• Te défendre face à la CAF 1/... - by Clément TERRASSON
    https://terrassonavocat.substack.com/p/te-defendre-face-a-la-caf-1

    Les recours contre les CAF : état des lieux

    Chaque année, les #CAF rendent des millions de décisions administratives.

    En 2022, sur ces millions de décisions, les 42 tribunaux administratifs en ont étudié… 31 354* :

    *13 % de 241 187. Source : Les chiffres clés de la Justice, Edition 2023

    Le taux de recours contentieux contre les décisions des CAF est très inférieur à 1 %.

    Pourtant, une grande partie d’entre elles sont critiquables, voire illégales.

    Alors pourquoi, pourquoi, tant de non-droit ?

    Te défendre face à la CAF... 2/ - by Clément TERRASSON
    https://terrassonavocat.substack.com/p/te-defendre-face-a-la-caf-2

    1.Contester le bien-fondé de l’indu à titre principal ET demander la remise de dette à titre subsidiaire

    Sois sur deux plans astraux/contentieux simultanément.

    Les CAF veulent te faire croire que tu dois choisir entre contester l’indu et demander une remise de dette.

    Elles mentent.

    Tu peux faire les deux.

    C’est souvent une très bonne stratégie.

    Alors, dans un contentieux contre la CAF, pense à :

    “A titre principal : contester le bien-fondé de l’indu ;
    A titre subsidiaire : demander la remise de dette totale de l’indu”.
    Comment ?

    En écrivant cette formule sur le courrier que tu vas envoyer à la #CAF en LRAR.

    OU

    En barrant l’expression fausse “Un seul choix possible” du formulaire de la CAF et en numérotant tes demandes.

    [...]

    La prémonition : la CAF va commettre une faute.

    En droit, toute illégalité commise par une administration est fautive et peut être réparée financièrement.

    En pratique, les #illégalités des CAF se multiplient : accusation à tort de fraude, méconnaissance de l’effet suspensif de recours, retenues disproportionnées…

    Pourtant, peu d’#allocataires demandent réparation pour ces fautes, qui peuvent être tragiques.

    Comment faire ?

    Il te suffit de faire figurer sur tous tes courriers la demande suivante :

    “Demande indemnitaire préalable : en raison des fautes commises dans la gestion de mon dossier, je vous demande de réparer mon préjudice moral et mes troubles dans mes conditions d’existence en me versant la somme de X euros”.

    3/ Les procédures d’urgence possibles
    https://terrassonavocat.substack.com/p/te-defendre-face-a-la-caf-3
    4/ Fais passer la CAF à la caisse
    https://terrassonavocat.substack.com/p/te-defendre-face-a-la-caf-44

    #indu #dette #se_défendre #Demande_indemnitaire_préalable #recours_contentieux

  • Torna in Italia, con visto di ingresso, “A”, rifugiato sudanese respinto nel 2018

    “A” arriva in Italia oggi, 25 dicembre, con un volo di linea e un regolare visto di ingresso ottenuto nell’ambito del procedimento giudiziale, dopo essere rimasto 6 anni privo di ogni forma di protezione. Così ha deciso il Tribunale Civile di Roma. Ecco la storia raccontata dai suoi avvocati e avvocate. Esiste infatti un diritto che non può essere bloccato dai “respingimenti collettivi”.

    Era stato riportato in Libia insieme a più di 270 persone dal mercantile Asso 29 con il
    sostegno dalle autorità italiane. Il Tribunale Civile di Roma ha riconosciuto la illegittimità di questa condotta, stabilendo il diritto di «A» a entrare in Italia.

    Questo arrivo ha un eccezionale significato simbolico: rende effettivo il diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sistematicamente violato dalle pratiche di respingimento nel Mediterraneo dove le autorità italiane, anche con la complicità di società private, ostacolano l’arrivo via mare di coloro che cercano protezione in Europa.

    «A» faceva parte di un gruppo di oltre 270 persone respinte illegalmente in Libia tra il 30 giugno e il 2 luglio 2018 tramite il mercantile italiano Asso 29 di proprietà della Augusta Offshore, con sede a Napoli. L’episodio è stato eseguito su ordine e con il coordinamento delle autorità italiane operanti in Libia. Il Tribunale civile di Roma ha accertato la dinamica illecita del respingimento, avvenuto in violazione dei princìpi sanciti dalla giurisprudenza delle corti internazionali che avevano già condannato l’Italia per quanto accade nel Mediterraneo. L’intercettazione dei migranti e il successivo respingimento illegittimo – ha inoltre accertato il Tribunale – sono il risultato del contributo logistico, di supporto e coordinamento fornito delle autorità italiane. Questa condotta ha quindi violato le “obbligazioni positive” che impongono agli Stati di prevenire atti di tortura o trattamenti inumani.

    Durante le operazioni di salvataggio, le autorità intervenute e i comandanti delle navi coinvolte devono sempre garantire che i naufraghi siano sbarcati in un luogo sicuro, indipendentemente da chi coordini effettivamente le attività di soccorso. Nel caso della Asso 29, infatti, questo principio non viene meno neppure se intervengono le autorità libiche o se la richiesta di soccorso proviene da esse, come già affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza sul caso della Asso 28 (della medesima società armatrice).

    L’arrivo di «A» è il risultato di una battaglia legale che ha portato il Tribunale di Roma a ribadire un principio fondamentale: le persone respinte devono vedersi reintegrato il loro diritto all’asilo mediante la possibilità di entrare materialmente in Italia e presentare la domanda di protezione internazionale. Solo così si può evitare il prodursi di uno svuotamento degli obblighi di protezione. Il caso è stato seguito da un ampio collegio difensivo () dell’Asgi con il sostegno del progetto Oruka1 dell’associazione e del Josi&Loni Project. Insieme queste associazioni hanno ricostruito e documentato l’evento e sono riuscite a ottenere finalmente giustizia, seppure le sentenze siano state appellate. Ancora molte delle persone respinte si trovano fuori dall’Unione europea senza alcuna forma di protezione.
    (
    ) Di cui fanno parte i seguenti avvocati: Giulia Crescini, Cristina Laura Cecchini, Lucia Gennari, Luca Saltalamacchia, Salvatore Fachile, Ginevra Maccarrone, Loredana Leo.

    DICHIARAZIONI DELLE LEGALI E DELLE ASSOCIAZIONI

    “Il Tribunale di Roma con le decisioni sul caso Asso 29 ha messo in luce la palese illegittimità di quello che è tutt’altro che un caso isolato. Ogni giorno nel Mediterraneo le autorità italiane realizzano un contributo fondamentale affinché le persone vengano intercettate e riportate in Libia spesso con la collaborazione di attori privati che realizzano la condotta materiale illecita di riconsegnare le persone in fuga alle autorità libiche”, hanno affermato Cristina Laura Cecchini e Lucia Gennari del progetto Sciabaca e Oruka di Asgi.

    “Senza la fondamentale attività di ricostruzione e documentazione dei fatti del JL project e dei suoi attivisti non sarebbe stato possibile fare giustizia. Questo ci ricorda come i diritti delle persone, soprattutto nel Mediterraneo, necessitano di quella fondamentale attività di monitoraggio e documentazione che oggi le autorità italiane vorrebbero ostacolare anche attraverso la criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che operano i soccorsi in mare” aggiungono Giulia Crescini e Ginevra Maccarrone del collegio difensivo. “«A»è il primo ad ottenere giustizia. Il primo tra oltre seicento persone che il JL Project ha rintracciato e identificato come vittime di respingimenti illegali nei lager libici compiuti dal governo italiano. Il suo arrivo, oggi, è un meraviglioso inizio”, commenta Sarita Fratini del JL Project.

    La condotta tenuta dallo Stato italiano, dall’armatore e dal capitano della nave ha determinato la violazione di numerose norme di diritto interno, internazionale e comunitario e dei diritti fondamentali dei cittadini stranieri sottoposti a rimpatrio. Come è emerso nell’ambito del procedimento le autorità italiane hanno determinato l’intercettazione di persone in fuga dalla Libia e hanno fornito un contributo essenziale che ha determinato il respingimento operato dal Comandante della nave Asso 29 che ha ricondotto i migranti nel porto di Tripoli. Le autorità italiane, attraverso una serie concatenata di comportamenti illegittimi, hanno reso possibile il respingimento. Tali condotte sono state realizzate nonostante la piena consapevolezza degli abusi e delle violazioni sistematiche che avvengono nei centri di detenzione libici e del rischio di refoulement nel Paese di origine a cui i migranti sono esposti in Libia.

    Infatti tra il 30 giugno e il 2 luglio 2018 con il materiale sostegno delle autorità italiane, la “guardia costiera libica” per mezzo di una delle motovedette fornitegli dall’Italia ha effettuato una serie di intercettazioni in mare. Nel corso delle operazioni coordinate dalle autorità italiane era presente anche la Nave Duilio che, nonostante il sovraffollamento della motovedetta libica e le condizioni meteo in arrivo decideva di non effettuare il soccorso per non portare le persone in Italia. A seguito dell’avaria della motovedetta libica la nave Caprera della Marina Militare ordinava alla Asso 29 di intervenire. Tutte le persone salite a bordo della nave della società privata venivano ricondotte in Libia. Per tali motivi e per gli specifici diritti e obblighi violati, la situazione è stata dichiarata illegittima dal Tribunale di Roma e ha portato all’accertamento del diritto all’ingresso di «A».

    Quanto avvenuto il 25 dicembre a Fiumicino è facilmente comparabile con quello che ha portato la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia nel caso Hirsi Jamaa e altri. Si tratta di una situazione estremamente comune ed ancora oggi tristemente attuale nel Mediterraneo dove quotidianamente persone intercettate vengono respinte in Libia con il supporto fondamentale dell’Italia.

    Il diritto di ingresso sul territorio come presupposto necessario per l’esercizio del diritto di asilo. Il respingimento ha in primo luogo determinato l’impossibilità per i cittadini stranieri di chiedere asilo, in violazione della Convenzione di Ginevra e dell’articolo 10 della Costituzione italiana. La limitazione della libertà di circolazione ha infatti come diretta conseguenza il mancato accesso alla protezione internazionale e all’asilo. Il presupposto necessario del diritto di asilo è evidentemente il diritto di accesso al territorio che è stato negato ai cittadini stranieri attraverso il respingimento in questione.

    Il divieto di respingimenti collettivi. Per la dinamica del respingimento è evidente che in nessun momento le autorità italiane, seppur responsabili dell’operazione, hanno condotto un’analisi della situazione individuale dei cittadini stranieri per valutare l’esistenza di rischi connessi al rimpatrio. L’assenza di questa valutazione determina la violazione del divieto di respingimenti collettivi stabilito dall’articolo 4 del protocollo addizionale 4 alla Convenzione europea per i diritti umani e dell’articolo 19 del Testo unico sull’immigrazione che vieta il rimpatrio verso uno Stato in cui la persona rischia di subire torture o persecuzioni. Oltre ai rischi corsi in Libia, le autorità italiane avrebbero dovuto valutare anche i rischi connessi a un eventuale rimpatrio dalla Libia all’Eritrea, Paese di origine dei ricorrenti. Inoltre occorre tenere presente che il respingimento collettivo verso uno Stato come la Libia, impedisce alla radice qualunque accesso alla giustizia e qualunque diritto a vedere la propria posizione esaminata in maniera effettiva da un organo indipendente.

    La violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Come dimostrato dalle vicende dei ricorrenti, il respingimento ha determinato la loro esposizione al rischio di tortura e trattamenti inumani e degradanti, vietati dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel momento in cui è avvenuto il respingimento, erano ben note le condizioni a cui sarebbero stati sottoposti i naufraghi al loro ritorno in Libia. In proposito, la Corte europea dei diritti umani ha chiarito, nella sentenza del caso Hirsi Jamaa, come la proibizione della tortura sia assoluta e inderogabile: le istanze di controllo della migrazione o le eventuali situazioni di emergenza non legittimano in alcun modo condotte che espongono le persone a tali rischi.

    Il diritto a essere condotti in un luogo sicuro (POS). Le norme internazionali relative al diritto del mare (UNCLOS, Convenzione SAR, Convenzione SOLAS) stabiliscono che i soggetti coinvolti in un soccorso – in questo caso Stato italiano, armatore e capitano della nave – si liberano della loro responsabilità solo conducendo le persone soccorse in un “luogo sicuro”. A questo obbligo corrisponde lo speculare diritto delle persone soccorse. La nozione di luogo sicuro non è limitata alla sola protezione fisica delle persone, ma comprende anche il rispetto dei loro diritti fondamentali, come stabilito dalla Risoluzione 1821 del 2011 del Consiglio d’Europa. Il luogo è quindi da intendersi sicuro ove non sussista il rischio che la persona sia soggetta a tortura, trattamenti inumani e degradanti, dove non è a rischio la sua vita e la sua libertà. Alla luce di questa definizione, Tripoli non può in alcun modo essere considerato un posto sicuro per i cittadini stranieri: sono infatti note le dinamiche sistematiche e istituzionali di detenzione arbitraria, tortura ed estorsione.

    I fatti del 2018. «A» era arrivato nel Paese dopo aver lasciato il Sudan, nel tentativo di trovare protezione. In Libia, tuttavia, ha subìto abusi e gravi violazioni dei propri diritti. Il 30 giugno 2018 aveva così deciso di partire, sperando di riuscire a giungere in Europa e ottenere finalmente protezione.
    Dopo circa un giorno in mare, il gommone sul quale «A» era imbarcato aveva iniziato a mostrare segni di cedimento e la navigazione si era fatta estremamente difficoltosa. Una delle persone a bordo era riuscita a contattare via radio la Guardia costiera italiana e a chiedere soccorso. Le autorità italiane non erano intervenute direttamente nonostante fosse presente in mare anche la nave Duilio della Marina Militare che avrebbe potuto effettuare il soccorso. Al contrario, si erano messe in contatto con la motovedetta libica Zuwarah, che aveva raggiunto il gommone quando questo era già affondato. La Zuwarah aveva operato il salvataggio dellɜ 18 superstiti, tra lɜ quali «A», coadiuvata dall’elicottero della Marina militare italiana Eliduilio.

    Con il supporto e il coordinamento delle autorità italiane la Zuwarah, donata ai libici dall’Italia, aveva portato a termine ulteriori intercettazioni con un conseguente incremento del numero di persone a bordo della motovedetta (262 secondo il resoconto della stessa Augusta Offshore nel corso del giudizio). La motovedetta libica, a causa del sovraffollamento e delle condizioni meteomarine avverse, non poteva proseguire la navigazione. Le autorità italiane a bordo della nave militare Caprera, di stanza nel porto di Tripoli, diedero istruzione al comandante della Asso 29 di prestare assistenza alla Zuwarah. L’imbarcazione privata era in quel momento sulla rotta che da Tripoli la conduceva alla piattaforma petrolifera Bouri Field, tra le più grandi del Mediterraneo.

    La Asso Ventinove giunse sul posto, dove era presente anche la nave della Marina Militare italiana di stanza a Tripoli “Duilio”, che a sua volta agiva seguendo le indicazioni provenienti dalla Marina italiana. I passeggeri furono così trasferiti sull’imbarcazione privata. Quando le operazioni di trasbordo si conclusero, la Asso Ventinove si diresse verso Tripoli, trascinando a rimorchio anche la motovedetta libica. A bordo della Asso Ventinove salì anche un ufficiale libico, che, alla presenza del capitano della nave, comunicò ai naufraghi che se non avessero protestato sarebbero stati condotti in Italia. L’ufficiale, per tutta la traversata, si occupò dell’organizzazione dei naufraghi. Il 2 luglio la nave arrivò dinanzi al porto di Tripoli dove consegnò lɜ naufraghɜ alle autorità libiche che li condussero a terra su imbarcazioni più piccole. La Asso Ventinove, terminati i trasbordi, riprese la sua rotta originaria.

    Dal procedimento giudiziale sono emerse le seguenti indiscutibili circostanze:

    - Le intercettazioni dei naufraghi da parte dell’autorità libica sono il risultato dell’attività di supporto e coordinamento delle autorità italiane. Sono le stesse che hanno effettivamente rintracciato le imbarcazioni in distress e che, nonostante la vicinanza, hanno scientemente deciso di non intervenire facilitando l’arrivo della motovedetta libica per evitare di essere costrette a portare le persone in Italia.
    - La #Asso_29 è intervenuta su richiesta delle autorità italiane che, come quotidianamente accade nel Mediterraneo, forniscono istruzioni dichiarando formalmente di agire “per conto” delle autorità libiche.
    - Le autorità italiane avrebbero dovuto intervenire in adempimento alle obbligazioni positive imposte dalla legge ed evitare che le persone fossero riportate in Libia.

    Cosa accadde ai naufraghi ricondotti in Libia? Dopo lo sbarco «A» e le altre persone respinte furono arbitrariamente detenute in diversi centri: Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan. Tutti – uomini e donne – furono sottopostɜ a condizioni di vita atroci: sovraffollamento, cibo e acqua insufficienti, condizioni igieniche drammatiche e scarse possibilità di uscire all’aria aperta. In queste condizioni furono maltrattatɜ, abusatɜ, fu loro estorto denaro, assistettero a omicidi e torture.

    https://www.pressenza.com/it/2024/12/torna-in-italia-con-visto-di-ingresso-a-rifugiato-sudanese-respinto-nel-2

    #justice #Italie #refoulement #Libye #pull-back #migrations #réfugiés #asile #Méditerranée #réfugiés_soudanais #refoulements_collectifs #illégalité #sauvetage #port_sûr #Asso_28 #gardes-côtes_libyens #Hirsi_Jamaa #droit_d'asile

  • Une année 2024 parsemée d’embûches en technologie Stéphanie Dupuis - Radio Canada

    Le domaine des technologies a connu quelques échecs en 2024, dont la panne de CrowdStrike, le Humane AI Pin et l’Apple Vision Pro.

    Entre les licenciements massifs, une panne informatique mondiale et des gadgets d’intelligence artificielle inachevés, les 12 derniers mois n’ont pas été des plus prolifiques dans la sphère technologique.

    Des licenciements massifs
    L’année a été particulièrement difficile pour les industries technologiques, dont celle du jeu vidéo.

    “Il n’y a pas un mois où on n’a pas annoncé de licenciements dans le monde de la technologie et des jeux vidéo. Je pense qu’il n’y a pas un studio qui n’a pas été affecté par des coupures et des licenciements”, dit Carl-Edwin Michel, chroniqueur techno.

    L’industrie québécoise a aussi été éclaboussée par la révision à la baisse des crédits d’impôt pour les studios de jeux vidéo, annoncée en mars par le ministre des Finances, Eric Girard.

    C’est vraiment dommage, car ça affectera beaucoup de studios de jeux vidéo.

    D’après la Guilde du jeu vidéo du Québec, la simple annonce du budget Girard a déjà freiné l’élan de studios internationaux qui comptaient investir dans la production locale.

    “J’espère qu’ils vont changer de cap, mais pour l’instant, ça en est au point mort”, déplore-t-il.

    La panne mondiale de CrowdStrike
    Un bilan de fin d’année en technologie ne serait pas digne de ce nom s’il ne comprenait pas le cafouillage entourant la panne mondiale de CrowdStrike sur les appareils de Microsoft.

    Un problème dans un système de tests de mise à jour a causé une anomalie qui a paralysé quelque 8,5 millions d’ordinateurs dans le monde, dont plusieurs ont nécessité l’intervention manuelle d’équipes techniques en informatique.

    Au Canada, les douanes, les hôpitaux, les banques, les marchés boursiers ainsi que les télécommunications et les médias ont été touchés.

    Des avions ont été cloués au sol pendant la panne informatique.

    Le secteur aérien aussi : la compagnie Delta Air Lines a dû annuler des milliers de vols et a mis des semaines à se remettre de la panne. Ces délais lui ont valu une convocation au Congrès américain, au même titre que CrowdStrike, afin d’aborder ces déboires informatiques.

    Des actionnaires de la firme de cybersécurité ont aussi entamé un recours collectif contre l’entreprise, se sentant trompés quant à la fiabilité de ses tests logiciels.

    CrowdStrike devrait encore faire couler de l’encre en 2025.

    L’IA nous en a fait voir de toutes les couleurs
    En technologie, janvier rime souvent avec innovation, puisque c’est à ce moment que se tient l’important salon mondial Consumer Electronics Shows (CES).
    Début 2024, ce sont des gadgets portatifs alimentés par l’intelligence artificielle (IA) qui ont volé la vedette de cette grand-messe de l’industrie : le Humane AI Pin et le Rabbit R1.

    Le Rabbit R1 est un appareil de poche qui peut recevoir des commandes en langage naturel et avec lequel on navigue au moyen d’une roulette. Le Humane AI Pin, pour sa part, se porte sur les vêtements, est doté d’une caméra et utilise la projection et les mains pour interagir avec le système.

    Ces deux gadgets, issus de jeunes pousses, devaient remplacer notre téléphone intelligent, mais il n’en a rien été, selon Carl-Edwin Michel.

    On se rend compte que des entreprises ont surfé sur la vague de l’IA avec toutes sortes de gadgets qui ne font pas [le poids].
    Une citation de Carl-Edwin Michel, chroniqueur techno

    L’IA a également été au cœur de nombreuses mobilisations, notamment judiciaires, pour violation de droit d’auteur. Des médias canadiens se sont également unis pour s’en prendre à OpenAI, qu’ils accusent d’utiliser leurs contenus en ligne sans leur consentement pour entraîner son outil ChatGPT.

    Le quotidien américain The New York Times, déjà en poursuite judiciaire contre OpenAI et Microsoft depuis 2023, a aussi mis en demeure Perplexity AI afin que l’entreprise cesse de piller ses contenus. La Recording Industry Association of America (RIAA) a pour sa part porté plainte contre Suno et Udio, deux outils qui permettent de générer de la musique à partir d’une simple requête.

    Si l’IA n’a pas chamboulé les élections américaines de la manière dont on le croyait, elle a tout de même “été utilisée à mauvais escient sur les réseaux sociaux”, note le chroniqueur techno. “Des personnes comme Elon Musk, qui a utilisé l’IA pour abriter et créer de fausses nouvelles sur son réseau social X, avec de fausses images de Kamala Harris, par exemple [...] je trouve ça déplorable.”

    Déception pour l’Apple Vision Pro
    Le casque de réalité mixte d’Apple, le Vision Pro, était attendu depuis longtemps par les adeptes du métavers. Vendu au Canada au prix de 5000 $ plus taxes, beaucoup ont rapidement déchanté… dont Carl-Edwin Michel.

    On s’est rendu compte que ce casque n’a rien d’extraordinaire, à part le prix qui, lui, est extraordinaire.
    Une citation de Carl-Edwin Michel, chroniqueur techno

    Le coup de grâce pour Apple a été le fait que le casque Meta Quest 3, lancé en octobre 2023, soit “capable de faire plus ou moins les mêmes choses, à une fraction du prix”, souligne le chroniqueur techno, qui a pu tester les deux appareils.

    La présence du géant américain Meta depuis des années dans le créneau des expériences immersives lui offre une longueur d’avance pour créer des partenariats et des applications pour ses appareils – l’une des principales critiques formulées à l’égard du casque d’Apple est un manquement à ce chapitre.

    Le chroniqueur reconnaît néanmoins que la qualité d’image du produit d’Apple est nettement supérieure à celle de son adversaire. “Même si l’expérience est de meilleure qualité du côté du Vision Pro, à application identique, je vais préférer le Meta Quest et payer moins cher”, ajoute-t-il.

    Les attentes étaient élevées pour l’Apple Vision Pro, surtout “qu’un Québécois a été impliqué dans son développement”, ajoute-t-il. Apple a racheté la jeune pousse montréalaise VrVana et sa technologie de réalité mixte pour plus de 30 millions de dollars en 2017.

    Des abonnements de plus en plus chers
    Disney+, Spotify, Netflix… Pratiquement tous les services de diffusion en continu ont connu des hausses de tarifs, ou des changements aux formules d’abonnement qui ont eu des répercussions sur le portefeuille de la population canadienne en 2024.

    L’abonnement premium à Disney+, par exemple, est passé de 120 $ à 160 $ par an. Celui de Spotify a connu une hausse de 24 % en décembre. Netflix, pour sa part, a débranché pour de bon sa formule de base sans publicités, forçant les gens à payer plus cher pour l’offre semblable, ou moins cher pour une offre avec publicités.

    On a décidé de couper le câble, car les applications, c’est l’avenir. [...] On en est à repenser si ça en vaut encore la peine.
    Une citation de Carl-Edwin Michel, chroniqueur techno

    “C’est courant, dans la culture tech, d’offrir un service pas très cher et pratique au début, comme Airbnb. Mais que dès que la masse critique embarque, on augmente les prix”, explique-t-il.

    Le chroniqueur techno se réjouit tout de même de voir émerger des solutions de rechange, moins chères, avec publicités, comme c’est le cas pour Netflix et Crave, par exemple.

    Les géants des réseaux sociaux esquivent certaines responsabilités
    TikTok Canada et Meta devaient être entendues à la Commission spéciale sur les impacts des écrans et des réseaux sociaux sur la santé et le développement des jeunes (CSESJ) une première fois fin septembre. L’audition a été reportée à la fin novembre.

    Entre-temps, la filiale canadienne de TikTok a été dissoute par Ottawa, évoquant “des risques pour la sécurité nationale” et annulant du même coup sa présence à la nouvelle séance. Meta s’est désistée à son tour quelques jours plus tard, forçant l’annulation de l’audition.

    C’est important que ces plateformes, qui sont très importantes au Québec et au Canada [...] soient redevables.
    Une citation de Carl-Edwin Michel, chroniqueur techno

    À cela s’ajoute le blocage des nouvelles sur les plateformes de Meta, maintenu depuis plus d’un an, et dont les discussions sont au point mort entre l’entreprise et le gouvernement.
    Celui-ci n’exclut pas de recourir au pouvoir d’assignation à comparaître.

    #gamelle #échec #illusions #technologies #CrowdStrike #cafouillage #microsoft #fiabilité #ia #ChatGPT #OpenAI #Apple #Vision_Pro #métavers #Disney+ #Spotify #Netflix #v

    Source : https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/2128411/annee-2024-flop-techno

  • Du #Capitalisme et de l’État – S’extraire d’une #Illusion.
    https://ecologiesocialeetcommunalisme.org/2024/12/16/capitalisme-etat-illusion

    En 2017 est sorti « L’ombre d’Octobre » de Pierre Dardot et Christian Laval, en référence à un centenaire, livre qui curieusement a reçu assez peu d’échos en France. Cet ouvrage mettait en lumière et de manière synthétique ce qui représente sans doute, le plus gros mensonge du Vingtième siècle ; un siècle qui fut pourtant particulièrement […] L’article Du capitalisme et de l’État – S’extraire d’une illusion. est apparu en premier sur Atelier d’Écologie Sociale et Communalisme.

    #Regards_sur_notre_monde #Communisme #Etat #Révolution #Socialisme

  • AI Undermines Democracy and Trends Toward Illiberalism
    https://foreignpolicy.com/2024/10/31/artificial-intelligence-ai-illiberalism-democracy-civil-rights

    But free and fair elections, the building blocks of democratic representation, are only one dimension of democracy. Today, policymakers must also recognize an equally fundamental threat that advanced technologies pose to a free and open society: the suppression of civil rights and individual opportunity at the hands of opaque and unaccountable AI systems. Ungoverned, AI undermines democratic practice, norms, and the rule of law—fundamental commitments that underpin a robust liberal democracy—and opens pathways toward a new type of illiberalism. To reverse this drift, we must reverse the currents powering it.

    Liberal societies are characterized by openness, transparency, and individual agency. But the design and deployment of powerful AI systems are the precise inverse.

    In the United States, as in any country, those who control the airwaves, steer financial institutions, and command the military have long had a wide berth to make decisions that shape society. In the new century, another set of actors joins that list: the increasingly concentrated group of corporate players who control data, algorithms, and the processing infrastructure to make and use highly capable AI systems. But without the kind of robust oversight the government prescribes over other parts of the economy and the military, the systems these players produce lack transparency and public accountability.

    The U.S. foreign-policy establishment has long voiced legitimate concerns about the use of technology by authoritarian regimes, such as China’s widespread surveillance, tracking, and control of its population through deep collusion between the state and corporations. Civil society, academics, and journalists have recognized the threat of those same tools being deployed to similar ends in the United States. At the same time, many of today’s AI systems are undermining the liberal character of American society: They run over civil rights and liberties and cause harm for which people cannot easily seek redress. They violate privacy, spread falsehoods, and obscure economic crimes such as price-fixing, fraud, and deception. And they are increasingly used—without an architecture of accountability—in institutions central to American life: the workplace, policing, the legal system, public services, schools, and hospitals.

    All of this makes for a less democratic American society. In cities across the United States, people of color have been arrested and jailed after being misidentified by facial recognition tools. We’ve seen AI used in loan refinancing charge more to applicants who went to historically Black colleges. An AI program aimed at preventing suicide among veterans prioritizes white men and overlooks survivors of sexual violence, who are much more likely to be women. Hidden behind computer code, illegal and unfair treatment long banned under federal law is becoming harder to detect and to contest.

    To global observers, the trendlines of AI in American society will look familiar; the worst harms of these systems mirror the tenets of what has been called “illiberal democracy.” Under that vision—championed most famously by Hungarian Prime Minister Viktor Orban, a darling of the U.S. right—a society “maintains the outward appearances of a democracy … but in fact seeks to undermine all the institutions and norms that give democracy meaning,” scholar Susan Rubin Suleiman wrote in 2021. This doesn’t have to look like canceling elections or dismantling a sitting legislative body; instead, the vision takes the form of a more subtle assault—foreclosing the ability of individuals and minority groups to assert their rights.

    In February, at least 20 firms signed a pledge to flag AI-generated videos and take down content meant to mislead voters. Soon after, OpenAI and its largest investor, Microsoft, launched a $2 million Societal Resilience Fund focused on educating voters about AI. The companies point to this work as core to their missions, which imagine a world where AI “benefits all of humanity” or “helps people and society flourish.”

    Tech companies have repeatedly promised to govern themselves for the public good—efforts that may begin with good intentions but fall apart under the pressure of a business case. Congress has had no shortage of opportunities over the last 15 years to step in to govern data-centric technologies in the public’s interest.

    Washington has the opportunity to build a new, enduring paradigm in which the governance of data-centric predictive technologies, as well as the industry that creates them, is a core component of a robust U.S. democracy.

    We must waste no time reaffirming that the protections afforded by previous generations of laws also apply to emerging technology. For the executive branch, this will require a landmark effort to ensure protections are robustly enforced in the digital sphere, expanding enforcement capacity in federal agencies with civil rights offices and enforcement mandates and keeping up the antitrust drumbeat that has put anti-competitive actors on notice.

    These are some of the measures the United States can undertake to govern these new technologies. Even in an administration that broadly supports these goals, however, none of this will be possible or politically viable without a change in the overall balance of power. A broad-based, well-funded, and well-organized political movement on technology policy issues is needed to dramatically expand the coalition of people interested and invested in technology governance in the United States.

    Ami Fields-Meyer is a senior fellow at the Harvard Kennedy School and former senior policy advisor to Vice President Kamala Harris.

    Janet Haven is the executive director of Data & Society and a member of the National AI Advisory Committee. The opinions expressed in this article do not represent the opinions of the National AI Advisory Committee or any other U.S government body.

    #Intelligence_artificielle #régulation #Illibéralisme

  • Les #marchés_financiers : une #illusion de pouvoir

    Alors que la #France débat de son #budget, le discours reste centré sur la #dette et le #déficit publics, et sur l’#influence supposée des marchés financiers. Cette approche conforte un cadre budgétaire contraint qui pénalise la population, tout en entretenant le #mythe d’un pouvoir des marchés sur l’#économie. Cet article vise à montrer que cette domination des marchés n’est en réalité qu’une illusion.

    Introduction

    Alors que la France traverse une période cruciale de discussions budgétaires, le débat se concentre encore une fois autour du déficit et de la dette publics. En arrière-plan, les marchés financiers apparaissent comme des arbitres incontournables, qu’il faudrait apaiser pour éviter une hausse des taux d’intérêt. Cette vision, qui exagère le pouvoir des marchés sur notre économie, repose en grande partie sur des #choix_politiques issus de l’#idéologie_néolibérale et imposés par les #règles strictes de l’Eurozone, celles du #traité_de_Lisbonne. Ce carcan budgétaire auto-imposé enferme les États membres dans une #logique_financière qui empêche une gestion budgétaire pleinement orientée vers le #bien-être des populations.

    Les milliards d’euros versés chaque année en #intérêts ne font qu’alimenter des investisseurs privilégiés, et cette situation découle de décisions politiques, non de nécessités économiques. Cet article vise à déconstruire les mythes entourant la #dette_publique et le rôle prétendu des marchés financiers en montrant que leur pouvoir n’est qu’une illusion bien entretenue et que les contraintes financières de l’Eurozone sont d’abord politiques.

    Les limites à la dépense publique ne sont pas financières

    Il est tout d’abord utile de rappeler que, selon l’analyse de la #Théorie_Monétaire_Moderne (#MMT), un État qui dispose du monopole de création de sa devise, en régime de #taux_de_change_flottant, ne peut faire #faillite dans sa propre devise, à moins de le vouloir. Les limites à sa #dépense_publique ne sont donc pas financières, mais liées à la disponibilité des #ressources_réelles, qu’il s’agisse des ressources technologiques, des ressources naturelles, ainsi que de la force de travail.

    Les États membres de l’Eurozone sont toutefois un cas particulier, puisqu’ils fonctionnent dans un cadre contenant des limites financières, en réalité auto-imposées, que sont les ratios de 3 % sur le PIB du déficit public et de 60 % de la dette publique. Ces limites représentent donc des contraintes concernant la #politique_budgétaire des États, les empêchant de réaliser le déficit nécessaire pour atteindre le #plein_emploi.

    Dans ces conditions, et dans la mesure où le compte des Trésors nationaux ouvert à la #BCE doit disposer d’un solde en permanence positif, les États-membres doivent obtenir des #recettes_fiscales et émettre des #titres_d’État, ce qui, en raison de l’absence de garantie par la BCE, les rend dépendants des marchés financiers et exposés au risque du défaut. Cette situation souligne la nécessité d’une réévaluation des règles budgétaires au sein de l’Eurozone, afin de permettre à ces États de disposer de leur plein potentiel économique.

    La dette publique n’est pas un fardeau, mais une richesse

    Comme le montre l’identité comptable vérifiable dans tous les pays, la dette publique équivaut à la devise nationale créée par la dépense publique et non encore utilisée par le secteur privé pour payer les impôts. Elle représente, au centime près, la richesse financière nette des agents du secteur privé1. Il en découle que la dette publique n’est pas composée des seuls titres d’État. Elle englobe l’ensemble des passifs de l’État, à savoir le cash, les réserves bancaires et les titres d’État. Cette définition est partagée par les banques centrales, y compris la BCE selon le #traité_de_Maastricht. Il est important de souligner que l’émission de #titres_d’État ne crée pas de nouvelle devise, mais change simplement la forme de la devise, passant de « #réserves » à « #titres », tout comme on transfère un montant d’un compte courant non rémunéré vers un compte de dépôt rémunéré2.

    La dette publique (stock) est la somme des déficits annuels (flux). Dette et déficit sont donc étroitement liés, et ainsi, lorsque l’État cherche à réduire son déficit en augmentant les #taxes ou en réduisant ses #dépenses, cela diminue l’épargne du secteur privé. Dit autrement, lorsque l’État retire plus de devise nationale par les taxes qu’il n’en crée par la dépense, cela provoque de l’#austérité.

    Les titres d’État ne servent pas à financer les dépenses publiques

    L’émission des titres d’État est une pratique héritée des anciens régimes de taux de change fixes, qui est aujourd’hui dépassée. Ces titres ne sont aujourd’hui plus émis pour financer directement les dépenses publiques, mais plutôt pour réguler les taux d’intérêt, une fonction devenue moins nécessaire depuis que la BCE rémunère les réserves excédentaires. Mais également, leur émission permet d’offrir un actif financier sans risque.
    Il est donc nécessaire de questionner l’obligation d’émettre des titres d’État.

    Cependant, en Eurozone, une précision s’impose : l’article 123 du traité sur le fonctionnement de l’Union européenne interdit à la BCE d’octroyer des découverts aux Trésors nationaux, obligeant ces derniers à émettre des titres. Pourtant, les #euros sont créés par la BCE, lorsque les États membres dépensent, ce qui fait de l’Eurozone le créateur monopolistique de la monnaie. Exiger un solde positif permanent sur le compte du Trésor auprès de la BCE repose donc sur une #fiction, fondée sur l’idée que l’État doit gérer sa trésorerie comme une entreprise. Cette contrainte n’a aucun fondement économique. Elle est purement politique et elle s’inscrit dans l’idéologie néolibérale, laquelle perçoit l’État comme un mauvais gestionnaire et souhaite ainsi limiter son action.

    Comme le suggère #Warren_Mosler, le père de la MMT, il serait tout à fait possible de cesser d’émettre des titres d’État. Et, quoi qu’il en soit, si cette émission devait être maintenue pour offrir un actif sans risque, une politique de taux d’intérêt à zéro constituerait une solution efficace dans le but de limiter l’influence des marchés financiers3.

    Le #taux_d’intérêt est fixé par la banque centrale

    Il est essentiel de comprendre que les mouvements des taux d’intérêt appliqués aux titres d’État dépendent étroitement des décisions prises par la BCE. Les taux d’intérêt sont entièrement sous son contrôle, constituant ainsi des choix politiques. L’observation des politiques de taux d’intérêt dans différents pays le confirme : les taux appliqués aux titres d’État suivent de très près les taux directeurs de la banque centrale, comme en témoignent les deux graphiques suivants4.

    Dans l’Eurozone, le "#Whatever_it_takes" de #Mario_Draghi en 2012 a marqué un tournant en ramenant les taux d’intérêt sur les titres d’État à des niveaux raisonnables, en particulier pour la Grèce. Cet événement a montré de manière éclatante que, dès lors que la BCE garantit les titres émis par les États, ceux-ci ne peuvent pas faire défaut.

    La crise de la COVID-19 a également confirmé ce pouvoir d’intervention : la BCE et les autres banques centrales ont démontré qu’elles pouvaient contrer les pressions des marchés financiers par des opérations comme l’#assouplissement_quantitatif (#quantitative_easing). Ainsi, bien que les marchés puissent influencer les taux pour ajuster la prime de risque, leur impact reste marginal en comparaison du pouvoir des banques centrales.

    Il s’ensuit que la soutenabilité de la dette publique dépend de décisions politiques, du bon vouloir de la BCE. Ni le niveau de la dette publique ni celui des intérêts ne restreignent réellement l’espace budgétaire des États, car la BCE peut, à tout moment, décider si un pays peut continuer à dépenser ou doit faire défaut, indépendamment de son niveau d’endettement. L’exemple de la #Grèce est révélateur : en 2010, alors que son ratio dette/PIB atteignait 130 %, le pays faisait face à une crise. En revanche, fin 2021, avec un ratio supérieur à 200 %, la question de la dette publique n’était plus problématique. Cela démontre que la soutenabilité de la dette publique est avant tout une question politique, et non économique.

    Il n’y a pas de lien entre niveau de dette publique et #croissance

    Un argument récurrent dans les discussions sur la dette publique affirme qu’il existerait un #seuil_d’endettement au-delà duquel la #croissance_économique se verrait compromise. Cependant, aucune recherche rigoureuse n’a jamais confirmé l’existence d’un tel seuil. Ainsi que le montrent Yeva S. Nersisyan et L. Randall Wray5 « Il n’existe pas de seuils [du niveau de la dette publique] qui, une fois franchis, seront insoutenables ou réduiront la croissance du pays. ». En réalité, l’histoire économique regorge d’exemples où des niveaux élevés de dette publique ont coexisté avec une croissance soutenue, dès lors que l’État maintient un soutien économique actif.

    La démission de Liz Trusss, un bon exemple de l’absence de fondement de l’influence des marchés financiers

    Ce qu’il s’est passé en Angleterre en 2022, entraînant la démission de la Première ministre Liz Truss, illustre parfaitement l’absence de fondement de l’influence des marchés financiers. En réalité, cette démission résulte de la pression des marchés financiers, une décision politique dictée davantage par la crainte de leur réaction que par une contrainte économique réelle. En effet, le Royaume-Uni, en tant que créateur de sa propre monnaie, aurait pu continuer à financer ses politiques sans risque de défaut, notamment en contrôlant les taux d’intérêt via la Banque d’Angleterre6.

    Les #agences_de_notation : quelle légitimité ?

    L’intervention des agences de notation consolide l’idée dominante selon laquelle il est impératif d’apaiser les marchés financiers, quel qu’en soit le coût. Ces agences, des entreprises privées opérant sans réel contrôle démocratique, se voient attribuer un rôle démesuré dans l’évaluation des finances publiques. Leur influence, souvent considérée comme infaillible, façonne les politiques budgétaires des États, et leurs décisions impactent directement les choix économiques. Pourtant, ni leur compétence, ni leur intégrité ne sont systématiquement vérifiées. Confier à ces entités privées, efficaces promoteurs de la pensée néolibérale dominante, la capacité de décider de l’avenir budgétaire d’un pays constitue un grave manquement au principe de #souveraineté_nationale, et un véritable déni de démocratie.

    Conclusion : déconstruire l’emprise idéologique des marchés financiers

    Au terme de cette analyse, il est évident que l’importance excessive accordée aux marchés financiers dans les choix budgétaires des États membres de l’Eurozone découle de contraintes financières auto-imposées, et que cette situation confère un pouvoir illusoire aux marchés, la décision finale appartenant toujours à la BCE. Les États-membres, en s’enfermant dans une logique où ils se voient forcés de "plaire" aux marchés pour financer leurs dépenses, se privent d’un levier essentiel pour stimuler leur économie et répondre aux besoins de leur population.

    Cette dépendance aux marchés financiers masque la réalité politique qui se cache derrière la soutenabilité de la dette publique : à tout moment, la BCE peut garantir ou non les titres publics émis, ce qui souligne le caractère fondamentalement politique de cette question. Ainsi, ce n’est pas le niveau de la dette publique ou des taux d’intérêt qui limite la marge de manœuvre des États, mais bien les choix de #gouvernance qui priorisent la satisfaction des marchés plutôt que celle des citoyens.

    L’exemple de la crise de la COVID-19 a montré la capacité d’intervention des banques centrales pour stabiliser l’économie, indépendamment des pressions des marchés financiers. Il est donc aujourd’hui essentiel de reconsidérer les #règles_budgétaires de l’#Eurozone, afin de restaurer la souveraineté des États et recentrer la politique budgétaire sur le #bien-être_collectif, au lieu de céder aux impératifs des marchés. En prenant cette direction, les États pourront pleinement utiliser leurs ressources pour servir leurs citoyens, laissant derrière eux l’illusion d’un pouvoir des marchés qui n’est en réalité qu’une contrainte politique imposée.

    https://blogs.mediapart.fr/robert-cauneau/blog/251024/les-marches-financiers-une-illusion-de-pouvoir
    #finance #néolibéralisme

  • Accusations contre l’abbé Pierre : écoles, statues, parcs… Ces lieux qui vont être débaptisés après les nombreuses révélations

    Depuis les nouvelles accusations d’agressions et de harcèlement sexuel envers l’abbé Pierre, plusieurs villes comptent débaptiser des rues, jardins ou écoles portant son nom.

    Les témoignages se multiplient contre l’abbé Pierre. Vendredi 6 septembre, 17 nouveaux témoignages ont été révélés dans un rapport du cabinet spécialisé Egaé, relayé par la Fondation Abbé-Pierre. Accusé d’agressions sexuelles, de harcèlement sexuel, mais aussi d’intimidations, par des femmes et des enfants, l’image du religieux est sérieusement endommagée depuis cet été. Si Emmaüs a déjà fait part de son souhait de changer de nom, et donc de débaptiser certains de ces centres, c’est au tour de plusieurs communes de lancer des démarches pour changer des noms de rues, de parcs ou d’écoles.

    À commencer par la Ville de Paris, qui, si elle « salue le travail salutaire mené par la Fondation en toute transparence », a fait part de sa volonté de débaptiser les Jardins Abbé-Pierre Grands Moulins, dans le 13e arrondissement, « dès lors que la Fondation Abbé-Pierre a décidé de changer de #nom ». Une décision prise face aux « révélations […] très graves » concernant le religieux. La mairie assure qu’elle se « rapprochera de la Fondation afin d’examiner les modalités de ce changement », qui devra, dans tous les cas, être approuvé lors d’un Conseil de Paris.

    À #Saint-Étienne, c’est la commission des hommages publics de la Ville qui doit prendre une décision concernant son #square_Abbé-Pierre. Elle doit se réunir avant la fin de l’année, rapporte France Bleu Saint-Étienne. Son président, Gilles Artigues, propose de le renommer square de la Fondation Emmaüs.

    « Pas possible » de garder ce nom

    Au-delà des lieux publics, il y a des #établissements_scolaires, beaucoup faisant partie du privé, qui portent le nom du religieux. En #Ille-et-Vilaine, par exemple, le lycée professionnel Abbé-Pierre de #Tinténiac, qui porte ce nom depuis 2012, va changer, a annoncé la direction. Une réflexion qui avait été entamée dès les premières révélations, en juillet, et qui a été présentée et approuvée par l’équipe pédagogique « à l’unanimité », lors de la réunion de pré-rentrée, le 30 août dernier, précise le directeur, Raphaël Gouablin. Il précise qu’un nouveau nom devrait être soumis d’ici à « la fin du mois de novembre ». Un choix qui sera fait en consultation avec les élèves, les familles et l’équipe éducative et pédagogique.

    Un changement accueilli avec soulagement par une des enseignantes du lycée, Marie-Thérèse, qui s’est confiée au micro de France Inter. « On est obligés de prendre position », assure-t-elle. Dans la commune voisine, à #Hédé-Bazouges, l’école primaire va aussi changer de nom. Ses enfants y sont scolarisés. « Je suis victime d’abus sexuels et de viol et laisser le nom, pour moi, c’est cautionner, en partie. » La directrice, Florina Loisel, avait contacté dès cet été la direction diocésaine, mais depuis les nouvelles révélations, tout s’est accéléré. « On entend qu’il y a des choses auprès d’enfants, raconte-t-elle au micro de France Inter, donc ce n’est pas possible de garder ce nom ».

    Une #fresque recouverte en Seine-Maritime

    Dans le petit village normand d’#Esteville, en Seine-Maritime, plusieurs lieux sont concernés par cette épineuse question. Tout d’abord, le #lieu_de_mémoire, consacré à l’abbé Pierre, sera définitivement fermé, a annoncé Emmaüs. L’école du village va, elle, être renommée, même si « c’est l’intervention de l’abbé Pierre lui-même auprès du ministère de l’Éducation qui nous a permis d’avoir une école avec des murs en dur, un vrai toit », explique le maire, Manuel Grente. Pour lui, « le débat est vite clos au vu des faits et lorsqu’on agresse des enfants ». La fresque à l’effigie de l’abbé et les barrières portant son nom vont également être modifiées, assure la Mairie.

    La ville de #Nancy a, de son côté, annoncé lundi 9 septembre le retrait d’une #plaque_commémorative, posée sept mois plus tôt, en hommage à l’abbé Pierre. « Compte tenu de ces graves révélations, la municipalité de Nancy a donc décidé du retrait définitif de la plaque en la mémoire de l’abbé Pierre », écrit dans un communiqué la ville dirigée par le socialiste Mathieu Klein.

    Dans les Pyrénées-Atlantiques, c’est une statue à l’effigie du religieux qui pose problème. Installée dans la commune de #Lescar, sur un rond-point. Haute de six mètres de haut, elle avait été inaugurée en 2019. La maire, Valérie Revel assure que le sujet doit être discuté avec Emmaüs et le Conseil départemental des Pyrénées-Atlantiques, puisque la statue est située sur une route départementale, rapporte France Bleu Béarn Bigorre.

    https://www.francetvinfo.fr/societe/harcelement-sexuel/accusations-contre-l-abbe-pierre-ecoles-statues-parcs-ces-lieux-qui-von
    #toponymie #Abbé_Pierre #toponymie_féministe #toponymie_politique #viols #VFF #violences_sexuelles #écoles #places #noms_de_rue #Saint-Etienne #espace_public

  • Désobéissance civile : citoyens hors la loi

    LSD explore les aspirations de la désobéissance civile. #Blocages, #sabotages, actions coup de poing : quelle place pour la possibilité de désobéir en #démocratie ?

    Du chantier de l’autoroute A69 aux assemblées générales de Total, pour soutenir les personnes exilées ou les femmes victimes de violences, des #luttes ont aujourd’hui en commun d’assumer publiquement d’enfreindre le cadre. De désobéir pour se faire entendre.

    La désobéissance civile n’est pas un phénomène nouveau. Ses aînés s’appellent #Act_Up, #Jeudi_noir, #Faucheurs_volontaires. Ses ancêtres #Gandhi, #Martin_Luther_King, #Hubertine_Auclert. Elle est le fruit d’une histoire longue, faite de multiples #combats. Elle connaît aujourd’hui un essor particulier, dans des luttes environnementales, sociales, féministes, qui ont toutes leurs spécificités, mais qui partagent une arme, celle de l’action illégale, politique, publique et non violente dans le but de changer la loi : la désobéissance civile.

    Avec cette série, c’est ce mode de lutte que nous avons voulu comprendre : questionner son essor, sa pratique, son efficacité, et sa place en démocratie. Pour ses partisans la désobéissance est un dernier recours, illégal, mais légitime. Pour ses opposants, elle est l’ennemie de l’Etat de droit, car comment vivre en société si l’on accepte que la règle commune soit niée, en conscience ?

    Cette tension entre #illégalité et légitimité, entre #interdiction et #nécessité, se manifeste avec force dans la #répression policière et judiciaire à laquelle les personnes désobéissantes s’exposent. Répression qui faisait dire en février dernier à Michel Forst, rapporteur des Nations unies sur les défenseurs de l’environnement, qu’elle constitue “une #menace majeure pour la démocratie et les droits humains”.

    Elle s’est aussi incarnée à l’été 2023 dans les déclarations bien différentes de deux des plus hautes autorités françaises en matière de justice. D’un côté le Conseil d’Etat, lorsqu’il a suspendu la dissolution des Soulèvements de la terre, a estimé que les actions du mouvement s’inscrivaient “en faveur d’initiatives de désobéissance civile”. De l’autre le ministre de la Justice Eric Dupont-Moretti, auditionné par la commission d’enquête de l’Assemblée nationale, disait en avoir “ras le bol de la petite musique de la désobéissance civile”, et poursuivait : “On a le droit, selon certains, quand on est porteur d’une cause que l’on estime légitime, de ne plus obéir à la loi. Rien n’est plus liberticide que cela.”

    Alors comment démêler les fils de la désobéissance ? Est-elle une remise en cause de l’#Etat_de_droit, ou une composante essentielle de la démocratie, comme l’affirmait son premier théoricien #Henry_David_Thoreau ?

    En partant sur la montagne de #Lure, auprès d’#Utopia_56 ou des #Robin_des_bois_de_l’énergie à la rencontre de celles et ceux qui vivent la désobéissance civile dans leurs luttes, en suivant avec ses spécialistes les chemins d’une pensée désobéissante sans cesse réinventée, en explorant avec #José_Bové, #Cédric_Herrou et les #Soulèvements_de_la_terre ce qui se joue lors des #procès, nous comprenons à quel point la tension est le cœur battant de la désobéissance civile. “Je reconnais tout de suite que le mot tension ne m’effraie pas”, écrivait Martin Luther King dans sa célèbre lettre de la prison de Birmingham, assumant que son combat voulait “engendrer une #tension telle que la communauté soit forcée de regarder la situation en face”.

    Aujourd’hui encore, il s’agit pour les actrices et acteurs de la désobéissance civile de révéler au grand jour les tensions déjà existantes. De sentir avec force qu’il serait possible d’agir ensemble. Leurs actions se préparent, se pensent, s’organisent en s’inspirant d’expériences passées, en utilisant les médias, les tribunaux et la puissance du collectif. La désobéissance civile dénonce l’illégitimité ou l’insuffisance des lois. Écouter ses battements, d’hier et d’aujourd’hui, nous raconte comment penser au-delà du cadre pourrait peut-être, parfois, parvenir à le faire changer.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/serie-desobeissance-civile-citoyens-hors-la-loi

    #désobéissance_civile #loi #légalité #légitimité #désobéissance #violence #non-violence #femmes #dissidence
    #audio #podcast
    ping @karine4

  • Pourquoi les conseillers France Travail ne font pas correctement leur travail ? | Le Club
    https://blogs.mediapart.fr/yann-gaudin/blog/230824/pourquoi-les-conseillers-france-travail-ne-font-pas-correctement-leu

    La mission des conseillers indemnisation est à très haute sensibilité car en dépend le revenu subsistance des salariés privés d’emploi et de leur famille. Leur appellation est une imposture : les conseillers indemnisation ne conseillent pas, ils gèrent des allocations. Et leur activité semble hors-la-loi : ils pratiquent au quotidien le droit sans en avoir ni l’agrément, ni la qualification.

    #pôle_emploi #chômage

  • « Lorsque la puissance publique ne parvient plus à offrir des soins, quel risque prend-on à renverser la table ? »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/08/09/lorsque-la-puissance-publique-ne-parvient-plus-a-offrir-des-soins-quel-risqu

    Aujourd’hui, l’#accès_aux_soins est une préoccupation majeure des Français, avant même le terrorisme, le contrôle des flux migratoires ou la lutte contre le réchauffement climatique, d’après les enquêtes d’opinion qui se succèdent (voir par exemple l’enquête Ipsos, « Ce qui préoccupe les Français », en juillet).

    Les carences sont connues, documentées et vécues par tous au quotidien. Selon le ministère de la santé, 87 % du territoire est considéré comme un désert médical, et un tiers de la population n’a pas un accès suffisant aux soins. Les #urgences souffrent, craquent, ferment ou trient. L’accès à un spécialiste ou à un centre d’expertise peut prendre des mois, à condition qu’ils acceptent encore de nouveaux patients.

    Ainsi en est-il par exemple des centres antidouleur, des centres médico-psychologiques ou des équipes de #soins_palliatifs auxquels n’ont accès que la moitié des patients qui en auraient besoin alors même qu’ils sont atteints de maladies graves en phase parfois très avancée (Cour des comptes, juin 2023). Trop souvent, l’accès aux soins est affaire de réseau. « Connais-tu un bon médecin spécialiste ? » « Pourrais-tu parler de moi ? » « As-tu quelqu’un dans ta famille qui connaît quelqu’un ? » Le capital social est ainsi devenu la meilleure assurance-maladie, ce qui crée dans le pays un fort sentiment d’insécurité médicale.

    Le soin comme engagement

    Cette réalité est un moteur profond de colère et une des causes majeures du sentiment de déclassement. L’impossibilité de parvenir à être soigné ou à faire soigner ses parents ou ses enfants génère une immense et légitime rancœur. La violence qui s’exerce parfois à l’encontre des #soignants en est une conséquence. Lorsque la puissance publique ne parvient plus à offrir des soins, quel risque prend-on à renverser la table ? Les votes des dernières semaines traduisent aussi cette réalité.

    Soignants, nous ne sommes pas là par hasard. Nous sommes là parce que ce qui compte, c’est l’humain. Infirmiers, aides-soignants, psychologues, pharmaciens ou médecins de toutes disciplines, nous accueillons tous ceux qui demandent de l’aide. Chaque jour, nous accompagnons les personnes dans leur diversité. Pour nous qui les soignons, ces personnes ne sont pas de gauche ou de droite, françaises ou étrangères, avec ou sans papiers, elles sont simplement humaines, et notre mission est de les aider à guérir ou à vivre avec la maladie et de les accompagner parfois jusqu’à la mort.

    En cela, le #soin est un engagement politique au sens le plus élémentaire, c’est notre engagement : prendre soin de tous sans distinction et avec la même attention parce que la relation de soin est un bien commun. Alors même que notre société valorise le pouvoir, le contrôle et la force, nous, soignants, nous sommes là pour entendre la détresse, pour accompagner la souffrance jusqu’à parfois même l’envie de mourir et pour essayer de comprendre, soulager et rassurer. Or, notre service public du soin est exsangue voire maltraitant, pour les personnes qu’il accueille comme pour celles qui y travaillent. Chaque jour, nous faisons avec inquiétude le constat de la fragilité de notre système de #santé et de son incapacité croissante à répondre aux besoins de tous.

    Un choix de société

    Nous sommes dans une période de grande incertitude politique. Dans ce contexte chaotique, nous invitons nos élus, d’où qu’ils viennent, à faire front commun en faveur du soin pour le bénéfice de tous. Comment souhaitons-nous habiter notre Terre pour prendre soin des humains qui la peuplent ? Comment voulons-nous collectivement prendre soin de tous et, en particulier, des personnes malades, vulnérables, âgées ou handicapées ?

    Ces questions font du soin un projet profondément politique, un choix de société au-delà des querelles de partis. Car une société qui n’accompagne pas de manière satisfaisante ceux qui ont le plus besoin d’aide face à la maladie et à la souffrance est une société où se développent la colère et l’indifférence. Soignants, nous ne pouvons nous résoudre à cette défaite annoncée qui serait celle de tous et d’abord des plus fragiles.

    Le soin rassemble et ouvre une perspective de solidarité, de progrès et de fraternité. Il replace le progrès technique au service de l’humain, peut remédier à de nombreuses pathologies sociales (isolement, sentiment d’inutilité, violences de tous ordres…). Il est un éloge de l’attention et nous invite à nous engager les uns pour les autres. Il est l’espoir de recoudre notre société fracturée. Nous espérons que s’impose la « loi du plus faible ». Ce plus faible que nous continuerons d’accompagner quoi qu’il arrive parce que c’est notre métier, notre choix et le cœur battant de notre engagement. Ce cœur qui bat pour toute notre société.

    Parmi les signataires : Pr Georges Abi Lahoud, neurochirurgien, ICVNS Paris, membre de l’académie nationale de chirurgie, Thierry Amouroux, infirmier, porte-parole du SNPI (Syndicat national des professionnels infirmiers), Dr Cyril Boronad, pharmacien, président du Synprefh (Syndicat national des pharmaciens en établissement de santé), Dr Claire Fourcade, présidente de la SFAP (Société Française d’accompagnement et de soins palliatifs), Carole Gauvrit, présidente du CNPAS (Conseil national professionnel des aides-soignants, Dr Raphaël Gourevitch, psychiatre, hôpital Sainte-Anne, délégué de la Société médico-psychologique, Pr Olivier Guérin, président du CNP (collège national professionnel) de gériatrie, Pr Patrice Queneau Membre émérite de l’Académie nationale de médecine, membre émérite de l’Académie nationale de pharmacie, Dr Manuel Rodrigues, président de la SFC (Société française du cancer), Ghislaine Sicre, infirmière, présidente de Convergence Infirmière…

    La liste complète des signataires https://docs.google.com/document/d/18q42X6swl4VX4oY6zPt1os6z2-_9l2cp66sTpT4R3Q8/edit

    #déserts_médicaux

  • #Montagne : Comment la station de #La_Clusaz pompe l’#eau de source illégalement

    Pendant plus de 20 ans, La Clusaz a pompé l’eau d’une source pour fabriquer de la #neige_artificielle... sans autorisation. Une #enquête judiciaire de l’Office français de la biodiversité dévoile comment la célèbre station des Alpes a installé ce système coûteux. Des #captages irréguliers ont par ailleurs été découverts sur les trois autres retenues exploitées par la commune haute-savoyarde pour alimenter ses pistes. Révélations.

    Fallait pas arroser les pétunias... En juillet 2022, la commune de La Clusaz a été prise en flagrant délit par l’Office français de la biodiversité (OFB) alors que les restrictions interdisaient l’arrosage. Cet été-là, la Haute-Savoie vit un épisode de chaleur intense.

    L’alerte sécheresse a été déclenchée et les restrictions d’eau ordonnées dans tout le département, conformément aux mesures prises dans ce type de situation : interdiction d’abreuver les plantes municipales mais surtout de remplir les retenues collinaires, ces ouvrages qui stockent l’eau des montagnes pour fabriquer de la neige de culture. Mais, surprise, les agents de l’OFB constatent que la station a arrosé ses bosquets en puisant dans la retenue du Lachat, et que celle-ci est toujours alimentée en eau.

    Un circuit secret

    En inspectant les installations, la police de l’environnement découvre un dispositif secret : la commune a mis en place un système souterrain illégal pour capter l’eau de la source du Lachat, la diriger vers un local étiqueté « neige de culture », puis la pomper vers la retenue... Or ce dispositif n’a jamais été autorisé et n’est nulle part mentionné sur les plans d’aménagement.

    Une réflexion poussée

    « Il s’agit d’une installation complexe caractérisant le fait qu’une réflexion poussée et des investissements importants ont été mis en œuvre par la commune », constate le procès-verbal de l’OFB.

    Pour La Clusaz, cette enquête judiciaire, et ce qu’elle dévoile, tombe au plus mal. Ces dernières années, la station - en première ligne dans la candidature française pour l’accueil des JO d’hiver de 2030 - est devenue à son corps défendant un symbole : celui de l’accaparement de l’eau au profit de l’industrie du ski et des sports d’hiver.

    La collectivité s’est battue pour faire creuser sa cinquième retenue collinaire, sur le plateau de Beauregard. Mais les travaux ont été entravés par l’implantation d’une ZAD, puis la suspension par le tribunal administratif de Grenoble de l’arrêté préfectoral d’autorisation. Résultat, en septembre 2023, le maire de La Clusaz Didier Thévenet a été contraint d’annoncer le gel du projet en attendant que les juges se prononcent définitivement sur le dossier. Malgré ce contretemps fâcheux, l’édile ne s’était pas démonté. « Nous ne lâchons rien, a prévenu Didier Thévenet. Nous allons muscler notre projet, dans le respect de la justice et de la loi ».

    L’eau, un vrai sujet

    Ce beau principe (le respect de la loi) n’a pas été appliqué à ses précédentes retenues d’eau. Blast a eu accès à l’enquête judiciaire menée par l’OFB. Ces investigations démontrent que La Clusaz a pompé illégalement l’eau de la source de Lachat de 2000 à 2023 pour alimenter la retenue du même nom, qu’elle aurait pu déclarer ce prélèvement illégal, à plusieurs occasions, et encore que l’adjoint responsable des retenues d’eau n’a jamais cherché à comprendre leur fonctionnement.

    Sollicitée par Blast, la municipalité minimise : « Il n’y a plus de sujet. Nous sommes en médiation avec l’OFB et des mesures correctives ont été prises. »

    Il faut savoir que, à La Clusaz, l’industrie du ski nourrit la vallée. Les remontées mécaniques ont rapporté 25,3 millions d’euros de chiffre d’affaires à la commune en 2023. Et la station doit accueillir l’épreuve de ski de fond des Jeux olympiques d’hiver 2030 et ses nombreux visiteurs. Un tel pactole, ça se protège.

    Construite en 2000, la retenue du Lachat est destinée exclusivement à produire de la neige artificielle. Si les prélèvements illégaux ont pu commencer dès sa construction, ils n’ont été enregistrés qu’à partir de 2014 avec l’installation d’un compteur. De 2014 jusqu’en juillet 2023, date de la fermeture définitive du dispositif de prélèvement, 135 108 m³ d’eau ont été siphonnés illégalement. Malgré l’engagement de la commune à ne plus prélever d’eau après l’intervention de l’OFB à l’été 2022, La Clusaz a encore capté 5 020 m³ supplémentaires en 2023.

    L’enquête de l’OFB conclut que La Clusaz « a délibérément capté la source du Lachat » sans jamais déclarer cet ouvrage à la direction départementale des territoires (DDT) de la Haute-Savoie, chargée d’instruire l’arrêté qui encadre la retenue.

    La station de ski a pourtant eu plusieurs opportunités pour indiquer ce prélèvement. Elle aurait pu le faire en 2011, ou en 2014 quand elle a demandé, puis modifié, une autorisation d’extension de la retenue.

    « La commune a parfaitement connaissance de la manière de procéder et aurait pu à cette occasion informer la DDT des modifications d’alimentation en eau de la retenue », pointe l’Office français de la biodiversité. Mais, au contraire, « l’ouvrage de prélèvement de la source du Lachat a été modifié à plusieurs reprises sans aucun accord de la DDT, et à défaut des prescriptions réglementaires. »

    La Clusaz se fiche des milieux naturels

    La Clusaz a exploité la retenue sans détenir aucune autorisation environnementale. Elle s’est ainsi épargnée d’engager des dépenses pour appliquer la séquence « ERC » (éviter, réduire, compenser), qui vise à atténuer les atteintes à l’environnement. Ces coûts sont estimés à 27 000 euros par l’OFB. Ils ne prennent pas en compte ceux de l’étude d’impact qui aurait dû être menée. Sans cette analyse, les dégâts provoquées pendant 23 ans sont impossibles à mesurer.

    En revanche, il est certain que cet accaparement de l’eau a bouleversé les milieux naturels. Durablement : « Lorsqu’ils interviennent en période naturelle de basses eaux tel qu’en période de sécheresse, les prélèvements accélèrent le phénomène de déficit hydrique et en accentuent l’ampleur », souligne le rapport de l’OFB. Avec, pour principales conséquences, « la fragmentation des milieux aquatiques ou la rupture de la continuité écologique, l’élévation de la température de l’eau, la modification physico-chimique de l’eau, la modification de la végétation aquatique et l’assèchement des linéaires ». C’est justement pour ces raisons que les ouvrages qui prélèvent de grandes quantités d’eau sont soumis à des dossiers de déclarations ou d’autorisation. Ils doivent maintenir un débit réservé, autrement dit qui garantit la circulation et la reproduction des espèces aquatiques locales.

    Les prélèvements à La Clusaz impactent le cours d’eau dont l’état écologique est classé « moyen » par le Schéma directeur d’aménagement et de gestion des eaux (le SDAGE) du bassin Rhône-Méditerranée (2022-2027), dont l’objectif est de pouvoir le reclasser à la case « bon ». En prélevant 24 734 m³ d’eau en 2022, La Clusaz « concourt à la non-atteinte des engagements pris par la France dans le cadre de l’atteinte du bon état écologique fixé par la DCE et, en même temps, contribue au déséquilibre du fonctionnement des milieux aquatiques », observe la police de l’eau et des espaces naturels.

    Pas une priorité pour la commune

    Cerise sur la retenue, en tirant l’eau « au point géographique le plus en amont possible », c’est l’ensemble du régime hydrologique et des habitats en aval qui sont affectés. Dont une zone humide créée... par La Clusaz pour compenser l’extension de la retenue du Lachat, réalisée en 2011. « Les installations en place mettent en évidence que le maintien dans un bon état des écosystèmes aquatiques n’est pas une priorité pour la commune », conclut l’enquête judiciaire.

    L’adjoint aux retenues n’y connaît rien

    À la mairie, l’annonce de la mise à jour de cette installation illégale a été prise avec une légèreté déconcertante. Auditionné à plusieurs reprises par l’OFB, Didier Collomb-Gros, l’adjoint en charge de la gestion des retenues collinaires, a fourni des explications lunaires. Élu en 2007, délégataire des retenues collinaires depuis 2020, cet artisan à la retraite - qui loue des appartements meublés - semble découvrir ses fonctions et n’avoir aucune envie d’en parler.

    Venez me chercher avec les menottes

    Convoqué par téléphone à une audition libre, Didier Collomb-Gros « semble très contrarié de notre appel », relève le rapport de l’OFB. L’adjoint s’emporte : « Convoquez-moi, je verrais si je viens » ; « si vous avez rien d’autre à foutre » ; « au pire venez me chercher avec les menottes, on verra bien »...

    Contacté également par Blast, l’élu nous a indiqué « ne pas être habilité » à nous répondre, avant de nous raccrocher au nez.

    L’adjoint bravache s’est finalement rendu au siège de l’OFB le 19 avril 2023. Il y a assuré que l’installation illégale était connue des services techniques de la préfecture depuis l’an 2000. Mais l’élu n’a produit aucun document pour corroborer ces affirmations. Et la mairie est tout simplement incapable de fournir un plan détaillé de la retenue.

    « On doit l’avoir, mais il faut qu’on fasse des recherches », botte en touche l’élu. Et l’OFB observe avec circonspection que, « selon les questions posées en audition », la commune « complète au fur et à mesure le schéma synoptique de fonctionnement des installations ».

    Un tas de questions

    Lors de sa deuxième audition le 9 octobre 2023, plus d’un an après les premières découvertes, Collomb-Gros se montre incapable de répondre aux interrogations des policiers sur l’installation ou sur le montant de ses investissements. « Vous me posez un tas de questions que je ne peux pas répondre (sic). Ces travaux datent de dix ans », évacue-t-il.

    L’audition tourne rapidement au supplice. « À votre prise de fonction en 2020, avez-vous fait des recherches sur la gestion des ouvrages ? », interroge l’OFB. « Aucune », répond l’élu, qui avoue n’avoir pris « aucune décision, ni note » pour s’assurer que la commune respecte l’arrêté d’autorisation de l’installation.

    Et ben, on voit que non

    La suite est proprement stupéfiante. Question : « Comment expliquez-vous les contradictions / approximations dans vos déclarations alors que ça fait un an que les premières constatations ont eu lieu ? » Réponse : « Encore une fois je vais dire que je ne comprends pas la situation » ; Question : « Vous êtes-vous donné les moyens pour comprendre la situation depuis un an ? » Réponse : « Pas de réponse de ma part » ; Question : « Pensez-vous avoir une connaissance suffisante du fonctionnement des installations de prélèvement de la retenue du Lachat pour assurer cette responsabilité ? » Réponse : « Et ben, on voit que non. »…

    Une méconnaissance volontaire

    Forcément, après cette prestation, le verdict de l’OFB est plutôt sec. L’audition, notent les fonctionnaires, « met en évidence une méconnaissance volontaire des prescriptions réglementaires de l’arrêté d’autorisation de la retenue du Lachat et la volonté manifeste de n’en prendre aucune ».

    Interrogée par Blast sur le manque de connaissances techniques des dossiers dont son adjoint à la charge, la commune de La Clusaz botte en touche : « M. Collomb-Gros a des services techniques sur lesquels s’appuyer pour connaître la réglementation. » Est-ce donc... la faute des services techniques ? « Nous n’avons pas dit ça », répond la station.

    Olympisme, menaces pénales et autres retenues

    Cette affaire révélée par Blast tombe au pire moment. En avril 2024, le Comité olympique international (CIO) était en visite pendant 5 jours dans les Alpes françaises pour étudier leur candidature à l’organisation des JO d’hiver de 2030. Les membres de la délégation ont fait notamment une halte à La Clusaz, sur le site qui doit accueillir l’épreuve de fond.

    Le suspens doit prendre fin en principe la semaine prochaine avec une décision attendue le 24 juillet, à l’occasion de la tenue à Paris de la 142è session du CIO, à la veille de l’ouverture des Jeux de Paris. Officiellement, la question environnementale - et celle qui va avec de l’acceptabilité par l’opinion publique - est prise en compte dans les critères pour décider de l’attribution. Dans d’autres pays, les populations ont été consultées par référendum ou ces consultations envisagées, comme en Suède et en Suisse (1). Rien de tel en France où le lobby du ski s’est mobilisé d’un seul homme pour s’engouffrer dans l’initiative prise par les présidents de région Laurent Wauquiez (AURA) et Renaud Muselier (PACA). Les Alpes françaises sont seules en lice pour décrocher la timbale.

    De leur côté, Didier Collomb Gros et La Clusaz risquent des amendes pénales de 5e classe (1 500 euros) pour « non-respect du projet fondement de l’autorisation ou de la déclaration d’une opération nuisible à l’eau ou au milieu aquatique » et pour « exercice d’une activité nuisible à l’eau ou au milieu aquatique sans respect des prescriptions de l’arrêté d’autorisation des arrêtés complémentaires ». Ils encourent ainsi jusqu’à 75 000 euros d’amende pour « exploitation sans autorisation d’une installation ou d’un ouvrage nuisible à l’eau ou au milieu aquatique ».

    Le prélèvement illégal sur la source du Lachat enfin stoppé, la station de La Clusaz n’a pourtant pas connu de répit : selon nos informations, des captages irréguliers ont également été découverts en mai, puis juillet 2023 par l’OFB sur les trois autres retenues exploitées par la commune haute-savoyarde. Ceux-là aussi ont été fermés, affirme la collectivité.

    « L’eau est un bien précieux, nous faisons aujourd’hui attention à être irréprochables », assure La Clusaz à Blast. Les promesses n’engagent que ceux qui y croient

    (1) Deux pays que le CIO a finalement préféré écarter.

    https://www.blast-info.fr/articles/2024/info-blast-montagne-comment-la-station-de-la-clusaz-pompe-leau-de-source-
    #ski #stations_de_ski #France #Alpes #Lachat #neige_de_culture #illégalité #industrie_du_ski #ZAD #plateau_de_Beauregard #Didier_Thévenet #justice #remontées_mécaniques

  • 2 TIMOTHY 4
    https://www.freebiblecommentary.org/new_testament_studies/VOL09/VOL09_14.html

    “Trophimus I left sick” This man is mentioned in Acts 20:4; 21:29 and possibly 2 Cor. 8:19-22.

    There are so many questions we would like to ask the NT writers. One subject all believers think about is physical healing. In Acts (cf. Acts 19:12; 28:7-9) Paul is able to heal, but here and in 2 Cor. 12:7-10 and Phil. 2:25-30, he seems unable. Why are some healed and not all, and is there a time window connected to healing which has closed?

    I surely believe in a supernatural, compassionate Father who has and does physically as well as spiritually heal, but why is this healing aspect seemingly present and then noticeably absent? I do not think that it is connected to human faith, for surely Paul had faith (cf. 2 Corinthians 12). I feel that healing and believing miracles affirmed the truthfulness and validity of the gospel, which it still does in areas of the world where it is first proclaimed. However, I feel that God wants us to walk by faith and not by sight. Also, physical illness is often allowed in believer’s lives

    as temporal punishment for sin
    as consequences of life in a fallen world
    to help believers mature spiritually
    My problem is I never know which one is involved! My prayer for God’s will to be done in each case is not a lack of faith, but a sincere attempt to allow the gracious, compassionate God to work His will in each life.

    #healing #illness

  • Selling a #Mirage

    Last year, I became obsessed with a plastic cup.

    It was a small container that held diced fruit, the type thrown into lunch boxes. And it was the first product I’d seen born of what’s being touted as a cure for a crisis.

    Plastic doesn’t break down in nature. If you turned all of what’s been made into cling wrap, it would cover every inch of the globe. It’s piling up, leaching into our water and poisoning our bodies.

    Scientists say the key to fixing this is to make less of it; the world churns out 430 million metric tons each year.

    But businesses that rely on plastic production, like fossil fuel and chemical companies, have worked since the 1980s to spin the pollution as a failure of waste management — one that can be solved with recycling.

    Industry leaders knew then what we know now: Traditional recycling would barely put a dent in the trash heap. It’s hard to transform flimsy candy wrappers into sandwich bags, or to make containers that once held motor oil clean enough for milk.

    Now, the industry is heralding nothing short of a miracle: an “advanced”type of recycling known as pyrolysis — “pyro” means fire and “lysis” means separation. It uses heat to break plastic all the way down to its molecular building blocks.

    While old-school, “mechanical” recycling yields plastic that’s degraded or contaminated, this type of “chemical” recycling promises plastic that behaves like it’s new, and could usher in what the industry casts as a green revolution: Not only would it save hard-to-recycle plastics like frozen food wrappers from the dumpster, but it would turn them into new products that can replace the old ones and be chemically recycled again and again.

    So when three companies used ExxonMobil’s pyrolysis-based technology to successfully conjure up that fruit cup, they announced it to the world.

    “This is a significant milestone,” said Printpack, which turned the plastic into cups. The fruit supplier Pacific Coast Producers called it “the most important initiative a consumer-packaged goods company can pursue.”

    “ExxonMobil is supporting the circularity of plastics,” the August 2023 news release said, citing a buzzword that implies an infinite loop of using, recycling and reusing.

    They were so proud, I hoped they would tell me all about how they made the cup, how many of them existed and where I could buy one.

    Let’s take a closer look at that Printpack press release, which uses convoluted terms to describe the recycled plastic in that fruit cup:

    “30% ISCC PLUS certified-circular”

    “mass balance free attribution”

    It’s easy to conclude the cup was made with 30% recycled plastic — until you break down the numerical sleight of hand that props up that number.

    It took interviews with a dozen academics, consultants, environmentalists and engineers to help me do just that.

    Stick with me as I unravel it all.

    So began my long — and, well, circular — pursuit of the truth at a time when it really matters.

    This year, nearly all of the world’s countries are hammering out a United Nations treaty to deal with the plastic crisis. As they consider limiting production, the industry is making a hard push to shift the conversation to the wonders of chemical recycling. It’s also buying ads during cable news shows as U.S. states consider laws to limit plastic packaging and lobbying federal agencies to loosen the very definition of what it means to recycle.

    It’s been selling governments on chemical recycling, with quite a bit of success. American and European regulators have spent tens of millions subsidizing pyrolysis facilities. Half of all U.S. states have eased air pollution rules for the process, which has been found to release carcinogens like benzene and dioxins and give off more greenhouse gases than making plastic from crude oil.

    Given the high stakes of this moment, I set out to understand exactly what the world is getting out of this recycling technology. For months, I tracked press releases, interviewed experts, tried to buy plastic made via pyrolysis and learned more than I ever wanted to know about the science of recycled molecules.

    Under all the math and engineering, I found an inconvenient truth: Not much is being recycled at all, nor is pyrolysis capable of curbing the plastic crisis.

    Not now. Maybe not ever.

    In traditional recycling, plastic is turned into tiny pellets or flakes, which you can melt again and mold back into recycled plastic products.

    Even in a real-life scenario, where bottles have labels and a little bit of juice left in them, most of the plastic products that go into the process find new life.

    The numbers are much lower for pyrolysis.

    It’s “very, very, very, very difficult” to break down plastic that way, said Steve Jenkins, vice president of chemicals consulting at Wood Mackenzie, an energy and resources analytics firm. “The laws of nature and the laws of physics are trying to stop you.”

    Waste is heated until it turns into oil. Part of that oil is composed of a liquid called naphtha, which is essential for making plastic.

    There are two ingredients in the naphtha that recyclers want to isolate: propylene and ethylene — gases that can be turned into solid plastics.

    To split the naphtha into different chemicals, it’s fed into a machine called a steam cracker. Less than half of what it spits out becomes propylene and ethylene.

    This means that if a pyrolysis operator started with 100 pounds of plastic waste, it can expect to end up with 15-20 pounds of reusable plastic. Experts told me the process can yield less if the plastic used is dirty or more if the technology is particularly advanced.

    I reached out to several companies to ask how much new plastic their processes actually yield, and none provided numbers. The American Chemistry Council, the nation’s largest plastic lobby, told me that because so many factors impact a company’s yield, it’s impossible to estimate that number for the entire industry.

    With mechanical recycling, it’s hard to make plastic that’s 100% recycled; it’s expensive to do, and the process degrades plastic. Recycled pellets are often combined with new pellets to make stuff that’s 25% or 50% recycled, for example.

    But far less recycled plastic winds up in products made through pyrolysis.

    That’s because the naphtha created using recycled plastic is contaminated. Manufacturers add all kinds of chemicals to make products bend or keep them from degrading in the sun.

    Recyclers can overpower them by heavily diluting the recycled naphtha. With what, you ask? Nonrecycled naphtha made from ordinary crude oil!

    This is the quiet — and convenient — part of the industry’s revolutionary pyrolysis method: It relies heavily on extracting fossil fuels. At least 90% of the naphtha used in pyrolysis is fossil fuel naphtha. Only then can it be poured into the steam cracker to separate the chemicals that make plastic.

    So at the end of the day, nothing that comes out of pyrolysis physically contains more than 10% recycled material (though experts and studies have shown that, in practice, it’s more like 5% or 2%).

    Ten percent doesn’t look very impressive. Some consumers are willing to pay a premium for sustainability, so companies use a form of accounting called mass balance to inflate the recycled-ness of their products. It’s not unlike offset schemes I’ve uncovered that absolve refineries of their carbon emissions and enable mining companies to kill chimpanzees. Industry-affiliated groups like the International Sustainability and Carbon Certification write the rules. (ISCC didn’t respond to requests for comment.)

    To see how this works, let’s take a look at what might happen to a batch of recycled naphtha. Let’s say the steam cracker splits the batch into 100 pounds of assorted ingredients.

    There are many flavors of this kind of accounting. Another version of free attribution would allow the company to take that entire 30-pound batch of “33% recycled” pouches and split them even further:

    A third of them, 10 pounds, could be labeled 100% recycled — shifting the value of the full batch onto them — so long as the remaining 20 pounds aren’t labeled as recycled at all.

    As long as you avoid double counting, Jenkins told me, you can attribute the full value of recycled naphtha to the products that will make the most money. Companies need that financial incentive to recoup the costs of pyrolysis, he said.

    But it’s hard to argue that this type of marketing is transparent. Consumers aren’t going to parse through the caveats of a 33% recycled claim or understand how the green technology they’re being sold perpetuates the fossil fuel industry. I posed the critiques to the industry, including environmentalists’ accusations that mass balance is just a fancy way of greenwashing.

    The American Chemistry Council told me it’s impossible to know whether a particular ethylene molecule comes from pyrolysis naphtha or fossil fuel naphtha; the compounds produced are “fungible” and can be used for multiple products, like making rubber, solvents and paints that would reduce the amount of new fossil fuels needed. Its statement called mass balance a “well-known methodology” that’s been used by other industries including fair trade coffee, chocolate and renewable energy.

    Legislation in the European Union already forbids free attribution, and leaders are debating whether to allow other forms of mass balance. U.S. regulation is far behind that, but as the Federal Trade Commission revises its general guidelines for green marketing, the industry is arguing that mass balance is crucial to the future of advanced recycling. “The science of advanced recycling simply does not support any other approach because the ability to track individual molecules does not readily exist,” said a comment from ExxonMobil.

    If you think navigating the ins and outs of pyrolysis is hard, try getting your hands on actual plastic made through it.

    It’s not as easy as going to the grocery store. Those water bottles you might see with 100% recycled claims are almost certainly made through traditional recycling. The biggest giveaway is that the labels don’t contain the asterisks or fine print typical of products made through pyrolysis, like “mass balance,” “circular” or “certified.”

    When I asked about the fruit cup, ExxonMobil directed me to its partners. Printpack didn’t respond to my inquiries. Pacific Coast Producers told me it was “engaged in a small pilot pack of plastic bowls that contain post-consumer content with materials certified” by third parties, and that it “has made no label claims regarding these cups and is evaluating their use.”

    I pressed the American Chemistry Council for other examples.

    “Chemical recycling is a proven technology that is already manufacturing products, conserving natural resources, and offering the potential to dramatically improve recycling rates,” said Matthew Kastner, a media relations director. His colleague added that much of the plastic made via pyrolysis is “being used for food- and medical-grade packaging, oftentimes not branded.”

    They provided links to products including a Chevron Phillips Chemical announcement about bringing recycled plastic food wrapping to retail stores.

    “For competitive reasons,” a Chevron spokesperson declined to discuss brand names, the product’s availability or the amount produced.

    In another case, a grocery store chain sold chicken wrapped in plastic made by ExxonMobil’s pyrolysis process. The producers told me they were part of a small project that’s now discontinued.

    In the end, I ran down half a dozen claims about products that came out of pyrolysis; each either existed in limited quantities or had its recycled-ness obscured with mass balance caveats.

    Then this April, nearly eight months after I’d begun my pursuit, I could barely contain myself when I got my hands on an actual product.

    I was at a United Nations treaty negotiation in Ottawa, Ontario, and an industry group had set up a nearby showcase. On display was a case of Heinz baked beans, packaged in “39% recycled plastic*.” (The asterisk took me down an online rabbit hole about certification and circularity. Heinz didn’t respond to my questions.)

    This, too, was part of an old trial. The beans were expired.

    Pyrolysis is a “fairy tale,” I heard from Neil Tangri, the science and policy director at the environmental justice network Global Alliance for Incinerator Alternatives. He said he’s been hearing pyrolysis claims since the ’90s but has yet to see proof it works as promised.

    “If anyone has cracked the code for a large-scale, efficient and profitable way to turn plastic into plastic,” he said, “every reporter in the world” would get a tour.

    If I did get a tour, I wondered, would I even see all of that stubborn, dirty plastic they were supposedly recycling?

    The industry’s marketing implied we could soon toss sandwich bags and string cheese wrappers into curbside recycling bins, where they would be diverted to pyrolysis plants. But I grew skeptical as I watched a webinar for ExxonMobil’s pyrolysis-based technology, the kind used to make the fruit cup. The company showed photos of plastic packaging and oil field equipment as examples of its starting material but then mentioned something that made me sit up straight: It was using pre-consumer plastic to “give consistency” to the waste stream.

    Chemical plants need consistency, so it’s easier to use plastic that hasn’t been gunked up by consumer use, Jenkins explained.

    But plastic waste that had never been touched by consumers, such as industrial scrap found at the edges of factory molds, could easily be recycled the old-fashioned way. Didn’t that negate the need for this more polluting, less efficient process?

    I asked ExxonMobil how much post-consumer plastic it was actually using. Catie Tuley, a media relations adviser, said it depends on what’s available. “At the end of the day, advanced recycling allows us to divert plastic waste from landfills and give new life to plastic waste.”

    I posed the same question to several other operators. A company in Europe told me it uses “mixed post-consumer, flexible plastic waste” and does not recycle pre-consumer waste.

    But this spring at an environmental journalism conference, an American Chemistry Council executive confirmed the industry’s preference for clean plastic as he talked about an Atlanta-based company and its pyrolysis process. My colleague Sharon Lerner asked whether it was sourcing curbside-recycled plastic for pyrolysis.

    If Nexus Circular had a “magic wand,” it would, he acknowledged, but right now that kind of waste “isn’t good enough.” He added, “It’s got tomatoes in it.”

    (Nexus later confirmed that most of the plastic it used was pre-consumer and about a third was post-consumer, including motor oil containers sourced from car repair shops and bags dropped off at special recycling centers.)

    Clean, well-sorted plastic is a valuable commodity. If the chemical recycling industry grows, experts told me, those companies could end up competing with the far more efficient traditional recycling.

    To spur that growth, the American Chemistry Council is lobbying for mandates that would require more recycled plastic in packaging; it wants to make sure that chemically recycled plastic counts. “This would create market-driven demand signals,” Kastner told me, and ease the way for large-scale investment in new chemical recycling plants.

    I asked Jenkins, the energy industry analyst, to play out this scenario on a larger scale.

    Were all of these projects adding up? Could the industry conceivably make enough propylene and ethylene through pyrolysis to replace much of our demand for new plastic?

    He looked three years into the future, using his company’s latest figures on global pyrolysis investment, and gave an optimistic assessment.

    At best, the world could replace 0.2% of new plastic churned out in a year with products made through pyrolysis.

    https://www.propublica.org/article/delusion-advanced-chemical-plastic-recycling-pyrolysis

    #recyclage #green-washing #prolyse #illusion #efficacité #inefficacité #greenwashing #ExxonMobil #industrie_pétrolière #circularité #industrie_chimique #propylène #étylène #naphte #chimie

  • La #police en #hélicoptère, ou la #surveillance militaire des citoyens.

    Depuis plusieurs années, les hélicoptères de la #gendarmerie sont régulièrement déployés pour des missions de surveillance de l’#espace_public, et ce en toute #illégalité. Dotés d’un matériel d’abord développé dans un contexte militaire, la police se vante de leur capacité d’#espionnage bien supérieure à celles des #drones : #caméras_thermiques avec #zoom ultra-puissant, suivi automatisé des suspects, transmission en temps-réel des images à des postes de commandement…

    Leur usage n’a pourtant jamais été sanctionné – ni par le juge ni par la Cnil. Le gouvernement veut maintenant les légaliser dans la PPL « #Sécurité_Globale » – dont les débats ont repris début mars au Sénat.

    Difficile de remonter aux premières utilisations d’hélicoptères par la police à des fins de surveillance de l’espace public. En octobre 2000, une question écrite au Sénat laisse déjà deviner une utilisation régulière d’hélicoptères équipés de « caméras vidéo thermiques embarquées » par la police et la gendarmerie.

    Aujourd’hui en tous cas, la police et la gendarmerie sont fières de leurs capacités de surveillance. Pendant le #confinement, elles vantaient ainsi que l’hélicoptère « ne peut être ni vu ni entendu par les personnes au sol » et est doté de caméras « capables de deviner à des centaines de mètres la présence d’êtres humains ou d’animaux ». En 2018, il était précisé que la caméra pouvait même « identifier un individu à 1,5 km de distance » avec retransmission « en direct et suivi depuis le centre interministériel de crise du ministère de l’Intérieur ».

    En 2017, le commandant des « forces aériennes de la gendarmerie nationale » parle d’un « énorme zoom qui permet de lire à 300 mètres d’altitude une plaque d’immatriculation située à un kilomètre, d’identifier une personne à 2 km et un véhicule à 4 km », précisant qu’il peut « demander à la caméra de suivre automatiquement un objectif, quelle que soit la position ou la trajectoire de l’hélicoptère ».

    Un matériel militaire pour de la #surveillance_interne

    Plus que le type d’hélicoptère utilisé (apparemment, des « #EC-135 » que la gendarmerie prête à la police quand celle-ci en a besoin), c’est le type de caméra qui importe.

    Depuis au moins 2010, la gendarmerie utilise un dispositif nommé « #Wescam_MX-15 » – qui n’est même plus qualifié de « simple caméra » mais de « #boule_optronique ». C’est cet objet, avec sa caméra thermique et son zoom surpuissant, qui permet à la police de filmer, traquer, identifier (de jour comme de nuit) et de retransmettre en direct le flux vidéo, avec une « qualité d’image comparable à celle que le public connaît pour le Tour de France ».

    C’est un appareil clairement militaire, utilisé dans des zones de guerre et répertorié en tant que tel sur des sites d’armement. Il est pourtant déployé depuis plusieurs années au-dessus des #villes en France. Comme pour d’autres outils de la #Technopolice (drones, #vidéosurveillance automatisée…), il y a encore ici cette porosité entre les technologies militaires utilisées dans les pays en guerre, celles expérimentées aux #frontières et celles déployées pour la surveillance des villes – soit une #militarisation progressive de nos espaces publics.

    Pour le futur, les hélicoptères devraient être équipés chez #Safran, avec une « boule optronique » dite « #Euroflir_410 » : un zoom encore plus puissant, des détecteurs de mouvement, un ordinateur intégré… Bref, un ensemble de #technologies que la police ne manquera pas d’utiliser pour nous espionner au plus près. Comme pour les drones, ce type de technologies couplé à de l’#analyse_logicielle des #images concrétise la société fantasmée par le ministère de l’Intérieur dans son livre blanc publié en novembre dernier : celui d’une #surveillance_automatisée et totale. L’objectif est que ce nouveau dispositif soit « opérationnel avant les #JO de Paris 2024 ».

    Surveillance des #manifestations et #identification des « #suspects »

    Les utilisations des hélicoptères semblent encore plus larges que celles des drones : surveillance du confinement et des #manifestations, surtout pendant celles des #gilets_jaunes. En mars 2019, la gendarmerie annonce d’ailleurs avoir effectué 717 heures de vol au-dessus des manifestations, pour un coût total de 1 million d’euros.

    En 2010, déjà, la gendarmerie se vantait de sa surveillance des manifestations, car les hélicoptères sont, selon elle, « les mieux placés pour détecter les débordements, incidents ou intrusions dans les cortèges » avec des « images transmises en direct dans les salles de commandement (…) permettant aux responsables de faire intervenir immédiatement les effectifs au sol ».

    Au-delà de le surveillance des machines, c’est aussi sur leur capacité d’intimidation que mise la police quand elle dit « faire du bruit » au dessus des manifestations ou qu’elle multiplie les survols menaçants et continus au-dessus des #ZAD.

    Illégalité et #impunité de la surveillance

    Tout ce pouvoir de surveillance n’a jamais été, et n’est toujours pas, encadré par le moindre texte de #loi. Il n’existe aucune limite à ce qu’a pu faire et ce que peut faire aujourd’hui la police en termes de surveillance de la voie publique par hélicoptères : durée de conservation des données, types de lieux pouvant être filmés, accès aux images, information sur la captation…

    C’est exactement la même illégalité que nous avions soulevé concernant les drones et qui a conduit à leur interdiction en France, par le Conseil d’Etat d’abord, par la Cnil ensuite : l’absence de texte législatif ou réglementaire permettant à la police de capter des données personnelles. Rien de tel malheureusement pour les hélicoptères : malgré leur utilisation régulière, aucune autorité n’est venue rappeler le droit à la police.

    Le gouvernement, les parlementaires et la police en sont bien conscients. Ils veulent donc profiter de la proposition de loi « Sécurité globale » pour légaliser le dispositif – plusieurs dizaines d’années plus tard.

    La proposition de loi « Sécurité globale » revient en ce moment devant le Sénat. En plus d’intensifier la vidéosurveillance fixe, elle veut légitimer la vidéosurveillance mouvante : les drones, les caméras-piétons, les caméras embarquées et donc, les hélicoptères. Les parlementaires doivent refuser la militarisation de la surveillance de l’espace public.

    https://technopolice.fr/blog/la-police-en-helicoptere-ou-la-surveillance-militaire-des-citoyens
    #surveillance_militaire #France #armée

  • A la frontière franco-italienne, des refoulements « illégaux » de migrants, dénonce la Défenseure des droits

    Dans une décision-cadre inédite, au terme de deux ans d’instruction, la Défenseure des droits dénonce des violations « systématiques » des droits des personnes par les autorités françaises, en particulier des demandeurs d’asile et des mineurs isolés. Des #privations_de_liberté « arbitraires » et « indignes » sont aussi épinglées.

    C’est une décision inédite de la Défenseure des droits, Claire Hédon, qui est rendue publique jeudi 25 avril. Pour la première fois, cette autorité administrative indépendante s’est penchée avec exhaustivité sur les pratiques de la France à sa frontière avec l’Italie. Depuis 2015, des contrôles y ont été rétablis, qui contreviennent au principe de libre circulation des personnes dans l’espace Schengen, mais qui sont sans cesse justifiés auprès de la Commission européenne par la menace terroriste et les flux migratoires irréguliers en Europe.

    Pendant près de deux ans, la Défenseure a enquêté sur la façon dont ces contrôles aux frontières intérieures de l’Union européenne (UE) sont réalisés, en se rendant notamment aux postes de police de Menton (Alpes-Maritimes) et de Montgenèvre (Hautes-Alpes), en épluchant les registres des services, en visitant les locaux dans lesquels les personnes sont retenues, en interrogeant les préfectures et les forces de l’ordre. Ses conclusions sont cinglantes : « Les droits des personnes migrantes font l’objet de violations massives », soulignent les équipes de Mme Hédon auprès du Monde.

    En 2023, plus de trente mille refus d’entrée ont été réalisés à la frontière franco-italienne, quasi exclusivement au motif que les personnes n’avaient pas de document de voyage ou de titre de séjour. Sur 184 pages, les observations de la Défenseure des droits détaillent des contrôles, des interpellations, des privations de liberté et des renvois en Italie de migrants. Pour elle, ces refoulements sont « illégaux ».

    La Défenseure a par exemple constaté que des refus d’entrée sont opposés à des personnes contrôlées en dehors des points de passage frontaliers formellement identifiés. Elles se trouvent donc déjà sur le territoire français et devraient en conséquence se voir appliquer d’autres procédures de contrôle.

    Contrôles « discriminatoires »

    Sur le principal point de passage, la gare de Menton-Garavan, qui concentre « 70 % à 80 % des interpellations », Mme Hédon a aussi observé des contrôles « discriminatoires, fondés sur des caractéristiques physiques associées à une origine réelle ou supposée », mais aussi des palpations systématiques sans qu’un danger potentiel objectif ait été identifié, y compris sur des mineurs et à la vue du public.

    Une fois les personnes contrôlées amenées au poste de la police aux frontières, qu’il s’agisse de celui de Menton ou de Montgenèvre, la Défenseure des droits considère qu’elles sont éloignées sans tenir compte de leur situation individuelle et donc de façon indiscriminée et systématique, au mépris en particulier de leur souhait de demander l’asile. Mme Hédon s’étonne que les autorités « assument » de procéder ainsi. « Cette pratique illégale est pleinement avalisée par la hiérarchie des forces de police ainsi que par l’autorité préfectorale », souligne-t-elle, dénonçant « une violation durable et systématique du droit d’asile à la frontière franco-italienne ».

    Les violations des droits de l’enfant sont également largement documentées. La Défenseure des droits considère que la police doit immédiatement orienter vers l’aide sociale à l’enfance des départements les jeunes se disant mineurs isolés. En lieu et place de quoi, la police aux frontières procède à des « opérations d’identification judiciaires » : elle relève leurs empreintes et consulte plusieurs fichiers biométriques. De même, lorsque les mineurs présentent des documents d’état civil tels que des actes de naissance, ceux-ci ne sont pas pris en compte. A tel point que la police fait figurer des dates de naissance différentes sur les refus d’entrée qu’elle édicte.

    « Appréciation » de l’âge des mineurs

    Dans les Alpes-Maritimes, une expérimentation est menée avec le conseil départemental depuis 2019. Des effectifs sont présents au sein des locaux de police de Menton pour procéder à une « appréciation » de l’âge des jeunes, à travers un entretien de quelques minutes. Un entretien dont les enjeux ne sont pas précisés aux personnes et qui fait l’objet d’un compte rendu qui n’est pas relu par le jeune, pas plus que celui-ci n’est informé de la possibilité de saisir un juge des enfants s’il conteste l’évaluation de son âge. Pour la Défenseure, ce protocole expérimental est illégal. De même, Mme Hédon a constaté que, si la police italienne refusait de reprendre le jeune, la police française avait pour pratique de le laisser libre en lui notifiant une obligation de quitter le territoire. Un procédé jugé, là encore, illégal.

    De façon plus générale, la Défenseure des droits a constaté que la police privait de liberté les personnes interpellées, pendant parfois toute une nuit en raison de la fermeture des services de police italiens. Les locaux préfabriqués utilisés pour, officiellement, des « mises à l’abri » de migrants, sont en réalité des lieux d’enfermement « arbitraire », puisque les personnes n’y bénéficient pas des droits afférents. Le juge n’y exerce aucun contrôle, les personnes n’ont pas accès à un avocat et les conditions matérielles d’enfermement sont qualifiées d’« indignes », en raison notamment de l’exiguïté des lieux, du manque d’hygiène, de lits et de matelas, d’aération ou encore de séparation entre les mineurs et les adultes.

    Surtout, la Défenseure des droits rappelle que, depuis une décision du Conseil d’Etat du 2 février (qui répercute un arrêt de la Cour de justice de l’Union européenne du 21 septembre 2023), le droit applicable aux étrangers à une frontière intérieure a été clarifié. La justice a ainsi rappelé que les éloignements devaient suivre une procédure de remise à l’Italie bien précise (prévue par un accord bilatéral de 1997, dit « de Chambéry »). Ces précisions de droit ont des implications importantes sur les pratiques de la police.

    Aménager des locaux spécifiques

    Les personnes contrôlées à la frontière peuvent ainsi faire l’objet, si elles se trouvent en situation irrégulière, d’une retenue administrative pour vérification de leur droit au séjour. Mais la Défenseure rappelle que ni les demandeurs d’asile ni les mineurs non accompagnés ne peuvent être placés en retenue administrative (car alors ils ne sont pas en situation irrégulière mais doivent être orientés, les premiers vers un guichet de demande d’asile et une véritable mise à l’abri, les seconds vers l’aide sociale à l’enfance pour une procédure d’évaluation). Les demandes d’asile formulées par les personnes étrangères « doivent être transmises sans délai à l’autorité préfectorale, et sans autres vérifications », insiste la Défenseure.

    Mme Hédon profite de sa décision pour se pencher sur les conséquences éventuelles de la loi relative à l’immigration adoptée en décembre 2023 et promulguée début 2024, et qui prévoit le placement en rétention administrative des demandeurs d’asile lorsqu’ils présentent un « risque de fuite ». Pour la Défenseure, cette rétention ne saurait s’appliquer de façon systématique aux migrants à la frontière et devrait faire l’objet d’un contrôle de constitutionnalité au fond.

    Quant aux personnes en situation irrégulière placées en retenue administrative, la Défenseure des droits rappelle que cette retenue ne peut excéder vingt-quatre heures, que des locaux spécifiques doivent être aménagés à cette fin, qui respectent la dignité des personnes, que le procureur doit être systématiquement averti, et qu’il doit en outre autoriser toute consultation du fichier automatisé des empreintes digitales, que les personnes doivent être informées, dans une langue qu’elles comprennent, de la possibilité d’avoir un avocat, qu’un procès-verbal de fin de retenue doit leur être notifié ainsi qu’une décision écrite de remise à l’Italie, pays qui doit formellement donner son accord à cette remise. « Aujourd’hui, rappellent les équipes de la Défenseure des droits, nous n’avons pas de garantie sur un changement de système. »

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/04/25/a-la-frontiere-franco-italienne-des-refoulements-illegaux-de-migrants-denonc

    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #frontières #Italie #France #Vintimille #renvois #expulsions #défenseur_des_droits #contrôles_frontaliers #Hautes-Alpes #Alpes_Maritimes #Montgenèvre #violations_massives #refus_d'entrée #interpellations #refoulements #push-backs #droit_d'asile #illégalité #mineurs #enfants #âge #retenue_administrative

    –-> et ce terme "illégaux" mis entre guillemets... pourtant les #refoulements sont illégaux. C’est l’article 33 de la convention sur les réfugiés qui le dit, c’est le #principe_de_non-refoulement...
    #illégalité #terminologie #mots #vocabulaire

    –-

    ajouté à la métaliste autour de la Création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

    • Respect des droits des personnes migrantes à la frontière intérieure franco-italienne : le Défenseur des droits publie une décision-cadre

      Le Défenseur des droits publie ce jour une décision-cadre sur le respect des droits des personnes contrôlées et interpellées à la frontière intérieure franco-italienne, par les forces de sécurité françaises, dans les départements des Alpes-Maritimes et des Hautes-Alpes.

      Le franchissement des frontières de l’Union européenne (UE) est régi par le règlement européen dit code frontières Schengen, qui distingue d’un côté, les « frontières extérieures » de l’UE, et de l’autre, les « frontières intérieures » entre deux États membres de l’UE. Le franchissement de chaque catégorie de frontières obéit à des conditions qui lui est propre. Concernant les frontières intérieures, le principe est la libre circulation des personnes. Le droit de l’UE assure ainsi l’absence de tout contrôle des personnes aux frontières intérieures, quelle que soit leur nationalité, lorsqu’elles franchissent ces frontières. Cependant, depuis 2015, la France a rétabli les contrôles à ces frontières, en faisant application d’une exception prévue par le code frontières Schengen mais strictement encadrée.

      La #décision-cadre n°2024-061 (https://juridique.defenseurdesdroits.fr/index.php?lvl=notice_display&id=50351) s’inscrit dans le cadre du traitement de réclamations individuelles adressées à l’institution par les personnes concernées et par l’intermédiaire d’associations. Elle est le résultat d’une instruction contradictoire menée auprès des autorités mises en cause et de la mise en œuvre des pouvoirs d’enquête et d’intervention de l’institution. À ce titre, la Défenseure des droits a effectué un déplacement avec ses équipes à Montgenèvre et Briançon les 10 et 11 février 2022. Les services de l’institution ont également mené une vérification sur place du 10 au 13 avril 2023 à Menton, au sein des locaux de la police aux frontières (PAF) et à des points de passage autorisés.

      Cette décision intervient dans un contexte inédit, dans lequel la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE, 4e ch., 21 septembre 2023) et le Conseil d’État (CE, section du contentieux, 2ème et 7ème ch.) ont récemment réaffirmé l’obligation pour les États membres de l’Union européenne, d’appliquer les garanties juridiques minimales prévues par la directive européenne dite retour aux personnes qui sont interpellées à la frontière intérieure, afin que leurs droits fondamentaux soient respectés.

      De manière préoccupante, cette décision-cadre conclut à l’existence de procédures et pratiques qui ne sont pas conformes à la directive retour, au droit européen et au droit national. Elle conclut également à des atteintes substantielles et multiples aux droits des personnes interpellées, à partir du moment où elles sont contrôlées, jusqu’à leur éloignement du territoire.

      Des procédures de refus d’entrée contraires au droit de l’UE

      Le Défenseur des droits constate que les personnes interpellées font l’objet d’une procédure de refus d’entrée qui ne respecte pas les garanties juridiques minimales de la directive retour telles que le recours à une procédure équitable et transparente, impliquant notamment un examen de la situation individuelle de la personne, la motivation des décisions en fait et en droit ou encore l’accès à l’interprétariat. Ces atteintes concernent un nombre de personnes d’autant plus important que la procédure est mise en œuvre sur une zone frontalière très étendue et imprécise, ce qui est en contradiction avec le droit européen.
      Une privation de liberté hors de tout cadre juridique

      Un grand nombre de personnes interpellées se retrouvent enfermées pendant plusieurs heures, voire une nuit entière, dans des locaux présentés comme des espaces de « mise à l’abri », sans fondement légal et dans des conditions indignes. Plus inquiétant encore, parmi ces personnes se trouvent des personnes vulnérables, notamment des familles, des mineurs et des demandeurs d’asile.
      Des obstacles au droit d’asile

      Concernant les demandeurs d’asile, le Défenseur des droits constate notamment que si la personne est considérée comme « non entrée » sur le territoire, elle fait l’objet d’un refus d’entrée et aucune demande d’asile n’est prise en compte. Cette pratique largement assumée est ouvertement contraire au droit d’asile, et constitue une entrave grave, généralisée et durable à l’accès à la procédure d’asile à la frontière franco-italienne.
      De lourdes atteintes aux droits des mineurs

      Concernant les mineurs, le Défenseur des droits relève de lourdes atteintes à leurs droits, qu’ils soient ou non accompagnés, en violation de l’intérêt supérieur de l’enfant et des droits des mineurs, et des garanties de la directive retour. Les procédures mises en place entravent notamment l’accès des mineurs non accompagnés à la protection de l’enfance.

      Au regard de l’ensemble de ses constats et conclusions alarmants, la Défenseure des droits formule une série de recommandations qu’elle adresse au ministre de l’Intérieur et des Outre-mer et aux préfectures concernées. Elle appelle à faire cesser, dans les plus brefs délais, les procédures et pratiques constatées et à mettre fin aux atteintes multiples portées aux droits des personnes qui sont contrôlées et interpellées à la frontière franco-italienne.

      https://www.defenseurdesdroits.fr/respect-des-droits-des-personnes-migrantes-la-frontiere-interieur

    • La France accusée de « violations systématiques » des droits des migrants à sa frontière avec l’Italie

      Une enquête très documentée publiée jeudi par la Défenseure des droits souligne des « violations systématiques » par les autorités françaises des droits des personnes migrantes souhaitant entrer sur le territoire depuis l’Italie, ainsi que des privations de liberté « arbitraires et indignes ».

      En 2023, 30 000 refus d’entrées ont été notifiés à des personnes que la police a ensuite refoulées sur le territoire italien. Dans bon nombre de cas, ces refoulements étaient illégaux. C’est ce qu’a pu constater la Défenseure des droits Claire Hédon au terme d’une enquête de deux ans, en se rendant avec ses équipes à la frontière franco-italienne. Cette « décision-cadre », un document qui fait partie des moyens d’action de la Défenseure des droits, a été publiée jeudi 25 avril et adressée au ministère de l’Intérieur.

      L’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafe) constate ces violations des droits sur le terrain depuis huit ans. « On était encore en observation à la frontière la semaine dernière, précise son président Alexandre Moreau. Ce qu’on observe, c’est qu’il n’y a toujours pas d’interprètes dans les procédures de vérification de séjour. Il n’y a pas d’information sur la procédure appliquée aux personnes, il n’y a pas d’avocat et donc pas d’assistance juridique. Il n’y a pas non plus d’information sur la procédure d’asile. Or un certain nombre de personnes fuient des situations qui leur justifieraient un besoin de protection internationale au-dessus de l’asile, il n’y a pas de toute cette explication et c’est encore pire pour les mineurs isolés. »
      Atteintes aux droits des enfants pour les mineurs non accompagnés

      Le cas des mineurs non accompagnés est particulièrement mis en lumière dans l’enquête de la Défenseure des droits. Selon la loi, une personne migrante se déclarant mineure doit notamment être prise en charge par les services départementaux de l’Aide sociale à l’enfance (ASE). Or, les pratiques de la police française aux frontières (PAF) ne reflètent pas les procédures prévues, estime Alexandre Moreau.

      « Lorsqu’on procède à une vérification du séjour pour les mineurs, on doit leur permettre un temps de répit. Mais on observe qu’il n’y a pas ce temps de répit immédiatement. Quand il y a interpellation, il y a examen. L’examen ne dure même pas 30 minutes. On ne leur explique pas pourquoi ils doivent répondre à ces questions et quels en sont les enjeux. Systématiquement, on s’aperçoit que la minorité, elle, est contestée et donc le doute ne profite pas à la minorité. Et on ne leur explique pas, par exemple, qu’ils ont droit à un avocat, qu’ils ont droit aussi de saisir le juge des enfants pour contester la décision de majorité. Or, les mineurs isolés ne sont jamais, jamais, jamais en situation irrégulière sur le territoire. »
      Privations de liberté arbitraires

      Une fois interpellées, « un grand nombre de personnes se retrouvent enfermées pendant plusieurs heures, voire toute une nuit », souligne l’enquête. Cela sous prétexte d’être « mises à l’abri », avant d’être reconduites de l’autre côté de la montagne par la police italienne. « On n’est ni dans une zone d’attente, ni dans un centre de rétention, indique Alexandre Moreau. C’est une procédure complètement illégale et arbitraire d’un enfermement dans des préfabriqués, donc en plus dans des conditions complètement indignes. Et on ne sait pas exactement dans quel cadre juridique la police pratique cet enfermement. Elle parle de mise à l’abri, mais c’est tout un code particulier qui n’est pas non plus lui-même respecté. »

      Parmi la longue liste d’entraves constatées par la Défenseure des droits dans ce rapport de 180 pages, le lieu même des contrôles policiers pose question. Les points de contrôles doivent être déclarés à la Commission européenne, condition sine qua non au rétablissement des contrôles aux frontières intérieures de l’espace Schengen. Or, à plusieurs reprises, des personnes exilées ont été interceptées à d’autres endroits que ceux officiellement prévus dans les textes.
      Le rétablissement des frontières intérieures justifié par un attentat à Moscou

      Le droit européen permet effectivement aux États membres de l’espace Schengen, dont la libre-circulation des personnes est un principe clef, de rétablir les contrôles à titre exceptionnel et pour une durée de six mois.

      Depuis 2015, en raison d’une menace terroriste après les attentats du 13 novembre 2015 à Paris, la police française aux frontières a activement repris du service. Depuis, le rétablissement des contrôles est sans cesse renouvelé, motivé par des événements aussi variés que la pandémie de Covid-19 en 2020, ou l’organisation de la Coupe du monde de Rugby en 2023.

      L’autorisation actuelle prend fin le 30 avril 2024. Au 1er mai, de nouveaux arguments ont été notifiés à la Commission européenne : la tenue des Jeux Olympiques et paralympiques à Paris et l’attentat de Moscou du 22 mars dernier.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/56698/la-france-accusee-de-violations-systematiques-des-droits-des-migrants-

    • Migrations à la frontière franco-italienne : comment la loi est utilisée pour déplacer les montagnes

      Imaginez. La vie chez vous – en Syrie, en Guinée, au Bangladesh, en Turquie – est devenue trop dangereuse. Après y avoir longuement réfléchi, vous prenez donc la décision de partir, de quitter votre pays. Vous avez déjà tenté plusieurs fois d’obtenir un visa pour faire le voyage en sécurité, sans succès. Votre destination : la France. C’est là qu’une cousine peut vous accueillir le temps de la procédure pour obtenir l’asile, puis de reconstruire votre vie. Il ne vous reste donc que de « tenter l’aventure », voilà comment vous définissez le voyage entre vous, comme le soulignent les universitaires Cécile Canut et Alioune Sow dans un texte publié il y a dix ans.

      Vous êtes ainsi contraint de traverser des montagnes, des déserts, des rivières et des mers de manière « illégalisée ». C’est ainsi que le chercheur Harald Bauder suggère de définir les parcours qui se font de manière clandestine. Vous arrivez par voie terrestre ou maritime aux portes de l’Europe début décembre 2023. Vous vous apprêtez à entrer en Grèce, Italie ou Espagne, des pays membres de l’Union européenne et par ce fait soumis aux règles communes de l’espace Schengen.

      C’est une agente des polices aux frontières (PAF) du pays en question qui contrôle si vous avez les papiers requis – un passeport avec un visa valable pour l’espace Schengen – pour passer la frontière dite « extérieure » de l’Union européenne (UE). Vous ne les avez pas, mais vous savez par contre que, pour déposer une demande d’asile, les papiers ne sont pas nécessaires. L’agente devant vous incarne l’autorité nationale, elle agit au nom de l’État, qui est souverain dans le contrôle des flux migratoires et dans la fixation des conditions d’entrée et de séjour des personnes étrangères sur son sol.

      Pourtant, il y a des normes qui priment, et l’agente devrait le savoir. C’est notamment le cas du principe dit « de non-refoulement ». Celui-ci limite cette liberté de principe pour les personnes qui demandent l’asile, soit celles qui font une requête de protection contre une persécution subie dans leur pays. C’est l’article 33 de la Convention relative au statut des réfugiés (ou Convention de Genève) qui interdit l’expulsion d’« un réfugié sur les frontières des territoires où sa vie ou sa liberté serait menacée ».

      Vous décidez donc de manifester votre intention de demander l’asile. Vous êtes enfermé dans un hotspot, un de ces centres d’enregistrement mis en place dès 2015 par l’UE dans le but d’identifier, d’évaluer et de trier les personnes exilées arrivant sur le territoire européen. Vous avez de la chance, vous y restez seulement quelques jours et vous trouvez le moyen de continuer le voyage. Vous êtes en Italie, mais vous êtes surtout sur le sol de l’Union européenne, un espace de libre circulation, pensiez-vous. Fini les contrôles systématiques aux frontières dites « intérieures » depuis mars 1995. Théoriquement.
      Des contrôles accrus

      Dans la pratique, les choses sont différentes. Un compatriote vous a averti : pas possible de passer par l’une des innombrables infrastructures qui permettent de franchir rapidement les Alpes et se rendre en France, où vous attend votre cousine.

      En effet, les contrôles aux frontières ont été réinstaurés par l’Hexagone depuis 2015. Pour faire cela, la France a dû les justifier sur la base d’une « menace grave à l’ordre public » et de la « sécurité ». C’est le seul pays européen à les avoir mis en place sans interruption, depuis 2015.

      Dernière prolongation obtenue, celle qui couvrira la période allant du 1er mai au 31 octobre 2024, dont voici les raisons évoquées :

      « Les Jeux olympiques et paralympiques organisés en France durant l’été 2024, qui augmentent considérablement le risque pour la sécurité nationale, une menace terroriste intensifiée, l’attentat de Moscou du 22 mars 2024 revendiqué par l’État islamique, une pression migratoire constante aux frontières extérieures de l’espace Schengen, une augmentation significative des franchissements irréguliers notamment en provenance de Turquie et d’Afrique du Nord, une pression sur le système d’accueil. »

      Désormais, depuis donc 2015, les frontières sont surveillées et militarisées. Si vous choisissez de passer par l’un des postes-frontière officiels vous serez contrôlé, arrêté, puis expulsé en Italie. Il faut tenter par des passages alternatifs, par les chemins de montagne, vous suggère le même compatriote.
      Vous n’avez qu’un sac en plastique avec des papiers administratifs

      4 janvier 2024. Vous changez de train à Turin pour vous rendre à Oulx, dans le Val de Suse. Là, vous êtes accueilli une nuit au Rifugio Fraternità Massi, un lieu où vous pouvez dormir et manger.

      Des bénévoles vous donneront des habits adaptés pour la traversée via le col de Montgenèvre jusqu’à Briançon. Vous-même n’avez qu’un sac en plastique avec des papiers administratifs, une photo de votre mère et de vos sœurs et frères, un téléphone portable. Le reste, vous l’avez perdu durant votre long périple et vous n’avez évidemment pas de chaussures adaptées pour marcher dans la montagne.

      Au refuge, on vous recommandera les sentiers les moins dangereux si vous décidez de contourner le poste-frontière. Vous suivez les conseils. Vous vous mettez en marche, la nuit vers 2h du matin. Vous voyez en contrebas les lumières dans les maisons de vacances du village de Montgenèvre.

      Vous marchez depuis cinq heures dans le froid et la nuit. Vous avez souvent l’impression de refaire le même chemin plusieurs fois, et vous ne savez pas si vous êtes déjà en France ou encore en Italie. Soudain, vous voyez trois personnes en uniforme. Ils viennent vers vous et ils vous ordonnent de vous arrêter.

      Vous obéissez. Vous êtes amené au poste-frontière de Montgenèvre et là, sans vous poser aucune question, on vous donne un papier, un « refus d’entrée ». Après des formalités avec la police italienne, qui a pris vos empreintes digitales, vous êtes remis à la Croix-Rouge qui vous ramène à Oulx. La bénévole tient à vous dire que vous avez eu de la chance, que vous êtes passé « au bon moment », dans un moment dans lequel le droit semble enfin être respecté, mais elle ajoute : « Les règles et les pratiques aux frontières changent rapidement, on ne sait pas de quoi le demain sera fait ».

      Une procédure, dans ces conditions, illégale. Vous le savez maintenant que vous êtes arrivé à Grenoble, là où vous avez trouvé un refuge temporaire. Une bénévole d’une association vous a expliqué que ce changement est dû à un arrêt publié le 2 février 2024 par le Conseil d’État.

      C’est grâce à cette décision que le droit semble maintenant être respecté à la frontière haute alpine. En effet, une compatriote est passée par le même chemin que vous il y a quelques jours, et elle a pu se présenter au poste-frontière, expliquer aux gardes-frontière son intention de demander l’asile à la France et elle a ainsi pu continuer son chemin jusqu’à Briançon, en toute sécurité et sans peur d’être pourchassée dans les montagnes. La bénévole tient à souligner :

      « Les règles et les pratiques aux frontières changent rapidement, on ne sait pas de quoi le demain sera fait ».

      Avant cette date, les décisions des forces de l’ordre se fondaient sur une vague indication géographique ; et c’était cette interprétation de votre localisation dans l’espace qui comptait et décidait de votre sort.
      Une microgéographie cruciale

      Cette microgéographie importe bien plus qu’elle ne le semble, comme le montre un rapport récent de la Défenseure des droits. Cette dernière prend la forme d’une décision-cadre publiée en avril 2024 et portant sur la frontière franco-italienne dite « haute » (Montgenèvre/Hautes-Alpes) ainsi que sur celle dite « basse » (Menton/Alpes-Maritimes).

      C’est en se fondant sur des visites sur place – qui ont eu lieu à Montgenèvre et Briançon les 10 et 11 février 2022 et du 10 au 13 avril 2023 à Menton – et sur des décisions de justice que la Défenseure des droits a rendu sa décision cadre. Celle-ci permet ensuite à l’institution de régler un litige, préconiser des recommandations ou sanctionner.

      Dans ce cadre-ci, elle a constaté que les pratiques étaient non conformes au droit, notamment en analysant quel régime juridique est appliqué en cas d’interpellation des personnes dans ces régions frontalières.

      Les régimes qui les régissent ne sont pas les mêmes : le « régime frontière extérieure » ou le « régime territoire », selon que la personne est considérée comme ayant franchi la frontière, ou pas.

      Dans le premier cas, la décision porte sur la non-autorisation à accéder au territoire national. Dans le deuxième, les gardes-frontière estiment en revanche que la personne est bel et bien rentrée sur le territoire, mais qu’elle y séjourne de manière irrégulière. Si, dans le premier cas, elle se voit notifier un refus d’entrée, dans le deuxième, c’est une décision de renvoi selon la directive européenne dite « retour » qui s’applique et qui est légalement « autrement plus contraignante », comme l’affirme la Défenseure des droits.

      Il devrait pourtant être simple de juger si une personne se trouve sur le territoire national, il suffit de constater si elle est en deçà ou au-delà du tracé frontalier. La frontière est une ligne, croit-on. Oui, mais…
      Pourquoi la définition de col est problématique

      Ce que constate Madame Hédon, c’est que dans ces régions frontalières haute et basse, il y a une « imprécision du tracé » qui résulte en une « extension illégale de la frontière franco-italienne » (p.18).

      Prenons en exemple la mention de la notion géographique de « col » utilisée par les forces de l’ordre dans les Hautes-Alpes et qui donne lieu à des décisions de refus d’entrée. Si le Larousse la définit comme « Partie déprimée d’une crête montagneuse, utilisée comme passage » on ne peut que constater l’imprécision du terme quant au territoire qu’il est censé définir.

      Cette désignation, selon la Défenseure des droits, ne permet pas d’identifier précisément la zone d’interpellation, et notamment de savoir si les contrôles ont été effectués sur les points de passage autorisés (PPA), seuls endroits où des contrôles peuvent être conduits en vertu du Rétablissement des contrôles aux frontières intérieures en vigueur depuis 2015 en France.

      En dehors de ces points de passage ou « sur le trait de frontière intérieure entre deux PPA » (p.23), les personnes doivent être « considérées sur le territoire français » (p.23). Ainsi, et emblématiquement, la Défenseure des droits recommande d’« établir une liste de PPA précisément délimités, de transmettre les coordonnées géographiques de ces lieux à la Commission européenne et de la publier à l’échelle nationale par le biais du Journal officiel » (p.23).

      Voilà dans quelle imbrication juridique vous êtes tombé quand ces agents en uniforme vous ont sommé de montrer vos papiers ! Vous n’êtes pourtant pas la seule personne à qui l’on dit, et contre toute évidence, que vous ne vous trouvez pas sur le territoire national alors même que le GPS sur votre smartphone vous indique le contraire : Lat. 44°55’25.6"N, Lon. 6°42’20.8"E. Territoire français.
      Zones d’attente

      À quelques centaines de kilomètres de là – même topo, autre endroit où la France « joue » avec le tracé frontalier. Autre fiction juridique.

      C’est un ressortissant d’Amérique latine cette fois à qui cet agent de la police aux frontières dit de ne pas être sur le territoire français. Son avion a pourtant bien atterri à Roissy, et il a même déjà envoyé un petit message à sa conjointe pour l’en informer comme on l’entend dans le documentaire sonore signé Antoine Bougeard et Nausicaa Preiss.

      Mais les gardes-frontière l’ont amené dans « une zone d’attente », des lieux institués en 1992 avec la loi Quilès. Comme le rappelle Laure Blondel, co-directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), il s’agit de lieux dans lesquels sont enfermées les personnes qui demandent l’asile et celles qui parviennent à atteindre la frontière, mais dont l’accès au territoire est refusé car elles ne remplissent pas les conditions d’entrée ou sont suspectées d’être un « risque migratoire ».

      La loi Quilès préfigure la situation aujourd’hui à Montgenèvre ou à Menton, et qui est en train de se jouer dans le Pacte sur les migrations et l’asile dernièrement approuvé par les États membres de l’Union européenne. Des personnes « enfermées nulle part », comme le suggère le titre du récent documentaire sonore sur les zones d’attente, ou des « prisonnièr·e·s du passage », comme le propose la bande dessinée signée Chowra Makaremi et Matthieu Parciboula (2019).

      Que vous arrivera-t-il ?

      Qu’apprend-on de ces histoires ? On sait que depuis la mise en œuvre de la Convention sur les réfugiés signée en 1951, prétendre à une protection exige deux conditions : être sorti du pays dans lequel la persécution a lieu et se trouver physiquement sur le sol du pays où on demande la protection. On en déduit donc que l’accès au territoire permet l’accès aux droits.

      L’enjeu est donc éminemment géographique en plus d’être juridique. Comme l’a si bien démontré le juriste Bastien Charaudeau Santomauro, à la frontière franco-italienne l’on peut observer « un bricolage du droit », qui passe aussi (avant tout ?) par un bricolage de la définition même des frontières.

      En effet, depuis désormais plus de 30 ans, les États trouvent des astuces afin de créer des « fictions juridiques », c’est-à-dire, décaler le tracé frontalier et créer des zones d’extraterritorialité ou plutôt, comme l’écrit Bastien Charaudeau Santomauro, d’« a-territorialité », c’est-à-dire, des zones qui limitent – voire empêchent – l’accès aux droits.
      Vous marchez plus de dix heures dans la neige

      Ainsi, quand la bénévole vous explique ce changement de pratiques à la frontière, intervenu après la décision du 2 février par le Conseil d’État, vous vous dites que vous auriez dû bénéficier du droit à l’asile directement à la frontière, au lieu d’être renvoyé à Oulx.

      Pour vous, les choses ont été différentes. Après avoir la traversée, après avoir dormi à nouveau au Refuge Fraternità Massi, vous avez repris le bus, et puis continué à pied. Vous croisez d’autres personnes, hommes, femmes et enfants, qui ont fait ce trajet, vous ont-ils dit deux, trois, quatre… huit fois.

      Vous voulez éviter tout risque d’être contrôlé. Alors, vous avez pris un chemin très haut dans la montagne, tant pis s’il a fallu marcher plus de dix heures dans la neige qui vous arrive à la hauteur de votre bassin. Vous êtes épuisé, gelé, et très désorienté.

      Au petit matin vous arrivez enfin à Briançon, et vous êtes accueilli quelques jours au Refuge solidaire. C’est là qu’on vous dit de vous rendre en Préfecture pour déposer votre demande d’asile, maintenant que vous êtes effectivement sur le territoire. Vous mesurez l’absurdité de l’administration… Pour exercer votre droit de demander une protection à la France, vous avez finalement dû éviter les agents normalement en charge d’appliquer le cadre légal et qui vous permettent de le faire en sécurité.

      https://theconversation.com/migrations-a-la-frontiere-franco-italienne-comment-la-loi-est-utili

    • Frontières : des « fictions juridiques » pour esquiver le droit international

      Une « fiction juridique » : c’est ainsi que la Défenseure des droits a qualifié en avril dernier le stratagème que la France a mis en place à sa frontière avec l’Italie. Depuis 2015, l’administration a ainsi esquivé le droit international et décidé d’une politique de refoulement systématique des personnes exilées. Un procédé qui s’est accompagné de nombreux dénis de droits envers ces dernières.

      ram05 a recueilli sur ce sujet les éclairages d’une enseignante-chercheuse et géographe.
      Dans quel cadre se déroulent les contrôles aux frontières ?

      La Défenseure des droits en rappelle l’historique dans sa décision-cadre rendue fin avril 2024. Il s’agit d’un rapport sur les pratiques des forces de l’ordre à la frontière franco-italienne, résultant d’une instruction menée entre 2022 et mars 2024. Le document est très sévère envers l’administration et conclut à de nombreuses atteintes aux droits des personnes interpellées à la frontière franco-italienne.

      Pour résumer, le principe de base à l’intérieur de l’Union Européenne est la libre circulation, quelque soit la nationalité des personnes. Mais une exception est possible : un pays peut demander à l’UE un rétablissement des contrôles à ses frontières, « en dernier recours », et « en cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure ».

      La France a enclenché cette procédure le 13 novembre 2015, jour des attentats en Île-de-France, pour lutter contre la menace terroriste. Depuis, elle la renouvelle tous les 6 mois.

      Ces contrôles restent toutefois encadrés par le droit, rappelle Cristina del Biaggio, enseignante-chercheuse et géographe à l’Université Grenoble Alpes.

      Ces contrôles aux frontières ne doivent pas s’apparenter à des contrôles systématiques ou des contrôles au faciès.

      « À partir de 2015, la France a demandé une dérogation du code frontière Schengen, dans lequel elle a demandé de pouvoir rétablir des contrôles frontières. Mais ceux-ci ne doivent pas s’apparenter à des contrôles systématiques aux frontières.

      Dans ce cadre-là, la France a dû envoyer une liste des points de passage autorisés à l’Union européenne, et dans cette liste-là, il y a des endroits précis, des lieux précis, pour lesquels les forces de l’ordre ont le droit de faire des contrôles et des interpellations de personnes qui passent la frontière, et de pouvoir demander les raisons pour lesquelles les personnes passent la frontière.

      Mais ils ne doivent pas, encore une fois, s’apparenter à des contrôles systématiques aux frontières ou des contrôles au faciès », retrace Cristina del Biaggio.

      Un rétablissement des contrôles aux frontières, d’accord, mais dans des lieux précisément identifiés et pas de manière systématique.
      La France a-t-elle respecté ces contraintes ?

      Non, a observé la Défenseure des droits. Celle-ci mentionne d’une part des « contrôles systématiques et sans limitation de durée », ce qui est donc contraire au droit.

      Mais surtout, la Défenseure des droits signale une « imprécision du tracé » et une « extension illégale » de la frontière franco-italienne.

      Ainsi, les PPA, points de passages autorisés, dans les Hautes-Alpes, sont définis notamment comme les cols de Larche, Agnel, de l’Échelle et de Montgenèvre, la notion de col étant particulièrement « imprécise » et permettant donc des contrôles dans une zone trop large. La décision-cadre recommande d’établir des PPA « précisément délimités » et de communiquer leurs « coordonnées géographiques ».

      L’administration est également pointée du doigt pour une autre pratique : considérer que les personnes interpellées ne se trouvent en fait pas sur le territoire français, et leur notifier un « refus d’entrée ».

      On retrouve Cristina del Biaggio.

      La France trouve des stratagèmes pour faire comme si la personne n’était jamais arrivée sur le territoire.

      « Dans une espèce de ce que les juristes appellent une « fiction juridique », la France trouve des moyens, des fictions, des stratégies, des stratagèmes pour faire comme si la personne n’était jamais arrivée sur le territoire.

      D’ailleurs, cette décision s’appelle « refus d’entrée », ce qui montre bien que la personne n’est pas encore considérée comme étant entrée sur le territoire, comme ayant mis physiquement les pieds sur le territoire.

      Donc on refuse d’entrer à des personnes à qui on devrait donner la possibilité de rentrer pour notamment demander une protection et donc l’asile », expose l’universitaire.
      La France respecte-t-elle le droit international ?

      En théorie chaque État doit garantir l’application du droit international et du droit d’asile sur son territoire.

      « En gros, dès qu’une personne accède physiquement à un territoire, qu’elle pose ses pieds sur un territoire, cette personne peut faire valoir des droits, et notamment le droit de demander une protection au titre de l’asile.

      Les États, donc la France aussi, doit garantir que ces droits soient respectés », rappelle Cristina del Biaggio.

      Le raisonnement est donc simple : « vu que l’entrée sur le territoire garantit des droits, on fait semblant que la personne n’est pas entrée sur le territoire pour ne pas avoir à lui donner accès à ces droits », résume l’universitaire.

      Cette sorte d’entre-deux, de zone grise au bord de la frontière, constitue un « détournement » du droit, estime la Défenseure.

      Depuis la publication de ce rapport, les pratiques des forces de l’ordre à la frontière ont cependant évolué vers un meilleur respect des droits des personnes exilées, a constaté l’association Tous Migrants. Nous vous en parlions dans Le Forum Hebdo du 17 mai 2024.
      Ce stratagème existe-t-il aussi ailleurs ?

      La France, décidément, est avant-gardiste sur le sujet, relate Cristina del Biaggio.

      La France a été une pionnière de ces fictions juridiques et territoriales, avec la création des zones d’attente dans les aéroports.

      « La France, déjà, a été une des pionnières dans la création de ces fictions juridiques et/ou fictions territoriales, notamment avec la création des zones d’attente dans les aéroports. Si je ne me trompe pas, c’était 1992. C’est toujours le même principe : la France décide qu’il y a certaines zones sur son territoire qui ne sont pas considérées vraiment comme faisant partie du territoire.

      Il y a des chercheurs qui parlent aussi de « a-territorialité », pour dire que la France fait semblant que ces zones-là ne sont pas des zones qui appartiennent à son territoire », détaille la géographe.

      Et des exemples d’État qui s’amputent d’une partie de leur territoire pour ne pas avoir à y appliquer le droit, il en existe plusieurs à travers le monde.

      Un exemple assez éclatant a été décidé en 2001 en Australie, c’est ce que cet État appelle « l’excision territoriale »de ses côtes nord.

      « C’est le cas par exemple à la frontière entre l’Espagne et le Maroc, à Melilla, enclave espagnole sur le territoire marocain. L’Espagne a construit une barrière frontalière qui est en fait une triple barrière, trois grillages successifs parallèles dans l’espace qui créent une espèce de zone. l’Espagne a décidé que la zone justement qui se trouve entre les trois barrières n’est pas considérée comme étant territoire espagnol. Donc ça veut dire que la personne qui arrive à traverser un grillage qui se trouve dans cette zone entre les trois grillages n’est pas vraiment considérée comme étant sur le territoire espagnol. Et donc les forces de l’ordre les renvoient de l’autre côté, ce qui est encore une fois interdit par le droit international.

      C’est la même chose avec la Hongrie qui a créé une espèce de bande frontalière d’une largeur de 8 km à l’intérieur de son territoire où elle a décrété que ce n’est pas vraiment la Hongrie.

      Et je pense qu’un exemple assez éclatant a été décidé en 2001 en Australie, c’est ce que cet État appelle « l’excision territoriale ». L’Australie a décidé que ses côtes nord n’étaient pas vraiment son territoire et que les personnes qui arrivaient par bateau n’avaient aucun droit une fois débarquées sur la côte. Ils appellent ça « l’excision territoriale », ils enlèvent une partie du territoire de leur propre territoire », énumère Cristina del Biaggio.

      https://ram05.fr/frontieres-des-fictions-juridiques-pour-esquiver-le-droit-international

  • #Mayotte : pour une déconstruction de l’association #bidonville – illégalité – délinquance
    https://metropolitiques.eu/Mayotte-pour-une-deconstruction-de-l-association-bidonville-illegali

    Avec l’opération « Mayotte place nette », les habitants des quartiers précaires, accusés d’être en situation irrégulière, sont dans la ligne de mire du gouvernement français. Pourtant, ce qui les caractérise est moins l’illégalité de leurs statuts administratifs et résidentiels qu’une marginalité construite socialement, dans un contexte postcolonial singulier. Le 10 février 2024, dans une vidéo publiée sur le réseau social X, le ministre de l’Intérieur français, G. Darmanin, annonce le déploiement imminent #Débats

    / Mayotte, bidonville, #habitat_précaire

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_aussedat.pdf

    • Les infiltrés : Lordon a raison de citer cette note d’ Intérêt Général, c’est un des seuls travaux qui affronte les difficultés que rencontrerait un gouvernement “vraiment” de gauche qui serait élu, et tente d’y apporter des réponses ⤵️

      Avec du Intérêt Général dedans. (Vers la 5e minute). Et ça c’est la grande classe ! Et les désaccords sont surtout des nuances. Si cela vous intéresse, voilà la note dont parle le grand Fred ▶️ https://interetgeneral.net/publications/pdf/29.pdf
      https://twitter.com/MathsDuPeuple/status/1766485969258045593

      Faire sauter les verrous ! Les clés pour que la gauche ne capitule pas.

      C’est reparti. Un gouvernement tente à nouveau d’imposer « sa » réforme du système des retraites. Comme à chaque reprise, il affronte le refus populaire. Le peuple bat le pavé. La rivière menace de sortir de son lit. L’espoir d’un recul des dominants pointe à l’horizon. Que faudra-t-il faire alors ? Rentrer chez nous et espérer que le pouvoir entende, enfin, l’exigence populaire d’une autre politique ? Comme si la ligne droite des politiques néolibérales tracée par la succession des « réformes » avancées pratiquement tous les quatre ans depuis trente ans était sur le point de connaître la bifurcation tant attendue ?

      « La folie, c’est de faire toujours la même chose et de s’attendre à un résultat différent », a ironisé un jour le physicien Albert Einstein. Peut-on imaginer qu’une victoire du mouvement social sur le projet de « réforme » des retraites concocté par le pouvoir actuel prépare autre chose qu’une nouvelle offensive, le moment venu ? Soit la logique d’un scénario sisyphéen condamnant le courant progressiste à ne s’autoriser qu’un unique espoir : celui de parvenir à repousser l’adversaire, assaut après assaut.

      Si les retraites mobilisent tant, c’est qu’il y est en réalité question de tout ce qui n’est pas la retraite. C’est que, pour tous ceux qui descendent dans la rue, cette période de la vie représente la fin de ce qui a précédé : la fin de la précarité, la fin du chômage, la fin de l’épuisement, la fin des cadences, la fin du diktat managérial, la fin de l’injonction à la productivité, la fin de l’absurde… La retraite, c’est l’espoir de voir le temps ralentir, de se lever quand le sommeil est épuisé, de se libérer des emplois du temps contraints, de ne plus avoir à réfléchir aux moyens de gagner sa vie, de consacrer ses journées à autre chose qu’à l’optimisation de sa propre rentabilité. Parfois, c’est la première occasion de découvrir la planète sur laquelle on s’est agité toute une vie. La retraite incarne donc une sorte de miroir inversé du monde du travail contemporain : on défend la première, car on déteste le second.

      Il n’en va pas autrement du côté du pouvoir. Loin de se limiter à un projet de modification de l’âge légal de départ à la retraite, la réforme actuelle cristallise les exigences d’un système : celles, budgétaires, de l’Union européenne et du Fonds monétaire international (FMI) qui réclament la destruction des dispositifs par répartition ; celles du monde de la finance, qui asservit la vie des salariés à l’extraction des profits ; celles du patronat qui n’imagine pas qu’un citoyen puisse échapper au carcan du salariat ; celles d’un mode de production aveugle qui écrase les êtres et la planète.

      Deux mondes s’affrontent donc actuellement. D’un côté, les possédants qui, banderille après banderille, réforme après réforme, travaillent patiemment à éreinter le mouvement social ; de l’autre, le peuple qui, en défendant les retraites, réclame en réalité la fin d’un système que seule la perspective d’y échapper quelques années avant de mourir rend encore tolérable. Alors, que faire ? Rentrer chez nous ou engager la bataille ? Attendre le prochain assaut néolibéral ou mettre à terre le système qui nous opprime ?

      À nos yeux, l’heure du combat a sonné : dans la rue, dans les institutions et dans les urnes. Car nous ne changerons pas le monde sans prendre le pouvoir. Mais une fois conquis, il s’agira de le conserver et d’affronter les vents contraires avec lucidité et détermination. Pour y parvenir, il faudra livrer bataille : autant s’y préparer. Cela commence par la cartographie des verrous imaginés par nos adversaires pour défendre leurs privilèges.

      https://interetgeneral.net/publications/29.html

  • Ratures 10 : Entretien avec Alèssi del Umbria - La Grappe
    https://lagrappe.info/?Ratures-10-Entretien-avec-Alessi-del-Umbria-649

    https://lacledesondes.fr/audio/ratures-2024-02-185.mp3

    Dans cet entretien pour la Clé des Ondes autour de son livre « Du fric ou on vous tue ! », Alèssi Dell’Umbria revient sur son expérience dans le groupe Os Cangaceiros. Plus qu’un groupe de hors-la-loi radicalisés, cette association construite autour d’affinités dans la dissidence sociale n’aura de cesse de déstabiliser toutes les formes d’assignation et de domination.

    « Du fric ou on vous tue ! » : j’ignore qui avait pu écrire ça sur un mur, au début des années 1980, à Marseille, mais j’avais bien aimé cette menace de braqueur qui résonnait là comme une injonction plus générale à ceux qui tiennent les cordons de la Bourse. Une association de hors-la-loi révolutionnaires, ainsi pourrait-on qualifier le groupe Os Cangaceiros, qui prit ce nom en hommage aux bandits du Nordeste brésilien. Ce livre raconte l’histoire de cette bande de jeunes qui, refusant d’aller travailler, s’était organisée pour arnaquer les banques et prêter main-forte aux luttes qui secouaient alors les prisons, les usines et les banlieues. Ce récit de première main peut être lu comme une contre-histoire de la décennie 1980, durant laquelle se mit en place le régime de gouvernance que nous subissons depuis.

    #Alessi_Dell'Umbria #années_80 #Os_Cangaceiros #histoire #illégalisme #livre #interview #audio #radio #La_clé_des_ondes

    • Os Cangaceiros - Rapport sur Marseille (1985) - Marseille Infos Autonomes
      https://mars-infos.org/os-cangaceiros-rapport-sur-335

      Il y a trente ans, en janvier 1985, le groupe Os Cangaceiros publiait son premier numéro, dans lequel se trouvait cet article, sobrement intitulé Rapport sur Marseille. Aujourd’hui, en 2015, les stratégies urbanistiques et sécuritaires ont évolué. Mais le fond de la chose reste semblable.

      Marseille n’est pas une ville très civilisée. C’est une ville exclusivement vouée au trafic marchand, et il n’est rien qui n’y soit déterminé par les impératifs du trafic. La cité entière est consacrée à cette activité, et à rien d’autre. C’est la circulation des marchandises qui a édifié cette ville, à sa convenance et à son image. Nulle trace de passé historique, la marchandise ne laisse rien derrière elle, se contentant de passer.

      #Marseille

  • Quand Emmanuel Macron maltraite le Conseil d’État - AOC media
    https://aoc.media/opinion/2024/02/19/quand-emmanuel-macron-maltraite-le-conseil-detat

    POLITIQUE
    Quand Emmanuel Macron maltraite le Conseil d’État
    Par Thomas Perroud

    JURISTE
    L’intervention directe d’Emmanuel Macron dans la nomination clé au Conseil d’État met en lumière la volonté présidentielle de contrôler étroitement les organes judiciaires et de s’inscrire dans le discours critiquant l’indépendance des juges. En ébranlant les fondements des contre-pouvoirs et en défiant ouvertement les normes européennes, le gouvernement actuel semble esquisser les contours d’un « Frexit » juridique, questionnant profondément le futur de la France dans son rapport aux droits fondamentaux et à son ancrage européen.

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    La décision d’Emmanuel Macron de refuser la nomination de Rémy Schwartz pour présider la section des Finances du Conseil d’État pour lui préférer un autre candidat que celui qui avait été choisi en interne est loin d’être anecdotique.

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    D’abord, elle est révélatrice d’un désaveu du Conseil d’État, accusé de ne pas juger en faveur de l’exécutif : elle reflète en ce sens un rejet des contre-pouvoirs tout en rejouant une petite musique – encore sourde mais de plus en plus audible –, de critique frontale des juges et des droits de l’Homme. Ensuite, elle s’inscrit dans une série de décisions menaçant les institutions indépendantes. Enfin, elle traduit, dans l’histoire constitutionnelle française, la propension des exécutifs forts à privilégier des personnalités proches du pouvoir pour occuper les postes majeurs au Conseil d’État : depuis sa création par Napoléon, le Conseil d’État a ainsi toujours été cronfort.

    Le macronisme et le tournant populiste du conservatisme français
    Quelle est la justification avancée pour refuser ainsi un candidat irréprochable ? Les explications fournies aussi bien dans l’Opinion que dans la Lettre doivent alerter. Il est reproché au Conseil d’État de suivre la jurisprudence de la Cour de justice de l’Union européenne et de la CEDH. Cet argument doit être pris au sérieux : il s’inscrit dans le lobbying exercé par certains cercles pour une forme de Frexit juridique. Déjà, le Conseil d’État a, dans une décision importante mais passée inaperçue dans l’opinion, fait prévaloir une lecture conservatrice de la Constitution sur une jurisprudence claire et protectrice des droits de la Cour de justice, allant ainsi dans le sens du ministère de l’Intérieur et permettant une surveillance de masse des données des internautes : avec cette décision, c’est la première fois que le Conseil d’État met un coup d’arrêt à sa posture accueillante au droit de l’Union européenne et au droit international en général, politique inaugurée à la fin des années quatre-vingt.

    Si l’exécutif est engagé dans une politique de rupture vis-à-vis de l’Union européenne et de la CEDH, il est plus que temps d’ouvrir cette position au débat public. Au lieu d’affronter ce débat, il semble que les gouvernants actuellement au pouvoir tentent d’obtenir une sécession, par le bas, de l’Europe, en faisant pression sur les tribunaux. Au titre de l’Union européenne, c’est le droit de la protection des données qui est menacé et, bien entendu, le droit de l’environnement. Au titre de la CEDH, ce sont les droits qui ont offert aux individus des garanties contre la puissance étatique qui font l’objet des critiques, ainsi que les droits protégeant les migrants. Ce faisant, l’exécutif français se fait l’écho d’une voix qui perce dans l’espace public.

    La critique des droits de l’Homme et du gouvernement des juges est de plus en plus insistante. Le 6 janvier 2024, Alain Finkielkraut, Franz-Olivier Giesbert et Jean-Louis Bourlanges se sont ainsi retrouvés d’accord dans « Répliques » pour estimer que le Conseil d’État, le Conseil constitutionnel et la Cour de justice comme la CEDH ont pris le pouvoir en France. Ce point de vue est partagé par Jean-Eric Schoettl, ancien Secrétaire général du Conseil constitutionnel[1] ou Noëlle Lenoir, ancienne juge constitutionnelle. Jean-Eric Schoettl, depuis sa critique du gouvernement des juges, est à l’origine de l’idée de « bouclier constitutionnel » pour se protéger de l’Europe. Le dernier livre de Franz-Olivier Giesbert tire ainsi sans ménagements sur le Conseil d’État avec une violence peu commune[2].

    Si la décision précitée vient sanctionner une politique jurisprudentielle trop accommodante vis-à-vis de l’Europe – politique qui date des années 80, il faut le dire – les signaux annonciateurs d’un Frexit juridique s’accumulent depuis la décision sur la rétention de masse des données des internautes jusqu’à la décision de la Cour de cassation refusant l’effet direct de la Charte des droits sociaux de l’Union européenne pour donner sa pleine application aux fameux « barèmes Macron » en cas de licenciement. Le Brexit a lui aussi été précédé d’une campagne contre les juges – qui continue d’ailleurs. Des deux côtés de la Manche, c’est bien le même programme politique sous-jacent, profondément illibéral, visant à amenuiser les contre-pouvoirs, qui est à l’œuvre. Le macronisme s’inscrit dans cette veine, en combattant une indépendance de la justice qu’il a pourtant le devoir constitutionnel de défendre.

    Le macronisme et les contre-pouvoirs
    La décision doit aussi être inscrite dans une série témoignant une volonté de reprise en main des corps indépendants. L’instrumentalisation du Conseil constitutionnel, qui a été dénoncée récemment à l’occasion de la loi sur l’immigration, n’est sans doute pas récente : dès sa création, le Conseil a été pensé comme étant proche du Président de la République, son premier président, Léon Noël, inaugurant des entretiens réguliers avec le général de Gaulle, entretiens refusés avec les parlementaires.

    Beaucoup plus insolite a été la décision d’Emmanuel Macron de ne pas renouveler Isabelle de Silva à la présidence de l’Autorité de la concurrence. C’est la première fois depuis les années quatre-vingt qu’un président de la République manifeste ainsi son pouvoir vis-à-vis d’une institution de ce rang. Cet acte n’est pas isolé : Laurent Mauduit a réalisé une enquête très approfondie sur tous les cas d’ingérence, qui se sont en réalité multipliés dans la période récente, en prenant pour levier le pouvoir de nomination détenu par le président de la République. Le parti Renaissance a aussi évoqué la suppression de certaines autorités administratives indépendantes en mai 2023[3].

    L’intégrité du Conseil d’État victime des exécutifs forts
    Il est aussi intéressant de regarder le type de profil privilégié pour le poste de président de la section des Finances. La Lettre explique que le profil « est allé au contact du politique » ». Alors que les précédents désaveux présidentiels étaient motivés par la trop grande proximité du profil retenu par le Conseil d’État avec un engagement partisan (François Mitterrand refusant Guy Braibant proche du parti communiste ou Nicolas Sarkozy rejetant Christian Vigouroux pour sa proximité avec le parti socialiste), c’est un motif opposé qui a animé le président Emmanuel Macron.

    Or, préférer un profil proche du politique est une constante des présidents autoritaires de notre histoire constitutionnelle. En instituant le Conseil d’État, Napoléon ne voulait pas d’un juge indépendant ; la IIIe République avait renforcé cette indépendance, en supprimant sa fonction consultative pour les projets de loi. Après l’arrêt Canal en 1962, le général de Gaulle a été jusqu’à vouloir supprimer le Conseil d’Etat : si le projet a été abandonné, les réformes consécutives à cette crise ont consisté à rapprocher davantage le Conseil d’État du politique en créant notamment la double appartenance des membres du Conseil aux sections consultatives et aux sections contentieuses. Préférer un profil proche du politique, donc « conflicté » c’est faire sentir au Conseil d’État sa dépendance : c’est un rappel à l’ordre.

    Qu’un président de la République veuille défendre une certaine politique est naturel dans une démocratie, particulièrement en France puisqu’il est élu au suffrage universel direct. Ce qui est navrant et profondément antilibéral, c’est un mode d’expression du mécontentement qui se passe d’explication, de motivation – et de motivation en droit – et fait dépendre la nomination des plus hauts fonctionnaires d’un critère politique plutôt que de l’intégrité d’une carrière dévouée au service de l’intérêt général.

    Thomas Perroud

    #Conseil_d'Etat #illibéralisme #Macron

  • Chasse aux #arrêts_de_travail : des médecins dénoncent « une campagne d’#intimidation générale »

    L’#Assurance_maladie contrôle des centaines de #médecins_généralistes qui prescriraient, selon elle, trop d’arrêts de travail, et leur impose des #quotas au mépris de la situation des patients. Des médecins, « écœurés », contestent la démarche.

    « Ça m’a fait perdre confiance en ma pratique. Je me suis dit : où est le problème, qu’est-ce que je ne fais pas bien ? » Comme d’autres confrères et consœurs, Valérie* [1] fait partie des 1000 médecins généralistes ciblés par l’Assurance maladie, parmi 6000 préalablement identifiés. En cause : leur trop grande prescription d’arrêts de travail. En juin 2023, le ministre de l’Économie, #Bruno_Le_Maire, dénonçait l’« explosion » des arrêts de travail et disait vouloir lutter contre les « #dérives » et « #abus ».

    Selon le gouvernement, les arrêts maladie auraient augmenté de 7,9 % en un an, et de 30 % entre 2012 et 2022, passant de 6,4 millions arrêts prescrits en 2012 à 8,8 millions désormais. Les #indemnités_journalières, versées par l’Assurance maladie pour compenser le salaire lors d’un arrête maladie, coûteraient 16 milliards d’euros par an.

    D’où la #chasse_aux_arrêts_de_travail, initiée par le gouvernement, qui se poursuit avec le projet de loi de financement de la #Sécurité_sociale pour 2024, adopté le 4 décembre dernier. Parmi les mesures que la #loi prévoit : la limitation à trois jours des arrêts de travail prescrits lors d’une téléconsultation, sauf prescription par le médecin traitant ou incapacité de se rendre chez le médecin. « Il y a véritablement eu un changement de politique en 2023 », constate Théo Combes, vice-président du syndicat des médecins généralistes MG France. L’homme voit dans cette offensive « une campagne d’intimidation générale contre la profession ».

    La particularité des patients oubliée

    « Qu’on discute de nos pratiques oui, mais on est dans le #soin, pas dans l’abus », réagit Valérie. Installée en Vendée, elle a eu la surprise de recevoir en juin dernier un courrier recommandé de l’Assurance maladie l’informant de sa trop grande prescription d’indemnités journalières. « En six ans, il y a une personne de 36 ans qui m’a demandé de lui faire un arrêt pour un rhume, que j’ai refusé. Là je suis d’accord qu’il ne faut pas abuser, mais ça m’est arrivé une fois ! » met-elle en avant. Surtout, les critères de contrôles ne tiennent selon elle pas du tout compte des particularités des patientèles.

    Partagée entre son cabinet en libéral et l’hôpital, Valérie est spécialisée en addictologie. « Pour les patients avec des problématiques d’addiction, on sait que les arrêts de travail, pour virus ou autre, sont source de rechute. Donc après, la pente est plus longue à remonter, et les arrêts aussi par conséquent. Pareil pour des patients qui ont des troubles psychiatriques, pour qui c’est vraiment source de décompensation », explique-t-elle. La professionnelle de santé a en effet constaté que ses prescriptions d’indemnités journalières ne font qu’augmenter : « Mais parce que ma patientèle ciblée augmente », précise-t-elle.

    Médecin depuis 30 ans dans le troisième arrondissement de Lyon et membre du Syndicat des médecins libéraux (SML), Laurent Negrello fait le même constat : « Je suis dans un quartier un peu défavorisé, avec 50 % de logements sociaux et plus de difficultés, ce qui impacte probablement mes quotas d’arrêts de travail », appuie-t-il. Contrôlé pour la deuxième fois en cinq ans, il insiste aussi sur le contexte sanitaire global, qu’il a vu nettement évoluer ces dernières années. « L’inflation des arrêts est à mon avis aussi due à des #conditions_de_travail qui sont devenues très difficiles. Les gens sont en #burn-out, ont des #accidents, une pression de rentabilité… ». Les conditions de travail (contraintes posturales, exposition à des produits toxiques, risque d’accidents, etc.) ne se sont globalement pas améliorées depuis 30 ans selon le ministère du Travail.

    Crainte de dépasser le quota

    Et il devient de plus en plus compliqué d’obtenir un rendez-vous chez un spécialiste. « À Lyon, il faut trois mois pour voir un orthopédiste ou un rhumatologue, et je ne parle même pas des psys, avec qui c’est impossible… », explique le généraliste. Plus les délais de prise en charge s’allongent, plus l’état d’un patient peut se dégrader et nécessiter un arrêt de travail. La #Caisse_nationale_d’Assurance_maladie (#Cnam) assure de son côté à Basta ! que ses données sont « standardisées » : « On essaie d’avoir des patientèles comparables. » La limite d’arrêts à ne pas dépasser, c’est plus de deux fois la moyenne du département. « Une approche purement statistique », déplore Théo Combes de MG France, qui pointe une « méthodologie contestable à plusieurs niveaux ».

    Alors que Michel Chevalier, médecin depuis 36 ans à Ousse, près de Pau, se remémore d’anciens contrôles par « entretiens confraternels », il déplore aujourd’hui « une absence de dialogue ». Après la réception d’un courrier recommandé en juin, il a été convoqué avec deux jeunes consœurs : « L’une exerce dans un quartier très pauvre de Pau et une autre dans un désert médical. Elle a 34 ans et n’en dort plus depuis le mois de juin », rapporte ce membre du Syndicat de la médecine générale (SMG). Valérie confie elle aussi s’être sentie « stressée d’être pointée du doigt » à la réception de ce courrier : « Je trouve la procédure violente en elle-même. Sachant qu’on a des délégués médicaux qui viennent régulièrement nous voir, avec qui ça se passe très bien. Je pense que ça aurait pu être fait autrement », met-elle en avant.

    À la réception du courrier, chaque médecin dispose d’un mois pour répondre et faire ses observations à l’Assurance maladie, qui décidera si les éléments apportés sont « suffisamment probants », nous détaille le service communication de la Cnam. Si ce n’est pas le cas, la procédure prévoit qu’il soit proposé au médecin ciblé une #mise_sous_objectif (#MSO) : pendant six mois, ce dernier doit réduire ses prescriptions d’arrêts de travail de 15 à 20 %. Ce que Valérie a refusé, comme de nombreux autres : « Heureusement, car au sein du cabinet médical où j’exerce, plus personne ne prend de nouveaux patients sauf moi quand ça touche des problématiques d’addiction. »

    Déjà contrôlé il y a cinq alors, Laurent Negrello avait alors accepté « la mise sous objectif » : « Pendant six mois, j’ai réduit mon temps de travail, donc les patients allaient voir ailleurs et j’ai atteint mes objectifs », relate-t-il avec ironie. Cette année, il a refusé ce procédé qu’il juge « très pesant et stressant » : « On travaille toujours dans la #crainte de dépasser le quota qui nous est imparti. Mais on est un peu dans le #flou parce qu’on ne sait pas vraiment quels sont les quotas exacts. On nous dit qu’il faut baisser de 20 %, mais c’est une zone grise, on ne sait pas comment baisser nos arrêts. Quels sont les critères ? On a face à nous des situations concrètes, donc baisser de 20 % c’est absurde », critique-t-il.

    En cas de refus de mise sous objectif, les médecins peuvent être « mis sous accord préalable », procédure pendant laquelle un médecin conseil de l’Assurance maladie doit valider tous les arrêts de travail prescrits par le médecin sous 48 heures. Valérie raconte avoir été convoquée à une commission ayant pour but de statuer sur sa soumission à ce dispositif en novembre.

    Convoqués à des « #commissions_des_pénalités »

    « Ça m’a occasionné beaucoup de stress et pris beaucoup de temps. J’ai préparé un argumentaire, fait des recherches. Sans compter les deux heures de route pour 30 minutes d’entretien prises sur ma journée de repos », relate-t-elle. La commission a voté à l’unanimité le refus de sa « #mise_sous_accord_préalable ». Mais la professionnelle de santé a dû attendre la réception d’un courrier de la CPAM, mi-décembre, pour avoir la confirmation de « l’abandon de la procédure ».

    Le 7 novembre dernier, Théo Combes a participé à l’une de ces « commissions des pénalités », notamment composées de représentants syndicaux et médecins d’un côté, et de représentants des employeurs et salariés de l’autre. « Des médecins sont venus s’expliquer. Ils étaient proches de la rupture d’un point de vue moral et psychologique, avec des risques suicidaires qui transparaissaient. J’aurais pensé que leurs récits auraient ému un mort, même si c’est peut-être un peu fort. Mais après quatre heures d’audition on s’est dit que c’était vraiment une #mascarade. C’est un système pour broyer les gens, les humilier », décrit le vice-président de MG France, écœuré.

    À l’issue des contrôles, des #pénalités_financières de plusieurs milliers d’euros peuvent s’appliquer s’il n’y a pas d’évolution du nombre de prescriptions d’arrêts de travail. « C’est très, très infantilisant. On a l’impression d’être dans la #punition plutôt que dans le dialogue, et de faire ça intelligemment », déplore Valérie, qui craint pour ses patients tout autant que pour sa profession. « On peut très bien imaginer maintenant que les médecins vont sélectionner les patients et ne plus s’occuper de ceux qui leur font faire trop d’arrêts », ajoute Michel Chevalier.

    L’Assurance maladie espère de son côté avoir un bilan chiffré de ces mesures « autour du deuxième trimestre 2024 ». Michel Chevalier, lui, ne sera plus là : « Le côté dramatique, c’est que j’ai décidé de prendre ma retraite à la suite de ces contrôles, ça a été la goutte d’eau. » Comme il n’a pas trouvé de successeur, ses patients n’ont plus de médecin depuis le 1er janvier.

    https://basta.media/chasse-aux-arrets-de-travail-medecins-denoncent-campagne-intimidation

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1041346
    #santé #France #humiliation #infantilisation #macronisme

    • Pourquoi ce médecin prescrit trois fois plus d’arrêts de travail que la moyenne à #Dieppe

      Le docteur Tribillac exerce au #Val-Druel, à Dieppe. Sanctionné pour avoir délivré trop d’arrêts de travail, il tente en vain d’expliquer la situation à l’Assurance maladie.

      « Je suis un lanceur d’alerte ! », commence #Dominique_Tribillac. Depuis 35 ans, ce médecin de famille exerce dans le quartier du Val-Druel, à Dieppe (Seine-Maritime). Âgé de 70 ans, il est ce que l’on appelle « un retraité actif ».

      Il devrait prendre bientôt sa retraite, avant l’été, mais un problème administratif l’occupe fortement depuis plusieurs mois : l’Assurance maladie l’a sanctionné car il donne trop d’arrêts de travail.

      La Sécurité sociale a fait les calculs, entre le 1er septembre 2022 et le 28 février 2023 : 4 911 journées indemnisées ont été prescrites.
      Trois fois plus d’arrêts de travail

      « Le nombre d’indemnités journalières versées, rapporté au nombre de patients a été de 16,7 », indique l’Assurance maladie. « En Normandie et au sein du groupe de communes semblables au sens de l’indice de défavorisation de l’Insee, l’institut national de la statistique et des études économiques, pour les praticiens exerçant une activité comparable, le nombre d’indemnités journalières versées par nombre de patients est de 5,90. »

      Le médecin du Val-Druel prescrit donc trois fois plus d’arrêts de travail.

      Une lettre aux médecins de France

      Mais le docteur Tribillac ne se laisse pas faire. Il conteste notamment l’indice de défavorisation mis en place par la Sécurité sociale. Selon lui, il ne reflète pas la réalité. « Il est très mal conçu, souligne-t-il. Il fait le contraire de ce qu’il est censé faire ». C’est-à-dire protéger et prendre en compte les populations les plus fragiles.

      « J’ai débusqué une véritable saloperie, ajoute Dominique Tribillac qui a le sentiment qu’on l’empêche d’aller au bout de sa démarche : « L’Assurance maladie essaie d’étouffer l’affaire. »

      Il va même envoyer une lettre ouverte à tous les médecins de France pour raconter son histoire et sa trouvaille concernant le référentiel sécu.
      Une population défavorisée

      Ce docteur, très apprécié de ses patients, ne cesse d’invoquer l’usure de ces derniers, dans un quartier prioritaire de la cité dieppoise. « Un quartier fermé avec une patientèle qui ne bouge pas, précise le professionnel. En tant que médecin de famille, j’ai vu les grands-parents, les parents, les enfants… Les gens qui vivent là y restent. »

      Au Val-Druel, « plus de la moitié de la population vit sous le seuil de pauvreté, indique-t-il. Les #polypathologies sont donc plus fréquentes, en moyenne deux fois plus élevées ». Le secteur dans lequel le médecin évolue est principalement touché par des problématiques psychologiques, de l’obésité, de chômage, de tabac, de cancers…

      Manque de spécialistes

      Selon lui, la moitié des habitants de ce quartier populaire arrive à la retraite invalide. « Ce sont des travailleurs qui ont des conditions de travail difficiles, explique Dominique Tribillac. Jusqu’à 45 ans, ils n’ont pas d’arrêt, et après ça commence.

      L’usure se déclare à cause de mouvements répétitifs qui sollicitent les mêmes membres ou muscles. « On arrive donc à une situation bancale en fin de carrière. Le patient peut-il encore travailler ou non, faire le même job… »

      Le médecin pointe aussi le manque de spécialistes dont les délais d’attente pour un rendez-vous sont de plus en plus élevés : « Les gens ne peuvent donc pas reprendre leur travail sans les avoir vus. »

      Un médecin dans l’#illégalité

      Mais tous ces arguments n’ont pas convaincu l’Assurance maladie. Ainsi, le docteur Tribillac a été sanctionné malgré un avis favorable d’une commission consultative pour le laisser exercer sereinement. C’était sans compter sur la direction de la CPAM de Seine-Maritime qui en a décidé autrement. Cette dernière n’a d’ailleurs pas souhaité répondre à nos questions au sujet du médecin du Val-Druel.

      Il exerce donc sa fonction dans l’illégalité depuis le 1er février 2024, refusant de remplir des papiers supplémentaires permettant à un médecin-conseil de vérifier les prescriptions d’arrêts maladie du docteur Tribillac. On appelle cette procédure une MSAP, une mise sur accord préalable.

      « Pas coupable »

      « Je ne suis pas coupable ! », argue-t-il. « Je ne remplirai pas ces dossiers. Ce médecin-conseil devrait plutôt voir ou appeler lui-même mes patients. »

      Conséquence pour ces derniers : ils ne peuvent plus toucher leurs indemnités journalières versées par la Sécu.

      https://actu.fr/normandie/dieppe_76217/pourquoi-ce-medecin-prescrit-trois-fois-plus-darrets-de-travail-que-la-moyenne-

  • South Korean convenience stores preserved in ink – in pictures
    https://www.theguardian.com/artanddesign/gallery/2024/feb/10/south-korean-convenience-stores-preserved-in-ink-lee-me-kyeoung

    In 1997, after moving to the South Korean countryside from Seoul, artist Lee Me Kyeoung came across a “beautifully dilapidated” old convenience store in her neighbourhood and was compelled to paint it. The two months it took her to complete the drawing, using ink pens, was such a “joyful experience” that she decided to seek out more. “These small, old mom-and-pop stores were more than just places to buy goods, they were essential to the community,” she says, but they were disappearing as shopping habits in Korea changed. Me Kyeoung’s drawings – she has committed about 500 stores to paper over 26 years, along with cherry blossoms and other trees that flourished over many of them – are a record of a slower, more community-centred way of life that is passing into memory.


    #illustration Lee Me Kyeoung

  • Le #Mali, le #Burkina_Faso et le Niger quittent la #Cedeao, la région ébranlée

    Les trois régimes issus de coups d’Etat prennent le risque de compromettre la #libre_circulation des biens et des personnes, et repoussent le retour des civils au pouvoir.

    En décidant de se retirer de la #Communauté_économique_des_Etats_d’Afrique_de_l’Ouest (Cedeao), les régimes militaires du Mali, du Burkina Faso et du Niger issus de coups d’Etat prennent le risque de compromettre la libre circulation et repoussent le retour des civils au pouvoir. La Cedeao, organisation économique régionale de quinze pays, s’est opposée aux coups d’Etat ayant successivement porté au pouvoir les militaires au Mali, au Burkina Faso et au Niger, imposant de lourdes sanctions économiques au Niger et au Mali.

    En août 2023, elle est allée jusqu’à menacer d’intervenir militairement au Niger pour y rétablir l’ordre constitutionnel et libérer le président Mohamed Bazoum renversé. Le dialogue est pratiquement rompu entre l’organisation et les régimes de Bamako, Ouagadougou et Niamey, qui ont créé l’Alliance des Etats du Sahel (AES) et accusent leurs voisins d’agir sous l’influence de « puissances étrangères », en premier lieu la France, ancienne puissance coloniale dans la région.

    Des élections étaient en théorie prévues au Mali et au Burkina Faso en 2024, censées assurer le retour à un gouvernement civil, préalable exigé par la Cedeao pour lever ses sanctions et rétablir ces pays dans ses instances décisionnelles. Mais les partisans des régimes militaires souhaitent allonger la durée des transitions, invoquant la lutte antidjihadiste. Le nouvel homme fort du Niger, le général Abourahamane Tiani, n’a pas encore annoncé de calendrier de transition.

    « Les Etats de l’AES ont anticipé un débat qui devait venir, celui de la fin des transitions. La sortie de la Cedeao semble remettre au second plan cette question », estime Fahiraman Rodrigue Koné, spécialiste du Sahel à l’Institut des études de sécurité (ISS). « Bien installés dans les palais et devant les délices du pouvoir, ils [les dirigeants des pays de l’AES] veulent s’éterniser dans les fauteuils présidentiels », fustige Le Patriote, quotidien du parti au pouvoir en Côte d’Ivoire.

    L’inquiétude des ressortissants des trois pays

    La Cedeao garantit aux citoyens des pays membres de pouvoir voyager sans visa et de s’établir dans les pays membres pour y travailler ou y résider. L’annonce du retrait burkinabé, nigérien et malien, suscite donc l’inquiétude de centaines de milliers de ressortissants de ces pays, particuliers ou commerçants.

    Les trois pays enclavés du Sahel et leurs principaux partenaires économiques côtiers comme le Sénégal et la Côte d’Ivoire sont toutefois membres de l’#Union_économique_et_monétaire_ouest-africaine (#Uemoa, huit pays), qui garantit elle aussi en principe la « liberté de circulation et de résidence » pour les ressortissants ouest-africains, ainsi que le dédouanement de certains produits et l’harmonisation des tarifs et des normes, à l’instar de la Cedeao.

    Les conséquences d’un #retrait pourraient être plus marquées aux frontières du Niger et du Nigeria, pays n’appartenant pas à l’Uemoa. Le géant économique d’Afrique de l’Ouest représente plus de la moitié du PIB de la Cedeao et est le premier partenaire économique du Niger dans la région. Les 1 500 kilomètres de frontière qui séparent les deux Etats sont toutefois mal contrôlés et en proie aux attaques des groupes armés. Une part importante des flux échappent aux contrôles douaniers.

    « Même si c’est par la contrebande, les biens et les personnes vont rentrer au Niger. Vous ne pouvez pas séparer Sokoto [nord du Nigeria] de Konni [Niger], c’est un même peuple », assure ainsi Chaïbou Tchiombiano, secrétaire général du Syndicat des commerçants, importateurs exportateurs et grossistes du Niger.

    « Juridiquement, un retrait sans délai n’est pas possible »

    Les régimes du Mali, du Burkina et du Niger ont annoncé leur retrait « sans délai », mais les textes de la Cedeao prévoient qu’une demande doit être déposée par écrit un an avant. La Cedeao a affirmé dimanche qu’elle n’avait pas encore reçu une telle notification. « Juridiquement, un retrait sans délai n’est pas possible. Ces Etats devront trouver une forme d’entente et des négociations iront dans le sens de trouver les moyens de faire ce retrait de manière progressive », estime Fahiraman Rodrigue Koné.

    Alors que les groupes djihadistes progressent au Sahel et jusqu’aux marges des Etats côtiers, « la région se fragmente, devient objet de concurrence géostratégique plus forte, et cela n’est pas une bonne nouvelle pour la stabilité », avertit le chercheur.

    Les vives critiques formulées par ces régimes et leurs partisans à l’encontre du franc CFA, la monnaie commune des pays membres de l’Uemoa, pourraient également conduire les pays de l’AES à quitter cette organisation, et à renoncer à la libre circulation des biens et des personnes en attendant l’émergence d’une #zone_de_libre-échange continentale africaine, encore à l’état de projet.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/01/29/le-mali-le-burkina-faso-et-le-niger-quittent-la-cedeao-la-region-ebranlee_62
    #fin

  • Allons enfants du #bolchevisme

    « Dorena Caroli met en lumière une période méconnue d’innovations graphiques et littéraires radicales : les livres pour enfants dans la #Russie #soviétique de 1917 à 1934. Avant que l’autoritarisme stalinien ne bâillonne les audaces du bolchévisme originel. (...) »

    #art #graphique #peinture #illustration #graphisme #culture #société #changement #politique #propagande #communication #seenthis #vangauguin

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/200124/allons-enfants-du-bolchevisme