• Vienne : le sauveteur albanais d’une octogénaire récompensé… par une expulsion
    https://www.lanouvellerepublique.fr/poitiers/vienne-le-sauveteur-albanais-d-une-octogenaire-recompense-par-u

    Un an après son acte de courage, c’est une expulsion du territoire français qui se profile pour Roland Aliu et ses proches.

    Le jeune Albanais s’était distingué en février 2022 en sauvant une octogénaire du quartier des Trois-Cités de l’incendie de sa maison. Les sauveteurs de la Vienne lui avaient remis, dans les salons de la préfecture de la Vienne, la médaille d’or pour cet acte de courage en juillet dernier.
    « Un mois pour quitter le territoire français »

    Il espérait depuis recevoir une bonne nouvelle avec un titre de séjour en bonne et due forme pour lui et ses proches. Raté, le courrier préfectoral qui est arrivé le 9 décembre dernier dans la boîte aux lettres familiales ne venait pas concrétiser cette espérance.

    « Ils nous donnent un mois pour quitter le territoire français, nous confirme ce mardi 3 janvier 2023 Roland Aliu. Mon père, ma mère et mon petit frère sont aussi visés. Je ne comprends pas. J’avais écrit au président de la République et au ministère de l’Intérieur. Les deux ont répondu qu’ils ne pouvaient rien faire directement, que c’était traité par le préfet de la Vienne. »

    Préfet qui va recevoir une médaille pour son zèle.

  • Etats-Unis : acquittement de Kyle Rittenhouse, qui a tué deux militants antiracistes à Kenosha – Libération
    https://www.liberation.fr/international/amerique/etats-unis-acquittement-de-kyle-rittenhouse-qui-a-tue-deux-militants-anti
    https://www.liberation.fr/resizer/nC3nmy45T-W96Wk602NF9r1y4hw=/1200x630/filters:format(jpg):quality(70)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/JZOKELHXW5B3VGF2FX2BRS5PKU.jpg

    Le jeune Américain Kyle Rittenhouse, qui a tué par balle deux personnes et blessé une troisième en marge de manifestations antiracistes en août 2020 à Kenosha, a été acquitté vendredi à l’issue d’un procès très suivi aux Etats-Unis.

  • A #Marseille, l’école #Bugeaud bientôt rebaptisée du nom d’un tirailleur algérien

    « Une école peut porter le nom d’un #héros, pas d’un #bourreau », estime le maire socialiste Benoît Payan, qui a décidé de retirer le patronyme du conquérant de l’#Algérie au profit de celui d’#Ahmed_Litim, libérateur de Marseille.

    L’école primaire Bugeaud, dans le 3e arrondissement de Marseille, sera bientôt débaptisée pour porter le nom d’un soldat inconnu, Ahmed Litim, tirailleur algérien, libérateur de Marseille, mort à 24 ans le 25 août 1944 sous le feu des occupants nazis.

    La délibération qui doit officialiser cette décision sera présentée au conseil municipal vendredi 21 mai. Mais, pilotée de bout en bout par le maire socialiste Benoît Payan, leader du Printemps marseillais, elle devrait être largement soutenue par la majorité de gauche, écologiste et citoyenne qui dirige la ville.

    « Une école de la République peut porter le nom d’un héros, mais pas celui d’un bourreau », assure le maire de Marseille au Monde pour expliquer son choix. « Chaque matin, des enfants rentrent sous un fronton où sont inscrits à la fois la devise de la République – “Liberté, Egalité, Fraternité” – et le nom de Bugeaud, ce qui est totalement contradictoire », s’indigne-t-il. Maréchal de France, gouverneur général de l’Algérie dès 1840, Thomas Bugeaud (1784-1849) s’est d’abord illustré dans les campagnes napoléoniennes, réprimant férocement les rébellions, notamment en Espagne. Mais il reste dans l’histoire comme l’officier qui a soumis l’Algérie et forcé l’émir Abd El-Kader à déposer les armes, en 1847.

    Une victoire militaire obtenue par des méthodes dénoncées à l’époque jusque devant la Chambre des pairs, notamment la mise à mort de milliers de civils, enfumés dans les grottes où ils avaient trouvé refuge. « Bugeaud met aussi en place la politique de la terre brûlée, dont l’objectif est de dégoûter à jamais la population de toute résistance. Quand il débarque à Alger, il apporte avec lui des malles entières de médaillons portant l’inscription “arabe soumis” », rappelle l’historien Ahmed Bouyerdene, conseiller scientifique de l’exposition Abd El-Kader prévue au printemps 2022 au MuCEM, à Marseille.

    #paywall

    https://www.lemonde.fr/politique/article/2021/05/11/a-marseille-l-ecole-bugeaud-debaptisee-pour-porter-le-nom-d-un-tirailleur-al
    #école #toponymie #toponymie_politique #tirailleurs #France

    ping @cede

  • Il racconto dell’omicidio di #Agitu_Ideo_Gudeta evidenzia il razzismo democratico dei media italiani

    L’imprenditrice #Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa il 29 dicembre nella sua casa a #Frassilongo, in provincia di Trento. Da subito si è ipotizzato si trattasse dell’ennesimo femminicidio (72 donne dall’inizio del 2020), anche in ragione del fatto che in passato la donna era stata costretta a querelare un uomo per #stalking. In quell’occasione Gudeta aveva chiesto di considerare l’aggravante razziale, dato che l’uomo, un vicino di casa, la chiamava ripetutamente “negra”, ma il giudice aveva respinto la richiesta del suo avvocato. Il giorno successivo all’omicidio, il suo dipendente #Adams_Suleimani, – un uomo ghanese di 32 anni – ha confessato il crimine, aggravato dal fatto che l’ha violentata mentre era agonizzante. Il movente sarebbe un mancato pagamento.

    Gudeta era nata ad Addis Abeba, in Etiopia, 42 anni fa. Non era più una “ragazza”, come hanno scritto alcune testate. La sua prima permanenza in Italia risale a quando aveva 18 anni, per studiare nella facoltà di Sociologia di Trento. Era poi tornata in Etiopia, ma nel 2010 l’instabilità del Paese l’ha costretta a tornare in Italia. Nello Stato africano si è interrotto solo pochi giorni fa il conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigré e il governo centrale etiope – i tigrini sono una minoranza nel Paese, ma hanno governato per oltre trent’anni senza far cessare gli scontri tra etnie – cha ha causato violazioni dei diritti umani, massacri di centinaia di civili e una grave crisi umanitaria.

    Proprio le minacce dei miliziani del Fronte di Liberazione avevano spinto Agitu Ideo Gudeta a tornare in Italia. La donna aveva infatti denunciato le politiche di #land_grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di aziende o governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano per mantenersi. Per questo motivo il governo italiano le ha riconosciuto lo status di rifugiata. In Trentino, dove si era trasferita in pianta stabile, ha portato avanti il suo impegno per il rispetto della natura, avviando un allevamento di ovini di razza pezzata mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, e recuperando alcuni ettari di terreni in stato di abbandono.

    Il caseificio che aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno promosso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto. Le origini della donna e del suo assassino stupratore sono sottolineate da tutti e precedono la narrazione della violenza, mettendola in secondo piano, salvo evidenziarla in relazione alla provenienza dell’omicida, che per una volta non è un italiano, né un compagno o un parente.

    Alla “ragazza” è stata affibbiata in tutta fretta una narrazione comune a quella che caratterizza altre donne mediaticamente esposte, come le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete, la cooperante Aisha Romano o la giornalista Giovanna Botteri, basata su giudizi e attacchi basati perlopiù su fattori estetici. Razzismo, sessismo e classismo si mescolano in questa storia in cui la violenza – quella del vicino di casa, quella del suo assassino, quella del governo etiope – rischiano di rimanere sullo sfondo, in favore del Grande gioco dell’integrazione. A guidarlo è come sempre un trionfalismo tipico dei white saviour (secondo una definizione dello storico Teju Cole del 2012), come se esistesse un colonialismo rispettabile: insomma, in nome della tolleranza, noi italiani doc abbiamo concesso alla donna un riparo da un Paese povero, di una povertà che riteniamo irrimediabile. Usiamo ormai d’abitudine degli automatismi e un lessico che Giuseppe Faso ha definito razzismo democratico, in cui si oppongono acriticamente migranti meritevoli a migranti immeritevoli, un dualismo che sa vedere solo “risorse” o “minacce all’identità nazionale”.

    Così il protagonismo di Agitu Ideo Gudeta viene improvvisamente premiato, trasformando lei in una migrante-eroina e il suo aguzzino nel solito stupratore non bianco, funzionale solo al “Prima gli italiani”. Ma parlare di Agitu Ideo Gudeta in termini di “integrazione” è un insulto alla sua memoria. Considerarla un simbolo in questo senso conferma che per molti una rifugiata sarà rifugiata per sempre e che una “migrante” non è altro che una migrante. La nostra stampa l’ha fatto, suggerendo di dividere gli immigrati in buoni e cattivi, decorosi e indecorosi, e trattando i lettori come se fossero tutti incapaci di accogliere riflessioni più approfondite.

    Parallelamente però, un governo che come i precedenti accantona la proposta di legge sulla cittadinanza favorisce un racconto privo di sfumature, che rifiuta in nome di una supposta complessità non affrontabile nello sviscerare questo tema. Forse se avessimo una legge sulla cittadinanza al passo con i tempi, e non una serie di norme che escludono gli italiani di seconda generazione e i migranti, potremmo far finalmente progredire il ragionamento sulla cosiddetta convivenza e sulla coesione sociale ed esprimerci con termini più adeguati. Soprattutto chi è stato in piazza a gridare “Black Lives Matter”, “I can’t breathe” e “Say Their Names” oggi dovrebbe pretendere che la notizia di questo femminicidio venga data diversamente: in Trentino una donna di nome Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa e violentata. Era diventata un’imprenditrice di successo nel settore caseario dopo essersi opposta alle politiche di land grabbing in Etiopia. Era un’attivista e un’ambientalista molto conosciuta. Mancherà alla sua comunità.

    https://thevision.com/attualita/agitu-gudeta-razzismo

    #féminicide #racisme #Italie #meurtre #femmes #intersectionnalité #viol #réfugiés #accaparement_des_terres #Trentin #éleveuse #élevage #Pezzata_Mòchena #chèvrerie #chèvres #La_capra_felice #xénophobie
    #white_saviour #racisme_démocratique
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    Le site web de la #fromagerie de Agitu Ideo Gudet :


    http://www.lacaprafelice.com

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    NB :
    Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Murdered Agitu Ideo Gudeta, an example of environmental preservation and female entrepreneurship in Italy.

      Agitu was found dead in her home in #Val_dei_Mocheni, Trentino, Italy. The entrepreneur and shepherdess from Ethiopia would turn 43 on January 1st.
      An employee of her company confessed the murder followed by rape.

      One of the main news in the Italian media, the murder of Agitu brought much indignation. Especially among women. In Italy, a woman is murdered every three days, according to a report from Eures.

      “When will this massacre of women end? When? Today, feminicide has extinguished the smile of a dear and sweet sister. Rest in peace Agitu. We will miss you a lot”, twitted the Italian writer with SomaIi origin Igiaba Sciego.

      Agitu, originally from Addis Ababa, was born into a tribe of nomadic shepherds. She went to Rome to study Sociology when she was 18 years old and returned to Ethiopia. However, she left her country again in 2010, fleeing threats for her commitment by denouncing “land grabbing” by multinationals.

      In Italy, in Valle dei Mocheni, Trentino, she began to preserve a goat species in extinction, the #Mochena goat.

      An example of female entrepreneurship, she set up the company “La capra felice” (The happy goat) producing cheeses and cosmetic products with goat’s milk.

      She has become an example of organic and sustainable production.

      Agitu’s work has been recognized throughout Italy, her story published in many medias, she attended different events and has been rewarded for her commitment to preserving goats and her production of organic products. One of the awards was the Slow Cheese Resistenza Casearia award, in 2015.

      It was not the first time that Agitu had her life under threat in the hands of men. She publicly denounced her neighbour for stalking, racially motivated threats and aggression. For months she was threatened by a man and one of the reasons was that she offered work and apprenticeship for refugees from African origins. “This neighbour does not like the colour of our skin and does what it can to create confusion,” she said at an interview.

      On December 29, her life was taken by a man who worked for her, shepherding her goats. According to him, for financial reasons. The man confessed to the crime and also revolted that he had committed rape after the attack. The man beat her in her head with a hammer. He was arrested.

      Agitu was found lifeless after friends called the police because they thought it was strange that she didn’t come to a meeting and didn’t answer the phone.

      The murder is a tragic end for a woman who brought so many good things into the world.

      Until when will we lose our sisters to violence?

      Rest in peace Agitu. We will never forget your legacy.

      https://migrantwomenpress.com/agitu-ideo-gudeta-murdered/amp/?__twitter_impression=true

      #montagne

    • Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Le féminicide d’Agitu Ideo Gudeta choque l’Italie

      Ce 29 décembre, Agitu Ideo Gudeta, une réfugiée éthiopienne de 42 ans, a été retrouvée morte à son domicile, dans le nord de l’Italie, annonce La Repubblica. Elle était connue dans tout le pays grâce à son activité, couronnée de succès, d’éleveuse de chèvres et avait été à de nombreuses reprises médiatisée.

      Une célèbre bergère

      Selon le quotidien local Il Dolomiti, Agitu Gudeta était devenue « la bergère la plus célèbre des vallées du Trentin ». Et son histoire n’était pas banale. En 2010, elle avait dû fuir l’Éthiopie à cause de son activité de militante environnementaliste. Elle subissait des menaces de poursuites judiciaires et des menaces de mort car elle s’opposait à l’accaparement des terres par certaines multinationales.

      A 30 ans, toute seule dans un nouveau pays et dans la région réputée inhospitalière du Trentin, elle avait commencé une autre vie, avec ses 180 chèvres et sa propre entreprise prospère de fromages bio baptisée « La Capra Felice », la chèvre heureuse. Elle avait choisi de protéger une espèce rare, la chèvre Mochena, qui survit dans cette vallée isolée.
      Insultes et menaces racistes

      Avec sa réussite, c’est à d’autres menaces qu’elle avait dû faire face : des menaces et insultes racistes de la part de ses voisins. Elle avait été agressée physiquement également. Elle avait porté plainte contre l’un d’eux qui avait été condamné en janvier à 9 mois sous liberté conditionnelle.

      https://www.youtube.com/watch?v=CF0nQXrEJ30&feature=emb_logo

      https://www.rtbf.be/info/dossier/les-grenades/detail_le-feminicide-d-agitu-ideo-gudeta-choque-l-italie?id=10664383

    • Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell’integrazione

      Scappata dal suo Paese, aveva fondato l’azienda agricola «La capra felice» nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione.

      L’hanno trovata senza vita all’interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l’accaduto.

      È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l’obiettivo di salvare dall’estinzione (e anche dagli attacchi dell’orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

      Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: «Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto» aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini perà si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell’azienda ’La Capra Felice’. A quanto pare, l’uomo - che non è quello che l’aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

      Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all’epoca Ugo Rossi: «Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell’accoglienza e nella solidarietà». Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: «Il razzismo non c’entra». La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell’azienda agricola: «La capra felice».

      Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all’incontro «Donne anche noi», raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l’Etiopia perché a causa del suo impegno contro l’accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_

    • Tributes paid to Ethiopian refugee farmer who championed integration in Italy

      Agitu Ideo Gudeta, who was killed on Wednesday, used abandoned land to start a goat farming project employing migrants and refugeesTributes have been paid to a 42-year-old Ethiopian refugee and farmer who became a symbol of integration in Italy, her adopted home.

      Agitu Ideo Gudeta was attacked and killed, allegedly by a former employee, on her farm in Trentino on Wednesday.

      Gudeta had left Addis Ababa in 2010 after angering the authorities by taking part in protests against “land grabbing”. Once in Italy, she tenaciously followed and realised her ambition to move to the mountains and start her own farm. Taking advantage of permits that give farmers access to abandoned public land in depopulated areas, she reclaimed 11 hectares (27 acres) around an old barn in the Mòcheni valley, where she founded her La Capra Felice (The Happy Goat) enterprise.

      Gudeta started with a herd of 15 goats, quickly rising to 180 in a few years, producing organic milk and cheese using environmentally friendly methods and hiring migrants and refugees.

      “I created my space and made myself known, there was no resistance to me,” she told Reuters news agency that year.

      “Agitu brought to Italy the dream she was unable to realise in Ethiopia, in part because of land grabbing,” Gabriella Ghermandi, singer, performer, novelist and friend of Gudeta, told the Guardian. “Her farm was successful because she applied what she had learned from her grandparents in the countryside.

      “In Italy, many people have described her enterprise as a model of integration. But Agitu’s dream was to create an environmentally sustainable farm that was more than just a business; for her it also symbolised struggle against class divisions and the conviction that living in harmony with nature was possible. And above all she carried out her work with love. She had given a name to each one of her goats.”

      In a climate where hostility toward migrants was increasing, led by far-right political leaders, her success story was reported by numerous media outlets as an example of how integration can benefit communities.

      “The most rewarding satisfaction is when people tell me how much they love my cheeses because they’re good and taste different,” she said in an interview with Internazionale in 2017. “It compensates for all the hard work and the prejudices I’ve had to overcome as a woman and an immigrant.”

      Two years ago she received death threats and was the target of racist attacks, which she reported to police, recounting them on her social media posts.

      But police said a man who has confessed to the rape and murder of the farmer was an ex-employee who, they said, allegedly acted for “economic reasons”.

      The UN refugee agency said it was “pained” by Gudeta’s death, and that her entrepreneurial spirit “demonstrated how refugees can contribute to the societies that host them”.

      “Despite her tragic end, the UNHCR hopes that Agitu Ideo Gudeta will be remembered and celebrated as a model of success and integration and inspire refugees that struggle to rebuild their lives,” the agency said.

      “We spoke on the phone last week’’, said Ghermandi. “We spent two hours speaking about Ethiopia. We had plans to get together in the spring. Agitu considered Italy her home. She used to say that she had suffered too much in Ethiopia. Now Agitu is gone, but her work mustn’t die. We will soon begin a fundraising campaign to follow her plan for expanding the business so that her dream will live on.”

      Gudeta would have turned 43 on New Year’s Day.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/jan/01/tributes-paid-to-ethiopian-refugee-farmer-who-championed-integration-in

    • Dalla ricerca di eroi alla costruzione di progetti comunitari. Perché è importante cambiare narrazione

      Del bisogno di eroi

      La storia del passato, così come la cronaca quotidiana, pullula di storie di eroi che troneggiano nell’immaginario collettivo. Quello di eroi ed eroine è un bisogno antico, che riflette la necessità di costruire cognitivamente il mondo reale per mezzo di narrative che ci permettano di affidare ruoli e connotati chiari a singoli individui e gruppi sociali, soddisfacendo il nostro bisogno di certezze che affonda le radici tanto nella mitologia classica quanto nel pensiero cristiano e che sostengono la costruzione della nostra moralità culturale e senso dell’etica.

      Si tratta però di un bisogno che è ancora largamente presente nelle società contemporanee, a dispetto dei progressi indotti dal processo di formazione del diritto moderno, che ha portato a distinguere in maniera netta tra ciò che è lecito e ciò che lecito non è. Questo processo non è infatti riuscito, se non in astratto attraverso artifici teorici, a superare la dimensione individualistica (Pisani, 2019). Di qui il perdurare del bisogno di eroi, che continua a essere percepito come rilevante perché offre un’efficace e facile via di fuga. Consente, talvolta inconsapevolmente, di banalizzare situazioni e fenomeni complessi, interpretarli in maniera funzionale alla nostra retorica e giustificare l’inazione.

      Se l’obiettivo è però innescare profondi cambiamenti sociali all’insegna di una maggiore giustizia sociale e lotta alle profonde disuguaglianze del nostro tempo, allora non è di singoli eroi che si dovrebbe andare alla ricerca, ma di una diversa narrazione che faccia assegnamento sull’impegno autentico delle comunità. Comunità locali che sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo rilevante nella costruzione sia di sistemi di welfare di prossimità, sia di nuovi modelli di produzione a larga partecipazione, in risposta a una pluralità di bisogni e sfide incompiute che spaziano dall’inclusione di persone vulnerabili fino alla gestione di beni comuni come la salute, il territorio, l’energia.[1]

      Quest’articolo prende le mosse da una convinzione di fondo. Nonostante il ruolo importante che svolgono nel generare benessere sociale, le comunità locali stentano ad essere riconosciute come protagoniste di un processo di cambiamento.

      Responsabile della loro scarsa visibilità e incisività non è solo l’insufficiente riconoscimento politico, ma anche una narrazione incoerente di cui si fanno sovente portatrici anche le organizzazioni di terzo settore che gli interessi delle comunità promuovono. Una narrazione spesso incentrata sul culto di singole personalità che, mettendo in ombra l’ancoraggio comunitario, rischia di incrinare l’impatto generativo del terzo settore.

      Dopo una riflessione sul perché bisognerebbe diffidare delle narrazioni idealizzate e sugli effetti del pathos degli eroi, l’articolo si sofferma su un caso specifico, quello di Agitu Ideo Gudeta, assassinata sul finire del 2020 da un suo collaboratore. Quindi, prendendo le mosse da questa drammatica vicenda, gli autori si soffermano sulle ragioni che farebbero propendere per la sostituzione degli eroi con progetti collettivi, sollecitando le organizzazioni di terzo settore, in primis, a cambiare narrazione.
      Pathos degli eroi

      Gli esempi di persone, professionisti e politici che sono stati idealizzati in virtù di reali o presunti talenti o gesta sono molteplici e coinvolgono frange della società civile – sia conservatrici e reazionarie, sia progressiste – così come il mondo della politica. Eroi che, spesso in virtù di altrettante semplificazioni, da figure mitologiche sono stati di punto in bianco trasformati in demoni o in capri espiatori, lasciando volutamente in ombra la complessità dei contesti, le relazioni, le fragilità, le emozioni e i comportamenti, spesso controversi, che accompagnano ogni essere umano, sia nei momenti di gloria, sia in quelli più bui.

      Nell’ambiente conservatore spicca la parabola di Vincenzo Muccioli, santificato negli anni ’80 come salvatore di migliaia di giovani spezzati dall’eroina, e poi demonizzato dai mezzi di informazione, prescindendo da un’analisi approfondita della sua controversa iniziativa. Tra gli esempi di persone e professionisti che sono stati santificati e poi travolti da un’onda di retorica colpevolista vi sono gli infermieri e i medici, celebrati come supereroi allo scoppio della pandemia Covid-19, passati nel secondo lockdown ad essere additati come appestati e untori, quando non complici di una messa in scena.[2]
      Emblematico è anche il caso dei volontari, portati puntualmente alla ribalta della cronaca come angeli durante catastrofi e crisi naturali, per poi svanire nel nulla in tempi non emergenziali, a dispetto del loro prezioso contributo quotidiano per migliorare la qualità della vita delle persone più vulnerabili.[3]
      Con riferimento all’ambiente più militante e progressista si distingue Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, passato dall’essere innalzato a mito dell’accoglienza dalla stampa e dal sistema SPRAR, in virtù dell’esperienza pionieristica sperimentata dal suo Comune, a essere abbandonato e attaccato da una parte dei media. Il cambio di atteggiamento nei confronti di Lucano coincide con la controversa vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto per favoreggiamento dell’immigrazione e per la gestione di progetti di accoglienza, dopo che il suo Comune è stato per anni pressato dal Viminale e dalla Prefettura affinché ospitasse un gran numero di richiedenti asilo, rifiutati da altri progetti di accoglienza (Procacci, 2021). Nel mondo della politica istituzionale primeggia l’attuale santificazione di Mario Draghi, acclamato come unico possibile salvatore di un Paese al collasso dopo essere stato considerato un simbolo dei poteri finanziari forti negli anni della crisi economica globale (Dominjanni, 2021).
      Perché diffidare degli eroi?

      Le ragioni che portano a diffidare degli eroi sono molteplici. I riflettori accesi esclusivamente sulla dimensione dell’eccellenza[4]
      distolgono l’attenzione da tutto ciò che condiziona le azioni dell’eroe, come i contesti istituzionali e ambientali, incluso il bagaglio di risorse, non solo economiche ma anche sociali e culturali, su cui il singolo fa assegnamento. A influenzare i percorsi che portano alle presunte gesta eccezionali di chi viene incoronato come eroe, ci sono comunità e organizzazioni, più o meno coese, composte da una pluralità di individui che si relazionano tra di loro per contribuire, in base al ruolo ricoperto, al raggiungimento di obiettivi condivisi. Anche le scelte dell’imprenditore più autoritario e accentratore, sono condizionate dalle persone e dall’ambiente con cui è interconnesso. Il potenziale innovativo non è quindi un dono che gli dei fanno a pochi eletti (Barbera, 2021), ma un processo complesso che per essere compreso appieno presuppone un’analisi articolata, che ricomprende una pluralità di elementi economici, sociali e relazionali. Elementi che le analisi fondate sugli eroi nella maggior parte dei casi ignorano, riconducendo sovente il successo dell’iniziativa idealizzata esclusivamente a un’intuizione del singolo.

      A fomentare una narrazione personalistica ha contribuito lo storytelling che ha fatto dell’innovazione il mantra dominante (Barbera, 2021). Responsabile è principalmente la retorica di stampo neoliberista, incentrata sul mito dell’imprenditore individuale, che ha assoggettato la maggior parte dei campi del sapere, arrivando a giustificare le disuguaglianze poiché conseguenti a un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà (Piketty, 2020). Di qui la riconversione del cittadino in homo oeconomicus, orientato non più allo scambio come nel liberismo classico, bensì alla valorizzazione di sé stesso in quanto capitale umano (Dominjianni, 2017). Una parte della letteratura sul management del terzo settore ha introiettato questa logica, proiettandola nella figura eroica dell’imprenditore sociale (Waldron et al., 2016; Miller et al., 2012; Dacin et al., 2011; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Austin et al., 2006).[5]
      Sottolineando il connubio tra tratti etici e competenze creative e leadership, che permetterebbero all’imprenditore sociale di assumersi i rischi necessari a raggiungere obiettivi sociali straordinari, questa letteratura ha trascurato i processi organizzativi e decisionali che sono alla base del funzionamento delle diverse organizzazioni (Petrella, Battesti, 2014).

      Il culto degli eroi ha così contribuito ad allontanare l’attenzione da alcune caratteristiche precipue di associazioni e cooperative, tra cui in primis l’adozione di modelli di governo inclusivi ad ampia partecipazione, che dovrebbero favorire il coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nei processi decisionali, in rappresentanza dei diversi gruppi sociali che abitano un territorio (Sacchetti, 2018; Borzaga e Galera, 2016; Borzaga e Sacchetti, 2015; Defourny e Borzaga, 2001).[6]
      Ciò si verifica, ad esempio, quando una organizzazione di terzo settore costituita su basi democratiche, è identificata con il nome di un singolo eroe: un fondatore, un religioso che – anche quando non ricopra effettivamente cariche formali apicali – si riconosce come ispirazione e figura carismatica. Sono casi in cui talvolta il percorso di sviluppo dell’ente passa in secondo piano rispetto a quello di un singolo individuo il cui nome è di per sé evocativo dell’intera organizzazione.
      Gli effetti delle narrazioni eroicizzate

      L’immediata spendibilità comunicativa delle narrazioni fondate su figure eroiche spiega perché esse siano largamente preferite da una parte rilevante della politica, da molti osservatori e dalla quasi totalità degli operatori dell’informazione rispetto a studi analitici volti a comprendere i fenomeni sociali e a rendere conto ai cittadini e agli attori esterni delle scelte di policy compiute. Di qui l’incapacità di comprendere le problematiche che affliggono la società contemporanea e la proiezione artificiale in una figura erta a simbolo, non senza implicazioni negative.
      Allontanano dall’individuazione di possibili soluzioni

      Oltre a offuscare il contesto di appartenenza, la retorica dell’azione straordinaria allontana l’attenzione da quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento di qualsiasi sistema, a livello macro, così come a livello micro. Nelle narrazioni incentrate sugli eroi non c’è spazio né per analisi valutative comparate, né tantomeno per riflessioni su come dovrebbe funzionare, ad esempio, un’organizzazione.

      Scoraggiando la correttezza analitica su temi di rilevanza pubblica e disincentivando qualsiasi tipo di studio volto a misurare l’efficacia di singole iniziative di welfare o il loro impatto sull’occupazione e il benessere della collettività, le narrazioni eroicizzate impediscono di indagare la realtà in maniera approfondita. Di conseguenza, non consentono di comprendere le implicazioni, non solo economiche ma anche in termini di efficacia, che sono connesse alle diverse soluzioni di policy.

      La tendenza ad analizzare la realtà in maniera superficiale, spesso in nome di un’imperante “politica del fare”, ci allontana quindi dall’individuazione di possibili soluzioni ai problemi che affliggono le società contemporanee. I riflettori accesi su una singola esperienza nel campo delle dipendenze hanno per molto tempo impedito un confronto serio sull’efficacia degli interventi di riabilitazione sperimentati dalle diverse realtà di accoglienza, non solo in termini di disintossicazione, ma anche di reinserimento nel tessuto sociale delle persone accolte. L’esaltazione della figura di Vincenzo Muccioli ha contribuito a trascurare negli anni ‘80 le oltre 300 iniziative di accoglienza di tossicodipendenti che in quegli stessi anni stavano sperimentando percorsi di riabilitazione alternativi basati sull’ascolto individuale, la responsabilità e la condivisione comunitaria. Realtà che, basandosi su uno scambio tra contributi volontari e competenze professionali (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.), prendevano le mosse a partire dall’esperienza di organizzazioni già radicate come il Gruppo Abele, San Benedetto al Porto e la Comunità di Capodarco, così come nuove esperienze, tra cui il Ceis, Exodus, Saman, Villa Maraini a Roma e la comunità Betania a Parma (De Facci, 2021). Tra le tante comunità di accoglienza e recupero nate tra gli anni ’70 e ’80, particolarmente interessante è quella trentina di Camparta, che è stata recentemente raccontata da alcuni dei suoi protagonisti. Promossa su iniziativa di uno psicoterapeuta d’impronta basagliana e animata da ideali libertari e comunitari, Camparta ha sperimentato un metodo di riabilitazione olistico, fondato su un percorso di ricerca interiore, confronto e rifondazione culturale a tutto campo (I ragazzi di Camparta, 2021).

      La narrazione fortemente polarizzata tra posizioni idealizzate pro e anti migranti continua a impedire un’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio che possa fornire utili indicazioni di policy su come andrebbe gestita l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati entro una visione di sviluppo locale piuttosto che secondo una logica emergenziale. L’idealizzazione di Mimmo Lucano ha distolto l’attenzione dalle tante altre esperienze di accoglienza di cui l’Italia è ricca. Iniziative che, prendendo in alcuni casi ispirazione dall’iniziativa pionieristica di Riace, hanno saputo innescare processi di sviluppo a livello locale grazie ad una proficua collaborazione tra enti di terzo settore e enti locali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020).

      Coprendo le nefandezze e le carenze di un sistema sanitario al collasso, la celebrazione di medici e infermieri come angeli durante il primo lockdown ha ritardato una riflessione quanto mai necessaria su come dovrebbe essere riformato il sistema sanitario per renderlo maggiormente in grado di gestire le attuali sfide socio-sanitarie, così come quelle all’orizzonte per effetto dell’allevamento industriale intensivo, del massiccio impiego di antibiotici in allevamento e dei cambiamenti climatici (Galera, 2020; Tamino, 2020).

      A livello organizzativo, le narrazioni incentrate sull’azione straordinaria degli eroi imprenditori incoraggiano sistematicamente sia l’adozione di strumenti di management, sia l’adesione a culture organizzative che, svilendo la componente della partecipazione, indeboliscono la capacità del terzo settore di incidere a livello locale; e influenza, in modo negativo, pure le politiche, laddove, ad esempio nelle scelte di finanziamento, venga privilegiata l’idea “innovativa”[7]
      rispetto alla capacità di costruire legami di comunità e di rafforzare soggetti collettivi e inclusivi.

      A livello di sistema, l’impatto generativo del terzo settore è nondimeno minato dall’incapacità – insita in ogni idealizzazione – di discernere tra elementi non trasferibili, perché legati a particolari condizioni congiunturali e di contesto favorevoli, ed elementi “esportabili”. Tra questi, ad esempio, modelli di servizio, strumenti di lavoro, strategie di collaborazione o forme dell’abitare che, essendo stati sperimentati con esiti positivi, potrebbero essere modellizzati e replicati su più ampia scala, qualora liberati dal giogo dell’eroe.
      Forniscono l’alibi per rifugiarsi nell’inazione

      Tra i gruppi idealizzati rientrano i volontari e gli operatori impegnati in prima linea nelle situazioni emergenziali generate da catastrofi naturali. Nel caso dei volontari, la tendenza predominante è mitizzarne il coinvolgimento durante le emergenze e ignorarne sistematicamente il contributo nella vita quotidiana a sostegno delle persone più vulnerabili o del territorio che abitiamo per contenerne la fragilità.

      Tra gli esempi di mobilitazioni di volontari idealizzate vi sono quelle avvenute in occasione di nubifragi e terremoti. Tra queste l’alluvione che nel 1966 cosparse Firenze di acqua e fango, causando gravissimi danni sia alle persone sia al patrimonio artistico (Silei, 2013). Ulteriori esempi di mobilitazioni comunitarie sono rappresentati dal terremoto del 2012 in Emilia e dall’alluvione di Genova nel 2014. Catastrofi naturali che hanno attivato una catena di solidarietà in grado di compensare, almeno in parte, l’assenza di un’organizzazione centralizzata capace di gestire opportunamente le emergenze.

      L’uso di espressioni improprie come “angeli” e “eroi” mette tuttavia in ombra la normalità dell’azione di milioni di cittadini che nelle associazioni o individualmente nei loro posti di lavoro, in strada o su internet, chiedono l’attenzione delle istituzioni, anche prima delle emergenze, denunciano gli abusi e si battono per i propri diritti (Campagna #nonsonoangeli, 2014).[8]
      La mitizzazione dei volontari nei momenti di crisi non solo svilisce il loro prezioso contributo nella quotidianità. Appigliandosi al pretesto che l’impegno sia appannaggio di pochi eletti, l’idealizzazione offre ai così detti “cittadini ordinari” l’alibi per rifugiarsi nell’inazione.
      Scoraggiano la costruzione di un sistema valoriale alternativo

      Il pathos suscitato dagli eroi offre nondimeno la scorciatoia per non impegnarsi nella costruzione di un sistema valoriale coerente con i principi e i valori dichiarati. Il sistema di riferimenti valoriali riprodotto dall’eroe permette, infatti, di aggregare consenso in maniera immediata, senza alcuna fatica. Diversamente, un percorso di produzione valoriale sociale in grado di innescare cambiamenti consapevoli richiederebbe sia un impegno rilevante in termini di ascolto, confronti e negoziazioni volti a tracciare un itinerario di azione condiviso, sia tempi considerevoli.

      Di qui l’effimera illusione che l’eroe, consentendo di conseguire approvazione e sostegno nel breve termine, possa aiutarci a sostenere il nostro sistema valoriale in maniera più efficace. Le storie di eroi ci mostrano, invece, come i sistemi basati sull’idealizzazione siano nel medio e lungo periodo destinati a produrre l’effetto contrario. Creando una frattura netta tra gli eroi e i non eroi, influenzano in senso antisociale i comportamenti collettivi e individuali (Bonetti, 2020). E così facendo, ci allontanano da quello che dovrebbe essere il modello di società più rispondente al sistema valoriale che vorremmo promuovere.
      Incoraggiano la polarizzazione tra “buoni” e “cattivi”

      Di conseguenza, oltre a non contribuire a risolvere spinosi problemi sociali, le narrazioni idealizzate favoriscono una polarizzazione tra “buoni” e “cattivi” in cui le posizioni contrapposte si alimentano a vicenda, compromettendo il dialogo e la gestione dei conflitti.

      La tendenza a polarizzare è una prassi diffusa nel settore dell’informazione, incline a esaltare o distruggere personaggi simbolo (Sgaggio, 2011), così come tra opinionisti, osservatori, ricercatori, esperti e tra le organizzazioni della società civile.

      Quella della polarizzazione e categorizzazione è tuttavia una tendenza a cui siamo tutti soggetti, spesso inconsapevolmente. Siamo attratti maggiormente da notizie e informazioni che siano in grado di confermare le nostre interpretazioni del mondo, mentre siamo respinti magneticamente da tutto ciò che mette in discussione le nostre certezze o alimenta dubbi. Elaborare messaggi che si allineano con le nostre ideologie richiede, non a caso, uno sforzo cognitivo considerevolmente minore rispetto alla messa in discussione delle nostre sicurezze (Michetti, 2021).

      L’inclinazione a semplificare e categorizzare è in una certa misura una reazione incontrollata, indotta dall’esigenza di difenderci dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti sistematicamente. Una reazione che rischia di essere esasperata dallo stato emotivo di vulnerabilità a livello individuale e collettivo in cui ci troviamo a causa della pandemia. L’essere più fragili ci rende, infatti, più facilmente preda di abbagli e simboli in cui proiettare paure, ambizioni e desideri di cambiamento in positivo.
      Esasperano le fragilità delle persone idealizzate

      In mancanza della consapevolezza di essere oggetto di idealizzazione, la mitizzazione può avere conseguenze deleterie anche sulla persona idealizzata. Come alcune storie di eroi ci mostrano, l’idealizzazione può portare a una progressiva esasperazione di fragilità latenti e, nei casi estremi, a una dissociazione cognitiva. Di qui lo sviluppo – nelle persone borderline – di disturbi narcisistici e megalomani, che possono accelerare la caduta del mito, sempre al varco quando vi è un processo di santificazione in atto.[9]

      A prescindere dall’evoluzione dell’idealizzazione, delle competenze, talenti o accuse di cui può essersi macchiato il presunto eroe, si tratta di un percorso a termine, nella maggior parte dei casi destinato a lasciare spazio alla solitudine non appena la stagione della gloria si esaurisce, talvolta accompagnata dalla dissacrazione della figura dell’eroe.
      Il caso della pastora Agitu Ideo Gudeta e della “Capra Felice”

      La recente idealizzazione della pastora etiope Agitu Ideo Gudeta, titolare dell’azienda agricola “La Capra Felice”, esaltata a seguito della sua uccisione, confermano il bisogno compulsivo di eroi che affligge una rilevante fetta di società, in questo caso quella più militante e attenta alla giustizia sociale, ai valori della solidarietà e dell’antirazzismo. La sua storia è molto conosciuta.

      Agitu Ideo Gudeta nasce nel 1978 in Etiopia. Emigra in Italia per motivi di studio ma, appena laureata, torna nella sua terra d’origine per combattere contro il land-grabbing. Dopo aver ricevuto pesanti minacce per il suo impegno contro le multinazionali, rientra come rifugiata in Italia e avvia in Trentino un allevamento di ovini di razza pezzata mòchena, una specie autoctona a rischio di estinzione, e un caseificio, La Capra Felice, i cui prodotti biologici e gli intenti ambientalisti la portano ad ottenere riconoscimenti anche da Slow Food e da Legambiente. Per la sua attività Agitu Ideo Gudeta recupera un pascolo di oltre 10 ettari in stato di abbandono e occupa nel corso degli anni numerosi giovani richiedenti asilo e rifugiati.

      Quello di Agitu Ideo Gudeta è un racconto ineccepibile di cui tanti attivisti si sono innamorati, estrapolando pezzi della sua storia che calzavano a pennello con la loro retorica. Il suo percorso ha trovato terreno fertile nelle narrazioni sull’inclusione, nelle analisi di buone pratiche di imprenditoria migrante e femminista, nelle storie di rivitalizzazione di aree interne, negli esempi di recupero di specie animali autoctone a rischio di estinzione, e nella lotta contro il land-grabbing.

      La maggior parte delle analisi, in particolare quelle realizzate dopo la sua uccisione, si è tuttavia limitata ad una descrizione superficiale che ha sottovalutato le caratteristiche di un contesto contraddistinto da una molteplicità di sfide e criticità legate in primo luogo al settore di attività, la pastorizia, notoriamente a rischio di sfruttamento per le caratteristiche intrinseche a tutte le attività agricole. Si tratta di attività esposte a una molteplicità di fattori di incertezza; a quelli produttivi e di mercato si aggiungono rischi climatici, ambientali e istituzionali legati al cambio di normative e regolamenti, che condizionano fortemente le entrate economiche, specie delle aziende agricole di piccole dimensioni.

      Tra le caratteristiche di contesto rientra anche il tipo di territorio: la Valle Dei Mòcheni, un’area alpina periferica dove esistono ancora regole antiche che governano i rapporti tra i membri della comunità. Infine, un ulteriore elemento di complessità è legato alla tipologia di lavoratori impiegati dalla Capra Felice: richiedenti asilo e rifugiati, ovvero persone fragili che mostrano, in generale, un’alta vulnerabilità spesso dovuta a disturbi post-traumatici da stress (Barbieri, 2020).[10]
      Queste sfide e criticità si sono intrecciate con le difficoltà legate a un processo di sviluppo imprenditoriale che la Capra Felice ha intrapreso in un momento di grave instabilità e recessione economica.

      A dispetto delle drammatiche circostanze in cui i fatti si sono svolti, la retorica che potremmo chiamare della beatificazione seguita all’uccisione di Agitu Ideo Gudeta non ha lasciato alcuno spazio alla riflessione critica. Non solo le istituzioni pubbliche e gli operatori dell’informazione, ma anche molti politici e organizzazioni di terzo settore si sono rifugiati nella facile consacrazione dell’eroina, piuttosto che interrogarsi sulle fragilità dell’ambiente in cui Agitu Ideo Gudeta operava, sulle difficoltà incontrate da lei e dai suoi collaboratori, e persino sulle concause che potrebbero aver portato alla sua uccisione.

      Mentre si sono sprecate le parole per “eroicizzarla”, nessuno si è interrogato sulla qualità del lavoro, sul tipo di relazione lavorativa che la Capra Felice instaurava con i giovani richiedenti asilo e sull’esito dei loro percorsi di integrazione.

      Chi erano e che ruolo avevano i collaboratori della Capra Felice? Quanti richiedenti asilo hanno lavorato nel corso degli anni e in che misura e da chi erano seguiti nei loro percorsi di inclusione? Qual era il turn over dei lavoratori stranieri? Che rapporto avevano i collaboratori della Capra Felice con il territorio e la comunità locale? Dove vivono e lavorano ora gli ex lavoratori? Nel caso di lavoratori particolarmente fragili, qual era il ruolo dei servizi sociali e sanitari? Il percorso di sviluppo imprenditoriale della Capra Felice è stato seguito da qualche incubatore di impresa e, in caso negativo, perché no?

      Queste sono solo alcune delle domande su cui si sarebbe dovuto a nostro avviso interrogare qualsiasi osservatore non superficiale, interessato a comprendere e a sostenere i percorsi di accoglienza e inclusione sociale e lavorativa delle persone fragili.
      Progetti collettivi al posto di eroi e eroine

      La storia tragica di Agitu Ideo Gudeta sembra essere anche la storia di una società debole e fallimentare nel suo complesso, non solo di un’onda retorica che ha attraversato i mezzi di informazione e i social network per creare al suo centro l’eroina.

      Il fatto che la sua morte abbia generato un bisogno di santificazione e una gogna mediatica nei confronti dell’accusato, invece che sollecitare cordoglio e un esame di coscienza collettiva, smaschera un vuoto su cui forse varrebbe la pena riflettere.

      Un vuoto che può essere riempito solo con azioni concrete e durevoli, che siano il frutto di progetti collettivi a livello comunitario. A questo scopo, servono iniziative di autentica condivisione che aiutino a governare la complessità, a riconoscere le situazioni di fragilità e a prevenire e gestire i conflitti che inevitabilmente abitano i contesti sociali (Sclavi, 2003). A supporto di queste iniziative, c’è bisogno di una nuova narrazione, autentica e costruttiva, che sia innanzi tutto capace di apprendere dagli errori e dai fallimenti affinché le falle del nostro tessuto sociale non permettano più il perpetrarsi di simili tragedie. Quindi, una narrazione che non rifugge il fallimento e non lo percepisce come un pericolo da mascherare a qualsiasi costo, ma come un’opportunità di crescita e di cambiamento.

      Rispetto a quella che nutre gli eroi, è un tipo di narrazione di senso, incline ad alimentare una responsabilità collettiva e una nuova consapevolezza sociale, che può favorire un ribaltamento valoriale in senso solidale. È però una narrazione molto più faticosa da sviluppare. Presuppone, infatti, un’azione collettiva impegnativa in termini di relazioni, negoziazioni e confronti, che deve giocoforza poggiare sulla creazione di spazi di aggregazione e di collaborazione. Questa nuova narrazione non può che nascere da un rinnovato impegno civico di ciascuno di noi, in quanto cittadini responsabili che, praticando la solidarietà, prefigurano un cambiamento e un futuro possibile dove la cittadinanza attiva non è l’eccezione ma la costante.[11]

      Di qui la necessità di sostituire l’emulazione verbale e la ben sedimentata narrativa dell’eroe, normativamente accettata da un uso millenario, con un nuovo ordine normativo significante della realtà.
      Come sostenere la creazione di comunità accoglienti e inclusive

      La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia nei partiti e l’allontanamento dalla politica hanno da tempo acceso i riflettori sulla società civile, organizzata e non, in quanto spazio di discussione e confronto, finalizzato non solo ad elaborare efficaci strategie in risposta a bisogni sempre più complessi, ma anche a prevenire e gestire le fragilità umane e i conflitti tra gruppi sociali contrapposti.

      Di fronte alla crisi epocale dei modelli politici e produttivi tradizionali, sono sempre più numerosi i dibattiti su come, in quale misura e attraverso quali strumenti, le comunità locali possano intervenire concretamente sulle profonde disuguaglianze economiche, sociali, territoriali che affliggono il nostro Paese, ribaltando i paradigmi dominanti e innescando cambiamenti profondi a vantaggio dei più deboli e della collettività.

      La storia, quella più lontana e quella più recente, ci mostra come spesso la forza della comunità risieda nel bagaglio di valori, tradizioni e relazioni fiduciarie, che sono radicati nel tessuto sociale e vissuto collettivo. Ed è questo bagaglio relazionale e valoriale che ha permesso in moltissimi casi alle comunità di sopravvivere e rigenerarsi nel corso della storia, spesso a seguito di eventi traumatici come calamità naturali, crisi economiche e sanitarie. Ma la storia ci riporta anche molti esempi di comunità in cui la valorizzazione delle identità locali ha originato fenomeni di chiusura particolaristica. Comunità esclusiviste che si sono e in molti casi continuano a identificare l’altro con il male (Bonomi, 2018; Langer, 1994).

      La comunità locali sono, quindi, lontane dall’essere sempre e comunque virtuose.

      Cosa fa pertanto la differenza tra una comunità e l’altra? Per diventare accoglienti e inclusive, le comunità devono potersi esprimere attraverso quelle organizzazioni della società civile che sono proiettate verso il bene comune e si avvalgono del coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse, in rappresentanza dei diversi pezzi di società che abitano un territorio. Sono quindi le organizzazioni di terzo settore maggiormente radicate sul territorio che andrebbero sostenute dalle politiche pubbliche all’interno di una cornice collaborativa in cui, anziché gestire prestazioni per conto dell’ente pubblico (Borzaga, 2019), il terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che fanno leva sulla prossimità ai territori e alle persone, incluse quelle vulnerabili e disinformate, normalmente ai margini delle dinamiche di cambiamento (Manzini, 2018).

      Se è vero, come da più parti sottolineato, che la politica è in gran parte responsabile dello scarso riconoscimento della società civile organizzata, l’insufficiente apprezzamento del suo valore aggiunto è ascrivibile anche ad alcune prassi, culture e comportamenti organizzativi messi in atto dalle stesse organizzazioni di terzo settore. Tra questi, una retorica – quella degli eroi – incoerente con la loro natura, che ha generato atteggiamenti autoreferenziali e ha alimentato uno scollamento di molte organizzazioni di terzo settore dalle loro comunità di appartenenza. Una delle sfide che il terzo settore dovrebbe far propria è, quindi, a nostro avviso l’archiviazione, una volta per tutte, della retorica dell’eroe e dell’eroina e la sua sostituzione con una narrazione autentica e costruttiva che sia in grado di alimentare un’attiva partecipazione della cittadinanza alla gestione del bene comune.

      DOI: 10.7425/IS.2021.02.10

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      Zahra S.A., Gedajlovic E., Neubaum D.O., Shulman J.M. (2009), “A typology of social entrepreneurs: Motives, search processes and ethical challenges”, Journal of Business Venturing, 24, pp. 519-532.
      Note

      La nozione di bene comune fa riferimento all’insieme delle risorse necessarie allo sviluppo della persona ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Presuppone condizioni di eguaglianza nell’accesso o utilizzo degli stessi. Sul concetto di beni comuni si rimanda ai lavori di E. Olstrom [tra cui: Olstrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge UK]. Nel sistema italiano una definizione di riferimento è quella formulata dalla Commissione Rodotà nel 2008: “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
      https://nti.apet118.it/home
      “Quanto vale il volontariato in Italia? Istat, CSVnet e FVP lanciano la prima sperimentazione del Manuale ILO sul lavoro volontario”: https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati
      Di qui l’elogio di chi ce la fa e “merita” (Piketty, 2020). Per un’analisi critica del “merito” si rimanda a Sandel (2020).
      Con riferimento alle critiche si veda John McClusky (2018).
      Modelli di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuibilità degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
      Approccio che vede l’intervento sociale in analogia all’innovazione tecnologica, dove una mente geniale, chiusa nel suo garage, inventa qualcosa che rivoluziona la vita di tutti.
      La campagna #nonsonoangeli prese avvio all’indomani dell’ultima alluvione di Genova dall’esigenza di ridefinire il ruolo del volontariato e della percezione di questi per i media, promuovendo da un lato una comunicazione meno stereotipata dell’impegno dei cittadini, in caso di emergenza e non, per il bene comune, e dall’altro una conoscenza del volontariato e della solidarietà così come queste si manifestano. https://nonsonoangeli.wordpress.com/2016/06/08/roma-8-giugno-2016-on-sono-angeli-il-volontariato-tra-stere
      Si veda a questo proposito: https://socialimpactaward.net/breaking-the-myth-of-hero-entrepreneurship - http://tacklingheropreneurship.com
      Si veda anche: https://mediciperidirittiumani.org/studio-salute-mentale-rifugiati - https://archivio.medicisenzafrontiere
      https://www.cesvot.it/comunicazione/dossier/hanno-detto-di-nonsonoangeli

      https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/dalla-ricerca-di-eroi-alla-costruzione-di-progetti-comunitari

      #héros #narration #imaginaire_collectif #récit #moralité_culturelle #éthique #justice_sociale #contre-récit #communautés_locales #pathos #individualisation #Lucano #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #excellence #storytelling #innovation #néo-libéralisation #libéralisme #management #leadership #figure_charismatique #charisme #Riace #idéalisation #polarisation #simplification #catégorisation #fragilisation #solitude #Capra_Felice #responsabilité_collective #société_civile

  • La tête de mort du Punisher, un personnage de l’univers Marvel, arborée par deux policiers municipaux de Pierrefitte (Seine-Saint-Denis) provoque un tollé dans l’opposition, qui réclame des sanctions. La ville (PS), évoquant un simple « grigri », s’y refuse.


    https://twitter.com/LeParisien_93/status/1325833590840700929
    #acab

  • Françoise Vergès : « Qu’on m’explique pourquoi l’État a fait de Gallieni un héro national ! » | Patrick Piro
    https://www.politis.fr/articles/2020/06/francoise-verges-quon-mexplique-pourquoi-letat-a-fait-de-gallieni-un-hero-na

    Politiste, militante féministe, Françoise Vergès est très engagée dans les débats sur la « décolonialisation ». Elle se trouvait jeudi 18 juin place Vauban à Paris pour soutenir une action symbolique : le dépôt d’un drap noir sur la statue du général Gallieni. Promoteur de concepts raciaux, il s’est distingué à Madagascar à la fin du 19e siècle par une politique radicale de colonisation ayant conduit à des massacres et l’usage du travail forcé. Source : Politis

    • Au déboulonnage des statues s’oppose la proposition d’apposer des plaques rétablissant la vérité historique sur la carrière de ces personnages. Quelle est votre position ?

      Françoise Vergès : Mais, pour Gallieni, il faudrait en raconter énormément ! Et puis l’on se rendra compte que la plaque informative est une solution d’évitement. Car, enfin, il ne s’agit pas de relater les horreurs qu’il a commises à Madagascar, mais surtout de nous expliquer pourquoi la France a fait un héros national d’un massacreur, qui a imposé le travail forcé, privé les gens de citoyenneté, etc. Je suis pour une pédagogie active, et pas seulement « littéraire ». La place de cette statue est plutôt dans un musée, où seraient expliqués son parcours et l’idée qu’il avait des races. On entendrait des témoignages de Malgaches et de Vietnamiens dont les mouvements de résistance à la colonisation ont été écrasés. Et l’on expliquerait pourquoi, avec un tel parcours, la France a fait de Gallieni un héros national. C’est une explication que je n’ai jamais entendue. Emmanuel Macron nous dit qu’il ne faut pas effacer l’Histoire. Mais dites-nous pour quelle raison célébrer Gallieni ! Et pas plutôt Aimé Césaire, par exemple, ou Maurice Audin, Henri Alleg, Louise Michel…

  • Entretien avec Françoise Vergès | Radio Informal
    http://www.rybn.org/radioinformal/antivirus

    À propos d’inégalités invisibilisées, de normalité du confinement, de vulnérabilités et de racisme, de solidarité et d’auto-organisation comme contre-pouvoir, d’intersectionalité des luttes, de la métaphore du bateau négrier. Durée : 57 min. Source : Pi-node

    www.rybn.org/radioinformal/antivirus/audio/ANTIVIRUS18-FrancoiseVerges.mp3

  • #Coronavirus : « Il est dangereux de faire endosser aux #soignants le costume du #héros »
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2020/03/26/coronavirus-il-est-dangereux-de-faire-endosser-aux-soignants-le-costume-du-h

    Bernard Granger : Les applaudissements sont appréciés comme une juste reconnaissance des efforts fournis actuellement par le personnel hospitalier. Mais si ces élans ne débouchent pas sur la décision, mais sur la seule promesse, de redonner des moyens à l’#hôpital une fois l’épidémie passée, ce sentiment de réconfort pourrait se muer en colère. En effet, le travail exceptionnel fourni aujourd’hui par les personnels ne doit pas faire oublier celui accompli le reste de l’année, dans une #pénurie et un dénuement ignorés depuis trop longtemps.

    Marie-José Del Volgo : Il est dangereux de faire endosser aux soignants le costume du héros. Etre un héros, cela signifie se sacrifier, souffrir en silence. Le héros ne demande ni aide ni moyens. Le héros est un surhomme. Cette approche fait peser sur les épaules des soignants une immense responsabilité, tout en leur interdisant de reconnaître leur propre #vulnérabilité. Or, comme tout être humain aux prises avec des circonstances aussi difficiles, les soignants auront besoin de faire appel à une écoute extérieure pour sortir de cette catastrophe et du confinement auquel ils sont, ne l’oublions pas, aussi contraints. Pour eux, c’est au moins la double #peine.

  • #écoeurement

    « Vous applaudissez à Gre ? Moi j’y arrive pas. Pourtant certains de mes voisins le font et ils y mettent du cœur. Moi à 20h, je sors à ma fenêtre, je laisse en plan Anne-Sophie Lapix (Journal Télévisé de France 2) et je regarde mes voisins qui tapent, je les salue, je leurs souris mais j’arrive pas à applaudir. J’aurais l’impression de participer à la campagne d’#héroïsation dégueulasse du #personnel_hospitalier lancée par le gouvernement, ce même gouvernement qui chie dans la bouche des soignant.e.s mobilisé.e.s depuis au moins un an. Les gars c’est pas des #héros (comme le disait un camarade : « un héros ça ne demande pas d’aide ni de pogon ») : c’est des #travailleurs qui font leur taff dans des conditions indignes. Maintenant il y en a qui en meurent. »

    https://www.modop.org/se-relier/#24mars
    #coronavirus #applaudissements #20_heures #applaudissement #confinement

  • « Rester confiné chez soi, sur son canapé, n’a strictement rien à voir avec une période de #guerre »

    Les mots ont un sens. « La #pandémie à laquelle nous sommes confrontés exigent des mesures plutôt opposées à un temps de guerre » explique l’économiste et chroniqueur de Basta ! Maxime Combes dans cette tribune.

    Non, nous ne sommes pas en guerre. Nous sommes en pandémie

    « Nous sommes en guerre ». A six reprises, lors de son allocution, Emmanuel #Macron a utilisé la même expression, en essayant de prendre un #ton_martial. L’anaphore voulait marquer les esprits et provoquer un effet de #sidération. Avec deux objectifs sous-jacents. L’un sanitaire : s’assurer que les mesures de #confinement – mot non prononcé par le président de la République – soient désormais appliquées. L’autre politique : tenter d’instaurer une forme d’#union_nationale derrière le chef de l’Etat. Le tout également pour faire oublier les mesures contradictoires et les hésitations coupables de ces derniers jours.

    Pourtant les mots ont un sens. Et c’est non, mille fois non : nous ne sommes pas en guerre. Nous sommes en pandémie. C’est suffisant, et totalement différent. Aucun État, aucun groupe armé n’a déclaré la guerre à la France, ou à l’Union européenne. Pas plus que la France n’a déclaré la guerre (article 35 de la Constitution) à un autre État. Le #Covid-19 ne se propage pas en raison du feu de ses blindés, de la puissance de son aviation ou de l’habilité de ses généraux, mais en raison des mesures inappropriées, insuffisantes ou trop tardives prises par les pouvoirs publics.

    La pandémie à laquelle nous sommes confrontés exigent des #mesures plutôt opposées à un temps de guerre

    Non, le virus Covid-19 n’est pas un « #ennemi, invisible, insaisissable, et qui progresse » comme l’a affirmé Emmanuel Macron ce lundi 16 mars. C’est un #virus. Un virus qui se propage au sein d’une population non immunisée, porté par nombre d’entre nous et disséminé en fonction de l’intensité de nos relations sociales. Il est très contagieux, se propage vite et peut avoir des conséquences terribles si rien n’est fait. Mais c’est un virus. Pas une armée. On ne déclare pas la guerre à un virus : on apprend à le connaître, on tente de maîtriser sa vitesse de propagation, on établit sa sérologie, on essaie de trouver un ou des anti-viraux, voire un vaccin. Et, dans l’intervalle, on protège et on soigne celles et ceux qui vont être malades. En un mot, on apprend à vivre avec un virus.

    Oui, les mots ont un sens. Nous ne sommes pas en guerre car la pandémie à laquelle nous sommes confrontés exige des mesures plutôt opposées à celles prises en temps de guerre : ralentir l’activité économique plutôt que l’accélérer, mettre au #repos_forcé une part significative des travailleuses et travailleurs plutôt que les mobiliser pour alimenter un effort de guerre, réduire considérablement les #interactions_sociales plutôt qu’envoyer toutes les forces vives sur la ligne de front. Quitte à provoquer, disons-le ainsi : rester confiné chez soi, sur son canapé ou dans sa cuisine, n’a strictement rien à voir avec une période de guerre où il faut se protéger des bombes ou des snipers et tenter de survivre.

    Il n’est pas question de sacrifier le personnel médical, au contraire, il faut savoir les protéger

    Cette référence à la « guerre » convoque par ailleurs un #imaginaire_viril peuplé d’#héroïsme_masculin – bien que largement démenti par les faits – et du sacrifice qui n’a pas lieu d’être. Face au coronavirus – et à n’importe quelle pandémie – ce sont les #femmes qui sont en première ligne : 88 % des infirmières, 90 % des caissières, 82 % des enseignantes de primaire, 90 % du personnel dans les EHPAD sont des femmes. Sans même parler du personnel de crèche et de garderie mobilisés pour garder les enfants de toutes ces femmes mobilisées en première ligne. Le #personnel_médical le dit clairement : nous avons besoin de soutien, de #matériel_médical et d’être reconnus comme des #professionnels, pas comme des #héros. Il n’est pas question de les sacrifier. Au contraire, il faut savoir les protéger, en prendre soin pour que leurs compétences et leurs capacités puissent être mobilisés sur le long terme.

    Non, définitivement, nous ne sommes pas en guerre. Nous sommes face à une pandémie. Et c’est déjà bien assez. Nous ne sommes pas des soldats, mais des citoyennes et citoyens. Nous ne voulons pas être gouvernés comme en temps de guerre. Mais comme en temps de pandémie. Nous n’avons pas d’ennemi. Ni à l’extérieur, ni à l’intérieur des frontières. Confrontés pendant des semaines à l’incurie d’un gouvernement incapable de prononcer un discours clair et des #mesures cohérentes entre elles, nous sommes juste des citoyennes et citoyens progressivement en train de comprendre que la meilleure chose à faire est de rester confinés. A devoir apprendre à vivre au ralenti. Ensemble mais sans se rencontrer. A rebours de toutes les exigences de #compétitivité et de #concurrence qui nous ont été assénées depuis des dizaines d’années.

    Instituer la #solidarité et le soin comme principes cardinaux, pas les valeurs martiales et belliqueuses

    Lutter contre la pandémie du coronavirus n’est pas une guerre car il n’est pas question de sacrifier les plus vulnérables au nom de la raison d’État. Comme celles qui sont en première ligne, il nous faut au contraire les protéger, prendre soin d’eux et d’elles, y compris en se retirant physiquement pour ne pas les contaminer. SDF, migrant.e.s, les plus pauvres et plus précaires sont des nôtres : nous leur devons pleine et entière assistance pour les mettre à l’abri, autant que faire se peut : la #réquisition de logements vides n’est plus une option. Lutter contre le coronavirus c’est instituer la solidarité et le #soin comme les principes cardinaux de nos vies. La solidarité et le soin. Pas les valeurs martiales et belliqueuses.

    Ce principe de solidarité ne devrait d’ailleurs pas avoir de frontière, car le virus n’en a pas : il circule en France parce que nous circulons (trop) dans le pays. Aux mesures nationales, voire nationalistes, brandies ici et là, nous devrions collectivement étendre ce principe de solidarité à l’international et nous assurer que tous les pays, toutes les populations puissent faire face à cette pandémie. Oui, la mobilisation doit être générale : parce qu’une #crise_sanitaire mondiale l’exige, cette #mobilisation doit être généralisée à la planète entière. Pour que pandémie ne rime pas avec inégalités et carnages chez les pauvres. Ou simplement chez les voisins.

    Point besoin d’#économie_de_guerre, juste d’arrêter de naviguer à vue

    Alors, oui, sans doute faut-il prendre des mesures d’exception pour réorganiser notre système économique autour de quelques fonctions vitales, à commencer par se se nourrir et produire le matériel médical nécessaire. Deux mois après les premières contaminations, il est d’ailleurs incroyable qu’il y ait encore des pénuries de #masques pour protéger celles qui sont en première ligne : réorienter, par la réquisition si nécessaire, des moyens de production en ce sens aurait déjà dû être fait. Histoire de ne pas avoir à refuser d’exporter des masques comme l’UE le fait désormais, y compris avec la Serbie qui a pourtant entamé son processus d’adhésion : où est donc la solidarité européenne ?

    Point besoin d’économie de guerre pour cela. Juste besoin d’arrêter de naviguer à vue et d’enfin prendre les mesures cohérentes entre elles, fondées sur ce principe de solidarité, qui permettront que chaque population, riche ou pauvre, puisse faire face à la pandémie. La participation consciente et volontaire de l’ensemble de la population aux mesures de confinement nécessaires n’en sera que facilitée. Et la dynamique de l’épidémie d’autant plus facilement brisée. Le monde de demain se joue dans les mesures d’exception d’aujourd’hui.

    Maxime Combes, économiste et membre d’Attac.

    https://www.bastamag.net/pandemie-covid19-coronavirus-Macron-guerre-virus-confinement
    #épidémie #vocabulaire #terminologie #mots #coronavirus

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    • Non Monsieur le Président de la République, nous ne sommes pas en guerre

      La déclaration du Chef de l’Etat qui amène un confinement général de la population et n’autorise les déplacements que par dérogation marque un véritable tournant dans la lutte contre l’épidémie généralisée en France. La guerre est déclarée ? Non Monsieur le Président, la Résistance collective est à l’ordre du jour pour sortir de cette épreuve.

      La déclaration du Chef de l’Etat ce 16 mars qui amène un confinement général de la population et n’autorise les déplacements que par dérogation marque un véritable tournant dans la lutte contre l’épidémie généralisée en France. Jusque-là des recommandations, des consignes, des prescriptions amenaient chacun à prendre sa part à la sûreté de contacts raréfiés. Point de contrôle, point de sanctions mais appel à prendre conscience des mesures d’hygiène à respecter puis du confinement.

      La crise sanitaire s’aggrave comme attendue. Les contaminations réalisées avant l’effectivité des mesures successives ne produisent leurs effets en terme de symptômes, qu’après le délai d’incubation de 5 à 14 jours comme nous pouvons le lire ici et là. Il y a donc mécaniquement une aggravation inévitable avant les possibles effets de ralentissement si ces mesures sont efficaces et suffisantes. Insuffisantes, à l’évidence les mesures prises jusqu’ici l’étaient, raison essentielle d’un strict confinement depuis ce 17 mars à midi.

      Crainte des autorités et politique de santé

      La crainte des autorités que partagent tous les observateurs attentifs - et ils sont nombreux - est la saturation des possibilités d’hospitalisation en réanimation pour les symptômes les plus graves qui menacent la vie même du patient avec une vulnérabilité particulière des personnes âgées ou des personnes souffrant de co-morbidités (affections chroniques ou déficiences organiques etc) sans exclure pour autant ces développements graves de la maladie respiratoire chez des sujets plus jeunes ou à l’occasion d’une « deuxième vague ».

      Cette crainte est d’autant plus vive que nos responsables gouvernementaux, le Chef de l’Etat lui-même, savent bien que les politiques de santé menées depuis des décennies, poursuivies et aggravées depuis la dernière présidentielle à coups d’économies budgétaires inconséquentes ont largement diminuées la capacité à faire face aux circonstances exceptionnelles que nous connaissons aujourd’hui. Les gouvernements successifs, et plus encore celui-ci, quand les économies en grattant toujours plus ont atteint l’os, sont restés sourds aux demandes, revendications, exhortations des professionnels de santé, de leurs organisations syndicales y compris même au début de cette épidémie. Quelle imprévoyance ! La préparation aux moyens de la protection elle-même est manifestement déficiente : les volumes des gels hydroalcooliques, masques, équipements divers sont largement insuffisants ou limites même pour les professionnels de santé, hôpitaux et médecine de ville, sont même menacés de pénurie dans des délais relativement brefs (déclaration Olivier Véran, ministre de la santé).

      Il faut l’abnégation de ceux et celles à qui on a refusé les moyens de soigner, pour faire face, héroïquement chaque jour, à cette montée des périls. La fermeture d’hôpitaux, de services et de lits, la fermeture de postes de soignants pèsent aujourd’hui dans cette lutte de résistance, jour après jour, pied à pied. Les encenser aujourd’hui ne disculpe pas de sa responsabilité, de ses choix politiques.

      Il faudra en rendre compte au peuple français après l’épreuve en changeant radicalement de politique de santé en associant les organisations syndicales et les forces vives du pays : la santé est un bien collectif pas seulement l’affaire du ministère et du gouvernement ! Il faut espérer que cet épisode douloureux amènera un changement complet de politique de santé pour faire face à d’autres épidémies qui ne manqueront pas d’arriver. Elles ne manquerons pas d’arriver dans un monde dominé par la recherche du profit à tout prix pesant en premier lieu sur la santé des populations qui ne pèse pas lourd face aux profits des firmes pharmaceutiques, phyto-sanitaires, tabagiques, agro-alimentaires et de toutes celles qui commercialisent ou utilisent des produits toxiques en semant le doute sur cette toxicité quand bien même ils ont les preuves – qu’ils cachent – d’effets graves sur la santé. Le profit d’abord et quand ce sont des milliards à la clef, on peut tout se permettre et tout maquiller.

      Malheureusement, pour le moment et dans les semaines qui viennent, nous voyons et verrons les résultats de cet abaissement des digues : l’affaiblissement des effectifs soignants et les nombreuses fermetures notamment des hôpitaux de proximité ont abaissé dramatiquement le seuil de saturation des services de réanimation qui prennent en charge les malades du CoVid-19. Nous, c’est-à-dire les citoyen.ne.s de ce pays, en feront les frais. Les petits hôpitaux aujourd’hui avec leurs soignants seraient une réserve de lits pour endiguer ce flot croissant comme autrefois les terrains ouverts sur le Rhône absorbaient les inondations périodiques.

      Nous ne sommes pas en guerre mais en Résistance

      Aujourd’hui si les soignants sont en première ligne y compris avec un risque pour leur propre santé, tous les professionnels de la logistique alimentaire, pharmaceutique, administrative sont à leur côté et assurent le service du public, au service de la Nation.

      La guerre est déclarée ? Non Monsieur le Président, nous ne sommes pas en guerre. Vous devez organiser la Résistance avec nous. Avec la guerre, le chef s’adjuge tous les pouvoirs pour vaincre, ne cherche aucunement à convaincre mais à imposer, à contraindre pour mener la bataille comme il l’entend et dans ce cas, les contestataires et les critiques sont traître et traîtrise à faire taire, vite et bien.

      La stigmatisation de groupes au contact vus à la télé sur les bords de Seine, dans des parcs amène un discours sur l’irresponsabilité de certain.e.s qui n’ont pas pris la mesure du danger pour eux et pour les autres, prétexte à introduire le contrôle et la sanction. C’est un peu facile ! Facile d’oublier son propre manque de responsabilité dans la politique de riches menée depuis son accession à la Présidence notamment la politique de santé qui a abaissé le niveau de protection, de l’assurance-chômage qui abaisse les droits et indemnisations des chômeurs, des chercheurs précarisés qui doivent plus chercher des financements que faire de la recherche. Etait-il bien responsable de matraquer et blesser ces Gilets Jaunes durant plus d’un an sans les entendre, de les poursuivre aujourd’hui pénalement pour se venger d’avoir eu peur et de s’être laissé déborder sur les Champs-Elysées ? Sans parler de bien des affaires qui ont amené certain.e.s à démissionner.

      Reconnaissons-le, la responsabilité n’est chose aisée pour personne surtout dans une société où l’enjeu est de passer la patate chaude de la responsabilité à un.e autre. La première intervention du chef de l’état du 12 mars a certainement manqué de punch pour responsabiliser. Les réactions dimanche sous le soleil sont aussi à inscrire, sans les excuser, à un déni d’ordre psychique d’entrée dans cette période de restriction, en gros, encore un dernier bol d’air avant le confinement. Après, il est possible de rappeler en direct le danger et le devoir. Pourquoi, in fine, et à peu près systématiquement - en acte contrairement aux paroles – devrait-on prendre la population pour non-responsable collectivement ? Individuellement, nous le sommes tour à tour pour, pour sujet plus ou moins important mais collectivement nous pouvons être sérieusement responsables (un peu comme la patience dans mille impatiences) surtout face à ce danger réel, palpable, identifié.

      Le confinement par la force ou la responsabilité ?

      Mais l’ennemi est là, l’invasion a eu lieu : le virus est partout. Oui, le cap doit être clair pour résoudre cette crise d’exception mais faire appel à 100.000 policiers et gendarmes c’est s’engager dans une voie où la coercition, la sanction dispensent de convaincre tout en faisant « comme si », double discours qui rappelle celui pour le premier tour des municipales. Dans ces conditions, la menace de sanction devient, de fait, la seule voie audible, choisie pour parvenir à maintenir le confinement, moyen pour stopper cette épidémie. Ce moyen n’est pas en cause. La contamination a lieu par contact : nécessité du confinement et des mesures-barrières.

      La question est la voie choisie pour parvenir à un confinement : le contrôle par les forces de Police et de Gendarmerie et la sanction financière (on imagine mal engorger les prisons déjà pleine – problème en soi - et propager le virus !). Cette voie prend le risque d’une escalade dans le contrôle de la population par des forces de l’ordre (largement utilisées depuis deux ans, sorte de réflexe) voire de déboucher sur des scènes de chaos plus ou moins localisées ou momentanées.

      Nous comprenons bien que légiférer par ordonnance n’est pas anodin et amorce une éventuelle escalade avec état de siège, intervention de l’Armée au maintien de l’ordre, pourquoi pas in fine l’article 16. Piège de l’escalade qui prend toujours le comportement marginal pour prétexte, piège aux conséquences lourdes et en quelque sorte mécaniques pour la démocratie.

      Sans protection ou avec des protections insuffisantes, les forces de l’ordre pourraient être affectées par l’épidémie. Elles pourraient l’être et affecter un volume plus ou moins important de policiers et gendarmes que leurs armes ne protègent pas comme dans une guerre, rendant impossible de remplir leur mission.

      La Résistance, au contraire, engage le peuple à entrer en Résistance conscient des enjeux pour la santé de tous. Vous n’avez pas vu que partout, à côté de contacts de moins en moins fréquents - aujourd’hui plus un seul – spontanément, les gens dans la rue, devant les magasins, tiennent leurs distances, ne s’affolent pas et s’ils parlent, c’est à distance et pas en face à face. La Résistance c’est avant tout engager chacun à devenir responsable pour devenir collectivement responsable. Et devenir collectivement responsable, c’est non seulement éviter les contacts qui transmettent le virus, mais encore organiser des réseaux de solidarités de proximité pour l’alimentation, la pharmacie etc... en respectant les consignes d’hygiène et de contacts. Tout le monde ne peut pas se déplacer. C’est bien au-delà de la peur du gendarme.

      A défaut, en durcissant encore le confinement, il faudrait organiser un réseau national de distribution à domicile ! Les forces de l’ordre pourraient-elles s’y employer ? Là encore, ce serait faire sans la population quand il s’agit de résister avec la population.

      Organiser la Résistance et mobiliser par des actes

      Il n’y a pas possibilité de résistance si la population n’est pas incitée à s’associer à cette résistance, chacun à sa mesure. La Résistance c’est le peuple et ses dirigeants, quand ceux-ci savent impulser et non seulement commander, contrôler, sanctionner. Les forces de l’ordre plutôt que sanctionner ce qui peut amener à la clandestinité des déplacements devenus illicites, pourraient se transformer en agent de persuasion en rappelant les consignes, en écoutant les nécessités explicitées sans chercher à sanctionner bref... discernement. La campagne c’est pas la ville et chacun ne va pas faire du jogging autour de sa maison ou de son pâté d’immeubles. En Auvergne, balader sur un des Puys en solitaire ou en couple de retraités est sans risque plutôt que rester aux abords de la maison et rencontrer des connaissances ! Les services de santé seront d’autant moins débordés (ou moins vite !) que chacun se sentira, se sent responsable des soignants, en actes et pas seulement en paroles.

      Sans association et conscience de la population, il n’y a en effet que la guerre et son cortège d’oeufs cassés toujours justifiés en toute bonne foi.

      Pour associer le peuple, la suspension des réformes en cours est enfin une mesure de sagesse et d’apaisement. De toutes façons, le calendrier de la réforme des retraites ne peut plus être tenu. Avant l’été c’est râpé ! Le report de la mise en place de la réforme de l’assurance-chômage est aussi la démonstration en creux de revenus dramatiquement insupportables pour quantités de chômeurs, à repousser hors cette période exceptionnelle. Seraient-ils véritablement plus supportables après un retour à la normale ? Revoir la copie.

      Il faut aller plus loin. Pour une adhésion et une responsabilité de la population, Il faut permettre un minimum de confiance quand celle-ci a été dilapidée par une attitude intransigeante toujours dans le sens des riches en pompant l’argent des autres. Il faut annoncer quelles réformes deviennent prioritaires, quel cap social et sociétal elles prendront, avec qui et comment elles seront travaillées (pas seulement une concertation sur un texte à trous béants comme celui des retraites).

      L’indemnisation du chômage partiel prise actuellement pour garder les moyens de subsistance n’illustre-t-elle pas la nécessité de la mise en place d’un revenu universel ? Ce pourrait être un dispositif qui l’initie à élargir et pérenniser.

      Une mesure forte immédiate qui ne coûte pas un euro mais vaudra crédit : arrêter toutes les poursuites pour fait social, grèves et manifestations. La paix sociale ne s’achète pas, elle s’obtient avec des actes.

      La guerre alors n’aura pas lieu

      Vaincre l’épidémie c’est engager la population dans la Résistance et non la délégation aux chefs de mener une guerre qui n’existe pas, même si l’économie s’en rapproche, si l’organisation du fonctionnement en société s’en rapproche. C’est apporter un tournant social à ce quinquennat de riches, non pas le passer au Ripolin vaguement rose mais s’engager à des réformes nécessaires et identifiées dès maintenant avec les moyens d’une co-construction postérieure chacun à sa place. Alors les forces vives de la nation seront mobilisées pour vaincre par la responsabilité et la solidarité. La guerre alors n’aura pas lieu !

      https://blogs.mediapart.fr/georges-andre/blog/170320/non-monsieur-le-president-de-la-republique-nous-ne-sommes-pas-en-gue

    • #Rony_Brauman répond à Macron : « La #métaphore de la guerre sert à disqualifier tout débat »

      Rony Brauman, ancien président de Médecins sans frontières, approuve les mesures de confinement, mais dénonce la #rhétorique_martiale du chef de l’Etat : « Qualifier les soignants de "#héros", c’est gommer les raisons de la crise sanitaire. »

      Médecin, diplômé de médecine tropicale et épidémiologie, Rony Brauman a été président de Médecins sans frontières (MSF) de 1982 à 1994. Il est aujourd’hui directeur d’études à la fondation de l’ONG. Son dernier livre, « Guerres humanitaire ? Mensonges et intox », conversation avec Régis Meyran, est paru aux éditions Textuel en 2018.
      Interview.

      Comment analysez-vous l’épidémie du #Covid-19 et sa gestion par les autorités françaises ?
      Cette épidémie n’avait pas été prévue, mais elle avait été prédite. De nombreux épidémiologistes avaient anticipé l’apparition d’un nouveau virus se répandant à la faveur de l’accroissement démographique, de l’accélération des voyages internationaux, de l’urbanisation, du changement climatique. Cette crainte, déjà ancienne, s’était renforcée avec les épidémies de sida, le Sras, le Mers, le Zika, le chikungunya, Ebola. Nous savions que le rêve d’un monde débarrassé d’un risque infectieux était une #illusion et les gouvernements successifs ne pouvaient méconnaître ces analyses. Cela ne les a pas empêchés, depuis des années, de réduire les capacités des hôpitaux, avec les effets que l’on voit aujourd’hui. Plus de 4 000 lits ont été supprimés ces trois dernières années, mais c’est depuis trente ans que gagne une #logique_comptable, entrepreneuriale (notamment la loi Hôpital, Patient, Santé, Territoire de 2009, qui concrétise la notion d’« #hopital-entreprise », introduite par #Claude_Evin dès 1989). Pourtant, aujourd’hui, Emmanuel Macron ne tarit pas d’éloge sur le personnel hospitalier... Ses propos qualifiant les soignants de « héros » me semblent particulièrement mal venus. Cette qualification a quelque chose de pervers, parce qu’elle gomme les raisons de la #crise_sanitaire. Outre qu’elle oubliait les autres professions qui continuent à travailler pour que notre vie soit encore vivable (éboueurs, policiers, livreurs, caissières, producteurs, distributeurs de produits essentiels), elle met les soignants dans une position délicate. Un héros, ça ne demande pas des journées de récupération pour s’occuper de ses enfants, de prime de risque, un salaire décent. On sait bien qu’une partie du vidage des hôpitaux vient de ce qu’on paye les gens de façon indécente. Brandir la figure du héros, c’est sous-entendre par contraste la médiocrité de revendiquer des #conditions_de_travail correctes.

      Pourtant, quand les gens applaudissent à leurs fenêtres à #20_heures, n’est-ce pas aussi une façon de saluer dans les soignants des figures héroïques ?
      Si, bien sûr, et je m’y associe. Ces applaudissements constituent un rite de reconnaissance collective vis-à-vis d’une catégorie qui s’expose de façon constante, quotidienne. Mais ils ne doivent pas être séparés d’une interrogation politique sur les #restrictions_budgétaires imposées depuis des années à ceux qui sont considérés aujourd’hui comme les sauveurs de la nation.
      J’ajoute que, dans les propos d’Emmanuel Macron, cette #héroïsation n’est que le complètement logique du discours de la guerre, la métaphore du combat engagé contre l’#ennemi_invisible. Cette notion ne me semble pas la bonne. Nous sommes face à une #catastrophe. Au moment où nous parlons, des structures de soins sont débordées et l’on voit réapparaître les méthodes de la #médecine_de_catastrophe, mises au point, il est vrai, par la #médecine_militaire mais élargies aux situations de crises majeures, notamment de catastrophes naturelles : les techniques de #triage séparant les gens qu’on va pouvoir aider à sortir et ceux pour lequel le pronostic est trop mauvais, relèvent typiquement de la médecine de catastrophe. De façon plus générale, cette métaphore est trompeuse, en ce qu’elle laisse entendre que la #santé passe par la défaite de la maladie. Mais la maladie fait partie de la vie et l’on devrait parler de #droit_à_la_maladie, plutôt que de #droit_à_la santé. Je pense au philosophe #Georges_Canguilhem observant que pour la plupart des gens, la santé, ce n’est pas l’#absence_de_maladie mais la possibilité de tomber malade et de s’en relever.

      Mais n’est-il pas vrai que nous combattons un ennemi : le #virus ?
      Un point, encore : depuis #Pasteur, le germe infectieux place les sociétés dans une situation complexe. Dès lors que nous sommes tous potentiellement vecteurs de #contagion, chaque individu devient une #menace pour la collectivité, chaque voisin est un risque potentiel. Et inversement, l’individu se sent menacé par le groupe, qui peut cacher des malades, et il va donc chercher à s’en isoler. Le #confinement nous demande d’être à la fois solidaires et individualistes. C’est le #paradoxe de l’#épidémie, que dissimule la métaphore de la guerre. Dire qu’on mène une guerre contre un virus, c’est prendre le risque d’alimenter la #guerre_de_tous_contre_tous, chacun étant potentiellement le vecteur de l’ennemi invisible.
      Quand j’entends le président conclure son discours de Mulhouse, le 25 mars, par un martial « Nous ne céderons rien ! », je suis abasourdi. Céder quoi, à qui ? Craignez-vous la restriction des libertés liée au confinement ? J’approuve le confinement et des mesures actuellement en vigueur, à défaut d’autres moyens de protection pour l’instant. Ces mesures sont le résultat, forcément instable, de la recherche d’un équilibre entre trois exigences : la #sécurité_sanitaire, la #liberté des individus et la continuité de la machine économique. La liberté peut être restreinte, mais il est impossible de confiner tout le monde, car une partie l’#activité_économique doit se poursuivre, sous peine d’une morte lente générale. Je rappelle qu’une épidémie peut faire plus de #victimes_indirectes que directes, comme cela a été probablement le cas d’#Ebola : je pense aux malades qui n’ont pas pu se soigner, qui ont été conduits à une issue fatale à cause de la paralysie des régions frappées par la maladie.
      Pour ma part, je comprends le retard de confinement mis en oeuvre en France : l’exigence de #santé_publique était en balance avec l’exigence de liberté et l’exigence de #continuité_économique. Prenons garde à ne pas porter sur les mesures du gouvernement Philippe un regard anachroniquement sévère ! Reste que je m’inquiète de l’empilement des #mesures_autoritaires. N’oublions pas que des dispositions de l’#état_d'urgence antiterroriste ont été intégrées à la #loi_ordinaire et appliquées contre des militants écolos et syndicalistes. On doit craindre une reproduction de ce précédent.

      Portez-vous le même regard compréhensif sur la stratégie de la France en matière de #masques et de #tests ?
      Non ! Ce sont clairement deux loupés de la politique et de la communication gouvernementales. Autant j’apprécie les points quotidiens de #Jérôme_Salomon, le directeur général de la Santé, et son ministre #Olivier_Véran, qui sont très pédagogiques, didactiques, non arrogants, autant la question des masques et des tests a été traitée de façon extrêmement grossière, là encore infantilisante comme l’est la métaphore de la guerre. Ils auraient pu reconnaître qu’il y avait un retard à rattraper - retard imputable aux gouvernements successifs et non au seul gouvernement Philippe - et qu’il fallait plus de masques et plus de tests. Ils pouvaient expliquer que le #rationnement ne durerait pas, qu’ils y travaillaient, bref traiter leurs concitoyens en adultes. Au lieu de cela, ils ont choisi de tenir un discours de #déni. « Pourquoi ne pas faire plus de tests ? - Parce que c’est inutile ! » « Pourquoi ne pas distribuer pas plus de masques ? - Parce que c’est inutile ! » Et ce n’est pas vrai... Oui, c’est mensonger et ce point-là n’a rien à voir avec les choix difficiles, évolutifs, du confinement et de ses limites. Les masques sont indispensables pour les personnels soignants et pour les professions exposées au public. Quant au test, on nous explique qu’il n’est utile que pour les cas graves. Ce n’est pas vrai ! Dans les cas graves, il ne fait que confirmer le #diagnostic_clinique, alors que dans les cas moins graves ou bénins, il permet de connaître le #statut_sérologique des individus. On peut alors choisir pour chacun la solution adaptée : confinement à la maison, isolement dans des structures médicalisées (pour ne pas engorger l’hôpital) et hôpital (si nécessaire). Je suis consterné que les porte-parole du gouvernement se soient cramponnés à cette #pseudoscience. Un tel manquement est très contre-productif car il vient affaiblir la #confiance que l’opinion peut avoir dans d’autres mesures gouvernementales, qui, elles, sont tout à fait argumentables, tel que le confinement.

      Derrière ce loupé, y a-t-il des dissensions internes au champ médical ? Certains scientifiques ont-ils sous-estimé l’épidémie ?
      La #médecine n’est pas une science, c’est une #pratique_scientifiquement_informée. On le voit à l’échelle d’un organisme individuel : le corps n’est pas une matière inerte qui répondrait toujours de la même façon aux mêmes actions. Pour les questions de #santé_publique, c’est encore plus net, car la médecine est alors confrontée à toutes sortes d’événements inattendus et d’une variabilité extrême. La science aide à prendre les décisions, mais elle ne sait pas tout et, dans l’incertitude, ce sont les politiques qui doivent trancher.

      Sur cette épidémie, il n’y a pas de #consensus_médical ?
      Non, pour les raisons que je viens de dire. De plus, la familiarité des médecins avec les réalités épidémiologiques est très limitée. Le métier des médecins est de soigner les pathologies, mais pas forcément de connaître leur diffusion. Cela relève d’un autre type de savoir : l’épidémiologie. Il y a les épidémiologistes médecins, bien sûr, mais aussi des épidémiologistes non-médecins, notamment les statisticiens, les modélisateurs, qui n’ont pas la même approche que les médecins. Il peut y avoir des désaccords et c’est alors au politique de trancher, et de s’en expliquer. Néanmoins, sur la question de l’intérêt des masques et des tests pour gérer l’épidémie au mieux, il y a un consensus quasi-total.

      Mais alors, pourquoi les principaux responsables de la santé en France ont-ils dit le contraire ? Après tout, Jérôme Salomon et Olivier Véran, ainsi que sa prédécesseure #Agnès_Buzyn, sont tous des médecins...
      C’est un mystère. Mon hypothèse, toute personnelle, est qu’il s’agit d’un effet de la propension des responsables politiques à la rigidité comme preuve de leur détermination. En toutes circonstances, ils veulent afficher leur assurance et voient dans toute remise en question un affaiblissement de leur #autorité. Le fantasme de #toute-puissance est à l’oeuvre ! C’est ce que nous disait encore Macron, qualifiant de « polémiques », forcément stériles, et de tentatives de « fracture » de la société, forcément dangereuses, les critiques qui lui sont adressées. Il faut « #faire_bloc », c’est-à-dire marcher au pas, fleur au fusil. Où l’on voit que la métaphore de la guerre sert à disqualifier toute mise en #débat.

      Vous-même, avez-vous changé d’avis sur l’épidémie ?
      J’ai hésité en janvier, mais j’ai été assez rapidement convaincu que le #risque_pandémique était bien réel, tout en considérant la réaction des pouvoirs publics en France était correcte, et que par exemple on n’avait pas de raison de coller immédiatement à ce que faisait l’Italie. Il y a eu des discussions, y compris au sein de Médecins sans frontière, où certains étaient très sceptiques. Dès le début février, il a été clair que la cinétique de l’épidémie était inquiétante, en découvrant que des patients asymptomatiques pouvaient être transmetteurs du virus. Dans une épidémie, ce n’est pas le chiffre de mortalité à un instant T qui importe. On peut toujours comparer ces chiffres à bien d’autres, comme l’ont fait trop longtemps les « corona-sceptiques ». C’est le #temps_de_doublement des cas qu’il faut regarder attentivement : 2,5 jours pour le Covid-19. Là, on comprend assez rapidement que la progression est effrayante, surtout si on le rapporte aux mesures de confinement, qui mettent quinze jours à commencer à produire de l’effet : en quinze jours, on a six fois le doublement des cas, ce qui signifie qu’un porteur contamine 64 personnes en quinze jours, 244 en un mois.

      Que pensez-vous de la polémique sur la #chloroquine ? N’est-ce pas affligeant, dans une telle période ?
      La forme a été parfois affligeante, mais pas la controverse elle-même. Ce qui donne le caractère polémique à cette discussion, c’est le sentiment de vivre une #tragédie_collective dans laquelle tout #désaccord prend une dimension énorme. Mais, en temps normal, c’est le lot commun du travail médical. Pour des #pathologies_émergentes et même pour des pathologies déjà connues, il faut des années d’essais cliniques et de traitement pour obtenir un #consensus. Regardez les médicaments contre le cholestérol, qui font l’objet d’une controverse très vive depuis plusieurs années. Ce n’est pas parce qu’on est en période d’état d’urgence sanitaire qu’il faudrait fermer la porte aux discussions contradictoires, aux critiques. Surtout pas. Nous avons besoin de cette pluralité d’avis. Cela étant dit, la façon dont #Didier_Raoult a présenté la chloroquine comme un médicament miracle appartient plus à un prophète qu’à un spécialiste de santé.

      Il n’y aura pas de médicament miracle pour le Covid-19 ?
      Non, pas plus qu’il n’y en a eu pour les autres infections. Cela me rappelle l’annonce faite en 1985 par le professeur #Andrieux, accompagné de la ministre de la Santé d’alors, #Georgina_Dufoix, donnant la #cyclosporine comme le médicament qui allait tout changer à partir d’un essai sur quelques cas. Pour ce qui est de la chloroquine, ses effets antiviraux et antibactériens sont bien connus, mais l’essai de Marseille n’a rien de concluant, contrairement à ce qu’en disent certains, y compris des politiques qui se croient autorisés à avoir un avis sur cette question totalement technique. C’est une ressource possible, il faut la tester. Le bon côté de cette controverse, c’est que la chloroquine va être jointe aux nombreux essais cliniques en cours. Mais il ne faut pas créer de #faux_espoirs. Didier Raoult a un passé de chercheur sérieux, mais son personnage de génie autoproclamé n’incite pas à la confiance. Quant à la validité de son essai, elle a été très précisément analysée.

      Parmi les multiples réflexions suscitées par l’épidémie, il y a cette idée que la nature malmenée par la #mondialisation serait en train de se venger avec ces différents virus venus du monde animal. Qu’en pensez-vous ?
      Le point commun du Covid, du Sras, du Mers et d’Ebola est que ces maladies sont le fruit d’un passage de la #barrière_virale_d'espèces entre les #animaux et les hommes. L’extension des certaines mégapoles entraîne une interpénétration entre #ville et #forêts : c’est le cas d’Ebola, qui trouve son origine dans la présence des #chauves-souris en ville et qui mangeaient par des humains. Mais ce paramètre, s’il faut avoir à l’esprit, est à manier avec une certaine retenue. Car il s’agit d’une constance dans l’histoire des épidémies : la plupart, à commencer par la #peste, sont liées à ce franchissement. L’homme vit dans la compagnie des animaux depuis le néolithique, notre existence est rendue possible par cette coexistence. Mais la peste avait été importée par la puce du rat qui était disséminé sur les bateaux et les caravanes ; pour le corona, ce sont les #avions qui ont fait ce travail. La spécificité du Covid-19, c’est sa vitesse de #diffusion. Le professeur Sansonnetti, infectiologue et professeur au Collège de France, parle d’une « maladie de l’#anthropocène » : en superposant la carte de l’extension du virus et celle des déplacements aériens, il montre que les deux se recouvrent parfaitement.

      L’enjeu est donc moins la façon dont la #mondialisation malmène la nature, mais dont elle ouvre des avenues à des germes. Faut-il refermer ces avenues ?
      Le propre du vivant, c’est de chercher à répandre ses gènes et le virus obéit à une logique de vie, qui s’inscrit dans une dialectique entre #contagiosité et #mortalité. Il lui faut trouver des #vecteurs - des organismes vivants - qui lui permettent de se répandre. Mais s’il tue trop vite ces vecteurs ou s’il ne trouve pas de nouveaux organismes à contaminer, il arrive à une impasse et meurt. Ce que vise le confinement, c’est à mettre le virus dans une impasse : chacun doit être le cimetière du virus. C’est ici que l’on voit la limite de la méthode : cet isolement total serait notre cimetière à tous, pas seulement celui du virus.
      A quoi cela sert de "gagner du temps" face au coronavirus ?
      #Mutation. Le mot, lorsqu’il est associé au coronavirus, fait peur. Surtout depuis que des chercheurs chinois ont affirmé que le virus avait déjà muté en une variante plus agressive.

      Alors, faut-il redouter ses prochaines transformations ?
      #Luc_Perino, médecin diplômé d’épidémiologie et auteur du livre "Patients zéro" (La Découverte), explique qu’un virus mute en permanence... et pas nécessairement d’une manière défavorable à l’être humain. "Dans la majorité des épidémies, le virus évolue vers moins de #virulence, et vers plus de #diffusion." C’est-à-dire qu’il tend à se propager plus vite... mais en devenant moins mortel.

      https://www.nouvelobs.com/coronavirus-de-wuhan/20200327.OBS26690/rony-brauman-repond-a-macron-la-metaphore-de-la-guerre-sert-a-disqualifie
      #solidarité #individualisme #autoritarisme #mensonge #mensonges #épidémiologie

    • Parler de l’héroïsme des soignants c’est une excision symbolique du corps médical. Les soignants sont des femmes en grande majorité. Les soignantEs ont pour travail de prendre soin, pas de trucider, étriper et violer comme le font les soldats, ni même se sacrifier.
      Les soldat(e)s ne soignent pas.
      Les soignantEs ne tuent pas.

      A la guerre il y a des héros or la racine latine « vir » de viril, virilité, virilisme et aussi vértu viens du sanskrit HERO. L’héroisme c’est ce qui fait l’homme et donc certainement pas les femmes. Traiter les soignantes de héro ou même héroïnes c’est les affubler de virilité.

      #invisibilisation_des_femmes #virilisme #inversion_patriarcale #excision_symbolique

    • La guerre est toujours un beau #prétexte pour imposer la #répression

      « Et nous voilà en dictature ?

      La guerre est toujours un beau prétexte pour imposer la répression.

      Guerre contre les pauvres, contre les travailleur.e.s précarisé.e.s, contre les personnes entassées dans des squats, contre les enfants des quartiers dits « prioritaires », contre les « migrants » comme ils aiment les appeler…Ah, veuillez m’excuser, je n’avais pas compris que notre aimable président parlait de guerre contre un virus…

      Il est vrai qu’en observant le confinement prendre la pelle (l’appel) pour creuser, creuser et creuser encore le gouffre qui sépare les bien loti.e.s des plus précarisé.e.s, je n’avais pas compris qu’il parlait d’une guerre contre la nature… Pourtant, j’aurais dû m’en douter, car il est bien évident que notre président a toujours voué un grand amour pour notre environnement… Mais non, je pensais bêtement que la guerre avait été déclarée. Que l’on nous avait encore pris pour des dindes, en nous faisant par exemple copier deux fois de suite « l’article 3 du décret du 23 mars 2020 prescrivant les mesures générales nécessaires pour faire face à… » blablabla. Et si tu n’as pas de papier pour écrire, tant pis pour toi ! De toute façon, on est en guerre, gamin.e, alors pourquoi veux-tu te promener dans les rues ? Ah ? La rue est ta maison ? Quelle sombre idée… De toute façon, on est en guerre, alors qui se soucie de savoir si tu vis à la rue, hein ?

      Oui, je n’ai pas réussi à entendre le mot virus quand notre cher président a répété six fois que nous étions en guerre…

      Et il est vrai que quand les jeunes avec qui je travaille m’ont transmis leurs angoisses de « ne pas réussir », avec la peur d’être encore mis de côté, exclus dans leur quartier alors même qu’elles et ils me faisaient part il y a peu de leur désir de « bien s’en sortir » pour montrer à leurs pairs que personne n’est éternellement assigné au quartier, je n’ai pas pensé au virus… Mais à la violence de l’Education Nationale.

      Quand mon amie du Sud de la France m’a quant à elle parlé de son combat éreintant pour récupérer son jeune garçon de 5 ans, confiné chez son père violent et fiché S à Paris, je n’ai pas pensé au virus… Mais à l’horreur du confinement.

      Quand une autre m’a parlé de sa colère en tant qu’infirmière de voir tant de gens ne pas respecter leur investissement/épuisement en continuant à vivre « comme si de rien n’était », je n’ai pas pensé au virus… Mais à la stupidité et l’égoïsme qui animent mes « compatriotes ».

      Et enfin, quand mes collègues m’ont fait part au début du confinement des difficultés à trouver des volontaires pour garder les enfants des soignants, je n’ai pas pensé au virus… Mais à la fameuse « Fraternité » oubliée de la devise française.

      Dites-moi qu’au moins, cela servira de prise de conscience ? Car qui tient donc le pays en ce moment ? Qui le fait (sur)vivre ? Ni moi, ni peut-être vous. Mais celles et ceux que l’on a invisibilisé depuis bien trop longtemps. Et si je dois donc applaudir, j’applaudirais tout autant les agriculteurs/trices, les vendeurs/euses en magasin, les bénévoles (devraient-ils vraiment être bénévoles ?), les professeur.e.s et toutes celles et ceux qui nous permettent de continuer à vivre. En fait, qui nous ont toujours permis de continuer à vivre…

      Alors maintenant, je me demande, que pouvons-nous faire de tout ce temps pour celles et ceux qui en ont plus que d’habitude… N’est-il pas le moment de le « prendre ce temps » pour réfléchir à de nouveaux systèmes ? Puisque dans nos vies à 100 à l’heure, celui-ci manque toujours…

      Qu’a-t-on de fait à proposer ? Comment peut-on imaginer une plateforme pour échanger sur de nouveaux modèles ? Sur la manière de visibiliser ces réalités mais également de contribuer à les changer ? Comment peut-on se servir de ce temps pour ne plus panser les blessures de notre système mais bien penser de nouvelles perspectives ? Si tout le monde est davantage connecté, c’est donc l’occasion de toucher de nouveaux publics, de faire connaitre des réalités, de proposer des formations et de construire quelque chose de nouveau…

      Je sais que certain.e.s s’y attellent depuis bien longtemps. Mais n’est-ce pas alors l’occasion de joindre nos forces pour penser collectivement ? Utiliser le confinement pour se mettre davantage en lien et penser autrement ? Servons-nous de cette colère. Transformons-là. »
      Coline

      https://www.modop.org/se-relier/#3avril

    • « De la #guerre_sanitaire à la guerre économique et sociale »

      A la « guerre sanitaire » aujourd’hui déclarée, risque de succéder une « guerre économique et sociale » impitoyable pour les salariés, les fonctionnaires et les habitants des quartiers populaires. J’ai imaginé ce que pourrait être le discours du président de la République...

      La première victime de la guerre, c’est toujours la vérité

      La deuxième victime de la guerre, ce sont les conquis sociaux

      La troisième victime de la guerre, ce sont les droits et libertés démocratiques

      A la manière d’un certain président de la République.

      « Françaises, Français, mes chers compatriotes. Depuis le déclenchement de la crise sanitaire, je me suis plusieurs fois adressé à vous pour évoquer les épreuves que nous avons traversées, pour annoncer les mesures indispensables afin de juguler l’épidémie d’abord et d’en venir à bout ensuite. Ces circonstances exceptionnelles m’ont conduit à prendre, avec le gouvernement, en accord avec l’Assemblée nationale et le Sénat, des mesures elles aussi exceptionnelles sans lesquelles nous n’aurions pu gagner cette bataille décisive contre le Covid-19. Tout d’abord, je veux, au nom de la nation, saluer toutes celles et tous ceux qui, médecins, infirmiers, personnels hospitaliers, ont été aux avant-postes de ce combat, avec un dévouement et un courage exemplaires, et pour certains, hélas, au péril de leur vie. Ils méritent notre reconnaissance. C’est pourquoi j’ai décidé qu’un hommage national leur sera rendu à une date qui sera précisée. Plus encore, toutes et tous recevront, à titre collectif, la légion d’honneur.

      Ensuite, je veux avoir une pensée pour vous, Françaises et Français, qui avez perdu un parent, un proche, un ami. Je sais votre peine infinie et nous la partageons tous. Dans ces moments que je sais ô combien douloureux, soyez assurés que votre deuil est aussi le nôtre, et jamais nous n’oublierons vos chers disparus. Enfin, je veux également saluer celles et ceux qui, envers et contre tout, ont continué de travailler sans se laisser détourner de leurs tâches indispensables au pays par des revendications aussi démagogiques qu’irresponsables. C’est grâce à eux qu’il n’y a pas eu de pénurie et que les approvisionnements n’ont jamais cessé en dépit des difficultés qu’ils ont eux aussi surmontées avec une ténacité et une résilience remarquables. Françaises, Français, mes chers compatriotes, suite aux décisions que j’ai prises, vous avez, vous aussi, consenti de nombreux sacrifices en respectant un confinement toujours plus strict, en bouleversant vos habitudes, en renonçant à bien des loisirs et à bien des plaisirs : ceux de se réunir en famille, entre amis, de dîner au restaurant, d’aller au cinéma, au théâtre, d’écouter des concerts, de faire du sport, de se promener. Qui, en ville, qui à la campagne pour pêcher ou chasser, qui à la mer ou à la montage. Je sais que les décisions prises ont bouleversé vos vies mais elles étaient indispensables pour sauver le plus grand nombre de nos ainés et de nos concitoyens. Vous l’avez assez vite compris et vous l’avez donc accepté. Toutes et tous, vous avez fait la démonstration remarquable que nous sommes un grand peuple et que la France est une nation à nulle autre pareille qui, dans les épreuves, sait se retrouver pour les affronter dans l’unité, la solidarité et la fraternité.

      Nous venons de gagner une bataille majeure mais nous n’avons pas encore gagné la guerre. La crise sanitaire est certes derrière nous mais nous devons, dès maintenant, mener d’autres combats et relever d’autres défis. Ils sont économiques et sociaux. Ceux d’hier étaient immenses, ceux qui nous attendent ne le sont pas moins. Mes chers compatriotes, je vous le dis avec solennité et gravité, nous sommes toujours en guerre. L’ennemi n’est plus invisible, il n’est plus insidieux mais il n’en est pas moins présent, puissant et menaçant. Cet ennemi, il se nomme récession, régression, faillites en série et reprise possible de la hausse du chômage. Celui que nous venons de terrasser, nous menaçait tous, celui qui se présente maintenant agit de même. Je veux dire par là qu’il peut, lui aussi, bouleverser nos vies en frappant partout et dans toutes les catégories de la population. Nos grandes, moyennes et petites entreprises sont menacées. De même nos admirables artisans qui, partout en France, maintiennent vivantes d’anciennes traditions d’excellence. Je n’oublie pas nos agriculteurs, nos pêcheurs, nos viticulteurs, nos artistes et nos libraires.

      Hier, Françaises, Français, mes chers compatriotes, vous avez consenti de nombreux sacrifices. Je m’adresse à vous tous pour vous en demander de nouveaux car cette situation économique et sociale est elle aussi exceptionnelle. Elle n’est pas sans rappeler celle que nos ainés ont dû affronter au sortir de la Seconde Guerre mondiale. Ils avaient un pays à reconstruire, nous avons une économie à rebâtir et pour y parvenir au plus vite, il faut être capable de se hisser à la hauteur des tâches multiples et difficiles qui nous attendent. Lorsque je me suis adressé à vous au début de l’épidémie le 16 mars dernier, je vous avais dit qu’après les épreuves traversées, plus rien ne serait comme avant. Ce jour est arrivé et il nous faut maintenant en tirer toutes les conséquences.

      Nous sommes en guerre. Aussi, notre code du travail, conçu dans et pour une autre conjoncture, est-il parfaitement inadapté à celle que nous allons affronter. Il est trop lourd et compliqué. De là d’innombrables lenteurs qui sont autant d’obstacles à la reprise que nous appelons tous de nos vœux. C’est pourquoi je vais demander au gouvernement d’adopter une loi d’urgence économique qui permettra à toutes et à tous de travailler au-delà des 35 heures, de travailler le dimanche si nécessaire et d’étendre le travail de nuit aux secteurs économiques particulièrement fragiles et/ou particulièrement affectés par le confinement auquel notre pays a été soumis. De plus, de nouveaux contrats d’embauche, moins contraignants et plus souples seront mis en place pour permettre de répondre dans les meilleures conditions aux défis multiples et variés que nos entreprises et nos artisans vont devoir relever dans les semaines et les mois à venir. Nous devons travailler plus et plus longtemps, c’est pourquoi la réforme des retraites, suspendue pour les raisons que vous savez, sera enfin adoptée. Et je souhaite qu’elle soit elle aussi assouplie pour permettre à celles et ceux qui veulent continuer à travailler de le faire en toute liberté. Toutes ces mesures s’imposent car il y va de notre place en Europe, de notre place dans le monde, de votre avenir personnel et professionnel, et de celui de vos enfants et de vos petits-enfants.

      Oui, nous sommes en guerre. C’est pourquoi, afin de favoriser au mieux la croissance indispensable aux progrès de notre pays, au relèvement de notre économie et à l’amélioration de vos conditions de vie, je demanderai également au gouvernement de bloquer les salaires pour une durée qui reste à déterminer, de réduire les congés et de permettre aux employeurs de les fixer à leur convenance, après consultation des salariés. Il en sera évidemment de même dans toute la fonction publique à l’exception de la fonction publique hospitalière où des postes seront créés et de nouveaux moyens accordés. En même temps, nous poursuivrons la modernisation indispensable de nos hôpitaux afin d’augmenter là aussi leur compétitivité et donc leur efficacité au service du plus grand nombre. Mes chers compatriotes, je sais votre attachement à notre système de santé qui suscite l’admiration de beaucoup à l’étranger, c’est aussi pour répondre à vos attentes que je vous demande ces efforts. Efforts également dans l’éducation nationale et dans l’enseignement supérieur où, jusqu’à nouvel ordre, aucun recrutement ne sera effectué. Cette situation n’empêchera nullement les écoles, les collèges, les lycées et les universités d’embaucher, de façon temporaire et pour une durée limitée, le personnel enseignant et administratif nécessaire à l’accomplissement de leurs missions. Là aussi, la modernisation doit être impérativement poursuivie car nous pouvons et nous devons faire mieux. Les temps présents comme de nombreux parents l’exigent et personne ne comprendrait, à l’heure où je vous parle, que les fonctionnaires précités désertent cette formidable bataille économique et sociale qu’il nous faut remporter au plus vite.

      C’est parce qu’elle est terrible que nous devons mobiliser toutes les énergies, stimuler tous les talents, libérer toutes les volontés et toutes les ambitions en donnant à chacune et à chacun l’opportunité de s’y associer. A vous Françaises et Français d’abord car, en ces circonstances exceptionnelles il n’est plus acceptable que d’autres, arrivés depuis peu dans notre pays et sans intention d’y faire souche, accèdent rapidement à des emplois qui pourraient être occupés par vous. C’est pourquoi je vais demander au gouvernement de préparer un projet de loi destiné, non à fermer complètement l’immigration, ce serait aussi vain qu’inutile, mais à la limiter au strict nécessaire sur la base de quotas régulièrement révisés, comme cela se fait déjà dans de nombreux Etats développés et démocratiques. De même, il faut rapatrier dans notre pays des activités essentielles à notre indépendance sanitaire, industrielle et économique pour renforcer ainsi notre souveraineté en produisant français avec des travailleuses et des travailleurs français. L’union nationale nous a permis de vaincre l’épidémie hier, elle nous permettra, demain, de renouer avec la prospérité dont vous serez toutes et tous les heureux bénéficiaires.

      Nous sommes en guerre, et cette nouvelle guerre nous ne la gagnerons qu’en étant capables de nous affranchir d’habitudes parfois désuètes et, dans tous les cas, inadaptées aux exigences qui s’imposent désormais à tous. J’ai bien dit à tous, c’est pourquoi, un nouveau gouvernement, plus resserré, sera bientôt formé et les traitements des uns et des autres réduits. De même, le nombre des membres de cabinet. D’ores et déjà, et pour apporter ma contribution à cet effort national sans précédent, je vous annonce que je renonce à mon traitement jusqu’à la fin de ce quinquennat. Mais il faut aller plus loin en poursuivant la réforme de nos institutions ce qui passe, entre autres, par la réduction du nombre de députés et de sénateurs afin que les premiers comme les seconds participent pleinement à cette réduction indispensable, vitale même de nos dépenses publiques. Au cours de ces derniers mois, comme je l’ai dit, l’Etat a payé sans compter pour lutter contre l’épidémie et soutenir les secteurs économiques particulièrement affectés par la crise sanitaire. Ces temps sont désormais révolus et chacun comprendra qu’il n’est pas possible de poursuivre plus longtemps dans cette voie sauf à s’engager de nouveau dans la spirale ruineuse de l’endettement dont les effets retomberont lourdement sur les générations à venir. Cela, je ne le veux pas et je ne le permettrai pas car ce serait trahir les espoirs de notre jeunesse, et je sais que nul, dans ce pays, ne le souhaite.

      Mes chers compatriotes, je vous le dis et je le répète, nous sommes toujours en guerre. Je vous demande donc d’être responsables, de ne céder à aucune surenchère partisane et syndicale, de refuser le repli corporatiste qui a fait tant de mal à notre pays, et de vous élever à la hauteur des tâches exigées par cette situation exceptionnelle. N’écoutez pas celles et ceux qui se complaisent dans la critique mais qui n’ont rien de concret et de sérieux à proposer. Evitons cette démagogie et ces exaltations aussi puériles que mortifères. Unis, chacun fidèle à son poste et à sa place, nous gagnerons. Vive la République ! Vive la France ! »

      https://blogs.mediapart.fr/olivier-le-cour-grandmaison/blog/230320/de-la-guerre-sanitaire-la-guerre-economique-et-sociale

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      Lecture de ce texte :
      #Fin_de_l'épidémie : le discours d’Emmanuel #Macron

      Texte : #Olivier_Le_Cour_Grandmaison
      Lecture : Nicolas Mourer
      Réalisation Christiane Passevant

      https://www.youtube.com/watch?v=tBd5yLA-c-8&feature=share


      #déconfinement #coronavirus #covid-19

      Message de Olivier Le Cour Grandmaison via Facs et Labos en lutte :

      Texte que j’ai rédigé en imaginant le #discours_de_Jupiter au sortir du confinement

    • Ce que nous vivons n’est pas une guerre

      C’est la mondialisation qui fait de l’épidémie de Covid-19, originaire de Chine, une pandémie mondiale. Mais replaçons cette crise, cet effondrement sanitaire, dans le contexte de notre société, celui de l’Anthropocène. Car, au classement des menaces avérées pour le système-Terre, la première porte un nom : Homo Sapiens. Si l’homme persiste dans la mondialisation et dans l’asservissement de la nature, il n’est pas impossible que, d’une façon ou d’une autre, celle-ci contre-attaque.

      CE QUE NOUS VIVONS n’est pas une guerre. Nous vivons un effondrement. Et pas simplement un effondrement des marchés boursiers, un effondrement de l’Anthropocène. 1

      Rappelons quelques chiffres. Dans nos campagnes, la population d’oiseaux a baissé de 30 % en vingt ans à peine. 2 En quelques semaines seulement, l’Australie perdait plus d’un milliard d’animaux dans les incendies. 3 Une étude publiée dans la revue britannique Nature estime qu’un million d’espèces animales et végétales pourraient disparaître en raison du réchauffement climatique. 4

      Parallèlement à ces phénomènes d’effondrement de la biodiversité, on a récemment constaté le développement d’espèces envahissantes ou invasives. Algues tropicales, plantes toxiques exogènes, nombreux sont les exemples de perches dévastatrices, de champignons phytopathogènes et de papillons colononisateurs, qui déciment leur environnement, éradiquent des populations d’insectes, d’animaux ou d’arbres jadis répandus dans nos campagnes.

      Si l’agriculture intensive est bien connue pour favoriser le développement de propagules pathogènes et d’espèces invasives, il est avéré que le commerce international joue un rôle majeur dans leur propagation.

      Je me souviens avoir regardé, impuissant, les buis de mon jardin se faire dévorer par une pyrale invasive venue de Chine par bateau, avec des lots de buis pré-taillés par une main d’œuvre bon marché. Mais le principal prédateur de ladite pyrale était le frelon asiatique, interdit de séjour en France depuis 2013.

      Le Covid-19 est également originaire de Chine et, à nouveau, c’est notre organisation mondialiste qui fait de cette épidémie une pandémie mondiale.

      Or, la pandémie est en soit un effondrement sanitaire. Tout comme le méga-feu est un effondrement écologique qui fait de certaines espèces animales des espèces menacées, la pandémie est une menace pour l’être humain.

      Certes, tout sera fait pour éviter un effondrement massif de la population humaine. Observons les mesures mises en place par l’ensemble de nos gouvernements 5, en dehors du confinement : fermeture des commerces hors alimentation, réduction des transports de marchandises à leur strict minimum, suppression des vols internationaux, blocage drastique de la circulation des véhicules personnels, généralisation du télétravail, etc. Même les écologistes les plus radicaux ne pouvaient rêver un tel scenario !

      L’arrêt quasi total du transport, de la consommation, de l’import-export en quelques heures… L’objectif « zéro carbone », prévu pour 2050, est à portée de main en 2020 !

      Alors qu’on peinait à trouver des financements pour la transition 6, voilà que s’annoncent des dizaines de milliards pour sortir de la crise. On parle même de réguler les marchés, de nationaliser les compagnies aériennes en péril, de reprendre en main les hôpitaux…

      Cet épisode pandémique nous place face à nos responsabilités. Car, quoiqu’on fasse, la Terre ne s’arrêtera pas de tourner et il est probable que le système-Terre sache toujours générer de quoi revenir à un équilibre systémique, en attaquant les entités qui constituent une menace pour le plus grand nombre. 7
      Un virus pour l’Anthropocène

      Au classement des menaces avérées pour les écosystèmes, la première porte un nom : Homo Sapiens. Replaçons le virus dans le contexte de notre société, celui de l’Anthropocène. Si le terme « Anthropocène » vous est totalement étranger ou si vous l’avez volontairement rangé dans la commode des mots anxiogènes, entre « Anthrax » et « Anthropophage », le documentaire « L’âge de l’Anthropocène, des origines aux effondrements » 8 est fait pour vous.

      L’Atelier d’écologie politique (Atécopol), un atelier constitué d’une centaine de chercheurs toulousains, a organisé de nombreuses conférences publiques, trans-disciplinaires, permettant la constitution de ce documentaire scientifique synthétique. Depuis début 2020, ces chercheurs ont défendu le film en prolongeant chaque projection d’un débat public.

      Certes, il n’est pas question de pandémie dans ce film, puisqu’il a été achevé il y a plusieurs mois. Toutefois, les propos de l’historien des sciences Christophe Bonneuil, des économistes altermondialistes Geneviève Azam 9 et Maxime Combes ou encore de l’ingénieur agronome « collapsologue » Pablo Servigne nous éclairent sur cette façon « effondrementiste » 10 d’envisager le futur de notre société capitaliste.

      Le Covid-19 constitue une pierre de plus à l’édifice du film, et non des moindres. Si l’homme persiste dans la mondialisation et dans l’asservissement de la nature, il n’est pas impossible que, d’une façon ou d’une autre, celle-ci contre-attaque.

      https://sciences-critiques.fr/ce-que-nous-vivons-nest-pas-une-guerre

      #Gwarr_Greff

  • #Algérie « Un seul #héros, le #peuple » | L’Humanité
    https://www.humanite.fr/algerie-un-seul-heros-le-peuple-668772

    Le 15 juillet 1957, à l’annonce du verdict la condamnant à la peine capitale, le rire retentissant de celle qui avait enduré les supplices des parachutistes de Bigeard et Massu ébranlait jusqu’aux magistrats du tribunal militaire d’Alger. Sa parole publique est rare, ses apparitions, exceptionnelles, mais #Djamila_Bouhired, 84 ans, a conservé intact son sens de la révolte, du défi, de l’insubordination. Dans les rues d’Alger, le 1er mars, l’icône de la guerre de libération nationale était là, parmi les manifestants, acclamée par la foule, le visage éclairé par un sourire radieux, heureuse de prendre part à cet élan de vie. D’une révolution à l’autre, l’image est saisissante, elle condense un désir qui déborde aujourd’hui en Algérie : celui de reconquérir une indépendance confisquée. On disait la jeunesse algérienne dépolitisée, apathique, oublieuse et sans mémoire : elle fait aujourd’hui preuve d’une conscience et d’une maturité politiques redoutables. Au point de retourner contre le régime ses propres armes en s’appropriant joyeusement les symboles d’une histoire trop longtemps livrée à la falsification, aux instrumentalisations.

    Le 13 février, alors que des manifestations sporadiques prenaient déjà corps dans l’est du pays, le ministre de la Défense et chef d’état-major des armées, le général Ahmed Gaïd Salah, fidèle allié du clan Bouteflika, affûtait à Constantine, devant un parterre d’officiers, ses armes contre les opposants au cinquième mandat. Au cœur de son argumentaire : la rhétorique de la « main de l’étranger », la déchirure de la décennie noire et le spectre du chaos syrien. Dans son viseur : les « ennemis de l’intérieur » prêtant le flanc aux « manœuvres et manigances » des « ennemis de l’extérieur » ; les « ingrats » aux « ambitions sordides », prêts à « vendre la sécurité de leur pays et la stabilité de leur patrie ». Il concluait en invoquant « l’esprit de novembre », en référence au déclenchement de l’insurrection algérienne, le 1er novembre 1954, puis en saluant la « conscience » et le « discernement » d’un peuple « digne de perpétuer le message de ses aïeux et de prendre la responsabilité de préserver leur legs ».

    #rosa_moussaoui

    https://twitter.com/MathieuRigouste/status/1235142612815933446/photo/1

  • Un héros américain. L’histoire de #Colin_Kaepernick

    Le combat de Colin Kaepernick, star du football américain, devenu un porte-drapeau de la communauté noire, afin de dénoncer les violences policières aux États-Unis. Un engagement politique qui signe la fin de sa carrière sportive.

    Le 1er septembre 2016, alors que les joueurs et les spectateurs du stade de San Diego se lèvent pendant l’hymne national, la star du football américain Colin Kaepernick pose un #genou_à_terre. Ce geste de protestation contre les violences policières et les injustices à l’encontre des #Afro-Américains suffit pour le propulser sur le devant de la scène médiatique. Le pays bascule dans un débat sur les #discriminations_raciales, ne laissant personne indifférent, pas même Donald Trump, qui critique vertement le sportif lors de ses discours de campagne. Paria pour les uns, Colin Kaepernick devient un #héros pour les autres. Mais cet engagement politique signe la fin de la carrière sportive du #quarterback des 49ers de San Francisco, exclu de la ligue professionnelle de football américain. Il continuera à propager son appel à l’égalité en devenant le visage de Nike en septembre 2018. Cette histoire rappelle celle de #Tommie_Smith et de #John_Carlos, médaillés d’or et de bronze aux Jeux olympiques de Mexico en 1968 et exclus de toutes les compétitions pour avoir levé le poing, en signe de protestation contre la ségrégation. Grâce à de nombreuses interviews, notamment celle de Lilian Thuram, ce film retrace le combat mené par un sportif prêt à sacrifier sa #carrière pour ses idéaux.


    https://www.arte.tv/fr/videos/086146-000-A/un-heros-americain
    #Kaepernick #violences_policières #USA #Etats-Unis #sport #racisme #football_américain #protestation #hymne_national #nationalisme #film #documentaire #Nike

  • Persian Language & Literature : Samad Behrangi : The Little Black Fish
    http://iranchamber.com/literature/sbehrangi/works/the_little_black_fish.php


    Painting by Farshid Mesqali

    Une collection d’oeuvres de Samad Behrangi et d’autres auteurs iraniens
    http://iranchamber.com/literature/sbehrangi
    http://iranchamber.com/literature

    The Little Black Fish

    It was the longest night of winter. At the bottom of the sea an old fish gathered together 12,000 of her children and grandchildren and began to tell them this story:

    Once upon a time a little black fish lived with her mother in a small pond on the side of a mountain. Their home was behind a black, moss-covered rock, under which they both slept at night. The little fish longed to see the moonlight in their home just once. From morning till evening, the mother and child swam after each other. Sometimes they joined other fish and rapidly darted in and out of small crevices. The little fish was an only child, for of the 10,000 eggs which the mother had laid, only she had survived.

    For several days the little fish had been deep in thought and had talked very little. She swam slowly behind her mother around the pond and did not play with the other fish. Her mother thought her child was sick and would soon be well. In fact, the black fish’s sickness was really something else!

    Early one morning before the sun had risen, the little fish woke her mother and said

    “Mother, I want to talk to you.”

    Half-asleep, the mother responded

    “Child, this isn’t the time to talk. Save your words for later. Go swimming?”

    “No, Mother! I can’t go swimming anymore. I must leave here.”

    “Do you really have to leave?”

    “Yes, Mother, I must go.”

    “Just a minute! Where do you want to go at this hour of the morning?”

    “I want to go see where the stream ends. You know, Mother, I’ve been wondering where the end of the stream is ... I haven’t been able to think about anything else. I didn’t sleep a wink all night. At last, I decided to go and find where the stream ends. I want to know what’s happening in other places.”

    The mother laughed - “When I was a child, I used to think a lot like that. But, my dear, a stream has no beginning and no end. That’s the way it is. The stream just flows and never goes anywhere.”

    “But mother dear, isn’t it true that everything comes to an end ? Nights end, days end, weeks, months, years ...”

    “Forget this pretentious talk,” interrupted the mother - “Let’s go swimming. Now is the time to swim, not talk.”

    “No, Mother, I’m tired of this swimming, I want to set out and see what’s happening elsewhere. Maybe you think someone taught me these ideas but believe me, I’ve had these thoughts for a long time. Of course, I’ve learned many things here and there. For instance, I know that when most fish get old, they complain about everything. I want to know if life is simply for circling around in a small place until you become old and nothing else, or is there another way to live in the world ?”

    When the little fish finished the mother exclaimed - “My dear child, are you crazy? World! ... World! What is this other world! The world is right here where we are. Life is just as we have it...”

    Just then, a large fish approached their home and said: “Neighbor, what are you arguing about with your child? Aren’t you planning to go swimming today?”
    Hearing her neighbor’s voice, the mother came out of the house and said, “What’s the world coming to! Now children even want to teach their mothers something!”
    How so? “asked the neighbor.”
    Listen to the places this half-pint wants to go!" replied the mother. “Saying over and over again I want to go see what’s happening in the world. What pretentious talk!”

    “Little one,” said the neighbor, “let’s see. Since when have you become a scholar and philosopher and not told us?”
    "Madam," answered the little fish, “I don’t know what you mean by ’scholar’ and ’philosopher,’ I’ve just gotten tired of these swims. I don’t want to continue this boring stuff and be happy as a fool until one day I wake up and see that like all of you, I’ve become old, but still am as dumb as I am now.”
    "Oh, what talk!" exclaimed the neighbor.
    “I never thought my only child would turn out this way,” said the mother. “I don’t know what evil person put my sweet baby up to this.”

    “No one put me up to anything,” said the little fish. “I have reason, and intelligence and understanding. I have eyes and I can see.”
    "Sister," said the neighbor to the little fish’s mother, “do you remember that twisted-up snail?”
    "Yes, you’re right," said the mother. “He used to push himself on my baby. God knows what I would do to him!”
    "That’s enough, Mother," said the little fish. “He was my friend.”
    "Friendship between a fish and a snail," said the mother, “I’ve never heard of such a thing!”
    "And I’ve never heard of a fish and a snail being enemies," replied the little fish. “But you all drowned the poor fellow.”

    “Let’s not bring up the past,” said the neighbor.
    “You brought up the subject yourself,” said the little fish.
    “It served him right to be killed,” said the mother. “Have you forgotten the things he used to say everywhere he went?”
    "Then," said the little fish, “kill me too since I’m saying the very same things.”

    To make a long story short, the arguing voices attracted the other fish. The little fish’s words angered everyone.

    One of the old fish asked, “Did you think we’d pity you?”
    "That one just needs a little box on the ears," said another.

    “Go away,” said the black fish’s mother. “Don’t you touch my child.”
    Another of them said, “Madam, if you don’t raise your child correctly, you must expect it to be punished.”
    The neighbor said, “I’m ashamed to live next to you.”
    Another said, “Let’s do to the little fish what we did to the old snail before it gets into trouble.”

    When they tried to grab the little black fish, her friends gathered around and took the fish away from the brawl.

    The black fish’s mother beat her head and chest and cried, “Oh, my baby is leaving me. What am I going to do? What a curse has fallen upon me!”
    "Mother, don’t cry for me. Cry for the old fish who stay behind."
    “Don’t get smart, half-pint!” shouted one of the fish from afar.
    “If you go away and afterwards regret it, we won’t let you come back,” said a second.
    “These are useful fancies. Don’t go,” said a third.
    “What’s wrong with this place?” said a fourth.
    "There is no other world. The world is right here. Come back! Said a fifth.
    “If you turn reasonable and come back, then we’ll believe you really are an intelligent fish,” said a sixth.
    “Wait, we’ve gotten used to having you around ...” said a seventh.
    The mother cried, “Have mercy on me. Don’t go! Don’t go!”

    The little fish didn’t have anything more to say to them. Several friends of the same age accompanied the fish as far as the waterfall. As they parted, the fish said,
    “My friends, I hope to see you again. Don’t forget me!”
    "How would it be possible to forget you?" asked the friends. “You’ve awakened us from a deep sleep. You’ve taught us many things that we had not even thought about before. We hope to see you again, learned and fearless friend.”

    The little fish swam down the waterfall and fell into a pond full of water. At first the fish lost its balance but after a while began to swim and circled around the pond. The fish had never seen so much water collected in one place.

    Thousands of tadpoles were wriggling in the water. They laughed when they saw the little black fish,
    “What a funny shape! What kind of creature are you?”
    The fish looked them over thoroughly and said, "Please don’t insult me. My name is Little Black Fish. Tell me your names so that we’ll get acquainted.
    “We call one another tadpole,” replied one of the tadpoles.
    “We come from nobility,” said another.
    “You can’t find anyone prettier than us in the whole world,” said another.
    “We aren’t shapeless and ugly-faced like you,” said another one.
    The fish said, “I never imagined you would be so conceited. That’s all right. I’ll forgive you since you’re speaking out of ignorance.”
    In one voice the tadpoles demanded, “Are you saying we’re stupid?”
    "If you weren’t ignorant," replied the fish, “you’d know that there are many others in the world who are pleased with their appearances. You don’t even have names of your own.”

    The tadpoles became very angry. But since they knew the little fish spoke truthfully, they changed their tone and said, “really, you’re wasting words! We swim around the world every day from morning till evening, but except for ourselves and our father and mother, we see no one. Of course, there are tiny worms, but they don’t count.”
    "You can’t even leave the pond," said the fish. “How can you talk about traveling around the world?”
    "What! Do you think there’s a world other than the pond?" exclaimed the tadpoles.
    “At least,” responded the fish, “you must wonder where this water comes from and what things are outside of it.”
    "Outside the water!" exclaimed the tadpoles, “Where is that? We’re never seen outside of the water! Haha ...haha ...You’re crazy!”

    Little Black Fish also started to laugh. The fish thought it would be better to leave the tadpoles to themselves and go away, but then changed its mind and decided to speak to their mother.

    “Where is your mother?” asked the fish. Suddenly, the deep voice of a frog made the fish jump. The frog was sitting on a rock at the edge of the pond. She jumped into the water, came up to the fish and said:
    “I’m right here. What do you want?”
    "Hello, Great Lady," said the fish.
    The frog responded “Worthless creature, now is not the time to show off. You’ve found some children to listen to you and are talking pretentiously. I’ve lived long enough to know that the world is this pond. Mind your own business and don’t lead my children astray.”
    "If you lived a hundred years," said the little fish, “you’d still be nothing more than an ignorant and helpless frog.”

    The frog got angry and jumped at Little Black Fish. The fish flipped quickly and fled like lightening, stirring up sediment and worms at the bottom of the pond.

    The valley twisted and curved. The stream became deeper and wider. But if you looked down at the valley from the top of the mountains, the stream would seem like a white thread. In one place, a piece of large rock had broken off from the mountain, fallen to the bottom of the valley, and split the water into two branches. A large lizard the size of a hand, lay on her stomach on the rock. She was enjoying the sun’s warmth and watching a large, round crab resting on the sand at the bottom or the water in a shallow place and eating a frog he had snared.

    The little fish suddenly saw the crab, became frightened, and greeted him from afar. The crab glanced sideways at the fish and said,
    “What a polite fish! Come closer, little one. Come on!”
    "I’m off to see the world," said the little fish, “and I never want to be caught by you, sir!”
    "Little fish, why are you so pessimistic and scared?" asked the crab.
    “I’m neither pessimistic nor afraid,” answered the fish. “I speak about everything I see and understand.”
    "Well, then," said the crab, “please tell me what you’ve seen and understood that makes you think I want to capture you?”
    "Don’t try to trick me!" responded the fish.
    “Are you referring to the frog?” queried the crab. “How childish you are! I have a grudge against frogs; that’s the reason I hunt them. Do you know, they think they’re the only creatures in the world and that they’re very lucky. I want to make them understand who is really master in the world! So you don’t have to be afraid, my dear. Come here. Come on.”

    As the crab talked, he was walking backwards towards the little fish. His gait was so funny that the fish couldn’t help laughing and said,
    “Poor thing! You don’t even know how to walk. How did you ever learn who runs the world?”
    The black fish drew back from the crab. A shadow fell upon the water and suddenly a heavy blow pushed the crab into the sand. The lizard laughed so hard at the crab’s expression that she slipped and almost fell into the water. The crab couldn’t get up.

    The little fish saw that a young shepherd was standing at the edge of the water watching the fish and the crab. A flock of sheep and goats came up to the water and thrust their mouths in. The valley filled with the sounds of “meh meh” and “bah bah.”

    The little black fish waited until the sheep and goats had drunk their water and left, then called the lizard,
    “Dear lizard, I’m a little black fish who’s going to search for the end of the stream. I think you’re wise, so, I’d like to ask you something.”
    "Ask anything you want."
    “All along the way, they’ve been frightening me a great deal about the pelican, the swordfish and the heron. Do you know anything about them?”
    "The swordfish and the heron," said the lizard, “aren’t found in this area, especially the swordfish who lives in the sea. But it’s possible that the pelican is farther down. Be careful he doesn’t trick you and catch you in his pouch.”
    "What pouch?"
    “Under his throat,” explained the lizard, “the pelican has a pouch which holds a lot of water. When the pelican’s swimming, fish, without realizing it, sometimes enter his pouch and then go straight into his stomach. But if the pelican isn’t hungry, he stores the fish in his pouch to eat later.”
    "If a fish enters the pouch, is there any way of getting out?" asked the fish.
    “There’s no way unless the fish rips open the pouch,” answered the lizard.
    “I’m going to give you a dagger so that if you get caught by the pelican, you can do just that.”

    Then the lizard crawled into a crack in the rock and returned wit a very sharp dagger. The little fish took the dagger and said:
    “Dear lizard, you are so kind! I don’t know how to thank you.”
    "It’s not necessary to thank me, my dear. I have many of these daggers. When I have nothing to do, I sit down and make daggers from blades of grass and give them to smart fish like you."
    “What?” asked the fish, “Have other fish passed here before me?”
    "Many have passed by," the lizard replied. “They’ve formed themselves into a school and they give the fisherman a hard time.”
    "Excuse me for talking so much," said the black fish, "but if you don’t think me meddlesome, tell me how they give the fisherman a hard time.
    “Well,” answered the lizard, “they stick together. Whenever the fisherman throws his net, they get inside, pull the net with them, and drag it to the bottom of the sea.”

    The lizard placed her ear on the crack, listened and said, “I must excuse myself now. My children have awakened.” The lizard went into the crack in the rock. The black fish had no choice but to set out again. But all the while there were many questions on the fish’s mind. “Is it true that the stream flows to the sea? If only the pelican doesn’t catch me! Is it true the swordfish enjoys killing and eating its own kind? Why is the heron our enemy?”

    The little fish continued swimming and thinking, In every stretch of the way the fish saw and learned new things. How the fish liked turning somersaults, tumbling down waterfalls, and swimming again. The fish felt the warmth of the sun and grew strong. At one place a deer was hastily drinking some water. The little fish greeted her.
    “Pretty deer, why are you in such a hurry?”
    "A hunter is following me," replied the deer. “I’ve been hit by a bullet ... right here!”
    The little fish didn’t see the bullet hole, but from the deer’s limping gait knew she was telling the truth.

    At one place turtles were napping in the sun’s warmth. At another place the boisterous noise of partridges twisted through the valley. The fragrance of mountain grass floated through the air and mixed with the water. In the afternoon the fish reached a spot where the valley widened and the water passed through the center of a grove of trees. There was so much water that the little black fish had a really good time.

    Later on the fish came upon a school of fish. The little fish had not seen any other fish since leaving home. Several tiny fish surrounded Little Black Fish and said:
    “You must be a stranger here!”
    "Yes," responded the black fish, “I’m a stranger. I’ve come from far away.”
    "Where do you want to go?" asked the tiny fish.
    “I’m going to find the end of the stream,” replied the black fish.
    “Which stream?”
    "This very stream we’re swimming in," answered the black fish.
    “We call this a river,” stated the tiny fish.
    The black fish didn’t say anything.

    “Don’t you know that the pelican lives along the way?” inquired one of the tiny fish.
    “Yes, I know,” answered the black fish.
    “Do you know what a big wide pouch the pelican has?” asked another.
    “I know that too,” replied the black fish.
    “In spite of all this, you still want to go?” exclaimed the tiny fish.
    “Yes,” said the black fish, “whatever happens, I must go.”

    Soon a rumor spread among all the fish that a little black fish had come from far away and wanted to find the end or the river. And the fish wasn’t even afraid of the pelican! Several tiny fish were tempted to go with the black fish but didn’t because they were afraid of the grown-ups. Others said, “If there weren’t a pelican, we would come with you. We’re afraid of the pelican’s pouch.”

    A village was on the edge of the river. Village women and girls were washing dishes and clothes in the river. The little fish listened to their chatter for a while and watched the children bathing, then set off. The fish went on and on and on, still farther on, until night fell, then lay down under a rock to sleep. The fish woke in the middle of the night and saw the moon shining into the water and lighting up everything. The little black fish liked the moon very much. On nights when the moon shone into the water, the fish longed to creep out from under the moss and speak with her. But Mother would always wake up, pull the fish under the moss, and make it go to sleep again.

    The little fish looked up at the moon and said
    “Hello, my lovely moon!”
    "Hello, Little Black Fish. What brings you here?"
    “I’m traveling around the world.”
    "The world is very big," said the moon. “You can’t travel everywhere.”
    "That’s okay," said the fish. “I’ll go everywhere I can.”
    "I’d like to stay with you till morning," said the moon, “but a big black cloud is coming toward me to block out my light.”
    "Beautiful moon! I like your light so much. I wish you’d always shine on me."
    “My dear fish, the truth is, I don’t have any light of my own. The sun gives me light and I reflect it to the earth. Tell me, have you heard that humans want to fly up and land on me in a few years?”
    "That’s impossible," exclaimed the fish.
    “It’s a difficult task,” said the moon, “but whatever they want, humans can ...”
    The moon couldn’t finish her sentence. The dark cloud approached and covered her face.

    The night became dark again, and the black fish was alone. The fish looked at the darkness in surprise and amazement for several seconds, then crept under a rock and fell asleep.

    The fish woke up early in the morning and saw overhead several tiny fish chattering. When they saw that the black fish was awake, they said in one voice:
    “Good morning!”
    The black fish recognized them right away and said, “Good morning! You followed me after all!”
    "Yes," answered one of the tiny fish, “but we’re still afraid.”
    "The thought of the pelican just won’t go away," said another.
    “You worry too much,” said the black fish. “One shouldn’t worry all the time. Let’s start out and our fears will vanish completely.”

    But as they were about to set out, they felt the water all around them rise up and a lid was placed over them. It was dark everywhere and there was no way to escape. The black fish immediately realized that they had been caught in the pelican’s pouch.
    “My friends,” said the little black fish, “we’ve been caught in the pelican’s pouch, but there’s a chance to escape.”

    All the tiny fish began to cry. On of them said, “There’s no way to escape! It’s your fault since you influenced us and led us astray.”
    "Now he’s going to swallow us all, and then we’ll die," said another.
    Suddenly the sound of frightening laughter twisted through the water. It was the pelican. He kept on laughing and said, “What tiny fish I’ve caught! Ha. Ha. Truly, my heart bleeds for you. I don’t want to swallow you! Ha, Ha ...”
    The tiny fish began pleading, “Your Excellency, Mr. Pelican! We’ve been hearing about you for a long time. If you’d be so kind as to open your distinguished beak a little so that we might go out, we’ll always be grateful to you.”
    "I don’t want to swallow you right now," said the pelican. “I’ve some fish stored. Look below.”
    Several large and tiny fish were scattered on the bottom of the pouch.
    “Your Excellency, Mr. Pelican!” cried the tiny fish, “we haven’t done anything. We’re innocent. This little black fish led us astray ...”

    “Cowards!” exclaimed the little black fish, “are you crying like this because you think this dishonest bird is merciful?”
    "You don’t know what you’re saying," said the tiny fish. “Just wait and see ... His Excellency, Mr. Pelican, will pardon us and swallow you!”
    "Of course I’ll pardon you," said the pelican. “But on one condition.”
    "Your condition, please, sir!" begged the tiny fish.
    “Strangle that meddlesome fish, and then you’ll get your freedom.”

    The little black fish moved aside and said to the tiny fish,
    “Don’t agree! This deceitful bird wants to turn us against each other. I have a plan ...”
    But the tiny fish were so intent on saving themselves that they couldn’t think of anything else. They advanced towards the little black fish who was sitting near the back of the pouch and talking slowly.
    “Cowards! Whatever happens, you’ve been caught and don’t have a way to escape. And you’re not strong enough to hurt me.”
    "We must strangle you," said the tiny fish.
    “We want freedom!”
    "You’ve lost your senses," said the black fish. “Even if you strangle me, you won’t escape. Don’t fall for his tricks...”
    "You’re talking like this just to save yourself," said the tiny fish. “Otherwise you wouldn’t think of us at all.”
    "Just listen," said the black fish, “and I’ll explain. I’ll pretend I’m dead. Then, we’ll see whether or not the pelican will free you. If you don’t agree to this, I’ll kill all of you with this dagger or rip open the pouch and escape while you ...” "Enough!" interrupted one of the fish. “I can’t stand this talk. Oh, wee ...oh, wee ...oh wee ...”>
    “Why did you ever bring along this crybaby?” demanded the black fish upon seeing him cry. Then the fish took out the dagger and held it in front of the tiny fish. Helpless, they agreed to the little fish’s suggestion. They pretended to be fighting together. The black fish pretended to be dead. The others went forward and said, “Your Excellency, Mr. Pelican, we strangled the meddlesome black fish ...” "Good work!" laughed the pelican. “Now, as a reward, I’m going to swallow all of you alive so that you can have a nice stroll in my stomach!”

    The tiny fish never had a chance. Quick as lightening they passed through the pelican’s throat and were gone. But, at that very instant, the black fish drew the dagger, split open the wall of the pouch with one blow and fled. The pelican cried out in pain and smashed his head on the water but he couldn’t follow after the little fish.

    The black fish went on and on and still farther on until it was noon. The river had passed through the mountains and valleys and now was flowing across a level plain. Several other smaller rivers had joined it from the right and the left, increasing its water greatly. The black fish was enjoying the immensity of the water.

    Soon the fish realized the water had no bottom. The fish swam this way and that way and didn’t touch anywhere. There was so much water that the little fish got lost in it! No matter how far the fish swam, still the water was endless. Suddenly, the fish noticed a large, long creature charging forward like lightening. There was a two-edged sword in front of its mouth. The little fish thought, “The swordfish! He’s going to cut me to pieces this very instant!”

    Quickly the fish jumped out of the way and swam to the surface. After a while the fish went under the water again to look for the bottom. On the way the fish met a school of fish-thousands and thousands of fish.

    “Friend,” said the fish to one of them, “I’m a stranger. I’ve come from far away. Where is this place?”

    The fish called his friends and said, “Look! Another ...” Then replied to the black fish, “Friend, welcome to the sea.”

    Another said, “All rivers and streams flow here, except some which flow into swamps.”
    "You can join our group anytime you wish," said one of the fish.

    The little black fish was happy to have reached the sea and said, “I’d like to travel around first, then I’ll come join your group. I’d like to be with you the next time you pull down the fisherman’s net.”

    “You’ll get your wish soon,” answered one of the fish. “Now go explore. But if you swim to the surface, watch our for the heron who isn’t afraid of anyone these days. She doesn’t stop bothering us till she’s caught four or five fish a day.”

    The black fish then left the group of sea fish and began swimming. A little later the fish came to the surface of the sea. A warm sun was shining. The little black fish enjoyed feeling the sun’s bright rays on its back. Calm and happy, the fish was swimming on the surface of the sea and thinking, “Death could come upon me very easily now. But as long as I’m able to live, I shouldn’t go out to meet death. Of course, if someday I should be forced to face death-as I shall-it doesn’t matter. What does matter is the influence that my life or death will have on the lives of others . . .”

    The little black fish wasn’t able to pursue these thoughts. A heron dived down, swooped up the fish, and carried it off. Caught in the heron’s long beak, the little fish kicked and waved but couldn’t get free. The heron had grabbed the fish’s waist so tightly that its life was ebbing away. After all, how long can a little fish stay alive out of water?

    “If only the heron would swallow me this very instant,” thought the fish, “then the water and moisture inside her stomach would prevent my death at least for a few minutes.”

    The fish addressed the heron with this thought in mind. “Why don’t you swallow me alive? I’m one of those fish whose body becomes full of poison after death.”
    The heron didn’t reply. She thought, “Oh, a tricky one! What are you up to? You want to get me talking so you can escape!”

    Dry land was visible in the distance. It got closer and closer.
    “If we reach dry land,” thought the fish, “all is finished.”
    "I know you want to take me to your children," said the fish, “but by the time we reach land, I’ll be dead, and my body will become a sack full of poison. Why don’t you have pity for your children?”
    "Precaution is also a virtue!" thought the heron. “I can eat you myself and catch another fish for my children. . . but let’s see . . . could this be a trick? No, you can’t do anything.”

    As the heron thought she noticed that the black fish’s body was limp and motionless. “Does this mean you’re dead,” thought the heron. “Now I can’t even eat you! I’ve ruined such a soft and delicate fish for no reason at all!”
    "Hey little one!" she called to the black fish. “Are you still half alive so that I can eat you?”
    But she didn’t finish speaking because the moment she opened her beak, the black fish jumped and fell down.

    The heron realized how badly she’d been tricked and dived after the little black fish. The fish streaked through the air like lightening. The fish had lost its senses from thirst for sea water and thrust its dry mouth into the moist wind of the sea. But as soon as the fish splashed into the water and took a new breath, the heron caught up and this time swallowed the fish so fast that the fish didn’t understand what had happened.

    The fish only sensed that everywhere was wet and dark. There was no way out. The sound of crying could be heard. When the fish’s eyes had become accustomed to the dark, it saw a tiny fish crouched in a corner, crying. He wanted his mother. The black fish approached and said:
    “Little one! . . .Get up! Think about what we should do. What are you crying for? Why do you want your mother?”
    "You there . . .Who are you?" responded the tiny fish. “Can’t you see? ...I’m ...dy...ing. O, me ...oh, my ...oh, oh ...mama ...I ...I can’t come with you to pull the fisherman’s net to the bottom of the sea any more ...oh, oh ...oh, oh!”
    "Enough, there!" said the little fish. “You’ll disgrace all fish.”

    After the tiny fish had controlled his crying, the little fish continued, “I want to kill the heron and find peace of mind to all fish. But first, I must send you outside so that you don’t ruin everything.”

    “You’re dying yourself,” replied the tiny fish. “How can you kill the heron?”
    The little fish showed the dagger. “From right inside here, I’m going to rip open her stomach. Now listen to what I say. I’m going to start tossing back and forth in order to tickle the heron. As soon as she opens her mouth and begins to laugh, you jump out.”
    "Then what about you?" asked the tiny fish.
    “Don’t worry about me. I’m not coming out until I’ve killed this good-for-nothing.”

    The black fish stopped talking and began tossing back and forth and tickling the heron’s stomach. The tiny fish was standing ready at the entrance of the heron’s stomach. As soon as the heron opened her mouth and began to laugh, the tiny fish jumped out and fell into the water. But no matter how long he waited, there wasn’t any sign of the black fish. Suddenly, he saw the heron twist and turn and cry out. Then she began to beat her wings and fell down. She splashed into the water. She beat her wings again, then all movement stopped. But there was no sign of Little Black Fish, and since that time, nothing has been heard.

    The old fish finished her tale and said to her 12,000 children and grandchildren, “Now it’s time to sleep, children. Go to bed.”
    "Grandmother!" exclaimed the children and grand-children, “You didn’t say what happened to that tiny fish.”
    "We’ll leave that for tomorrow night," said the old fish. “Now, it’s time for bed. Goodnight.”
    Eleven thousand, nine hundred and ninety-nine little fish said goodnight and went to sleep. The grandmother fell asleep too. But try as she might, a little red fish couldn’t get to sleep. All night long she thought about the sea .....

    #Iran #littérature #révolution #martyre #héros #contes #enfants

  • Opinion | Two Women, Heroes for Our Age - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2019/03/13/opinion/hathloul-sotoudeh-iran-saudi-arabia.html

    They are women who bravely challenged misogyny and dictatorship, one in Iran, the other in Saudi Arabia. Those two nations may be enemies, but they find common cause in their barbaric treatment of women — and since they are trying to squelch and smother these two women, we should shout their names from the mountaintops.

    Nasrin Sotoudeh, 55, is a writer and human rights lawyer who for decades has been fighting for women and children in Iran. Her family reports that this week she was sentenced to another 33 years in prison, on top of a five-year sentence she is now serving, plus 148 lashes.

    Loujain al-Hathloul, 29, a leader of the Saudi women’s rights movement, went on trial Wednesday after months of imprisonment and torture, including floggings, sexual harassment, waterboarding and electric shocks.

    Her sister Alia al-Hathloul told me that Loujain was finally presented with the charges against her, which included communicating with human rights organizations and criticizing the Saudi “guardianship” system for women.

    I previously suggested that Hathloul should get the Nobel Peace Prize, and she has now been nominated for it. So let me revise my proposal: Hathloul and Sotoudeh should win the Nobel together for their courageous advocacy of women’s rights before rival dictators who share one thing: a cruel misogyny.

    I know I’ll get notes from people who harrumph that the problem is simply Islam. That’s too glib, but it is fair to say that Saudi Crown Prince Mohammed bin Salman and Iranian Ayatollah Ali Khamenei together tarnish the global image of Islam more than any army of blasphemers could.

    “This sentence is beyond barbaric,” the U.S. State Department said of Sotoudeh’s reported sentence. Quite true. But the State Department refuses to be equally blunt in denouncing Hathloul’s torture and imprisonment; that’s because it sees the Saudis as allies and the Iranians as enemies.

    What the Trump administration doesn’t seem to understand is this: If you care about human rights only in countries that you despise, you don’t actually care about human rights.

    Alia al-Hathloul said that her sister was ordered to sign a letter requesting a royal pardon, and did so, and that the torture appears to have ended. I’m hoping that the crown prince is looking for a way to climb down from his brutal mistreatment of the women’s rights activists and will eventually grant the pardon that she “requested.”

    Meanwhile, Iran seems to be cracking down harder. Amnesty International reports that Iran arrested more than 7,000 dissidents last year and that the 38-year combined sentence for Sotoudeh, if true, is the harshest imposed against a human rights defender in Iran in recent years. Iran state media suggested that she had been given a shorter sentence, but Sotoudeh and her family have much more credibility than Iran’s government.

    “The shockingly harsh sentence against her is a signal of just how unnerved the Iranian authorities have become,” Kumi Naidoo, the secretary general of Amnesty International, told me. He noted that women’s rights activists in Iran have become bolder, sometimes waving their head scarves on a stick and posting videos on social media.

    “With this cruel sentence, the Iranian authorities appear to be seeking to make an example of Nasrin Sotoudeh and to intimidate other women’s rights defenders,” he said.

    Sotoudeh’s husband, Reza Khandan, was separately sentenced in January to six years in prison, for posting updates about his wife’s case on Facebook. The couple has two children, a 12-year-old son named Nima and a 19-year-old daughter named Mehraveh. Hadi Ghaemi of the Center for Human Rights in Iran said that relatives may now have to raise Nima and Mehraveh.

    “My dearest Mehraveh,” Sotoudeh once wrote her daughter from prison, “you were my main motivation for pursuing children’s rights. … Every time I came home from court, after having defended an abused child, I would hold you and your brother in my arms, finding it hard to let go of your embrace.”

    #femmes #héros #arabie_saoudite #iran

  • #Masculins, est-ce ainsi que les #hommes se vivent

    Interroger le genre : « C’est quoi un garçon ? »

    C’est quoi, être un homme ? Ici, nous nous interrogeons sur ce qu’est un #garçon, « l’Autre », dont on perçoit la différence biologique et l’étrange ressemblance.

    https://www.franceculture.fr/emissions/lsd-la-serie-documentaire/masculins-est-ce-ainsi-que-les-hommes-se-vivent-14-interroger-le-genre


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    Combattre les #héros, construction-déconstruction de la #virilité

    Du vir latin à l’andrea grec, comment les #valeurs_masculines demandées (la #force_physique, le #courage guerrier, la #puissance sexuelle) ont-elles traversé l’#histoire viriliste, de l’Antiquité à nos jours ?

    https://www.franceculture.fr/emissions/lsd-la-serie-documentaire/masculins-est-ce-ainsi-que-les-hommes-se-vivent-24-combattre-les-heros

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    Eduquer les fils, l’#apprentissage du masculin

    Dans la famille, à l’école, dans la société, comment s’opère la transmission autour de la masculinité ?

    https://www.franceculture.fr/emissions/lsd-la-serie-documentaire/masculins-est-ce-ainsi-que-les-hommes-se-vivent-34-lenigme-du-masculin


    #éducation

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    Etre un homme, masculinités plurielles

    Après la révolution féministe, des hommes « ordinaires » dévoilent avec générosité une parole intime sur leur #condition_masculine.

    https://www.franceculture.fr/emissions/lsd-la-serie-documentaire/masculins-est-ce-ainsi-que-les-hommes-se-vivent-44-etre-un-homme-mascu


    #pluralité

    #masculinité #masculin

  • Cette photo d’un Palestinien protestant contre le blocus de Gaza est devenue virale
    Al HuffPost Maghreb - Par Salma Khouja - 25/10/2018
    https://www.huffpostmaghreb.com/entry/cette-photo-dun-palestinien-protestant-contre-le-blocus-de-gaza-est

    PALESTINE - Une photo déjà iconique. Alors qu’un groupe de palestiniens protestait contre le blocus maritime de la bande de Gaza, le 22 octobre dernier, le photographe de l’agence de presse turque Anadolu, Mustafa Hassouna, saisit les affrontements opposant les manifestants aux soldats de l’armée israélienne. Parmi les photos de Mustafa Hassouna, l’image ci-dessous, d’A’ed Abu Amro, 20 ans, devient virale.

    Interrogé par Al Jazeera, le jeune homme se dit surpris de la viralité de cette photo. “ Je ne vais pas à des manifestations pour pour me faire prendre en photo, mais cela m’encourage à continuer de manifester”, dit-il, précisant qu’il “manifeste toutes les semaines, et toujours accompagné de son drapeau. “Mes amis se moquent de moi, me disent que ce serait plus facile de jeter des pierres sans mon drapeau à la main, mais je m’y suis habitué (...) Si je meurs, je veux être enroulé dans ce drapeau. Nous réclamons notre droit au retour, et manifestons pour notre dignité et celle des générations à venir ”.

    Liberté guidant le peuple

    Largement partagé sur les réseaux sociaux, la photo n’a pas manqué de rappelé une célèbre toile à de nombreux internautes, qui comparent la photo au tableau de Delacroix, “La Liberté guidant le peuple” :

  • « Je ne m’assieds pas » : elle bloque le décollage pour empêcher l’expulsion d’un migrant
    https://www.lemonde.fr/immigration-et-diversite/video/2018/07/25/je-ne-m-assieds-pas-une-etudiante-suedoise-empeche-l-expulsion-d-un-afghan-e

    Pour éviter qu’un demandeur d’asile soit renvoyé par avion en Afghanistan, Elin Erson, une étudiante suédoise de 22 ans, a acheté un billet sur le même vol, lundi 23 juillet, au départ de Göteborg en Suède. Une fois à bord, elle a refusé de s’asseoir, empêchant l’avion de décoller. « Je ne vais pas m’asseoir avant que cette personne soit descendue de cet avion », a-t-elle prévenu.

    Pendant de longues minutes, elle a diffusé son action en direct sur Facebook. « Il se fera certainement tuer s’il reste dans cet avion », a-t-elle répété aux passagers et au personnel de bord agacés. Peu à peu, elle a reçu le soutien de voyageurs, qui se sont levés à leur tour. L’Afghan de 52 ans a finalement été débarqué de l’avion, et son expulsion provisoirement reportée.

    #brava #résistance à #loi_scélérate #tou·tes_debout

  • L’histoire de #Valon_Behrami, joueur de l’équipe nationale suisse de #football (la #Nati)...

    "Le maillot rouge à croix blanche, #Behrami, a bien failli ne jamais l’enfiler. Pour fuir la guerre en #ex-Yougoslavie, sa famille avait trouvé refuge au #Tessin. Mais en 1995, le petit Valon a 10 ans et avec sa soeur et ses parents il fait l’objet d’une procédure d’#expulsion.

    Interview de l’époque, tirée des archives de la télé suisse.

    Question : Tu penses quoi de cette décision de renvoi ?
    Réponse de Behrami : Je ne voudrais pas partir. J’ai tout appris ici. A lire, à écrire.

    Une mobilisation populaire fera plier l’administration. 23 ans après, Valon Behrami est le premier footballeur suisse à disputer 4 coupes du monde.

    https://www.rts.ch/play/tv/19h30/video/suisse-bresil-valon-behrami-lhomme-du-match--il-a-remporte-son-duel-face-au-joue
    #asile #migrations #réfugiés #Suisse

    • A mettre en lien avec cet autre #héros_national, #Shaqiri :
      RTS | La Suisse et ses héros nationaux

      Regardez cette balle de la 6ème minute. Le ballon qui s’envoute, qui frôle le fer. Une seconde seulement, qui libère tout un pays, et un homme aussi : Shaqiri. Un seul homme, un autre Suisse, un autre héros avait jusque-là réussi à tirer pareil. C’était Guillaume Tell. (…) Techniquement parfait, sur ce coup-là Shaqiri a mérité son statut de héros national. (…) Oui, bien sûr, il y a le talent, mais quand on est capable de mettre trois buts dans un match de Coupe du monde, c’est qu’il y a autre chose. Il y a du papa et maman, des mots que seul un fils connaît. La Suisse aujourd’hui serait bien inspirée de dire merci à toute la famille Shaqiri.

      https://asile.ch/2014/07/12/rts-la-suisse-et-ses-heros-nationaux

    • Suisse-Brésil | Valon Behrami, l’homme du match. A 10 ans, il avait échappé à un renvoi grâce à une mobilisation citoyenne

      “Le maillot rouge à croix blanche, Behrami, a bien failli ne jamais l’enfiler. Pour fuir la guerre en ex-Yougoslavie, sa famille avait trouvé refuge au Tessin. Mais en 1995, le petit Valon a 10 ans et avec sa soeur et ses parents il fait l’objet d’une procédure d’expulsion.” Suite au match nul lors du match Suisse-Brésil, le 19h30 revient sur le parcours du joueur, avec une interview de l’époque, tirée des archives de la télévision.

      https://asile.ch/2018/06/19/suisse-bresil-valon-behrami-lhomme-du-match-a-10-ans-il-echappe-a-un-renvoi-gr

    • La maglia racchiude passato e identità

      Le storie di Xhaka e Shaqiri stanno facendo il giro del mondo. Eppure, la storia dei due calciatori, uno nato a Basilea, l’altro a Gjilan, in Kosovo, entrambi figli di profughi, sta facendo sognare una nazione intera. L’eventuale connotazione “politica” del gesto dell’aquila può fare discutere. Ma ha comunque aperto dibattiti. Diciamolo in maniera chiara e onesta: in qualsiasi partita, e non solo, anche dove si prevedono comportamenti disciplinati da cerimoniali rigidi, assistiamo a gesti e parole ben più gravi, da condannare senza se e senza ma. Francamente, quello che colpisce di queste ore non è la discussione sul gesto, ma l’assenza di discussione sul significato.
      Tecnicamente i due hanno segnato reti non casuali, ma volute e cercate con rabbia. Con quel sentimento che quando si manifesta in un gesto tecnico non necessita di parole o di analisi. È tale e così va interpretato. Quando al 52’ stai perdendo contro una squadra sulla carta più forte di te, non pensi che ti trovi a più di 20 metri dalla porta con davanti un’area affollata, se arrivi a scaricare un sinistro così violento ci metti dentro ben altro. Ci metti il cuore. Allo stesso modo, al 90’, non corri da quasi metà campo se non hai motivazioni che vanno ben oltre il gesto tecnico. In quei pochi secondi Shaqiri probabilmente stava rivivendo ferite profonde, che non si cancellano con il politically correct.
      Il calcio, come lo sport in generale, è anche politica, nella misura in cui riesce a mettere insieme, in una competizione come i Mondiali, Paesi che nella quotidianità si combattono, ma che condividono le regole del gioco. E i precedenti non mancano. Come dimenticare la mano de Dios durante Inghilterra-Argentina, dopo la tragedia delle isole Falkland. Chi scende in campo non rappresenta solo la maglia che indossa, solo un popolo. Rappresenta anche se stesso e la sua storia. È per queste ragioni che l’impresa rossocrociata va oltre una partita di calcio. Intanto, perché è stata compiuta dalla nazionale più cosmopolita del mondiale. E poi, perché una nazione intera, anche chi a ogni piè sospinto brandisce il vessillo del “prima i nostri” e del “rispediamoli a casa loro”, ha gioito grazie a due calciatori figli di profughi. E poi cosa c’è di male nel sentirsi svizzeri e kosovari allo stesso tempo? C’è chi metterebbe in dubbio qualcuno che si sentisse svizzero e italiano, svizzero e francese, o americano?
      Probabilmente, quello che è accaduto ci dice anche altro: l’identità di una persona non è statica, fissa e rigida, ma un divenire legato al vissuto. In altre parole, complessa e multipla e, per questa ragione, ancora più ricca e in grado di far sognare.


      http://www.caffe.ch/stories/cronaca/60740_la_maglia_racchiude_passato_e_identit
      #maillot #identité

    • Coupe du monde. Entre la Serbie et l’Albanie, les signes qui fâchent

      Le match de Coupe du monde qui opposait la Serbie à la Suisse, vendredi 22 juin, a pris une tournure très politique. L’équipe helvétique compte six joueurs originaires des Balkans, ainsi que le sélectionneur, Vladimir Petkovic. Pendant la rencontre, deux de ces joueurs ont fait un étrange signe de la main pour célébrer leurs buts : celui de l’aigle bicéphale.

      Si Granit Xhaka et Xherdan Shaqiri ont fait ce geste, c’est pour provoquer leurs adversaires serbes : l’#aigle_bicéphale est le symbole de la “#Grande_Albanie” ou “#Albanie_ethnique”, c’est-à-dire les territoires revendiqués par les irrédentistes albanais bien qu’ils aient été attribués à la Serbie, au Kosovo ou encore à la Macédoine et au Monténégro à l’issue des guerres balkaniques.

      Le 25 juin, la Fifa a infligé une amende à chacun des deux joueurs, d’un montant de 8 500 euros chacun, ainsi qu’à leur capitaine, Stephan Liechsteiner (4 000 euros). Une cagnotte en ligne, ouverte le soir même, a remporté un rapide succès. Si bien que, dès le lendemain matin, la totalité des dons couvrait déjà le montant des amendes, rapporte le site suisse Ticinonews.


      https://www.courrierinternational.com/dessin/coupe-du-monde-entre-la-serbie-et-lalbanie-les-signes-qui-fac
      #symbole