• Andrea Di Michele. Il segno coloniale

    Dopo decenni di rimozione collettiva, l’epoca delle colonie italiana viene oggi riletta in chiave critica. Di Michele, professore di Storia contemporanea a Bolzano, delinea le fasi di un passato ancora presente nelle piazze e nelle vie.

    Monumenti, mausolei, bassorilievi, intitolazioni di vie: le tracce del colonialismo italiano sono presenti ancora oggi in molte città. Negli ultimi anni il dibattito culturale e politico si è interrogato su come intervenire su queste opere. Lo storico Andrea Di Michele vede nelle iniziative di ricontestualizzazione la possibilità di leggere criticamente l’epoca coloniale italiana e di fornire alla cittadinanza gli strumenti per conoscere e approfondire questo periodo che costituisce una delle pagine più buie della storia del nostro Paese.

    Professor Di Michele, in quale cornice temporale si ascrive l’epoca coloniale italiana?
    ADM Si tende erroneamente a fare coincidere il colonialismo italiano con il fascismo, mentre il suo inizio si colloca immediatamente dopo l’unificazione del Paese e più precisamente nel 1869 con l’acquisto della baia di Assab, in Eritrea, da parte di una compagnia di navigazione privata. Nei primi anni Ottanta dell’Ottocento questo avamposto venne poi acquistato dallo Stato italiano e nel 1885 l’occupazione di Massaua segnò l’inizio dell’esperienza coloniale statale italiana.

    Come si sviluppò questo primo periodo coloniale?
    ADM In questa fase l’Italia fece i conti con i suoi limiti, subendo molte sconfitte. Nel 1887, a Dogali, cercò di espandere senza successo la propria posizione, arrivando a contare cinquecento morti tra le proprie fila. Ancora più pesante fu la sconfitta di Adua, in Etiopia, nel 1896: i morti italiani furono migliaia, il Governo Crispi cadde e la politica coloniale si arrestò temporaneamente per riprendere nel 1911 con la guerra di Libia.

    L’avvento del fascisco cambiò le cose?
    ADM Benito Mussolini ampliò le conquiste dell’Italia liberale e lo fece con una violenza inaudita nei confronti della popolazione civile. Ad esempio per invadere definitivamente la Cirenaica, all’inizio degli anni Trenta, più di un terzo della popolazione di questo territorio -circa 100mila persone- venne deportata e rinchiusa in veri e propri campi di concentramento con una tasso di mortalità spaventosa. Nel 1937, il fallito attentato a Rodolfo Graziani, a quel tempo viceré di Etiopia, scatenò una vera e propria caccia all’uomo che provocò migliaia di morti. Non va poi dimenticata la legislazione che portò alla “zonizzazione”, ovvero a un sistema di apartheid con aree separate per bianchi e neri.

    Il 1869 è stato l’anno in cui gli storici collocano l’inizio del colo-nialismo italiano che coincide con l’acquisto della baia di Assab, in Eritrea, da parte di una compagnia di navigazione privata

    La caduta del fascismo sancì una rottura con l’epoca coloniale?
    ADM No. Dopo il 1945 l’Italia cercò di mantenere il controllo dei territori che deteneva prima del fascismo. Vi fu anche una netta continuità nell’amministrazione pubblica: fino al 1953 ha operato il ministero dell’Africa italiana, in cui lavorava chi aveva le “competenze” giuste, ovvero chi aveva lavorato nel Paese fino a poco prima.

    Quando si è iniziato a guardare al passato coloniale italiano con uno sguardo critico?
    ADM L’immagine di un colonialismo italiano sostanzialmente un po’ “all’acqua di rose” ha resistito a lungo. Solo a partire dagli anni Ottanta una nuova generazione di studiosi si è interrogata sul ruolo dei fenomeni profondamente razzisti che avevano caratterizzato la storia d’Italia. Si sono ricostruite quindi le gravi responsabilità italiane nelle colonie, ad esempio per quanto riguarda l’uso dei gas, per molti anni negato. Poi dagli archivi militari sono emersi i documenti ufficiali, in molti casi tenuti prima volutamente nascosti, e con loro la verità storica.

    Secondo lei perché questo processo è stato così lento e osteggiato?
    ADM La politica della memoria è un tema molto caldo che rimanda spesso a dinamiche a livello nazionale e locale. Va inoltre sottolineato il ruolo giocato dalla presenza di forze politiche che non hanno mai rinnegato il passato fascista e coloniale. In questo senso è interessante monitorare cosa avviene nelle singole Regioni e nei Comuni, dove ancora oggi una determinata maggioranza politica e un certo clima consentono di intitolare monumenti e vie a personaggi che ebbero un ruolo drammatico in quel periodo storico.

    Ci può fare un esempio?
    ADM A Filettino, in provincia di Roma, nel 2012 è stato dedicato un mausoleo a Rodolfo Graziani. L’amministrazione comunale di destra si è giustificata dicendo di voler ricordare il proprio concittadino che fece “anche cose buone”.

    Che cosa fare con l’eredità architettonica e odonomastica del colonialismo?
    ADM Credo che la strada da percorrere non sia l’eliminazione di queste opere, ma la loro ricontestualizzazione. Ci sono, ad esempio, diversi progetti di mappatura dell’odonomastica, che coniugano ricerca e attivismo. Penso al caso di Bologna, dove “Resistenze in Cirenaica” (resistenzeincirenaica.com) ha operato una ridenominazione -non ufficiale ma parallela- delle vie, intitolandole a partigiani e ad altri personaggi politici e non della città. Un esempio forse unico è poi quello di Bolzano, con la risignificazione del Monumento alla Vittoria e del bassorilievo con il duce a cavallo.

    Di che cosa si tratta?
    ADM Il primo è un monumentale complesso marmoreo costruito tra il 1926 e il 1928, che celebrava la vittoria italiana sull’Austria-Ungheria nella Prima guerra mondiale. La seconda opera andò a decorare la “Casa Littoria”, sede del Partito nazionale fascista ed è costituita da 57 pannelli di larghezza variabile, alti 2,75 metri, posti su due file sovrapposte, per uno sviluppo lineare di 36 metri e una superficie di 198 metri quadrati.

    Quale intervento è stato fatto su queste due opere?
    ADM Nel 2011, un accordo tra Stato, Provincia e Comune di Bolzano ha previsto di accompagnare il restauro del Monumento con un intervento di contestualizzazione storica. Si è deciso di aprire al suo interno uno spazio museale su Bolzano, l’Alto Adige e i totalitarismi che ne hanno segnato la storia e di apporre all’esterno un segno visibile, che si è tradotto in un anello a led con un testo luminoso rotante recante la scritta “Un Monumento, una città, due dittature. Un percorso espositivo” intorno a una delle colonne dei fasci littori. Opposto è stato invece quanto fatto sul bassorilievo.

    “La strada da percorrere non è l’eliminazione delle opere, ma la loro ricontestualizzazione. Ci sono diversi progetti di mappatura dell’odonomastica, che coniugano ricerca e attivism0″

    Ovvero?
    ADM In questo caso l’equilibrio tra opera visiva e approfondimento storico è stato ribaltato. Si è scelto di privilegiare il linguaggio visivo ed emozionale, apponendo davanti al bassorilievo una frase di Hannah Arendt in tre lingue, italiano, tedesco e ladino: “Nessuno ha il diritto di obbedire”. Contestualmente nella piazza di fronte all’opera è stato realizzato un intervento di approfondimento storico con dei pannelli esplicativi.

    Che cosa ha reso possibile questo tipo di operazione a Bolzano?
    ADM La ricontestualizzazione di queste opere è avvenuta perché erano monumenti che continuavano a rappresentare un elemento di divisione e tensione tra i gruppi di lingua italiana e tedesca. Quello che per decenni ha rappresentato un problema quindi si è trasformato in una possibilità di apprendimento e approfondimento e, al contempo, il tema del monumentalismo fascista ha perso la sua carica divisoria.

    Questo intervento locale ha sortito qualche effetto a livello nazionale?
    ADM La stampa ha acceso i riflettori sul “caso-Bolzano” che però a oggi resta un esempio unico. Forse non è nemmeno necessario fare un lavoro del genere dappertutto, ma almeno nei luoghi dove un monumento ha un impatto a causa delle sue dimensioni sì. Penso all’Obelisco di Mussolini a Roma, dove un intervento sarebbe auspicabile. Se ne potrebbero immaginare differenti da quelli di Bolzano, magari legati a installazioni artistiche o utilizzando le nuove tecnologie.

    A quali progetti sta lavorando attualmente?
    ADM Da qualche settimana ho iniziato “Curating fascism”, un progetto in collaborazione con la facoltà di Design. Ho scritto un testo immaginando una passeggiata sulle tracce del colonialismo a Bolzano a partire dal retro del Monumento alla Vittoria, quindi la Colonna romana, le iscrizioni dei palazzi di Piazza Vittoria, le vie intitolate a personaggi e luoghi di quell’epoca come Reginaldo Giuliani e la battaglia dell’Amba Alagi. L’idea è di realizzare una pubblicazione in cui testo e immagini si combinino così da offrire alla cittadinanza e a chi visita la città una guida per conoscere i suoi monumenti, la loro storia e il loro significato.

    https://altreconomia.it/andrea-di-michele-il-segno-coloniale

    #toponymie #toponymie_coloniale #Italie #passé_colonial #présent_colonial #colonialisme_italien #Italie_coloniale #traces #recontextualisation #Erythrée #histoire_coloniale #Libye #fascisme #camps_de_concentration #Rodolfo_Graziani #Ethiopie #apartheid #zonizzazione #responsabilité #mémoire #politique_de_la_mémoire #Filettino #héritage #Bologne #Resistenze_in_Cirenaica #Bolzano #Monumento_alla_vittoria #Casa_Littoria #monuments #Reginaldo_Giuliani

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    Ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
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  • L’#Ouganda, carrefour de la #résistance soudanaise en exil

    Cet été, l’équipe de Sudfa s’est rendue en Ouganda, pays frontalier du Soudan du Sud, qui est un des principaux foyers d’accueil des réfugié·es soudanais·es depuis le début de la guerre. Les politiques d’accueil ougandaises leur ont permis de faire renaître à l’étranger une véritable vie culturelle et politique soudanaise, et de poursuivre les objectifs de la #révolution_soudanaise en exil.

    L’Ouganda, foyer d’accueil des réfugiés soudanais

    Depuis le début du conflit au Soudan, des millions de Soudanais·e·s ont été contraints de fuir leur pays, cherchant refuge dans les pays voisins. Parmi les destinations privilégiées, l’Ouganda s’est imposé comme l’un des principaux pays d’accueil, abritant des milliers de réfugié·e·s soudanais dès les premières heures du conflit.

    Lors de notre visite à #Kampala, nos échanges ont révélé que le choix de nombreux·ses Soudanais·e·s de se rendre en Ouganda n’était pas dû au hasard. En effet, l’Ouganda est perçu comme l’un des pays les plus sûrs de la région, un véritable havre de paix en comparaison avec les troubles qui affectent nombre de ses voisins. Ce pays d’Afrique de l’Est s’est bâti une solide réputation grâce à son approche généreuse et humanitaire envers les réfugiés. Contrairement à d’autres pays, l’Ouganda offre aux réfugié·e·s soudanais·e·s un accueil inconditionnel, notamment à travers la délivrance rapide de documents officiels, un fait confirmé par tou·te·s les réfugié·e·s soudanais·e·s rencontré·e·s lors de notre visite.

    L’une des principales raisons pour lesquelles les Soudanais·e·s choisissent l’Ouganda réside dans la rapidité avec laquelle les autorités délivrent des cartes de résidence valables pour cinq ans. Cette mesure permet aux réfugié·e·s de se sentir rapidement intégré·e·s et de bénéficier d’une certaine stabilité dans un contexte où beaucoup ont tout perdu. Dès leur arrivée, ils et elles peuvent ainsi commencer à reconstruire leur vie.

    De plus, l’Ouganda se distingue par sa politique d’#accueil inclusive. Contrairement à d’autres pays, les réfugié·e·s soudanais·e·s peuvent entrer sur le territoire ougandais sans passeport valide, une situation fréquente pour de nombreux Soudanais. Les autorités ougandaises comprennent la gravité de la situation et adaptent leur approche pour faciliter l’accueil des personnes en détresse.

    L’Ouganda a également été, depuis longtemps, un refuge important pour les militant·e·s soudanais·e·s. A l’époque du régime autoritaire d’Omar el-Béchir, de nombreux·ses opposant·e·s et activistes soudanais·e·s ont trouvé en Ouganda un lieu où ils et elles pouvaient s’organiser et militer sans craindre de représailles. Ainsi, Kampala (la capitale de l’Ouganda) est devenue un foyer de la résistance politique soudanaise, attirant des milliers de militant·e·s espérant, depuis cet exil, contribuer à un avenir meilleur pour leur pays.

    Organiser la résistance politique en exil

    Depuis le début de la guerre civile en avril 2023, des milliers de militant·e·s, intellectuel·le·s et activistes soudanais·e·s se sont rassemblé·e·s à Kampala. Leur objectif est clair : « organiser la résistance, sensibiliser la communauté internationale à la crise qui ravage le Soudan, et œuvrer à une solution politique durable », comme l’a affirmé El-Mahboub, un militant arrivé à Kampala après le début de la #guerre, lors d’un échange que nous avons eu sur place. En effet, Kampala abrite aujourd’hui des centaines de collectifs et associations qui militent sur des sujets variés, allant de l’aide humanitaire à la défense des droits.

    L’exil à Kampala ne se limite pas à la #résistance_politique. La ville est également devenue un carrefour culturel où la culture soudanaise connaît une renaissance. De nombreux·ses militant·e·s ont ouvert des centres culturels, comme le groupe féministe soudanais « #Les_Gardiennes », qui a créé un espace de débat et de refuge pour les #femmes_réfugiées. Ce centre sert à la fois de lieu d’échange d’idées sur les droits des femmes et d’hébergement pour celles qui en ont besoin. Samria, une activiste féministe, a souligné que des dizaines de femmes y trouvent refuge, appelant cet espace le « #Safe_Space ».

    Un autre exemple est l’association #Hub_Développement, qui vise à créer un espace de dialogue vivant entre Soudanais en exil. Ce lieu se veut une plateforme ouverte où toutes les opinions sont les bienvenues, avec l’espoir d’établir les bases d’un dialogue inclusif pour l’avenir du Soudan. Lors d’un événement auquel nous avons assisté à Kampala, Ahmed Al-Haj, coordinateur de l’association, nous a expliqué que : « Cette dynamique de réflexion reflète la volonté de la #diaspora soudanaise de contribuer activement à la #reconstruction politique et sociale du pays, même depuis l’étranger ».

    Par ailleurs, l’association #Adeela s’efforce de faire revivre la culture soudanaise en exil. À travers des événements culturels et artistiques, elle œuvre à préserver l’#héritage_soudanais tout en l’adaptant à la réalité des réfugiés. L’association organise des expositions d’art, des projections de films, et des débats sur l’identité culturelle soudanaise, créant un lien entre le passé et l’avenir. Lors de notre visite, nous avons assisté à une pièce de théâtre en l’honneur du centenaire de la révolte de 1924, dirigée par Ali Abdel Latif contre la colonisation britannique.

    Un mini-Soudan au cœur de Kampala : recréer son monde en exil

    Au centre de Kampala, un quartier particulier s’est formé, caractérisé par ses boutiques, restaurants, et ambiances qui recréent un fragment du Soudan en exil. Les habitant·e·s appellent cette zone « #Down-Town ». Des centaines de réfugié·e·s et de membres de la diaspora soudanaise s’y rassemblent quotidiennement, non seulement pour faire leurs courses, mais aussi pour échanger sur la situation dans leur pays ravagé par la guerre.

    Avec l’escalade récente des conflits au Soudan, ce quartier s’est transformé en un véritable « mini-Soudan ». Les vitrines des magasins portent des enseignes en arabe, rappelant leur pays d’origine. Les commerces offrent des produits typiquement soudanais, des épices aux tissus en passant par l’artisanat local.

    Les réfugié·e·s soudanais·e·s se retrouvent dans les cafés et restaurants pour échanger des nouvelles, partager des plats traditionnels, et renforcer leurs liens de solidarité. Ces rencontres sont un moyen de se détendre et d’échapper temporairement aux difficultés de l’exil. Ce quartier offre ainsi un soutien moral essentiel, permettant à chacun·e de se sentir un peu plus proche de son pays.

    En plus d’être un espace culturel, ce mini-quartier soudanais offre des opportunités économiques pour les réfugiés. Beaucoup y trouvent du #travail, que ce soit dans la vente, la restauration, ou la gestion de petites entreprises. La création d’emplois dans ce quartier est cruciale pour ces réfugié·e·s, dont beaucoup ont perdu tous leurs moyens de subsistance en quittant le Soudan. Ces commerces leur offrent une certaine stabilité économique, tout en participant à la vie de Kampala.

    Là où beaucoup de médias occidentaux sont focalisés sur les migrations à destination de l’Europe, il faut rappeler, une fois de plus, que la majorité des migrations, notamment en provenance du Soudan, ne se font pas vers le Nord et vers l’Europe, mais bien dans le Sud, en Afrique, et notamment vers des pays comme le Ouganda. Pour reprendre le titre du fameux roman de l’écrivain soudanais Tayeb Saleh, « Saison d’une migration vers le Nord », la dernière guerre au Soudan a bien marqué le début d’une nouvelle « Saison d’une migration vers le Sud », vers les pays africains voisins. Bien qu’invisibles dans le champ médiatique, ces #migrations_sud-sud sont le point de départ, très intéressant, de nouvelles cultures hybrides, d’#entraide, de renaissance culturelle et de #résistance_politique en diaspora.

    https://sudfa-media.com/article/l-ouganda-carrefour-de-la-resistance-soudanaise-en-exil

    #Soudan #résistance_soudanaise #réfugiés_soudanais #exil #résistance

  • Le #massacre_de_Thiaroye

    1er décembre 1944, camp de Thiaroye, en périphérie de Dakar. Des #tirailleurs_sénégalais, faits prisonniers par les Allemands lors de la guerre et récemment rapatriés, réclament le paiement de leur solde. Un droit qui leur était promis depuis des mois. La réponse est sanglante et d’une #violence inouïe : des centaines d’entre eux sont rassemblés sur une esplanade du camp, froidement mitraillés puis jetés dans des fosses communes.

    Pourtant, dès le lendemain, les autorités coloniales et militaires prétexteront une #rébellion_armée des tirailleurs et feront état de trente-cinq morts. Entre #mensonge_d’État et #fraude_scientifique, l’historienne #Armelle_Mabon mène depuis dix ans un véritable combat pour réhabiliter ces hommes et les faire reconnaître comme victimes d’un #crime_d’État.

    À l’heure des #commémorations pour les quatre-vingts ans de ce #massacre, ce livre est d’autant plus nécessaire que la France s’obstine à refuser de regarder en face l’héritage raciste de la colonisation.

    https://www.lepassagerclandestin.fr/catalogue/essais/le-massacre-de-thiaroye
    #colonialisme #colonisation #Sénégal #France #colonialisme_français #réhabilitation #histoire #crime_d'Etat #racisme #héritage #mémoire #livre

    ping @cede @karine4

  • « Un chèque de 7 000 euros pour chaque personne majeure » : La faible taxation des super-héritages va coûter 160 milliards aux Finances publiques dans les 30 prochaines années - lindependant.fr
    https://www.lindependant.fr/2024/09/17/un-cheque-de-7-000-euros-pour-chaque-personne-majeure-la-faible-taxatio

    Dans un rapport intitulé « Super-héritages : le jackpot fiscal des ultra-riches », l’organisation Oxfam dénonce la faible taxation des successions les plus élevées.

    En France, l’héritage demeure un facteur majeur de reproduction des inégalités. Selon une nouvelle étude d’Oxfam, parue ce mardi, 7 des 9 Français devenus milliardaires en 2024 sont des super-héritiers, et un quart des milliardaires du pays provient des trois mêmes familles. Alors que près de la moitié de la population n’hérite pas ou de très peu, le top 1% des héritiers d’une génération reçoit en moyenne plus de 4,2 millions d’euros net, et le top 0,1% reçoit environ 13 millions d’euros, soit 180 fois l’héritage médian.
    45%... en théorie

    En théorie, les super-héritages devraient être taxés à un taux marginal de 45% au-delà de 1,8 million d’euros, rappelle l’ONG. Cependant, il a été estimé que le top 0,1% de ces super-héritiers ne s’acquittent en moyenne que de 10% de droits de succession grâce aux diverses niches fiscales et exemptions existantes.

    Le pacte Dutreil est un exemple flagrant de niche fiscale bénéficiant aux super-héritiers, explique Oxfam. Il permet, sous conditions, d’exonérer 75% de la transmission des parts ou d’actions de certaines entreprises. Bien que le coût de cette niche fiscale soit officiellement estimé à 500 millions d’euros environ par les pouvoirs publics, le Conseil d’analyse économique chiffre plutôt son coût annuel pour les finances publiques à jusqu’à 3 milliards d’euros.

    Dans son rapport, l’organisation internationale de développement qui milite contre la pauvreté a calculé que, dans les 30 prochaines années, les 25 milliardaires français de plus de 70 ans transmettront à leurs héritiers plus de 460 milliards d’euros, sur lesquels l’État risque de perdre 160 milliards d’euros si les niches fiscales et exemptions actuelles sont maintenues. Cette somme colossale représenterait un chèque de près de 7 000 euros pour chaque personne atteignant la majorité dans les trois prochaines décennies, soit le coût moyen d’une année d’études supérieures en France, estime l’organisation.
    Fiscalité inadaptée

    Le système français de taxation des successions présente aujourd’hui de grandes disparités en fonction du lien de parenté officiel avec le donateur.

    En ligne directe (grands-parents ou parents et enfants), le taux moyen d’imposition est de 5% avec un abattement de 100 000 euros. Cependant, dès que l’on sort du premier cercle familial, les taux explosent. Par exemple, si l’héritage provient d’une tante ou d’un oncle, l’abattement chute à 7 967 euros et le taux de taxation s’envole à 55%.

    Ainsi, tandis que les super-héritages passent sous les radars de l’imposition, certaines petites transmissions payent injustement le prix fort.

    Cette situation souligne la nécessité d’une réforme fiscale plus équitable et transparente, préconise Oxfam. L’ONG appelle à une réforme ciblant les plus hauts héritages pour créer de nouvelles recettes pour l’État et financer les services publics et la transition écologique.

  • À #Genève, un musée met en débat la restitution d’œuvres

    Le musée d’ethnographie de Genève met au jour ses errements passés, dans une exposition stimulante consacrée au rôle joué par la ville suisse dans le monde colonial. Et envisage, sur un registre apaisé, la restitution de pans de sa collection.

    La manœuvre n’est pas si fréquente : à Genève, un vénérable musée a décidé de faire en grand son autocritique, et d’égratigner la légende de ses pères fondateurs. À travers l’exposition « Mémoires. Genève dans le monde colonial », le musée d’Ethnographie (MEG), inauguré en 1901, interroge ses collections sous le prisme colonial. Il pose aussi de manière subtile l’enjeu des restitutions, non sans écho avec le film de Mati Diop Dahomey, qui sort en salles mercredi 11 septembre.

    Sur le parcours conçu dans l’immense sous-sol sombre du musée, une vitrine est consacrée à l’un des glorieux donateurs de l’établissement, le peintre suisse Émile Chambon (1905-1993), qui avait amassé un millier de pièces d’Afrique et d’Océanie : il surgit dans un autoportrait de 1931, portant le casque et l’uniforme de son oncle, qui fut administrateur colonial en Afrique équatoriale française. C’est de cet oncle qu’il avait hérité les premiers artefacts africains de sa collection.

    Un artiste contemporain, Mathias Pfund, a inversé les bordures du cadre de cette peinture malaisante, l’un des cœurs malades de cette exposition : une discrète intervention, qui signale que quelque chose s’est déréglé. Face aux objets personnels de Chambon, qui traduisent sa fascination pour l’Afrique, ont été rassemblés, dans une autre vitrine, certains de ses dons au musée : des statues de cuivre ou de fer qui représentent des gardiens de reliquaires kotas, sur les territoires du Gabon et de la République du Congo.

    Lorsque des missionnaires ont arraché ces figures au XIXe siècle, ils se sont débarrassés, en les brûlant ou en les cachant en forêt, des corbeilles d’os qu’elles surveillaient. Depuis, le MEG les a exposées comme de simples statues africaines. Cette fois, le musée a sculpté de nouvelles urnes funéraires glissées au pied de leurs gardiens, avec l’aide de visiteurs réguliers du MEG d’origine kota, pour tenter de rendre à ces objets une forme d’intégrité.

    « Dans l’exposition, les objets n’illustrent pas les discours. Les propos historiques viennent étoffer, dans un deuxième temps, l’histoire de ces objets. C’est pourquoi il y a beaucoup de choses que nous ne disons pas, sur le colonialisme à Genève et en Suisse, parce que les objets de notre collection ne le racontent pas », précise la Française Floriane Morin, commissaire de l’exposition.
    Le colonialisme suisse

    La Suisse, puissance coloniale ? L’affirmation peut surprendre, en particulier depuis la France. Dans l’exposition, une carte interactive relaie les conclusions d’un rapport de 2022 sur « l’héritage raciste et colonial dans l’espace public genevois ». « L’État suisse n’a pas conquis de territoires ni administré directement de colonies, explique Fabio Rossinelli, l’un des historiens qui ont travaillé sur l’exposition, rattaché aux universités de Lausanne et de Genève. Mais des sociétés suisses se sont formées spontanément, en Égypte ou encore au Brésil, qui étaient reconnues par le corps consulaire, et entretenaient des relations avec Berne. »

    Il poursuit, soucieux de « ne pas dédouaner l’État de ses responsabilités » : « L’État était bien présent, mais plutôt un peu à l’arrière-plan, en cachette. Prenez la Société de géographie de Genève [fondée en 1858 – ndlr]. C’était une société privée. Des collaborations avec l’État avaient lieu, des subventions étaient au besoin octroyées. On voulait favoriser l’intégration du pays dans le monde impérial et colonial. » Beaucoup des missionnaires suisses partis à cette époque, soutenus par cette société, ont rapporté des objets qui constituent le socle des collections actuelles du MEG.

    Quant à l’implication de la Suisse dans la traite négrière, elle est, là encore, bien réelle. D’après l’historienne Béatrice Veyrassat, la participation suisse à la traite, d’une manière « active » (des commerçants suisses qui recourent à l’esclavage dans leurs plantations aux Amériques) ou « indirecte » (via des investissements dans des compagnies maritimes dotées de bateaux négriers) « est estimée entre 1 % et 2 % de l’ensemble des Africain·es déplacé·es vers les Amériques ».

    Avec Nantes, Genève fut aussi, à partir des années 1670, l’un des centres de production des « indiennes », ces tissus fabriqués à partir de coton importé des comptoirs d’Inde (les collections suisses d’indiennes sont accrochées au château de Prangins, on ne voit que des reproductions frustrantes dans l’exposition genevoise). Ces indiennes pouvaient servir de monnaie d’échange des Européens contre des êtres humains mis en esclavage dans les ports africains, lors du commerce triangulaire. En 1785, pas moins de 20 % de la population active à Genève travaille pour une dizaine d’« indienneries ».
    Objets éclatés

    À bien des endroits, l’exposition est coupante et inconfortable, en particulier lorsqu’elle revient de manière très précise sur le travail problématique des équipes passées du MEG. Alors que Genève organise une « exposition nationale suisse » en 1896, dotée en son sein d’un « village noir », dans la sinistre tradition des zoos humains, le MEG achète à l’époque 85 artefacts fabriqués par ces captifs africains, majoritairement venus du Sénégal et de Gambie. Mais les experts du musée gomment ensuite leur origine et les font passer pour des objets fabriqués en Afrique de l’Ouest.

    Autre silence complice : une sublime coiffure de femme faite de cuir et de fer, attribuée à une femme d’origine herero, rapportée de Namibie par un couple de collectionneurs en 1906. Au même moment se déroule, de 1904 à 1908, le génocide des Herero (et des Nama), premier génocide commis par l’Allemagne. « La datation de ces objets laisse peu de doutes quant au contexte génocidaire et d’extrêmes violences qui a rendu leur acquisition possible », tranche un cartel de l’exposition.

    Une vitrine montre encore un ustensile aux allures de fouet, utilisé pour repousser les mouches, dans le Ghana du XIXe siècle. Ce chasse-mouches, peut-être détenu par un roi, avait aussi valeur de talisman coranique. À une date inconnue, des employés du musée l’ont éventré pour lui retirer sa charge magique, constituée notamment d’une lame de couteau – disparue – et de cinq feuillets de prières, retrouvés des décennies plus tard dans un tiroir du musée. « Comment perdre l’intégrité d’un objet au musée ? », s’interroge un cartel.

    L’exposition revient aussi sur l’essor de l’anthropologie telle qu’elle est enseignée à Genève à partir de 1860, discipline qui s’est distinguée en justifiant l’impérialisme occidental et en décrétant la supériorité européenne. C’est le point d’ancrage morbide des premières collections d’objets amassées à Genève, qui, là encore, alimenteront les réserves du MEG. Dans les années 1920, Eugène Pittard, fondateur du musée, tire aussi profit du trafic de restes humains dans les colonies britanniques.
    « Ramatriement »

    Floriane Morin assume cette approche « incisive » vis-à-vis de l’histoire de son musée, « parce qu’elle est la seule condition à la possibilité d’une réparation ». Mais est-il encore possible de décoloniser un musée construit sur des mensonges aussi lourds ? Même si le MEG s’est doté d’un nouveau bâtiment en 2014, en forme de pirogue blanche spectaculaire et facile à reconnaître dans le paysage genevois, ne faudrait-il pas plutôt fermer ses portes à jamais ?

    L’un des espaces les plus originaux de l’exposition prouve en tout cas que le musée a encore des choses à dire, et des chantiers à mener. « Nous ne parviendrons pas à décoloniser notre musée, à redéfinir l’institution, sans engager des relations sur le temps long, avec des personnes qui sont le plus à même [originaires des pays et populations concernés – ndlr] de reconsidérer ces collections et de réfléchir à leur avenir », avance encore Floriane Morin.

    Cinq « capsules » ont été aménagées, comme autant de cocons qui posent la question de la restitution d’objets aux populations qui les réclament. Dans ces salles, des registres de paroles se mêlent – juridiques, historiques, administratifs, intimes, mais aussi depuis le Nord et les Suds –, pour restituer le dialogue entretenu au fil des décennies entre le MEG et des populations autochtones.

    Ici, des objets déjà restitués à une communauté autochtone du Canada – un « ramatriement » plutôt qu’un rapatriement, précise le cartel – sont représentés par de simples silhouettes de papier noir sur le mur. On prend des nouvelles de leur vie d’après, réintégrés à des cérémonies rituelles. Ailleurs, un réseau de huit musées suisses négocie directement avec le Nigeria, pour le retour de biens originaires de l’ancien royaume du Bénin.

    L’histoire de deux mâts-totems est sans doute la plus emblématique. Achetés en 1955 par un collectionneur suisse dans une ville du sud-est de l’Alaska, les deux immenses totems aux motifs d’oiseaux ont été plantés dans le jardin du musée suisse pendant trente-quatre ans. Stockés par la suite dans des entrepôts dans un souci de protection, ils ont été remplacés par des copies. Mais ils sont restés des emblèmes de ce quartier de Genève au fil des années. L’exposition donne la parole aux descendants du sculpteur de ces mâts, qui disent leur sensation de manque et l’importance qu’ils revêtent encore pour eux, mais décrit aussi l’attachement de générations de Genevois·es à ces objets aux pouvoirs manifestement actifs des deux côtés de l’Atlantique.

    « Il y a une histoire qui se crée après la restitution, insiste Floriane Morin. Les restitutions ne sont pas la fin de quelque chose. Rendre un objet n’est pas fermer la porte, mais entamer une nouvelle histoire avec des personnes qui nous font confiance, cela crée plein de choses, déclenche de nouveaux projets, et c’est aussi ce que nous avons voulu raconter dans cette exposition. »

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/100924/geneve-un-musee-met-en-debat-la-restitution-d-oeuvres

    #Suisse #Suisse_coloniale #colonialisme_suisse #MEG #exposition
    #oeuvres_d'art #art #décolonial #Afrique #pillage #musées #colonisation #Emile_Chambon #Océanie #héritage #Société_de_géographie_de_Genève #missionnaires #objets #traite_négrière #indiennes #tissus #industrie_textile #coton #esclavage #exposition_nationale_suisse #village_noir #zoo_humain #ramatriement #réparation #mensonges

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    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_suisse :
    https://seenthis.net/messages/868109

    • La Collection

      La Collection propose de (re)découvrir les objets muséifiés par le prisme de leur ancrage dans l’histoire coloniale du Musée d’ethnographie de Genève. Ils se sont imposés dans ce parcours. La trame narrative se tisse autour d’eux, par les récits, les indices ou les silences de leurs trajectoires jusqu’au Musée, par les assignations qu’ils ont subies, mais aussi par les multiples identités qu’ils assument, selon qui interagit avec eux. Les biographies fragmentaires de ces objets se mêlent à l’énonciation du contexte colonial spécifique à Genève ainsi qu’à certains épisodes de l’histoire des impérialismes européens. La plume d’historien-ne-s, géographes et anthropologues spécialistes de l’ère coloniale, les gestes et les œuvres d’artistes contemporain-e-s, l’implication d’héritières et d’héritiers culturel-le-s se lient ici aux archives que le MEG partage en toute transparence.

      Au fil de La Collection, les sept « Mémoires d’objet », reconnaissables à leurs vitrines individuelles, apportent un éclairage approfondi sur des artefacts singuliers aux histoires surprenantes.

      https://colonialgeneva.ch/la-collection

  • En guise d’héritage, une quête à poursuivre

    Trois vagues féministes plus tard, les slogans d’#Emma_Goldman ont sans doute perdu de leur charge révolutionnaire. Pourtant, les questions qu’elle posait il y a un siècle sont toujours d’une brûlante actualité. Et s’il était temps de la redécouvrir ?

    Près d’un siècle après la mort d’Emma Goldman, l’#intime est toujours #politique, les droits et #libertés_individuelles sont renforcés, le cadre démocratique renouvelé, et l’#émancipation_des_femmes est un processus toujours en cours. Entre la militante anarchiste et nous, des mythes ont disparu, et d’autres sont nés : la croyance dans l’État s’est fragilisée, celle dans le progrès humain aussi, et la violence terroriste comme les mouvements de backlash semblent toujours prêts à miner les acquis en matière de libertés individuelles. Anarchistes ou pas, nous sommes frappés par l’actualité des questions qu’Emma Goldman posait avec 100 ans d’avance.

    L’héritage d’Emma Goldman

    Pour la philosophe #Chiara_Bottici, la pensée d’Emma Goldman résonne avec encore plus de force aujourd’hui que dans le passé. En effet, Goldman est contemporaine du féminisme de la première vague qui avait fait de la revendication des #droits_politiques la priorité de son combat. C’est donc face à cette forme de féminisme qu’elle jugeait reservée à une élite qu’Emma Goldman se déclarait alors « non-féministe ». Aujourd’hui, force est de constater que ce féminisme de la première vague a montré ses limites : l’obtention de droits politiques n’ont pas suffi à créer les conditions de l’émancipation des femmes. « Ce qui est actuel dans la pensée d’Emma Goldman, c’est le fait qu’on ne peut pas séparer le féminisme de la critique du #capitalisme, de la critique de l’État en tant que machine d’exploitation. » juge Chiara Bottici.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/avoir-raison-avec/la-quete-doit-se-poursuivre-et-se-poursuivra-8379133

    #intersectionnalité #corps #féminisme #héritage #anarchisme
    #audio #podcast 

  • Colonialism shaped the British countryside, but this history still remains hidden

    I walked through rural Britain and revealed deep ties to the empire that profoundly changed the landscape and its people.

    The British countryside is deeply tied to the empire — a history that has largely remained hidden with little having being revealed about its colonial links. British rural history has often been presented as a domestic story, one in which agricultural labourers had their wages suppressed and rioted over food shortages, while Lancashire cotton workers laboured in mills and William Wordsworth wrote a poem about daffodils.

    Yet imperial activity greatly affected those who lived and worked in our countryside during Britain’s four colonial centuries. In fact, a third of National Trust properties have historical ties to the British empire, as I discovered researching a 2020 report.

    Knowing of the vast profits generated from colonial trade, investment, taxation, raw material extraction and transatlantic slavery — and as a historian who loves green spaces — I went on 10 walks through England, Scotland and Wales to learn how far that imperial wealth had penetrated the British countryside. They feature in my new book, Our Island Stories: Country Walks Through Colonial Britain. All the themed walks — sugar, wool, tobacco, cotton, enclosure, copper and more — revealed that rural Britain was profoundly changed by colonial activity.

    I took a route through the Lake District, my so-called “opium walk”. It begins in the village of Grasmere and passes through landscapes loved by Wordsworth and his sister Dorothy, encircling Rydal Water and returning to the poet’s grave at St Oswald’s church near the walk’s starting point. The father of romanticism, Wordsworth wrote much of his poetry in and around Grasmere, which nestles beneath dramatic mountains. Discovering that William’s brother, John, was an East India Company captain, I pieced together the family’s entanglement with the opium trade.

    William lacked the money to concentrate wholly on writing, so John came up with a plan. He would seek the captaincy of an East India Company voyage from England to Bengal to buy opium. From there he’d sail to Canton, China, receiving opium payments in silver, which he’d use to buy tea for English customers. The siblings invested in John’s voyage in the hope of receiving good returns — William even wrote to a friend saying that he anticipated dedicating more time to his poetry upon his brother’s return from Canton.

    In 1805, this plan went drastically wrong. In one of Britain’s worst maritime disasters, John Wordsworth’s ship sank just off Weymouth. He was drowned alongside most of his passengers — and the money William and Dorothy had invested.

    As I explore in my book, many ordinary people in Britain similarly tried, and sometimes failed, to make money from the British empire. People invested in the slavery business through stocks and shares, while many farmworkers and impoverished people sought posts as plantation managers (including the poet Robbie Burns) or as soldiers in the East India Company, choosing to live more comfortable lives while profiting from the misery of an opium addiction epidemic in China.

    Another aspect of colonial profiteering was land ownership. I took a walk through Norfolk’s Earsham Hall, which in the 1770s was owned by the family of the then governor of Jamaica, John Dalling, who’d bought the lucrative plantation of Donington Castle estate. Soon after inheriting Earsham Hall, his heir, Sir William Windham Dalling, started spending the family wealth — mostly profits from slavery — expanding his new rural estate through two parliamentary acts.

    This centuries-long process of land privatisation, known as enclosure, has often been presented as a very British story, one in which landless people gradually lost their right of access to common land where they’d grazed their livestock for generations. But in the 18th and 19th centuries, the influx of colonial wealth gave imperial figures such as Dalling the money to pay lawyers and commissioners who authorised the planting of hedges and erection of fences around so-called “unproductive wasteland”, thereby depriving local people of their right to use it.

    Moving north, and intrigued by the East Lancashire story of cotton, I walked across the moorland above the milltown of Darwen. Lancashire mills in the 19th century used cotton made by enslaved people in America’s southern states. But when the American civil war broke out in 1860, the supply of slave-produced cotton dried up. Lancashire’s mills ground to a halt and unemployed millworkers survived on ever-deteriorating diets. Around this time, Darwen’s factories began importing Indian cotton.

    They’d later be hit by the Indian independence movement’s boycott of British goods. In the 1930s, Mahatma Gandhi came to Britain for independence talks with the British government and visited Darwen to see how the boycott of Lancashire (or “Manchester”) cotton cloth was affecting millworkers. At the time it was reported that Gandhi persuaded mill owners and workers alike that India’s independence quest made the cotton boycott worth supporting. The lives of colonised people may have felt remote to Britain’s millworkers and agricultural labourers, but they were closely connected.

    Locals in the 18th and 19th centuries would have seen the countryside change in ways that affected their daily lives, but these histories are more distant to us now and have largely been forgotten. My 10 walks show that we have so many more undiscovered stories to explore.

    Successive governments have failed to teach these hidden colonial histories in schools. Meanwhile, the heritage sector, rural organisations and historic housing associations are yet to fully take on the responsibility to explore their own local histories of empire and make them known to locals and visitors alike. Without knowing these stories, we cannot fully acknowledge our colonial histories, or even address them.

    https://hyphenonline.com/2024/07/30/colonialism-shaped-the-british-countryside-but-this-history-still-rema
    #colonialisme #héritage_colonial #UK #Angleterre #campagne #paysage
    #géographie_culturelle #ressources_pédagogiques

    • Our Island Stories. Country Walks through Colonial Britain

      The countryside is cherished by many Britons. There is a depth of feeling about rural places, the moors and lochs, valleys and mountains, cottages and country houses. Yet the British countryside, so integral to our national identity, is rarely seen as having anything to do with British colonialism. Where the countryside is celebrated, histories of empire are forgotten. In Our Island Stories, historian #Corinne_Fowler brings rural life and colonial rule together with transformative results. Through ten country walks, roaming the island with varied companions, Fowler combines local and global history, connecting the Cotswolds to Calcutta, Dolgellau to Virginia, and Grasmere to Canton.

      Empire transformed rural lives for better and for worse: whether in Welsh sheep farms or Cornish copper mines, it offered both opportunity and exploitation. Fowler shows how the booming profits of overseas colonial activities, and the select few who benefited, directly contributed to enclosure, land clearances and dispossession. These histories, usually considered separately, continue to shape lives across Britain today.

      To give an honest account, to offer both affection and criticism, is a matter of respect: we should not knowingly tell half a history. This new knowledge of our island stories, once gained, can only deepen Britons’ relationship with their beloved landscape.

      https://www.penguin.co.uk/books/448060/our-island-stories-by-fowler-corinne/9780241561638

      #livre
      #identité #identité_nationale #nationalisme

  • Plantation Worlds

    In Plantation Worlds, Maan Barua interrogates debates on planetary transformations through the histories and ecologies of plantations. Drawing on long-term research spanning fifteen years, Barua presents a unique ethnography attentive to the lives of both people and elephants amid tea plantations in the Indian state of Assam. In the nineteenth and early twentieth centuries, nearly three million people were brought in to Assam’s plantations to work under conditions of indenture. Plantations dramatically altered the region’s landscape, plundered resources, and created fraught worlds for elephants and people. Their extractive logics and colonial legacies prevail as durations, forging the ambit of infrastructures, labor, habitability, and conservation in the present. And yet, as the perspectives of the Adivasi plantation worker community and lifeworlds of elephants show, possibilities for enacting a decolonial imaginary of landscape remain present amid immiseration. From the margins of the Global South, Barua offers an alternative grammar for articulating environmental change. In so doing, he prompts a rethinking of multispecies ecologies and how they are structured by colonialism and race.

    https://www.dukeupress.edu/plantation-worlds
    #plantations #plantation #paysage #éléphants #livre #Assam #thé #Inde #extractivisme #colonialisme #héritage_colonial #habitabilité #travail #infrastructures #Adivasi #décolonial

  • The Long Shadow of German Colonialism. Amnesia, Denialism and Revisionism

    From 1884 to 1914, the world’s fourth-largest overseas colonial empire was that of the German #Kaiserreich. Yet this fact is little known in Germany and the subject remains virtually absent from most school textbooks.

    While debates are now common in France and Britain over the impact of empire on former colonies and colonising societies, German imperialism has only more recently become a topic of wider public interest. In 2015, the German government belatedly and half-heartedly conceded that the extermination policies carried out over 1904–8 in the settler colony of German South West Africa (now Namibia) qualify as genocide. But the recent invigoration of debate on Germany’s colonial past has been hindered by continued amnesia, denialism and a populist right endorsing colonial revisionism. A campaign against postcolonial studies has sought to denounce and ostracise any serious engagement with the crimes of the imperial age.

    #Henning_Melber presents an overview of German colonial rule and analyses how its legacy has affected and been debated in German society, politics and the media. He also discusses the quotidian experiences of Afro-Germans, the restitution of colonial loot, and how the history of colonialism affects important institutions such as the Humboldt Forum.

    https://www.hurstpublishers.com/book/the-long-shadow-of-german-colonialism
    #livre #Allemagne #colonialisme #colonialisme_allemand #histoire_coloniale #histoire #héritage #héritage_colonial #Allemagne_coloniale #Afro-allemands #impérialisme #impérialisme_allemand #Namibie #génocide #amnésie #déni #révisionnisme

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    • German colonialism in Africa has a chilling history – new book explores how it lives on

      Germany was a significant – and often brutal – colonial power in Africa. But this colonial history is not told as often as that of other imperialist nations. A new book called The Long Shadow of German Colonialism: Amnesia, Denialism and Revisionism aims to bring the past into the light. It explores not just the history of German colonialism, but also how its legacy has played out in German society, politics and the media. We asked Henning Melber about his book.
      What is the history of German colonialism in Africa?

      Imperial Germany was a latecomer in the scramble for Africa. Shady deals marked the pseudo-legal entry point. South West Africa (today Namibia), Cameroon and Togo were euphemistically proclaimed to be possessions under “German protection” in 1884. East Africa (today’s Tanzania and parts of Rwanda and Burundi) followed in 1886.

      German rule left a trail of destruction. The war against the Hehe people in east Africa (1890-1898) signalled what would come. It was the training ground for a generation of colonial German army officers. They would apply their merciless skills in other locations too. The mindset was one of extermination.

      The war against the Ovaherero and Nama people in South West Africa (1904-1908) culminated in the first genocide of the 20th century. The warfare against the Maji Maji in east Africa (1905-1907) applied a scorched earth policy. In each case, the African fatalities amounted to an estimated 75,000.

      “Punitive expeditions” were the order of the day in Cameroon and Togo too. The inhuman treatment included corporal punishment and executions, sexual abuse and forced labour as forms of “white violence”.

      During a colonial rule of 30 years (1884-1914), Germans in the colonies numbered fewer than 50,000 – even at the peak of military deployment. But several hundred thousand Africans died as a direct consequence of German colonial violence.
      Why do you think German debate is slow around this?

      After its defeat in the first world war (1914-1918), the German empire was declared unfit to colonise. In 1919 the Treaty of Versailles allocated Germany’s territories to allied states (Great Britain, France and others). The colonial cake was redistributed, so to speak.

      This did not end a humiliated Germany’s colonial ambitions. In the Weimar Republic (1919-1933) colonial propaganda flourished. It took new turns under Adolf Hitler’s Nazi regime (1933-1945). Lebensraum (living space) as a colonial project shifted towards eastern Europe.

      The Aryan obsession of being a master race culminated in the Holocaust as mass extermination of the Jewish people. But victims were also Sinti and Roma people and other groups (Africans, gays, communists). The Holocaust has overshadowed earlier German crimes against humanity of the colonial era.

      After the second world war (1939-1945), German colonialism became a footnote in history. Repression turned into colonial amnesia. But, as Jewish German-US historian and philosopher Hannah Arendt suggested in 1951 already, German colonial rule was a precursor to the Nazi regime. Such claims are often discredited as antisemitism for downplaying the singularity of the Holocaust. Such gatekeeping prevents exploration of how German colonialism marked the beginning of a trajectory of mass violence.
      How does this colonial history manifest today in Germany?

      Until the turn of the century, colonial relics such as monuments and names of buildings, places and streets were hardly questioned. Thanks to a new generation of scholars, local postcolonial agencies, and not least an active Afro-German community, public awareness is starting to change.

      Various initiatives challenge colonial memory in the public sphere. The re-contextualisation of the Bremen elephant, a colonial monument, is a good example. What was once a tribute to fallen colonial German soldiers became an anticolonial monument memorialising the Namibian victims of the genocide. Colonial street names are today increasingly replaced with names of Africans resisting colonial rule.

      Numerous skulls – including those of decapitated African leaders – were taken to Germany during colonialism. These were for pseudo scientific anthropological research that was obsessed with white and Aryan superiority. Descendants of the affected African communities are still in search of the remains of their ancestors and demand their restitution.

      Similarly, cultural artefacts were looted. They have remained in the possession of German museums and private collections. Systematic provenance research to identify the origins of these objects has only just begun. Transactions such as the return of Benin bronzes in Germany remain a matter of negotiations.

      The German government admitted, in 2015, that the war against the Ovaherero and Nama in today’s Namibia was tantamount to genocide. Since then, German-Namibian negotiations have been taking place, but Germany’s limited atonement is a matter of contestation and controversy.
      What do you hope readers will take away from the book?

      The pain and exploitation of colonialism lives on in African societies today in many ways. I hope that the descendants of colonisers take away an awareness that we are products of a past that remains alive in the present. That decolonisation is also a personal matter. That we, as the offspring of colonisers, need to critically scrutinise our mindset, our attitudes, and should not assume that colonial relations had no effect on us.

      Remorse and atonement require more than symbolic gestures and tokenism. In official relations with formerly colonised societies, uneven power relations continue. This borders on a perpetuation of colonial mindsets and supremacist hierarchies.

      No former colonial power is willing to compensate in any significant way for its exploitation, atrocities and injustices. There are no meaningful material reparations as credible efforts of apology.

      The colonial era is not a closed chapter in history. It remains an unresolved present. As the US novelist William Faulkner wrote: “The past is never dead. It’s not even past.”

      https://theconversation.com/german-colonialism-in-africa-has-a-chilling-history-new-book-explor

      #Cameroun #Togo #Tanzanie #Rwanda #Burundi #Hehe #Ovaherero #Nama #Maji_Maji #expéditions_punitives #abus_sexuels #travail_forcé #white_violence #violence_blanche #violence #Lebensraum #nazisme #Adolf_Hitler #Hitler #monuments #Kolonialelefant #Brême #toponymie #toponymie_coloniale #toponymie_politique

  • Das Auswärtige Amt und die Kolonien. Geschichte, Erinnerung, Erbe.

    Die eigene Zeit als Kolonialmacht sei im Vergleich mit Ländern wie Frankreich oder Großbritannien kurz und relativ unproblematisch gewesen: So sah man es hierzulande lange. Doch das war ein Irrtum. Heute steht die deutsche koloniale Vergangenheit zu Recht im Zentrum kontrovers geführter Debatten über das koloniale Erbe in einer globalen Welt. Dieses Buch beleuchtet mit dem Auswärtigen Amt einen zentralen Akteur des deutschen Kolonialismus und spannt den Bogen vom Deutschen Kaiserreich bis weit ins 20. Jahrhundert hinein. Dabei richtet sich der Blick nicht nur auf Deutschland, sondern auch in die betroffenen Gesellschaften Afrikas, Asiens und Ozeaniens.

    Mit dem Versailler Vertrag von 1919 endete die formale deutsche Kolonialherrschaft. Doch koloniales Denken lebte in der Mitte der deutschen Ge sellschaft fort – so auch im Auswärtigen Amt, dem eine Mitverantwortung für Gewalt und Verbrechen in den deutschen Kolonien zukommt. Die Folgen seines Handelns sind noch bis in unsere Gegenwart spürbar. In der Zeit der NS-Diktatur verbanden sich nationalkonservative, monarchistische und antirepublikanische Haltungen im Auswärtigen Amt mit den expansionistischen und rassistischen Zielen des Nationalsozialismus. Ab 1949 prägten Indifferenz und Ignoranz, Passivität und Relativierung die bundesdeutsche Politik gegenüber den ehemaligen Kolonien im globalen Süden. Heute ist das Amt maßgeblich an Verhandlungen über Restitution und Wiedergutmachung beteiligt. Zudem wird es von einer diverser gewordenen deutschen Gesellschaft mit Fragen zur kolonialen Vergangenheit konfrontiert. Aus Gründen der historischen Gerechtigkeit, aber auch angesichts einer veränderten Weltlage muss sich das Amt seiner eigenen Kolonialgeschichte stellen.

    https://www.chbeck.de/haas-lehmann-reinwald-si-auswaertige-amt-kolonien/product/35518156

    #colonialisme_allemand #Allemagne #colonialisme #histoire_coloniale #passé_colonial #héritage
    #livre #ministère_des_affaires_étrangères

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  • „Stadt der Kolonien“

    „Stadt der Kolonien“ wirft ein Schlaglicht auf die deutsche Kolonialgeschichte. In 50 kurzen Episoden stellt das Buch die (post-) koloniale Geschichte Bremens dar – von den Anfängen bis heute.

    Von Kaufleuten, Tropenhelmen und kolonialen Spuren

    Warum steht in Bremen ein großer steinerner Elefant? Warum nannte sich Bremen »Stadt der Kolonien«? Was haben Kaffee, Baumwolle und Tabak mit der Hansestadt zu tun? Und warum liegen Objekte der Maasai im Übersee-Museum?

    Mit diesen und weiteren Fragen zu den Verflechtungen Bremens und Bremerhavens mit dem europäischen Kolonialismus beschäftigt sich das vorliegende Buch. Als Handelsstadt profitierte Bremen früh vom Kolonialengagement anderer europäischer Länder und wurde selbst zum Wegbereiter des deutschen Kolonialreichs. Seit den 1970er Jahren setzt sich die Stadt kritisch mit ihrer kolonialen Vergangenheit auseinander.

    In diesem Buch stellen Wissenschaftler, Aktivistinnen und Museumsexperten zentrale Orte, Personen, Ereignisse und Institutionen dieser Entwicklung vor. Es wirft damit ein Schlaglicht auf die deutsche koloniale und postkoloniale Geschichte und zeigt, wie allgegenwärtig die Spuren des Kolonialismus sind.

    #livre #Brême #Allemagne #colonialisme #colonisation #villes #histoire_coloniale #héritage #Bremerhavens #Maasai #Allemagne_coloniale #colonialisme_allemand
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  • Le trésor des seniors
    https://laviedesidees.fr/Le-tresor-des-seniors

    Comment financer les investissements d’avenir qui nous attendent, en particulier concernant la transition écologique ? Par taxation de l’héritage, qui permette aux parents d’épargner pour leurs enfants. À propos de : André Masson, Chronique d’un #impôt sur l’héritage en perdition. Pourquoi et comment le sauver ?, Puf

    #Société #inégalités #héritage

  • Paris 2024 : la Défenseure des droits s’"autosaisit" de la situation des étudiants et des sans-abri déplacés
    https://www.francetvinfo.fr/les-jeux-olympiques/paris-2024/paris-2024-la-defenseure-des-droits-s-autosaisit-de-la-situation-des-et

    Des situations qui présentent « un risque pour le respect des droits et des libertés ». En prévision des Jeux olympiques de Paris 2024, la Défenseure des droits Claire Hédon a annoncé s’être « autosaisie » de la question des logements étudiants réquisitionnés et de l’évacuation des sans-abri, lundi 29 janvier.

    « La façon dont les personnes sans domicile fixe sont renvoyées en dehors de Paris dans des centres d’hébergement, la façon dont des habitats sont détruits » alors qu’"il y a une obligation de relogement", tout cela pose la question de « l’invisibilisation des indésirables », a estimé Claire Hédon. Les autorités sont accusées depuis plusieurs mois par des associations de mener un « nettoyage social » de la région parisienne, pour faire place nette avant les Jeux olympiques et paralympiques, en vidant les rues franciliennes de ses populations les plus précaires : migrants en campements, foyers de travailleurs, sans-abri, travailleuses du sexe, personnes vivant en bidonville...

    Des accusations rejetées par la préfecture de la région d’Ile-de-France (Prif), qui a assuré en décembre que l’Etat ne s’était pas fixé d’"objectif zéro SDF" à la rue en prévision des JO. Elle a indiqué à l’inverse vouloir débloquer des « places supplémentaires » d’hébergement d’urgence pour laisser un « héritage social ».

    #JO #nettoyage_social

  • Politique du logement : Oxfam dénonce une fabrique des inégalités | Lucie Delaporte
    https://www.mediapart.fr/journal/france/041223/politique-du-logement-oxfam-denonce-une-fabrique-des-inegalites

    L’arrivée massive d’acteurs financiers dans le secteur du logement, encouragée par les pouvoirs publics, a renforcé la concentration du patrimoine immobilier. L’ONG dénonce une politique qui aggrave les inégalités sociales.

    La crise du logement qui sévit ne vient pas de nulle part et ne touche pas la population de manière égale. Si des millions de Français souffrent du mal-logement, une minorité s’est également fortement enrichie grâce à l’immobilier ces dernières années.

    Dans un rapport percutant https://oxfam.app.box.com/s/cjxltf26pr3965zcb7z3nd7y2fg5xdzn/file/1374828771976 , l’ONG Oxfam pointe la fabrique à inégalités qui s’est emparée du secteur.
    Au-delà des aspects conjoncturels liés à la hausse des taux d’intérêt, des coûts de l’énergie et des matériaux qui ont mis à l’arrêt la construction, les difficultés à se loger que rencontrent actuellement de plus en plus de ménages sont liées à une financiarisation du logement, encouragée par les pouvoirs publics.
    Ce mouvement mondial, qui a déjà fortement touché l’Union européenne – entre 2010 et 2023 les prix des logements y ont augmenté de 46 % et les loyers de 21 % –, touche aujourd’hui d’autant plus la France qu’elle a engagé un désinvestissement des politiques publiques sur le sujet.

    #logement #logement_social #fiscalité #niches_fiscales #financiarisation #loyers

    • Ces vingt dernières années, les prix de l’immobilier ont donc augmenté quatre fois plus vite que les revenus bruts des ménages (+ 125,6 % entre 2001 et 2020 contre 29 % pour le revenu disponible des Français).
      Sur ce point, le rapport d’Oxfam relève que le « désengagement » de l’État « a ouvert la voie au secteur privé et aux investisseurs financiers, jusqu’à la financiarisation du logement aidé ».
      La production de logements sociaux s’est par exemple effondrée, passant de 126 000 logements financés en 2016 à 96 000 en 2022 et l’État a tout misé sur le soutien à la production de logements intermédiaires financés par le secteur privé.
      Le chapitre rédigé par Thibault Le Corre et Renaud Le Goix sur la financiarisation du logement social et intermédiaire est à cet égard très éclairant. Pour les chercheurs, « ce processus transforme le logement en un produit financier, et aboutit à une gestion avant tout “financière” du logement ».

      Un mouvement de #concentration inédit

      Les auteurs rappellent que depuis la crise financière de 2008, les opérateurs financiers se sont intéressés au logement social et intermédiaire perçu comme « permettant aux investisseurs de percevoir des rendements stables et peu risqués ».
      Les effets de cet afflux de « propriétaires financiarisés », encouragés par d’avantageuses niches fiscales, ont des conséquences néfastes très documentées sur les #locataires : hausse des prix, accélération des #expulsions, moindre investissement dans l’entretien des bâtiments. Pris dans cette logique, le logement doit devenir pour ces investisseurs toujours plus rentable.

      Les niches fiscales conçues pour orienter l’épargne vers le logement locatif notamment intermédiaire ont largement contribué à ce mouvement de financiarisation et ont lourdement pesé sur le budget de l’État. Oxfam a calculé que trois niches fiscales (LMNP, SIIC et Censi-Bouvard) ont ainsi coûté 11 milliards d’euros en douze ans, ce qui aurait pourtant permis la construction sur cette période de 70 500 logements sociaux.
      Ces niches fiscales, qui ont profité aux ménages les plus aisés, ont aussi renforcé un mouvement de concentration du patrimoine immobilier inédit. « Début 2021, les 10 % les plus riches en patrimoine concentraient 44 % du patrimoine immobilier. Cette accumulation du #patrimoine_immobilier conduit au constat actuel qui est que 3,5 % des ménages détiennent plus de cinq logements soit 50 % des logements mis en location par des particuliers », note le rapport d’Oxfam s’appuyant sur les derniers chiffres de l’Insee.
      Des chiffres qui expliquent en grande partie le poids de la #rente et de l’#héritage dans la société française où « le patrimoine hérité représente 60 % du patrimoine des Français·es aujourd’hui contre 35 % au début des années 1970 ».
      L’État a-t-il intérêt à changer de braquet ? Pas vraiment s’il ne s’intéresse qu’aux recettes fiscales générées par le secteur. Comme cette fiscalité repose sur la valorisation du patrimoine, plus les revenus tirés de l’immobilier sont importants, plus les recettes augmentent. « La fiscalité aujourd’hui, qui ne prend pas en compte l’impact sur les inégalités de richesses et de patrimoine, n’a donc pas intérêt à changer pour la puissance publique. »
      Pour contrer cette tendance, Oxfam propose de limiter l’accès d’acteurs privés « financiarisés » au financement du logement, particulièrement le logement aidé.
      L’ONG défend aussi la constitutionnalisation du #droit_au_logement en le mettant au même niveau que le droit à la propriété.

      #propriété_privée #rente_foncière fiscalement assistée

    • Création de logements sociaux : un nombre record de communes sont « hors la loi »
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/06/creation-de-logements-sociaux-un-nombre-record-de-communes-sont-hors-la-loi_

      La Fondation Abbé Pierre publie, mercredi 6 décembre, son palmarès des mauvais élèves du logement social : 659 municipalités n’ont pas rempli leurs objectifs, soit 64 % des communes soumises à la loi Solidarité et renouvellement urbain.

      https://archive.is/nKpum

  • Cette #hospitalité_radicale que prône la philosophe #Marie-José_Mondzain

    Dans « Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays », Marie-José Mondzain, 81 ans, se livre à un plaidoyer partageur. Elle oppose à la #haine d’autrui, dont nous éprouvons les ravages, l’#amour_sensible et politique de l’Autre, qu’il faudrait savoir adopter.

    En ces temps de crispations identitaires et même de haines communautaires, Marie-José Mondzain nous en conjure : choisissons, contre l’#hostilité, l’hospitalité. Une #hospitalité_créatrice, qui permette de se libérer à la fois de la loi du sang et du #patriarcat.

    Pour ce faire, il faut passer de la filiation biologique à la « #philiation » − du grec philia, « #amitié ». Mais une #amitié_politique et proactive : #abriter, #nourrir, #loger, #soigner l’Autre qui nous arrive ; ce si proche venu de si loin.

    L’hospitalité fut un objet d’étude et de réflexion de Jacques Derrida (1930-2004). Née douze ans après lui, à Alger comme lui, Marie-José Mondzain poursuit la réflexion en rompant avec « toute légitimité fondée sur la réalité ou le fantasme des origines ». Et en prônant l’#adoption comme voie de réception, de prise en charge, de #bienvenue.

    Son essai Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays se voudrait programmatique en invitant à « repenser les #liens qui se constituent politiquement et poétiquement dans la #rencontre de tout sujet qu’il nous incombe d’adopter ».

    D’Abraham au film de Tarkovski Andreï Roublev, d’Ulysse à A. I. Intelligence artificielle de Spielberg en passant par Antigone, Shakespeare ou Melville, se déploie un plaidoyer radical et généreux, « phraternel », pour faire advenir l’humanité « en libérant les hommes et les femmes des chaînes qui les ont assignés à des #rapports_de_force et d’#inégalité ».

    En cette fin novembre 2023, alors que s’ajoute, à la phobie des migrants qui laboure le monde industriel, la guerre menée par Israël contre le Hamas, nous avons d’emblée voulu interroger Marie-José Mondzain sur cette violence-là.

    Signataire de la tribune « Vous n’aurez pas le silence des juifs de France » condamnant le pilonnage de Gaza, la philosophe est l’autrice d’un livre pionnier, adapté de sa thèse d’État qui forait dans la doctrine des Pères de l’Église concernant la représentation figurée : Image, icône, économie. Les sources byzantines de l’imaginaire contemporain (Seuil, 1996).

    Mediapart : Comment voyez-vous les images qui nous travaillent depuis le 7 octobre ?

    Marie-José Mondzain : Il y a eu d’emblée un régime d’images relevant de l’événement dans sa violence : le massacre commis par le Hamas tel qu’il fut en partie montré par Israël. À cela s’est ensuite substitué le tableau des visages et des noms des otages, devenu toile de fond iconique.

    Du côté de Gaza apparaît un champ de ruines, des maisons effondrées, des rues impraticables. Le tout depuis un aplomb qui n’est plus un regard humain mais d’oiseau ou d’aviateur, du fait de l’usage des drones. La mort est alors sans visages et sans noms.

    Face au phénomène d’identification du côté israélien s’est donc développée une rhétorique de l’invisibilité palestinienne, avec ces guerriers du Hamas se terrant dans des souterrains et que traque l’armée israélienne sans jamais donner à voir la moindre réalité humaine de cet ennemi.

    Entre le visible et l’invisible ainsi organisés, cette question de l’image apparaît donc extrêmement dissymétrique. Dissymétrie accentuée par la mise en scène des chaînes d’information en continu, qui séparent sur les écrans, avec des bandes lumineuses et colorées, les vues de Gaza en ruine et l’iconostase des otages.

    C’est avec de telles illustrations dans leur dos que les prétendus experts rassemblés en studio s’interrogent : « Comment retrouver la paix ? » Comme si la paix était suspendue à ces images et à la seule question des otages. Or, le contraire de la guerre, ce n’est pas la paix − et encore moins la trêve −, mais la justice.

    Nous assistons plutôt au triomphe de la loi du talion, dont les images deviennent un levier. Au point que visionner les vidéos des massacres horrifiques du Hamas dégénère en obligation…

    Les images deviennent en effet une mise à l’épreuve et une punition. On laisse alors supposer qu’elles font suffisamment souffrir pour que l’on fasse souffrir ceux qui ne prennent pas la souffrance suffisamment au sérieux.

    Si nous continuons à être uniquement dans une réponse émotionnelle à la souffrance, nous n’irons pas au-delà d’une gestion de la trêve. Or la question, qui est celle de la justice, s’avère résolument politique.

    Mais jamais les choses ne sont posées politiquement. On va les poser en termes d’identité, de communauté, de religion − le climat très trouble que nous vivons, avec une indéniable remontée de l’antisémitisme, pousse en ce sens.

    Les chaînes d’information en continu ne nous montrent jamais une carte de la Cisjordanie, devenue trouée de toutes parts telle une tranche d’emmental, au point d’exclure encore et toujours la présence palestinienne. Les drones ne servent jamais à filmer les colonies israéliennes dans les Territoires occupés. Ce serait pourtant une image explicite et politique…

    Vous mettez en garde contre toute « réponse émotionnelle » à propos des images, mais vous en appelez dans votre livre aux affects, dans la mesure où, écrivez-vous, « accueillir, c’est métamorphoser son regard »…

    J’avais écrit, après le 11 septembre 2001, L’#image peut-elle tuer ?, ou comment l’#instrumentalisation du #régime_émotionnel fait appel à des énergies pulsionnelles, qui mettent le sujet en situation de terreur, de crainte, ou de pitié. Il s’agit d’un usage balistique des images, qui deviennent alors des armes parmi d’autres.

    Un tel bombardement d’images qui sème l’effroi, qui nous réduit au silence ou au cri, prive de « logos » : de parole, de pensée, d’adresse aux autres. On s’en remet à la spontanéité d’une émotivité immédiate qui supprime le temps et les moyens de l’analyse, de la mise en rapport, de la mise en relation.

    Or, comme le pensait Édouard Glissant, il n’y a qu’une poétique de la relation qui peut mener à une politique de la relation, donc à une construction mentale et affective de l’accueil.

    Vous prônez un « #tout-accueil » qui semble faire écho au « Tout-monde » de Glissant…

    Oui, le lien est évident, jusqu’en ce #modèle_archipélique pensé par Glissant, c’est-à-dire le rapport entre l’insularité et la circulation en des espaces qui sont à la fois autonomes et séparables, qui forment une unité dans le respect des écarts.

    Ces écarts assument la #conflictualité et organisent le champ des rapports, des mises en relation, naviguant ainsi entre deux écueils : l’#exclusion et la #fusion.

    Comment ressentir comme un apport la vague migratoire, présentée, voire appréhendée tel un trop-plein ?

    Ce qui anime mon livre, c’est de reconnaître que celui qui arrive dans sa nudité, sa fragilité, sa misère et sa demande est l’occasion d’un accroissement de nos #ressources. Oui, le pauvre peut être porteur de quelque chose qui nous manque. Il nous faut dire merci à ceux qui arrivent. Ils deviennent une #richesse qui mérite #abri et #protection, sous le signe d’une #gratitude_partagée.

    Ils arrivent par milliers. Ils vont arriver par millions − je ne serai alors plus là, vu mon âge −, compte tenu des conditions économiques et climatiques à venir. Il nous faut donc nous y préparer culturellement, puisque l’hospitalité est pour moi un autre nom de la #culture.

    Il nous faut préméditer un monde à partager, à construire ensemble ; sur des bases qui ne soient pas la reproduction ou le prolongement de l’état de fait actuel, que déserte la prospérité et où semble s’universaliser la guerre. Cette préparation relève pour moi, plus que jamais, d’une #poétique_des_relations.

    Je travaille avec et auprès d’artistes − plasticiens, poètes, cinéastes, musiciens −, qui s’emparent de toutes les matières traditionnelles ou nouvelles pour créer la scène des rapports possibles. Il faut rompre avec ce qui n’a servi qu’à uniformiser le monde, en faisant appel à toutes les turbulences et à toutes les insoumissions, en inventant et en créant.

    En établissant des #zones_à_créer (#ZAC) ?

    Oui, des zones où seraient rappelées la force des faibles, la richesse des pauvres et toutes les ressources de l’indigence qu’il y a dans des formes de précarité.

    La ZAD (zone à défendre) ne m’intéresse effectivement que dans la mesure où elle se donne pour but d’occuper autrement les lieux, c’est-à-dire en y créant la scène d’une redistribution des places et d’un partage des pouvoirs face aux tyrannies économiques.

    Pas uniquement économiques...

    Il faut bien sûr compter avec ce qui vient les soutenir, anthropologiquement, puisque ces tyrannies s’équipent de tout un appareil symbolique et d’affects touchant à l’imaginaire.

    Aujourd’hui, ce qui me frappe, c’est la place de la haine dans les formes de #despotisme à l’œuvre. Après – ou avant – Trump, nous venons d’avoir droit, en Argentine, à Javier Milei, l’homme qui se pose en meurtrier prenant le pouvoir avec une tronçonneuse.

    Vous y opposez une forme d’amitié, de #fraternité, la « #filia », que vous écrivez « #philia ».

    Le [ph] désigne des #liens_choisis et construits, qui engagent politiquement tous nos affects, la totalité de notre expérience sensible, pour faire échec aux formes d’exclusion inspirées par la #phobie.

    Est-ce une façon d’échapper au piège de l’origine ?

    Oui, ainsi que de la #naturalisation : le #capitalisme se considère comme un système naturel, de même que la rivalité, le désir de #propriété ou de #richesse sont envisagés comme des #lois_de_la_nature.

    D’où l’appellation de « #jungle_de_Calais », qui fait référence à un état de nature et d’ensauvagement, alors que le film de Nicolas Klotz et Élisabeth Perceval, L’Héroïque lande. La frontière brûle (2018), montre magnifiquement que ce refuge n’était pas une #jungle mais une cité et une sociabilité créées par des gens venus de contrées, de langues et de religions différentes.

    Vous est-il arrivé personnellement d’accueillir, donc d’adopter ?

    J’ai en en effet tissé avec des gens indépendants de mes liens familiaux des relations d’adoption. Des gens dont je me sentais responsable et dont la fragilité que j’accueillais m’apportait bien plus que ce que je pouvais, par mes ressources, leur offrir.

    Il arrive, du reste, à mes enfants de m’en faire le reproche, tant les font parfois douter de leur situation les relations que je constitue et qui tiennent une place si considérable dans ma vie. Sans ces relations d’adoption, aux liens si constituants, je ne me serais pas sentie aussi vivante que je le suis.

    D’où mon refus du seul #héritage_biologique. Ce qui se transmet se construit. C’est toujours dans un geste de fiction turbulente et joyeuse que l’on produit les liens que l’on veut faire advenir, la #vie_commune que l’on désire partager, la cohérence politique d’une #égalité entre parties inégales – voire conflictuelles.

    La lecture de #Castoriadis a pu alimenter ma défense de la #radicalité. Et m’a fait reconnaître que la question du #désordre et du #chaos, il faut l’assumer et en tirer l’énergie qui saura donner une forme. Le compositeur Pascal Dusapin, interrogé sur la création, a eu cette réponse admirable : « C’est donner des bords au chaos. »

    Toutefois, ces bords ne sont pas des blocs mais des frontières toujours poreuses et fluantes, dans une mobilité et un déplacement ininterrompus.

    Accueillir, est-ce « donner des bords » à l’exil ?

    C’est donner son #territoire au corps qui arrive, un territoire où se créent non pas des murs aux allures de fin de non-recevoir, mais des cloisons – entre l’intime et le public, entre toi et moi : ni exclusion ni fusion…

    Mon livre est un plaidoyer en faveur de ce qui circule et contre ce qui est pétrifié. C’est le #mouvement qui aura raison du monde. Et si nous voulons que ce mouvement ne soit pas une déclaration de guerre généralisée, il nous faut créer une #culture_de_l’hospitalité, c’est-à-dire apprendre à recevoir les nouvelles conditions du #partage.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/271123/cette-hospitalite-radicale-que-prone-la-philosophe-marie-jose-mondzain
    #hospitalité #amour_politique

    via @karine4

    • Accueillir - venu(e)s d’un ventre ou d’un pays

      Naître ne suffit pas, encore faut-il être adopté. La filiation biologique, et donc l’arrivée d’un nouveau-né dans une famille, n’est pas le modèle de tout accueil mais un de ses cas particuliers. Il ne faut pas penser la filiation dans son lien plus ou moins fort avec le modèle normatif de la transmission biologique, mais du point de vue d’une attention à ce qui la fonde : l’hospitalité. Elle est un art, celui de l’exercice de la philia, de l’affect et du lien qui dans la rencontre et l’accueil de tout autre exige de substituer au terme de filiation celui de philiation. Il nous faut rompre avec toute légitimité fondée sur la réalité ou le fantasme des origines. Cette rupture est impérative dans un temps de migrations planétaires, de déplacements subjectifs et de mutations identitaires. Ce qu’on appelait jadis « les lois de l’hospitalité » sont bafouées par tous les replis haineux et phobiques qui nous privent des joies et des richesses procurées par l’accueil. Faute d’adopter et d’être adopté, une masse d’orphelins ne peut plus devenir un peuple. La défense des philiations opère un geste théorique qui permet de repenser les liens qui se constituent politiquement et poétiquement dans la rencontre de tout sujet qu’il nous incombe d’adopter, qu’il provienne d’un ventre ou d’un pays. Le nouveau venu comme le premier venu ne serait-il pas celle ou celui qui me manquait ? D’où qu’il vienne ou provienne, sa nouveauté nous offre la possibilité de faire œuvre.

      https://www.quaidesmots.fr/accueillir-venu-e-s-d-un-ventre-ou-d-un-pays.html
      #livre #filiation_biologique #accueil

  • Patrick Marcolini, Héritiers situationnistes, 2009
    https://sniadecki.wordpress.com/2023/11/23/marcolini-heritiers-situ

    En vingt-neuf numéros et plus de mille cinq cents pages publiées, Le Tigre avait réussi l’exploit de ne jamais se pencher sur l’œuvre de Guy Debord. Non sans raisons, l’invocation du mouvement situationniste étant devenue, dans les médias, un poncif. Dans le dossier du volume précédent du Tigre, consacré pour une part aux textes de Julien Coupat et de ses proches, il manquait une analyse précise de la filiation entre ces derniers et les situationnistes. La voici.

    #situationnistes #histoire #héritage #Tiqqun #Patrick_Marcolini

    • Une chose m’est propre dans la mesure où elle rentre dans le domaine de mes usages, et non en vertu de quelque titre juridique. La propriété légale n’a d’autre réalité, en fin de compte, que les forces qui la protègent. La question du communisme est donc d’un côté de supprimer la police, et de l’autre d’élaborer entre ceux qui vivent ensemble des modes de partage, des usages.

      J’avais complètement oublié ce passage de l’Appel !

      Heureusement que 20 ans après, on est allé au delà de l’idée que _La propriété légale n’a d’autre réalité [...] que les forces qui la protègent._

      https://clip.ouvaton.org

  • [Les Promesses de l’Aube] Journées du #matrimoine
    https://www.radiopanik.org/emissions/les-promesses-de-l-aube/journees-du-matrimoine-1

    Ce mercredi il sera question des journées du matrimoine en compagnie de Audrey Vanbrabant de l’Architecture qui dégenre.

    Si les Journées du Patrimoine existent depuis des décennies, les Journées du Matrimoine manquaient à l’appel en Belgique. Initiées à Paris à partir de 2015, les Journées du Matrimoine se diffusent en France... et dorénavant à Bruxelles depuis 2019 à l’initiative de l’asbl L’architecture qui dégenre.

    Depuis 2019, les Journées du Matrimoine mettent en valeur le matrimoine bruxellois à travers l’artisanat, l’architecture et, plus largement, les vécus des #femmes et des minorités. Le peu d’archives disponibles, le manque de financement des recherches et l’absence de politiques d’acquisition en matière d’égalité entravent le travail de visibilisation du matrimoine et de la diversité de ses (...)

    #héritage #visibilité #transmettre #femmes,matrimoine,héritage,visibilité,transmettre
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/les-promesses-de-l-aube/journees-du-matrimoine-1_16476__1.mp3

  • Atlas der Abwesenheit
    Kameruns Kulturerbe in Deutschland

    Une somme énorme de savoir sur les pillages allemands, les cruelles expéditions punitives et les « butins », etc...

    Le livre en format livre est enfin arrivé en Norvège, 520 pages en format 25 x 25. C’est en Allemand, et je sais qu’il y a des germanophones ici qui seront peut-être intéressés, j’en ai deux copies en plus que j’offre très volontiers à celles et ceux qui le demanderont ! (les premièr·es arrivés seront les premiers servis) !

  • Des mécanismes sexistes dans le partage du #capital
    https://metropolitiques.eu/Des-mecanismes-sexistes-dans-le-partage-du-capital.html

    Dans cet épisode, il est question des #inégalités de #genre lors des héritages ou des séparations. Alors que dans le droit français, femmes et hommes sont formellement égaux en termes de #transmission du patrimoine, les sociologues Céline Bessière et Sibylle Gollac montrent comment se reproduisent des inégalités de fait. Émission : Le genre en ville Depuis le Code civil de 1804, les professionnels du droit, l’État, l’action publique ainsi que la #famille aménagent des stratégies permettant de répartir #Podcasts

    / capital, inégalités, genre, #héritage, famille, #travail_domestique, #immobilier, transmission

  • Des mécanismes sexistes dans le partage du #capital
    https://metropolitiques.eu/A-determiner.html

    Dans cet épisode, il est question des #inégalités de #genre lors des héritages ou des séparations. Alors que dans le droit français, femmes et hommes sont formellement égaux en termes de #transmission du patrimoine, les sociologues Céline Bessière et Sibylle Gollac montrent comment se reproduisent des inégalités de fait. Émission : Le genre en ville Depuis le Code civil de 1804, les professionnels du droit, l’État, l’action publique ainsi que la #famille aménagent des stratégies permettant de répartir #Podcasts

    / capital, inégalités, genre, #héritage, famille, #travail_domestique, #immobilier, transmission

  • Le Maire, Mussolini et le musée

    En Italie, le maire #Giorgio_Frassineti estime que l’éducation est aujourd’hui le seul moyen de combattre l’#héritage du #fascisme. À #Predappio, sa ville, qui est aussi la ville natale de #Mussolini devenue une destination de #pèlerinage_fasciste, il veut créer un #musée sur le fascisme. Son successeur à la mairie poursuivra-t-il ce combat ?

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/67258
    #film #film_documentaire #documentaire

    #néo-fascisme #Casa_del_Fascio #urbanisme #mémoire #histoire #Braunau_am_Inn #négation #Berghof #Munich

  • Ce que fait le racisme à la santé
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/ce-que-fait-le-racisme-a-la-sante-7988796

    Comme tous les domaines de la société, la médecine occidentale hérite d’une histoire esclavagiste et coloniale. Des chercheurs, des militants et des médecins s’interrogent sur cet héritage, et pointent les façons dont il impacte les corps et le soin. Durée : 57 min Source : La Série documentaire

    https://media.radiofrance-podcast.net/podcast09/10177-06.03.2023-ITEMA_23307688-2023C26362E0037-21.mp3

  • L’historien Joël Glasman, spécialiste de l’histoire des colonisations en Afrique et dont les travaux portent également sur l’aide humanitaire actuel, analyse les déterminants de l’indifférence sociale aux conditions d’existence de populations entières.
    https://africasacountry.com/2023/02/ignore-and-rule

    Ignore and rule

    By Joël Glasman

    What do Europeans do when they hear the war waged by the government of Ethiopia has killed more people than the war in Ukraine?

    Europeans love to start the day with a little piece of Africa. Coffee for mum, tea for dad, chocolate for the little one and a banana pocketed on the fly by the teenager for the bus ride to school. Europeans know that their prosperity is built on the work of others. They know that without the oil extracted by workers in Nigeria, the coltan supplied by traders in Congo, and the uranium produced by miners in Chad, their cars wouldn’t run, their phones wouldn’t work and their homes would soon go dark. Yet, how many Europeans are able to locate the capital of Nigeria, Chad or Congo on a map? A kindergarten child can easily name several African mammals, but few would ever suggest the child memorize the name of an African language, society or personality. How can a civilization that thrives on labor in the Global South be so indifferent to these societies?

    The literature provides three answers to that question. The first says roughly: It’s capitalism. Capitalism masks social relations. In order to live, workers must produce goods or provide services. But the market-based exchange of commodities transforms relations between workers. Social relations are primarily experienced as “relations between things.” This is what Karl Marx calls “commodity fetishism.” Relationships of production disappear from the field of vision. We end up treating commodities as if they had an intrinsic value, independent of the labor that produces them. Hungarian philosopher György Lukács adds that capitalism reifies social relations. Social relations are objectified, while individuals are plunged into a contemplative stance. Passive, apathetic, depoliticized: the consumer is a spectator.

    While Marx and Lukács explain very well how one can use a product every day without knowing anything about the worker who produced it, they don’t tell us why certain workers, certain societies or certain groups are particularly obscured in the culture of capitalism. The economist Samir Amin would answer that capitalism only extends globally through “unequal exchange.” Colonial domination cut the world into two types of capitalist development: the self-centered capitalism of the center, with market growth, rising wages, and consumption. And the extroverted capitalism of the periphery, export-oriented and therefore without significant wage growth. This unequal division of labor logically leads to unequal awareness. While workers in the Global North may be indifferent to the fate of workers in the Global South, the reverse is not true. You can bet that a random Senegalese can name far more French cities than a random French person can name Senegalese cities.

    Another form of response however would point less to capitalism and more to the state. In “The Social Production of Indifference,” the British anthropologist Michael Herzfeld shows that bureaucracy treats individuals not as persons but as “cases.” Following Max Weber, Herzfeld shows that the centralization of state power drives a rationalization of practices and a division of bureaucratic labor. The accumulation of knowledge, the creation of specialized services and the professionalization of expertise follow suit. But bureaucratization also increases social distancing. Individuals are no longer linked to each other by face-to-face relations, but by all sorts of “invisible threads:” legal categories, statistics, formalities. French sociologist Béatrice Hibou adds that, contrary to what is often thought, neoliberalism does not debureaucratize. On the contrary, it adds new forms of distancing: numerical indicators, benchmarking, and management techniques. Here again, the problem is more general than the relationship between Europeans and Africans. But colonization has also left its mark on the bureaucratic trajectory. Post-colonial bureaucracy is indifferent to the fate of peripheral populations. Cameroonian political scientist Achille Mbembé calls this “government by neglect.” It’s the exercise of power through abandonment, relegation, and invisibilization. We end up relying on experts and specialists, rather than considering problems for ourselves. Eventually, we hope, someone in charge will take care of the looming problem for us.

    A third type of response of course is racism. Racial theory and the dissemination of technologies of division (apartheid, segregation, border closures, encampment) have separated emotional communities. White people do not feel concerned with Black issues; they live in the comfortable quietness of what the philosopher Charles W. Mills calls “White Ignorance.” But indifference also comes from a denial of race. For US-American sociologists Tyrone A. Forman and Amanda E. Lewis, indifference is a new form of racism. While earlier racism was explicit, contemporary racism is less so. When asked about the plight of non-white people, white Americans used to justify their misfortunes on the grounds of biological or cultural inferiority. Today, Forman and Lewis explain, they are content to just ignore it. Pretend to see nothing of the differences so as not to have to worry about them: “Racial apathy and White ignorance (i.e., not caring and not knowing) are extensions of hegemonic color-blind discourses (i.e., not seeing race)”.

    Of course, the question of Europe’s indifference to the fate of the rest of the world is an old one. But this question is particularly acute today. The gap between the rapid flow of information and the indifference shown to certain population groups has never been wider. The number of drowning deaths in the Mediterranean (several thousand), the number of people suffering from hunger in Somalia (several hundred thousand), or the number of direct victims of the war in Ethiopia (more than half a million) are all widely ignored. When Europeans read in the newspapers that the war waged by the government of Ethiopia has killed more people than the war in Ukraine, their reflex is to compartmentalize by relegating it a war far away in an exotic place. Chances are they will close the journal before ever realizing that the coffee they are drinking is from there.

    #aidehumanitaire #colonialisme #racisme #indifférence #guerres

  • « C’est fou et très injuste » : comment les #impôts permettent aux hommes de gagner de l’argent sur le dos des #femmes
    https://madame.lefigaro.fr/business/actu-business/c-est-fou-et-tres-injuste-comment-les-impots-permettent-aux-hommes-d

    Instaurer un taux individualisé par défaut pour l’impôt sur le revenu. Le taux personnalisé, commun aux deux membres du couple, est pour l’instant appliqué par défaut. Or, il diminue de 13 points le taux d’imposition du conjoint au salaire le plus élevé, et augmente de 6 points celui du conjoint aux revenus les plus bas, dont une majorité de femmes. Supprimer l’impôt prélevé sur les prestations compensatoires après un divorce. Ces prestations, qui visent à atténuer la baisse de niveau de vie après la séparation - qui diminue de 22% pour les femmes contre 2% pour les hommes - constituent un revenu imposable si elles sont versées au-delà de douze mois après le divorce. Faciliter la décharge de solidarité pour éviter aux femmes de régler les dettes fiscales de leur ex-conjoint. « 80 % des demandeurs de décharge sont des femmes, explique Marie-Pierre Rixain. Elles héritent de ses dettes, liées à des fraudes fiscales sur les bénéfices professionnels et découvertes à l’occasion d’un contrôle fiscal mené après le divorce. C’est une véritable injustice. » Augmenter le plafond global de déductions fiscales pour encourager l’investissement féminin. En l’état actuel, on peut prétendre à des réductions d’impôt au titre de sa garde d’enfants, d’un employé à domicile ou d’un investissement dans une entreprise. Mais le plafond global de ces avantages fiscaux, fixé à 10 000 €, empêche nombre de mères actives, solos ou non, de financer des sociétés. Marie-Pierre Rixain propose donc de le rehausser à 18 000€ pour encourager les femmes à investir. Reconnaître systématiquement les associations féministes comme étant d’intérêt général. Ça n’est pas le cas actuellement, et cela prive certaines associations de financements, publics ou privés. D’où le projet de la députée de modifier le code général des impôts. Rétablir l’égalité de nature dans l’héritage. Elle a peu à peu disparu au profit de la seule égalité de valeur. Or, en raison de stéréotypes solides au sein des familles comme dans les études notariales, les fils héritent davantage des biens structurants - entreprises, biens immobiliers, terres... - et les filles, de compensations financières, souvent sous-évaluées. « Entre 1998 et 2015, l’écart de patrimoine entre les hommes et les femmes est passé de 9 % à 16 % », souligne Marie-Pierre Rixain.