. Il la loge à Kiev, à l’arrière d’un restaurant. Il vient la voir parfois. Deux semaines passent : Kadiatou redemande au client de l’emmener chez sa cousine, comme c’était prévu. Les visites du client s’espacent. Puis il revient, accompagné d’autres hommes. Il déclare à Kadiatou qu’elle doit payer le reste de son voyage. Un jour, il lui rend son passeport, le billet de retour et lui annonce qu’elle rentrera seule le mardi suivant. Elle lui répond qu’elle ne sait pas prendre l’avion. L’homme la fait monter dans un taxi et l’accompagne à l’aéroport : il écrit le nom de la compagnie aérienne, avec lequel Kadiatou Fassi embarque sans encombre pour le voyage du retour : Kiev-Conakri avec une escale à Paris5 .

    Jana Fadhil, son mari Iman et son fils de quatre ans sont arrivés de Damas où ils s’étaient installés après leur départ de Bagdad. Celui qui a organisé leur voyage leur demande de l’attendre à la descente de l’avion, le temps d’emmener leurs passeports et leurs formulaires de douane auprès de ses « connaissances » parmi les policiers, pour les faire tamponner. Leur voyage a coûté 13 000 euros, payables en deux fois. Ils ont avec eux 5 000 euros, la deuxième partie de la somme, qu’ils remettent comme convenu à leur accompagnateur dès leur arrivée à Roissy, et quelques centaines d’euros pour leur séjour. Au bout de quelques heures, voyant que l’homme ne revient pas, Iman part le chercher de-ci, de-là dans le terminal : perdus dans l’aéroport, ils tournent en rond et marchent. Ils restent à attendre dans le hall du terminal avant les douanes jusqu’au soir. Jana Fadhil est enceinte de sept mois. Elle et son fils s’allongent sur le sol ; son mari dort sur une chaise. Ils se nourrissent au comptoir snack du terminal : une bouteille d’eau coûte 4,5 euros, un gâteau, 1,5 euro. Le jour suivant, ils ont déjà dépensé 260 euros en nourriture et téléphone et commencent à être à court d’argent. Dans l’après-midi suivant, Jana fait un malaise et prend peur de perdre son bébé : ils se dirigent vers les postes de douane. Ils restent deux heures devant un poste en essayant de capter l’attention des officiers qui vont et viennent. Finalement, l’un d’eux se tourne vers eux ; Iman lui dit en anglais :

    - Un homme nous a laissés ici.

    - Venez avec nous.

    8

    En escale à Paris, Kadiatou Fassi ne prend pas la correspondance pour Conakry. La police l’intercepte dans le terminal : elle est emmenée au poste pour un interrogatoire. Les policiers la questionnent sur son accompagnateur, lui demandent où il se trouve à présent. Dans l’après-midi, ils la conduisent au prochain vol vers Conakry. Kadiatou refuse de monter dans l’avion : elle dit à la police qu’elle ne sait plus comment vivre chez elle : comme elle a donné son argent pour venir, elle a été délogée de sa maison. Les policiers lui demandent à nouveau de monter dans l’avion, en la menaçant de lui mettre des menottes s’il elle ne le fait pas. Elle a peur et se met à pleurer. Ils la reconduisent dans le poste de police. Kadiatou attend dans une cellule fermée à clé, une vitre donne sur le couloir du poste. Il y a un banc en ciment et un téléphone au mur qui ne marche pas. Sans trop savoir de quoi il s’agit, Kadiatou Fassi se souvient qu’en Guinée, certains disaient qu’« il y a l’asile qu’on demande pour ne pas qu’on te retourne ». Un policier ouvre la porte quelques heures plus tard : elle lui demande de « l’aider à demander l’asile ». Au comptoir du poste, un policier imprime une série de documents, lui demande d’en signer certains et lui tend la pile de ses « papiers de police ». Trois agents la conduisent, en compagnie de plusieurs autres hommes, femmes et enfants, dans le centre de Zapi 3. Une employée de la Croix-Rouge les accueille à l’étage : elle leur donne à chacun des draps et une serviette, et leur montre leur chambre. Kadiatou Fassi a une chambre seule, dans la partie réservée aux « #mineurs_isolés ».

    Djibril Ba attend dans le couloir, assis sur le rebord d’une cabine de douche. En fin de matinée, une voix lui demande en anglais de descendre avec ses papiers de police. Il se rend au bureau de la Croix-Rouge qui se trouve à quelques mètres en disant qu’il vient d’être appelé. Une médiatrice lui dit qu’il doit descendre et sonner à l’interphone dans le hall, la police lui ouvrira. En bas, un policier lui ouvre : « police papers », puis l’accompagne le long d’un couloir au plafond immense jusqu’à une double porte électrifiée qu’il ouvre à l’aide de cartes magnétiques. Il se trouve dans un hall d’attente, dans lequel la lumière du jour entre par une porte vitrée qui donne sur une deuxième salle d’attente, à l’entrée du centre. Deux policiers sont assis à une petite table et discutent entre eux. Le hall donne sur plusieurs pièces : certaines sont réservées aux visites entre les maintenus et leur famille ou leur avocat ; d’autre aux entretiens de demande d’asile avec un agent de la division asile à la frontière. Djibril Ba attend sur les chaises alignées du hall, il est seul avec les deux policiers assis devant le petit bureau. Une porte s’ouvre au fond du couloir, un des policiers appelle Djibril et le fait entrer dans le bureau de l’agent de l’Ofpra. L’homme d’une trentaine d’années est assis derrière un ordinateur, dans un bureau très clair garni d’une grande fenêtre à poignées qui donne sur des haies d’arbustes. L’agent de l’Ofpra laisse d’abord Djibril parler, puis il lui pose quelques questions factuelles. Il fait des photocopies de sa carte de militant et de photos que Djibril Ba a emmenés avec lui. L’entretien dure une heure, puis Djibril est reconduit à travers les sas et les couloirs vers le centre d’hébergement à l’étage. Dans l’après-midi, Djibril Ba entend à nouveau son nom au haut-parleur : on lui demande de descendre avec ses papiers de police. Un policier le reconduit vers les bureaux de l’Ofpra, où l’attend le même agent :

    - Avez-vous un dernier mot à ajouter ?

    - Non, tout ce que je voulais dire, je l’ai dit. Je veux avoir l‘asile, car j’ai des problèmes dans mon pays.

    - Ok. Je photocopie tous vos documents et je les mets dans votre dossier pour le ministère de l’Intérieur. Mon avis est consultatif, mais ce sont eux qui prennent les décisions.6

    Djibril Ba remonte dans sa chambre. Dix minutes plus tard, il est appelé à descendre et il est reçu encore une fois dans le bureau par l’agent qui est accompagné cette fois d’un autre officier. On lui pose de nouvelles questions : Pourquoi a-t-il fui le Mali mais est-il arrivé par la Côte d’Ivoire ? Pourquoi est-il entré dans la rébellion ? À la fin de l’entretien, on lui redemande pourquoi il demande l’asile. Il l’explique à nouveau. Les deux hommes s’interrogent du regard et le second opine : « Ce sera tout merci ». L’entretien dure quelques minutes.

    Le lendemain de son entretien, James est appelé en bas avec ses papiers de police et ses bagages. Il a peur. Il ne veut pas descendre. Il me demande plusieurs fois pourquoi il doit descendre avec son sac. James est petit et coquet, un béret beige sur la tête, des bottines en crocodiles, une valise rigide grise métallisée. Il sent la crème hydratante. Il était syndicaliste à Lagos, au Nigeria. Il a demandé l’asile et attend une réponse. Il a retranscrit son récit d’asile sur quatre feuilles qui traînent sur sa table de nuit. Très peu de Nigérians obtiennent l’asile politique : le Nigeria fait partie des « principales nationalités des déboutés » de l’asile en France entre 2003 et 20077 . Il fait calmement, minutieusement son sac. Il me demande de l’attendre : il va aller aux toilettes. Après cinq bonnes minutes, il finit de boucler sa valise, plie les feuilles et les met dans sa poche. On descend ensemble. Je veux vérifier que sa notification de refus de demande d’asile ne lui sera pas remise au moment où ils vont l’emmener pour un embarquement forcé. Si c’est le cas, il faudra se plaindre à la police, car la notification doit avoir lieu avant l’embarquement. Mais ça ne changera rien pour James. Le problème est que je ne connais pas le nom de famille de James : ça sera difficile de déposer une plainte sans pouvoir donner le nom de famille du maintenu. Je n’ai pas le temps de demander le nom de James ; on est arrivé dans le hall du rez-de-chaussée, James a sonné, un policier a ouvert et lui a demandé ses papiers de police :

    - Oui c’est bon, veuillez me suivre.

    - Excu…

    J’essaie de placer un mot, mais la porte s’est déjà refermée sur moi. Je le laisse partir, je ne peux rien dire. Légalement, il n’y a rien d’anormal à ce qui vient de se passer. Louis, un demandeur d’asile nigérian que j’ai rencontré tout à l’heure nous a suivi dans le hall :

    - Qu’est-ce qui est arrivé à mon collègue ?

    - Je ne sais pas.

    Il me le demande plusieurs fois. Un policier en tenue d’escorte8 passe devant nous. Je lui demande s’il sait « où est parti le Nigérian ». « Quel Nigérian ? Quel est son nom ? Vous avez son numéro de MZA9 ? » Il ne peut pas m’aider s’il ne connait pas son nom ; mais il sait qu’un Nigérian a eu l’asile politique aujourd’hui. C’est rare. Je me demande si c’est James. Plus tard, depuis la fenêtre du bureau, je vois James mettre sa valise grise dans une voiture de la Croix-Rouge. Elle va le conduire au kiosque d’orientation de l’aéroport de Roissy pour ceux qui ont été admis à demander l’asile en France.
    11

    Au Terminal 1 de l’aéroport, au niveau des arrivées, derrière la porte à deux battants nº 24, accessible par les escaliers réservés au personnel technique, se trouve le bureau de la Croix-Rouge où Halima Seyum a été conduite après avoir été admise à sortir de zone d’attente au titre de l’asile. Une employée de la Croix-Rouge lui a remis une feuille listant les numéros de téléphone utiles pour son parcours d’asile : France terre d’asile, pour la domiciliation, la préfecture de la Seine Saint-Denis, pour le dépôt de sa demande, la Cimade, ouverte tous les mardis matins à partir de 8 h (prévoir d’être sur place une heure avant), si elle a besoin de conseil juridique. L’employée explique à Halima que la police lui a remis un « récépissé » de demande d’asile. Elle doit absolument se présenter à la préfecture d’ici huit jours pour enregistrer sa demande (l’examen en zone d’attente est une présélection qui l’a uniquement admise à présenter sa demande d’asile : la procédure reste entièrement à faire). Elle doit d’abord disposer d’une adresse. À ce sujet, elle devra se présenter à l’association France terre d’asile, qui la domiciliera : elle passera tous les deux jours vérifier le courrier administratif qui lui sera dès lors envoyé à cette adresse. Mais il reste à trouver un hébergement. Je reçois l’appel d’une assistante sociale de la Croix-Rouge à Roissy, de la part d’Halima Seyum. En effet, oui, je la connais : je l’ai aidée à préparer son entretien de demande d’asile (je l’ai « briefée ») et je lui ai laissé mes coordonnées. Halima ne sait pas où dormir ce soir : ils n’ont pas de place pour elle, est-ce que je pourrais l’accueillir ? Je dis que c’est impossible (je loge moi-même chez un ami).

    C’est bien ce que je pensais… On va essayer de lui trouver une place à l’Aftam 93, les foyers pour demandeurs d’asile ; mais tout est plein en ce moment. Au pire, on lui trouvera une chambre d’hôtel pour ce soir.

    12

    À 6 h du matin, un groupe de maintenus est conduit de la zone d’attente vers le Tribunal de grande instance. En début d’après-midi, les maintenus sont accompagnés par une dizaine de policiers dans la salle des audiences du 35 quater, où un juge des libertés et de la détention examine la légalité de leur procédure de détention, et se prononce sur le prolongement de leur maintien en zone d’attente. Jana Fadhil a été hospitalisée le lendemain de son transfert en zone d’attente ; l’avocat commis d’office présente au juge le certificat médical établi à l’hôpital en insistant sur les problèmes de santé de Jana, enceinte, et d’Iman, diabétique. Le juge décide de ne pas prolonger le maintien de la famille. À la sortie de l’audience, Jana, Iman et leur fils se font indiquer la direction du métro vers Paris.

    La cousine de Kadiatou Fassi est venue à l’audience du 35 quater avec les documents que l’avocat lui a demandé d’apporter : un certificat de naissance pour attester de ses liens de famille avec Kadiatou ; un avis d’imposition qui prouve qu’elle a des ressources suffisantes pour s’en porter garante. Mais Kadiatou n’est pas présentée au juge ce jour-là. Sa cousine appelle la zone d’attente, où un officier lui explique que Kadiatou Fassi a « bien été réacheminée » vers Conakry la veille.

    Djibril Ba a contacté un avocat avec l’aide d’un cousin en France dont il avait les coordonnées. Celui-ci lui a demandé 900 euros d’honoraires et a exigé l’intégralité de la somme d’avance. Durant l’audience, il soulève quelques points de procédure ; le juge décide cependant de maintenir Djibril Ba (comme toutes les autres personnes qui lui sont présentées ce jour-là) en zone d’attente, « attendu que l’intéressé a formé une demande d’asile [qui] est en cours d’examen ».
    14

    Quatre jours après avoir eu un entretien d’asile, Abdi Hossein est appelé par la police. L’officier qui lui ouvre le fait entrer et l’accompagne jusqu’à un bureau. Un agent imprime deux feuilles, et lui demande de signer en bas de la seconde. Puis on le raccompagne dans le hall.

    Considérant que X… se disant M. Abdi Hossein déclare qu’il serait de nationalité somalienne, qu’il serait né et résiderait à Afgoy, qu’il serait cultivateur, qu’il serait membre du clan minoritaire Sheikhal et du sous-clan Djazira, que le clan Habar Guidir serait majoritaire à Afgoy, que par crainte pour sa sécurité il ne serait pas beaucoup sorti de son domicile, qu’en décembre 2006, son père aurait été assassiné par balle en sa présence, devant la porte de sa boutique, par un groupe armé appartenant au clan Habar Guidir qui voulait extorquer son argent ; que ces miliciens connaîtraient ce quartier, viendraient enlever des personnes et les déposséder de leur bien, que suite à cet événement et en raison de la guerre civile, il aurait décidé de quitter son pays ; qu’un ami de son père lui aurait conseillé de se rendre en France afin d’y solliciter l’asile et aurait organisé son voyage via le Kenya ;

    Considérant toutefois que le récit de l’intéressé qui prétend être de nationalité somalienne et fuir son pays afin de sauvegarder sa sécurité n’emporte pas la conviction, que ses déclarations revêtent un caractère convenu, imprécis et dénué de spontanéité, notamment en ce qui concerne les circonstances dans lesquelles son père aurait été assassiné, en sa présence, en décembre 2006, par des personnes armées appartenant au clan de Habar Guidir, que de plus il reste très évasif à propos de la politique récente à Afgoy où il affirme pourtant avoir toujours résidé et de cette zone géographique – il ignore jusqu’aux noms des principaux quartiers de sa ville, que de surcroît il n’est guère plus explicite s’agissant des conditions dans lesquelles il aurait quitté son pays, qu’enfin il n’apport aucune explication sur son départ du Kenya et se borne à indiquer qu’il aurait suivi le conseil d’un ami de son père lui recommandant de solliciter l’asile en France, que l’ensemble de ces éléments incite à penser que contrairement à ce qu’il affirme, il n’est pas originaire de Somalie, que dès lors, sa demande ne saurait aboutir ;

    Qu’en conséquence, la demande d’accès au territoire français formulée au titre de l’asile par X… se disant M. Abdi Hossein doit être regardée comme manifestement infondée.

    Considérant qu’il y a lieu en application de l’article L.213-4 du Code d’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, de prescrire son réacheminement vers le territoire de la Somalie ou, le cas échéant, vers tout territoire où il sera légalement admissible.

    15

    Abdi Hossein se rend au bureau de la Croix-Rouge pour comprendre ce qu’il y a écrit sur le document que la police vient de lui remettre. Un employé de la Croix-Rouge lui conseille d’aller au bureau de l’Anafé, au fond du couloir. Lise Blasco, bénévole à l’Anafé, reçoit Abdi et lui explique son rejet de demande d’asile, avec l’aide d’un traducteur bénévole en somali, contacté par téléphone. Elle décide de présenter un recours juridique devant le Tribunal administratif pour contester le rejet de la demande d’asile d’Abdi. À nouveau, elle interroge longuement Abdi Hossein avec l’aide de l’interprète. Puis elle l’accompagne à l’infirmerie du centre, afin que le médecin de garde lui établisse un certificat médical attestant des impacts de balle qu’Abdi dit avoir reçu dans chaque jambe. Ensuite, Lise Blasco ferme la porte du bureau à clé et se met à rédiger le référé qu’elle faxe aux greffes du Tribunal administratif en début de soirée. Quelques heures plus tard, Abdi Hossein est appelé à descendre avec ses bagages.
    16

    Amadou Mporé arrive ému dans le bureau. Il s’assoit devant moi et sort de sa poche une boule de tissu, un débardeur déchiré, en sang, qu’il pose sur la table.

    À 10 h du matin, je suis appelé en bas avec mes bagages. Je descends avec mon sac et je sonne à l’interphone. Le policier me fait entrer dans une salle d’attente et me demande de patienter. Je reste assis deux heures. À l’appel du repas de midi, le policier me dit d’aller manger en laissant mon sac ici et me demande de revenir sonner après le repas. Il me raccompagne dans le hall où je rejoins les autres qui vont au réfectoire. À table, des gens me demandent ce que je faisais avec la police, où j’étais et pourquoi. Je ne parle pas : je ne les connais pas, et puis un policier surveille le réfectoire. Je reviens dans la salle d’attente vers 12 h 30. Deux policiers en uniforme bleu-marine, avec des Rangers aux pieds, des gants en cuir noir, une matraque à la ceinture, entrent peu après. Il me disent qu’ils vont m’emmener à l’aéroport : ‘Tout se passera bien si tu te tiens tranquille, mais si tu fais des difficultés, on va t’attacher’. Je crie, je ne veux pas qu’on m’attache. Les policiers se dirigent vers moi, ils sont au nombre de six. Ils ont été rejoints par leurs collègues en chemise bleu ciel et képi, qui étaient assis dans la salle d’attente. Ils ont commencé à m’attacher avec des bandes. Je criais : ‘Laissez-moi ! Laissez-moi !’ J’ai pleuré. J’ai enlevé ma chemise, je me suis trouvé en débardeur. Les policiers m’ont pris par le cou et m’ont renversé en avant. Je suis tombé le visage à terre, je me suis ouvert la lèvre. Ils se sont mis à frapper : ils ont piétiné ma jambe avec leurs chaussures, le tibia, le genou gauche, le pied droit. L’un d’entre eux a mis son genou sur ma joue, il a plaqué mon visage contre le sol. La bagarre a duré entre dix et vingt minutes peut-être. Une camionnette de police est venue se garer devant la porte de sortie qui relie le poste de police au parking, mais on ne m’y a pas emmené. Je suis allé m’asseoir. Certains policiers en tenue d’escorte et d’autres en chemise bleue claire ont voulu me donner un verre d’eau. J’ai dit : ‘Non, je ne veux pas d’eau’. J’ai pleuré, pleuré. Le jeune policier qui m’a donné l’eau m’a conseillé :

    - Prends un avocat.

    - Si j’avais volé, vous pouviez me faire ça. Mais je n’ai pas volé. Vous ne pouvez pas me faire ça. Je vais prendre un avocat. Je vais prendre un avocat.

    Les policiers me disent d’attendre. Je leur dis que je veux me laver. Un policier en bleu marine (un métis, costaud) m’a accompagné chez le médecin. Lui n’était pas là en même temps que les autres, il est venu plus tard avec la camionnette ; lui ne m’a pas touché. Dans le cabinet médical, une infirmière prend ma tension, un médecin m’ausculte, il me demande où j’ai mal. Il me donne un comprimé contre la douleur. Non, il ne me donne pas de certificat médical : ce qu’il a écrit, il l’a gardé pour lui. Puis je suis monté directement chez toi ici.

    Six jours après son arrivée en zone d’attente, Djibril Ba est appelé à descendre avec ses bagages. Il est menotté et escorté par trois agents de l’Unité nationale d’escorte, de soutien et d’intervention (UNESI) vers Bamako, où il est remis aux mains des officiers de la police locale.
    18

    À 23 h 15, Abdi Hossein est placé en garde à vue. Il comparaît deux jours plus tard devant la 17e chambre du Tribunal correctionnel pour « infraction d’entrée ou séjour irrégulier et soustraction à l’exécution d’une mesure de refus d’entrée en France ». Il est condamné à un mois de prison ferme et transféré à la prison de V.
    19

    Halima Seyum me rappelle depuis un foyer Emmaüs dans le 14e arrondissement de Paris. Elle y est logée pour une nuit seulement, car c’est un foyer d’urgence pour les gens sans domicile. Elle attend d’être placée dans un foyer Aftam 93. Je vais la voir dans son foyer vers 16 h. Il ressemble à une vieille école, un bâtiment qui date du début du vingtième siècle, une esthétique de lieux publique des années 1960 : linoléum gris, meubles en bois véritable dépareillés, chaises d’école aux barreaux gris vert métallisés, odeur de gras. Nous allons boire un café dans le réfectoire, sur des tables longues couvertes de nappes en plastique. Tout est propre et patiné, pas encore aligné sur les matières plastiques et les formes rondes grossières que l’on trouve partout dans le neuf aujourd’hui, et aussi en zone d’attente. Son récépissé de huit jours, dans le délai desquels elle doit faire une demande d’asile à la préfecture, expire le lendemain. Le responsable du centre dit qu’ils enverront d’ici là sa demande d’asile à la préfecture, le cachet de la poste faisant foi.
    20

    Quelques jours plus tard, le téléphone sonne. C’est un employé de l’hôtel « Première Classe » à D. qui m’appelle à la demande de Halima Seyum. Elle n’a pas eu de place au foyer Aftam, mais elle a désormais une chambre jusqu’au 30 avril dans cet l’hôtel, où l’Aftam a logé, sur le même étage, d’autres demandeurs d’asile n’ayant pas pu être hébergés en foyer. Situé à une sortie du périphérique extérieur, l’hôtel ressemble à un « Formule 1 » de luxe, avec des orchidées sur le comptoir, une salle à manger propre et avenante, des distributeurs de café, de gâteaux et toutes les commodités nécessaires à un service sans personnel. Des cars de touristes sont alignés sur le parking. Halima est inquiète pour la nourriture. À l’Aftam, on lui a donné vingt euros pour la semaine, et la semaine prochaine, on lui donnera encore vingt euros. Ce n’est pas beaucoup. Quand elle est revenue de l’Aftam, elle avait très faim, elle se sentait mal. Alors elle a acheté une part de pizza dans la rue, mais elle a dépensé quatre euros sur les vingt qu’elle possède pour la semaine ! Elle voudrait partir en Angleterre : elle parle l’anglais, mais pas un mot de français, et sa compagne de chambre lui a dit qu’on pouvait travailler là-bas. Demandeuse d’asile renvoyée de Belgique sous le règlement « Dublin II », cette dernière est en Europe depuis quelques années déjà, et connait la ville.
    21

    Il faut bien réfléchir à cette question de départ vers l’Angleterre. Halima a été admise à la frontière comme demandeuse d’asile, ce qui indique qu’elle a de bonnes chances d’obtenir l’asile – l’examen aux frontières est paradoxalement réputé plus difficile que l’examen de fond de la demande d’asile par l’Ofpra. Nous avons pris du café, nous sommes montées dans sa chambre, nous nous sommes assises sur son lit, dans une belle lumière de fin d’après-midi :

    La guerre entre l’Érythrée et la Somalie a fait beaucoup de morts. La guerre est bête. Nous vivons ici, eux vivent là-bas, et l’on décrète qu’il y a une frontière, là, et pour cette frontière, juste pour une ligne, on va s’entretuer, on va faire la guerre et tuer des milliers de gens. Pour cette ligne. Une frontière, c’est quoi ? Juste une ligne, rien de plus. La Somalie et l’Érythrée se sont disputées pour cette ligne, ils ont envoyé beaucoup de monde à la guerre, beaucoup de gens sont morts. Mes deux frères ont été envoyés à la guerre. Les deux : d’abord un, et puis ils sont venus chercher d’autres jeunes et ils ont pris le deuxième. Mes frères et sœurs avaient peur. On n’a eu aucune nouvelle. On ne savait pas où ils étaient : personne ne disait rien et les nouvelles non plus ne disaient rien. Il y a eu beaucoup de morts. Un jour, un train est arrivé, tout le monde est allé à la gare et l’on attendait les noms : ils lisaient une liste, et ceux qui étaient sur la liste, on savait qu’ils étaient morts. J’avais peur. J’ai attendu dans la peur et quand j’ai entendu le nom de mon frère, j’ai pleuré. Et je restais encore devant la liste. Et puis ils ont dit le nom de mon deuxième frère et je me suis évanouie. Les voisins m’ont ramenée à la maison. Mon père était très malade déjà à ce moment-là… Ah, ce ne sont pas des choses gaies. Excuse-moi, je t’ennuie en te racontant ces choses. Toi tu es ennuyée, mais moi ça me fait du bien, ça me soulage le cœur.

    On s’est dit au revoir en début de soirée. On s’est rappelées plus tard : je partais quelques semaines au Canada. Halima m’a souhaité bon voyage et m’a dit que si l’on ne se revoyait pas d’ici mon départ, elle me disait au revoir. Je suis passée à l’hôtel avant de partir, mais elle m’avait prévenue qu’elle ne serait sans doute pas là, parce qu’elles allaient, avec sa compagne de chambre, à l’Armée du salut pour chercher de la nourriture. Pas encore rentrée ? Déjà partie ? À mon retour du Canada en mai, j’ai appelé Pierre Gilles, du foyer Emmaüs, qui m’a amicalement donné le contact de la personne qui s’occupait de Halima à l’Aftam. Je l’ai appelé pour avoir des nouvelles ; il m’a dit un peu sèchement : « elle a disparu dans la nature ».

    #Confinement et #subjectivation

    Comment le contrôle frontalier fonctionne-t-il au quotidien ? Quelles fonctions garde-t-il dans une perspective à plus long terme de parcours dans le pays d’accueil ? Comment les gestions institutionnelles de la circulation produisent-elles de nouvelles façons de gouverner les non-nationaux, aussi bien « étrangers » qu’« apatrides » : ceux dont le lien à l’État et à la Nation est de fait suspendu ? Voici quelques questions qui se posent au regard des parcours esquissés. Chacun bien sûr entre dans ces apnées administratives avec son bagage : ses connaissances, ses résistances, ses références, ses ressources, ses peurs. Fereydoun Kian mesure deux mètres pour une centaine de kilos : il sera directement placé en garde à vue sans subir de tentative de renvoi sous escorte. Sylvie Kamanzi s’en tient fermement aux connaissances administratives qu’elle a développées au cours de dix ans d’exils successifs entre le Rwanda et la République Démocratique du Congo (RDC) : d’abord, ne pas laisser savoir que l’on est rwandaise ; ensuite, face aux extorsions et aux violences de la police, toujours refuser de se rendre à un interrogatoire et garder le silence. Ces leçons tirées de l’expérience la mèneront très vite à un malentendu indénouable avec l’administration et à son refoulement dans le premier avion du retour.
    23

    Si les personnes placées dans des centres de rétention administrative (CRA) pour les sans-papiers arrêtés sur le territoire français ont toutes fait l’expérience, quoique différente, d’une vie en France et souvent d’un parcours administratif10 , ceux qui débarquent des avions ne partagent aucune expérience commune. Il n’existe pas de seuil, même minimal, de connaissance partagée de la culture administrative nationale, de la culture matérielle globale qui prévaut dans les aéroports et les nouveaux centres aseptisés11 , des codes moraux et humanitaires de la démocratie occidentale12 ; pas de continent commun, de langue commune ni de formation politique identique. Comment comprendre l’expérience intime du maintien en zone d’attente en s’attachant à des situations et des trajets si variés, dont le vécu s’inscrit dans des grammaires culturelles, un univers symbolique, des savoirs pratiques différents ? Est-ce que le même mot de « maintenus » est suffisant pour conférer une situation commune à ce kaléidoscope d’expériences qui se croisent dans le temps court de la détention frontalière ?

    https://www.politika.io/fr/notice/prisonniers-du-passage-ethnographie-detention-frontaliere-france
    #frontières #rétention #détention_administrative #zone_d'attente #MNA #mineurs_non_accompagnés #disparitions #Guinée_Conakry #aéroport #Zapi_3 #Ofpra #asile #migrations #réfugiés #Croix-Rouge #Aftam_93 #police #violences_policières #Unité_nationale_d'escorte_de_soutien_et_d'intervention #UNESI #hébergement #logement #CRA #débouté #sans-papiers