Marzo 1997. Il mare di mezzo subisce le politiche repressive dell’Italia per chiudere i confini. La tragedia della #Kater_i_Rades si inserisce in una storia secolare di migrazione nell’Adriatico.
Tutto sembra iniziare e finire con una polaroid. Agosto 1991, porto di Bari. Un peschereccio ha lanciato l’allarme alla Guardia Costiera di Brindisi:
«C’è una nave stracarica di persone, viene verso l’Italia». «Quanti saranno?», chiede il controllo. «Una marea», risponde il peschereccio. La nave era la #Vlora, appena tornata in Albania dopo aver scaricato zucchero a Cuba.
Il comandante della nave #Halim_Milaqi raccontò dell’assalto della folla di disperati allo sbando dopo la caduta del regime comunista, raccontò di essere stato costretto a levare l’ancora dal porto di Valona e a far rotta verso l’Italia.
Il viceprefetto di Brindisi, #Bruno_Pezzuto, decise di dirottare la nave Vlora con i suoi ventimila passeggeri verso il porto di #Bari, pensando che le ore necessarie a un’imbarcazione così carica e lenta per raggiungere il capoluogo regionale potessero aiutare a organizzare soccorsi. Il resto è storia: lo sbarco sul molo troppo piccolo, ma più lontano dalla città; migliaia di persone ammassate allo #Stadio_della_Vittoria; i rimpatri; le tensioni tra l’amministrazione cittadina del capoluogo pugliese e il governo di Roma.
Come se tutto quello che è accaduto, l’8 agosto 1991, fosse una sorta di trailer di quella che sarebbe diventata la narrazione tossica sulle migrazioni in Italia nei trent’anni seguenti. Una folla di senza nome, un affresco minaccioso, l’impressione dell’invasione. E delle frontiere che diventano letali.
Il primo respingimento
Ancora Italia-Albania, ancora lo stesso Adriatico, ma siamo nel 1997, il 28 marzo alle 18:57 per la precisione.
La Kater i Rades, una motovedetta di piccole dimensioni, si dirige verso l’Italia. È carica di uomini, donne e bambini. In fuga dalle violenze che sono esplose in Albania dopo il crollo delle piramidi finanziarie che hanno messo sul lastrico tante famiglie.
In Italia il dibattito politico è veemente: si teme un’altra “invasione” di migranti dall’Albania, il governo è sotto pressione e rafforza il pattugliamento nelle acque tra i due Stati. La Marina adotta anche manovre intenzionali per disturbare e interdire la navigazione di altri natanti civili.
Una corvetta della Marina militare italiana, la Sibilla, avvista l’imbarcazione e inizia le manovre di “dissuasione”. Insegue la Kater i Rades, le gira intorno, la avvicina. Troppo. La tocca a poppa e in pochi minuti l’imbarcazione cola a picco nel Canale d’Otranto. I superstiti furono solo 34, i morti 57, in gran parte donne e bambini, 24 corpi non verranno mai ritrovati.
Il processo per accertare le responsabilità dell’accaduto è molto lungo e alla fine gli unici responsabili del disastro risultano essere il comandante della Sibilla e l’uomo al timone della Kater.
«Il naufragio della Kater i Rades costituisce una pietra di paragone per tutti gli altri naufragi a venire, non solo perché è stato l’esito delle politiche di respingimento e dell’isteria istituzionale che le ha prodotte. Non solo perché i termini della questione oggi sono i medesimi. Non solo perché, con totale cinismo o somma indifferenza, una forza politica di governo continua a parlare di blocchi navali nel Mediterraneo. Il naufragio della Kater i Rades è una pietra di paragone, perché, a differenza dei molti altri avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo», scrisse Alessandro Leogrande, nel suo libro inchiesta Il Naufragio, raccontando quello che viene ormai ricordato come la prima delle cosiddette tragedie del mare.
Indietro nei secoli
Eppure l’Adriatico è stato per secoli una rotta di migrazioni, del passato e del presente.
La prima migrazione di massa è probabilmente sulla stessa rotta: ancora Albania-Italia. Tra il XV e il XVII secolo, provenienti da quelle regioni note come Epiro (oggi a cavallo tra Albania e Grecia), centinaia di migliaia di profughi si stabilirono in Italia. Dopo la caduta della resistenza all’avanzata dell’Impero ottomano, con la morte del comandante supremo Skanderbeg (l’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota, morto nel 1468 combattendo gli ottomani, ndr), i civili che non volevano finire sotto l’egida del Sultano fuggirono verso la Puglia, passando l’Adriatico, fermandosi o continuando il loro viaggio fino a Calabria e Sicilia. Qui, dopo secoli, ancora oggi, conservano lingua e tradizioni dei loro antenati.
E poi, durante la Guerra Fredda, piccole imbarcazioni di pescatori si mettevano al servizio – dietro compenso – di “viaggi” da una parte all’altra del confine tra Italia e Jugoslavia, in un senso e nell’altro. Verso le coste italiane fuggivano i nemici del socialismo e cioè nazionalisti, soprattutto croati, che volevano evitare i processi per aver collaborato con nazisti e fascisti. In Jugoslavia, invece, passavano militanti di sinistra italiani, ex partigiani che non avevano lasciato le armi o esponenti di movimenti extraparlamentari, che cercavano protezione o proseguivano verso l’allora Cecoslovacchia.
Perché l’Adriatico, da sempre, per vicinanza e navigabilità, è una rotta quasi naturale dei movimenti umani, legali e illegali.
Fino a pochi anni fa soltanto, ad esempio, una delle rotte migratorie più comuni era legata al porto greco di Patrasso. Migliaia di persone, che arrivavano in Grecia dal confine con la Turchia, per la maggior parte provenienti dall’Afghanistan e dal Pakistan, finivano in un accampamento informale all’ingresso del porto della città greca, vivendo in una tendopoli che ormai aveva assunto le dimensioni di una città fantasma.
Bar e barbieri, piccoli ristoranti, negozi erano spuntati in tutto l’accampamento che arrivò a ospitare fino a duemila persone. Tendenzialmente tollerati dalle autorità e dai residenti, lentamente, vissero sulla loro pelle il cambio di narrazione sulle migrazioni, l’emergere dell’estrema destra (in particolare il movimento Alba Dorata), l’esasperazione dei residenti.
Le tensioni aumentavano, ma decine di ragazzi continuavano a provare a partire, sempre nello stesso modo: aspettavano i camion che facevano manovra per entrare nel porto di Patrasso, provavano ad aprire il rimorchio e ci saltavano dentro. A volte riuscivano, altre no.
Come nel caso di S.J., un migrante afghano di 24 anni, trovato morto nel garage del traghetto Cruise Europa della Minoan Lines il 6 settembre 2009, in rotta da Patrasso ad Ancona. Gli venne trovata in tasca una domanda per lo status di rifugiato politico in Grecia. L’autopsia stabilì che il giovane era morto per asfissia nella stiva, dove venne calcolato che la temperatura avesse raggiunto i 50 gradi percepiti. Nessuno ha mai tenuto il conto di quanti S.J. non ce l’hanno fatta.
Pochi mesi prima, c’era stato il primo sgombero violento del campo, che si era poi ricostituito in più campi di dimensioni inferiori, ma che andarono incontro negli anni successivi allo stesso destino.
La rotta adriatica
Oggi quella rotta ha numeri poco significativi, ma ancora vengono registrati arrivi provenienti dai porti greci e albanesi a Bari, Brindisi, Ancona e Venezia.
Una segnalazione di Global Initiative Against Transnational Organized Crime, ad esempio, raccontava nel 2021 come l’Albania fosse una base di partenza, ma non più per la popolazione locale.
Il 9 gennaio 2021 un’imbarcazione con 55 migranti provenienti da Siria, Iran ed Egitto – tra cui donne e bambini – vennero salvati in mare al largo delle coste dell’Albania. Il motoscafo su cui viaggiavano, partito da Valona, in Albania, era diretto in Italia e si era rotto. I piloti erano fuggiti e la barca andava alla deriva e perdeva carburante.
La stessa segnalazione analizzava anche altri viaggi, che cominciano sulle coste sia dell’Albania sia del vicino Montenegro, ma con una modalità diversa rispetto al passato: non più grandi imbarcazioni, non più nascosti nei traghetti. Ma piccole barche, a volte addirittura a vela (facilmente scambiabili per imbarcazioni da turismo) per piccoli gruppi. Che potevano pagare cifre molto alte in cambio di un viaggio più sicuro.
Il naufragio di Steccato di Cutro, che ha fatto almeno 180 vittime nel febbraio 2023, è il risultato di un viaggio simile. Il caicco inabissatosi, però, era partito dalla Turchia ed era diretto in Calabria. Un’ipotesi è che abbia evitato l’Adriatico perché, secondo le testimonianze di alcuni migranti e le informazioni fornite da una fonte di IrpiMedia, i trafficanti lo considerano troppo pattugliato, molto più delle coste calabresi.
Oggi in alto Adriatico, la rotta migratoria più battuta è quella via terra. Ogni giorno, nel piazzale principale della stazione ferroviaria di Trieste, si possono incontrare le persone in viaggio sulla cosiddetta Rotta balcanica. Si calcola che siano state decine di migliaia le persone arrivate via terra dal 2015, con un incremento negli ultimi anni.
Rispetto alle migrazioni via mare, invece, le novità degli ultimi anni in Adriatico, sono legate soprattutto a rotte di “ritorno”. Sempre più spesso, alle navi delle Ong che salvano in mare persone dalla rotta del Mediterraneo centrale, vengono assegnati porti in Adriatico, per ordine del governo italiano. Rispetto a questa pratica, dovuta alla nuova normativa italiana, le ong hanno emesso un comunicato congiunto nel quale accusano l’esecutivo di Roma.
«Nel 2023, le navi di soccorso delle Ong sono state costrette a percorrere più di 150.500 km in più per raggiungere porti lontani, il che equivale a fare più di tre volte e mezzo il giro del mondo. Ciò significa centinaia di giorni trascorsi lontano dall’area di ricerca e soccorso, dove la vita delle persone è a rischio», denunciano le organizzazioni firmatarie.
L’ultimo accordo
C’è un’ultima polaroid che rischia di essere scattata, questa volta dall’altro lato dell’Adriatico. Rappresenta due centri di detenzione in territorio albanese per le persone migranti intercettate o soccorse in mare dalle navi italiane. Nel novembre 2023, infatti, l’Italia ha siglato un accordo con l’Albania che porterà alla nascita in territorio albanese di «strutture per effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio dei migranti non aventi diritto all’ingresso e alla permanenza nel territorio italiano».
Secondo Amnesty International, l’accordo rappresenta una «violazione degli standard internazionali di ricerca e soccorso, riversa sofferenze aggiuntive su persone appena salvate dal mare, spesso traumatizzate per aver appena assistito all’annegamento di altre persone o bisognose di assistenza urgente» e mette «a rischio numerose vite umane».
L’intesa tra i presidenti Giorgia Meloni e Edi Rama vale almeno 65 milioni di euro, il prezzo per la sola costruzione degli edifici, a cui vanno ovviamente aggiunti i costi di gestione, a carico sempre dello Stato italiano.
Nel maggio 2024, mentre in Italia infuriavano le polemiche sui costi di queste strutture in rapporti ai reali risultati che dovrebbero raggiungere, in Albania la costruzione del centro per l’arrivo dei migranti via mare, nel porto della cittadina di Shëngjin, era praticamente conclusa, mentre quella del centro di detenzione nella località interna di Gjader, era ancora molto indietro.
Ciò nonostante, nel corso di una visita in Albania il 5 giugno 2024, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato che «il complesso dei due centri per migranti in Albania sarà operativo dal primo agosto 2024». È un cerchio che sembra chiudersi, ancora una volta, a scapito dei diritti e delle vite umane.
Gli impatti
Decine di scatti, decine di movimenti tra le sponde, di traffici legali e illegali e di migrazioni. Movimenti che hanno avuto e hanno sempre un impatto, da entrambi i lati. Ci sono gli impatti sulle storie personali, quelle di chi è riuscito ad avere una nuova vita, di chi non è arrivato, di chi è arrivato e ha trovato altro.
Come Hyso Telharaj, arrivato in Italia dall’Albania nel 1999 e ucciso pochi mesi dopo per essersi rifiutato di piegarsi ai caporali delle campagne pugliesi dove lavorava come bracciante.
Ci sono poi impatti più ampi, la cui concretezza si può notare dopo giorni, mesi, anni. È l’impatto dei flussi economici provenienti dai traffici, che attraversano il mare di mezzo. Non c’è una mappa che descrive questi impatti: ci sono collegamenti, passaggi di denaro tra una città e un’altra, operazioni che svelano sistemi che vanno ben oltre i confini nazionali. Sono flussi che, a differenza di quelli di persone, non creano allarme sociale, ma creano cambiamenti reali, più o meno visibili.
Ci sono i soldi del contrabbando di sigarette, che hanno avuto un impatto locale, garantendo un reddito a migliaia di pugliesi, e un impatto internazionale, con enormi quantità di denaro drenate verso i paradisi fiscali.
E poi ci sono i traffici di stupefacenti che, attraverso il riciclaggio dei proventi in attività immobiliari e turistiche, hanno cambiato il volto di porzioni di costa su entrambe le sponde dell’Adriatico. Non solo. In Albania, hanno anche contribuito a falsare l’economia e a far salire i prezzi, a danno di chi in certi affari illegali non è coinvolto, ma ne paga comunque le conseguenze.
Vale anche per i rifiuti tossici e le armi, che hanno avuto impatti devastanti sulla salute e anche sulla stessa vita degli abitanti dei luoghi di destinazione di questi flussi di merci illegali.
L’Adriatico è una frontiera dove, fin dai tempi degli Imperi del Quattrocento, c’è una continua commistione tra interessi criminali ed economie legali. La globalizzazione ha accorciato le distanze del mondo ma ancora oggi non c’è nessuna cerniera che tiene insieme mondi diversi in uno spazio così ridotto: Oriente e Occidente; Europa dentro l’Unione europea, ed Europa fuori dall’Unione europea. Tutti bagnati dallo stesso mare di mezzo.