• Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di garantire più protezione alle vittime di tratta

    Nel rapporto del Gruppo di esperti sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) si chiede alle autorità di aumentare le indagini e le condanne, assicurare strumenti efficaci di risarcimento per le vittime e concentrarsi maggiormente sullo sfruttamento lavorativo. Oltre allo stop del memorandum Italia-Libia. Su cui il governo tira dritto.

    Più attenzione alla tratta per sfruttamento lavorativo, maggiori risarcimenti e indennizzi per le vittime e la necessità di aumentare il numero di trafficanti di esseri umani assicurati alla giustizia. Ma anche lo stop del memorandum Italia-Libia e la fine della criminalizzazione dei cosiddetti “scafisti”.

    Sono queste le principali criticità su cui il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) a fine febbraio ha chiesto al governo italiano di intervenire per assicurare l’applicazione delle normative europee e una tutela efficace per le vittime di tratta degli esseri umani. “Ogni anno in Italia ne vengono individuate tra le 2.100 e le 3.800 -si legge nel report finale pubblicato il 23 febbraio-. Queste cifre non riflettono la reale portata del fenomeno a causa dei persistenti limiti nelle procedure per identificare le vittime, nonché di un basso tasso di autodenuncia da parte delle stesse che temono di essere punite o deportate verso i Paesi di origine”. Una scarsa individuazione dei casi di tratta che riguarderebbe soprattutto alcuni settori “ad alto rischio” come “l’agricoltura, il tessile, i servizi domestici, l’edilizia, il settore alberghiero e la ristorazione”.

    L’oggetto del terzo monitoraggio di attuazione obblighi degli Stati stabiliti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani era proprio l’accesso alla giustizia per le vittime. Dal 13 al 17 febbraio 2023, il gruppo di esperti si è recato in Italia incontrando decine di rappresentanti istituzionali e di organizzazioni della società civile. La prima bozza del report adottata nel giugno 2023 è stata poi condivisa con il governo italiano che a ottobre ha inviato le sue risposte prima della pubblicazione finale del rapporto. Quello in cui il Greta, pur sottolineando “alcuni sviluppi positivi” dall’ultima valutazione svolta in Italia nel 2019, esprime “preoccupazione su diverse questioni”.

    Il risarcimento per le vittime della tratta è una di queste. Spesso “reso impossibile dalla mancanza di beni o proprietà degli autori del reato in Italia” ma anche perché “i meccanismi di cooperazione internazionale sono raramente utilizzati per identificare e sequestrare i beni degli stessi all’estero”. Non solo. Il sistema di indennizzo per le vittime -nel caso in cui, appunto, chi ha commesso il reato non abbia disponibilità economica- non funziona. “Serve renderlo effettivamente accessibile e aumentare il suo importo massimo di 1.500 euro”. Come ricostruito anche da Altreconomia, da quando è stato istituito questo strumento solo in un caso la vittima ha avuto accesso al fondo.

    Il Greta rileva poi una “diminuzione del numero di indagini, azioni penali e di condanne” osservando in generale una applicazione ristretta di tratta di esseri umani collegandola “all’esistenza di un elemento transnazionale, al coinvolgimento di un’organizzazione criminale e all’assenza del consenso della vittima”. Tutti elementi non previsti dalla normativa europea e italiana. Così come “desta preoccupazione l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, in particolare della fase investigativa”.

    Il gruppo di esperti sottolinea poi la persistenza di segnalazioni di presunte vittime di tratta “perseguite e condannate per attività illecite commesse durante la tratta, come il traffico di droga, il possesso di un documento d’identità falso o l’ingresso irregolare”. Un problema che spesso porta la persona in carcere e non nei progetti di accoglienza specializzati. Che in Italia aumentano. Il Greta accoglie infatti con favore “l’aumento dei fondi messi a disposizione per l’assistenza alle vittime e la disponibilità di un maggior numero di posti per le vittime di tratta, anche per uomini e transgender” sottolineando però la necessità di prevedere un “finanziamento più sostenibile”. In questo momento i bandi per i progetti pubblicati dal Dipartimento per le pari opportunità, hanno una durata tra i 17 e i 18 mesi.

    C’è poi la difficoltà nell’accesso all’assistenza legale gratuita che dovrebbe essere garantita alle vittime che invece, spesso, si trovano obbligate a dimostrare di non avere beni di proprietà non solo in Italia ma anche nei loro Paesi d’origine per poter accedere alle forme di consulenza legale gratuita. Problematico è anche l’accesso all’assistenza sanitaria. “I professionisti del Sistema sanitario nazionale -scrive il Greta- non sono formati per assistere le vittime di tratta con gravi traumi e mancano mediatori culturali formati per partecipare alla fornitura di assistenza psicologica”.

    Come detto, il focus degli esperti riguarda la tratta per sfruttamento lavorativo. Su cui l’Italia ha adottato diverse misure di protezione per le vittime ma che però restano insufficienti. “Lo sfruttamento del lavoro continua a essere profondamente radicato in alcuni settori che dipendono fortemente dalla manodopera migrante” ed è necessario “garantire risorse che risorse sufficienti siano messe a disposizione degli ispettori del lavoro, rafforzando il monitoraggio dei settori a rischio e garantendo che le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti soddisfare i requisiti previsti dalla normativa al fine di prevenire abusi”.

    Infine il Greta bacchetta il governo italiano su diversi aspetti relativi alla nuova normativa sui richiedenti asilo. “Temiamo che le misure restrittive adottate dall’Italia favoriscano un clima di criminalizzazione dei migranti, con il risultato che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i loro casi per paura di detenzione e deportazione”, scrivono gli esperti. Sottolineando la preoccupazione rispetto al “rischio di aumento del numero di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa” previsto dagli ultimi provvedimenti normativi che aumenterebbe la possibilità anche per le vittime di tratta non ancora identificate di essere recluse. Un rischio riscontrato anche per il Protocollo sottoscritto con l’Albania per gli impatti che avrà “sull’individuazione e la protezione delle persone vulnerabili salvate in mare”.

    Sul punto, nelle risposte inviate al Greta l’8 febbraio 2024, il governo italiano sottolinea che il protocollo siglato con la controparte albanese “non si applicherà alle persone vulnerabili, incluse le vittime di tratta”. Resta il punto della difficoltà di identificazione fatta subito dopo il soccorso, spesso in condizioni precarie dopo una lunga e faticosa traversata.

    Ma nelle dieci pagine di osservazioni inviate da parte dell’Italia, salta all’occhio la puntualizzazione rispetto alla richiesta del Greta di sospendere il memorandum d’intesa tra Italia e Libia che fa sì che “un numero crescente di migranti salvati o intercettati nel Mediterraneo vengano rimpatriati in Libia dove rischiano -scrivono gli esperti- di subire gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la schiavitù, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale”. Nella risposta, infatti, il governo sottolinea che ha scelto di cooperare con le autorità libiche “con l’obiettivo di ridurre i morti in mare, nel pieno rispetto dei diritti umani” e che la collaborazione “permette di combattere più efficacemente le reti di trafficanti di esseri umani e di coloro che contrabbandano i migranti”. Con il rispetto dei diritti umani, del diritti umanitario e internazionale che è “sempre stata una priorità”. Evidentemente non rispettata. Ma c’è un dettaglio in più.

    Quel contrasto al traffico di migranti alla base anche del memorandum con la Libia, sbandierato a più riprese dall’esecutivo italiano (“Andremo a cercare gli ‘scafisti’ lungo tutto il globo terracqueo”, disse la premier Giorgia Meloni a inizio marzo 2023) viene messo in discussione nel rapporto. Dopo aver sottolineato la diminuzione delle indagini sui trafficanti di esseri umani, il Greta scrive che i “capitani” delle navi che arrivano in Italia “potrebbero essere stati costretti tramite minacce, violenza fisica e abuso di una posizione di vulnerabilità nel partecipare all’attività criminali”. Indicatori che li farebbero ricadere nella “categoria” delle vittime di tratta. “Nessuno, però, è stato considerato come tale”, osservano gli esperti. Si scioglie come neve al sole la retorica sulla “guerra” ai trafficanti. I pezzi grossi restano, nel frattempo, impuniti.

    https://altreconomia.it/il-consiglio-deuropa-chiede-allitalia-di-garantire-piu-protezione-alle-

    #traite_d'êtres_humains #Italie #protection #Conseil_de_l'Europe #exploitation #Greta #rapport #agriculture #industrie_textile #hôtelerie #bâtiment #BTS #services_domestiques #restauration #indemnisation #accès_à_la_santé #criminalisation_de_la_migration #Albanie

  • Crise du logement : face à la pénurie de locations, les dossiers falsifiés deviennent monnaie courante
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/28/crise-du-logement-face-a-la-penurie-de-locations-les-dossiers-falsifies-devi

    Dans les zones tendues, là où le fossé entre l’offre et la demande s’est creusé, trafiquer ses fiches de paie est souvent perçu comme le seul moyen de décrocher un appartement. Un phénomène qui touche désormais des personnes disposant d’un #revenu confortable.

    La législation interdisant la mise en location des logements les plus mal isolés et énergivores (« passoires thermiques ») et la vague de transformations d’appartements en #meublés_touristiques, alimentée par le succès d’#Airbnb, participent au grippage du marché. Si bien que, en septembre, le site immobilier Particulier à Particulier (PAP) a vu ses offres de locations chuter de 15 % au niveau national (− 17 % en Ile-de-France), tandis que la demande progressait de 17 % (et de 20 % en région parisienne). Les agences Guy Hoquet reçoivent encore aujourd’hui plus de cent appels dans l’heure lorsqu’elles affichent une nouvelle annonce en Ile-de-France.

    Chez Guy Hoquet, on expérimente aujourd’hui dans les agences volontaires la solution Vialink, qui, par le biais d’un outil d’intelligence artificielle, permet de vérifier plus d’une centaine de points de contrôle en croisant les bulletins de salaire, l’avis d’imposition, la pièce d’identité ou encore les données publiques disponibles, comme celles de Societe.com. Pour rétablir la confiance entre #locataires et #propriétaires, une start-up d’Etat, dénommée DossierFacile, offre également aux propriétaires une vérification de certaines pièces, notamment l’authentification de l’avis d’imposition. A chaque fois, il s’agit aussi bien de lutter contre les faux dossiers vendus clés en main sur Internet par des escrocs pour quelque 180 euros que de pister les retouches artisanales sur Word ou sur Photoshop.

    https://archive.is/htBUy

    #logement #pénurie #loyer #agences-immobilières #IDF #Paris #faux_dossiers #falsification #IA

    • Dans les #palaces, les nouvelles frontières de l’hyperluxe
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/12/27/dans-les-palaces-les-nouvelles-frontieres-de-l-hyperluxe_6207865_3234.html

      .... les taux d’occupation des chambres restent faibles : en moyenne 53 % en 2022, contre 59 % en 2018, selon les chiffres de KPMG, qui a mené une étude sur les palaces parue en septembre.

      https://archive.is/eUjkk
      #luxe #logements_vacants

    • Les tarifs des hôtels explosent pour les JO de Paris
      https://www.journaldeleconomie.fr/Les-tarifs-des-hotels-explosent-pour-les-JO-de-Paris_a13086.html

      L’association de consommateurs UFC-Que Choisir tire la sonnette d’alarme dans une étude sur les tarifs des hôtels à Paris en vue des Jeux olympiques, prévus entre le 26 juillet et le 11 août 2024. L’étude révèle une augmentation de 226% du prix moyen d’une chambre d’hôtel pour la nuit du 26 au 27 juillet 2024, comparé à la même période en juillet 2023. La comparaison des prix de 80 hôtels proches du lieu de la cérémonie d’ouverture met en évidence une augmentation significative de 317 euros à 1.033 euros en moyenne par nuit.

      Ces hausses tarifaires ne sont pas un phénomène nouveau pour des événements d’envergure en France, comme l’a signalé l’UFC-Que Choisir, en rappelant les augmentations observées lors de l’Euro de football en 2016 et de la Coupe du monde 1998.

      Outre l’augmentation des prix, les #hôtels imposent également des conditions de réservation plus strictes. Selon l’UFC-Que Choisir, environ 30% des hôtels exigent un séjour minimum de deux nuitées, voire jusqu’à cinq pour certains. De plus, seulement la moitié des hôtels interrogés confirment avoir encore des chambres disponibles pour la période de l’événement. L’incertitude demeure quant à la disponibilité réelle des chambres restantes.

      #JO

    • En plus, ils passent totalement à côté du sujet (quelle surprise !) : la loi Boutin de 2009 qui adosse à la possibilité d’être remboursé des impayés de loyers l’obligation de recourir à une assurance.
      Ce qui revient à dire que pour contrer un risque faible (il y a très peu de loyers non recouvrés en France, même si les inégalités galopantes tendent à augmenter le phénomène), on a entré les critères des assurances dans les locations.
      À savoir qu’il faut avoir un salaire fixe (exit les autres forme de revenus) et dont le montant représente 3× le montant du loyer. Ce qui exclut de la location… pratiquement 95% de la population des non propriétaires. Car le montant des loyers est totalement décorrélé de celui des salaires qui sont à la traine depuis des décennies (merci Delors pour la désindexation des salaires !).

      Aujourd’hui, en gros, tout Paris ne veut plus louer qu’à un couple de polytechniciens… lequel a préféré acheter dans la ceinture.

      Même en province, c’est chaud, surtout dans le métropoles régionales qui concentrent tous les emplois bien rémunérés.

      Sans compter qu’il n’y a plus rien pour les familles d’ouvriers et employés, nulle part, sauf dans le social… auquel est éligible 80% de la population.

      Et tout en bas de cette pyramide de merdes, il y a les mères isolées qui doivent loger une famille avec des bouts de SMIC.

      Alors ta police de fausses candidatures, con de Ténardier, elle ne va vraiment servir à rien parce que le problème est que l’offre est totalement décorrélée de la demande.

    • Aujourd’hui, en gros, tout Paris ne veut plus louer qu’à un couple de polytechniciens… lequel a préféré acheter dans la ceinture.

      Je dirais même « ne peut plus louer », du fait de ladite loi Boutin. Et c’est la même chose un peu partout, hors campagnes isolées probablement. Sur Angers par exemple, le moindre studio (ou même chambre en colocation) se retrouve à 500€/mois, voire plus, ce qui fait qu’il devient impossible de se loger avec un SMIC si on veut respecter cette loi, en sachant que les APL ne sont pas prises en compte non plus dans le fameux calcul « votre revenu = 3 x le loyer ».

  • Paris Les bibliothèques sont aussi des refuges
    https://www.leparisien.fr/paris-75/a-paris-les-bibliotheques-sont-aussi-des-refuges-ici-les-sdf-retrouvent-u

    La précarité grandit dans les rues et s’invite dans les rayonnages de la cinquantaine de #médiathèques parisiennes. Celles-ci s’adaptent pour devenir des lieux de solidarité. Des cours de français sont, notamment, proposés dans certaines.

    Haroun a gardé son anorak noir sur le dos. Le vent froid qui fait frissonner la capitale est pourtant resté à la porte de la bibliothèque Václav-Havel, à deux pas de la bouillonnante Goutte d’or (XVIII e).

    L’après-midi file. D’ici 19 heures, lorsque la bibliothèque fermera ses portes, Haroun reprendra le maigre sac en plastique qui lui sert de valise. Puis ce Soudanais de 24 ans repartira à la recherche d’un abri pour la nuit. Depuis son arrivée à Paris il y a deux mois, ses jours et ses nuits se ressemblent. Haroun vient « tous les jours » dans cette médiathèque municipale installée dans la halle Pajol. « Je me sens bien ici », lâche-t-il timidement, par la voix d’un ami qui assure la traduction.

    Comme lui, de plus en plus de personnes #sans-abri ou en grande précarité trouvent refuge dans les 56 #bibliothèques de prêt de la Ville de Paris. Un des rares endroits chauffés où l’on peut « rester toute la journée sans consommer » , glisse une bibliothécaire.

    « La porte est ouverte à tous, sans qu’aucune question ne soit posée à l’entrée, abonde Pascal Ferry, directeur de Václav-Havel, qui compte une vingtaine d’agents et environ 100 000 visites par an. Ici, les SDF sont traités comme tout le monde. Ils retrouvent un statut qu’ils ont perdu dehors. »

    De nouveaux profils apparaissent. « Il y a un an et demi, nous avons dû faire face à l’arrivée des consommateurs de crack, poursuit Pascal Ferry. Aujourd’hui, nous voyons de plus en plus de #mineurs_isolés. Globalement, la précarité est plus visible. C’est un reflet de qui se passe dans la rue. » Depuis une dizaine d’années, ces structures s’adaptent. Certaines proposent des ateliers de conversation, des cours de français ou des initiations au numérique, des rendez-vous avec des assistants sociaux.

    « Réussir à faire cohabiter tous les publics »

    À Václav-Havel, les CSP + croisent des #familles_hébergées dans les #hôtels_sociaux, les jeunes migrants qui repartent avec des manuels de langue sous le bras, les ados qui sortent d’une session jeux vidéo dans la salle dédiée ou encore les « SDF habitués » qui viennent lire la presse.

    « Les bibliothèques ont beaucoup changé », confirme Boubacar Sy, 60 ans dont plus d’une trentaine comme bibliothécaire. Il y a quelques années, il est devenu « le premier médiateur » du réseau parisien. « Il y en a cinq autres désormais, précise-t-il. L’idée, c’était de répondre à certaines violences physiques ou verbales et de mieux prévenir les conflits. »

    « Il faut réussir à faire cohabiter tous ces publics et ces usages, insiste Pascal Ferry. C’est un équilibre fragile et compliqué. » Avec parfois des points de rupture. En 2015, deux ans après l’ouverture de la bibliothèque, un camp de migrants s’est installé sur le parvis. « Elle n’était quasiment plus accessible au reste du public », se souvient une membre de l’équipe. À quelques mètres, la « bulle » de la Chapelle se monte en 2016 pour faire face à toutes ces arrivées. Environ 60 000 migrants défilent sous ce chapiteau, jusqu’à ce que dispositif expérimental d’accueil prenne fin en 2018. Carine Rolland, adjointe (PS) de la maire de #Paris en charge de la culture, rappelle : « Ça a accéléré notre réflexion sur ce qu’est une bibliothèque : un lieu de culture, d’ouverture mais aussi de sociabilité. »

    Les bibliothécaires se forment sur le tas à l’accueil de visiteurs parfois en grande détresse. Comme il y a quelques jours, cette famille arrivée sous la pluie battante et pour laquelle « il a fallu trouver une solution d’hébergement en urgence ».

    De bonnes âmes aident, comme Jean-Claude, 79 ans, qui donne des cours de français bénévolement. Ce vendredi après-midi, ce graphiste retraité s’est installé dans un coin avec Haroun et trois autres jeunes Soudanais. Václav-Havel est devenu bien plus qu’une bibliothèque pour lui : « C’est ma deuxième maison ! »

  • Dans les #lagons polynésiens, les #déchets invisibles du temps du nucléaire

    En trente ans de présence sur le territoire polynésien puis à la suite de son démantèlement, le #Centre_d’expérimentation_du_Pacifique a produit de très nombreux déchets. Si certains ont été enterrés, d’autres ont été jetés dans le lagon. Les #risques que représentent ces déchets contaminés restent difficile à établir.

    Combien de tonnes de déchets gisent au fond des lagons polynésiens ? Difficile à dire. Il existe bien des #chiffres de l’Agence nationale pour la gestion des déchets radioactifs (Andra) : « 3 200 tonnes de déchets radioactifs ont ainsi été immergées dans les eaux territoriales françaises en Polynésie. » Mais prennent-ils réellement en compte l’ensemble des déchets jetés dans l’océan à l’époque des #essais_nucléaires ? Rien n’est moins sûr. Une partie de ces déchets n’ont sans doute pas été comptabilisés car ils n’ont simplement pas été inventoriés.

    Entre 1966 et 1996, 193 essais nucléaires ont été menés en #Polynésie, sur les #atolls de #Moruroa et #Fangataufa, dans l’#archipel_des_Tuamotu. Ces tirs aériens dans un premier temps, puis souterrains à partir de 1975, ont généré une très grande quantité de déchets plus ou moins radioactifs, c’est-à-dire qui ont la particularité d’émettre des rayonnements pouvant présenter un risque pour l’homme et l’environnement. Ces déchets sont très hétérogènes, ce sont à la fois les avions qui récupéraient les #poussières_radioactives dans les nuages, des moteurs d’engins, des matières plastiques, des tenues et des chaussures, des déchets inertes (gravats, terre…).

    Jeter dans le #lagon : une solution rapide et peu coûteuse

    L’immersion des déchets, soit le dépôt sur les #fonds_marins, est, à l’époque, une pratique commune. On parle « d’#océanisation » des déchets. En Polynésie, ces derniers sont ainsi stockés sur plusieurs sites entre les atolls d’#Hao et Moruroa, à partir de 1967. Une fosse de 2 500 mètres de profondeur est d’abord creusée à 8 km de Hao. Selon les chiffres de l’Andra, 310 tonnes de déchets radioactifs conditionnés en fûts de béton et 222 tonnes de #déchets_radioactifs en vrac ont été immergées sur le site nommé #Hôtel. Deux sites (#November et #Oscar) sont utilisés à Moruroa, pour procéder à des immersions de plusieurs tonnes déchets à partir d’hélicoptères et de bateaux.

    Mais pourquoi avoir pollué les eaux polynésiennes ? Selon l’Andra, « l’#évacuation en mer a été un moyen de gestion de tout type de déchets. Les déchets radioactifs n’ont pas fait exception à cette règle. Cette solution était considérée à l’époque comme sûre par la communauté scientifique car la dilution et la durée présumée d’isolement apportées par le milieu marin étaient suffisantes ».

    En l’absence de filière de gestion, l’océanisation apparaît comme la seule solution. L’éloignement des sites explique aussi ce choix, selon Jean-Marie Collin, directeur de la Campagne ICAN en France (Campagne Internationale pour Abolir les Armes Nucléaires) : « Ramener les déchets jusque dans l’Hexagone était une solution plus coûteuse et plus complexe. Creuser un trou dans le désert en Algérie ou jeter par-dessus bord en Polynésie étaient une alternative bien plus simple », regrette-t-il.

    Dans le livre Des bombes en Polynésie, l’historien Renaud Meltz détaille la pratique : « Les militaires tiennent l’inventaire à la Prévert, mois après mois, des quelques tonnes de petits matériels (900 paires de gants, 272 kg ; 883 combinaisons, 618 kg, 200 paires de pataugas 200 kg, etc.) et des milliers de tonnes de gros matériel sont livrés à l’océan. »

    En 1972, la Convention de Londres sur la prévention de la pollution des mers interdit l’immersion de déchets fortement radioactifs. Elle entre en vigueur en août 1975. Mais les Français font fie des réglementations internationales. Alors que l’immersion au large des côtes métropolitaines s’arrête en 1969, elle continue en Polynésie jusqu’en 1986.

    Des conditionnements sommaires

    Mais si ces déchets posent problème c’est aussi parce que leur #conditionnement a souvent été négligé. Pourtant, une procédure impose que « tous les déchets radioactifs doivent être déposés dans des sacs en vinyles soudés ou fermés hermétiquement par bandes adhésives. Ces sacs sont ensuite placés dans des fûts ou autres récipients lestés (ciment ferrailles). »

    En théorie, les déchets doivent donc être conditionnés selon leur #radioactivité. Dans les faits, tous ne le sont pas. « Seuls ceux dont la taille permet d’être entreposé dans des fûts profitent d’un conditionnement, les autres restent en vrac. Aussi, une partie des résidus, produits au fond des puits ou les bombes détonnaient n’ont jamais été remontés », écrit le chercheur spécialiste du nucléaire Teva Meyer dans l’ouvrage Des bombes en Polynésie.

    En 1970, huit fûts provenant des laboratoires de Mahina sont immergés sans conditionnement, après avoir été percés pour éviter l’éclatement. À partir de mars 1975, cinq avions Vautour utilisées pour traverser les nuages des explosions pour récupérer les poussières radioactives, sont coulés.

    En 1982, le rapport de la #mission_Haroun_Tazieff pointe les problèmes liés aux déchets dans le lagon, entraînés par la tempête en mars 1981. En 1988, la #mission_Calypso, dirigé par le commandant Cousteau, indique que Moruroa n’est pas un bon site de #stockage de déchets radioactifs. Ils considèrent qu’« il n’y a aucune raison de croire que si certains critères de confinement semblent nécessaires au stockage des déchets des centrales nucléaires civiles, ils ne soient plus nécessaires pour stocker les déchets des essais nucléaires militaires. » Trop tard, les immersions ont été faites, trop souvent sans protection.

    Quels #risques pour la population ?

    Aujourd’hui, les déchets datant de l’époque du nucléaire n’ont pas disparu des eaux polynésiennes. Représentent-ils un risque pour les populations ? Selon l’Andra, ces 3 200 tonnes de déchets radioactifs immergés représentent une activité totale inférieure à 0,1 TBq (térabecquerel).

    Le département de suivi des centres d’expérimentations nucléaires (DSCEN) en lien avec le Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives (CEA) effectue une surveillance radiologique de Moruroa et Fangataufa depuis 1998. « Les #radionucléides d’origine artificielle mesurés dans les échantillons sont présents à des niveaux très faibles et souvent inférieurs ou voisins de la limite de détection des appareils de mesure de la radioactivité. Les concentrations mesurées dans le milieu terrestre et les sédiments marins gardent la trace des essais atmosphériques effectués sur les atolls de Moruroa et Fangataufa. Les niveaux d’activité dans ces compartiments restent stables, voire en légère diminution », note le rapport de 2021 du Ministère des Armées.

    « Mais qu’est-ce qu’un faible taux ? », s’interroge Patrice Bouveret, directeur de l’Observatoire des armements. « Un taux est acceptable lorsqu’il est socialement accepté par la population ? Toute radioactivité a un impact sanitaire sur l’humain, le végétal, l’animal, sur la vie en général ».

    Selon Patrick Bouisset, directeur du laboratoire d’étude et de suivi de l’environnement à l’IRSN (Institut de radioprotection de sûreté nucléaire), les déchets immergés ne représentent pas de risque particulier puisque la radioactivité s’est « diluée dans l’océan ». Quant aux déchets contenus dans des fûts, même « s’ils vont fuir avec le temps car rien n’est hermétique à l’échelle de quelques siècles », ces pollutions ne seront « pas visibles » considère ce physicien, chargé d’évaluer l’exposition radiologique en Polynésie hors des sites de Moruroa et Fangataufa.

    L’#imperméabilité des conditionnements inquiète aussi Bruno Chareyron, ingénieur et directeur du laboratoire de la CRIIRAD (Commission de recherche et d’information indépendantes sur la radioactivité) : « Il est difficile d’anticiper les conséquences de l’immersion des déchets. Ce qui est certain, c’est qu’on aurait dû les conditionner sur des sites capables de garantir le confinement pendant des dizaines et des milliers d’années. Balancer des déchets en mer, sans emballage particulier, comme pour les avions Vautour, ou même en considérant une enveloppe en vinyle, c’est dérisoire pour des éléments à très longue période physique. »

    Une étude indépendante pour confirmer l’absence de danger

    « Le problème c’est qu’on ne connaît pas la quantité exacte de déchets immergés », pointe Jean-Marie Collin qui regrette que les études concernant la radioactivité soient menées par « des instituts qui appartiennent à l’État ». « D’après les études réalisées, il semblerait qu’il n’y a pas de danger concernant ces déchets immergés. Je suppose donc qu’il n’y a pas de danger. Mais il serait intéressant que des études indépendantes soient menées pour corroborer les études existantes et ainsi assurer la sécurité et rétablir la confiance des Polynésiens ».

    Les impacts sanitaires et environnementaux découlant des déchets immergés sont ainsi difficiles à établir. Reste que, Moruroa et Fangataufa demeurent des atolls contaminés, où le plutonium subsiste dans les sols comme en surface. Hao, longtemps considéré comme« la poubelle du CEP » subit aussi d’importantes pollutions aux hydrocarbures.

    Durant plus de trente ans, si une partie des déchets ont été océaniser, les autres ont été enterrés ou abandonnés. Radioactifs ou pas, ces déchets portent « la charge symbolique des essais », estime Teva Meyer. « Ils demeurent souillés, voire ‘nucléaires’ pour certains, qui demandent qu’ils soient traités comme tels ».

    https://outremers360.com/bassin-pacifique-appli/dossier-dans-les-lagons-polynesiens-les-dechets-invisibles-du-temps-du
    #pollution #santé #contamination #France

  • A #Menton, les arrivées de migrants augmentent, les #refoulements aussi

    De tous les points de passage entre la France et l’Italie, celui du pont Saint-Louis est sans doute le plus pittoresque. Imaginez une route suspendue à flanc de rocher entre Menton, ville des Alpes-Maritimes, et Grimaldi, la première localité transalpine : d’un côté la montagne, abrupte et creusée de grottes ; de l’autre, un paysage de cultures en terrasses dévalant jusqu’à la côte. Tout en bas, la Méditerranée luit d’un éclat mauve, en ce petit matin d’automne que le soleil n’éclaire pas encore.

    Un endroit sublime, donc, et pourtant parfaitement désespérant. Car ce bout de route, encadré par les postes de police des deux pays, accueille chaque jour un ballet tragique de migrants qui passent et repassent, long cortège de malheureux expulsés hors de l’Hexagone. Remis à la police italienne, ils tenteront leur chance une fois, dix fois, vingt fois, jusqu’à pouvoir franchir cette frontière sur laquelle la France a rétabli des contrôles depuis 2015. « A la fin, la plupart d’entre eux finissent par y arriver » , observe Loïc Le Dall, membre de l’antenne locale de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé). Y compris en empruntant les chemins les plus dangereux, comme le toit des trains ou ce sentier vertigineux que l’on appelle ici le « pas de la mort ». Mais dans l’intervalle, ils sont pris dans une étrange partie de ping-pong politico-policier, un casse-tête juridique et humanitaire.

    A quoi pense-t-elle, cette femme arrêtée le long du parapet, entre les deux postes-frontières ? Le visage appuyé contre le grillage, elle regarde la mer et au-delà, les lumières de Menton. Près d’elle, deux très jeunes enfants grelottent dans leurs vêtements de coton. Plus loin, son mari monte la pente en tirant une petite valise. Ils sont kurdes, fuyant la Turquie pour des raisons politiques, disent-ils.

    Grosses boîtes cubiques

    Dans leur groupe, formé au hasard des contacts avec un passeur, il y a une autre famille avec enfants et un adolescent accompagné de sa mère. Poyraz a 17 ans, des écouteurs autour du cou et il tient à préciser quelque chose en esquissant un signe de croix à toute vitesse, le dos tourné pour que ses compagnons ne le voient pas : « Nous sommes orthodoxes,confie-t-il. C’est très difficile pour nous, en Turquie. »

    A trois pas de là, deux Nigérians regardent en direction d’un panneau bleu planté sur le bas-côté : « Menton, perle de la France, est heureuse de vous accueillir. » Les bras ballants, ils ont l’air désemparés, perdus. Eux n’ont rien, ni valise, ni téléphone, ni écouteurs et pas l’ombre d’un sac, fût-il en papier – même dans la misère, il y a des hiérarchies. Surtout, comme beaucoup de migrants, ils disposent de très peu de mots pour expliquer leur situation. Le plus âgé réussit à formuler une question, en rassemblant quelques bribes d’anglais : « Pourquoi ne nous laissent-ils pas entrer ? »

    « Ils », ce sont les forces de l’ordre françaises qui viennent de les renvoyer vers l’Italie, après les avoir enfermés depuis la veille dans des « espaces de mise à l’abri » – en fait des préfabriqués agglutinés entre la route et la falaise, au droit des bâtiments de police. Les Français retiennent dans ces grosses boîtes cubiques ceux qu’ils n’ont pas eu le temps d’exfiltrer avant la nuit, les locaux de leurs homologues italiens, à 50 mètres de là, étant fermés entre 19 heures et 7 heures. Ces lieux sont « climatisés et pourvus de sanitaires, de la nourriture y est distribuée » , explique Emmanuelle Joubert, directrice départementale de la police aux frontières (PAF). Kadiatou, une Guinéenne de 22 ans rencontrée à Vintimille, y a déjà passé la nuit avec son fils Mohamed, 1 an et demi. « C’était très sale, nuance-t-elle, nous étions serrés les uns contre les autres et dormions par terre. »

    Le 29 septembre, plusieurs baraquements ont été ajoutés à ceux qui s’y trouvaient déjà, en prévision d’une recrudescence d’arrivées : sur les 10 000 migrants débarqués dans l’île italienne de Lampedusa, entre le 11 et le 13 septembre, certains devraient atteindre la frontière française ces jours-ci. Entre le 1er janvier et le 21 septembre, la PAF a procédé à 31 844 interpellations, dont 5 259 pour la seule période du 25 août au 21 septembre. D’après la préfecture, ce chiffre, déjà en hausse par rapport à 2022, devrait augmenter avec les afflux attendus en provenance de Lampedusa. Parmi les refoulés, beaucoup sont mineurs et un grand nombre vient d’Afrique subsaharienne.

    Mine résignée

    Au pont Saint-Louis, aucune demande d’asile n’est jamais enregistrée. Et même si la présence d’un membre de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Opfra) serait nécessaire, « il n’en vient jamais ici », assure un policier en faction.

    Pour faire face à cet afflux, il a fallu consolider les dispositifs, notamment depuis le mois de juillet, avec des drones, un avion de la brigade aéronautique de Marseille et des effectifs renforcés. Le 18 septembre, le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, a annoncé l’envoi de 132 personnes (policiers, gendarmes, militaires des sections « Sentinelle ») afin d’étoffer les « troupes » déjà présentes dans le département. Celles-ci comptent également dans leurs rangs des réservistes de la police qui se relaient pour assurer des contrôles à Menton-Garavan, la première gare en territoire français.

    Ces réservistes vont par petits groupes, équipés de gilets pare-balles. Tous les trains en provenance de Vintimille, ville italienne située à 9 kilomètres, sont inspectés. Et de presque tous, les forces de l’ordre font descendre des sans-papiers, repérables à leurs mains vides, à leurs vêtements informes, à leur mine résignée. De là, ils sont conduits au pont Saint-Louis, où la PAF leur remet un refus d’entrée. Sur ces deux pages remplies par la police figurent notamment le nom, la nationalité et une date de naissance.

    Parfois, ces indications sont fantaisistes (on les reconnaît parce qu’elles indiquent systématiquement comme date un 1er janvier) : la minorité revendiquée par les passagers, qui n’ont jamais de papiers d’identité sur eux et ne sont pas toujours capables de donner une date de naissance précise, n’a pas été considérée comme réelle par les policiers. Ceux-ci choisissent alors une année de naissance estimative, qui « déminorise » les interpellés. Interrogée à ce propos par Le Monde, Mme Joubert (PAF) répond qu’il s’agit « d’un processus technique interne, le plus précis possible au regard des éléments en notre possession ». Ces procédures, dit-elle, « ont été établies afin de ne pas faire échec aux droits » .

    Yacht show de Monaco

    Au chapitre « Vos droits », justement, le document propose deux options. Par la première, le requérant demande à bénéficier d’un délai de vingt-quatre heures. Par la seconde, il affirme : « Je veux repartir le plus rapidement possible. »Or, selon l’Anafé, la case correspondant à cette deuxième option est déjà précochée au moment où les expulsés reçoivent le papier. La décision est exécutoire immédiatement. Le 21 septembre, un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne a jugé illégale cette pratique de refoulement instantané aux frontières. Sans rien changer sur le terrain jusqu’ici.

    Il arrive aussi, en contravention totale avec le droit français, que des mineurs se voient infliger une obligation de quitter le territoire. Celles que montrent, par exemple, Saad, né au Darfour (Soudan) en juillet 2006 (la date figure sur le document établi par la police), et son copain guinéen, 17 ans également. Tous deux sont assis sur un banc, du côté français, la tête entre les mains, incapables de déchiffrer la sommation qui leur donne quarante-huit heures pour contester devant le tribunal administratif. « Une erreur », plaide la PAF. « Nous avons vu cela plusieurs fois », rétorque l’Anafé.

    En cas de doute sur l’âge, un fonctionnaire de l’Aide sociale à l’enfance, structure dépendant du département, doit donner son avis. Ceux qui sont reconnus comme mineurs non accompagnés (les enfants se déplaçant avec des adultes ne bénéficient d’aucune protection particulière) doivent être placés dans des foyers provisoires d’urgence, mais les lits manquent. Le 15 septembre, un hôtel Ibis Budget du centre de Menton a donc été réquisitionné, quoique encore jamais utilisé. Cette décision préfectorale a provoqué la colère d’Yves Juhel, maire (divers droite) de la ville, où les touristes se pressent encore à cette saison. L’édile s’est exprimé sur France 3, le 21 septembre, soit quatre jours avant l’inauguration du Monaco Yacht Show, grand raout dont les participants remplissent les chambres des environs. « Cela ne(…) se fera pas ! Sinon, je serai le premier à être devant l’hôtel pour éviter une telle occupation. (…) Vous n’allez pas faire sortir des gens qui ont payé leur chambre pour en mettre d’autres en situation irrégulière, non ? »

    Dans un courrier adressé à Emmanuel Macron, le 20 septembre, Charles-Ange Ginésy, président Les Républicains du département, réclamait, lui, une prise en charge, par l’Etat, de l’accueil et de l’orientation des mineurs non accompagnés, normalement assumée par sa collectivité. Celle-ci, écrit-il, « ne peut être la victime collatérale d’une frontière passoire qui embolise les personnels en charge de l’enfance » .

    Distribution de repas sur un terrain vague

    En attendant, les personnes refoulées de France s’entassent à Vintimille, avec les primo-arrivants. Ils sont des dizaines sous l’autopont longeant le fleuve Roya, leurs vêtements suspendus aux grillages. « Pour nous laver, il y a la rivière et pour dormir, c’est par terre », racontent, l’air crâne, trois garçons soudanais, arrivés à Lampedusa par la Libye, puis la Tunisie. Ils se disent mineurs mais n’ont pas voulu le déclarer à leur arrivée en Sicile, afin de ne pas être enfermés dans des foyers spécialisés.

    Chaque soir, tout près de là, des associations humanitaires et la paroisse San Rocco de Vallecrosia distribuent, à tour de rôle, des repas sur un terrain vague, dans ce quartier de Roverino où une majorité d’habitants a voté pour la Ligue (extrême droite) aux dernières élections municipales. Mardi 3 octobre, ils étaient 200 à faire la queue, soit moitié moins que les 430 du mardi précédent. Cette baisse correspond-elle à un ralentissement des arrivées du sud du pays ? Ou bien au fait que plus de gens sont parvenus à passer entre les mailles du filet ? Nul ne le sait.

    « Nous sommes habitués à ces cycles, sans pouvoir les analyser » , constate Alessandra Zunino, « référente » chez Caritas. L’organisation catholique distribue des repas le matin et à midi, mais surtout, elle accueille des femmes et des enfants dans une annexe, le long de la voie ferrée. « Nous nous substituons aux services qui manquent, explique Maurizio Marmo, l’un des responsables locaux. A Vintimille, depuis trois ans, plus aucune structure institutionnelle ne fonctionne pour les migrants. Maintenant, tout de même, nous recevons un appui du ministère de l’intérieur pour les vingt places d’hébergement réservées aux femmes et aux enfants. »

    Dans le bâtiment principal, une maison crème aux volets bruns, on se contente de « tendre la main à ceux qui en ont besoin » , poursuit Alessandra Zunino. Quant aux parcours individuels, ils demeurent le plus souvent mystérieux. Même pour le docteur Pedro Casarin, qui soigne des blessures, des bronchites et annonce au moins une grossesse par semaine, sous une tente de Médecins sans frontières. Les gens vont et viennent, restent une heure ou un jour, puis ils repartent aussi soudainement qu’ils étaient arrivés, pour ne jamais revenir. Ils ont bravé le désert, les bandits, les violeurs, la Méditerranée : ce n’est pas une frontière de plus qui va les arrêter.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/07/a-menton-les-arrivees-de-migrants-augmentent-les-refoulements-aussi_6193012_

    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #Alpes_Maritimes #frontières #Alpes #Vintimille #France #Italie #enfermement #interpellations #statistiques #chiffres #militarisation_des_frontières #contrôles_frontaliers #Menton-Garavan #forces_de_l'ordre #réservistes #trains #refus_d'entrée #refoulements_instantanés #OQTF #mineurs #MNA #mineurs_non_accompagnés #hôtel #Ibis #hôtel_Ibis #encampement

  • 🛑 Dans les hôtels du 115, des femmes victimes de chantages sexuels se heurtent à la loi du silence... - Bondy Blog

    Sans argent et souvent sans papiers, les femmes mises à l’abri dans les hôtels d’hébergement d’urgence se retrouvent parfois à la merci des propriétaires hôteliers. Leur vulnérabilité empêche nombre d’entre elles de déposer plainte (...)

    #115 #femmes #hébergement #hôtels #chantages #agressionssexuelles...

    https://www.bondyblog.fr/enquete/dans-les-hotels-du-115-des-femmes-victimes-de-chantages-sexuels-se-heurten

  • Trois syndicalistes CGT hôtellerie jugés pour escroquerie
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/paris-ile-de-france/hauts-de-seine/trois-syndicalistes-cgt-hotellerie-juges-pour-escroquer

    Le ministère public a requis huit et cinq mois de prison avec sursis mercredi contre deux syndicalistes de la CGT HPE, Hôtels de prestige et économiques, jugés pour escroquerie, devant le tribunal correctionnel de Nanterre. lls sont accusés d’avoir sollicité des dons auprès des salariés qu’ils défendaient.

    À la barre du tribunal de Nanterre mercredi, l’ex-trésorier du syndicat Claude Lévy, son épouse Tiziri K. et un troisième syndicaliste. Les trois prévenus sont accusés d’avoir sollicité des #dons auprès des salariés qu’ils défendaient devant les #prud'hommes. Ils sont soupçonnés de les avoir incités à verser à leur #syndicat 10% des sommes obtenues devant ces juridictions. Au total, 46 personnes se sont constituées parties civiles, ainsi que l’Union départementale CGT Paris et l’Union régionale Île-de-France CGT .

    Claude Levy est bien connu dans le monde de l’#hôtellerie en Ile-de-France. Il s’est notamment engagé en 2013 dans la défense de #femmes_de_chambres qui demandaient à être embauchées dans un palace parisien, le #Park_Hyatt Paris-Vendôme ou plus récemment il y a deux ans, au côté d’autres femmes de chambres de l’hôtel #IBIS_Batignoles. Elles exigeaient une amélioration de leurs #salaires.

    10 % de dons

    Mercredi au tribunal, les trois #syndicalistes ont rejeté en bloc assurant ces 10% des sommes versés par des salariés constituent des "dons juridiques" librement consentis dont le principe a été voté à l’unanimité lors de plusieurs congrès tenus par la CGT.

    En juin 2021, a rappelé la présidente, ces transferts représentaient plus de la moitié du capital de la CGT-HPE qui s’élevait à cette date à « un peu plus de 800.000 euros ». Les recherches conduites par les enquêteurs pour évaluer votre rythme de travail devant les instances prud’homales pourraient éventuellement justifier de ce montant", pointe la présidente qui décompte "600 procédures" qui seraient allées jusqu’au jugement.

    Une ambiance tendue

    Lors d’une audience de plus de dix heures, ponctuée par de nombreux rappels de la présidente dans une ambiance tendue, les prévenus se sont défendus de manière véhémente. "Ce #procès, c’est le procès d’un vilain syndicaliste qui s’est impliqué pendant plus de 70 heures (par semaine, nldr ) pour aider les plus démunis. Qu’on me traite d’exploiteur des opprimés, il y a de quoi péter un plomb !", s’est exclamé M. Lévy. La prévenue Tiziri K. a déclaré être victime d’un "règlement de compte" et n’avoir "contraint personne" à verser une partie des indemnités perçues.

    Ils ont mentionné plusieurs attestations versées au dossier, produites par des salariés expliquant avoir versé librement ces sommes à la #CGT-HPE.

    Huit mois de #prison_avec_sursis assortis d’une amende de 8.000 euros ont été requis contre l’ex-trésorier du syndicat Claude Lévy. Son épouse Tiziri K. a été visée par des réquisitions de cinq mois d’emprisonnement avec sursis et une #amende de 5.000 euros. Concernant une troisième syndicaliste également mise en cause, soupçonnée de complicité d’#escroquerie, le parquet a déclaré qu’il s’en remettait à la décision de la cour, qui sera rendue le 28 novembre.

    Le parquet a également demandé la #privation_de_droits_d'éligibilité pendant cinq ans pour les deux prévenus et de manière non obligatoire, l’interdiction d’exercer toute fonction dans le domaine social pendant cinq ans.

    des structures de cette même #CGT qui, dans de nombreux cas, ne donne des infos aux salariés, chômeurs et précaires qui en demandent qu’à la condition qu’ils adhérent juge utile de se porter partie contre des militants syndicaux qui animent des grèves

    #bureaucratie_syndicale #justice #luttes_sociales #luttes_syndicales #grève #caisse_de_grève

    • Ce qui en jeu ici c’est aussi une lutte de tendance au sein de la CGT où l’accusé (et condamné) est clairement identifié comme un opposant à la ligne confédérale, plus combatif que cette dernière et, surtout, contre les pratiques de la fédération, cette dernière, étant de mon point de vue, clairement identifiée comme vendue au patronat.

      À titre d’exemple, cet article de PLI d’août 2022 :

      [Radio] Retour sur l’action de la CGT-HPE - Paris-luttes.info
      https://paris-luttes.info/radio-retour-sur-l-action-de-la-16024

      Retour sur l’action de la CGT-HPE
      Publié le 6 août 2022

      Dans cette émission de Vive la sociale - FPP 106.3 FM - nous aurons un long échange avec Claude Levi, animateur syndical des luttes dans le secteur de la propreté et notamment dans l’hôtellerie. Bonne écoute !
      Retour sur l’action de la CGT-HPE

      Dans cet entretien, Claude Lévy, longtemps cheville ouvrière de la CGT-HPE, dresse un tableau de la situation de la sous-traitance dans l’hôtellerie et des activités de son syndicat. Sont également abordés ses démêlés avec l’union syndicale CGT du commerce parisienne et les brimades qu’il a dû subir, ainsi que Tiziri Kandi, ces dernières années. L’entretien se termine sur un tour d’horizon des perspectives du syndicat CGT-HPE et des projets de Claude et Tiziri.

  • Après 22 ans, le géant de l’intérim Adecco jugé pour fichage racial
    https://www.streetpress.com/sujet/1695805410-geant-interim-adecco-juge-fichage-racial-discrimination-emba

    Adecco et deux ex-responsables vont être jugés le 28 septembre 2023 pour « #fichage_racial » et discrimination à l’embauche. Entre 1997 et 2001, une agence faisait un tri entre ses #intérimaires noirs et non-noirs. Plongée dans un système raciste.
    « Je tiens à vous signaler qu’au sein de l’agence #Adecco, […] on procède à un tri ethnique des intérimaires. En effet, les intérimaires sont classés en fonction de leur couleur de peau. Une distinction est faite entre les noirs et les non-noirs. » C’est par ces mots que commence la lettre explosive envoyée par Gérald Roffat le 1er décembre 2000 à l’association SOS Racisme. À l’époque, il est étudiant en licence de ressources humaines à l’université Paris Créteil. Le jeune homme, métisse, vient de faire un stage de six mois dans l’agence Adecco de Montparnasse, dans le 14ème arrondissement de Paris (75). Ce qu’il a vu l’a révolté. « Le pire, c’est que le stagiaire qui m’a expliqué ce que j’allais faire, était noir », se souvient le volubile Gérald Roffat, aujourd’hui âgé de 47 ans. « Les gens autour de moi se racontaient des histoires pour se justifier, mais moi je trouvais ça malsain. Ce courrier est la porte de sortie que j’ai trouvée. »

    Ce 28 septembre 2023, après une procédure exceptionnellement longue, les délits racistes dénoncés par le lanceur d’alerte vont finalement être jugés. Le groupe d’#intérim Adecco et deux anciens directeurs de l’agence Paris-Montparnasse ont été renvoyés en correctionnelle le 25 juillet 2021 par la Cour d’appel de Paris pour « fichage à caractère racial » et discrimination à l’embauche. 500 intérimaires du secteur de l’#hôtellerie-restauration en Île-de-France entre 1997 et 2001 en auraient été victimes. Ils sont aujourd’hui quinze à se porter partie civile. StreetPress a eu accès aux documents judiciaires dans lesquels quatorze chargés de recrutement ou de clientèle témoignent de leur participation au fichage.
    Les blancs recevaient des appels, les noirs faisaient la queue. Dans sa lettre, l’ex-stagiaire Gérald Roffat déroule : « Pour chaque intérimaire, le chargé de recrutement indique la mention PR1 ou PR2. Il ajoute la mention PR4 quand il s’agit d’une personne de couleur. (…) Lorsqu’un client d’Adecco demande un intérimaire, il peut tout naturellement demander un BBR [pour “bleu blanc rouge”, NDLR] ou un non-PR4. » Résultat : les intérimaires noirs sont servis en dernier et souvent cantonnés à la plonge, loin des regards des clients.

    [...]
    « On ne voyait pas ce qu’il y avait derrière leur bureau, mais on le sentait », raconte quant à elle Adrienne Djokolo, 59 ans. La Française née en République du Congo avait 31 ans lorsqu’elle a commencé à faire des missions d’intérim pour Adecco en 1995. « On partait très tôt le matin à 7h s’asseoir à l’agence pour attendre une mission. On repartait bredouille s’il n’y avait rien. Il n’y avait que des noirs, des arabes, des indiens… » C’est quand Adrienne arrivait dans les restaurants qu’elle voyait les intérimaires « blancs » d’Adecco. « Ils nous disaient qu’eux n’avaient pas besoin d’aller à l’agence. On les appelait directement chez eux pour les missions », rembobine la grand-mère, aujourd’hui en CDI dans une entreprise de #restauration collective

    • oui, la longueur de la procédure est ahurissante. à croire que l’emploi est plus sacré encore qu’un président de la république.

      c’est pas un racisme idéologique mais un souci de productivité du placement. à gérer trop de contrats, Adecco s’est auto piégé, fallait ne rien écrire, ses contenter dune visualisation des photos pour décider de la mise en relation avec un employeur.
      de toute façon, c’est les donneurs d’ordre qui décident : les « blancs » en salle, arabes et asiatiques compris éventuellement, les trop colorés en coulisse et en soute. à vu de pif, depuis 2000, cette répartition n’a évoluée qu’à la marge .

      une entreprise ne contracte pas avec une boite d’intérim qui envoie des candidats qu’elle juge irrecevables. en bar, hôtel, restau, on a aucune raison et pas le temps d’organiser des entretiens qui doivent échouer, comme c’est le cas, au vu des contraintes légales pesant sur les modalités de recrutement, avec les candidats profs de fac, ou diverses institutions culturelles, par exemple.
      la boite d’intérim est censé garantir l’appariement immédiat du salarié au poste, c’est sa fonction. et des critères subjectifs ("raciaux" par exemple, mais aussi d’âge, de présentation) président évidement à l’embauche, spécialement de qui est « au contact du client »

      intérim ou pas, dans le secteur, réaliser un chiffre d’affaire passe par le fait de produire une image. ça relève désormais y compris, pour les bars, de ce que certains nomment « direction artistique » (des prestataires vendent la définition de « concepts » : déco, type de produits, accessoires, éclairage, choix du personnel).

      ou bien, plus prosaïquement, de nombreux cafés tabac parisiens repris par des asiatiques, s’organisent sur une double logique entreprise familiale-communautaire (fiabilité assurée, verser des salaires) tout en prenant soin de s’adjoindre des collaborateurs qui soient suffisamment proches ("caucasiens", comme disent les flics yankee) d’une clientèle parisienne.
      pour assurer le chiffre ça bricole. aujourd’hui j’ai vu deux kabyles qui ont récemment repris un bar près du marché où je fais mes courses, sans employer personne. ils ont éprouvé le besoin d’afficher en terrasse un petit drapeau français...

      #donneur_d'ordre #patron (s) #placement #client #image #embauche

  • Les #LRA, zones de non-droit où sont enfermés des #sans-papiers

    Dans les locaux de rétention administrative, les droits des sans-papiers retenus sont réduits. Souvent sans avocats, ni même de téléphones, ils ne peuvent défendre leurs droits. Enquête dans l’angle mort de la rétention française.

    Commissariat de Choisy-le-Roi (94) – « Ce n’est pas le bon jour », répète le major Breny, en costume-cravate malgré la chaleur. Ce lundi 4 septembre 2023, l’atmosphère est glaciale quand la députée Ersilia Soudais (LFI) demande à visiter le local de #rétention_administrative (LRA) annexé au commissariat de Choisy-le-Roi. Méconnus du grand public, ces #lieux_d’enfermement sont destinés aux personnes étrangères et victimes d’une #décision_d’éloignement. Mais à la différence des #centres_de rétention_administrative (#Cra), elles y sont enfermées pour 48 heures au maximum. « Soit le Cra est plein, soit une décision est prise de les positionner temporairement en LRA », introduit le major.

    Le directeur du lieu commence par interdire aux journalistes les photos à l’intérieur. « Ici, nous sommes dans un #commissariat », lance-t-il. À plusieurs reprises, le major Breny nous renvoie vers une « disposition du Ceseda », le code de l’entrée et du séjour des étrangers. Laquelle ? « Regardez sur internet, je ne connais pas le Ceseda par cœur », s’agace-t-il. La disposition a beau être introuvable et l’interdiction illégale, le major n’en démord pas.

    Une #opacité qui concorde avec la situation nationale. En 2022, 27 LRA permanents existaient en France pour 154 places. Mais impossible de savoir combien de personnes y passent chaque année car l’administration ne communique aucun chiffre, au contraire des Cra. Entre ignorance des agents et méconnaissance des retenus au sujet de leurs droits qui y sont réduits, les LRA représentent un angle mort de la rétention. Une situation qui inquiète les associations, d’autant que les placements en LRA sont de plus en plus réguliers.

    Une ignorance du droit

    Le lendemain de la visite au LRA de Choisy-le-Roi, la députée Ersilia Soudais se rend au LRA de Nanterre (92). L’accueil est similaire. Après vingt minutes d’attente, le responsable commence par refuser l’accès aux journalistes. L’élue lui rappelle la procédure, ce qui ne le dissuade pas de vérifier auprès de ses supérieurs. Cinq minutes plus tard, il s’excuse :

    « On n’a jamais reçu de visite. »

    Ce LRA, situé au rez-de-chaussée de la préfecture, a été créé il y a moins d’un an, en novembre 2022. Selon les agents présents, il est principalement dédié à l’enfermement des personnes « dublinées », qui ont déjà demandé l’asile dans un autre pays de l’Union européenne. Il peut accueillir actuellement six personnes.

    À l’intérieur, l’agent tente à nouveau d’encadrer la visite. Il indique à Ersilia Soudais qu’elle ne peut pas discuter avec des retenus. Ce qui est encore une fois illégal. L’élue était en train d’échanger avec le seul prisonnier du LRA, un homme algérien. Débardeur blanc et cigarette à la bouche, il est enfermé depuis deux jours. Il demande un traducteur, mais la discussion est interrompue par la sous-préfète des Hauts-de-Seine, Sophie Guiroy Meunier, descendue de son bureau : « Vous êtes là dans quel cadre ? » À plusieurs reprises, la sous-préfète nous demande à quoi servent nos questions. « Mais vous écrivez un rapport ? » interroge-t-elle. Quarante minutes plus tard, la députée ressort sonnée de ces deux visites. « Ça me donne envie de me rendre dans d’autres LRA d’Île-de-France », déclare-t-elle en partant.

    Un accès juridique restreint en LRA

    À Nanterre, s’ils veulent appeler l’extérieur, les retenus doivent demander un portable aux agents. Or, le décret du 30 mai 2005 stipule qu’un LRA doit fournir une ligne téléphonique fixe en accès libre, parmi d’autres obligations, pour permettre aux retenus de contacter leurs avocats. Un policier balaye :

    « C’est plus simple comme cela. »

    La situation est représentative du #flou entretenu dans ces locaux, où l’accompagnement juridique n’est pas obligatoire, contrairement aux Cra. « Les personnes retenues ont un certain nombre de #droits. Mais, en pratique, elles n’ont pas d’informations suffisantes », affirme maître Berdugo, coprésident de l’Association pour le droit des étrangers (ADDE). À Choisy-le-Roi, les cinq retenus parlent très peu français et personne n’a l’air de connaître l’acronyme LRA.

    Celui de Choisy-le-Roi a rouvert en février 2022, après une fermeture décidée par une ordonnance administrative, « compte tenu du #traitement_inhumain_et_dégradant infligé aux personnes », a noté l’ADDE. Parmi les points noirs à l’époque : l’obligation de demander aux agents l’autorisation de se rendre aux toilettes. Désormais, des travaux ont été effectués. Trois douches et des WC sont en accès libres, « pour huit places contre douze auparavant », détaille le major Breny. Concernant les retenus, le directeur du LRA assure :

    « Ils sont tous contents. Dehors, c’est plus dur. Ici, on s’occupe d’eux. Ils n’ont pas exprimé un mal-être particulier. »

    Un manque d’information qui coûte cher

    « C’est notre première nuit ici, on espère ne pas être envoyés en centre de rétention. On est tranquille », avance Ahmed, originaire d’Algérie. Mais quand on aborde leur situation juridique, les hommes lèvent les yeux de leur téléphone – qu’ils ont ici le droit de conserver – et s’interrogent. Ali (1), torse nu à cause de la chaleur, demande des renseignements à la députée sur les démarches juridiques qu’il doit entreprendre. « Est-ce que vous avez un avocat ? » lui demande-t-elle. Il répond non de la tête. Idem pour ses camarades. Pourtant, le délai de recours d’une #obligation_de_quitter_le_territoire (#OQTF) est de 48 heures devant le tribunal administratif. D’où la nécessité d’agir vite pour tenter de la faire annuler. « Les retenus sont présentés quatre jours après devant le juge des libertés et de la détention (JLD) et il arrive qu’on apprenne qu’ils n’ont pas contesté l’OQTF », souligne maître Florian Bertaux, avocat au barreau du Val-de-Marne. Il renchérit :

    « Il n’y a pas de permanence au tribunal administratif dans notre département, donc pour faire un recours, il faut souvent déjà connaître un avocat. »

    Le recours est d’autant plus difficile à faire qu’aucun moyen de télécommunications n’est mis à leur disposition. Impossible donc d’envoyer un mail à son avocat. « Pour transmettre une décision, c’est très compliqué. Ils sont dépendants des services de police », continue maître Berdugo.

    Les retenus gaspillent parfois un temps précieux en essayant de joindre les mauvais interlocuteurs. Youssef (1), un père de famille défendu par maître Berdugo, a été placé au LRA de Nanterre fin août 2023. « En guise d’informations, on lui a donné une liasse sur laquelle il était indiqué qu’il pouvait être assisté par diverses associations, alors que c’était faux », raconte son conseil. Parmi les numéros écrits, celui de l’association la Cimade, qui n’intervient pourtant pas dans les LRA. En apprenant cela, Paul Chiron, chargé de soutien et des actions juridiques en rétention à la Cimade, s’étrangle :

    « C’est hallucinant. Nous refusons d’être dans les LRA car il n’y a pas de garanties suffisantes afin d’exercer nos missions. »

    Heureusement pour Youssef, il connaissait déjà maître Berdugo et avait une procédure en cours à la préfecture. Mais lors de sa comparution devant le JLD, les autres retenus du LRA altoséquanais n’ont pu faire de recours car les 48h de délais de contestation « étaient expirés ».

    Des LRA qui disparaissent du jour au lendemain

    Les avocats eux-mêmes ont du mal à suivre la situation des LRA. En juillet 2023, maître Berdugo et des confrères avaient tenté de faire fermer le LRA de Nanterre via un référé-liberté. « Lorsqu’on l’a préparé, on nous a indiqué qu’il n’y avait plus personne dans le LRA. Donc on a laissé tomber », raconte-t-il. Maître Berdugo continue :

    « La préfecture avait promis de ne plus saisir le juge, donc on pensait que le LRA ne fonctionnait plus. »

    Pour ne rien arranger, des #LRA_temporaires sont créés – en plus des permanents – par arrêtés préfectoraux lorsque des étrangers ne peuvent être placés tout de suite dans un Cra, en raison de circonstances particulières. « C’est très peu encadré », souffle Paul Chiron de la Cimade. Ces LRA sont hébergés dans des #hôtels, des #cités_administratives ou encore des #gendarmeries. StreetPress a contacté le directeur général de #Contacts_Hôtel, groupe auquel appartient le #Ashley_Hôtel qui a hébergé un LRA au Mans à partir de mars 2023. « L’hôtelier ne communique pas sur le sujet étant donné qu’il est soumis à une clause de confidentialité », a-t-il répondu. Parfois, les LRA ne durent qu’une seule nuit avant de disparaître et d’effacer le sort des personnes enfermées.

    Hors métropole, les LRA ont par exemple donné lieu à des « aberrations juridiques », d’après maître Flor Tercero, partie au mois d’avril à Mayotte. Elle assure que « les arrêtés de publication des LRA apparaissaient une fois qu’ils étaient fermés » et assène :

    « C’était l’omerta la plus totale. »

    Aucune donnée

    Ainsi, personne ne savait où se trouvaient les locaux de rétention ni combien de personnes y avaient été enfermées. « Dans certains LRA, les règlements intérieurs disaient qu’ils étaient faits pour douze personnes, mais dans les arrêtés de création des LRA, il y avait écrit quarante personnes. Une #surpopulation contestable. » Elle mentionne des familles qui tentaient de joindre leurs proches disparus et placés en LRA :

    « Elles ont appelé les centres de rétention, mais il n’y avait pas de numéro de téléphone dans les LRA. Elles les ont retrouvés ensuite plus tard aux Comores. »

    Ces dérives perdurent car les LRA ne sont que très peu contrôlés. « Nous sommes très peu saisis sur les LRA, et pour ceux qui sont temporaires, c’est souvent trop tard, ils ont fermé. Cette temporalité très brève rend nos visites compliquées », admet Dominique Simonnot, contrôleure générale des lieux de privation de liberté. En sept ans, le CGLPL n’a pu se rendre que dans quatre LRA :

    « Notre dernière visite remonte en 2021 à Tourcoing. »

    De son côté, la Cimade constate une « flambée » des LRA et estime qu’ils étaient auparavant « bien moins utilisés qu’aujourd’hui notamment avec l’usage détourné qui en est fait depuis les instructions de Gérald Darmanin. » En témoigne un extrait de la circulaire du 3 août 2022, qui a demandé que les capacités des LRA soient augmentées « d’au moins un tiers ». De quoi interroger le chargé de soutien de l’asso Paul Chiron :

    « Avec quatre Cra en Ile-de-France, la question des circonstances de temps et de lieu nécessaire à la création d’un LRA, peut difficilement s’entendre. »

    La Cimade craint également que les #locaux_de_rétention ne soient utilisés à l’avenir pour enfermer des familles en toute discrétion. « Le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin a affirmé qu’il ne voulait plus d’enfants dans les Cra, mais il n’a rien dit sur les LRA », rappelle Paul Chiron. Contacté, le ministère de l’Intérieur n’a pas été en mesure de fournir à StreetPress des données précises sur le nombre de personnes enfermées dans les LRA. Idem du côté de la préfecture de police. Quant à maître Berdugo, il a lancé un nouveau référé-liberté pour faire fermer le LRA de Nanterre. L’affaire passe ce 18 septembre 2023 devant le tribunal administratif de Cergy.

    (1) Les prénoms ont été modifiés.

    https://www.streetpress.com/sujet/1694682108-lra-non-droit-sans-papiers-etrangers-locaux-retention-admini

    #sans-papiers #France #migrations #enfermement

  • “Travailleurs de l’hôtellerie-restauration, il est temps de s’organiser”
    https://www.frustrationmagazine.fr/travailleurs-restauration

    Théo est salarié dans l’hôtellerie-restauration et il a répondu à notre appel à témoignage dans le cadre de notre enquête sur la “pénurie” de personnel dans le secteur. Nous publions avec son accord son texte, révoltant, puissant et mobilisateur. Nous adressons au passage toute notre sympathie et notre soutien aux travailleuses et travailleurs de la […]

    • Les rats !

      J’ai demandé à mes patrons une rupture conventionnelle car j’ai pour projet d’arrêter la restauration, de prendre du temps pour me reconvertir et que j’ai besoin de ce dispositif pour avoir le droit au chômage. Ils ont refusé au début en disant que casser un CDI coûtait trop cher et m’ont demandé de démissionner. Il n’était pas difficile d’aller sur un simulateur d’indemnisation de fin de contrat sur internet pour voir que je leur coûterais moins de 2000 euros. De la part de restaurateurs qui arrivent à mobiliser plusieurs centaines de milliers d’euros pour acheter leur restaurant, c’est surprenant et la pilule a été très dure à avaler. Je leur ai donc proposé de payer ma rupture. Ils m’ont fait un chèque correspondant au montant de l’indemnisation et je suis allé retirer en espèce le montant que je leur ai rendu…

  • RSA : ces départements qui permettent de cumuler l’allocation de la CAF avec un salaire
    https://www.mercipourlinfo.fr/actualites/aides-et-allocations/rsa-ces-departements-qui-permettent-de-cumuler-lallocation-de-la-caf-

    Un contrat permettant aux bénéficiaires du #RSA de cumuler le #salaire d’un #emploi_saisonnier avec leur allocation. C’est l’initiative mise en place depuis plusieurs années par une quinzaine de #départements à travers l’Hexagone. Chargés du versement du revenu de solidarité active (RSA), ces collectivités ont décidé d’adopter cette mesure afin de favoriser l’insertion professionnelle des #allocataires et de pallier le manque de travailleurs #saisonniers.

    Le Rhône et la Marne revendiquent ainsi depuis plus de dix ans l’usage de cet instrument pour faciliter le recrutement de saisonniers dans le secteur viticole. Depuis, le dispositif s’est élargi à une quinzaine de départements dont la Gironde qui l’adopté en 2019 ou l’Aude en 2020. D’autres, comme la Somme, la Charente-Maritime ont suivi ce système et l’ont adapté aux besoins de recrutement locaux, notamment dans le #tourisme et l’#hôtellerie. La Côte-d’Or, quant à elle, propose ce type de contrat pour les secteurs de l’#aide_à_la_personne, de la #logistique, du #bâtiment, ou encore l’#entretien_propreté.

    Quelles sont les conditions pour bénéficier du cumul RSA/salaire ?

    être bénéficiaire du RSA ;
    résider dans l’un des départements proposant ce dispositif.

    Concernant le contrat de travail en lui-même, celui-ci ne doit pas excéder 300 heures réparties sur une année civile (du 1er janvier au 31 décembre, que ce soit pour un contrat ou plusieurs). Il ne reste ensuite plus qu’à envoyer une demande auprès du Conseil départemental. Celui-ci exige quelques justificatifs (généralement un contrat de travail et les bulletins de salaires perçus lors du contrat).

    Le Département se charge ensuite de faire la déclaration auprès de la Caisse d’allocations familiales (#CAF) concernée. D’autres pièces peuvent être réclamées et la procédure varie selon le département concerné. Il est recommandé de consulter les démarches à effectuer sur les sites des conseils départementaux.

    Un instrument d’insertion à l’emploi qui tend à se généraliser

    La possibilité de pouvoir cumuler RSA et travail saisonnier est largement plébiscitée par les Conseils départementaux et les élus qui y ont recours. L’objectif est de favoriser l’insertion professionnelle et de pérenniser certains emplois dans des secteurs qui peinent à recruter. « On espère voir certains bénéficiaires poursuivre dans ce milieu professionnel et passer par des formations diplômantes », déclarait Sophie Piquemal, vice-présidente à l’urgence sociale au département de la Gironde et conseillère départementale du canton Landes des Graves, dans les colonnes du journal régional Sud-Ouest.

    Élisabeth Borne, elle aussi, est favorable à ce type de dispositif. La Première ministre a annoncé le 13 mai à BFMTV, vouloir étendre à l’île de la Réunion la possibilité pour les allocataires du RSA de bénéficier du cumul de la prestation avec un emploi saisonnier. « L’Idée est de favoriser le retour à l’emploi par tous les moyens », a-t-elle déclaré lors de cette conférence de presse.

    Le dispositif reste cependant assez méconnu de la population. Ainsi, le département de la Marne a enregistré pour l’année 2019 seulement 340 contrats RSA et saisonniers pour 18 000 allocataires. En Gironde, le bilan s’élève à 281 recrutements pour la période entre juillet 2022 et janvier 2023. Le département a néanmoins étendu le dispositif à l’année pour 140 allocataires du RSA « à la demande du milieu agricole », confirme Sophie Piquemal.

    300 heures, au pire, c’est 2400€ net par an à quoi peut éventuellement s’ajouter de tous petits bouts de prime d’activité...

    #travail #emploi #insertion #revenu #travailleurs_précaires

  • #Orientation des migrants en région : des retours du terrain « de plus en plus inquiétants », faute de places dans l’#hébergement_d’urgence

    Des opérateurs craignent que la politique de #désengorgement de l’#Ile-de-France, qui passe par la création de « #sas », des centres d’#accueil_temporaire, n’offre pas de #solution pérenne.

    Marie (son prénom a été modifié) est déjà repartie. Cette Angolaise est arrivée à Bordeaux aux alentours de la mi-juin, avec son garçon de 6 ans. Cela faisait trois ans qu’ils étaient logés dans un centre d’accueil pour demandeurs d’asile (#CADA) dans le 12e arrondissement de #Paris.

    Courant avril, les gestionnaires de l’établissement ont commencé, selon Marie, à expliquer à certains des occupants – ceux qui avaient été #déboutés de leur demande d’asile ou qui avaient obtenu leur statut de réfugié – qu’ils devaient quitter les lieux, laisser la place à des personnes en cours de procédure. Ils leur ont proposé d’aller en région, à Bordeaux et en banlieue rennaise, dans des #centres_d’accueil temporaires.

    Certains ont refusé. Marie, elle, a été « la dernière à [se] décider à partir », sous la « #pression ». On lui avait fait miroiter une scolarisation pour son fils – déjà en CP à Paris – et un hébergement. Elle a vite déchanté. « On a pris mes empreintes à la préfecture et donné un récépissé pour une demande de réexamen de ma demande d’asile alors que je ne souhaitais pas faire cela, explique-t-elle. Je n’ai pas d’éléments nouveaux à apporter et je risque une nouvelle OQTF [obligation de quitter le territoire français]. On m’a expliqué que sans ça, je n’aurais pas le droit à un logement et que le 115 [l’#hébergement_d’urgence] à Bordeaux, c’est pire qu’à Paris, qu’on nous trouve des hébergements pour deux jours seulement. » Marie n’a pas hésité longtemps. Revenue à Paris, elle « squatte » désormais chez une amie. La semaine, elle envoie son fils au centre de loisirs tandis qu’elle fait des ménages au noir dans un hôtel. Tous les jours, elle appelle le 115 pour obtenir un hébergement. En vain.

    Cet exemple symbolise les difficultés du gouvernement dans sa politique d’ouverture de « sas ». Ces #centres_d’accueil_temporaire, installés en province, sont censés héberger des migrants qui se trouvent à la rue, dans des #hôtels_sociaux, des #gymnases ou encore dans les centres réservés aux demandeurs d’asile qui sont en cours de procédure.

    Approche discrète

    Cette politique, commencée début avril pour désengorger l’Ile-de-France – dont les dispositifs sont exsangues et plus coûteux pour le budget de l’Etat –, se veut pourtant innovante. Dix « sas » de cinquante places chacun doivent à terme ouvrir, dans lesquels les personnes transitent trois semaines au plus, avant d’être basculées principalement vers de l’hébergement d’urgence généraliste ou, pour celles qui en relèvent, vers le #dispositif_d’accueil des demandeurs d’asile. Ces « sas » reposent sur le #volontariat et, pour susciter l’adhésion, sont censés « permettre d’accélérer le traitement des situations des personnes dont l’attente se prolonge en Ile-de-France sans perspective réelle à court et moyen termes », défend, dans un courriel adressé au Monde, le ministère du logement.

    C’est ce dernier qui pilote désormais la communication autour du dispositif. Au moment du lancement de celui-ci, c’est le ministère de l’intérieur qui en avait présenté les contours. Un changement d’affichage qui n’est pas anodin. Dans un contexte sensible, où plusieurs projets de centres d’accueil pour migrants en région ont suscité des manifestations hostiles, voire violentes de l’extrême droite, les pouvoirs publics optent pour une approche discrète.

    Dans les faits, d’après les premiers éléments remontés et portant sur plusieurs centaines de personnes orientées, « 80 % sont des réfugiés statutaires et des demandeurs d’asile », le restant étant constitué de personnes sans-papiers, rapporte Pascal Brice, président de la Fédération des acteurs de la solidarité (FAS), qui chapeaute quelque 870 structures de lutte contre l’exclusion, dont les opérateurs de ces « sas » régionaux. « C’est un travail auprès des #sans-abri, migrants ou pas, ce n’est pas le sujet », martèle-t-on néanmoins au cabinet d’Olivier Klein, le ministre délégué au logement.

    « On est en train de planter le dispositif »

    Une posture qui agace Pascal Brice. Il dresse un parallèle avec la situation qui a prévalu à Saint-Brevin (Loire-Atlantique), où le maire (divers droite), Yannick Morez, a démissionné en dénonçant l’absence de soutien de l’Etat. L’édile avait été victime de menaces de mort et son domicile incendié dans un contexte de déménagement d’un CADA. « Il faut se donner les moyens politiques de réussir ce dispositif, or l’Etat n’assume pas sa politique d’accueil organisé et maîtrisé. Il fait les choses en catimini », regrette M. Brice. Les remontées du terrain seraient, en outre, « de plus en plus inquiétantes », assure le président de la FAS.

    Adoma, l’opérateur d’un « sas » de cinquante places dans le 10e arrondissement de Marseille, considère que ce dernier « joue son rôle ». « Nous en sommes au troisième accueil de bus et ça fonctionne. Nous avons la garantie que les gens ne seront pas remis à la rue », rapporte Emilie Tapin, directrice d’hébergement pour #Adoma dans la cité phocéenne, où ont jusque-là été accueillis une majorité d’hommes afghans en demande d’asile. Mais ailleurs, le manque de places d’hébergement d’urgence vers lesquelles faire basculer les personnes après leur passage en « sas » se dresse comme un sérieux obstacle.

    « Notre 115 est saturé et on a déjà des #squats et des #campements », s’inquiète Floriane Varieras, adjointe à la maire écologiste de Strasbourg. Une commune voisine, Geispolsheim, accueille un « sas ». « Sans création de places nouvelles, la tension sur l’hébergement d’urgence est tellement forte qu’on craint que le schéma vertueux qui visait à éviter que les personnes ne reviennent en région parisienne ne craque », signale à son tour la directrice générale de France terre d’asile, Delphine Rouilleault, qui s’occupe d’un « sas » près d’Angers.

    Le ministère du logement assure que 3 600 places ont été « sanctuarisées dans le parc d’hébergement d’urgence pour faciliter la fluidité à la sortie des structures d’accueil temporaires ». Ce qui sous-entend que ces orientations se feront à moyens constants.

    « On est en train de planter le dispositif, alerte Pascal Brice. Des gens sont orientés vers le 115 depuis les “sas” et remis à la rue au bout de quarante-huit heures. C’est insoutenable. Je me suis rendu dans plusieurs régions et, partout, l’Etat ferme des places d’hébergement d’urgence. Si les conditions perduraient, la FAS devrait à son plus grand regret envisager un retrait de ce dispositif. »

    La province ? « Tu ne peux pas bosser là-bas »

    Outre la question de l’hébergement, le succès des « sas » devait s’appuyer sur la promesse faite aux personnes d’une étude bienveillante de leur situation administrative. Sans parler franchement de régularisation, le ministère de l’intérieur avait assuré au Monde, en mars, qu’il y aurait des réexamens au regard du #droit_au_séjour. « Il y a un travail de conviction qui n’est pas encore installé », considère à ce stade Mme Rouilleault.

    Le Monde a rencontré plusieurs familles ayant refusé une orientation en #province, à l’image de Hawa Diallo, une Malienne de 28 ans, mère de deux filles, dont une âgée de 10 ans et scolarisée dans le 15e arrondissement. « J’ai beaucoup de rendez-vous à Paris, à la préfecture, à la PMI [protection maternelle et infantile], à l’hôpital, justifie-t-elle. Et puis le papa n’a pas de papiers, mais il se débrouille à gauche, à droite avec des petits boulots. »

    La province ? « Pour ceux qui sont déboutés de l’asile, ça ne sert à rien. Quand tu n’as pas de papiers, tu ne peux pas bosser là-bas », croit à son tour Brahima Camara. A Paris, cet Ivoirien de 30 ans fait de la livraison à vélo pour la plate-forme #Deliveroo. « Je loue un compte à quelqu’un [qui a des papiers] pour 100 euros par semaine et j’en gagne 300 à 400. C’est chaud, mais c’est mieux que voler. » Sa compagne, Fatoumata Konaté, 28 ans, est enceinte de quatre mois. Les deux Ivoiriens n’ont jamais quitté la région parisienne depuis qu’ils sont arrivés en France, il y a respectivement quatre et deux ans. Ils ont, un temps, été hébergés par le 115 dans divers endroits de l’Essonne. Depuis un an, « on traîne à la rue », confie Fatoumata Konaté. « Parfois, on dort dans des squats, parfois on nous donne des tentes. »

    Chaque nuit, rien qu’à Paris, un millier de demandes auprès du 115 restent insatisfaites. Lasses, le 6 juillet, plus d’une centaine de personnes en famille originaires d’Afrique de l’Ouest ont investi deux accueils de jour de la capitale tenus par les associations Aurore et Emmaüs et y ont passé la nuit, faute de solution. « La situation devient intenable, prévient le directeur général d’Emmaüs Solidarité, Lotfi Ouanezar. On ne résoudra rien si on ne change pas de braquet. »

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/07/17/orientation-des-migrants-en-region-des-retours-du-terrain-de-plus-en-plus-in

    #migrations #asile #réfugiés #France #hébergement #SDF #dispersion

    via @karine4

  • Harcèlement sexuel, brûlures, insultes : les étudiants d’une célèbre école hôtelière en grève depuis trois semaines - La Libre
    https://www.lalibre.be/international/europe/2023/04/18/harcelement-sexuel-brulures-insultes-les-etudiants-dune-celebre-ecole-hoteli

    Harcèlement sexuel, propos homophobes, insultes : une promotion entière d’étudiants en management hôtelier de la célèbre école hôtelière Vatel est en grève depuis trois semaines, pour dénoncer « l’inaction de la direction » face au comportement de certains professeurs.

    Créé il y a 42 ans par Alain Sebban et son épouse, Vatel qui se présente comme le 1er groupe mondial de l’enseignement du management de l’hôtellerie avec 52 écoles dans 32 pays et un chiffre d’affaires de 90 millions d’euros, se targue de transmettre un « esprit Vatel » alliant « savoir-faire » et « savoir-être » à ses 42.000 diplômés, actifs dans le tourisme et l’hôtellerie.

    Mais depuis le 27 mars, la soixantaine d’élèves de troisième année de Bachelor de l’école parisienne sont en grève, refusant d’aller en cours de cuisine, pour dénoncer le comportement de certains professeurs du restaurant d’application ouvert au public, où ils apprennent les métiers de la cuisine et de la salle.

  • Waldorf Astoria Berlin: Der Chefconcierge zeigt uns das Luxushotel am Bahnhof Zoo
    https://www.berliner-zeitung.de/stil-individualitaet/waldorf-astoria-berlin-chefconcierge-christoph-hundehege-nimmt-uns-

    Ein Bericht über das Hotel, in dem man nicht aufs Klo darf - als Taxifahrer. Da haben sich Kollegen derart daneben benommen, dass die ganze Zunft Kloverbot hat

    Da.
    https://www.openstreetmap.org/node/3683945001

    9.4.2023 von Manuel Almeida Vergara - „Meet me at the clock“, sagt der New Yorker – und sein Gegenüber weiß sofort, was damit gemeint ist. Schließlich ist die mit bronzenen Relieffiguren dekorierte Standuhr im Waldorf Astoria, dem 1931 gegründeten Luxushotel, seit Jahrzehnten ein beliebter Treffpunkt. So beliebt, dass „meet me by the clock“ in New York zum geflügelten Wort geworden ist.

    „Wir treffen uns an der Uhr“ – diese Aufforderung kennt auch der Berliner, wenngleich sie ihn – ein bisschen weniger glamourös – nolens volens zur Weltzeituhr führt. Dabei hat auch Berlin seit genau zehn Jahren ein Waldorf Astoria. Und auch das Waldorf Astoria Berlin hat eine hübsche Standuhr in der Lobby.

    Christoph Hundehege plädiert ohnehin dafür, dass sich Berlinerinnen und Berliner öfter mal in das Fünf-Sterne-Hotel am Bahnhof Zoo verirren sollten. Und zwar nicht nur, um sich bei der Lobby-Uhr zu treffen: Vom Spa über die Bar bis zum Restaurant; von den weltberühmten „Eggs Benedict“ zum Frühstück über ein Stück „Red Velvet Cake“ am Nachmittag bis zum abendlichen Drink in der Hotelbar habe das Haus doch einiges zu bieten, das nicht nur Touristinnen und Touristen gefallen dürfte.

    Was in New York, London oder Paris ganz üblich ist – nämlich, auch als Einheimische die Vorzüge der besten Hotels der Stadt zu genießen – sollte sich bei uns genauso durchsetzen, findet Hundehege. Seit der Hoteleröffnung 2013 ist er Chefconcierge des Hauses, seit vergangenem Jahr außerdem Deutschland-Präsident von „Les Clefs d’Or“, einer renommierten weltweiten Concierge-Vereinigung.

    Wir treffen Christoph Hundehege im 30. Stock. Er wartet schon in einer großzügigen Ambassador-Suite auf uns, über der nur die noch großzügigere Präsidentensuite liegt. Und auch wenn sein Metier zur Verschwiegenheit verpflichtet: Ein paar Einblicke in seinen Berufsalltag will uns der Chefconcierge doch gewähren.

    Herr Hundehege, mir fällt gleich das goldene Emblem auf, das mir von Ihrem Revers entgegenfunkelt. Sieht ganz so aus, als seien Sie hochdekotiert – zumindest in Ihrem Berufsfeld.

    Das ist jedenfalls kein Militärabzeichen oder ein Sheriffstern. Wie der Name schon sagt, sind die goldenen Schlüssel das Symbol von „Les Clefs d’Or“, einer internationalen Vereinigung von Hotelconcierges. Weltweit haben wir fast 4000 Mitglieder, 200 davon arbeiten allein in Luxushäusern in Deutschland. Wir nutzen dieses Netzwerk gerne, weil wir unsere Gäste auf ihren Reisen begleiten wollen, auch über ihren Aufenthalt bei uns hinaus. Bevor sie in eine andere Stadt und ein anderes Hotel weiterziehen, telefonieren wir oft mit den Concierges dort, um sie schon mal über besondere Wünsche oder Vorlieben zu informieren. Das machen wir übrigens markenübergreifend.

    Da ruft dann also ein Concierge aus dem Waldorf Astoria Berlin beim Four Seasons in Miami oder Kempinski in Istanbul an, um die Leute dort auf ihre Gäste vorzubereiten?

    Sicher, wenn es doch dem Genuss unserer Gäste dient! Vielleicht gibt es beim nächsten Reiseziel ja ein tolles Restaurant, das schon mal reserviert werden soll, oder ein Konzert, für das es noch Karten braucht. Oder jemand hat eine Nussallergie, ist Pescetarier oder mag abends gern ein warmes Kirschkernkissen ans Bett. Jeder Hinweis hilft. Also arbeiten wir innerhalb dieser Concierge-Vereinigung wirklich eng zusammen.

    Was muss ein Concierge tun, um Mitglied bei „Les Clefs d’Or“ werden zu können?

    Theoretisch kann jeder und jede Concierge Teil unserer Vereinigung werden, wenngleich unsere Mitglieder vor allem in den Luxushäusern dieser Welt zu finden sind. Auf jeden Fall müssen sie schon eine bestimmte Anzahl an Jahren in diesem Beruf gearbeitet und auch mindestens zwei Paten innerhalb der Vereinigung haben, die für sie bürgen.

    Und was müsste man tun, um wieder rauszufliegen?

    Da gibt es bestimmt etwas. Wir haben ja ethische und moralische Vorsätze, an denen wir alle uns orientieren.

    Ich stelle mir gerade einen totalen Männerverein vor, ähnlich wie bei den traditionsreichen Butler-Vereinigungen Großbritanniens. Liege ich richtig?

    Überhaupt nicht! Ich kenne zwar den genauen prozentualen Anteil nicht, aber in der Hotellerie und Gastronomie sind ja ohnehin sehr viele Frauen tätig und so auch als Concierges. Das war sicherlich mal anders, auch, wenn wir nur ein oder zwei Dekaden zurückblicken. Aber das gleicht sich immer mehr aus, und das ist auch von unbedingter Wichtigkeit. Die Mischung macht’s, und so bin ich sehr froh, dass ich bei uns ein ganz ausgewogenes Team überblicke, das genau zur Hälfte aus Frauen und zur anderen aus Männern besteht.

    Eine Prämisse, der Sie sich als Chefconcierge des Waldorf Astoria Berlin und überdies als Präsident von „Les Clefs d’Or“ verschreiben, ist der Grundsatz der Verschwiegenheit. Dabei erleben Sie in ihrem Arbeitsalltag bestimmt einige kuriose Dinge. Fällt es Ihnen schwer, manchmal nicht doch aus dem Nähkästchen zu plaudern?

    Das fällt natürlich hin und wieder schwer. Ich würde lügen, wenn ich etwas anderes behauptete. Aber da muss ich – da müssen wir – uns eben kontrollieren, weil wir ja nicht selten mit hochrangigen und berühmten Gästen umgehen, denen wir eine Privatsphäre ermöglichen wollen. Also haben Details und Geschichtchen in Gesprächen außerhalb unseres Hauses nichts verloren.

    Glücklicherweise befinden wir uns ja gerade innerhalb Ihres Hauses, also versuche ich es einfach mal: Welche Begegnung mit einem Gast, welcher spezielle Wunsch ist Ihnen in zehn Jahren Waldorf Astoria Berlin besonders im Gedächtnis geblieben?

    Da gibt es wirklich viele Momente. Spontan muss ich an eine Situation denken, die sich im Rahmen des Champions-League-Finales zwischen Juventus Turin und FC Barcelona 2015 hier in Berlin abgespielt hat. Wir hatten einen Gast, der sich die ganze Woche auf dieses Finalspiel gefreut hatte. Zweieinhalb Stunden vor Anpfiff hatte er aber noch immer kein Ticket bekommen. Also stand er vor unserem Concierge-Desk mit der Bitte, ihm doch eines zu besorgen. Das war sicherlich ein Wunsch, der bei mir hängengeblieben ist, weil seine Erfüllung so schwierig war. Und um Ihre nächste Frage gleich vorwegzunehmen: Ja, wir konnten ihm sein Ticket besorgen, auch wenn das ein bisschen mehr Anstrengungen gekostet hat als eine einfache Restaurantreservierung.

    Dann also eine andere nächste Frage: Wen muss man anrufen, und was muss man sagen, wenn man zwei Stunden vor Anpfiff noch ein Ticket fürs Champions-League-Finale will?

    Da wären wir jetzt beim Nähkästchen, das ich lieber geschlossen halte. Wenn ich Ihnen jetzt erzählen würde, wie das funktioniert hat, dann könnte das ja am Ende jeder leisten.

    Steigen die Ansprüche eines Gastes parallel zu seiner Bedeutung? Oder anders: Kann sich eine berühmte Persönlichkeit bei Ihnen nochmal ganz andere Dinge wünschen als jemand gänzlich Unbekanntes?

    Wir haben grundsätzlich den Anspruch, jeden Gast gleich zu behandeln. Aber natürlich gibt es den einen oder die andere, die vielleicht ein paar mehr Anforderungen mit sich bringt. Wenn Sie zum Beispiel an einen Künstler denken, der gerade eine Welttournee macht und währenddessen in 100 Hotels übernachtet, dann tun wir gut daran, hier das gewünschte Umfeld zu schaffen, damit auf dieser Tour nichts ins Holpern gerät. Aber generell bemühen wir uns, niemanden seiner oder ihrer Popularität wegen zu bevorzugen.

    Ist das überhaupt möglich? Sie werden ja auch ganz persönliche Vorlieben haben, Stars, die Sie ganz toll finden und andere, mit denen Sie nichts anfangen können.

    Natürlich gibt es zum Beispiel Künstler, die ich persönlich musikalisch oder schauspielerisch besser finde als andere. Oder Staatsbesuche, auf die ich mich mehr freue als auf andere. Aber da muss ich eben ganz die professionelle Distanz wahren. Das wird von unserem Haus erwartet. Stellen Sie sich mal vor, ich würde einen Gast nach Karten für seine nächste Show, einem Autogramm oder einem Selfie fragen. Das wäre undenkbar! Und genauso undenkbar wäre es, dass ich einen Gast mit seinen Wünschen links liegen lasse, nur weil er nicht berühmt ist.

    Also darf ich Sie auch als ganz normaler Gast um Champions-League-Tickets bitten?

    Sicher, das dürfen Sie. Dafür sind wir letzten Endes da. Es muss ja auch nicht unbedingt das begehrte Fußballticket sein, es können auch Karten für ein Opernstück sein, für das Sie sich kurzfristig entschieden haben, oder einfach nur Tickets für den Zoo. Oder wir helfen Gästen dabei, sich ein Tagesticket von der BVG zu ziehen, einfach, weil sie das vorher noch nie gemacht haben. Alles ist möglich.

    Kommt es trotzdem mal vor, dass Sie Ihren Gästen sagen müssen: „Sorry, geht nicht“?

    Ich würde lügen, wenn ich sagte, es klappt immer alles völlig problemlos. Letzten Endes geht es darum, für den Gast gute Lösungen zu finden. Wenn es zum Beispiel in der Philharmonie spontan nicht mehr, wie gewünscht, fünf Plätze nebeneinander gibt, dann sorgen wir eben in Absprache mit dem Gast dafür, dass die Gruppe aufgeteilt wird und jeder einen guten Platz findet. Lösungen suchen und Lösungen finden – ich glaube, das beschreibt unsere Aufgabe als Concierges ganz gut.

    Interessant, dass Sie bis jetzt nur Beispiele außerhalb Ihres Hauses gewählt haben. Wünsche, die in der Oper, im Konzerthaus oder eben im Fußballstadion erfüllt werden sollen. Spannend wird es doch gerade dann, wenn jemand vor Ort zum Beispiel nicht mit seinem Zimmer einverstanden ist. Man hört ja gelegentlich von Stars, die etwa vorab ihre Suite neu streichen lassen, weil ihnen die Wandfarbe nicht gefällt. Oder sind das nur Hollywood-Mythen?

    Nein, das sind keine Fantastereien. So etwas gibt es. Wir haben durchaus Gäste, und das müssen gar keine Hollywoodstars sein, denen das ein oder andere Bild im Hotelzimmer nicht gefällt. Natürlich machen wir auch das dann möglich und tauschen die Kunst aus. Oder es gibt Gäste, die ihr Schlafzimmer durchgehend abgedunkelt haben wollen, sodass kein Tageslicht reinkommt. Auch das machen wir möglich. Wir versuchen, dem Ganzen keine Grenzen zu setzen.

    Klingt so, als sei Geduld Ihre wichtigste Eigenschaft. Was muss man noch mitbringen, um Ihren Job machen zu können?

    Geduld ist ganz wichtig, das stimmt. Außerdem würde ich sagen, man muss ein übergeordnetes Interesse an vielerlei Dingen mitbringen. Wir wollen unseren Gästen Empfehlungen authentisch geben können, müssen also wissen, wie es in bestimmten Restaurants so schmeckt, welcher Gang besonders zu empfehlen ist. Oder in welchen Galerien und Museen, aber auch in welchen Kiezen es gerade besonders spannend ist. Und weil sich unsere Stadt und ihre Stadtteile ja rasend schnell verändern, gehören zu meinem Beruf auch große Investitionen an privater Zeit. Wir wollen und müssen immer auf dem Laufenden sein. Man kennt das ja aus dem Privaten: Wenn Freunde Sie nach einem Restaurant fragen, dann ist es immer besonders schön, wenn Sie ganz authentisch davon erzählen können, weil Sie selbst schon mal da waren.

    Wenn wir über die Veränderungen in unserer Stadt sprechen, muss ich gleich an die Neuentwicklung der City West denken. An den Wunsch, aus der Gegend um den Bahnhof Zoo, wo 2013 auch das Waldorf Astoria eröffnet hat, eine elegante, mondäne Innenstadtlage zu machen. Spielt Ihr Haus bei diesem Vorhaben eine wichtige Rolle?

    Ja, das glaube ich durchaus. Ich würde jetzt nicht so weit gehen zu sagen, dass die Eröffnung des Waldorf Astoria Berlin der Schlüssel dazu war, die City West auf diese Weise zu entwickeln. Aber ich würde schon sagen, dass auch unsere Eröffnung dazu geführt hat, dass viele luxuriöse Boutiquen auf den Kurfürstendamm zurückgekommen sind und auch andere entsprechende Bauvorhaben umgesetzt wurden.

    Also passt Waldorf Astoria als Marke zu Berlin? Es gibt in der Stadt sicherlich einige Menschen, die das anders sehen.

    Berlin muss sich meines Erachtens vor keiner Metropole der Welt verstecken. Ganz im Gegenteil. Wenn ein Waldorf Astoria nach New York oder Amsterdam oder London passt, warum soll es nicht auch nach Berlin passen? Es gehört zu jeder Metropole dazu, dass auch diese Art von Hotellerie betrieben wird. Und die Nachfrage bestärkt uns ja darin. Luxus-Sternehotels funktionieren – auch in Berlin.

    Ist es also an der Zeit, dass wir uns endlich von Wowereits Motto „arm, aber sexy“ verabschieden?

    Ich glaube, dieser Satz hat in eine gewisse Zeit gepasst. Aber mittlerweile passt er nicht mehr. Wenn Sie sich nur mal anschauen, wie viele erstklassige Restaurants in den vergangenen Jahren und Monaten eröffnet haben! Wenn Sie sich vornehmen würden, jedes dieser Restaurants zu testen, dann wären Sie in zwei Jahren noch nicht damit durch. Dass solche Restaurants und eben Hotels wie unseres in Berlin so gut funktionieren, spricht doch dafür, dass die Klientel da ist.

    Nur empfangen Sie in Ihrem Haus ja eher Gäste von außerhalb und eben nicht die Berlinerinnen und Berliner, die vielleicht nach wie vor sexy und arm sind.

    Das ist nicht richtig. Uns besuchen auch viele Menschen, die in Berlin leben. Auch wenn das noch nicht in dem Maße geschieht, wie wir uns das wünschen würden. Das ist vielleicht tatsächlich etwas, das sich in Berlin noch nicht so durchgesetzt hat wie etwa in London oder New York: Dort ist es ganz normal, sich abends auch mal in einer Hotelbar oder einem Hotelrestaurant zu treffen, oder das Spa dort zu nutzen. Diese Hemmschwelle, die es in Berlin offenbar immer noch gibt – nämlich an den freundlichen Doormen vorbei in ein Fünf-Sterne-Hotel zu spazieren und die dortigen Angebote zu nutzen – existiert dort nicht. Aber es gibt auch hier in unserem Hotel viele schöne Dinge, die auch Berlinerinnen und Berliner erleben können. Sei es der High Tea in unserer Library im 15. Stock – für mich übrigens der schönste Ort im ganzen Hotel –, ein Tag im Guerlain-Spa oder eine Veranstaltung wie „Champaign & Eggs“ unten im Roca Restaurant.

    Gut gemachte Eier spielen im Waldorf Astoria tatsächlich eine übergeordnete Rolle. Im New Yorker Stammhaus wurden „Eggs Benedict“ erfunden, ein Frühstücksklassiker, der mittlerweile überall auf der Welt gegessen wird. Genau wie der „Red Velvet Cake“, der ebenso im Waldorf Astoria New York erfunden wurde. Hinzu kommen viele weitere, teils dramatische Geschichten, die mit dem Hotel verbunden sind. Etwa jene des Gründers John Jacob Astor IV, der 1912 beim Untergang der Titanic ums Leben gekommen war. In Ihrem Haus erinnert daran zum Beispiel ein Treppengeländer, dessen Metalldetails der Partitur des Liedes entsprechen, das als letztes auf dem sinkenden Schiff gespielt wurde. Prägt diese reiche, turbulente Markengeschichte Waldorf Astorias Sie in Ihrer täglichen Arbeit?

    Ja, das tut sie. Und das muss sie auch. Alle Häuser, die weltweit zum Portfolio von Waldorf Astoria gehören, müssen das in ihrer DNA tragen und auch zeigen. Die Erwartungen, mit denen Gäste zu uns kommen, sind gerade durch das New Yorker Mutterhaus und seine lange, intensive Geschichte sehr groß. Also muss jede Mitarbeiterin und jeder Mitarbeiter in unserem Haus dazu bereit sein, diese Geschichte weiterzuschreiben. Und ähnlich, wie ich das eben in Bezug auf Berliner Restaurants gesagt habe – nämlich, dass es auf ein authentisches Erzählen aus dem eigenen Erleben heraus ankommt – trifft das auch auf unser Hotel zu. Ich empfehle unseren Kolleginnen und Kollegen immer, wenn sie mal in Amsterdam, Shanghai oder eben New York sind, auch das Waldorf Astoria dort anzuschauen. Einfach, um unsere Marke möglichst gut zu kennen und kommunizieren zu können.

    Spielt diese Geschichte der Marke auch für Ihre Gäste eine Rolle?

    Auch das. Zudem verbinden viele Gäste ganz eigene, private Geschichten mit Waldorf Astoria. In der Tat haben wir eine sehr große amerikanische Gästeklientel, und es gibt viele, für die unser Name mit Erinnerungen verknüpft ist. Gerade vergangene Woche hatten wir hier noch ein Paar zu Gast, das seinen 50. Hochzeitstag bei uns in Berlin, aber seinen 10. Hochzeitstag schon im Waldorf Astoria in New York gefeiert hatte. Solche Gäste haben noch das, was sie früher in einem unserer Hotels erlebt haben, vor Augen, und kommen mit dieser Erwartungshaltung zu uns. Dafür, dass wir sie dann nicht enttäuschen müssen, arbeiten wir jeden Tag.

    Könnten Sie sich überhaupt vorstellen, für ein Hotel zu arbeiten, das nicht auf diesem Niveau angesiedelt ist?

    Ich persönlich könnte mir das nicht vorstellen, nein. Und ich hoffe, das ist auch bei allen meinen Kolleginnen und Kollegen so. Letztlich soll es doch das sein, wofür wir tagtäglich hierherkommen: Die Erwartungen unserer Gäste nicht nur zu erfüllen, sondern sie zu übertreffen. Den besten Service zu bieten, ein Auge fürs noch so kleinste Detail beweisen. Ich finde es unheimlich spannend, dass hier kein Tag dem anderen gleicht. Und dass ich auch nach zehn Jahren Waldorf Astoria Berlin noch von Gästen, ihren Wünschen und den damit einhergehenden Herausforderungen überrascht werde.

    Waldorf Astoria New York

    Das Waldorf Astoria New York, ein im Stile des Art déco entworfenes Wahrzeichen der Stadt, wurde im Jahr 1931 fertiggestellt. Es war aus dem Zusammenschluss zweier Hotels hervorgegangen; eines hatte dem Inverstor William Waldorf Astor, das andere dem Geschäftsmann John Jacob Astor IV gehört. Über die Jahre wurde Waldorf Astoria zu einer der renommiertesten Hotelmarken der Welt, die heute zur Hilton-Gruppe gehört und weltweit Dependancen unterhält.

    #Berlin #Charlottenburg #Hardenbergstraße #Hotel #Gastronomie #Arbeit #Luxus

  • Berlin : le plus gros aquarium cylindrique du monde explose au milieu d’un hôtel, au moins 2 blessés
    https://www.bfmtv.com/international/europe/allemagne/berlin-le-plus-gros-aquarium-cylindrique-du-monde-explose-au-milieu-d-un-hote

    Haut de 25 mètres, l’"AquaDom" du Radisson Collection Hotel s’est fissuré, dans la nuit de jeudi à vendredi, dans le centre de la capitale allemande, déversant près d’un million de litres d’eau. Aucun des 1500 poissons tropicaux n’a survécu.

    Installer un aquarium de 1000 tonnes au centre d’un hôtel, franchement, qui aurait pu croire que ça se finirait mal ?

  • Que prévoit la #France pour les 230 migrants de l’#Ocean_Viking ?

    Les migrants arrivés vendredi à #Toulon font l’objet d’un suivi sanitaire, et de contrôles de sécurité, avant d’être entendus par l’#Ofpra dans le cadre d’une #procédure_d’asile à la frontière. Pendant tout ce temps, ils sont maintenus dans une « #zone_d'attente ». Des associations dénoncent ces conditions d’accueil.

    Si les 230 migrants sauvés par l’Ocean Viking ont bien débarqué en France, vendredi 11 novembre, dans le port de Toulon (http://www.infomigrants.net/fr/post/44677/locean-viking-et-ses-230-migrants-accostent-a-toulon-en-france), ils ne se trouvent « pas techniquement sur le sol français », comme l’a indiqué le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin.

    En effet, les autorités françaises ont choisi de les placer dans une « zone d’attente », définie jeudi soir dans la zone portuaire de Toulon et sur un #centre_de_vacances de la #presqu’île de #Giens à #Hyères, où les exilés sont hébergés pour l’occasion. Un « #centre_administratif » dont ils n’ont pas le droit de sortir.

    Le maintien des personnes dans ce lieu peut durer 26 jours au maximum d’après la loi française.

    « Un système d’#enfermement de #privation_de_liberté et non d’accueil »

    Un dispositif dénoncé par plusieurs associations, dont l’Anafé qui défend les étrangers aux frontières. Interrogée par InfoMigrants, sa directrice Laure Palun souligne que c’est « un système d’enfermement de privation de liberté et non d’accueil, qui pose question quant aux conséquences sur des personnes vulnérables ».

    Gérad Sadik, responsable national de l’asile à La Cimade, estime, quant à lui, que cette #zone_temporaire est « illégale » car ce dispositif est normalement réservé aux espaces situés sur une frontière, dans les aéroports par exemple.

    Une centaine de « #Zones_d'attente_pour_personnes_en_instance » (#ZAPI) existe actuellement en France. Plusieurs associations dont l’Anafé, la Cimade et la Croix-Rouge interviennent dans ces lieux où patientent les étrangers qui ne sont pas autorisés à entrer sur le territoire, pour leur porter une assistance juridique, sanitaire et sociale.

    Mais, concernant les migrants de l’Ocean Viking, la Cimade s’inquiète de ne pas avoir accès aux personnes retenues dans la zone d’attente. Gérard Sadik affirme que l’entrée leur a été refusée. Il alerte également sur le fait que les mineurs non accompagnés ne doivent pas être placés dans ces zones d’attente, or 42 jeunes dans ce cas se trouvaient à bord de l’Ocean Viking selon SOS Méditerranée.

    Dans cette zone d’attente, les migrants feront l’objet d’un suivi sanitaire, puis de contrôles de sécurité des services de renseignement, avant d’être entendus par l’Office français de protection des réfugiés (Ofpra), qui examine les demandes d’asile et décide ou non d’attribuer le statut de réfugié.

    Procédure d’asile à la frontière comme dans les #aéroports

    La France, qui veut décider « très rapidement » du sort des migrants de l’Ocean Viking, a choisi d’appliquer la procédure d’asile à la frontière.

    Habituellement une demande d’asile française est d’abord enregistrée en préfecture, déposée auprès de l’Ofpra sous forme de dossier puis s’ensuit une convocation à un entretien, et entre trois à six mois mois d’attente avant la réponse.

    Mais dans le cas des migrants de l’Ocean Viking, l’Etat a choisi d’appliquer une #procédure_exceptionnelle qui prévoit qu’un agent de la mission asile frontière de l’Ofpra mène un entretien avec ces personnes dans un délai de 48 heures ouvrées afin d’évaluer si la demande d’asile n’est pas « #manifestement_infondée ».

    Cela peut poser problème, car cette notion floue et présentée sous une forme alambiquée laisse un large champ aux autorités françaises pour refuser l’entrée d’une personne, soulèvent les associations d’aide aux migrants.

    « En théorie, l’examen du caractère manifestement infondé ou non d’une demande d’asile ne devrait consister à vérifier que de façon sommaire si les motifs invoqués par le demandeur correspondent à un besoin de protection », soulignait l’Anafé, interrogée par InfoMigrants début novembre sur cette même procédure très régulièrement appliquée sur l’île de La Réunion. « Il ne devrait s’agir que d’un examen superficiel, et non d’un examen au fond, de la demande d’asile, visant à écarter les personnes qui souhaiteraient venir en France pour un autre motif (tourisme, travail, étude, regroupement familial, etc.) en s’affranchissant de la procédure de délivrance des visas », précisait l’association.

    Difficile donc pour des migrants tout juste arrivés après plusieurs semaines d’errance en mer, et parfois la perte de leurs papiers d’identité lors des naufrages, de prouver le fondement de leur demande lors d’un entretien de quelques minutes. D’autres considérations rentrent aussi en ligne de compte lors de ce type d’entretiens, notamment la langue parlée, et la qualité de la traduction effectuée par l’interprète de l’Ofpra.

    Pour accélérer encore un peu plus la procédure, « l’Ofpra a prévu de mobiliser dès ce week-end seize agents pouvant réaliser jusqu’à 90 entretiens par jour », a insisté vendredi le directeur général des étrangers (DGEF) au ministère de l’Intérieur, Eric Jalon.

    Après avoir mené ces entretiens, l’Ofpra donne un avis au ministère de l’Intérieur qui autorise ou non les migrants interrogés à déposer leur demande d’asile. Dans la plupart des cas, les personnes soumises à ce type de procédure échouent avec un taux de refoulement de 60%, indique l’Anafé.

    « Doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement »

    « Pour les personnes dont la demande d’asile serait manifestement infondée, qui présenteraient un risque sécuritaire, nous mettrons en œuvre (...) les procédures d’#éloignement pour qu’elles regagnent leur pays d’origine », a prévenu Eric Jalon. Le ministère de l’Intérieur affirme également que des contacts ont déjà été pris avec les pays d’origine de ces rescapés.

    D’après les informations dont dispose InfoMigrants, les rescapés de l’Ocean Viking sont majoritairement originaires du Bangladesh, d’Érythrée et de Syrie, mais aussi d’Égypte, du Pakistan et du Mali notamment.

    « Nous avons des doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement », fait savoir Laure Palun, « car il faut que la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer.

    Deux-tiers des personnes ne resteront de toute façon pas en France, puisqu’elles seront relocalisées dans neuf pays, a précisé le ministère, citant l’#Allemagne qui doit en accueillir environ 80, le #Luxembourg, la #Bulgarie, la #Roumanie, la #Croatie, la #Lituanie, #Malte, le #Portugal et l’#Irlande.

    Si une personne se voit refuser l’entrée sur le territoire par le ministère de l’Intérieur, un recours juridique est possible. Il s’agit du recours contre le refus d’admission sur le territoire au titre de l’asile à déposer dans un délai de 48 heures à compter de la notification de la décision de refus prise par le ministère de l’Intérieur, explique la Cimade.

    http://www.infomigrants.net/fr/post/44696/que-prevoit-la-france-pour-les-230-migrants-de-locean-viking
    #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Italie #ports #ports_fermés #frontières #relocalisation #renvois #expulsions

    ping @isskein @karine4 @_kg_

    –—

    ajouté à la métaliste autour de la création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

    • À peine débarqués, les rescapés de l’« Ocean Viking » sont privés de liberté

      C’est sous #escorte_militaire que le navire de #SOS_Méditerranée a pu s’amarrer à Toulon. Les migrants, dont des enfants, ont été transférés dans une « zone d’attente », soit un lieu de privation de liberté. Un député LFI, qui a pu y entrer, a vu « des humains au bord du gouffre ».

      Deux places, deux ambiances pour l’arrivée du bateau de SOS Méditerranée, vendredi, à Toulon. Sur le quai Cronstadt, en fin de matinée, une centaine de personnes se sont rassemblées pour affirmer un message de bienvenue aux 230 exilé·es secouru·es par l’Ocean Viking. Les slogans, cependant, n’ont pas pu être entendus des concerné·es, puisque le gouvernement a organisé leur réception au port militaire, loin des regards, y compris de ceux de la presse.

      Deux heures plus tard, quelques dizaines de soutiens d’Éric Zemmour ont tenu le pavé devant l’entrée de l’arsenal, tandis que leur chef déclamait un énième discours xénophobe devant un mur de caméras. Outre #Marion_Maréchal-Le Pen, il était accompagné d’anciens de #Génération_identitaire, dont l’Aixois #Jérémie_Piano, récemment condamné à huit mois de prison avec sursis pour des faits de violence au siège de SOS Méditerranée en 2018.

      Jeudi, Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur, avait annoncé l’autorisation donnée à l’Ocean Viking de débarquer à Toulon, après trois semaines d’errance en mer dans l’attente d’un port sûr que lui ont refusé Malte et l’Italie. Le navire et ses 230 passagers et passagères, dont 13 enfants accompagnés et 44 mineur·es sans famille, s’est amarré à 8 h 50 ce vendredi. Son entrée en rade de Toulon s’est faite sous escorte de plusieurs bateaux militaires et d’un hélicoptère. Puis les personnes ont été acheminées dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, transformé en « zone d’attente » provisoire. Autrement dit : aux yeux de l’administration, les rescapé·es de l’Ocean Viking ne sont pas entré·es sur le territoire français.

      Des bus sont chargés de les conduire « sous #escorte_policière jusqu’au site d’hébergement situé sur la commune d’Hyères », a précisé le préfet du Var, Evence Richard à l’occasion d’une conférence de presse. Les personnes y seront privées de leur liberté, le temps de l’évaluation de leur situation, et sous la #garde_policière de quelque 200 agents.

      Des centaines de policiers

      Le représentant de l’État annonce d’importants moyens mis en place par ses services pour répondre à un triptyque : « #dignité_humanitaire ; #sécurité ; #rigueur et #fermeté ». 600 personnes en tout, forces de l’ordre comprises, vont se consacrer à cet « accueil » prévu pour un maximum de 26 jours. La prise en charge médicale est assurée par les services des pompiers et du Samu.

      D’un point de vue administratif, le ministère veut d’abord « évaluer les #risques_sécuritaires », via des entretiens menés par la direction générale de la sécurité intérieure (DGSI), selon les mots d’Éric Jalon, directeur général des étrangers en France, présent au côté du préfet. La mise en avant de cet aspect est un gage donné par Gérald Darmanin à l’extrême droite.

      Ensuite, si les personnes demandent l’asile et rentrent dans les critères, elles pourront, pour un tiers seulement des adultes, rester en France ou bien être « relocalisées », selon le jargon administratif, dans au moins neuf autres pays européens : Allemagne, Luxembourg, Bulgarie, Roumanie, Croatie, Lituanie, Malte, Portugal et Irlande.

      Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), l’instance dépendant du ministère de l’intérieur chargée d’attribuer ou non le statut de réfugié, évalueront les situations « sous 48 heures », insistent les hauts fonctionnaires. Une procédure express réservée aux « zones d’attente », ces sites habituellement installés dans les aéroports, les ports ou à des postes-frontières, régulièrement dénoncés par des associations comme des lieux où les droits de certains étrangers et étrangères sont bafoués.

      Si les personnes ne demandent pas l’asile, si l’Ofpra rejette leur demande ou si elles sont considérées comme présentant un risque pour la sécurité, le ministère de l’intérieur s’efforcera de les renvoyer dans leur pays d’origine. « Des contacts ont d’ores et déjà été pris avec les pays vers lesquels les personnes ont vocation à retourner », affirme Éric Jalon.

      Les 44 mineur·es non accompagné·es déclaré·es par SOS Méditerranée, pour leur part, verront leur situation évaluée par les services de l’Aide sociale à l’enfance du Var. Si celle-ci ne met pas en cause leur minorité, ils pourront quitter la zone d’attente et être sous la protection du département, comme la loi l’impose.

      Des parlementaires interdits d’accès au quai

      Venue à Toulon pour observer, Laure Palun, de l’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers), organisation active pour défendre les droits des étrangers et étrangères en zones d’attente, critique la méthode. « Il n’y a pas assez d’agents de l’Ofpra formés aux demandes d’asile formulées à la frontière. Il risque d’y avoir plein d’erreurs, dit-elle. Et puis, pour des gens qui ont failli se noyer, qui sont restés autant de temps sur ce bateau, comment pourront-ils être opérationnels dès demain pour faire un récit de vie qui va être crédible aux yeux des autorités françaises ? »

      Sur le plan humain, « enfermer ces personnes, c’est rajouter une couche de #violence à ce qu’elles ont déjà vécu. La zone d’attente n’est pas un lieu qui permet d’aborder sereinement l’asile. Je ne suis pas certaine qu’il y aura une prise en charge psychologique », juge la responsable associative. Dans de nombreuses zones d’attente temporaire habituellement mises en place dans les départements d’outre-mer, l’association a observé que l’information sur la demande d’asile n’est pas toujours donnée aux individus. « C’est une obligation d’informer les étrangers de leurs droits », assure pour sa part Éric Jalon.

      Des rescapés harassés, pieds nus, sans pantalon

      L’opération du gouvernement interpelle aussi par le secret qu’elle s’évertue à organiser. En dehors des agents de l’État, personne n’a eu accès à l’arsenal vendredi, une zone militaire, donc confidentielle. Le député de Marseille Sébastien Delogu (La France insoumise – LFI) s’est vu refuser l’accès à l’Ocean Viking, alors que la loi autorise n’importe quel parlementaire à visiter une zone d’attente à l’improviste, et que celle créée dans le village vacances englobe « l’emprise de la base navale de Toulon », d’après l’arrêté publié vendredi par le préfet.

      Le gouvernement prétend faire primer, semble-t-il, le secret défense. « Moi je ne viens pas pour faire du théâtre comme l’extrême droite, je veux exercer mon droit de parlementaire, s’agace le député insoumis. J’ai aussi été élu pour ça. Sinon, qui a un droit de regard ? » Son collègue Hendrik Davi (LFI) a également été repoussé.

      Plus tard, Sébastien Delogu a pu, tout de même, se rendre au village vacances et « constater toute la souffrance et la détresse physique et mentale dans laquelle se trouvent les rescapés ». « Ces jeunes hommes et femmes sont épuisés, parfois pieds nus ou sans pantalon, harassés par ce périple durant lequel ils ont tout quitté et risqué leur vie. Je n’ai vu que des humains au bord du gouffre, a-t-il précisé, à la sortie, dans un communiqué. Nous ne céderons pas un centimètre d’espace politique aux fascistes qui instrumentalisent ces drames pour propager la haine et la xénophobie. »

      Entre soulagement et amertume, les responsables de SOS Méditerranée ont quant à eux fustigé vendredi des blocus de plus en plus longs imposés à leur navire, au détriment de la sécurité physique et psychologique des naufragé·es recueilli·es à bord. Comme elle le fait depuis sept ans, l’ONG a appelé à la (re)constitution d’une flotte européenne pour faire du sauvetage en Méditerranée centrale et à la mise en place d’un processus de solidarité entre États européens pour la répartition des personnes secourues, qui respecte le droit maritime (soit un débarquement dans le port sûr le plus proche).

      Les finances de l’association étant en baisse à cause de l’explosion des coûts due à l’inflation et à la diminution des dons reçus, elle a relancé un appel aux soutiens. « Dans l’état actuel de nos finances, on ne peut continuer encore que quelques mois, précise sa directrice Sophie Beau. Depuis le premier jour, SOS Méditerranée est essentiellement soutenu par la société civile. » Si quelques collectivités complètent le budget par des subventions, l’État français, lui, ne verse évidemment pas un centime.

      « C’est essentiel qu’on retourne en mer, déclare Xavier Lauth, directeur des opérations de SOS Méditerranée. Parce qu’il y a eu déjà au mois 1 300 morts depuis le début de l’année [en Méditerranée centrale, face à la Libye – ndlr]. » Le décompte de l’Organisation internationale pour les migrations (liée à l’ONU) a précisément dénombré 1 912 personnes disparues en Méditerranée depuis le début de l’année, que les embarcations aient visé l’Italie, la Grèce ou encore l’Espagne. Et depuis 2014, plus de 25 000.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/111122/peine-debarques-les-rescapes-de-l-ocean-viking-sont-prives-de-liberte

    • Le jour où la France n’a pas (vraiment) accueilli l’Océan Viking…

      Après trois semaines à errer, sans qu’on lui assigne de port où débarquer les 234 rescapés secourus en mer, l’Océan Viking, de Sos-Méditerranée, a enfin accosté à Toulon. Entre soulagement et indignation, les associations dénoncent l’instrumentalisation politique de cette crise et les défaillances des États membres de l’Union Européenne.

      « Le sauvetage que nous avons débuté le 22 octobre n’est toujours pas terminé », c’est en substance ce qu’explique Louise Guillaumat, directrice adjointe des opérations de SOS-Méditerranée, lors de la conférence de presse tenue, le vendredi 11 novembre à midi. À cette heure, plus de la moitié des rescapés tirés des eaux par l’ONG, trois semaines auparavant, sont toujours à bord de l’Océan Viking, qui a accosté le matin même, sur le quai de l’artillerie de la base navale varoise.

      Au soleil levant, sur le quai Cronstadt, au pied du « cul-vers-ville », une statue évoquant le génie de la navigation, les caméras de télévision se sont frayé une place parmi les pêcheurs matinaux. Il est 7 h 00, le bateau de Sos-méditerranée est à moins de six miles marins des côtes toulonnaises. Il accoste deux heures plus tard. Pourtant, les 231 exilés à son bord ne sont pas accueillis par la France.
      44 enfants isolés

      « Les passagers ont été placés en zone d’attente. Ils n’ont pas été autorisés à entrer sur le territoire national. » explique Éric Jalon, préfet, et directeur général des étrangers en France (DGEF). Le port militaire et le centre où vont être hébergés les exilés ont été, par décret, définis, la veille, comme « zone d’attente provisoire » gérée par la Police des airs et des frontières (PAF). « Des évaluations de leur état de santé sont faites dès leur descente du navire », promet le préfet.

      Après quoi, ils sont conduits en bus dans un centre de vacances, mis à disposition par la Caisse centrale d’activités sociales (CCAS) des agents des industries électriques et gazières en France, en solidarité avec les personnes réfugiées. Une fois là-bas, ces dernières, parmi lesquelles 44 mineurs isolés, doivent pouvoir formuler une demande d’asile en procédure accélérée.

      « Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) ont été détachés sur place pour y mener des entretiens », poursuit le DGEF. Ceux pour qui la demande d’asile sera jugée « irrecevable et manifestement infondée » feront l’objet de reconduites dans leur pays d’origine. Ce n’est qu’après cette procédure, pouvant durer jusqu’à 26 jours, que les autres pourront alors prétendre à demander l’asile en France ou dans un des neuf pays de l’union européenne s’étant déclaré prêt à en accueillir une partie.
      Une façon de détourner le règlement de Dublin

      « Ce n’est pas ce que prévoit le droit dans l’état », pointe Laure Palun, la directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), présente au rassemblement organisé sur le port, en milieu de matinée, par les associations, syndicats et partis solidaires des exilés. « Les demandeurs d’asile doivent normalement être accueillis sur le territoire d’un État avant leur relocalisation. » explique-t-elle.

      Le choix fait par la France est une façon de détourner le règlement de Dublin qui prévoit qu’une demande d’asile ne puisse être étudiée que par le pays de première entrée du candidat. Et ce n’est pas la seule entorse à la loi que revêt le dispositif « exceptionnel » mise en place par Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur. « Ce matin, on nous a refusé l’entrée dans la zone d’attente alors que nous sommes une des associations agréées pour y accéder en tant qu’observateur », dénonce ainsi la responsable associative. La loi prévoit, d’ailleurs, dans le même cadre un libre accès aux parlementaires. Le député LFI de la 7e circonscription de Marseille, Sébastien Delogu, s’est porté volontaire ce matin. Mais « le cabinet de Sébastien Lecornu, ministre des armées, nous interdit l’accès au port », confia-t-il, en début d’après-midi, au téléphone depuis le bureau du préfet maritime. Même les membres de Sos-Méditerranée n’ont pas pu venir à la rencontre de leur équipage bloqué en mer depuis 21 jours.
      L’indignité monte d’un cran

      « La France a su accueillir dignement les réfugiés venus d’Ukraine », rappelle Olivier Masini, secrétaire général de l’UD CGT du Var, alors que plusieurs centaines de militants entament une marche solidaire en direction du théâtre de la liberté où les représentants de SOS-Méditerranée tiennent leur conférence de presse. « Nous sommes ici pour affirmer les valeurs humanistes de notre syndicat et pour demander que les réfugiés débarqués aujourd’hui puissent bénéficier d’un traitement similaire. »

      C’est avec les traits tendus par la colère et la fatigue que les quatre dirigeants de l’Ong de sauvetage en mer accueillent leur auditoire. « Les États Européens négligent depuis sept ans la situation » , lance Sophie Beau, Co-fondatrice de SOS-Méditerranée. « Il est temps que soit mis en place un véritable mécanisme opérationnel et pérenne de répartition des exilés secourus en Méditerranée centrale. L’instrumentalisation politique de cette crise est indigne des démocraties européennes. »

      L’#indignité est d’ailleurs montée d’un cran en début d’après-midi, lorsque devant l’arsenal, les représentants du parti d’extrême-droite, Reconquête, sont venus s’exprimer devant une poignée de groupies haineux. Pas de quoi décourager, cependant, les sauveteurs de Sos-Méditerranée. «  Je préfère rester optimiste, reprend Sophie Beau. Les citoyens européens sont porteurs de solidarité. Nous repartirons rapidement en mer pour continuer notre mission de sauvetage. Et dans le contexte économique actuel, nous avons plus que jamais besoin du soutien de la société civile… Répondez à ce SOS. »

      https://www.humanite.fr/societe/ocean-viking/le-jour-ou-la-france-n-pas-vraiment-accueilli-l-ocean-viking-770755#xtor=RS

      #migrerrance

    • « Ocean-Viking », un désastre européen

      Editorial du « Monde » . Les trois semaines d’errance du navire humanitaire, qui a fini par accoster à Toulon sur fond de crise diplomatique entre la France et l’Italie, rappellent l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains.

      L’Union européenne (UE) n’avait pas besoin de cela. Déjà aux prises avec une guerre à ses portes, une crise énergétique, la montée de l’inflation et les tensions que ce contexte exacerbe entre ses membres, voilà que la terrible errance depuis trois semaines d’un navire humanitaire, l’Ocean-Viking, chargé de migrants secourus en Méditerranée, remet en lumière son incapacité à organiser la solidarité en son sein. Cela sur la principale question qui nourrit l’extrême droite dans chaque pays – l’immigration – et, partant, menace l’avenir de l’Union elle-même.

      Si la France a, finalement, sauvé l’honneur en acceptant que l’Ocean-Viking accoste à Toulon, vendredi 11 novembre, après le refus italien, l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains qui la fondent historiquement – en l’occurrence la sauvegarde de 234 vies, dont celles de 57 enfants – est extrêmement préoccupante.

      Que la France et l’Italie, que rapprochent mille liens historiques, géographiques et humains, en viennent à s’apostropher par ministres de l’intérieur interposés donne la mesure de la déstabilisation d’un équilibre déjà fragile, consécutif à l’arrivée à Rome de Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien issue de l’extrême droite.

      Sept ans après la crise migratoire de 2015, au cours de laquelle l’UE avait manqué de solidarité à l’égard de l’Italie, y nourrissant la xénophobie, les ingrédients du malaise sont toujours là. Même si les migrants de l’Ocean-Viking doivent être répartis dans l’UE, le fragile système de partage des demandeurs d’asile dans une douzaine d’Etats européens, obtenu par la France en juin, qui n’a jusqu’à présent connu qu’une application homéopathique, a déjà volé en éclats avec l’Italie.

      Volte-face

      Pour l’exécutif français, enclin à présenter l’Union européenne comme un facteur de protection, le scénario de l’Ocean-Viking est également désastreux. S’il a pris en définitive la bonne décision, il semble s’être fait forcer la main par le gouvernement italien. Alors qu’Emmanuel Macron avait refusé en 2018 l’accostage de l’Aquarius, un autre bateau humanitaire, pour ne pas « faire basculer le pays vers les extrêmes », sa volte-face intervient alors que le Rassemblement national, avec ses 89 députés, a renforcé son emprise sur la vie politique.

      Si le dénouement de Toulon devrait logiquement être salué à gauche, il risque de compromettre le ralliement déjà incertain de la droite au projet de loi sur l’immigration, construit sur un équilibre entre régularisation de travailleurs étrangers et fermeté sur les mesures d’éloignement.

      Le poids des images et des symboles – le navire chargé de malheureux, le débarquement sous escorte militaire – ne saurait cependant faire perdre la véritable mesure de l’événement : l’arrivée de quelques dizaines de demandeurs d’asile est bien loin de déstabiliser un pays comme la France. Une centaine de milliers de réfugiés ukrainiens y sont d’ailleurs accueillis à bras ouverts. Comme eux, les migrants venus d’autres continents ont droit à un examen sérieux de leur demande d’asile.

      Les difficultés d’intégration, les malaises et les craintes que suscite l’immigration dans l’opinion sont évidents et doivent être sérieusement écoutés et pris en compte. Mais, alors que l’extrême droite fait des migrants le bouc émissaire de tous les dysfonctionnements de la société et tient la mise au ban des étrangers pour la panacée, il faut rappeler que des hommes, des femmes et des enfants sont là, derrière les statistiques et les joutes politiques.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/11/12/ocean-viking-un-desastre-europeen_6149574_3232.html

    • Pour le plein respect des droits et de la dignité des passager.e.s de l’Ocean Viking, pour une véritable politique d’accueil européenne [Communiqué de presse inter-associatif]

      L’accueil de l’Ocean Viking à Toulon en France a été un soulagement face au drame terrible et indigne que vivaient ses passager.e.s depuis plusieurs semaines, balloté.e.s sur les flots en attente d’une décision sur leur possibilité de débarquement.

      Maintenant se pose la question des conditions de l’accueil des passager.e.s.

      Nous demandons la mise en place des dispositions suivantes :

      – Pas de privation de liberté en zone d’attente, qui ne ferait qu’accroitre les souffrances et traumatismes vécus en mer et sur le parcours d’exil ; de nos expériences sur le terrain, le respect des droits des personnes et de leur dignité n’est pas compatible avec l’enfermement de ces dernières, quel que soit le contexte de leur arrivée, et a fortiori après un périple tel que l’on vécut les rescapés de l’Océan Viking.
      En outre, il est inadmissible que le gouvernement ait fait le choix de « fabriquer » une zone d’attente temporaire dans une base militaire, rendant impossible l’accès des associations habilitées et des élu.e.s de la République, sous prétexte de secret défense, ne permettant pas à des personnes en situation de particulière vulnérabilité d’avoir accès à l’assistance minimale que la loi leur reconnaît.

      – Mobilisation d’un centre d’accueil ouvert, permettant de mettre en place l’accompagnement sanitaire, social, et également psychologique nécessaire.

      – Protection immédiate, mise à l’abri et hébergement des passager.e.s, dépôt de demandes d’asile pour toutes les personnes le souhaitant, et examen approfondi de toutes les situations des personnes afin de garantir le respect de l’exercice effectif de leurs droits.

      Plus globalement, pour éviter demain d’autres drames avec d’autres bateaux :

      – Nous rappelons le nécessaire respect du droit international de la mer, en particulier l’obligation de porter secours aux passagers d’un bateau en difficulté, le débarquement des personnes dans un lieu sûr dans les meilleurs délais ainsi que le principe de non-refoulement vers des pays où les personnes encourent un risque d’être soumises à la torture ou à des traitements inhumains ou dégradants.

      – La solidarité en Europe ne fonctionne pas. Le « mécanisme de solidarité » proposé dans le cadre du pacte européen « migrations et asile » est non seulement non respecté par les pays mais très en-deçà d’une véritable politique d’accueil respectueuse de la dignité des personnes et de leurs droits fondamentaux. L’Italie est à la pointe des égoïsmes nationaux mais globalement les pays européens dans leur ensemble ne sont pas à la hauteur.

      – C’est donc un changement de modèle politique qui est indispensable : passer de politiques européennes fondées sur la fermeture et le repli vis-à-vis des migrant.e.s considéré.e.s comme indésirables pour prôner un autre système :

      > permettre un accès inconditionnel au territoire européen pour les personnes bloquées à ses frontières extérieures afin d’examiner avec attention et impartialité leurs situations et assurer le respect effectif des droits de tou∙te∙s
      > permettre l’accueil des réfugié.e.s non pas sur la base de quotas imposés aux pays, mais sur la base des choix des personnes concernées (selon leurs attaches familiales, leurs compétences linguistiques ou leurs projets personnels), dans le cadre d’une politique de l’asile harmonisée, fondée sur la solidarité entre Etats et le respect inconditionnel des droits fondamentaux.

      http://www.anafe.org/spip.php?article655

    • Zone d’attente de Toulon : violations des droits des personnes sauvées par l’Ocean Viking [Communiqué de presse]

      Depuis 5 jours, l’Anafé se mobilise pour venir en soutien aux personnes enfermées en zone d’attente de Toulon après le débarquement de l’Ocean Viking, le vendredi 11 novembre. Ses constats sont alarmants. Les personnes sauvées par l’Ocean Viking sont victimes de violations de leurs droits fondamentaux dans ce lieu d’enfermement qui n’a rien d’un village de vacances : violations du droit d’asile, personnes portant des bracelets avec numéro, absence d’interprétariat, absence de suivi psychologique effectif, pas de téléphones disponibles et pas de visites de proches, pas d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Violation du droit d’asile
      Toutes les personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon ont demandé l’asile. L’Anafé dénonce le choix des autorités de priver de liberté ces personnes en demande de protection internationale alors que ces mêmes autorités n’ont pas nié l’état psychologique dégradé dans lequel elles se trouvent après un long parcours au cours duquel elles ont failli se noyer et après avoir été débarquées d’un bateau de sauvetage sur lequel elles avaient passé 21 jours. Or, la procédure d’asile à la frontière est une procédure d’asile « au rabais », réalisée dans l’urgence mais aussi dans un lieu d’enfermement, quelques heures seulement après le débarquement.
      Les autorités auraient pu, à l’instar de ce qui a été mis en œuvre l’année dernière à l’arrivée de personnes ressortissantes d’Afghanistan ou lors de l’arrivée de ressortissants d’Ukraine depuis le début d’année, prévoir des mesures d’hébergement et un accès à la procédure de demande d’asile sur le territoire, après un temps de repos et de prise en charge médicale sur le plan physique et psychologique.

      Les conditions d’entretien Ofpra
      Les entretiens Ofpra doivent veiller au respect de la confidentialité des échanges et de la dignité des personnes, tout en prenant en compte leur vulnérabilité. L’Ofpra aurait pu refuser de réaliser les entretiens de personnes à peine débarquées au regard de leur vulnérabilité. Cela n’a pas été le cas. Au contraire, elles ont dû expliquer leurs craintes de persécutions sitôt enfermées en zone d’attente. Surtout, des entretiens se sont déroulés dans des tentes, dont certaines laissant une visibilité depuis l’extérieur et sans respect de la confidentialité des échanges, les conversations étaient audibles depuis l’extérieur. Les autres ont été faits dans des locaux où avaient été réalisés des entretiens avec les services de police, ajoutant à la confusion des interlocuteurs et des rôles. Rien, hormis le petit badge porté par les officiers de protection, ne pouvait les distinguer des policiers en civil ou des associations présents dans le camp.

      L’absence d’interprétariat
      Les personnes ainsi enfermées n’ont pas eu accès à des interprètes. Seulement deux interprètes en arabe étaient présentes lors d’une visite organisée par des sénateurs et un député. Leur rôle : traduire les entretiens avec la police aux frontières. Hormis ces deux interprètes, l’ensemble des entretiens sont effectués via un interprétariat téléphonique assuré par un prestataire, y compris pour les entretiens Ofpra. L’Anafé a pu observer les difficultés de la police aux frontières pour contacter un interprète, faisant parfois appel à une personne maintenue en zone d’attente.
      Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants.

      Des numéros aux poignets
      Les personnes maintenues sont identifiées par des bracelets de couleur au poignet portant un numéro. Les autorités n’ont donc pas hésité à les numéroter sans aucun respect pour leur individualité et leur identité.

      L’absence de suivi psychologique effectif
      L’Anafé a pu constater dans la zone d’attente que si la CUMP83 (cellules d’urgence médico-psychologique) était présente, les conditions d’enfermement ne permettent pas aux infirmiers d’échanger avec les personnes maintenues, les services d’interprétariat téléphonique toujours assurés par le même prestataire étant saturés. De plus, la CUMP83 ne bénéficie pas d’un local adapté pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes mais d’une tente située dans le « village Croix-Rouge » au milieu de la zone d’attente. Cette disposition ne permet donc pas aux personnes maintenues de bénéficier d’un soutien psychologique confidentiel et adapté au traumatisme qu’elles ont subi lors de leur parcours migratoire et des trois semaines passées en mer.
      De plus, si un médecin, une sage-femme et une infirmière étaient présents le samedi 13 novembre 2022, nous avons pu constater le lendemain qu’aucun médecin n’était présent sur le site. Il nous a été indiqué qu’en cas de nécessité, il serait fait appel à SOS Médecin.

      Impossibilité d’avoir des contacts avec l’extérieur, contrairement à la législation régissant les zones d’attente
      Les numéros utiles ne sont pas affichés. Le wifi installé par la Croix-Rouge ne fonctionne pas correctement. Si huit téléphones portables sont disponibles toute la journée, les conversations sont limitées à 5 minutes et jusqu’à 18h environ. Il n’est pas possible d’être appelé sur ces numéros et ils ne servent que dans le cadre du rétablissement des liens familiaux. Hormis ces téléphones, aucune cabine téléphonique n’est prévue sur le site de la zone d’attente. Il n’est donc pas possible pour les personnes maintenues de s’entretenir de manière confidentielle, notamment avec un avocat, une association ou leurs proches. Il est impossible pour les personnes maintenues de se faire appeler de l’extérieur.
      Aucune visite de proche n’est possible en raison de l’absence de de mise en place d’un système de visite ou d’un local dédié.

      L’impossible accès aux avocats et aux associations
      L’Anafé a pu constater que les personnes maintenues n’avaient aucune connaissance de leur droit à contacter un avocat et qu’aucun numéro de téléphone ne leur avait été communiqué, là encore, contrairement à la législation applicable. Après la visite de la Bâtonnière de l’Ordre des avocats de Toulon et des élus, les avocats se sont vu attribuer deux chambres faisant office de bureau qui ne sont équipées ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’internet pour transmettre les recours.
      L’Anafé n’a pas de local pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes maintenues, notamment en faisant appel à un service d’interprétariat. D’après les informations fournies par la protection civile, il n’y avait pas de local disponible.
      Il est donc impossible pour les avocats et pour les associations de défense des droits d’exercer leur mission dans des conditions garantissant la confidentialité des échanges et un accompagnement digne des personnes.

      Toutes ces violations constituent des manquements graves aux droits des personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon. Ces atteintes inacceptables sont le résultat du choix fait par les autorités d’enfermer ces personnes au lieu de les accueillir. Comme à chaque fois que des gens sont enfermés en zone d’attente, leurs droits ne sont pas respectés. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis la création des zones d’attente. Il est temps de mettre fin à ce régime d’enfermement.

      http://www.anafe.org/spip.php?article656

    • Comment l’affaire de l’Ocean Viking révèle l’ambiguïté des « zones d’attente »

      Vendredi 11 novembre, les 234 migrantes et migrants secourus par le navire Ocean Viking ont pu rejoindre la base navale de Toulon, après trois semaines d’errance en mer. Ultime épisode du drame de la migration qui se joue en Méditerranée et dont le déroulement puis le dénouement peuvent donner lieu à plusieurs clés de lecture. Au niveau de la politique et de l’intégration européennes, le bras de fer entre Paris et Rome, rejouant le duel ayant opposé en 2018 Emmanuel Macron avec l’alors Président du Conseil des ministres italien et actuel Vice-Président Matteo Salvini, a souligné les obstacles à l’affirmation de la solidarité européenne sur la question. Au niveau de la politique interne, ensuite, l’on a vu combien la situation de l’Ocean Viking a accusé les clivages entre « humanistes » et partisans de la fermeté.

      Rappelons d’ailleurs que les propos ayant valu l’exclusion pour deux semaines du député du Rassemblement national Grégoire de Fournas ont précisément été tenus à l’occasion de l’allocution d’un député de la France insoumise dénonçant le sort réservé aux passagers du navire humanitaire.

      Le dernier épisode en date dans l’épopée de l’Ocean Viking est également et entre autres justiciable d’une analyse juridique.
      Les limites du droit international de la mer

      Pendant son errance, les difficultés à trouver un lieu de débarquement ont de nouveau souligné les limites d’un droit de la mer peinant à imposer à un État clairement défini d’ouvrir ses ports pour accueillir les rescapés. La décision de laisser les passagers de l’Ocean Viking débarquer à Toulon est également significative. Elle signe certes leur prise en charge temporaire par la France, mais n’emporte pas, du moins dans un premier temps, leur admission sur le territoire français (au sens juridique). Ce dont le ministre de l’Intérieur ne s’est d’ailleurs fait faute de souligner).

      Cette situation permet alors de mettre en exergue l’une des singularités de la conception juridique du territoire, notamment en ce qui concerne la situation des étrangers. Les zones d’attente en sont une claire illustration.
      Les « zones d’attente »

      Les aéroports ont été les premiers espaces où sont apparues ces zones considérées comme ne relevant pas juridiquement du territoire de l’État les accueillant. Le film Le Terminal, dans lequel Tom Hanks campait un iranien ayant vécu plusieurs années à Roissy – où il s’est d’ailleurs éteint ce samedi 12 novembre –, avait en 2004 porté à la connaissance du grand public cette situation.

      En France, les « zones internationales », initialement nimbées d’un flou quant à leur fondement juridique et au sein desquelles les autorités prétendaient par conséquent n’y être pas assujetties au respect des règles protectrices des droits humains, ont cédé la place aux « zones d’attente » à la faveur de la loi du 6 juillet 1992).

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      À une situation d’exclusion – du moins, alléguée par les autorités – du droit, s’est alors substitué un régime d’exception : les personnes y étant maintenues n’étaient toujours pas considérées comme ayant pénétré juridiquement le territoire français.

      N’étant plus – prétendument – placées « hors du droit » comme l’étaient les zones internationales, les zones d’attente n’en restaient pas moins « hors sol ». L’une des conséquences en est que les demandes d’asile qui y sont le cas échéant déposées relèvent alors de l’« asile à la frontière ». Elles sont par conséquent soumises à un régime, notamment procédural, beaucoup moins favorable aux demandeurs (Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile CESEDA, Titre V, article L.350-1 à L.352-9).
      La « fiction juridique »

      La « fiction juridique » que constituent les zones d’attente s’étend désormais entre autres aux gares ferroviaires ouvertes au trafic international, aux ports ou à proximité du lieu de débarquement (CESEDA, article L.341-1). Ces « enclaves » au sein du territoire, autour d’une centaine actuellement, peuvent par ailleurs inclure, y compris « à proximité de la gare, du port ou de l’aéroport ou à proximité du lieu de débarquement, un ou plusieurs lieux d’hébergement assurant aux étrangers concernés des prestations de type hôtelier » (CESEDA, article L.341-6).

      Tel est le cas de la zone d’attente créée par le préfet du Var par le biais d’un arrêté, à la suite de l’accueil de l’Ocean Viking.

      « pour la période du 11 novembre au 6 décembre 2022 inclus, une zone d’attente temporaire d’attente sur l’emprise de la base navale de Toulon et sur celle du Village Vacances CCAS EDF 1654, avenue des Arbanais 83400 Hyères (Giens) ».

      Accueillis dans ce Village Vacances dont les « prestations de type hôtelier » ne semblent aucunement correspondre à la caricature opportunément dépeinte par certains, les rescapés demeurent, juridiquement, aux frontières de la France.
      Aux portes du territoire français

      Ils ne se situent pas pour autant, de ce fait, dans une zone de non-droit : placés sous le contrôle des autorités françaises, ils doivent se voir garantir par elles le respect de leurs droits humains. Aux portes du territoire français, les migrantes et migrants secourus par l’Ocean Viking n’en relèvent pas moins de la « juridiction » française comme le rappelle la Cour européenne des droits de l’Homme. La France est ainsi tenue d’observer ses obligations, notamment au regard des conditions de leur maintien contraint au sein de la zone.

      Une partie des rescapés recouvreront leur liberté en étant admis à entrer juridiquement sur le territoire de la France. Tel est le cas des mineurs non accompagnés, dont il est annoncé qu’ils seront pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance.

      Tel est également le cas de ceux qui auront été autorisés à déposer une demande d’asile sur le territoire français et se seront vus, à cette fin, délivrer un visa de régularisation de huit jours. Parmi eux, la plupart (175) devraient être acheminés vers des États européens qui se seraient engagés à les accueillir, vraisemblablement afin que soient examinées leurs demandes de protection internationale. Expression d’une solidarité européenne a minima dont il faudra cependant voir cependant les suites.

      À lire aussi : Podcast : « Quand la science se met au service de l’humanitaire », le Comité international de la Croix-Rouge

      Pour tous les autres enfin, ceux à qui un refus d’entrer sur le territoire français aura été notifié et qui ne seront pris en charge par aucun autre État, le ministre de l’Intérieur précise qu’ils seront contraints de quitter la zone d’attente vers une destination qui demeure cependant encore pour le moins incertaine. Ceux-là auront alors été accueillis (très) temporairement par la France mais seront considérés comme n’ayant jamais pénétré sur le territoire français.

      https://theconversation.com/comment-laffaire-de-locean-viking-revele-lambigu-te-des-zones-datte

    • « Migrants » de l’« Ocean Viking », « réfugiés » d’Ukraine : quelle différence ?

      Comme elle l’a fait après l’invasion russe, la France doit mener une véritable politique d’accueil pour les passagers de l’« Ocean Viking » : permettre l’accès inconditionnel au territoire sans présupposé lié à leur origine ni distinction entre « migrants » et « réfugiés ».

      Après trois semaines d’errance en Méditerranée, la France a accepté « à titre exceptionnel » de laisser débarquer le 11 novembre, à Toulon, les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking. Tout en précisant, par la voix du ministre de l’Intérieur, que ces « migrants ne pourront pas sortir du centre administratif de Toulon » où ils seront placés et qu’« ils ne sont donc pas légalement sur le territoire national » : à cette fin, une zone d’attente a été créée en urgence où les personnes, qui ont toutes déposé une demande d’asile, sont donc enfermées sous surveillance policière.

      Pour la suite, il est prévu que la France ne gardera sur son sol, s’ils remplissent les conditions de l’asile, qu’environ un tiers des passagers du bateau. Les autres seront autoritairement relocalisés dans neuf pays de l’Union européenne. Voilà donc « l’accueil » réservé à des femmes, des enfants et des hommes qui, après avoir fui la guerre, la misère, l’oppression, et pour beaucoup subi les sévices et la violence du parcours migratoire, ont enduré une longue attente en mer aux conséquences notoirement néfastes sur la santé mentale et physique. L’accueil réservé par la France à ceux qu’elle désigne comme « migrants ».
      Pas de répartition entre les Etats européens

      Rappelons-nous : il y a moins d’un an, au mois de février, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens fuyant l’invasion russe se sont précipités aux frontières des pays européens, la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue. Pas question de compter : au ministère de l’Intérieur, on expliquait que « dès lors que des besoins seront exprimés, la France y répondra », tandis que le ministre lui-même annonçait que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ». Pas question non plus de répartition entre les Etats européens : « Ce sont des personnes libres, elles vont là où elles veulent », affirmait la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur. Et pour celles qui choisiraient de rester en France, un statut provisoire de protection immédiate était prévu, donnant droit au travail, à un logement et à un accompagnement social. On n’a pas manqué de se féliciter de l’élan formidable de solidarité et d’humanité dont la France avait fait preuve à l’égard des réfugiés, à l’instar de ses voisins européens.

      Une solidarité et une humanité qui semblent aujourd’hui oubliées. Parce qu’ils sont d’emblée qualifiés de « migrants », les passagers de l’Ocean Viking, sans qu’on ne connaisse rien de leurs situations individuelles, sont traités comme des suspects, qu’on enferme, qu’on trie et qu’on s’apprête, pour ceux qui ne seront pas expulsés, à « relocaliser » ailleurs, au gré d’accords entre gouvernements, sans considération de leurs aspirations et de leurs besoins.

      On entend déjà les arguments qui justifieraient cette différence de traitement : les « réfugiés » ukrainiens sont les victimes d’un conflit bien identifié, dans le contexte d’une partie de bras de fer qui oppose l’Europe occidentale aux tentations hégémoniques du voisin russe. Des « migrants » de l’Ocean Viking,on prétend ne pas savoir grand-chose ; mais on sait au moins qu’ils et elles viennent de pays que fuient, depuis des années, d’innombrables cohortes d’exilés victimes des désordres du monde – guerres, corruption, spoliations, famines, désertification et autres dérèglements environnementaux – dont les Européens feignent d’ignorer les conséquences sur les mouvements migratoires mondiaux, pour décréter que ce ne sont pas de « vrais » réfugiés.
      Une hospitalité à deux vitesses

      Mais cette hospitalité à deux vitesses est aussi la marque du racisme sous-jacent qui imprègne la politique migratoire de la France, comme celle de l’Union européenne. Exprimée sans retenue par un élu d’extrême droite sur les bancs de l’Assemblée à propos de l’Ocean Viking (« qu’il(s) retourne(nt) en Afrique ! »), elle s’est manifestée dès les premiers jours de l’exode ukrainien, quand un tri des exilés s’est opéré, sur la base de la nationalité ou de la couleur de peau, à la frontière polonaise, au point que la haut-commissaire aux droits de l’homme de l’Onu s’était dite « alarmée par les informations crédibles et vérifiées faisant état de discrimination, de violence et de xénophobie à l’encontre de ressortissants de pays tiers qui tentent de fuir le conflit en Ukraine ». Le traitement réservé depuis des années en France aux exilés privés d’abri et de nourriture, harcelés et pourchassés par la police, dans le Calaisis comme en région parisienne, à la frontière italienne ou dans le Pays basque est la traduction quotidienne de cette politique xénophobe et raciste.

      Au-delà d’une indispensable réorganisation du secours en mer afin que les passagers d’un navire en détresse puissent être débarqués sans délai dans un lieu sûr, comme le prescrit le droit international, l’épisode de l’Ocean Viking nous rappelle, une fois de plus, la nécessité d’une véritable politique d’accueil, dont l’exemple ukrainien montre qu’elle est possible. Elle doit être fondée sur l’accès inconditionnel au territoire de toutes celles et ceux qui demandent protection aux frontières de la France et de l’Europe, sans présupposé lié à leur origine ni distinction arbitraire entre « migrants » et « réfugiés », la mise à l’écart de tout dispositif coercitif au profit d’un examen attentif et de la prise en charge de leurs besoins, et le respect du choix par les personnes de leur terre d’asile, à l’exclusion de toute répartition imposée.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/migrants-de-locean-viking-refugies-dukraine-quelle-difference-20221115_WG

    • « Ocean Viking » : les fourberies de Darmanin

      Le ministre de l’intérieur a annoncé, mardi 15 novembre, que 44 des 234 rescapés de l’« Ocean Viking » seront expulsés dans leur pays d’origine, tandis que la majorité des autres seront relocalisés dans des pays de l’Union européenne. La #fable de la générosité française s’est rapidement fracassée sur l’obsession de Gérald Darmanin de ne pas donner de prises au RN, en acceptant de secourir, mais pas d’accueillir.

      « Expulsés », « relocalisés » : ces termes affreux pour désigner des personnes résument à eux seuls le vrai visage de l’« accueil » que la France réserve aux rescapés de l’Ocean Viking, bien loin d’une certaine idée que l’on pourrait se faire de l’hospitalité due à des hommes, des femmes et des enfants ayant risqué de se noyer en mer pour fuir leur pays. On avait bien compris depuis ses premières interventions que Gérald Darmanin avait agi contraint et forcé. Que les autorités françaises, par la voix blanche du ministre de l’intérieur, avaient fini, à contrecœur, par autoriser les passagers à débarquer à Toulon, dans le Var, vendredi 11 novembre, uniquement parce qu’elles estimaient ne pouvoir faire autrement : à la suite du refus de la nouvelle présidente post-fasciste du conseil italien, Giorgia Meloni, de voir le bateau affrété par SOS Méditerranée accoster sur les rives italiennes, les exilés étaient à bout de forces, et risquaient de mourir.

      Après avoir failli dans le sauvetage de 27 exilés dans la Manche en 2021 (les secours français ayant attendu leur entrée dans les eaux anglaises sans envoyer de moyen de sauvetage, selon les récentes révélations du Monde), la France cette fois-ci ne les laisserait pas périr en mer. Mais elle s’en tiendrait là, sans accueil digne de son nom, ni élan de solidarité. Et ce qui a été vécu par Paris comme un affront ne resterait pas sans conséquences. Tels étaient les messages passés après la décision à reculons d’accepter le débarquement.

      Le courroux français s’est logiquement abattu sur la dirigeante italienne, qui, contrevenant au droit international, a bloqué l’accès de ses côtes au navire humanitaire. Mais il y a fort à parier que la discorde diplomatique finisse par se dissiper. Et qu’en définitive les exilés eux-mêmes soient les principales victimes des mesures de rétorsion françaises.

      Mardi 15 novembre, lors des questions au gouvernement à l’Assemblée nationale, le ministre de l’intérieur a ainsi annoncé, telle une victoire, qu’au moins 44 des 234 rescapés seraient renvoyés dans leur pays d’origine. « Dès que leur état de santé » le permettra, bien sûr, et alors même que l’étude des dossiers est toujours en cours, selon son propre aveu devant les députés. « J’ai déjà pris […] contact dès [lundi] avec mes homologues étrangers pour que ces reconduites à la frontière puissent se faire dans les temps les plus courts possible », s’est-il réjoui, espérant que ces expulsions seront réalisées d’ici à la fermeture de la zone d’attente « dans une vingtaine de jours ». Sachant que le ministre avait d’emblée assuré que les deux tiers des rescapés acceptés sur le sol européen feraient l’objet d’une « relocalisation » vers onze autres pays de l’UE, le nombre de celles et ceux autorisés à demander l’asile en France sera réduit à la portion congrue.

      Gérald Darmanin, en vérité, avait commencé ses calculs d’apothicaire avant même le débarquement, en déclarant que la France suspendait immédiatement l’accueil pourtant prévu de longue date de 3 500 réfugiés se trouvant en Italie et qu’il renforcerait les contrôles à la frontière franco-italienne.

      Entre les « expulsés », les « relocalisés » et les « refusés », la générosité de la France s’est vite muée en démonstration de force à visée politique sur le dos de personnes qui, venues du Bangladesh, d’Érythrée, de Syrie, d’Égypte, du Pakistan, du Mali, du Soudan et de Guinée, ont enduré les dangers de l’exil dans l’espoir d’une vie meilleure. Personne, faut-il le rappeler, ne quitte ses proches, son pays, sa maison, son travail, ses habitudes, avec pour seul bagage quelques billets en poche, pour le plaisir de traverser la Méditerranée. Politiques, économiques, sociaux, climatiques, leurs motifs sont le plus souvent solides. Sauvés en mer par l’équipage de l’Ocean Viking, les 234 rescapés ont attendu trois semaines, dans des conditions indicibles, la possibilité de poser un pied sur la terre ferme. La Commission européenne avait rappelé la nécessité, la veille du feu vert français, de les laisser accoster, soulignant « l’obligation légale de sauver les vies humaines en mer, claire et sans équivoque, quelles que soient les circonstances ».
      « Secourir et reconduire »

      Guidé par sa volonté de répondre à l’extrême droite qui l’accuse de « complaisance », le ministre de l’intérieur a en réalité anticipé son attente, telle qu’exprimée par une élue RN du Var, Laure Lavalette, dans l’hémicycle mardi, l’appelant à « secourir et reconduire ».

      Le cadre répressif de cet accueil à la française a été posé au moment même où les rescapés sont arrivés en France. Leur débarquement s’est fait sous escorte militaire, à l’abri des regards des élus, des ONG et des journalistes, dans le port militaire de Toulon (lire ici et là). Ils ont aussitôt été placés dans une « zone d’attente » créée pour l’occasion, dans un ancien « village de vacances » de la presqu’île de Giens, c’est-à-dire dans un lieu d’enfermement. Ainsi l’« accueil » a commencé sous de sombres auspices.

      Placés sous la garde de deux cents policiers et gendarmes, les 234 rescapés ont été soumis, sans attendre d’être remis des épreuves physiques et psychologiques de la traversée, à un examen de leur situation administrative. Pratiquée dans l’urgence, la procédure, dans ce cadre « exceptionnel », est particulièrement expéditive : les agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), instance dépendant du ministère de l’intérieur, sont tenus de délivrer un avis « sous 48 heures » sur le « caractère manifestement fondé ou non de la demande d’asile », charge ensuite au ministère de l’intérieur de poursuivre – ou non – l’examen du dossier. Comment peut-on humainement demander à des personnes venant de passer trois semaines d’errance en mer, et qui ont pour la plupart subi des chocs de toute sorte, de retracer posément – et de manière convaincante, c’est-à-dire preuves à l’appui – les raisons qui leur permettraient d’obtenir une protection de la France ? L’urgence, l’arbitraire et le respect de la dignité des personnes font rarement bon ménage.

      Habilitée à intervenir en zone d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers, qui a pu se rendre sur place, estime dans un communiqué publié mardi que les rescapés de l’Ocean Viking sont « victimes de violation de leurs droits fondamentaux » dans cette zone d’attente. Ses constats sont « alarmants ». Elle regrette tout d’abord le manque de temps de repos à l’arrivée et une prise en charge médicale passablement insuffisante. Elle évoque ensuite de nombreuses violations du droit d’asile dans le déroulement des entretiens administrés par l’Ofpra, liées notamment au manque d’interprétariat, à l’absence de confidentialité des échanges et à l’absence d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Mais discuter de la légalité des procédures n’est, à cette heure, pas la priorité du ministre de l’intérieur dont l’objectif est de montrer qu’il prend garde à ce que la France ne soit pas « submergée » par quelques dizaines d’exilés. Sa célérité à annoncer, le plus vite possible, et avant même la fin de la procédure, qu’une partie des rescapés seront expulsés, en est la preuve.

      Quand on se souvient de l’accueil réservé aux Afghans fuyant le régime des talibans ou aux Ukrainiens fuyant la guerre, on observe pourtant qu’il existe d’autres manières d’assurer que les droits des demandeurs d’asile soient respectés. Pour ne prendre que cet exemple, il y a un an, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens ont fui l’invasion russe, « la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue », souligne Claire Rodier, membre du Groupe d’information et de soutien des immigré·es (Gisti) et du réseau Migreurop, dans une tribune à Libération. Et de rappeler les déclarations du ministre de l’intérieur lui-même assurant alors que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ».

      Précédent également notable, la France, en 2018, avait refusé d’accueillir l’Aquarius, soumis au même sort que l’Ocean Viking. À l’époque, Emmanuel Macron n’avait pas voulu céder et le navire avait fait route vers Valence, en Espagne, suscitant la honte d’une partie des soutiens du président de la République. L’accueil alors réservé aux exilés par les autorités et la société civile espagnole avait été d’une tout autre teneur. Le pays s’était largement mobilisé, dans un grand élan de solidarité, pour que les rescapés trouvent le repos et le réconfort nécessaires après les épreuves de l’exil.

      Il faut se souvenir enfin de l’émoi national légitimement suscité, il n’y a pas si longtemps, par les propos racistes du député RN Grégoire de Fournas, en réponse à une intervention de l’élu LFI Carlos Martens Bilongo concernant… l’Ocean Viking. « Qu’il(s) retourne(nt) en Afrique », avait-il déclaré (lire notre article), sans que l’on sache trop s’il s’adressait à l’élu noir ou aux exilés en perdition. Alors qu’il est désormais établi qu’au moins quarante-quatre d’entre eux seront renvoyés dans leur pays d’origine, vraisemblablement, pour certains, sur le continent africain, il sera intéressant de constater à quel niveau notre pays, et plus seulement nos gouvernants, placera son curseur d’indignation.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/161122/ocean-viking-les-fourberies-de-darmanin

    • Ocean Viking : 123 « #refus_d'entrée » en France et une grande confusion

      Une semaine après leur débarquement à Toulon, une soixantaine de migrants de l’Ocean Viking a été autorisée à demander l’asile. En parallèle de la procédure d’asile aux frontière, des décisions judiciaires ont conduit à la libération d’une centaine de rescapés retenus dans la « zone d’attente », désormais libres d’entrer sur le sol français. Une vingtaine de mineurs, ont quant à eux, pris la fuite vers d’autres pays.

      Sur les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking débarqués à Toulon il y a une semaine, 123 migrants se sont vu opposer un refus à leur demande d’asile, soit plus de la moitié, a indiqué vendredi 18 novembre le ministère de l’Intérieur. Ils font donc « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, soit plus de la moitié, a ajouté le ministère de l’Intérieur.

      Hormis les 44 passagers reconnus mineurs et placés dès les premiers jours sous la protection de l’Aide sociale à l’enfance, les 189 adultes restant avaient été retenus dans une « zone d’attente » fermée, qui n’est pas considérée comme appartenant au territoire français. Un espace créé dans le cadre de la procédure d’asile à la frontière, pour l’occasion, dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, à proximité de Toulon.

      Ils sont tous passés cette semaine entre les mains de la police et des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), pour des contrôles de sécurité et de premiers entretiens effectués depuis cette « zone d’attente », afin d’évaluer si leur demande d’asile était fondée.

      Au terme de ces entretiens, l’Ofpra a émis « 66 avis favorables » a précisé Charles-Edouard Minet, sous-directeur du conseil juridique et du contentieux du ministère de l’Intérieur. Cette soixantaine de migrants a donc été autorisée à déposer des demandes d’asile, et autorisée à entrer sur le territoire français. Ils ont été conduits vers des centres d’hébergement du Var, dont des #Centres_d'accueil_et_d'évaluation_des_situations (#CAES).

      Parmi eux, certains seront « relocalisés » vers les onze pays européens (dont l’Allemagne, la Finlande ou le Portugal) qui s’étaient portés volontaires pour se répartir les efforts et les accueillir après leur débarquement en France.

      Des avis défavorables mais pas d’expulsions massives et immédiates

      Les « 123 avis défavorables », quant à eux, ne sont pas pour autant immédiatement expulsables. Le gouvernement français veut aller vite, le ministre de l’Intérieur Gerald Darmanina ayant affirmé dès le 15 novembre que ces personnes « seront reconduites [vers leur pays d’origine] dès que leur état de santé » le permettra. Mais les refoulements pourraient prendre un temps plus long, car ces procédures nécessitent que « la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer, avait expliqué l’Anafé, association de défense des étrangers aux frontières, à InfoMigrants il y a quelques jours.

      D’autre part, des décisions de justice sont venues chambouler le calendrier annoncé par l’Etat. La cour d’appel d’Aix-en-Provence a annoncé vendredi 18 novembre avoir validé la remise en liberté de la « quasi-totalité, voire la totalité » des 108 rescapés qui réclamaient de ne plus être enfermés dans la « zone d’attente ».

      En cause, des vices de procédure dans les dossiers montés dans l’urgence et de juges dépassés par la centaine de cas à traiter. Les juges des libertés et de la détention (JLD) qui doivent en France, se prononcer pour ou contre un maintien en « zone d’attente » après 4 jours d’enfermement, ont estimé dans une majorité de cas que les migrants devaient être libérés. Le parquet a fait appel de ces décisions, mais la cour d’appel a donné raison au JLD pour une non-prolongation du maintien dans la « zone d’attente » dans la plupart des cas.

      Certains des migrants libérés avaient reçu ces fameux avis défavorables de l’Ofpra, notifiés par le ministère de l’Intérieur. D’après l’Anafé, ils devraient néamoins pouvoir désormais « faire une demande d’asile une fois entrés sur le territoire ».

      Douze migrants en « zone d’attente »

      Après ces annonces de libération, le gouvernement a estimé dans l’après-midi, vendredi, que seuls douze migrants se trouvaient toujours dans ce centre fermé vendredi après-midi. A ce flou s’ajoutent « les personnes libérées mais revenues volontairement » sur le site « pour bénéficier » de l’hébergement, a reconnu, désabusé, le représentant du ministère.

      Ces complications judiciaires et administratives ont perturbé nombre des rescapés, parmi lesquels se trouvent des personnes fragiles, dont la santé nécessite des soins psychologiques après les 20 jours d’errance en mer sur l’Ocean Viking qui ont précédé cette arrivée chaotique en France. Et ce d’autant que les autorités et les associations présentes dans la « zone d’attente » ont été confrontés à une pénurie de traducteurs dès les premiers jours.

      A tel point que le préfet du Var, Evence Richard, a alerté le 16 novembre sur le manque d’interprètes, estimant qu’il s’agissait d’"un vrai handicap" pour s’occuper des migrants. « Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants », avait aussi fait savoir l’Anafé dans un communiqué publié mardi.

      Des scènes de grande confusion

      En effet, la presse locale du Var et d’autres journaux français ont rapporté des scènes de grande confusion lors des audiences devant le tribunal de Toulon et la cour d’appel d’Aix-en-Provence, avec des « interprètes anglais pour des Pakistanais, une femme de ménage du commissariat de Toulon réquisitionnée comme interprète de langue arabe, des entretiens confidentiels tenus dans les couloirs », comme en atteste dans les colonnes du Monde, la bâtonnière du barreau varois, Sophie Caïs, présente le 15 novembre au tribunal.

      Dans une autre audience, décrite par un journaliste du quotidien français ce même jour, une mère Malienne « fond en larmes lorsque la juge lui demande ce qu’elle a à ajouter aux débats. Sa petite fille de 6 ans, qui, depuis le début de la matinée ne la quitte pas d’un pouce, ouvre de grands yeux ».

      Des mineurs en fugue

      En parallèle, parmi les 44 rescapés mineurs logés hors de la « zone d’attente », dans un hôtel où ils étaient pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance, 26 ont quitté les lieux de leur propre chef, a-t-on appris le 17 novembre dans un communiqué du Conseil départemental du Var.

      Les mineurs qui ont fugué « ont eu un comportement exemplaire, ils sont partis en nous remerciant », a insisté Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var. D’après lui, ces jeunes, dont une majorité d’Erythréens, « ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du nord » tels que les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches.

      Les services sociaux ont « essayé de les en dissuader », mais « notre mission est de les protéger et pas de les retenir », a ajouté M. Paquette.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/44849/ocean-viking--123-refus-dentree-en-france-et-une-grande-confusion

    • Ocean Viking : le #Conseil_d’État rejette l’#appel demandant qu’il soit mis fin à la zone temporaire d’attente où certains passagers ont été maintenus

      Le juge des référés du Conseil d’État rejette aujourd’hui la demande de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) de mettre fin à la zone d’attente temporaire dans laquelle ont été placés certains passagers de l’Ocean Viking. L’association requérante, avec le soutien d’autres associations, contestait les conditions de création de la zone d’attente et estimait que les personnes qui y avaient été placées n’avaient pas accès à leurs droits. Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé. Il observe également que les demandes d’asile à la frontière ont pu être examinées, 66 personnes étant finalement autorisées à entrer sur le territoire pour déposer leur demande d’asile, et que les procédures judiciaires ont suivi leur cours, la prolongation du maintien de la détention n’ayant d’ailleurs pas été autorisée pour la très grande majorité des intéressés. Enfin, il constate qu’à la date de son intervention, les associations et les avocats peuvent accéder à la zone d’attente et y exercer leurs missions dans des conditions n’appelant pas, en l’état de l’instruction, que soient prises des mesures en urgence.

      Pour des raisons humanitaires, le navire « Ocean Viking » qui transportait 234 personnes provenant de différents pays, a été autorisé par les autorités françaises à accoster au port de la base militaire navale de Toulon. Le préfet a alors créé une zone d’attente temporaire incluant cette base militaire et un village vacances à Hyères, où ont été transférées, dès le 11 novembre dernier au soir, les 189 personnes placées en zone d’attente.

      L’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) a saisi en urgence le juge des référés du tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’exécution de l’arrêté préfectoral créant la zone d’attente temporaire, estimant que les personnes placées en zone d’attente se trouvaient illégalement privées de liberté et n’avaient pas un accès effectif à leurs droits. Après le rejet de son recours mercredi 16 novembre, l’association a saisi le juge des référé-liberté du Conseil d’État, qui peut, en appel, ordonner toutes mesures nécessaires à la sauvegarde d’une liberté fondamentale en cas d’atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale. Ce dernier confirme aujourd’hui la décision du tribunal administratif et rejette l’appel de l’association.

      Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé (nombre important de personnes, nécessité d’une prise en charge médicale urgente, considérations d’ordre public), ce qui a conduit à la création par le préfet d’une zone d’attente temporaire sur le fondement des dispositions issues d’une loi du 16 juin 20111, en cas d’arrivée d’un groupe de personnes en dehors d’une « zone de passage frontalier ». Il observe également que les droits de ces étrangers n’ont pas, de ce seul fait, été entravés de façon grave et manifestement illégale. L’Office français de protection des réfugiés et apatrides (OFPRA) a pu mener les entretiens légalement prévus, ce qui a conduit à ce que 66 personnes soient autorisées à entrer sur le territoire pour présenter une demande d’asile, et le juge des libertés et de la détention puis la cour d’appel d’Aix-en-Provence se sont prononcés sur la prolongation des mesures de détention, qui a d’ailleurs été refusée dans la grande majorité d’entre eux.

      S’agissant de l’exercice des droits au sein même de la zone, le juge des référés, qui se prononce en fonction de la situation de fait à la date à laquelle son ordonnance est rendue, note qu’à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, l’association requérante a pu accéder au village vacances sans entrave. Si la persistance de difficultés a pu être signalée à l’audience, elles ne sont pas d’une gravité telle qu’elles rendraient nécessaires une intervention du juge des référés. Le ministère de l’intérieur a par ailleurs transmis à l’association, une liste actualisée des 16 personnes encore maintenues, afin de lui faciliter l’exercice de sa mission d’assistance, comme il s’y était engagé lors de l’audience au Conseil d’État qui a eu lieu hier.

      Les avocats ont également accès au village vacances. Là encore, des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente. Mais des mesures ont été progressivement mises en œuvre pour tenter d’y répondre, notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et internet.

      A la date de l’ordonnance et en l’absence d’une atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale, il n’y avait donc pas lieu pour le juge des référés de prononcer des mesures en urgence.

      1 Loi n° 2011-672 du 16 juin 2011 relative à l’immigration, à l’intégration et à la nationalité.

      https://www.conseil-etat.fr/actualites/ocean-viking-le-conseil-d-etat-rejette-l-appel-demandant-qu-il-soit-mis
      #justice

    • Le Conseil d’État valide l’accueil au rabais des rescapés de l’Ocean Viking

      Des associations contestaient la création de la zone d’attente dans laquelle ont été enfermés les exilés après leur débarquement dans le port militaire de Toulon. Bien qu’elle ait reconnu « des insuffisances », la plus haute juridiction administrative a donné raison au ministère de l’intérieur, invoquant des « circonstances exceptionnelles ».

      LeLe Conseil d’État a donné son blanc-seing à la manière dont le ministère de l’intérieur a géré l’arrivée en France des rescapés de l’Ocean Viking. Débarqués le 11 novembre à Toulon après vingt jours d’errance en mer, à la suite du refus de l’Italie de les faire accoster sur ses côtes, les migrants avaient immédiatement été placés dans une zone d’attente temporaire à Hyères (Var), sur la presqu’île de Giens. Gerald Darmanin avait en effet décidé de secourir, sans accueillir. 

      Ce lieu d’enfermement, créé spécialement pour y maintenir les exilés avant qu’ils ne soient autorisés à demander l’asile, est-il légal ? L’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers) posait cette fois la question au Conseil d’État, après avoir été déboutée une première fois par le tribunal administratif de Toulon. 

      La plus haute juridiction administrative du pays a rejeté samedi 19 novembre la demande de l’association qui souhaitait la fermeture de la zone d’attente au motif que les droits des exilés n’étaient pas respectés. Le Conseil d’État reconnaît que « des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente ». Mais il invoque « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé ». 

      L’audience s’est déroulée vendredi matin, sous les moulures et lustres recouverts d’or du Conseil d’État. Si 189 personnes étaient initialement maintenues dans la zone d’attente le 11 novembre, elles étaient de moins en moins nombreuses au fil de la journée, assurait d’entrée de jeu le représentant du ministère de l’intérieur, Charles-Édouard Minet. « Vous êtes en train de me dire qu’à la fin de la journée, il peut n’y avoir plus personne en zone d’attente », s’était étonnée la magistrate qui présidait l’audience. « Absolument, oui », confirmait Charles-Édouard Minet. Rires dans la salle.

      Symbole de la grande improvisation ministérielle, la situation évoluait d’heure en heure, à mesure que la justice mettait fin au maintien prolongé des exilés en zone d’attente. Au moment de l’audience, entre 12 et 16 personnes étaient encore enfermées. Deux heures plus tard, la cour d’appel d’Aix-en-Provence décidait de remettre en liberté la « quasi-totalité voire la totalité » des personnes retenues dans la zone d’attente d’Hyères. Moins de dix personnes y seraient encore retenues. 

      Devant le Conseil d’État, s’est tenue une passe d’armes entre les avocats défendant les droits des étrangers et le ministère de l’intérieur. Son représentant a assuré que l’accès aux droits des personnes retenues était garanti. Ce qu’a fermement contesté le camp adverse : « Il existe un vrai hiatus entre ce que dit l’administration et ce qu’ont constaté les associations : les avocats ne peuvent pas accéder comme il le devrait à la zone d’attente », a affirmé Cédric Uzan-Sarano, conseil du Groupe d’information et de soutien des immigrés (GISTI). 

      En creux, les représentants des associations dénoncent les choix très politiques de Gerald Darmanin. Plutôt que de soumettre les rescapés de l’Ocean Viking à la procédure classique de demande d’asile, la décision a été prise de les priver de leurs libertés dès leur débarquement sur le port militaire de Toulon. « Tous les dysfonctionnements constatés trouvent leur source dans l’idée de l’administration de créer cette zone d’urgence, exceptionnelle et dérogatoire », tance Patrice Spinosi, avocat de l’Anafé. 

      Les associations reprochent aux autorités le choix de « s’être placées toutes seules dans une situation d’urgence » en créant la zone d’attente temporaire. La procédure étant « exceptionnelle » et « mise en œuvre dans la précipitation », « il ne peut en découler que des atteintes aux droits des étrangers », ont attaqué leurs avocats.

      Dans sa décision, le Conseil d’État considère toutefois que la création de la zone d’attente est conforme à la loi. Il met en avant « le nombre important de personnes, la nécessité d’une prise en charge médicale urgente et des considérations d’ordre public ». L’autorité administrative note par ailleurs qu’au moment où elle statue, « à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, [l’Anafé] a pu accéder au village vacances sans entrave ».

      À écouter les arguments de l’Anafé, les dysfonctionnements sont pourtant nombreux et persistants. À peine remis d’un périple éprouvant, les exilés ont dû sitôt expliquer les persécutions qu’ils ont fuies aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra).

      « Puisque les entretiens avec l’Ofpra sont devenus l’alpha et l’oméga des procédures d’asile, il est indispensable que les personnes soient préparées par des avocats », juge Gérard Sadik, représentant de La Cimade, une association qui vient en aide aux réfugiés. 
      Plus de la moitié des rescapés interdits d’entrée sur le territoire

      L’Anafé estime que les conditions sur la zone d’attente d’Hyères ne permettent pas aux associations et aux avocats d’accomplir leur mission d’accompagnement. Si les autorités ont mis à disposition deux locaux, ceux-ci « ne sont équipés ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’Internet pour transmettre les recours », indique l’Anafé. Par ailleurs, ces pièces, très vite remplacées par des tentes, empêchent la confidentialité des échanges, pourtant imposée par la loi. 

      Laure Palun, directrice de l’Anafé, est la seule personne présente ce jour-là à l’audience à avoir visité la zone d’attente. « Quand on passait à côté des tentes, on pouvait entendre et voir tout ce qui se passait à l’intérieur, décrit-t-elle. Un moment, on a même vu un exilé quasiment couché sur une table pour comprendre ce que l’interprète lui disait au téléphone. »

      Le Conseil d’État a préféré relever les efforts réalisés par les autorités pour corriger les « insuffisances constatées dans les premiers jours » : « Des mesures ont été progressivement mises en œuvre [...], notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et Internet. »

      Conséquence de cette procédure d’asile au rabais et des obstacles rencontrés par les exilés dans l’exercice de leurs droits ? Charles-Édouard Minet a annoncé que plus de la moitié des rescapés du navire de SOS Méditerranée, soit cent vingt-trois personnes, ont fait « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, à la suite de leur entretien individuel avec l’Ofpra. Pour l’heure, le ministère de l’intérieur n’a pas précisé s’ils allaient être expulsés. 

      D’un ton solennel, Patrice Spinosi avait résumé l’enjeu de l’audience : « La décision que vous allez rendre sera la première sur les zones d’attente exceptionnelles. Il existe un risque évident que cette situation se reproduise, [...] l’ordonnance que vous rendrez définira une grille de lecture sur ce que peut faire ou pas l’administration. » L’administration n’aura donc pas à modifier ses procédures.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/191122/le-conseil-d-etat-valide-l-accueil-au-rabais-des-rescapes-de-l-ocean-vikin

    • Ocean Viking : « On vient d’assister à un #fiasco »

      Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) énumère les multiples entraves aux droits des personnes recueillies par l’Ocean Viking et déplore que le choix de l’enfermement l’ait emporté sur celui de l’accueil.

      La France avait annoncé vouloir faire vite. Se prononcer « très rapidement » sur le sort des passager·ères de l’Ocean Viking tout juste débarqué·es sur la base navale de Toulon (Var), après que le gouvernement italien d’extrême droite avait refusé (en toute illégalité) que le navire accoste sur son territoire. Ces personnes étaient maintenues dans une zone d’attente temporaire créée dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens.

      Un lieu de privation de liberté qui, juridiquement, n’est pas considéré comme étant sur le sol français. Dans les quarante-huit heures, avaient estimé les autorités, l’ensemble des rescapé·es auraient vu examiner la pertinence de leur demande d’asile par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra). Une procédure accélérée qui n’a pas vocation à attribuer une protection internationale, mais à examiner si la demande d’entrée sur le territoire au titre de l’asile est manifestement fondée ou pas.

      Rien, toutefois, ne s’est passé comme prévu puisque la quasi-totalité des rescapé·es, à l’heure où nous écrivons ces lignes, ont pu être libéré·es au terme de différentes décisions judiciaires (1). Pour Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étranger·ères (Anafé) – la principale association autorisée à intervenir en zone d’attente –, « on vient d’assister à un fiasco ». Tant pour l’administration que pour les demandeur·ses d’asile.

      En créant une zone d’attente temporaire, les autorités ont choisi d’accueillir les passager·ères de l’Ocean Viking sous le régime de la privation de liberté. Que dit la méthode ?

      Laure Palun : Que nous aurions pu faire le choix de l’accueil, plutôt que celui de l’enfermement ! La zone d’attente est un lieu privatif de liberté où la procédure d’asile « classique » ne s’applique pas. La procédure d’asile à la frontière permet de procéder à une sorte de tri en amont et de dire si, oui ou non, la personne peut entrer sur le territoire pour y demander la protection internationale. Mais l’expérience nous le montre : le tri, les opérations de filtrage et les procédures d’asile à la frontière, ça ne fonctionne pas si on veut être en conformité avec le respect des droits.

      La situation des personnes sauvées par l’Ocean Viking et enfermées dans la zone d’attente de Toulon nous a donné raison puisque la plupart d’entre elles ont été libérées et prises en charge pour entrer dans le dispositif national d’accueil (DNA). Soit parce qu’elles avaient été admises sur le territoire au titre de l’asile, soit parce qu’elles avaient fait l’objet d’une décision judiciaire allant dans le sens d’une libération.

      Lire aussi > Ocean Viking, un naufrage diplomatique

      On vient d’assister à un fiasco. Non seulement du côté des autorités – considérant l’échec de leur stratégie politique –, mais aussi pour les personnes maintenues, qui auraient pu se reposer et entrer dans le processus d’asile classique sur le territoire une semaine plus tôt si elles n’avaient pas été privées de liberté. Au lieu de ça, elles ont été fichées, fouillées et interrogées à de multiples reprises.

      Le point positif, c’est que les mineur·es non accompagné·es – qui ont bien été placé·es quelques heures en zone d’attente, contrairement à ce qu’a déclaré le ministère de l’Intérieur – ont été libéré·es le premier jour pour être pris·es en charge. Le Ceseda [code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile] prévoit en effet que les mineur·es non accompagné·es qui souhaitent demander l’asile ne peuvent être maintenu·es en zone d’attente « sauf exception ». Mais c’est généralement le cas.

      Le 16 novembre, devant l’Assemblée nationale, le ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, avait pourtant annoncé l’expulsion de 44 personnes d’ici à la fin de la période de maintien en zone d’attente.

      Une telle déclaration pose de vraies questions sur le non-respect de la convention de Genève, de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales, et du droit national : il n’est pas possible de dire une chose pareille, alors même que les personnes sont en cours de procédure d’asile. Même si les demandes de ces personnes ont été rejetées, il existe des recours, et ça fait partie de la procédure !

      Le droit à un recours effectif est inscrit dans la Convention européenne des droits de l’homme et a même été consacré concernant la procédure d’asile à la frontière en 2007 (2). Mais Gérald Darmanin a aussi dit qu’il avait pris contact, la veille [le 15 novembre, NDLR], avec les autorités des pays d’origine.

      Non seulement les décisions de l’Ofpra n’avaient pas encore été notifiées aux demandeur·ses d’asile à ce moment-là – et quand bien même ça aurait été le cas, elles étaient encore susceptibles de recours –, mais il s’agit encore d’une atteinte grave et manifeste à la convention de Genève. Contacter les pays d’origine de personnes en cours de demande d’asile, a fortiori pour envisager leur expulsion, ajoute des risques de persécutions en cas de retour dans le pays.

      Dans un communiqué, vous avez dénoncé de « nombreuses violations des droits » au sein de la zone d’attente, notamment dans le cadre des procédures d’asile. Lesquelles ?

      À leur arrivée, les personnes ont été prises en charge d’un point de vue humanitaire. À ce sujet, l’Anafé n’a pas de commentaire à faire. En revanche, elles n’ont reçu quasiment aucune information sur la procédure, sur leurs droits, et elles ne comprenaient souvent pas ce qui se passait. En dehors de la procédure d’asile, il n’y avait pratiquement aucun interprétariat.

      Cela a représenté une immense difficulté sur le terrain, où les conditions n’étaient globalement pas réunies pour permettre l’exercice effectif des droits. Notamment le droit de contacter un·e avocat·e, une association de défense des droits, ou un·e médecin. Et ni les associations ni les avocat·es n’ont pu accéder à un local pour s’entretenir en toute confidentialité avec les demandeur·ses d’asile.

      Concernant les demandes d’asile, ça a été très compliqué. Déjà, à l’ordinaire, les procédures à la frontière se tiennent dans des délais très courts. Mais, ici, l’Ofpra a dû mener environ 80 entretiens par jour. Pour les officier·ères de protection, cela paraît très lourd. Et ça signifie aussi que les personnes ont dû passer à la chaîne, moins de 48 heures après leur débarquement, pour répondre à des questions portant sur les risques de persécution dans leurs pays.

      Les entretiens ont été organisés sans confidentialité, dans des bungalows ou des tentes au travers desquels on entendait ce qui se disait, avec des interprètes par téléphone – ce que nous dénonçons mais qui est classique en zone d’attente. Ces entretiens déterminants devraient être menés dans des conditions sereines et nécessitent de pouvoir se préparer. Cela n’a pas été le cas, et on le constate : 123 dossiers de demande d’entrée sur le territoire ont été rejetés.

      Le Conseil d’État a pourtant estimé que, malgré « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé », les droits des personnes placées en zone d’attente n’avaient pas été « entravés de façon grave et manifestement illégale ».

      Nous avons déposé une requête devant le tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’arrêt de création de la zone d’attente, mais cela n’a pas abouti. L’Anafé a fait appel et porté l’affaire devant le Conseil d’État. Ce dernier n’a pas fait droit à notre demande, constatant que des améliorations avaient été apportées par l’administration avant la clôture de l’instruction, tout en reconnaissant que des manquements avaient été commis.

      Le Conseil d’État a néanmoins rappelé que les droits des personnes devaient être respectés, et notamment l’accès à un avocat, à une association de défense des droits et à la communication avec l’extérieur. Par exemple, ce n’est qu’après l’audience que l’administration a consenti à transmettre à l’Anafé le nom des personnes encore enfermées (16 au moment de l’audience) pour qu’elle puisse exercer sa mission de défense des droits.

      Il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés après avoir vécu l’enfer.

      Ces entraves affectent notre liberté d’aider autrui à titre humanitaire découlant du principe de fraternité, consacré en 2018 par le Conseil constitutionnel, mais surtout les droits fondamentaux des personnes que l’Anafé accompagne.

      Il est à déplorer que les autorités ne respectent pas les droits des personnes qu’elle enferme et qu’il faille, à chaque fois, passer par la voie contentieuse pour que des petites améliorations, au cas par cas, soient apportées. Le respect des droits fondamentaux n’est pas une option, et l’Anafé continuera d’y veiller.

      Avec le projet de réforme européenne sur la migration et l’asile, qui prévoit notamment de systématiser la privation de liberté aux frontières européennes le temps de procéder aux opérations de « filtrage », faut-il s’attendre à ce que de telles situations se reproduisent et, en l’absence de condamnation du Conseil d’État, à des expulsions qui seraient, cette fois, effectives ?

      La situation vécue ces derniers jours démontre une nouvelle fois que la procédure d’asile à la frontière et la zone d’attente ne permettent pas de respecter les droits des personnes qui se présentent aux frontières européennes. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis de nombreuses années et c’est ce qu’elle a mis en avant dans le cadre de sa campagne « Fermons les zones d’attente ».

      La perspective d’étendre cette pratique au niveau européen dans le cadre du pacte sur la migration et l’asile est un fiasco politique annoncé. Surtout, cela aura pour conséquence des violations des droits fondamentaux des personnes exilées. Au-delà du camouflet pour le gouvernement français, il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés, et pour certains qui le sont encore, dans la zone d’attente de Toulon, après avoir vécu l’enfer – camps libyens, traversée de la Méditerranée…

      Le filtrage, le tri et l’enfermement ne peuvent pas être la réponse européenne à de telles situations de détresse, sauf à ajouter de la souffrance et de la violence pour ces personnes.

      En représailles de l’action de l’Italie, le gouvernement a annoncé le déploiement de 500 policiers et gendarmes supplémentaires à la frontière franco-italienne, où l’Anafé constate quotidiennement des atteintes aux droits. À quoi vous attendez-vous dans les prochains jours, sur le terrain ?

      Nous sommes évidemment très mobilisés. Actuellement, nous constatons toujours la même situation que celle que nous dénonçons depuis de nombreuses années. Conséquence de ces contrôles, les personnes prennent de plus en plus de risques et, pour certaines, mettent leur vie en péril… Preuve en est l’accident qui a eu lieu ce week-end à la frontière franco-italienne haute (3).

      Il me paraît surtout important de rappeler que ces effectifs sont mobilisés dans le cadre du rétablissement du contrôle aux frontières intérieures, mesure ininterrompue depuis sept ans par les autorités françaises. Or ces renouvellements [tous les six mois, NDLR] sont contraires au droit européen et au code frontières Schengen. Il est temps que ça s’arrête.

      (1) Soit parce qu’elles ont reçu une autorisation d’entrée sur le territoire au titre de l’asile, soit parce que les juges des libertés et de la détention (JLD) ont refusé la prolongation du maintien en zone d’attente, soit parce que les JLD se sont dessaisis par manque de temps pour traiter les dossiers dans le délai imparti, soit en cour d’appel.

      (2) À la suite d’une condamnation par la Cour européenne des droits de l’homme, la France a modifié sa législation (Gebremedhin contre France, req n° 25389/05, 26 avril 2007).

      (3) Un jeune Guinéen est tombé dans un ravin dans les environs de Montgenèvre (Hautes-Alpes), ce dimanche 20 novembre.

      https://www.politis.fr/articles/2022/11/ocean-viking-on-vient-dassister-a-un-fiasco-45077

    • « Ocean Viking », autopsie d’un « accueil » à la française

      La sagesse, comme la simple humanité, aurait dû conduire à offrir aux rescapés de l’Ocean Viking des conditions d’accueil propres à leur permettre de se reposer de leurs épreuves et d’envisager dans le calme leur avenir. Au contraire, outre qu’elle a prolongé les souffrances qu’ils avaient subies, la précipitation des autorités à mettre en place un dispositif exceptionnel de détention a été la source d’une multitude de dysfonctionnements, d’illégalités et de violations des droits : un résultat dont personne ne sort gagnant.
      Dix jours après le débarquement à Toulon des 234 rescapés de l’Ocean Viking – et malgré les annonces du ministre de l’Intérieur affirmant que tous ceux qui ne seraient pas admis à demander l’asile en France seraient expulsés et les deux tiers des autres « relocalisés » dans d’autres pays de l’Union européenne – 230 étaient présents et libres de circuler sur le territoire français, y compris ceux qui n’avaient pas été autorisés à y accéder. Ce bilan, qui constitue à l’évidence un camouflet pour le gouvernement, met en évidence une autre réalité : le sinistre système des « zones d’attente », consistant à enfermer toutes les personnes qui se présentent aux frontières en demandant protection à la France, est intrinsèquement porteur de violations des droits humains. Principale association pouvant accéder aux zones d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) le rappelle depuis 2016 : « Il est illusoire de penser pouvoir [y] enfermer des personnes dans le respect de leurs droits et de leur dignité. » Ce qui s’est passé dans la zone d’attente créée à Toulon en est la démonstration implacable.

      Une gestion calamiteuse

      Pour évaluer a posteriori la gestion calamiteuse du débarquement de ces naufragés, il faut rembobiner le film : poussé dans ses ultimes retranchements mais y voyant aussi l’occasion de se poser en donneur de leçon à l’Italie, le gouvernement annonce le 10 novembre sa décision d’autoriser « à titre tout à fait exceptionnel » l’Ocean Viking à rejoindre un port français pour y débarquer les hommes, femmes et enfants qui, ayant échappé à l’enfer libyen, puis à une mort certaine, ont passé trois semaines d’errance à son bord. « Il fallait que nous prenions une décision. Et on l’a fait en toute humanité », a conclu le ministre de l’Intérieur.

      Preuve que les considérations humanitaires avancées n’ont rien à voir avec une décision prise à contrecœur, le ministre l’assortit aussitôt de la suspension « à effet immédiat » de la relocalisation promise en France de 3 500 exilés actuellement sur le sol italien : sous couvert de solidarité européenne, c’est bien le marchandage du non-accueil qui constitue l’unique boussole de cette politique du mistigri.

      Preuve, encore, que la situation de ces naufragé·e·s pèse de peu de poids dans « l’accueil » qui leur est réservé, une zone d’attente temporaire est créée, incluant la base navale de Toulon, où leur débarquement, le 11 novembre, est caché, militarisé, « sécurisé ». Alors même qu’ils ont tous expressément demandé l’asile, ils sont ensuite enfermés dans un « village vacances », à l’exception de 44 mineurs isolés, sous la garde de 300 policiers et gendarmes, le ministre prenant soin de préciser que, pour autant « ils ne sont pas légalement sur le territoire national ».

      La suspicion tenant lieu de compassion pour ces rescapés, débutent dès le 12 novembre, dans des conditions indignes et avec un interprétariat déficient, des auditions à la chaîne leur imposant de répéter inlassablement, aux policiers, puis aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), les récits des épreuves jalonnant leur parcours d’exil, récits sur la base desquels doivent être triés ceux dont la demande d’asile pourra d’emblée apparaître « manifestement infondée », les empêchant de fouler le sol de cette République qui prétendait, quelques heures auparavant, faire la preuve de son humanité.

      Seuls 66 de ces demandeurs d’asile échappent à ce couperet, si bien que les juges des libertés et de la détention du tribunal de Toulon sont alors chargés d’examiner la question du maintien dans la zone d’attente, au-delà du délai initial de quatre jours, de plus de 130 d’entre eux. La juridiction se révélant rapidement embolisée par cet afflux de dossiers, les juges se trouvent dans l’impossibilité de statuer dans les vingt-quatre heures de leur saisine comme l’impose la loi et ils n’ont d’autre solution que d’ordonner la mise en liberté de la plupart.

      En deux jours 124 dossiers examinés au pas de charge

      Le calvaire pourrait s’arrêter là pour ces exilé·e·s perdu·e·s dans les arcanes de procédures incompréhensibles, mais le procureur de la République de Toulon fait immédiatement appel de toutes les ordonnances de mise en liberté, sans doute soucieux que les annonces du ministre ne soient pas contredites par des libérations en masse. C’est alors la cour d’appel d’Aix-en-Provence – qui est soumise au train d’enfer imposé par la gestion de l’accueil à la française : entre le 16 et le 17 novembre 124 dossiers sont examinés au pas de charge pendant que les personnes concernées sont parquées dans un hall de la cour d’appel jusque tard dans la nuit. Mais les faits étant têtus et la loi sans ambiguïté, les juges d’appel confirment que leurs collègues de Toulon n’avaient pas d’autres choix que de prononcer les mises en liberté contestées. A l’issue de ce marathon, il ne reste, le 21 novembre, que quatre personnes en zone d’attente.

      « Tout ça pour ça » : ayant choisi la posture du gardien implacable des frontières qu’un instant de faiblesse humanitaire ne détourne pas de son cap, le gouvernement doit maintenant assumer d’avoir attenté à la dignité de ceux qu’il prétendait sauver et aggravé encore le sort qu’ils avaient subi. Il faudra bien qu’il tire les leçons de ce fiasco : la gestion policière et judiciaire de l’accueil qu’implique le placement en zone d’attente se révélant radicalement incompatible avec le respect des obligations internationales de la France, il n’y a pas d’autre solution – sauf à rejeter à la mer les prochains contingents d’hommes, de femmes et d’enfants en quête de protection – que de renoncer à toute forme d’enfermement à la frontière.

      Signataires : Avocats pour la défense des droits des étrangers (Adde) Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et trans à l’immigration et au séjour (Ardhis) La Cimade, groupe d’information et de soutien des immigré·e·s (Gisti) La Ligue des Droits de l’homme (LDH) Syndicat des avocats de France (SAF) Syndicat de la magistrature (SM).

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/ocean-viking-autopsie-dun-accueil-a-la-francaise-20221127_B53JAB6K7BDGFKV

    • #Mineurs_non_accompagnés de l’« Ocean Viking » : « Un #hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin »

      Pour Violaine Husson, de la Cimade, la France, signataire de la convention des droits de l’enfant, contrevient à ses engagements en plaçant des mineurs dans des situations loin d’être adéquates.
      L’information a fuité par voie de presse jeudi : 26 des 44 mineurs arrivés en France à bord du bateau humanitaire Ocean Viking ont fugué de l’hôtel où ils étaient logés à Toulon. « Le département a vocation à mettre les mineurs en sécurité mais pas dans des geôles, on ne peut pas les maintenir de force dans un foyer. Ils peuvent fuguer et c’est ce que certains on fait. On ne peut pas les contraindre, il n’y a pas de mesures coercitives à leur égard », a assuré Jean-Louis Masson, le président du conseil départemental du Var. Parmi ces 26 mineurs se trouvaient une majorité d’Erythréens qui, selon Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var, « ne restent jamais » car « ils ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du Nord » comme les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches. Les associations et les ONG, elles, pointent du doigt les conditions d’accueil et de prise en charge de ces jeunes, souvent inadaptées. Violaine Husson, responsable nationale Genre et Protections à la Cimade, répond à nos questions.

      Quelles sont les conditions de vie des mineurs étrangers non accompagnés, comme ceux de l’Ocean Viking, pris en charge dans des hôtels en France ?

      Il faut d’abord préciser une chose : la loi Taquet de février 2022 interdit le placement des mineurs non accompagnés dans des établissements hôteliers. Cela dit, il y a une exception : dans leur phase de mise à l’abri, en attendant l’entretien d’évaluation de leur minorité, il y a une possibilité de les placer à l’hôtel jusqu’à deux mois. C’est le cas pour cette quarantaine d’enfants, ça l’est aussi pour des centaines d’autres chaque année.

      Un hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin. Ils sont placés dans des chambres à plusieurs – en fonction des établissements, ils peuvent se retrouver à une deux ou trois personnes dans une chambre, voire plus –, ils ne parlent pas la même langue, ils n’ont pas la même religion… Il n’y a rien qui les relie vraiment. Par ailleurs, il n’y a pas de suivi social, personne ne vient les voir dans la journée pour leur demander si ça va ou ce qu’ils font. Il n’y a pas de jeux prévus, ils sont indépendants. Ce sont aussi souvent des hôtels miteux, pas chers, avec des toilettes et des salles de bains communes. C’est un quotidien qui est loin de l’idée que l’on se fait des mesures de protection de l’enfance en France.

      Ça peut expliquer pourquoi certains décident de quitter ces établissements ?

      Oui, il y a des enfants qui partent parce que les conditions ne vont pas du tout, elles ne sont pas adéquates. Certains ont dû tomber des nues. Dans certains hôtels, il n’y a pas que des mineurs, parfois ils peuvent être placés avec d’autres publics, des majeurs notamment. Ça les rend particulièrement vulnérables : ils sont des enfants étrangers isolés qui viennent d’arriver d’une traversée éprouvante et des personnes peuvent leur mettre la main dessus.

      La question des mineurs non accompagnés est souvent débattue, certaines personnalités politiques estiment qu’ils coûtent énormément d’argent, qu’ils seraient des délinquants. Qu’en est-il réellement selon vous ?

      En effet, on a parlé des mineurs non accompagnés de manière très négative : il y a la délinquance mais aussi le fait qu’ils mentiraient et qu’ils frauderaient, qu’ils coûteraient beaucoup à l’Aide sociale à l’enfance… Certains politiques ont même affirmé que 80 000 mineurs non accompagnés arriveraient en France chaque année. La réalité est toute autre : il y en a eu un peu plus de 9 000 en 2021. On est quand même loin du fantasme véhiculé.

      La protection de l’enfance est problématique aujourd’hui, il y a un véritable manque de moyen et de compétences, y compris pour les enfants français. Mais c’est bien plus simple de dire que c’est la faute des étrangers, même si leur proportion dans la prise en charge est dérisoire. Il y a cette injonction des politiques politiciennes de dire : le problème de l’Aide sociale à l’enfance, c’est les étrangers. Selon eux, ils mentent, ils fraudent, ils fuguent, ils ne sont pas mineurs ou ne sont pas vraiment isolés. Alors que le système de protection ne fait pas la différence entre les enfants français et étrangers.

      La France, comme d’autres pays, a signé la convention internationale des droits de l’enfant. Les démarches doivent donc être faites en fonction de l’intérêt supérieur de l’enfant. On voit bien que quand on les place à l’hôtel ou qu’on les suspecte de mentir sur leur âge parce qu’ils sont étrangers, ce n’est pas le cas.

      https://www.liberation.fr/societe/mineurs-non-accompagnes-de-locean-viking-un-hotel-ca-ne-correspond-pas-au
      #MNA #enfants #enfance

  • Firm managing hotels for UK asylum seekers posts bumper profits

    Three directors of #Clearsprings_Ready_Homes share dividends of almost £28m, as profits rise sixfold

    A company contracted by the UK Home Office to manage hotels and other accommodation for asylum seekers increased its profits more than sixfold last year, with its three directors sharing dividends of almost £28m.

    Clearsprings Ready Homes has a 10-year contract to manage asylum seeker accommodation in England and Wales, a mix of hotel accommodation that the #Home_Office says is costing it more than £5m a day, and shared housing.

    Clearspringsboosted its profits from £4,419,841 to £28,012,487 to the year ending 31 January 2022, with dividends jumping from £7m to £27,987,262.

    It has been reported that the home secretary, Suella Braverman, allowed numbers to increase at Manston, the Home Office’s processing centre in Ramsgate, Kent, instead of moving people to hotels. However, hotel use is still high. Home Office accommodation providers get better terms on their contracts once the asylum seeker population rises above 70,000, as it has been for more than a year.

    Asylum seekers in hotels receive just over £1 a day, £8.24 a week, to buy essentials.

    Clearsprings’ latest annual accounts provide a buoyant financial forecast for the company in its Home Office contract, which runs until September 2029.

    The annual accounts report states: “Demand for accommodation has remained high, contingency including hotels has increased.”

    The reportadds that turnover and operating profits were boosted this year by an increase in the number of people seeking asylum. It says: “The number of arrivals per year is expected to continue at a high level for the foreseeable future. Due to the long-term nature of the contract and the pre-agreed rates the price risk is considered minimal.”

    Graham O’Neill, the policy manager at the Scottish Refugee Council, condemned the steep rise in profits for #Clearsprings and said public money could be better used.

    “The Home Office is effectively passing billions of the Treasury’s monies for asylum accommodation to private bodies with no plan to grip this. Much of this money ends up as bumper profits and dividends for private companies, directors and shareholders.

    “By definition this profit is not going where it should: into good social housing in communities, into local services so they may support refugees and local people. It is blindingly obvious that this is neither sustainable nor in the public interest. We need swift high-quality asylum decisions and public monies for public good into communities; not into private profit and dividends. The new PM [Rishi Sunak] needs to grip this as that is the solution.”

    Clearsprings and Home Office have been approached for comment.

    https://www.theguardian.com/uk-news/2022/oct/31/firm-managing-hotels-for-uk-asylum-seekers-posts-bumper-profits

    #business #accueil #privatisation #asile #migrations #réfugiés #UK #Angleterre #hôtels #hébergement #dividendes #profit #prix #coût

    ping @isskein @karine4

  • 200 000 postes à pourvoir. Saisonniers : les raisons d’une grande vacance Marie Toulgoat
    https://www.humanite.fr/social-eco/saisonniers/200-000-postes-pourvoir-saisonniers-les-raisons-d-une-grande-vacance-757735

    Alors que l’été a commencé, 200 000 postes resteraient à pourvoir dans les hôtels, restaurants et activités touristiques. La faute à des salaires trop bas, des conditions de travail trop difficiles et à la réforme de l’assurance-chômage, qui poussent les travailleurs vers des emplois sédentaires.

    Dans son restaurant de Samoëns (Haute-Savoie), Laurent (1) désespère. La saison estivale est sur le point de débuter, les premiers vacanciers devraient arriver d’ici quelques jours, et le personnel manque toujours à l’appel.

    Avec un bar en plus de sa brasserie, il embauche habituellement 23 personnes, dont 17 saisonniers. Cette année, il démarre l’été presque bredouille : il lui manque toujours une poignée de salariés pour accueillir les touristes sereinement. « La clientèle est là, mais nous réfléchissons à fermer une journée par semaine car nous n’arrivons pas à embaucher. C’est un problème », souffle le restaurateur.


    Augmentation, suppression des heures de coupures, logements : les employeurs devront composer s’ils veulent recruter. © Fred Tanneau/AFP

    Victimes collatérales de la pandémie de Covid
    Après une saison 2020 inexistante et une année 2021 marquée par l’incertitude sanitaire, l’été 2022 promet de ne ressembler à aucun autre pour les professionnels du tourisme, de l’hébergement et de la restauration. D’ores et déjà, de nombreux employeurs ont ouvert leur établissement avec un contingent de salariés limité.

    Car, depuis l’arrivée du Covid, nombreux sont ceux à avoir enterré leur carrière de saisonnier et à s’être orientés vers un emploi sédentaire. « Ici, beaucoup de personnes ont changé de carrière. Les gens ont du mal à joindre les deux bouts, alors ils sont partis » , explique Léo Genebrier, du comité CGT chômeurs et précaires d’Ardèche.

    Selon lui, la réforme de l’assurance-chômage est l’une des grandes responsables de cette grande démission des saisonniers, en réclamant aux demandeurs d’emploi l’équivalent de six mois de labeur au lieu de quatre. Conséquence : de nombreux habitués ont laissé tomber les saisons, persuadés de ne pas pouvoir travailler assez pour recharger des droits sans travail sédentaire.

    Ces nouvelles règles, Céline Absil en a fait les frais. Guide touristique avant la pandémie et contrainte à l’inactivité pendant les confinements, elle n’a pas pu régénérer ses droits à l’assurance-chômage et a été radiée l’hiver dernier.

    Cet été, dans le sud de l’Ardèche, où elle réside à l’année, trouver un contrat de travail de six mois n’a pas été une tâche aisée. « Après avoir passé l’hiver sans revenus, je voulais vraiment trouver au moins six mois de travail pour recharger mes droits, mais la très grande majorité des contrats sont de trois mois environ. J’ai finalement trouvé un boulot de commis et de plonge pour six mois dans un bistrot, mais j’ai d’abord dû envoyer une quarantaine de CV » , regrette-t-elle.

    Elle aussi membre du collectif CGT chômeurs et précaires, elle se rend compte des effets néfastes de la réforme. À l’en croire, ceux qui n’ont pas décidé d’emprunter un nouveau chemin de carrière disparaissent tout bonnement des radars. « Comme ils savent qu’une saison ce n’est pas assez pour recharger des droits et qu’ils ne pourront plus toucher les allocations, ils ne prennent plus la peine de s’inscrire à Pôle emploi » , explique-t-elle.

    Mais le véritable nerf de la guerre, ce sont les salaires. L’inflation galopante aidant, les saisonniers ne semblent plus vouloir accepter des emplois si précaires, au traitement frisant le Smic et aux heures supplémentaires non payées, comme cela a été très largement la norme durant des années.

    Face à cette demande générale d’une rémunération plus digne, certains employeurs ont sorti le chéquier. « À la sortie du Covid, je rémunérais un plongeur 1 500 euros net, aujourd’hui je propose 1 700 euros net, logement compris. Je ne peux pas faire plus, sinon il faudra répercuter sur les consommations », assure Laurent, restaurateur haut-savoyard.

    Ras-le-bol généralisé
    Pourtant, ces petits coups de pouce restent des initiatives personnelles de la part des employeurs. Au niveau de la branche hôtellerie et restauration, l’histoire est tout autre. En janvier, le patronat a concédé à l’issue de négociations des revalorisations de salaires de 16 % en moyenne. À y regarder de plus près, pourtant, la majorité des saisonniers ne sont pas gagnants. Les premiers niveaux de la grille n’ont eu le droit qu’à une augmentation d’environ 60 euros par mois, déjà aujourd’hui complètement absorbée par la hausse des prix.


    Les saisonniers qui ne travaillent pas dans la restauration, eux, officient pour la plupart sans la moindre revalorisation de leurs revenus. L’année dernière, Vincent en a fait l’expérience. Alors âgé de 20 ans et sans diplôme, il a trouvé un emploi dans une colonie de vacances en Ardèche. Un coup de cœur pour celui qui s’est découvert une passion pour l’animation, mais d’importants sacrifices en termes de rémunération et de conditions de travail. Pendant deux semaines, le jeune homme a travaillé de 7 heures du matin – avant le lever des petits vacanciers – jusqu’à tard dans la nuit, le temps que les longues réunions entre animateurs se terminent, une fois les enfants couchés.

    Des journées pouvant atteindre parfois 20 heures pour un salaire de misère : 900 euros net pour les deux semaines. « Comme j’ai signé un contrat jeune et que je n’avais pas de diplôme, il n’y a aucune heure sur mon bulletin de salaire, alors que j’ai travaillé plus de 150 heures. Tout ça ne comptera donc ni pour le chômage, ni pour la retraite, ni pour la formation que j’essaye d’intégrer et qui demande qu’on puisse justifier de 200 heures de travail en animation », se désole Vincent. Cet été, loin des galères de la colonie, le jeune homme a trouvé un emploi dans un centre de loisirs. Le salaire est loin d’être mirobolant, mais la journée de travail se termine lorsque les parents viennent chercher leur progéniture le soir, pointe-t-il.

    Cet été, plus que jamais, les employeurs devront donc composer avec le ras-le-bol des salariés pour leur conditions de travail au rabais et proposer un accueil satisfaisant s’ils veulent réussir à embaucher. Céline Absil, elle, est tombée sur un patron prêt à faire l’effort.

    Dans son bistrot ardéchois, il a constitué deux équipes, l’une pour le service du midi et l’autre pour le service du soir, supprimant ainsi les heures de coupure du milieu de la journée. « Mon employeur s’est rendu compte que c’était un gros frein et que ça épuisait les équipes. J’ai donc été embauchée pour des journées de 10 à 16 heures » , explique-t-elle.

    Dans le Var, Pascal Marchand, saisonnier depuis vingt-cinq ans, a fait du logement fourni la condition sine qua non de son recrutement. « Je ne signe pas sinon. Je viens du nord de la France, je ne peux pas venir travailler dans le Sud si je n’ai nulle part où me loger » , explique le second de cuisine.

    Un secteur entier au pied du mur
    Pour l’Union des métiers et des industries de l’hôtellerie (Umih), organisation patronale, c’est bien sur les logements qu’il faut insister pour renouer avec l’emploi saisonnier. Car si dans les campings et hôtels, les salariés peuvent être logés sur place gratuitement, ce n’est pas le cas dans la restauration, et beaucoup refusent de signer un contrat sans la garantie d’un habitat confortable. « On commence à voir de bonnes pratiques se mettre en place. À Carnac, un camping a été racheté par la mairie pour y loger les salariés, c’est une bonne chose. À Dunkerque, une chambre de commerce a été réhabilitée. Mais il faudrait une réforme globale du logement pour que cet aspect ne soit plus un frein à l’emploi » , suggère Thierry Grégoire, président de l’Umih saisonniers.

    Avec environ 200 000 postes de saisonniers qui pourraient ne pas être pourvus cet été, l’organisation patronale a d’ailleurs décidé de se tourner vers des candidats outre-Méditerranée. L’Umih envisage en effet de recruter de jeunes salariés tunisiens. Il n’est toutefois pas question de dumping social, assure Thierry Grégoire. « Ce sont des jeunes qualifiés qui souhaitent venir en France pour parfaire leur expérience, avec un contrat de travail de cinq mois au maximum. Ils ont vocation à retourner dans leur pays par la suite » , explique-t-il.

    Dans tous les cas, le secteur entier semble être au pied du mur. Pour mener à bien les saisons touristiques tout en se passant des rustines de dernière minute, les employeurs devront se retrousser les manches et enfin renouer avec l’attractivité de leurs métiers.
    (1) Le prénom a été modifié.

    Droit du travail. Un maximum de revendications
    Si les emplois saisonniers ont leurs spécificités, le Code du travail ne leur réserve pas de dérogations. Ces postes ne concernent donc que les travaux appelés à se répéter chaque année à des dates à peu près fixes, du fait du rythme saisonnier ou de modes de vie. Exit les surcroîts d’activité et les secteurs non indexés au Code du travail. Les contrats saisonniers relèvent des CDD classiques.

    Mais le droit du travail ne règle pas toutes les difficultés. Voilà pourquoi la CGT, la CFDT et FO revendiquent le versement de la prime de précarité à chaque fin de CDD, afin d’éviter la précarité des travailleurs, ainsi que l’abrogation de la réforme de l’assurance-chômage qui impose de travailler au moins six mois pour ouvrir des droits. L’accès au logement, à la formation, la lutte contre le travail non déclaré et le droit à reconduction des contrats d’une année sur l’autre font aussi partie des demandes des organisations syndicales.

    #travailleuses #travailleurs #saisonniers #salariés #droit_du_travail #hôtels #restaurants #tourisme #assurance-chômage #CDD #CDI #précarité

  • Covid-19 patients under home quarantine to wear tracking wristbands from July 15, Hong Kong health minister says; city logs 2,863 infections | South China Morning Post
    https://www.scmp.com/news/hong-kong/health-environment/article/3184846/coronavirus-hong-kong-covid-19-app-update-will

    Covid-19 patients under home quarantine to wear tracking wristbands from July 15, Hong Kong health minister says; city logs 2,863 infections
    Health chief Professor Lo Chung-mau also says government is studying to turn part of seven-day hotel quarantine into home isolation. Lo earlier unveiled plans for online bookings for Covid tests for travellers heading to mainland China.All Covid-19 patients under home quarantine will be required to wear tracking wristbands starting from Friday, Hong Kong’s health minister has announced, while revealing the government is preparing for a worst-case scenario as infection numbers rebound.The new plans came as the city recorded 2,863 cases, including 252 imported ones. Seven additional deaths were reported. Hong Kong’s overall coronavirus tally stands at 1,273,663 infections, with 9,419 related fatalities.Secretary of Health Professor Lo Chung-mau also said the government was studying to turn part of the seven-day hotel quarantine for arrivals from overseas into home isolation, to be conducted in a closed-loop arrangement.Lo announced the measures hours after he unveiled plans to allow online bookings for Covid-19 tests for travellers heading to mainland China via the Shenzhen Bay Port and expand the screening quota, apologising for long queues after people earlier swamped the border crossing.To tackle a backlog of nucleic acid tests at the border checkpoint, Lo said a booking system would be able to process 400 people per hour, with a peak of 500. He said the maximum daily capacity for tests would be raised to 2,500 from 1,300 with the company conducting them more than doubling screening machines from 23 to 47.“On Sunday morning, within three hours, about 1,200 people were crossing at the same time, so this created long queues,” Lo said. Shenzhen Bay Port, one of just two land passenger crossings that remain open amid the pandemic, was packed with crowds over the weekend after the Guangdong provincial city boosted the number of quarantine hotel rooms by 700 to 2,000 a day and added more spots for those in need.Earlier in the day, Lo shed some light on planned updates to the “Leave Home Safe” app, saying the aim was to enforce quarantine orders for those at home, adding that currently there was no way to ensure infected residents could not visit high-risk locations such as restaurants, hospitals and care homes.
    Lo, who first revealed officials were considering adjusting the “Leave Home Safe” app to require real-name registration a day earlier, stressed authorities were primarily considering a red health code for those who were found to be positive in nucleic acid tests, while real-name registration would make it easier to quarantine those infected.He also said a yellow health code, for example, could be used for overseas arrivals who were quarantining at home, as potentially they could be infected with Covid-19.
    “These are people who shouldn’t enter high-risk locations but can go to work point to point,” he said. Macau closes the Grand Lisboa, the first casino shuttered in the Covid-19 pandemicThe mainland uses a three-colour system, which indicates a person’s Covid-19 status via QR codes.
    The mainland’s health code app is used to track and contain patients by providing central authorities with user data such as locations, times and personal interactions.The QR codes generated follow a traffic-light system, with the colours affecting where residents can go and how they are treated: a green code declares a resident has not been exposed to any potential cases or risky areas, while yellow and red codes mean they are of higher risk.In December last year, Hong Kong launched a health code system which is built into the “Leave Home Safe” app and compatible with the mainland’s for people who travel across the border.The new health secretary on Monday addressed concerns that the planned updates would allow people’s movements to be traced, saying their main purpose was to identify high-risk individuals and not “track” them down.Some technology experts noted the “Leave Home Safe” app already contained certain personal details such as vaccine records, which included the user’ name and Hong Kong identity card number.While Lo did not give any more details about the planned update, he said the government was now looking at how to define which cases fell under red, yellow or green codes.‘Faster, daily Covid PCR tests could replace Hong Kong hotel quarantine’
    9 Jul 2022 He also did not give a timetable for the change, but said authorities hoped to bring them in as soon as possible, with the government already looking at how to make the updates. University of Hong Kong microbiologist Dr Ho Pak-leung told the same programme the government’s goals of minimising infected people’s mobility could theoretically be achieved by suspending their vaccine pass, as it was needed to enter any high-risk venues and operators were required to scan it.
    He also said he believed contact tracing should not be the city’s main concern right now. That was because of the large number of infections and a relatively high percentage of cases of unknown origin in the community.

    #Covid-19#migrant#migration#hongkong#chine#zerocovid#depistage#passevaccinal#QRCode#hotel#quarantaine#casimporte#testPCR#vaccination#mobilite#frontiere

  • Hong Kong residents crossing border at Shenzhen Bay Port can soon book Covid-19 tests online as eager travellers throng checkpoint | South China Morning Post
    https://www.scmp.com/news/hong-kong/article/3184784/hong-kong-residents-crossing-border-shenzhen-bay-port-can-soon-book

    Hong Kong residents crossing border at Shenzhen Bay Port can soon book Covid-19 tests online as eager travellers throng checkpoint.New system is aimed at easing crowding at the crossing point as travellers head to mainland China. Traffic has intensified after the Shenzhen government increased quota of quarantine hotel rooms
    Hong Kong is set to allow travellers heading to mainland China through Shenzhen Bay Port to book Covid-19 tests online as residents continue to swamp the checkpoint and ignore the government’s advice to delay trips over the border.Shenzhen authorities also announced on Sunday a new measure to crack down on scalping of quarantine hotel rooms by allocating them through drawing lots following discussions with the Hong Kong government.Shenzhen Bay Port, one of just two land passenger crossings that remain open amid the pandemic, has been packed with crowds in the morning over the weekend after the Guangdong provincial city boosted the number of quarantine hotel rooms by 700 to 2,000 a day and added additional spots for those in need.
    As seen during a Post visit on Sunday, queues snaked outside the checkpoint as hundreds of travellers from Hong Kong waited to undergo the required nucleic acid test before crossing.Planning to visit his relatives on the mainland, Yuen said the Shenzhen government should have made more quarantine hotel rooms available.The 2,000 a day is definitely not enough,” he said. “Residents need to go to Shenzhen. But the issue of quarantine hotel rooms should be addressed first. I was lucky to lock in my booking early on.”Alan Wong, a 49-year-old construction company manager, was unable to book a quarantine hotel room in Shenzhen and his company paid a scalper 2,300 yuan (US$293) to secure a reservation one week in advance.
    Wong said that while it was fairer to use the quota system, the chances of failing to get a hotel room created too many uncertainties for people who needed to do business.“It’s just like waiting for the results of the Mark Six or a Home Ownership Scheme ballot. You’ll never know until the last minute,” Wong said.Secretary for Health Dr Lo Chung-mau visited the checkpoint in the afternoon. Earlier in the day, Lo explained in a TV interview that quarantine-free travel with the mainland remained unfeasible at the moment, as allowing it would require a significant change to the nation’s anti-pandemic policies. Lo added that Hong Kong residents needed to follow the mainland’s requirements when travelling there.
    ‘Faster, daily Covid PCR tests could replace Hong Kong hotel quarantine’
    9 Jul 2022
    A Hong Kong government spokesman said travellers would need to wait for about three hours to receive their Covid-19 test result at the control point and urged them to cross the boundary in the afternoon to avoid the morning rush.Under the coming booking arrangement, which is expected to be ready in a week, travellers must obtain a spot at a Shenzhen quarantine hotel and reserve a time for the Covid-19 test at the border crossing on the day of departure.Hongkongers hoping to travel across the border previously needed to book a room at a quarantine hotel through a government website on a first-come, first-served basis. But to combat the scalping, the Shenzhen government would allocate rooms to travellers by drawing lots, taking into consideration supply and demand, as well as the travel history of the applicant, authorities said. A traveller can only make one booking for the same date and results will be announced at 8pm daily.Society for Community Organisation deputy director Sze Lai-shan said: “The problem now is not much about online booking or queuing at the control point, but more about insufficient hotel rooms for quarantine on the Shenzhen side.
    “The online booking thing is a crowd management measure. It does not mean more people can go to the mainland unless the Shenzhen side makes more quarantine hotel rooms available to meet demand.”Legislator Edward Leung Hei, of the Beijing-friendly Democratic Alliance for the Betterment and Progress of Hong Kong, urged the government to increase shuttle bus services for the Hong Kong-Zhuhai-Macau Bridge to allow more visitors to enter the mainland using that access point.

    #Covid-19#migrant#migration#hongkong#chine#shenzen#frontiere#circulationtransfrontalière#quarantaine#hotel#sante

  • Booking.com fait des tarifs... spéciaux #réfugiés_ukrainiens...

    Ici l’exemple à #Lipari (#îles_éoliennes), en #Italie... là où, je pense, aucun #réfugié n’a jamais mis pied...

    #booking #tarif_spécial #hôtel #catégorisation #asile #migrations #réfugiés

    –—

    ajouté à ce fil de discussion sur les discours et pratiques #pro-réfugiés_ukrainiens...
    https://seenthis.net/messages/950929

    qui est lui-même ajouté à la métaliste sur les formes de racisme qui ont émergé avec la guerre en Ukraine :
    https://seenthis.net/messages/951232

    ping @isskein @karine4

  • Hotel Sarajevo
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/Hotel-Sarajevo-218359

    Nel trentennale dell’inizio dell’assedio di Sarajevo è uscito il docu-film «Hotel Sarajevo» della regista Barbara Cupisti. Il titolo prende spunto dall’albergo Holiday Inn, costruito per le olimpiadi invernali del 1984 e durante la guerra diventato base dei giornalisti internazionali. Prima televisiva il prossimo 29 maggio su Rai

  • Boris Johnson annonce avoir signé un accord avec Kigali pour envoyer des demandeurs d’asile au #Rwanda

    Ce projet, susceptible de s’appliquer à toutes les personnes entrées illégalement sur le territoire, a suscité des réactions scandalisées des organisations de défense des droits humains.

    Le premier ministre britannique, Boris Johnson, a décidé de durcir la politique migratoire du Royaume-Uni, en prenant une décision pour le moins controversée. Le Royaume-Uni a annoncé, jeudi 14 avril, avoir pour projet d’envoyer au Rwanda des demandeurs d’asile arrivés illégalement, espérant ainsi dissuader les traversées clandestines de la Manche, qui sont en pleine augmentation.

    Ce projet, susceptible de s’appliquer à toutes les personnes entrées illégalement sur le territoire, d’où qu’elles viennent (Iran, Syrie, Erythrée…), a suscité des réactions scandalisées. Des organisations de défense des droits humains ont dénoncé son « inhumanité ». L’opposition a jugé que le premier ministre tentait de détourner l’attention après l’amende qu’il a reçue pour une fête d’anniversaire en plein confinement. Le Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) a, de son côté, fait part de « sa forte opposition » :

    « Les personnes fuyant la guerre, les conflits et les persécutions méritent compassion et empathie. Elles ne devraient pas être échangées comme des marchandises et transférées à l’étranger pour être traitées. »
    Un projet chiffré à 144 millions d’euros

    Alors que M. Johnson avait promis de contrôler l’immigration, un des sujets-clés dans la campagne du Brexit, le nombre de traversées illégales de la Manche a triplé en 2021, année marquée notamment par la mort de vingt-sept personnes dans un naufrage à la fin de novembre. Londres reproche régulièrement à Paris de ne pas en faire assez pour empêcher les traversées.

    « A partir d’aujourd’hui (…), toute personne entrant illégalement au Royaume-Uni ainsi que celles qui sont arrivées illégalement depuis le 1er janvier pourront désormais être transférées au Rwanda », a annoncé le dirigeant conservateur dans un discours dans le Kent (sud-est de l’Angleterre). Le Rwanda pourra accueillir « des dizaines de milliers de personnes dans les années à venir », a-t-il ajouté, décrivant ce pays d’Afrique de l’Est comme l’un des « plus sûrs du monde, mondialement reconnu pour son bilan d’accueil et d’intégration des migrants ».

    En vertu de l’accord annoncé jeudi, Londres financera dans un premier temps le dispositif à hauteur de 144 millions d’euros. Le gouvernement rwandais a précisé qu’il proposerait la possibilité « de s’installer de manière permanente au Rwanda [à ces personnes si elles] le souhaitent ».

    Désireux de regagner en popularité avant des élections locales le mois prochain, M. Johnson et son gouvernement cherchent depuis des mois à conclure des accords avec des pays tiers où envoyer les clandestins en attendant de traiter leur dossier.
    Le contrôle de la Manche confié à la marine

    « Notre compassion est peut-être infinie, mais notre capacité à aider des gens ne l’est pas », a déclaré M. Johnson, qui anticipe des recours en justice contre le dispositif. « Ceux qui essaient de couper la file d’attente ou d’abuser de notre système n’auront pas de voie automatique pour s’installer dans notre pays mais seront renvoyés de manière rapide et humaine dans un pays tiers sûr ou leur pays d’origine », a-t-il ajouté.

    Les migrants arrivant au Royaume-Uni ne seront plus hébergés dans des hôtels, mais dans des centres d’accueil, à l’image de ceux qui existent en Grèce, avec un premier centre « ouvrant bientôt », a annoncé M. Johnson.

    Dans le cadre de ce plan, qui vient compléter une vaste loi sur l’immigration actuellement au Parlement et déjà critiqué par l’Organisation des Nations unies (ONU), le gouvernement confie dès jeudi le contrôle des traversées illégales de la Manche à la marine, équipée de matériel supplémentaire. En revanche, il a renoncé à son projet de repousser les embarcations entrant dans les eaux britanniques, mesure décriée côté français.
    Les ONG scandalisées

    En envoyant des demandeurs d’asile à plus de 6 000 kilomètres du Royaume-Uni, Londres veut décourager les candidats à l’immigration, toujours plus nombreux : 28 500 personnes ont effectué ces périlleuses traversées en 2021, contre 8 466 en 2020, selon des chiffres du ministère de l’intérieur.

    Amnesty International a critiqué « une idée scandaleusement mal conçue » qui « fera souffrir tout en gaspillant d’énormes sommes d’argent public », soulignant aussi le « bilan lamentable en matière de droits humains » du Rwanda.

    Daniel Sohege, directeur de l’organisation de défense des droits humains Stand For All, a déclaré à l’Agence France-Presse que l’initiative du gouvernement était « inhumaine, irréalisable et très coûteuse », recommandant plutôt d’ouvrir des voies d’entrée au Royaume-Uni « plus sûres » car celles qui existent sont « très limitées ».

    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/04/14/londres-a-signe-un-accord-avec-kigali-pour-envoyer-des-demandeurs-d-asile-au

    #Angleterre #UK #asile #migrations #réfugiés
    #offshore_asylum_processing

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    ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

    et ajouté à la métaliste sur la mise en place de l’#externalisation des #procédures_d'asile au #Rwanda par l’#Angleterre (2022) :
    https://seenthis.net/messages/900122

    • UN Refugee Agency opposes UK plan to export asylum

      Following public announcements made today, UNHCR, the UN Refugee Agency, expressed strong opposition and concerns about the United Kingdom’s plan to export its asylum obligations and urged the UK to refrain from transferring asylum seekers and refugees to Rwanda for asylum processing.

      “UNHCR remains firmly opposed to arrangements that seek to transfer refugees and asylum seekers to third countries in the absence of sufficient safeguards and standards. Such arrangements simply shift asylum responsibilities, evade international obligations, and are contrary to the letter and spirit of the Refugee Convention,” said UNHCR’s Assistant High Commissioner for Protection, Gillian Triggs.

      “People fleeing war, conflict and persecution deserve compassion and empathy. They should not be traded like commodities and transferred abroad for processing.”

      UNHCR urged both countries to re-think the plans. It also warned that instead of deterring refugees from resorting to perilous journeys, these externalization arrangements will only magnify risks, causing refugees to seek alternative routes, and exacerbating pressures on frontline states.

      While Rwanda has generously provided a safe haven to refugees fleeing conflict and persecution for decades, the majority live in camps with limited access to economic opportunities. UNHCR believes that wealthier nations must show solidarity in supporting Rwanda and the refugees it already hosts, and not the other way around.

      The UK has an obligation to ensure access to asylum for those seeking protection. Those who are determined to be refugees can be integrated, while those who are not and have no other legal basis to stay, can be returned in safety and dignity to their country of origin.

      Instead, the UK is adopting arrangements that abdicate responsibility to others and thus threaten the international refugee protection regime, which has stood the test of time, and saved millions of lives over the decades.

      The UK has supported UNHCR’s work many times in the past and is providing important contributions that help protect refugees and support countries in conflicts such as Ukraine. However, financial support abroad for certain refugee crises cannot replace the responsibility of States and the obligation to receive asylum seekers and protect refugees on their own territory – irrespective of race, nationality and mode of arrival.

      While UNHCR recognizes the challenges posed by forced displacement, developed countries are host to only a fraction of the world’s refugees and are well resourced to manage claims for asylum in a humane, fair and efficient manner.

      https://www.unhcr.org/news/press/2022/4/62585e814/un-refugee-agency-opposes-uk-plan-export-asylum.html

    • The Border is a Colonial Wound: The Rwanda Deal and State Trafficking in People

      The border is a “colonial wound” that is designed for #bordering and #ordering#b/ordering – of the racialised and illegalised people by any means. The UK’s Nationality and Borders Bill and its subsequent offshore detention deal to deport people desperately seeking refugee to Rwanda is enactment of this exclusive b/ordering regime. One does not need to read between the lines to understand the objectives of the UK’s so-called “#Arrangement” with Rwanda as set out in article 2.1 and 2.2 of the #Memorandum_of_Understanding:

      2.1 The objective of this Arrangement is to create a mechanism for the relocation of asylum seekers whose claims are not being considered by the United Kingdom, to Rwanda, which will process their claims and settle or remove (as appropriate) individuals after their claim is decided…

      2.2 For the avoidance of doubt, the commitments set out… do not create or confer any right on any individual, nor shall compliance with this Arrangement be justiciable in any court of law by third-parties or individuals.

      These b/ordering arrangements pushes refugees and people seeking asylum into spaces of exception and extra-legality through a discriminatory policing at national (e.g., the Nationality and Borders Bill) and bilateral (e.g., the Memorandum of Understanding between the UK and Rwanda) levels. It does so in newly designated detention spaces like Manston, like the mandatory dispersal to Local Authorities announced at the same time as the Rwanda deal, and expansion of the securitised detention estate. Without doubt, these b/ordering arrangements have already become sources of ambivalence, anxiety and uncertainty. They are a source of terror to those who wish to seek asylum and are already arrayed in a precarious state. And if you had seen our direct messages as the announcement was leaked to the press and the fear expressed you can be in no doubt that the aim of terrorising people already placed in highly vulnerable immigration statuses is having a chilling effect.

      John Vine, the UK’s First Independent Chief Inspector of Borders cand Immigration, speaking on Sky News after the Prime Minister’s announcement of the Migration and Economic Partnership Deal with Rwanda, underscored the costs, not only economically, which have been calculated as far exceeding the cost of placing people in the Ritz, but the costs to the human body and the body politic. Deportation can only be affected by using often violent restraint and against the will of the individual. Jimmy Mbenga is the name every activist in the anti-deportation sector holds close when thinking of the ways restrains are effected on the deportees body, with the danger of asphyxiation. Nicolas Proctor’s as inspector of the Australian detention estate, where such off shoring mechanisms have been long in use, writes of the exponential rise in suicide and self harm under such conditions of deportation and detention. The deal is the official instigation of necropolitics, long written of by Achille Mbembe, but now instituted in ‘deals’ and ‘schemes’ and very likely indeed, unless prevented by the House of Lords, to be enacted into law.

      Indeed, the goal of the new national and bilateral arrangements is to create “discounted bodies” or ‘bodies at the limits of life, trapped in uninhabitable worlds and inhospitable places’. In this case, uninhabitability and inhospitality are designed and deliberate. The intention is simply to hold life in a permanent ‘state of injury’ outside any realms of protection and political intelligibility. Whether it be rendering people inadmissible through the legislation or “processing” them in offshore containment spaces, they all amount to necropolitical experimentation.

      Behrouz Boochani’s multi award winning book No Friend But The Mountains documents the destituting of human beings in such centres as the UK has now chosen to replicate. Even more so, his extraordinary film, Chauka, Please Tell Us The Time,

      ‘After a year or two years I found out that the journalism language is not powerful enough to tell the suffering and to tell the history of this prison, and what Australian government is doing in this island’, said Boochani.

      A chauka is a small bird native to Manus Island and is also the name of the high-security prison within the camp. The chauka is a symbol of the island and allows locals to tell the time from the chauka’s regular singing.In a sinister twist, it is pronounced the same as the English word “choker.”

      On April 15, the U.K. joined Australia in becoming a state that traffics people, destituting the bodies and lives of those who claim their right of asylum, and instituting a reign of necropolitics.

      This decision is against the spirit and letter of the Refugee Convention and the legal opinion of UNHCR UK has already expressed grave concerns about the U.K’s obligations as a state as a signatory of the 1951 Convention. In fact, the UNHCR has condemned the deal; ‘People seeking safety and protection, who have few alternatives, should not be penalized’.

      That this is likely to be contested in law and through the courts and will be the site of a great deal of opposition is not in doubt; or that it will eventually be overturned, as with Israel’s failed Rwanda deal and Australia’s failed Manus and Nauru project. But until then, we all have hard work to do.

      https://www.law.ox.ac.uk/research-subject-groups/centre-criminology/centreborder-criminologies/blog/2022/04/border-colonial
      #discriminations #extra-légalité #coût #violence #santé_mentale #suicides #nécropolitique #inhospitalité #inhabitabilité

    • Rwanda genocide orphans to be booted out of home to make way for UK asylum seekers

      Orphans of Rwanda’s civil war say they have nowhere to go after being turfed out of a hostel under Priti Patel’s cruel Rwanda refugee scheme

      Orphans of the Rwandan genocide will lose their home to make way for refugees being booted out of Britain by Home Secretary Priti Patel.

      Some 22 residents are being turfed out of Hope House hostel to make room for asylum seekers sent to the African country under the proposed scheme.

      As more migrants landed in Dover yesterday, Lib Dem MP Alistair Carmichael said the evictions were “cruel and heartless”.

      Orphans of Rwanda’s civil war say they have nowhere to go after being turfed out of a hostel under Patel’s cruel Rwanda refugee scheme.

      A shelter for traumatised victims of the 1994 conflict is being emptied to make way for asylum seekers being sent from the UK under the controversial Tory plan.

      Although now in their late 20s, the 22 survivors have no money or family and some face lifelong mental health battles. They were given a fortnight’s notice to ship out of the hostel – ironically named Hope House – in capital city Kigali.

      Tonight one vulnerable woman who has lived at the shelter for eight years said: “I barely know any other home. I was only told about moving out a few days ago. I have not figured out where I will go.”

      https://www.mirror.co.uk/news/world-news/rwanda-genocide-orphans-booted-out-26728311

    • Le Royaume-Uni signe un accord avec Kigali pour envoyer des demandeurs d’asile au Rwanda

      Le Rwanda a signé un accord controversé avec Londres pour accueillir sur son sol des migrants et demandeurs d’asile de diverses nationalités acheminés du Royaume-Uni, a annoncé jeudi Kigali à l’occasion d’une visite de la ministre anglaise de l’Intérieur, Priti Patel. Le Haut Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a fait part de « sa forte opposition » au projet britannique.

      Le Royaume-Uni a annoncé, jeudi 14 avril, un projet controversé d’envoyer au Rwanda les demandeurs d’asiles arrivés illégalement sur son territoire et confié la surveillance de la Manche à la Royal Navy, espérant dissuader les traversées de clandestins qui ne cessent d’augmenter.

      Alors que le Premier ministre Boris Johnson avait promis de contrôler l’immigration, un des sujets clés de la campagne du Brexit, le nombre de traversées illégales, très dangereuses, a triplé en 2021 et continue d’augmenter. Londres reproche régulièrement à Paris de ne pas en faire assez pour les empêcher.

      « À partir d’aujourd’hui (...), toute personne entrant illégalement au Royaume-Uni ainsi que ceux qui sont arrivés illégalement depuis le 1er janvier pourront désormais être relocalisés au Rwanda », a annoncé le dirigeant conservateur lors d’un discours dans un aéroport du Kent (sud-est de l’Angleterre).

      Le Rwanda pourra accueillir « des dizaines de milliers de personnes dans les années à venir », a-t-il ajouté, affirmant que ce pays d’Afrique de l’Est est « l’un des pays les plus sûrs au monde, mondialement reconnu pour son bilan d’accueil et d’intégration des migrants ».

      Ce projet, susceptible donc de s’appliquer à tous les clandestins d’où qu’ils viennent (Iran, Syrie, Érythrée...), a suscité des réactions scandalisées des organisations de défense des droits humains, qui dénoncent son « inhumanité ». L’opposition a jugé que le Premier ministre tentait de détourner l’attention après avoir reçu une amende pour une fête d’anniversaire en plein confinement.
      Un accord à 144 millions d’euros

      Désireux de regagner en popularité avant des élections locales en mai, Boris Johnson et son gouvernement cherchent depuis des mois à conclure des accords avec des pays tiers où envoyer les migrants en attendant de traiter leur dossier.

      Une telle mesure est déjà appliquée par l’Australie avec des îles éloignées du Pacifique, une politique très critiquée. Par ailleurs, le Danemark avait également envisagé d’envoyer ses demandeurs d’asile vers des pays africains.

      En vertu de l’accord annoncé jeudi, Londres financera dans un premier temps le dispositif à hauteur de 120 millions de livres sterling (144 millions d’euros). Le gouvernement rwandais a précisé qu’il proposerait aux personnes accueillies la possibilité « de s’installer de manière permanente au Rwanda » si elles « le souhaitent ».

      « Notre compassion est peut-être infinie mais notre capacité à aider des gens ne l’est pas », a déclaré Boris Johnson. Le chef du gouvernement britannique a ajouté que « ceux qui essayent de couper la file d’attente ou abuser de notre système n’auront pas de voie automatique pour s’installer dans notre pays mais seront renvoyés de manière rapide, humaine, dans un pays tiers sûr ou leur pays d’origine ».

      Les migrants arrivant au Royaume-Uni ne seront plus hébergés dans des hôtels mais dans des centres d’accueil à l’image de ceux existant en Grèce, avec un premier centre « ouvrant bientôt », a annoncé Boris Johnson.
      Migrants échangés « comme des marchandises »

      Dans le cadre de ce plan, qui vient compléter une vaste loi sur l’immigration actuellement au Parlement et déjà critiqué par l’ONU, le gouvernement confie dès jeudi le contrôle des traversées illégales de la Manche à la Marine, équipée de matériel supplémentaire. Il a renoncé en revanche à son projet de repousser les embarcations entrant dans les eaux britanniques, mesure décriée côté français.

      En envoyant des demandeurs d’asile à plus de 6 000 kilomètres du Royaume-Uni, le gouvernement veut décourager les candidats au départ vers le Royaume-Uni, toujours plus nombreux : 28 500 personnes ont effectué ces périlleuses traversées en 2021, contre 8 466 en 2020... et seulement 299 en 2018, selon des chiffres du ministère de l’Intérieur.

      Amnesty International a critiqué une « idée scandaleusement mal conçue » qui « fera souffrir tout en gaspillant d’énormes sommes d’argent public », soulignant aussi le « bilan lamentable en matière de droits humains » de la nation africaine.

      Pour le directeur général de Refugee Action, Tim Naor Hilton, c’est une « manière lâche, barbare et inhumaine de traiter les personnes fuyant la persécution et la guerre ».

      Le Haut Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a fait également part de « sa forte opposition » au projet britannique. « Les personnes fuyant la guerre, les conflits et les persécutions méritent compassion et empathie. Elles ne devraient pas être échangées comme des marchandises et transférées à l’étranger pour voir leur dossiers traités », a déclaré le HCR dans un communiqué.

      Même dans les rangs conservateurs, les critiques ont fusé, le député Tobias Ellwood estimant sur la BBC qu’il s’agit d’une « énorme tentative de détourner l’attention » des déboires de Boris Johnson dans le « Partygate », ces fêtes organisées dans les cercles du pouvoir pendant les confinements.

      https://www.france24.com/fr/europe/20220414-le-royaume-uni-signe-un-accord-avec-kigali-pour-envoyer-des-deman

    • Le Rwanda déjà engagé dans des projets d’accueil de migrants avec d’autres pays

      Le Rwanda serait-il en train de devenir un sous-traitant de la prise en charge des demandeurs d’asile pour les pays européens ? Le pays vient de signer jeudi 15 avril un accord très controversé avec le Royaume-Uni, qui souhaite y déporter ses migrants clandestins. Pour Kigali, ce n’est pas exactement une première, puisque le Rwanda est déjà engagé depuis plusieurs années dans divers projets d’accueil et de réinstallation de migrants.

      Dès 2014, un accord très opaque avec #Israël crée la polémique. Il prévoit déjà l’envoi de demandeurs d’asiles vers l’#Ouganda et le Rwanda. Mais une fois arrivés en Afrique centrale, beaucoup de ces migrants sont vite repartis. Kigali parle aujourd’hui d’un projet pilote rapidement abandonné, explique notre correspondante à Kigali, Laure Broulard.

      En 2019, Rwanda accepte d’accueillir des réfugiés évacués de #Libye par le HCR, le temps que leur demande d’asile soit examiné par des pays occidentaux. Quelques centaines d’entre eux sont actuellement logés dans un centre d’accueil dans l’Est du pays.

      Plus récemment, Kigali a également reçu des Afghans fuyant les talibans, notamment les élèves et le personnel d’un internat pour jeunes filles. Enfin, le pays est en discussions avec le #Danemark, qui souhaite y externaliser ses demandes d’asile. « Nous sommes disposés à explorer des décisions difficiles avec des partenaires de bonne foi pour pouvoir trouver une solution durable à ces questions de migration illégale », explique le ministre des Affaires étrangères rwandais, Vincent Biruta.

      Autant d’initiatives qui permettent au Rwanda de Paul Kagame, critiqué pour sa répression de la liberté d’expression et de l’opposition, de se faire connaître comme un pays « sûr », accueillant et comme un partenaire intéressant. Dans le cas de l’accord avec le Royaume-Uni, c’est aussi une #opportunité_économique, puisque Londres a déjà promis un investissement de près de 145 millions d’euros pour soutenir le #développement du pays.

      Londres s’attend à des recours en justice

      Mais les réactions d’indignation se multiplient. L’ONU parle d’un projet « irréaliste, immoral et discriminatoire ». Le gouvernement de Boris Johnson pense que son partenariat avec le Rwanda, pour y envoyer les demandeurs d’asile arrivés illégalement au Royaume-Uni, pourra débuter dans les prochaines semaines. Londres s’attend à des recours en justice, mais l’opposition pourrait même venir du sein même du ministère de l’Intérieur, explique notre correspondante à Londres, Emeline Vin.

      Pour faire approuver le partenariat migratoire entre le Royaume-Uni et le Rwanda, Priti Patel a utilisé une #directive_ministérielle, un mécanisme qui lui permet de passer outre l’opposition de son directeur de cabinet. C’est seulement le deuxième recours par le ministère de l’Intérieur depuis 30 ans.

      Officiellement, il s’agit de contourner les réserves des fonctionnaires, non affiliés politiquement, sur le financement. Le ministère n’a pas de chiffrage précis et certains officiels pensent que « relocaliser », vers le Rwanda, des migrants arrivés illégalement en Grande-Bretagne pour y demander l’asile, risque de coûter plus cher à long terme.

      Mais pour les syndicats, cela montre surtout le caractère ultra-polémique du projet, un élu le qualifiant de « purement inhumain ». Selon un autre, Priti Patel est passée en force, car elle savait qu’elle n’avait pas le soutien de ses équipes. Or, un #fonctionnaire n’a que le choix d’appliquer les politiques de son ministère ou de quitter son poste. Le gouvernement a présenté le programme à la veille du weekend pascal, qui dure du vendredi au lundi ici, mais s’attend à des recours en justice. 160 ONG l’ont déjà appelé à renoncer.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220416-le-rwanda-d%C3%A9j%C3%A0-engag%C3%A9-dans-des-projets-d-accueil-de-migr
      #sous-traitance #réfugiés_afghans #Afghanistan #passage_en_force

    • Arrangement Royaume-Uni/Rwanda : externaliser l’asile en Afrique, arme de dissuasion massive en Europe

      Par une mesure urgente de suspension du 14 juin 2022, la Cour européenne des droits de l’Homme vient rappeler au Royaume-Uni qu’il est toujours soumis au respect du droit international de l’asile. Que ce soit au Royaume-Uni ou dans les Etats membres de l’Union européenne, l’heure n’est plus à l’accueil et la course au renvoi des personnes exilées bat son plein.

      L’externalisation de l’asile au Rwanda était l’une des principales mesures du « plan immigration » du Royaume-Uni, présentée le 14 avril 2022, et censée dissuader les traversées « irrégulières » de la Manche. Mais les recours des plaignant.e.s – majoritairement originaires de Syrie, Irak et Iran – et de leurs soutiens, auront finalement payé : le 14 juin, par des mesures provisoires, la Cour européenne des droits de l’Homme a empêché in extremis le départ du premier vol de demandeur.se.s d’asile « transféré.e.s » du Royaume-Uni au Rwanda [1], sauvant ce qu’il reste du principe de non-refoulement. Mais au vu de la détermination britannique, ce n’est sans doute que partie remise…

      Car les velléités « d’accueillir » les exilé.e.s au plus loin du territoire européen sont profondes et anciennes [2]. Dès 1986, le Danemark proposait un système de gestion des demandes d’asile dans des centres de traitement régionaux, administrés par les Nations Unies, dans lesquels auraient été systématiquement placé.e.s les demandeur.se.s d’asile ayant franchi la frontière « irrégulièrement ». En 2003, s’inspirant de la décriée « Solution pacifique » australienne [3], Blair évoquait des « centres de transit » hors Europe pour y envoyer les demandeurs et demandeuses d’asile avant qu’ils et elles n’atteignent le sol européen.
      En 2022, c’est devenu une réalité pour le Royaume-Uni de Johnson : les exilé.e.s pourront voir leur demande de protection jugée irrecevable s’ils ou elles sont arrivé.e.s sur le sol britannique en dehors des postes frontières habilités, après un voyage "dangereux", ou en provenance d’un pays tiers sûr, et pourront être envoyé.e.s au Rwanda, où ils et elles pourront déposer une demande d’asile. Si la décision est positive, le Rwanda deviendrait alors pays d’accueil et de protection pendant cinq ans, dans le cadre du protocole d’accord entre les deux pays, en échange de 120 millions de livres versées par le Royaume-Uni [4]
      Avec cet arrangement, le Royaume-Uni fait un pas de plus dans la violation du principe de non-refoulement, pierre angulaire du droit d’asile.
      Il n’est pas, loin s’en faut, le seul État à avancer dans cette direction. Depuis plusieurs années, les États européens ont choisi leur « accueil », normalisant les refoulements aux frontières de l’Europe et multipliant les accords formels ou non avec les pays du Sud global, sous le regard placide des institutions européennes et/ou avec leur participation.

      Un cap a été franchi en la matière en 2016 avec la Déclaration UE/Turquie, permettant le renvoi vers la Turquie des exilé.e.s arrivé.e.s sur les îles grecques, y compris celles et ceux pour qui la Turquie était considérée comme un pays tiers sûr. En 2018, la Commission européenne propose d’instaurer dans les pays d’Afrique du Nord des « plateformes de débarquement régionales » pour « sauver des vies » et trier les exilé.e.s en amont des eaux et du territoire européens [5], mais doit abandonner le projet face au refus de la Tunisie, du Maroc et de l’Algérie de jouer le jeu.
      Mais en février 2020, dans une décision favorable aux autorités espagnoles – qui avaient procédé en 2017 à des refoulements à la frontière terrestre avec le Maroc –, la Cour européenne des droits de l’Homme entérine – au mépris de la Convention de Genève (art. 31) – l’impossibilité de déposer une demande d’asile en cas de « franchissement illégal d’une frontière » [6] . En octobre 2021, la Pologne légalise à sa frontière les refoulements de celles et ceux qui l’auraient traversée « illégalement », n’hésitant pas à cette occasion à remettre en cause la primauté du droit européen sur le droit national [7].

      Ici, de nouveau sous le prétexte fallacieux de « sauver des vies » en leur évitant les risques d’une traversée périlleuse, le Royaume-Uni valide la « relocalisation » vers le Rwanda d’exilé.e.s déjà présent.e.s sur le sol européen, et dont les demandes de protection ont été jugées irrecevables sans examen au fond. Ce faisant, le Royaume-Uni part du principe que le Rwanda – qui accueille depuis 2019 le programme d’urgence du HCR visant à évacuer les personnes les plus vulnérables des centres de détention libyens pour les placer dans des centres de transit d’urgence (dans le cadre du mécanisme de transit d’urgence - ETM) – est un pays tiers « sûr », tant pour ses ressortissant.e.s que pour les personnes étrangères qui y sont renvoyées. Ce, malgré les vives critiques de l’opposition politique sur les atteintes aux droits in situ, notamment à la liberté d’expression et des personnes LGBTI+ [8].

      Le Brexit aura sans doute permis au Royaume-Uni de s’affranchir en partie du socle européen de la protection internationale et de se défausser de ses responsabilités en matière d’accueil.
      Mais l’asile est attaqué de toutes parts, y compris par les États membres de l’Union. Ainsi, le Danemark a-t-il également conclu en avril 2021 un Protocole d’entente avec le Rwanda, et adopté en juin 2021 une loi lui permettant d’externaliser l’examen de la demande d’asile, en transférant les demandeur⋅euse⋅s qui seraient déjà arrivé⋅e⋅s sur son territoire vers des centres situés hors UE, moyennant finances [9]

      En pratique, l’externalisation de l’asile revient, pour les États, à piétiner leurs obligations en matière d’accueil et de protection internationale, et à vider de son sens les principaux instruments de protection internationaux (Convention de Genève et Convention européenne des droits de l’Homme) – auxquels le Royaume-Uni est toujours soumis, comme vient de lui rappeler la Cour européenne des droits de l’Homme.
      Cette logique de marchandage propre à l’externalisation permet aussi à des régimes autoritaires non-européens de se renflouer économiquement et d’être réhabilités au niveau diplomatique en tant que partenaires légitimes auprès de l’UE, ici le Rwanda vivement critiqué sur la restriction des libertés de ses ressortissant.e.s.

      L’externalisation de l’asile est contraire à la lettre et à l’esprit de la Convention de Genève, et sape le régime mondial d’accueil des réfugié.e.s. Elle est contraire à la liberté de chacun.e de choisir librement le pays d’accueil dans lequel il ou elle souhaite demander une protection et s’établir, et est en outre aux antipodes de la solidarité : le Royaume-Uni et le Danemark comptent parmi les pays les plus riches du monde et accueillent beaucoup moins d’exilé.e.s que de nombreux autres États bien plus pauvres, notamment en Afrique. Selon le Haut-Commissariat des Nations Unies pour les réfugiés, [10].

      La politique cruelle et éhontée consistant à renvoyer depuis le Nord les demandeurs et demandeuses d’asile vers un pays du Sud situé à des milliers de kilomètres doit être condamnée et combattue avec détermination, au nom de l’accueil de tou.te.s, et pour que vive le droit d’asile.

      https://migreurop.org/article3108

    • Le président rwandais instrumentalise les droits des réfugiés

      Le Royaume-Uni devrait annuler l’accord sur les demandeurs d’asile

      Cette semaine, le président rwandais Paul Kagame a lancé un avertissement sans ambages aux réfugiés fuyant la recrudescence de la violence en République démocratique du Congo : « Nous ne pouvons pas continuer à accueillir des réfugiés pour lesquels, plus tard, nous serons tenus responsables d’une manière ou d’une autre, ou attaqués. »

      La déclaration du président illustre crûment la politisation des droits des réfugiés opérée par le gouvernement rwandais. Elle intervient à un moment où le Rwanda vient de conclure un accord peu scrupuleux d’un montant de 120 millions de livres (environ 145 millions de dollars) avec le Royaume-Uni pour accueillir des demandeurs d’asile arrivés au Royaume-Uni par des voies « irrégulières ». Outre avoir tenté d’édulcorer le bilan du Rwanda en matière de droits humains, les autorités britanniques ont cherché à justifier leur politique en affirmant que le Rwanda a une solide expérience en ce qui concerne l’accueil de réfugiés – dont environ 76 000 sont issus de la RD Congo voisine. En réalité, le gouvernement britannique ignore délibérément les faits.

      Comme il le faisait déjà il y a dix ans, le Rwanda soutient la rébellion du M23 dans l’est de la RD Congo. La reprise des hostilités par le M23, l’armée congolaise et divers autres groupes armés a contraint plus de 520 000 personnes à fuir leurs foyers, selon les Nations Unies. De récentes enquêtes menées par le groupe d’experts des Nations Unies sur le Congo, ainsi que des recherches de Human Rights Watch, ont identifié des preuves selon lesquelles le Rwanda ne se contente pas seulement de fournir un soutien logistique au M23, mais intervient également directement sur le sol congolais avec ses propres troupes pour renforcer les rangs du groupe armé ou combattre à ses côtés.

      Les propos de Paul Kagame font peut-être référence aux meurtres d’au moins 12 réfugiés congolais dans le camp de réfugiés de Kiziba, au Rwanda, en février 2018, lorsque la police a tiré à balles réelles sur des réfugiés qui protestaient devant le bureau de l’agence des Nations Unies pour les réfugiés (UNHCR) du district de Karongi, dans la province de l’Ouest.

      Ses dernières déclarations témoignent du refus des autorités de prendre leurs responsabilités et d’assurer que justice soit rendue pour les abus perpétrés par les forces de sécurité rwandaises, y compris à l’encontre de réfugiés. L’enquête de la commission nationale des droits humains sur les meurtres de 2018 a étouffé l’affaire et personne n’a été tenu pour responsable à ce jour. Au lieu de cela, la police rwandaise a arrêté plus de 60 réfugiés et les a accusés de participer à des manifestations illégales, de se livrer à des violences contre les autorités publiques et à des actes de rébellion, puis de désobéir aux forces de l’ordre. Certains ont également été accusés de « propagation d’informations mensongères en vue de provoquer l’hostilité de l’opinion internationale vis-à-vis de l’État rwandais ».

      Les dernières attaques de Paul Kagame contre les droits humains, cette fois contre ceux des réfugiés, ne font que s’ajouter à la liste des preuves attestant que le Rwanda n’est pas un partenaire international fiable et de bonne foi, et que le projet du Royaume-Uni d’envoyer des demandeurs d’asile au Rwanda est fondé sur des contre-vérités et une politique cynique.

      https://www.hrw.org/fr/news/2023/01/11/le-president-rwandais-instrumentalise-les-droits-des-refugies

      #Paul_Kagame #Kagame #responsabilité

  • Kapitalismus statt Kollektiv
    https://www.nd-aktuell.de/artikel/1163033.wombat-s-city-hostel-in-berlin-kapitalismus-statt-kollektiv.html

    15.4.202 von Christian Lelek - Das ehemalige »Wombat’s«-Hostel in Berlin soll Teil einer globalen Kette werden - die einstige Belegschaft wollte es genossenschaftlich betreiben.

    Nach fast drei Jahren Leerstand soll sich bald wieder etwas tun im ehemaligen »Wombat’s«-Hostel in Berlin-Mitte. Von außen wirkt es, als sei in der Alten Schönhauser Straße 2 die Tür der ehemaligen Filiale der kleinen Hostel-Kette gerade erst ins Schloss gefallen. Zur Erinnerung: Im August 2019 entschied sich die damalige Geschäftsführung, den Standort in Berlin zu schließen - trotz profitablen Betriebs.

    Mutmaßlicher Grund: Die Beschäftigten hatten in der elfjährigen Geschichte des Hostels einen Betriebsrat installiert und erfolgreich wiedergewählt sowie das Management dazu gebracht, den Branchentarifvertrag des Hotel- und Gaststättengewerbes anzuwenden. Erfolge, die die verbreitete These der Unorganisierbarkeit von meist jungen Hostel-Belegschaften, die die Arbeit nur als eine Episode sehen, widerlegten. Gekämpft wurde beiderseits mit harten Bandagen und es war klar, dass die Arbeiter*innen nicht aufgehört hätten, den Hostelbetrieb nach ihren Interessen zu gestalten. Immer öfter fanden sich Geschäftsführung und gewerkschaftlich Aktive vor Gericht wieder. Auf Dauer war dies dem Unternehmen offenbar sowohl finanziell wie auch nervlich zu herausfordernd. Und es war wohl auch nicht notwendig, da »Wombat’s« im europäischen Ausland eine Handvoll weiterer gut laufender Standorte betrieb.

    Den Beschäftigten erschien die Schließung damals als von langer Hand geplant. Gegenüber »nd« berichten die Gewerkschaftsaktivist*innen Ruth Kreuzer und Raphael Kamps, dass ab Anfang 2019 nur noch befristete Arbeitsverträge ausgestellt worden waren. Ende März des Jahres informierte das Management die Belegschaft erstmals über die anstehende Schließung zum Ende August 2019. Es folgten wiederholt rechtliche Auseinandersetzungen und öffentliche Kundgebungen gegen die Schließung. Der Betriebsrat konnte für die Belegschaft immerhin einige Abfindungen rausschlagen.

    Hinter den Kulissen wechselten einen knappen Monat vor der Schließung Anfang August die Geschäftsführung und der Sitz der Wombat’s Berlin GmbH. Der neue Sitz an einem Gewerbestandort in Charlottenburg ist zugleich der des größten europäischen Unternehmens für Büroimmobilien und mit Liegenschaften im Wert von 25 Milliarden Euro dem drittgrößten Immobilienunternehmen Europas überhaupt. Die in Luxemburg registrierte Aktiengesellschaft Aroundtown SA ist zudem seit November 2019 über zwei zypriotische Anschriften kleinster und größter Gesellschafter der Wombat’s Berlin GmbH. Mit dieser Übernahme gelangte auch die Immobilie in Mitte zu Aroundtown. Der Gründer und Inhaber der Wombat’s Holding, Sascha Dimitriewicz, bestätigt auf Nachfrage von »nd« den 2019 erfolgten Verkauf der Liegenschaft.

    Aroundtown wiederum, Hauptsponsor des aufstrebenden Berliner Fußball-Bundesligisten 1. FC Union, hat in der Vergangenheit unter anderem durch seine undurchsichtige Firmenstruktur mit 400 Tochtergesellschaften allein in Berlin, Verflechtungen nach Zypern und dem steuervermeidenden Geschäftsmodell der sogenannten Share Deals einiges an Kritik auf sich gezogen.

    Am ehemaligen »Wombat’s« Standort findet sich heute ein Briefkasten mit der Aufschrift »Selina«. Im Café »Tinman«, seit 2017 einziger weiterer Mieter in der Alten Schönhauser Straße 2, heißt es, dass über »Selina« seit der Schließung geredet werde, sich seitdem aber nichts merklich getan habe. In der Hotelbranche kursierten seit 2019 Informationen, denen zufolge der globale Hotelkonzern Selina Holding für das gleiche Jahr zwei Hotels in Berlin eröffnen würde - darunter eines an der Torstraße 34.

    »Selina« ist einer der neuen Sterne der Branche. Seit der Eröffnung des ersten Hotels in Panama 2014 wurden weltweit 90 Filialen eingeweiht, wofür 350 Millionen Dollar an Investorengeldern akquiriert worden sind. Noch in dieser Jahreshälfte will das Unternehmen über den Kauf durch ein Mantelunternehmen, das die Form einer Aktiengesellschaft hat, an der New Yorker Börse gelistet sein. »Selina« wirbt mit einem erwarteten positiven Geschäftsergebnis vor Steuern, Zinsen und sonstigen Abschreibungen ab 2023 und einem prognostizierten Umsatz von 1,2 Milliarden Dollar für 2025. Zum Vergleich: die »Wombat’s«-Hostel-Kette erwartet für 2022 einen Umsatz von 16,5 Millionen Euro.

    Das Geschäftskonzept ist relativ simpel. Da sich die klassische Hotellerie und Backpackerbranche nicht ausreichend auf die geänderten Bedürfnisse der heutigen Kundschaft eingerichtet hat, sollen Immobilienunternehmen unrentabel gewordene Standorte aufkaufen. Sie sollen auch 90 Prozent der Modernisierungskosten tragen. »Selina« will so möglichst schnell in die vermutete Marktlücke vorstoßen, in der sich auch bereits etablierte Konzerne tummeln wie die vor allem durch die »Ibis«-Kette bekannte französische Accor-Gruppe. Es geht um die im schönsten Marketingsprech als »Millenials, Generation Z & Remote Workers« bezeichneten Gruppen der derzeit bis 40-Jährigen sowie derjenigen, die für die Arbeit nur einen Laptop und einen Internetzugang brauchen, und nicht in einem Büro tätig sind. Weltweit wird ein jährliches Umsatzpotenzial von 350 Milliarden Euro prognostiziert. Statt Arbeits- und Übernachtungsplätzen soll ihnen ein kuratiertes Erlebnis inklusive Wellness, gastronomischen Highlights, Lokalkolorit, Partys und einem Gemeinschaftsgefühl verkauft werden. Eine Geschäftsbeziehung unter dem Mäntelchen von Freude und Freundschaft also.

    Spätestens im Herbst soll die ehemalige »Wombat’s«-Filiale in Mitte Teil dieses weltweiten Netzwerks für die einst als »digitale Nomaden« bezeichnete Zielgruppe sein, erklärt »Selina«-Mitbegründer Saurabh Chawla auf »nd«-Anfrage. Das »Selina Hotel Mitte and CoLive« soll demnach das Flagschiff in der Hauptstadt inklusive eigenem Radiosender, Ausstellungen, Co-Working Space, veganer Küche und lateinamerikanischen Cocktails auf der Dachterrasse werden. Und noch ein interessantes Detail verrät Chawla: Den Verkauf der Wombat’s Berlin GmbH an Aroundtown habe »Selina« entsprechend diesem Geschäftsmodell eingefädelt. Die dann über drei Jahre verzögerten Wiedereröffnungspläne begründet Chawla mit den wirtschaftlichen Auswirkungen der Corona-Pandemie.

    Die ehemaligen »Wombat’s«-Aktivist*innen Ruth Kreuzer und Raphael Kamps halten das nur für einen Teil der Wahrheit. »Das Haus war völlig marode. Am Ende stand der Keller unter Wasser, was die Bausubstanz angegriffen hatte«, berichten sie. Ständig seien Rohre geplatzt. »Das Haus hat man 2008 richtig billig hochgezogen, wohl mit viel Pfusch am Bau«, vermuten sie. Eine Eröffnung bereits im Herbst scheint ihnen angesichts der baulichen Probleme daher überambitioniert. An einen Ausstieg von »Selina« aus dem Projekt glauben sie allerdings auch nicht.

    Es hätte auch ganz anders kommen können, meinen sie. »Die Belegschaft hatte eine Vision und einen Plan, was man mit dem Raum hätte machen können«, sagen die Aktivist*innen. In dem damaligen Kampf hatten sie an die Politik, an Mitglieder des Deutschen Gewerkschaftsbundes und weitere Akteure appelliert, sich für die Übernahme des Betriebs durch die Belegschaft stark zu machen und damit die gewerkschaftlich erkämpften Standards gegenüber Unternehmertum und Kapital abzusichern. Aber am Ende sei ihnen eigentlich auch klar gewesen, dass diese Forderung nach Enteignung von privatwirtschaftlichen Unternehmen zugunsten einer kleinen engagierten Belegschaft als utopisch verhallen musste.

    #Berlin #Mitte #Alte_Schönhauser_Straße #Streik#Arbeit #Hotellerie #Tourismus #Immobilien

  • Roumanie : pénurie de main-d’œuvre, les travailleurs asiatiques à la rescousse

    Quatre millions de Roumains ont émigré à l’étranger depuis l’intégration à l’UE en 2007 et les entreprises peinent à recruter. La solution ? Faire venir des travailleurs d’Asie. Dans la région de #Cluj-Napoca, ils viennent du #Sri_Lanka et du #Vietnam pour travailler dans l’#hôtellerie ou l’#industrie. Reportage.

    « Nous sommes partis à cause de la chute de l’activité touristique. Il y avait eu les attentats en 2018, puis avec la pandémie de covid-19, c’est devenu encore plus difficile », raconte Ravindu Wanigathunga. Le jeune homme de 26 ans originaire du Sri Lanka, est aujourd’hui chef pâtissier dans un complexe hôtelier de Cluj-Napoca. « Ici, je gagne un peu plus que chez moi et le coût de la vie n’est pas trop élevé. Si j’étais parti en Europe de l’Ouest, je gagnerais plus, mais le coût de la vie serait très élevé, voilà pourquoi j’ai préféré la Roumanie. » Ravindu est arrivé en Transylvanie il y a quelques mois. « Je me suis trouvé une bonne place, les gens sont corrects, mais le Sri Lanka me manque. »
    Comme lui, ils sont des dizaines de milliers à être venus de pays asiatiques – Sri Lanka, mais aussi #Népal, Vietnam, #Philippines, #Bangladesh, #Inde et #Pakistan – pour travailler en Roumanie. Depuis 2007 et l’intégration européenne, le pays a vu quatre millions de ses habitants partir vers les pays de de l’Ouest et du Nord chercher une vie meilleure. Aujourd’hui, selon le ministère roumain du Travail, on compte 480 000 #emplois_vacants et 200 000 demandeurs d’emploi. La solution : faire venir des travailleurs étrangers non européens. Depuis un an, la Roumanie a quadruplé le quota des visas travail pour les travailleurs étrangers hors UE : fixé à 25 000 début 2021, il est passé à 50 000 en juillet 2021, puis à 100 000 début 2022. Principalement à destination du secteur du bâtiment et de l’hôtellerie-restauration.
    Un tremplin vers l’Europe de l’Ouest ?
    Ils sont quinze Sri-lankais à travailler avec Rovindu dans le complexe hôtelier de Cluj-Napoca. Shen BasNayake, 24 ans, est moins nostalgique de son pays natal, probablement parce qu’il n’est arrivé qu’il y a deux mois et demi et que sa mère, Renuka, est aussi en Roumanie. Arrivée il y a trois ans, celle-ci travaille comme femme de chambre. C’est en Roumanie que Shen et Renuka ont vu la neige pour la première fois.
    Leur collègue Salindu a 29 ans et dix années d’expérience dans une chaîne hôtelière internationale à Tangalle, dans son île natale. Le fait que la Roumanie soit un État membre de l’UE était un argument suffisant pour qu’il accepte l’offre, dans un contexte de déclin de l’activité touristique au Sri Lanka. Gamimi Gulathunga, 57 ans, est le vétéran du groupe. Il n’en est pas à sa première expérience à l’étranger, lui qui a déjà travaillé à Dubaï et en Arabie Saoudite. Mais son cœur est « toujours au Sri Lanka », assure-t-il.
    Janith Kalpa considère cette expérience de travail en Roumanie comme un potentiel tremplin vers un pays d’Europe de l’Ouest. Du moins, ce jeune serveur l’espère. De toute façon, la Roumanie est membre de l’UE, donc « sur le CV, ça ne fera pas de mal », estime-t-il. Il a également travaillé à Dubaï, mais il préfère les clients roumains. « Les gens ici sont polis, ils nous demandent d’où nous venons, comment nous allons. Le pourboire est plus généreux aussi. » Et puis, il dit qu’il aime les femmes roumaines et raconte qu’un ancien employé sri lankais a même fondé une famille ici. Pourquoi pas lui ?

    “Je ne trouvais tout simplement personne à embaucher, aussi je me suis tourné vers une agence à Bucarest et j’ai choisi cette option.”

    « Je ne trouvais tout simplement personne à embaucher, aussi je me suis tourné vers une agence à Bucarest et j’ai choisi cette option », confie Eugen Tușa, le propriétaire du complexe hôtelier de Cluj Napoca. « Je leur ai préparé un logement, je sais que je peux compter sur eux. On a des gens qui sont là depuis trois ans, certains sont partis, d’autres sont venus, mais dans l’ensemble, je suis satisfait. » « Ils sont très responsables, souriants et les clients apprécient ça », ajoute Teona Tușa. « Avec les Roumains, on s’est parfois heurté à un manque de sérieux ou à des exigences diverses, mais même quand on les remplissait, ce n’était quand même pas bien. »

    Les quinze travailleurs sri-lankais de cet hôtel ne représentent qu’une petite fraction du contingent de travailleurs asiatiques installés dans la région de Cluj-Napoca. L’une des entreprises qui en compte le plus est le fabricant italien d’appareils électroménagers De’Longhi, implanté dans la zone industrielle de Jucu, à 20 kilomètres de Cluj-Napoca, là où se trouvait l’usine Nokia jusqu’à sa fermeture en 2011. Sur les 3000 employés de l’usine italienne, 330 sont Sri-lankais.

    Trente Sri-lankais avaient d’abord été embauchés, qui en ont ensuite recommandé 300 autres. « Nous les avons embauchés et cela s’est avéré réussi, car les gens étaient reconnaissants et l’absentéisme et le pourcentage de départs parmi eux étaient extrêmement faibles », explique Florina Cicortaș, directrice des ressources humaines de l’entreprise. En récompense de ces bonnes recommandations, les employés de la première phase ont reçu des primes. L’entreprise a des coûts supplémentaires car elle fournit aussi les logements, mais ces coûts sont compensés par le fait que l’absentéisme et le pourcentage de départ sont faibles, relativise la DRH.

    “On travaille pour pouvoir envoyer de l’argent à la famille au pays, pour les enfants, ma femme et mes parents.”

    Il y a quatre ans, c’était les Vietnamiens qui représentaient le principal contingent de travailleurs non européens en Roumanie. Sur la centaine d’employés de l’entreprise de fabrication d’armoires métalliques d’Adrian Kun, elle aussi établie dans la zone industrielle de Cluj-Napoca, ils représentent même la majorité des travailleurs. « Je n’arrivais et n’arrive toujours pas à trouver des travailleurs ici, donc nous avons contacté une agence de recrutement directement au Vietnam, nos représentants s’y sont rendus et nous avons fait la sélection », explique Adrian Kun.

    De manière informelle, les travailleurs roumains de l’entreprise se disent parfois mécontents du fait que les travailleurs étrangers sont logés et nourris gratuitement, voire qu’ils gagneraient plus qu’eux. Mais s’ils bénéficient effectivement d’un logement inclus dans leur contrat de travail, dans des espaces aménagés à proximité de l’usine, « les travailleurs étrangers ne sont pas avantagés par rapport aux Roumains », se défend le chef d’entreprise. Un travailleur vietnamien gagnerait environ 500 euros – 2 à 3 fois plus que dans son pays d’origine – alors qu’un Roumain se voit offrir 800 euros. Mais même avec ce salaire, Adrian Kun a du mal à attirer les travailleurs roumains.

    Minh Van, 41 ans, travaille dans l’entreprise depuis trois ans. Il est contrôleur qualité. Il n’est pas rentré chez lui depuis tout ce temps et n’a pu pris des vacances qu’à l’automne dernier. « J’avais un salaire assez bas au Vietnam, aujourd’hui j’ai un bon revenu. On travaille pour pouvoir envoyer de l’argent à la famille au pays, pour les enfants, ma femme et mes parents », explique-t-il. Entre-temps, il est devenu un intermédiaire pour faire venir de nouveaux travailleurs du Vietnam, afin de remplacer ceux qui terminent leur contrat et souhaitent retourner dans leur pays natal.

    “La pénurie de main-d’oeuvre en Roumanie est telle que pour beaucoup d’employeurs, il n’y a pas d’alternative.”

    Recourir à des travailleurs étrangers présente des difficultés en termes de démarches administratives – qui prennent du temps avant de rendre l’embauche possible – et de communication entre collègues, mais aussi parce que beaucoup n’ont pas de qualification dans le domaine dans lequel ils viennent travailler, il faut donc les former. « Mais la pénurie de main-d’oeuvre en Roumanie est telle que pour beaucoup d’employeurs, il n’y a pas d’alternative », reconnaît Augustin Feneșan, président de l’Association des employeurs et artisans de Cluj.

    Encore faut-il que les quotas de visa travail établis par le gouvernement le leur permettent. Pour l’instant, la législation du travail donne la priorité aux Roumains et aux travailleurs de l’UE et de nombreux employeurs n’obtiennent pas l’autorisation d’aller chercher des travailleurs dans les pays asiatiques. Mais la récente et forte augmentation des #quotas de #visa travail par les autorités roumaines laissent entrevoir une arrivée de plus en plus massives de travailleurs étrangers en Roumanie.

    https://www.courrierdesbalkans.fr/Penurie-de-main-d-oeuvre-en-Roumanie-les-travailleurs-asiatiques-

    #travailleurs_étrangers #main_d'oeuvre #pénurie #travail #main-d’œuvre_étrangère