• À la recherche du #polycentrisme francilien
    https://metropolitiques.eu/A-la-recherche-du-polycentrisme-francilien.html

    Et si la révision du Schéma directeur d’aménagement de la région #Île-de-France (SDRIF-E) faisait fausse route ? Jacqueline Lorthiois et Harm Smit appellent à un véritable polycentrisme, fondé sur la superposition des bassins d’emploi et des bassins de vie afin de réduire les temps de transport et les #inégalités entre territoires franciliens. L’objectif du schéma directeur de la Région Île-de-France (SDRIF) est de définir « la planification stratégique afin d’encadrer la croissance urbaine, l’utilisation de #Débats

    / #planification_urbaine, inégalités, #emploi, Île-de-France, #transports, centralité, polycentrisme, (...)

    #centralité #mobilité
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/smit-lorthiois.pdf

  • No, la tecnologia non è neutrale ed ecco come ha condizionato la vita delle donne

    In Tecnologia della rivoluzione Diletta Huyskes apre una riflessione sulle responsabilità sociali di chi innova. Dal forno a microonde all’AI.

    L’idea che la tecnologia sia una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali, è un mito radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, come dimostra Diletta Huyskes nel suo libro Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale (Il Saggiatore, 2024), questo mito è ben lontano dalla verità. La tecnologia non è mai stata neutrale e spesso amplifica le ingiustizie esistenti.

    Un esempio significativo che viene raccontato nel libro è il caso di ProKid+, l’algoritmo di polizia predittiva impiegato nei Paesi Bassi nel 2015, che ha condannato preventivamente un adolescente, Omar (nome fittizio), a un futuro da criminale. Reddito basso, background migratorio e un’età inferiore ai diciotto anni, sono solo alcune delle caratteristiche utilizzate dai sistemi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di migliaia di persone ogni giorno. Il progetto, noto come Top400, inizialmente pensato come una lista di adolescenti precedentemente condannati per almeno un reato, è stato successivamente ampliato includendo anche bambini e ragazzi che, pur non avendo ancora avuto problemi legali, erano considerati dall’algoritmo a rischio di esserlo presto.
    Una tecnologia a sfavore delle minoranze

    Questo algoritmo, che avrebbe dovuto rappresentare un approccio innovativo alla prevenzione del crimine, non ha fatto altro che reiterare stereotipi e pregiudizi preesistenti, privando i soggetti come Omar di qualsiasi possibilità, riscatto ed emancipazione e lasciandoli intrappolati in un circolo di sospetti e discriminazioni: “Questa sentenza è il risultato di una raccomandazione proveniente da un modello matematico che prometteva il rilevamento della criminalità utilizzando principalmente metodologie di apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che utilizza modelli statistici e algoritmi per analizzare e fare previsioni basate sui dati”.

    La pretesa di prevedere il crimine attraverso l’analisi dei dati ignora il fatto che tali modelli sono costruiti su basi che riflettono le disuguaglianze sociali, contribuendo a perpetuarle piuttosto che risolverle. Non a caso Huyskes cita Andrew Feenberg che nel suo testo, Transforming Technology, asserisce che la progettazione della tecnologia è una decisione ontologica ricca di conseguenze politiche. Huyskes ci guida attraverso una riflessione critica, evidenziando come ogni nuova tecnologia sia il risultato di un preciso percorso storico e sociale. Contrariamente all’immagine romantica del genio inventore che cambia il mondo con un’illuminazione improvvisa, la realtà ci mostra come le innovazioni tecnologiche siano frutto di compromessi, conflitti e distribuzioni ineguali di potere.

    L’idea di un progresso lineare e inevitabile si sgretola di fronte all’analisi che Huyskes offre, svelando una verità fattuale: la tecnologia è costruita, modificata e implementata per servire interessi specifici, spesso a scapito delle fasce più vulnerabili della società. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’introduzione delle tecnologie domestiche nel ventesimo secolo. Queste invenzioni, come il forno a microonde, venivano presentate come soluzioni liberatorie per le donne, promettendo di alleviare il carico del lavoro domestico.
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    Tuttavia, come dimostra Huyskes, la realtà è stata ben diversa: piuttosto che emancipare, queste tecnologie hanno rafforzato gli stereotipi di genere, relegando ulteriormente le donne al loro ruolo tradizionale di casalinghe. Invece di liberarle, le hanno intrappolate in un ciclo di lavori domestici sempre più standardizzati e invisibili: “La speranza era che la tecnologia domestica avrebbe sollevato le donne dal loro lavoro non pagato nelle case, un tema politico su cui il movimento femminista stava concentrando quasi interamente le sue lotte in quegli anni”.
    Il controllo dei corpi

    Infatti, nel 1974, Joann Vanek dimostrò come la condizione femminile nel lavoro casalingo non avesse subito nessun cambiamento con l’introduzione delle tecnologie domestiche; l’industrializzazione del lavoro domestico e la meccanicizzazione del focolare aveva creato nuove aspettative, un aumento della produttività e nuovi compiti: “Lungi dal sentirsi liberate, le donne che lavoravano nelle case, che quotidianamente e instancabilmente portavano avanti tutto il lavoro di cura necessario al sostentamento della vita economica e politica di intere nazioni, si sentivano sempre più meccanizzate, ma anche sempre più affaticate”.

    Nell’analisi di Diletta Huyskes emerge con forza il tema del controllo dei corpi come uno dei nodi cruciali nell’intersezione tra tecnologia e genere: “Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere?”. L’esclusione delle donne dalla tecnologia non ha significato solo tenerle lontane dai luoghi di potere, formazione e creazione, ma anche privarle della possibilità di utilizzare e beneficiare di tali innovazioni. Questo schema di esclusione, che continua a persistere anche dopo molti decenni, rappresenta ancora il modello dominante nella gestione del rapporto tra genere e tecnologia.

    Nel libro si racconta anche come a partire dal 1980, il gruppo di ricerca su donne e tecnologia della Fondazione per la ricerca scientifica e industriale dell’Istituto norvegese di tecnologia (Sintef), con le studiose Anne-Jorunn Berg e Merete Lie, ha iniziato a riflettere sulle conseguenze pratiche dell’esclusiva presenza maschile nelle fasi di progettazione e sviluppo tecnologico. Inizialmente, le domande riguardavano l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle donne. Tuttavia, con il progredire delle loro ricerche, la questione si è evoluta in: “Gli artefatti hanno un genere?”.

    Questo ha portato a un ampliamento della ricerca, dall’analisi delle donne all’indagine sul genere e sul design in generale, invece di concentrarsi solo sulle conseguenze delle tecnologie. Berg e Lie hanno scoperto che gli artefatti tecnologici riflettono un genere, poiché vengono progettati con specifiche configurazioni di genere in mente. In altre parole, nascono con un’idea chiara di chi dovrà utilizzarli.
    AI e stereotipi sociali

    Automobili, computer, smartphone sono alcuni esempi di tecnologie usate da uomini e donne, ma progettate principalmente tenendo conto delle caratteristiche e delle abitudini di un uomo medio: "La testimonianza più forte degli ultimi anni sulle persistenti disuguaglianze di genere nel design di ciò che diamo più per scontato l’ha scritta l’attivista e scrittrice Caroline Criado Perez. Un catalogo di fatti e cifre che raccontano di un mondo a misura d’uomo, forse tra i più scioccanti quello sulle case automobilistiche statunitensi che solo nel 2011 hanno iniziato a effettuare crash test anche con manichini femminili. Prima di quel momento, tutti i dati a disposizione e gli interventi necessari riguardo agli incidenti automobilistici avevano a che fare esclusivamente con i corpi maschili, per cui l’accuratezza nei casi di corpi femminili era sconosciuta”.

    Nel panorama contemporaneo, l’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera di questa riflessione critica. Lungi dall’essere una tabula rasa, l’AI porta con sé i bias e le ingiustizie del passato, riflettendo le stesse logiche di potere che hanno caratterizzato le tecnologie precedenti:“Non solo incorporano cultura, valori, pregiudizi durante le fasi di design iniziale, ma continuano ad alimentarsi di questi input sempre nuovi durante la loro intera esistenza”. Oggi, le nuove tecnologie sono progettate per mantenere lo status quo e perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, contribuendo a rafforzare ciò che la studiosa femminista Patricia Hill Collins chiama “la matrice del dominio”, un sistema sociologico che comprende diverse forme di oppressione come il capitalismo, l’eteropatriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo.

    Uno degli esempi più emblematici dell’automazione di sistemi istituzionali già particolarmente discriminatori ed escludenti è quello della giustizia penale. Con l’obiettivo di trovare una formula matematica che potesse prevedere con precisione la probabilità di recidiva, sempre più dipartimenti di giustizia hanno sperimentato l’uso dell’intelligenza artificiale: quasi tutti gli stati nordamericani hanno adottato o testato software basati su AI per questo scopo. Questi sistemi calcolano le probabilità attraverso la valutazione del rischio: un punteggio di rischio elevato indica una maggiore probabilità che l’individuo commetta nuovamente un crimine in futuro: "Il calcolo che porta a questi punteggi è basato solitamente su delle domande rivolte direttamente alle persone imputate e i dati estratti dal casellario giudiziario. Si tratta di previsioni sul futuro in base a comportamenti passati, frequenze, statistiche, e i dati per addestrare modelli come questi spesso includono variabili proxy come «arresto» per misurare il «crimine» o qualche nozione di «rischiosità» sottostante.”

    Ripensare la tecnologia: giustizia e inclusione

    Negli Stati Uniti, dove i dati relativi al crimine sono stati influenzati da decenni di pratiche di polizia basate su pregiudizi razziali, e dove alcuni gruppi sociali ed etnici sono stati storicamente più esposti a controlli di polizia, la mappatura del crimine non può essere considerata neutrale. A partire da questi presupposti, l’etnia viene tracciata indirettamente attraverso altre variabili correlate, come il codice postale o la condizione socio-economica.

    Il risultato è un modello che presenta un tasso significativamente più alto di falsi positivi, cioè attribuisce un rischio elevato di recidiva a individui neri rispetto a quelli bianchi. Alcuni di questi strumenti mirano a prevedere i rischi di criminalità associati a singoli individui, basandosi sulla loro storia personale e su altre caratteristiche. È proprio ciò che è accaduto a Omar: giudicato da un software di polizia predittiva come un adolescente ad alto rischio di diventare un criminale, è stato trattato come tale fin da subito.

    Come asserisce l’autrice, “L’intelligenza artificiale è molto più di una tecnologia. È un discorso utilizzato attivamente per plasmare le realtà politiche, economiche e sociali del nostro tempo”. La tecnologia può essere un potente strumento di liberazione, ma solo se siamo disposti e disposte a interrogarci su chi ne controlla lo sviluppo e su chi ne beneficia davvero. È essenziale che il dibattito sulla tecnologia non rimanga confinato a un’élite specifica, ma diventi un discorso collettivo, aperto e inclusivo, in grado di affrontare le domande fondamentali su giustizia, equità e democrazia. In questo senso, Tecnologia della rivoluzione è un invito a ripensare il nostro rapporto con il progresso e con le forze che plasmano il nostro presente e il nostro futuro. Huyskes ci ricorda che ogni innovazione porta con sé una responsabilità, e che è nostro compito vigilare affinché il futuro tecnologico sia costruito su basi più giuste e consapevoli.

    https://www.wired.it/article/tecnologia-donne-pregiudizi-rivoluzione-progresso-diletta-huyskes
    #neutralité #technologie #femmes #impact #conditionnement #genre #responsabilité_sociale #contrôle #corps #inégalités

    • Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale

      Sara è una donna, una madre. È disoccupata, single e migrante. La sua è un’identità stratificata, unica e irripetibile. Queste caratteristiche sociali la renderanno sospetta per tutta la vita. Perché per un modello matematico – e per il governo del suo paese – Sara è solo un insieme di indicatori che, sommati tra loro, generano un alto punteggio di rischio, una previsione statistica che la trasforma in una potenziale criminale. Ma la sua unica colpa è quella di essere se stessa, e di condividere un profilo simile ad altre persone esistite e accusate prima di lei.

      Questa e molte altre storie ci mostrano che un singolo numero elaborato da un algoritmo può cambiare le sorti di interi gruppi sociali, rischiando un ritorno a ingiustizie antiche, oggi amplificate dal modo in cui stiamo usando questi strumenti. Ripercorrendo la storia della tecnologia possiamo attraversare anche quella dell’esclusione sociale: ogni invenzione, dalla bicicletta al forno a microonde, fino all’intelligenza artificiale, è il risultato di scelte precise, valori e compromessi umani che causano forti impatti sulla società.

      Grazie alla riscoperta di molti contributi femministi proposti tra gli anni settanta e duemila, Tecnologia della rivoluzione ci spinge a riflettere su come intervenire per fare in modo che le rivoluzioni tecnologiche non portino a involuzioni sociali.

      https://www.ilsaggiatore.com/libro/tecnologia-della-rivoluzione
      #livre #Diletta_Huyskes

  • Emmanuel Todd : « La Russie gagne la guerre et l’Europe implose »

    La défaite de l’occident, ce n’est pas la victoire de la Russie, c’est une implosion de l’occident.
    Cf. L’augmentation de la mortalité infantile aux usa

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=AISnPMPUl4c

    #France #Russie #ukraine #USA #ue #union_européenne #économie #géopolitique #désindustrialisation #inégalités #Emmanuel_Todd #Angleterre

  • The Code of Capital: How the Law Creates Wealth and Inequality

    Capital is the defining feature of modern economies, yet most people have no idea where it actually comes from. What is it, exactly, that transforms mere wealth into an asset that automatically creates more wealth? The Code of Capital explains how capital is created behind closed doors in the offices of private attorneys, and why this little-known fact is one of the biggest reasons for the widening wealth gap between the holders of capital and everybody else.

    In this revealing book, Katharina Pistor argues that the law selectively “codes” certain assets, endowing them with the capacity to protect and produce private wealth. With the right legal coding, any object, claim, or idea can be turned into capital—and lawyers are the keepers of the code. Pistor describes how they pick and choose among different legal systems and legal devices for the ones that best serve their clients’ needs, and how techniques that were first perfected centuries ago to code landholdings as capital are being used today to code stocks, bonds, ideas, and even expectations—assets that exist only in law.

    A powerful new way of thinking about one of the most pernicious problems of our time, The Code of Capital explores the different ways that debt, complex financial products, and other assets are coded to give financial advantage to their holders. This provocative book paints a troubling portrait of the pervasive global nature of the code, the people who shape it, and the governments that enforce it.

    https://press.princeton.edu/books/hardcover/9780691178974/the-code-of-capital
    #loi #injustice #inégalités #capital #capitalisme #richesse #système_légal #dette
    #livre

  • Università, una lenta parità

    Nel 1996, all’#USI, i professori di ruolo di sesso maschile erano 35, a fronte di una sola presenza femminile. Una! Nel 2023, siamo invece a 108 uomini e 31 donne. Al di là dell’aumento di personale, possiamo dire che resta sì una forte disparità, ma anche che qualcosa si sta comunque muovendo. Nei nuovi dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica, la situazione nelle università svizzere e nei politecnici federali sembra in fase di aggiustamento. Va considerato che, nel 2023, in Svizzera, nelle alte scuole universitarie hanno lavorato 72.265 persone, pari a un totale di 48.565 posti di lavoro a tempo pieno. Per il resto, la tabella a lato è piuttosto chiara. Per analizzarla, abbiamo contattato la rettrice dell’Università della Svizzera italiana, Luisa Lambertini. Il primo dato che balza agli occhi, sottolineiamo, è che c’è ancora molto lavoro da fare. È così? «Certamente, c’è da fare. E siamo intenzionati a proseguire i nostri sforzi sia a livello svizzero, sia all’USI. Purtroppo, per quanto si siano fatti progressi, la tendenza positiva osservata nel corso degli ultimi dieci anni non ha ancora posto rimedio a una situazione che tutt’oggi resta chiaramente sbilanciata. Di qui la necessità di proseguire con questo processo con misure concrete».
    «Un certo tipo di mentalità»

    Gli ambiti di intervento sono molteplici. A partire da quella che Luisa Lambertini definisce come «esigenza di rimodellare un certo tipo di mentalità». Una mentalità «che ha perdurato per decenni». E allora va rimodellata «al fine di favorire la parità e - di riflesso - maggiore equilibrio nella ripartizione delle cattedre. Un processo che però necessita di essere accompagnato da misure più incisive per accelerarne gli effetti. Per quanto concerne l’USI, nell’ultimo anno, da quando sono rettrice, su un totale di quattro nomine tre sono state di professoresse». Un inizio che la stessa rettrice definisce «molto promettente». E per raggiungere questi numeri, «seguendo le migliori pratiche adottate anche in altri atenei, abbiamo deciso che almeno due donne facciano parte delle commissioni di preavviso. Inoltre abbiamo deciso che il 50% delle posizioni nella short list delle commissioni di preavviso debba essere composto da candidate di genere femminile. Il rettorato si è inoltre impegnato a valutare queste liste e a prendere decisioni appropriate se non compatibili con gli obiettivi di genere dell’Università. Per attrarre personale accademico di genere femminile, le migliori pratiche suggeriscono anche di individuare potenziali candidate prima dell’avvio delle commissioni di preavviso. Questo significa sviluppare e coltivare una rete di contatti popolata da postdoc, studentesse di dottorato e professoresse assistenti, attraverso inviti per le candidate per visite di breve periodo, sabbatici o seminari. L’USI vuole anche diventare un’università dove colleghe e colleghi lavorano volentieri e possono conciliare vita familiare e carriera: nel prossimo quadriennio quindi ci siamo impegnati a rafforzare l’offerta di servizi volti a renderla un posto di lavoro accogliente».
    «L’USI era penultima»

    Tra i dati proposti dall’UST, scorgiamo due note incoraggianti. La prima: la crescita del numero di donne rispetto al 2014. Una crescita «sicuramente dovuta alle misure di settore, che hanno già portato effetti benefici nell’ottica della parità di genere. E poi alla volontà dei singoli individui di invertire una tendenza che ha perdurato troppo a lungo. D’altronde soltanto attraverso azioni concrete, nonché significative, è possibile tagliare determinati traguardi. E il fatto di avere sempre più rettrici donne ai vertici delle università svizzere aiuta».

    La seconda nota incoraggiante: il fatto che più si abbassa l’età, più si intravede un’idea di reale parità. Già, ma ci viene un dubbio: questa idea è rispettata anche a livello di salari e di ruoli? Risponde sempre Luisa Lambertini: «Sì, i dati mostrano che più si abbassa l’età, più ci si avvicina alla parità. Alcuni processi aiutano: normalmente le università sostituiscono i professori ordinari a fine carriera con una combinazione di professoresse/professori assistenti e/o associate/i sufficientemente lontani dall’età pensionabile. Questo ricambio, caratterizzato appunto da un ringiovanimento, offre altresì la possibilità - a chi è intenzionato a coglierla - di intervenire sul disequilibrio di genere e salariale. È sicuramente il caso dell’USI, che tra le università e i politecnici svizzeri risultava penultima in termini di percentuale di posizioni professorali occupate da donne». In questo senso, per monitorare le eventuali altre disparità, tra cui quelle salariali, all’USI è stato introdotto dallo scorso anno lo strumento del “Bilancio di genere”, che misura la parità nelle sue diverse manifestazioni per capire dove è urgente intervenire e per monitorare i progressi fatti. «L’USI è stata una delle prime università in Svizzera e una delle poche istituzioni in Ticino a introdurre questo strumento». E la rettrice ammette: «Alcuni divari di genere, difficilmente comprensibili alla luce dei dati disponibili, sono effettivamente emersi, mentre in altri settori dell’USI essi si attenuano, o si annullano. Si è proceduto quindi a fare a ulteriori verifiche e si è ritenuto auspicabile completare il processo di istituzionalizzazione della parità di genere, ampliare la gamma dei parametri di misurazione, così da poter approfondire e comprendere le molte sfaccettature del problema».

    https://www.cdt.ch/news/universita-una-lenta-parita-360173
    #università_della_svizzera_italiana (#USI) #parité #genre #femems #ESR #Suisse #rapport #recherche #université #facs #inégalités

  • #Wikipédia comme terrain de recherche : méthodes et enjeux de l’analyse des inégalités épistémiques genrées d’une encyclopédie collaborative

    Cet article a pour objectif de présenter les méthodes et enjeux d’un projet de recherche collectif et interdisciplinaire (nommé Wikif) qui vise à comprendre comment la question des #biographies de femmes scientifiques est abordée dans l’encyclopédie collaborative Wikipédia. Après une présentation du contexte de prise en compte de ces inégalités dans la version francophone de Wikipédia, nous expliquerons plus précisément la pertinence et la complémentarité de la méthodologie mixte qui a été adoptée au sein de ce projet, et comment nous y avons associé des opérations de remédiation.

    https://www.essachess.com/index.php/jcs/article/view/641
    #genre #femmes #inégalités #discrimination #science #femmes_scientifiques #université #recherche #ESR

  • Les Padhue, ces milliers de médecins étrangers précaires | StreetPress
    https://www.streetpress.com/sujet/1722506275-padhue-milliers-medecins-etrangers-precaires-hopital-sante-p

    Face à l’imposant bâtiment du ministère de la Santé, une poignée de médecins étrangers manifestent à bas bruit en ce mois de mai 2024. « On est à peine 30 alors que nous sommes des milliers dans la précarité ? », s’exaspère Mehdi (1), un diabétologue. L’homme né et diplômé en Algérie est ce qu’on appelle un « Padhue » : un praticien à diplôme hors Union européenne. Après dix ans d’expérience en Algérie, il exerce depuis quatre ans en France avec des responsabilités importantes puisqu’il forme des internes dans son hôpital en Normandie. Pourtant, comme de nombreux Padhue, il ne gagne guère plus que ces derniers, avec un salaire de 1.450 euros bruts par mois, loin des 4.500 euros bruts des praticiens hospitaliers français en début de carrière – un salaire qui évolue jusqu’à 9.200 euros bruts.

    #santé_publique #pénuries #colonialisme #précariat

  • #Espagne : l’embellie économique boostée par le #progrès_social

    Aux antipodes des prédictions des conservateurs, l’Espagne, gouvernée par une coalition progressiste, voit sa #croissance largement surpasser la moyenne des pays de la zone euro.

    Janvier 2020. Le socialiste #Pedro_Sánchez passe un accord de gouvernement avec #Unidas_Podemos (UP) – composé de partis situés à sa #gauche – sur la base d’un programme résolument progressiste. Un gouvernement de coalition est formé, il vise à faire de l’Espagne une « référence pour la protection des #droits_sociaux en Europe », soit résorber les mesures néolibérales et antisociales qui flagellent la population depuis plus de dix ans.

    (#paywall)

    https://www.humanite.fr/monde/coalition/espagne-lembellie-economique-boostee-par-le-progres-social

    #économie

    • Les fortes hausses du « #Smic » en Espagne et en #Allemagne ont-elles pénalisé l’emploi ?

      Les gouvernements allemands et espagnols ont fortement augmenté leurs salaires minimum respectifs ces dernières années. Mais dans ces deux pays, la différence avec le salaire médian reste bien inférieure à ce qu’on observe à l’heure actuelle en France.

      Un tassement des salaires autour du Smic, une perte de compétitivité et des destructions d’emplois ou bien encore un creusement des déficits si l’Etat aide les entreprises mises en difficulté. La hausse de 14,4% d’un coup du Smic souhaité par le NFP concentre de nombreuses critiques émanant d’économistes et d’entrepreneurs.

      Pourtant chez certains de nos voisins, le salaire minimum a fortement augmenté ces dernières années. C’est le cas en Espagne où la hausse cumulée sur six ans atteint 54% ou encore en Allemagne où le salaire minimum a progressé de 26% depuis le 1er octobre 2022. Ces mesures ont-elles été néfastes pour les économies des deux pays ?
      Un succès en Espagne

      Prenons d’abord l’Espagne. Le salaire minimum est passé de 750 euros nets par mois en 2018 à 1.200 euros en 2024. Les organisations patronales ainsi que la Banque d’Espagne craignaient une perte de compétitivité ainsi qu’une hausse du chômage dans un pays où le taux est déjà, de très loin, le plus haut en Europe. Six ans après le début de ses hausses massives, le bilan est pourtant plutôt positif.

      « Cela a été un des plus grands succès du gouvernement et aucune des prévisions alarmistes ne s’est réalisée », observe Guillem Lopez Casasnovas, professeur d’économie à l’Université Pompeu Fabra de Barcelone cité dans Ouest France.

      Si le bilan positif est peut-être à nuancer puisque le taux de chômage a tout de même bondi en un an de 0,5 point à 12,3% de la population active, il faut reconnaître que sur une période de cinq ans, la part des demandeurs d’emplois au sein de la population active a tout de même reculé (plus de 14% en 2019).

      La hausse du Smic a permis de soutenir un niveau de consommation élevé, et ce, dans un contexte propice. La période de Covid était déflationniste, donc le choc sur les prix a été limité. Et l’après-Covid s’est traduit par une importante hausse de la consommation, les Espagnols dépensant massivement ce qu’ils avaient économisé durant les confinements.

      « Le contexte a été particulièrement favorable et la mesure a permis d’amortir l’inflation, reconnaît l’économiste espagnol plutôt classé à gauche. Une mesure similaire appliquée dans une situation différente peut ne pas fonctionner ».
      Le Smic espagnol partait de très bas

      Les conséquences d’une forte hausse du Smic peuvent en effet être très différentes d’une situation à une autre. De nombreux paramètres entrent en ligne de compte comme le coût du travail global (en incluant les charges), la fiscalité sur les entreprises et surtout l’échelle des salaires et le niveau de qualification sur le marché du travail.

      En Espagne, le Smic est parti de très bas (750 euros par mois) avant de fortement augmenter. Pour autant son montant ne représente selon l’OCDE que 49,5% du salaire médian dans le pays contre 61%, aujourd’hui, en France.

      « Ce qu’il faut regarder ce n’est pas l’évolution du salaire minimum mais le prix normal du salaire des travailleurs non qualifiés, estime Jacques Delpla, économiste, ex-conseiller de Nicolas Sarkozy quand ce dernier était à Bercy et président-fondateur de Klimatek. Pour cela, il faut mesurer le salaire minimum par rapport au salaire médian. L’économiste et ancienne numéro 2 du FMI Anne Krueger estimait qu’au-delà de 50% c’était mauvais pour l’emploi. En France on est déjà significativement au-dessus et avec une hausse de 14%, on passerait à plus de 68%, ce qui fait vraiment beaucoup. »
      Un coût du travail qui reste attractif

      Par ailleurs, le niveau du salaire minimum est loin d’être le seul indicateur de la compétitivité. Le coût du travail reste ainsi en Espagne un des plus bas de l’Union européenne.

      Selon Rexecode et les données d’Eurostat, le coût de l’heure travaillée dans le secteur marchand est de 24,40 euros en moyenne en Espagne contre 29,70 euros en Italie, 36,30 euros en zone euro, 43,20 en Allemagne et 43,30 euros en France. Ainsi si la France attire le plus grand nombre d’investissements étrangers en Europe, c’est en Espagne que les investisseurs créent en moyenne le plus d’emplois.
      En Allemagne, les inégalités salariales ont été réduites

      Prenons cette fois l’Allemagne. Le pays a mis en place un salaire minimum en 2015 seulement et, depuis, il a -inflation oblige- fortement augmenté. Quel bilan ? L’institut Destatis (l’Insee allemand) a constaté que les hausses récentes avaient permis de réduire les inégalités salariales.

      Ainsi en avril 2022, les 10% de salaires les plus élevés étaient 3,28 fois supérieurs aux plus bas. Ce ratio est tombé à 2,98 un an plus tard après de fortes hausses du salaire minimum. Ces hausses du salaire minimum ont ainsi fait sortir en un an 1,1 million de salariés allemand du plancher des bas salaires allemands, a calculé Destatis, qui est inférieur à 13,04 euros brut de l’heure.

      L’emploi en a-t-il pâti ? Difficile de l’affirmer mais, en tout cas, il n’en a pas tiré bénéfice. Depuis un point bas atteint début 2022, le chômage remonte en Allemagne et frôle désormais les 6% de la population active selon l’Agence fédérale pour l’emploi (contre 5% en avril 2022).
      Un écart de 53% avec le salaire médian

      Malgré tout, le taux d’emploi dans le pays reste élevé et les moins bons chiffres du chômage depuis deux ans sont surtout la conséquence du ralentissement économique consécutif à la crise énergétique.

      Mais là encore, il convient de mesurer ce que représente ce « Smic » allemand par rapport au salaire médian. Au niveau actuel de 12,41 euros brut de l’heure, ce salaire minimum représente 53% du salaire médian. Le syndicat Ver.di et le parti d’extrême gauche Die Linke réclament une hausse assez sensible afin d’atteindre les 60% d’ici 2025, ce que le gouvernement refuse de faire. Or en France pour rappel, il est déjà à 61% et passerait à plus de 68% avec une hausse du Smic à 1.600 euros.

      On pourrait alors estimer que si le Smic est si « élevé » par rapport au salaire médian en France, c’est que le niveau des salaires est globalement trop bas et qu’il faudrait un nouveau partage de la valeur en faveur des salariés. Les données comparables montrent pourtant que c’est déjà en France que le partage de la valeur se fait en Europe le plus au bénéfice des salariés.
      « Le véritable problème en France c’est qu’on a un Smic élevé »

      Selon Eurostat, la part des rémunérations totales représente en France 65% de la valeur ajoutée brute contre 63% en Allemagne, 61% en Espagne et 59% en moyenne en Europe.

      « Le véritable problème en France c’est qu’on a un Smic élevé et qu’on subventionne le travail non qualifié avec des exonérations de charges, résume Jacques Delpla. Le coût de ces exonérations sur les bas salaires, c’est 3% du PIB, soit 80 milliards d’euros. C’est plus de trois fois le budget de l’université et de la rechercher qui est à 25 milliards. Ce qui est totalement absurde puisque notre coût du travail non qualifié ne sera jamais au niveau de celui de la Bulgarie. Pour augmenter le pouvoir d’achat, il faut améliorer la productivité et investir dans les compétences et surtout pas financer des trucs qui n’ont pas d’avenir ».

      https://www.bfmtv.com/economie/international/les-fortes-hausses-du-smic-en-espagne-et-en-allemagne-ont-elles-penalise-l-em

    • #Emplois, #inégalités... L’exemple réussi d’une Espagne gouvernée à gauche

      #PIB en hausse, #chômage en baisse, #taxation des riches… La politique de gauche menée en Espagne a des résultats positifs. Un exemple pour la France, où le programme du Nouveau Front populaire est décrié par la droite.

      Une politique économique de gauche ruinera-t-elle la France ? Le cas de l’Espagne nous démontre le contraire. Le désastre économique ne s’y est jamais produit, bien qu’il soit sans cesse annoncé par la droite depuis que la gauche est au pouvoir depuis 2018. Avec l’arrivée du Premier ministre socialiste Pedro Sánchez aux affaires la même année, en coalition avec des formations situées à sa gauche, le gouvernement a mené une politique économique de gauche. Et ce, malgré la pandémie et la guerre en Ukraine.

      Résultat : les grands indicateurs mesurant la santé d’une économie indiquent que nos voisins s’en sortent plutôt bien. La droite, le patronat et certaines institutions ont pourtant systématiquement freiné des quatre fers, justifiant leur rejet par le risque de conséquences graves. Voici quelques exemples.
      +54 % du salaire minimum depuis 2018

      Le salaire minimum a augmenté de 54 % depuis 2018, passant de 736 euros par mois en 2018, à 1 134 en 2024. Il y a six ans, la mesure a déclenché un débat acharné dans le pays. Représentants patronaux, politiques et presse de droite ainsi que de nombreux économistes ou encore la Banque d’Espagne martelaient que cela entraînerait une importante destruction d’emplois, accompagnée d’une réduction du nombre d’heures pour les bas salaires et la faillite de nombreuses entreprises.

      En 2023, la plupart des économistes s’accordaient pour dire que, s’il y avait un effet négatif sur les emplois, il était marginal, alors que le pays connaît actuellement une forte progression de l’emploi. Contrairement aux autres revenus dans le pays, le salaire minimum a augmenté de 26 % entre 2019 et mai 2024, soit plus que l’inflation. Cela se traduit par une augmentation de 6,5 % du revenu moyen des personnes affectées, estime une étude de l’OCDE.
      Un marché régulé, davantage d’emplois

      Une nouvelle loi Travail adoptée en 2022 a été conçue pour réduire la précarité dans un pays qui souffrait d’un taux d’emplois temporaires deux fois plus élevé que la moyenne de l’Union européenne (UE).

      « Si on change la législation relative au travail et que ces normes compliquent les choses pour les entreprises, peut-être qu’elles n’emploieront personne », expliquait en 2020 Antonio Garamendi, président de l’organisation patronale CEOE. « Les gens savent-ils que cette réforme va détruire ou arrêter de créer près de 1 million d’emplois ? » se demandait Pablo Casado, chef de file de l’opposition de droite jusqu’en 2022.

      Deux ans plus tard, si certains angles morts demeurent, la plupart des experts reconnaissent que ses effets ont été positifs. Le taux d’emplois à temps partiel est passé de 26 % à 15,7 %. Le nombre de personnes en poste n’a jamais été aussi élevé et le chômage est au plus bas depuis 2008.
      Des riches imposés, et encore plus riches

      En 2022, en pleine inflation, le gouvernement a lancé plusieurs impôts. Tout d’abord sur les grandes banques, dont les bénéfices ont explosé avec les hausses de taux d’intérêt visant à endiguer la montée des prix. Puis sur le chiffre d’affaires des grandes entreprises de l’énergie, dont les bénéfices ont augmenté brutalement avec l’inflation des prix de l’énergie.

      Il a également décidé d’une hausse généralisée pour les contribuables les plus aisés, une baisse pour les revenus les plus bas et d’un « impôt temporaire de solidarité sur les grandes fortunes ».

      Selon la droite et les patrons des secteurs concernés, cette politique détériorerait l’économie en général, puisque les banques et les énergéticiens répercuteraient ces hausses sur les clients, renforçant l’inflation. La Banque centrale européenne (BCE), entre autres, partageait les mêmes craintes. La droite martelait aussi que les plus fortunés fuiraient le pays. Pourtant en 2023, les banques ont enregistré des bénéfices records, les sociétés énergétiques sont revenues à des bénéfices de 2021 (records en leur temps). Quant aux riches, leur nombre a augmenté, leur patrimoine aussi. Le gouvernement envisage désormais de pérenniser ces impôts.

      De nombreuses autres mesures sociales ont été adoptées, un « revenu minimum vital » (équivalent au RSA), une limitation au prix du gaz qui a amplement participé à limiter l’inflation, ou la gratuité de nombreux transports en commun. Résultat : en 2023, le PIB de nos voisins a crû de 2,5 %, quand la hausse n’a été que de 0,3 % pour l’ensemble de l’UE (1,1 % pour la France). Le taux de chômage reste haut, à 11,7 % en 2023. Mais c’est un niveau historiquement bas depuis la crise de 2008.

      Difficile d’imputer ces résultats à la seule gestion du gouvernement. Mais une chose est sûre : elle n’a absolument pas fait sombrer l’économie espagnole. Les contextes espagnol et français sont, certes, différents. Mais l’exemple mérite d’être médité.

      https://reporterre.net/Emplois-inegalites-L-exemple-reussi-d-une-Espagne-gouvernee-a-gauche

  • L’envers du décor olympique : les récits urbains des Jeux de #Paris 2024
    https://metropolitiques.eu/L-envers-du-decor-olympique-les-recits-urbains-des-Jeux-de-Paris-202

    Les #Jeux_olympiques de Paris 2024 respectent-ils le modèle d’inclusivité et de durabilité annoncé par ses promoteurs ? Le livre enquête de Jade Lindgaard montre les logiques d’extractivisme et de dépossession à l’œuvre derrière un décor difficile à percer. Dans Paris 2024. Une ville face à la violence olympique, publié en janvier 2024 aux éditions Divergences, Jade Lindgaard propose une analyse critique des Jeux olympiques et paralympiques qui se tiendront en juillet et août prochains. Les Jeux peuvent-ils #Commentaires

    / Jeux olympiques, #développement_durable, Paris, #Seine-Saint-Denis, #inégalités, #pollution, (...)

    #exctractivisme
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_beaute.pdf

  • Le Grand #Paris comme piège institutionnel
    https://metropolitiques.eu/Le-Grand-Paris-comme-piege-institutionnel.html

    Dans un ouvrage en guise de témoignage, l’ancien élu parisien communiste Pierre Mansat raconte et analyse la naissance de la Métropole du #Grand_Paris. Entre espoirs et désillusions réformatrices, retour sur une « dépossession démocratique ». Ma vie rouge raconte un piège, un piège institutionnel, qui se referme progressivement sur Pierre Mansat, coauteur et personnage principal de l’ouvrage. Il y relate son expérience de conseiller de Paris en charge des relations avec les collectivités d’Île-de-France, #Commentaires

    / #dépolitisation, #Parti_communiste, intercommunalité, #réforme, #inégalités, Paris, Grand (...)

    #intercommunalité
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/lecouple.pdf

  • « Le Luxembourg est champion de la pauvreté au travail » l’essentiel - Marion Chevrier

    LUXEMBOURG - Le travail ne protège pas de la pauvreté : en 2023, 14,7% des salariés étaient exposés au risque de pauvreté. Une proportion deux fois plus élevée que dans la zone euro.

    « Le Luxembourg confirme son statut de champion de la pauvreté au travail » en 2023, écrit la Chambre des salariés dans une mise à jour de son Panorama social publiée ce mardi. Le taux de risque de pauvreté des salariés a en effet encore augmenté au Grand-Duché, passant de 12,4% en 2022 à 14,7% en 2023 alors qu’il était sous le seuil des 10% en 2010 (9,9%).

    Une tendance à la hausse à contre-courant des pays de la zone euro qui voient plutôt ce risque diminuer (à 6,7% pour la zone euro, aux alentours de 6% en France et en Allemagne et de 4% en Belgique).

    https://20min-images.imgix.net/2024/06/18/27f4f44a-6319-4e49-8955-12d01725a576.jpeg

    L’année dernière, c’est ainsi plus d’un salarié sur sept qui disposait de revenus ne lui permettant pas de dépasser le seuil de risque de pauvreté (2 382 euros pour un adulte seul et 5 001 euros par mois pour un couple avec deux enfants de moins de 14 ans).

    Si les travailleurs à temps partiel ou encore ceux ne disposant que d’un contrat de travail à durée déterminée sont plus exposés au risque de pauvreté, le Luxembourg se distingue néanmoins par le fait que même les personnes travaillant à plein temps sont nombreuses à ne pas échapper à la pauvreté, constate la CSL. Ainsi, 9,6% des personnes travaillant plus de 34 heures par semaine présentaient un risque de pauvreté, soit près du double de la zone euro. Dans ces ménages, le risque de pauvreté des mineurs était de 13% contre 6% dans la zone euro.

    « Rendre au travail la valeur qui lui est due »

    « Dès lors, les affirmations que "le filet de sécurité social est tendu autour de l’emploi" ou encore que "le travail doit être rentable" (discours sur l’état de la Nation prononcé la semaine dernière par Luc Frieden) ne sont que des vœux pieux en attendant des actes concrets permettant de rendre au travail la valeur qui lui est due », indique la CSL. Pour ce faire, elle réclame une revalorisation structurelle du salaire minimum, une exonération d’impôt sur le revenu jusqu’à hauteur du salaire minimum qualifié et un allègement de la fiscalité des revenus modestes.

    Des mesures qui permettraient, selon elle, d’attirer au pays des travailleurs « essentiels, mais mal rémunérés » dans les secteurs du commerce, de la restauration, de la construction ou encore des services à la personne et de l’action sociale et du nettoyage.

    #union_européenne #ue #Luxembourg #néolibéralisme #travail #inégalités #pauvreté #dividendes #exploitation #banques #salaires #économie #exploitation #frontières

    Source : https://www.lessentiel.lu/fr/story/emploi-le-luxembourg-est-champion-de-la-pauvrete-au-travail-103129681

    • Après vérification, il s’agit bien (encore et toujours) de ce que l’Insee appelle le seuil de pauvreté monétaire relative. Contrairement à ce que son nom indique (y compris dans cette formulation population exposée au risque de pauvreté ou, dans la version anglaise, chez Eurostat, at-risk poverty rate), ce n’est pas, ça n’a jamais été un indicateur de pauvreté, mais un indice de dispersion de la distribution des revenus.

      Pourcentage de la population dont le revenu est inférieur à 60% de la médiane des revenus ; si on multiplie (ou divise) tous les revenus par deux ou n’importe quel nombre cet indicateur ne bouge pas d’un poil. Il est donc un peu étrange d’y entrevoir une quelconque notion de pauvreté.

      Le fait que cet indicateur soit le plus élevé au Luxembourg signifie en gros que, en Europe, c’est le pays où l’écart entre bas et hauts revenus est le plus important.

  • « En Inde, une révolution des basses castes est en marche », Divya Dwivedi, Shaj Mohan
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/06/14/en-inde-une-revolution-des-basses-castes-est-en-marche_6239697_3232.html

    En Inde, le Parti du peuple indien (#BJP, pour Bharatiya Janata Party) de Narendra Modi a perdu les élections législatives. Il lui manquait un grand nombre de sièges, trente-deux exactement, pour obtenir la majorité. A présent, le BJP doit se résoudre à former un gouvernement de coalition avec ses anciens adversaires, les partis régionaux qui luttent contre le système de castes. #Modi n’aura donc plus les mains libres pour opprimer les militants égalitaires dans les universités et les villages, il ne pourra plus se servir des institutions nationales pour terroriser les sikhs, les chrétiens et les musulmans. Quant à la justice et aux médias – ces derniers n’ont jusqu’à présent guère manifesté d’opposition –, ils pourront accomplir leurs missions dans des conditions plus faciles.

    Il existe aujourd’hui en Inde des courants sociaux et politiques égalitaires très puissants. Quelque temps avant les élections, le parti du Congrès national indien s’est fait l’avocat de ces courants, ce qui a mené Modi et son BJP à leur perte – les médias indiens et internationaux se sont peu étendus sur cet aspect du scrutin. Preuve flagrante de la force de cette vague égalitaire, le BJP a perdu la circonscription de Faizabad, cette cité moghole où se trouvait l’historique mosquée de Babri, érigée au XVIe siècle [symbole de la domination musulmane aux yeux des nationalistes hindous].

    C’est là, à Faizabad, il y a plusieurs dizaines d’années, que Modi a commencé sa carrière politique. Il a fait partie des principaux organisateurs du mouvement visant à détruire la mosquée pour construire à la place un temple de Ram, le dieu-roi défenseur du #système_de_castes. Le 6 décembre 1992, le Rashtriya Swayamsevak Sangh, l’organisation paramilitaire suprémaciste hindoue de la haute caste – proche parente du BJP – et diverses de ses antennes ont démoli l’édifice de Faizabad et perpétré des #pogroms contre les #musulmans, faisant des milliers de victimes dans toute l’Inde. Des dizaines d’années plus tard, le 22 janvier, Modi a finalement inauguré le temple de Ram [symbole de la domination hindoue dans cette République officiellement laïque]. Alors, Modi et les médias de la #caste supérieure, de la prétendue gauche comme de la droite, ont proclamé qu’il avait déjà remporté les élections, normalisant ce crime monumental dont les architectes restent impunis.

    Perte symbolique

    Pourtant, après avoir axé toute sa campagne sur la question du temple de Ram et de l’#islamophobie, le BJP a perdu la circonscription de Faizabad, d’une importance symbolique et historique immense, face à Awadhesh Prasad. Vétéran de la politique #dalit, c’est-à-dire de la basse caste, Prasad appartient au Parti socialiste indien (#SP, pour Samajwadi Party), qui se bat pour plus de justice sociale. Le passage de cette circonscription aux mains d’un intouchable est indéniablement historique.

    Rappelons que le BJP est créé en 1980, à partir de groupes suprémacistes de la haute caste, pour faire face à l’ascension des mouvements de lutte contre les castes. En 1980, la commission Mandal publie un rapport sur les conditions de vie des castes opprimées (qui représentent plus de 90 % de la population en Inde et appartiennent à toutes les religions, y compris l’islam) et propose des mesures de #discrimination_positive dans les institutions gouvernementales.
    Ces avancées suscitent une forte inquiétude des castes supérieures, minoritaires (elles constituent moins de 10 % de la population et font partie de toutes les religions), qui dominent les médias, les arts, l’enseignement supérieur, la justice et les affaires. Le #Parti_du_Congrès, au pouvoir depuis les années 1980, refuse de présenter le texte au Parlement.

    En 1990, au moment où le rapport est finalement déposé au Parlement, le BJP place l’islamophobie au cœur de sa politique et fabrique la notion d’hindutva (« unité hindoue »), réprimant les mouvements anticastes par la terreur. La caste supérieure, le monde académique et certains de leurs homologues internationaux acclament le BJP et cette croisade du gouvernement. En réaction à la direction prise par le Parti du Congrès et le BJP, le SP et plusieurs autres partis égalitaires des classes inférieures émergent dans les années 1980 et 1990. Ils finissent par accéder au pouvoir dans les années 1990. Dépourvus de la culture sophistiquée des élites, ils sont tournés en dérision par les médias et le monde universitaire. Malgré tout, aujourd’hui, le SP est le troisième parti au Parlement.

    Double travail

    Si les résultats électoraux du Parti du Congrès dépassent toute attente, c’est parce qu’il s’est enfin saisi des préoccupations de la population : les #inégalités socio-économiques et le système de castes – dans une certaine mesure du moins. Le manifeste quasi révolutionnaire de Rahul Gandhi et du Parti du Congrès parle le langage des mouvements égalitaires inspirés par le leader intouchable Bhimrao Ambedkar, père de la Constitution indienne : il appelle à organiser un recensement socio-économique des castes et à faire passer les basses castes, majoritaires (90 % de la population), avant les hautes castes, minoritaires (10 % de la population). Depuis cette métamorphose, plusieurs intellectuels et journalistes de gauche raillent Gandhi, et quantité de dirigeants des hautes castes ont claqué la porte du Parti du Congrès, certains pour rejoindre le BJP. Tout cela a cependant permis au Parti du Congrès de trouver un chef puissant et sage en la personne de Mallikarjun Kharge, avocat et chef syndical dalit.

    En octobre 2022, lorsque le Parti du Congrès élit son président, Kharge remporte la primaire face à Shashi Tharoor, un suprémaciste de la caste supérieure. Tharoor est notamment l’auteur de Why I Am a Hindu ? (« pourquoi je suis hindou ? », Aleph, 2018, non traduit), livre qui s’attaque à l’un des plus influents ouvrages contre les castes, Why I Am not a Hindu ? (« pourquoi ne suis-je pas hindou ? », Samya, 1996, non traduit), de l’intellectuel dalit Kancha Ilaiah Shepherd. Après sa victoire, Kharge a décidé de faire de la suppression des castes la bataille centrale de la politique indienne – dans l’indifférence affichée des médias.

    Les représentants des castes supérieures dans la sphère publique discutent de politique comme s’il s’agissait d’un débat d’idées sans réalité objective pour l’Inde. Or, les changements politiques actuels sont le fruit d’un travail acharné dans les villages et les mouvements intellectuels souterrains. Lors de ces législatives, le SP et le Parti du Congrès sont parvenus à mener à bien ce double travail. A présent, ils doivent aller plus loin.

    Le Parti du Congrès, le SP et d’autres groupes forment une opposition, certes, mais ils constituent aussi une potentielle coalition gouvernementale, qui pourrait à tout moment renverser la coalition de Modi. Une révolution des basses castes est en marche sur un plus grand nombre de terrains que jamais, une révolution menée par ceux qui ont le courage d’œuvrer pour une renaissance de l’Inde. Comme le sait bien la France, les révolutions sont multiples, et elles viennent en leur temps.

    (Traduit de l’anglais par Valentine Morizot)
    Divya Dwivedi et Shaj Mohan sont philosophes et vivent en Inde. Ils ont cosigné « Indian Philosophy, Indian Revolution. On Caste and Politics » (Hurst, 2024, non traduit)

  • Tout ce que les riches ne veulent pas que vous sachiez sur eux | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/riches-ne-veulent-sachiez-eux/00111388

    « Pour vivre heureux, vivons cachés. » Un adage que les plus fortunés respectent à la lettre. Et c’est peu dire qu’ils voient d’un mauvais œil la publication du nouveau « Rapport sur les riches en France », édité par l’Observatoire des inégalités, et rendu public le 5 juin.

    Car en 88 pages et plusieurs centaines de tableaux et graphiques, dont certaines données sont inédites, ce document lève le voile sur leur train de vie privilégié. De quoi provoquer un tollé dans les rangs de nos concitoyens les plus aisés : les deux précédentes éditions de ce rapport ont suscité de nombreuses critiques, pour l’essentiel illégitimes.

    Même le très sérieux Insee, l’institut national de la statistique publique, s’est autorisé quelques piques. Critiques auxquelles répond de manière convaincante ce troisième opus, « celui de la maturité », estime Louis Maurin, le directeur de l’Observatoire des inégalités.

    L’accueil mouvementé réservé à ce rapport prouve en tout cas qu’il a fait mouche et qu’il bouscule quelques intérêts bien établis. Et pour cause : les riches, ce ne sont pas forcément les autres, ces quelques milliardaires qu’il est facile de brocarder sans se sentir concerné. La France à l’aise financièrement est bien plus large que cette poignée d’ultra-privilégiés.

    https://justpaste.it/ekiay

    #inégalités #richesse #patrimoine

  • Zucchero negli alimenti. Per #Nestlé i bambini non sono tutti uguali

    Secondo un’analisi della Ong Public Eye gli alimenti per bambini e neonati venduti dalla multinazionale svizzera in Africa, Asia e America Latina contengono più zuccheri rispetto alle loro controparti commercializzate nei mercati europei. Un doppio standard che porta a un “aumento esplosivo dell’obesità e spinge i bambini a sviluppare una preferenza per i prodotti zuccherati che durerà tutta la vita”.

    Due dei prodotti alimentari per l’infanzia più venduti da Nestlé nei Paesi a medio o basso reddito contengono, a differenza delle loro controparti reperibili in Europa e in Svizzera, dosi elevate di zuccheri aggiunti. Sono i risultati di un’indagine svolta dalla Ong svizzera Public Eye con la collaborazione dell’International baby food action network (Ibfan), rete di organizzazioni per la salute infantile. “Chiediamo all’azienda di porre fine a questo ingiustificabile e dannoso doppio standard che porta a un aumento esplosivo dell’obesità e spinge i bambini a sviluppare una preferenza per i prodotti zuccherati che durerà tutta la vita”, denuncia la coalizione.

    A cinquant’anni dallo scandalo sulla promozione di prodotti per l’infanzia nei Paesi a basso reddito che ha coinvolto Nestlé, il gigante svizzero afferma di aver imparato dal passato e proclama il suo “impegno incrollabile” nella “commercializzazione responsabile” dei sostituti del latte materno. Attualmente l’azienda controlla il 20% del mercato degli alimenti per l’infanzia, per un valore di circa 70 miliardi di dollari.

    I due prodotti di punta nei Paesi a medio e basso reddito al centro dell’inchiesta sono Cerelac, una linea di cereali per l’infanzia, e Nido, un tipo di latte in polvere. Secondo dati esclusivi ottenuti da Euromonitor, una società di analisi di mercato specializzata nell’industria alimentare, il loro valore di vendita è stato superiore a 2,5 miliardi di dollari nel 2022. “Nelle proprie comunicazioni o tramite terzi, Nestlé promuove Cerelac e Nido come marchi il cui obiettivo è aiutare i bambini a ‘vivere una vita più sana’. Fortificati con vitamine, minerali e altri micronutrienti, secondo la multinazionale questi prodotti sono adatti alle esigenze dei neonati e dei bambini piccoli e contribuiscono a rafforzare la loro crescita, il loro sistema immunitario e il loro sviluppo cognitivo -si legge nella ricerca-. Ma questi cereali e latti in polvere offrono davvero ‘la migliore nutrizione’, come sostiene Nestlé? È quello che abbiamo cercato di scoprire concentrandoci su uno dei principali ‘pericoli pubblici’ quando si parla di alimentazione: lo zucchero”.

    L’indagine ha svelato una differenza importante e non giustificata tra la quantità di zucchero addizionato in questi prodotti nei diversi Paesi in cui sono venduti. Se gli alimenti per l’infanzia distribuiti in Svizzera e nel mercato europeo non contengono zuccheri aggiunti, quelli disponibili nei Paesi a medio e basso reddito ne hanno invece in quantità elevata, nonostante siano indicati come adatti a bambini dai sei mesi d’età. Su un totale di 115 prodotti della linea Cerelac venduti nei mercati di Africa, Asia e America Latina, il 94% (108) presentano zuccheri aggiunti. Inoltre, per 67 di questi alimenti è stato possibile determinarne il valore esatto, tramite etichetta o analisi di laboratorio.

    Si è scoperto quindi che in India, dove le vendite hanno superato i 250 milioni di dollari nel 2022, tutti i cereali per bambini Cerelac contengono zuccheri aggiunti, in media quasi tre grammi per porzione. La stessa situazione prevale in Sudafrica, il principale mercato per Nestlé in Africa, dove ogni alimento esaminato di questa linea ha quattro o più grammi di zuccheri aggiunti per porzione. In Brasile, il secondo mercato mondiale con un fatturato di circa 150 milioni di dollari nel 2022, tre quarti dei cereali per bambini di questa linea contengono zuccheri addizionali, in media tre grammi a porzione.

    “È un fatto preoccupante -ha fatto notare Rodrigo Vianna, epidemiologo e professore presso il dipartimento di Nutrizione dell’Università federale di Paraíba nel Brasile Nord-orientale, commentando i risultati della ricerca-, lo zucchero non dovrebbe essere aggiunto agli alimenti dedicati ai neonati e ai bambini piccoli perché non è necessario e crea una forte dipendenza. I bambini si abituano al sapore dolce e iniziano a cercare altri alimenti dolci, innescando un ciclo negativo che aumenta il rischio di disturbi legati all’alimentazione nella vita adulta, tra cui l’obesità e altre malattie croniche non trasmissibili come il diabete o l’ipertensione”.

    Una tendenza che, anche se in forma ridotta, si ritrova in Nido, il più popolare dei latti per la crescita. Secondo Euromonitor, nel 2022 le vendite globali dei prodotti Nido per bambini da uno a tre anni avrebbero superato quota un miliardo di dollari. Su 29 confezioni esaminate ben 21 contenevano zuccheri aggiunti, i valori più alti sono stati riscontrati a Panama (5,3 grammi) e in Nicaragua (4,7 grammi).

    Sebbene la multinazionale si sia affrettata a sottolineare che questi prodotti sono senza saccarosio aggiunto, essi contengono zucchero addizionale sotto forma di miele. Tuttavia, secondo l’Oms entrambe le sostanze non dovrebbero essere inserite negli alimenti per bambini. Ed è, paradossalmente, proprio la stessa Nestlé a spiegarlo con precisione in un quiz educativo sul sito web dedicato a Nido in Sudafrica: “sostituire il saccarosio con il miele non ha ‘alcun beneficio scientifico per la salute’, in quanto entrambi possono contribuire ‘all’aumento di peso ed eventualmente all’obesità’”.

    Eppure, il colosso svizzero sta promuovendo questi alimenti attraverso un’aggressiva campagna di marketing sia con mezzi “tradizionali”, come cartelloni e spot televisivi, sia tramite campagne sui social media e influencer. Dove, come già accennato, questi prodotti vengono presentati come salutari e benefici per lo sviluppo del bambino. “Spesso le indicazioni sulla salute dei produttori non sono supportate dalla scienza. Se un prodotto farmaceutico volesse affermare di migliorare lo sviluppo cerebrale dei bambini o la loro crescita -ha detto Nigel Rollins, ricercatore presso il dipartimento di Salute materna, neonatale, infantile e dell’adolescenza all’Oms-, dovrebbe superare standard di evidenza molto elevati. Ma trattandosi di un alimento, non è necessario effettuare questi test“.

    Nestlé non ha risposto a domande specifiche ma ha dichiarato a Public Eye e all’Ibfan di aver “ridotto dell’11% la quantità totale di zuccheri aggiunti nel proprio portafoglio di cereali per l’infanzia in tutto il mondo” negli ultimi dieci anni e che “diminuirà ulteriormente il livello di zuccheri senza compromettere la qualità, la sicurezza e il gusto”. La multinazionale ha inoltre comunicato che starebbe eliminando gradualmente il saccarosio e lo sciroppo di glucosio dai suoi “latti per la crescita” Nido a livello globale. L’azienda ha ribadito, inoltre, che i suoi prodotti sono “pienamente conformi” alle leggi locali e al Codex alimentarius. Quest’ultimo è un elenco di norme e standard alimentari internazionali che, sempre secondo Rollins, sono stati pesantemente influenzati dalle lobby dello zucchero e dell’alimentazione, rendendo le linee guida per i cibi per l’infanzia non allineate alle raccomandazioni dell’Oms. “Le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sono indipendenti da qualsiasi influenza dell’industria -ha dichiarato Rollins-. Al Codex, invece, le lobby sono attive e influenti: l’industria dello zucchero, quella degli alimenti per l’infanzia e altri rappresentanti del settore alimentare sono spesso presenti nelle stanze in cui vengono prese le decisioni”.

    https://altreconomia.it/zucchero-negli-alimenti-per-nestle-i-bambini-non-sono-tutti-uguali
    #sucre #industrie_alimentaire #enfants #enfance #inégalités #double_standard #Cerelac #Nido #lait_en_poudre #multinationales

    • How Nestlé gets children hooked on sugar in lower-income countries

      Nestlé’s leading baby-food brands, promoted in low- and middle-income countries as healthy and key to supporting young children’s development, contain high levels of added sugar. In Switzerland, where Nestlé is headquartered, such products are sold with no added sugar. These are the main findings of a new investigation by Public Eye and the International Baby Food Action Network (IBFAN), which shed light on Nestlé’s hypocrisy and the deceptive marketing strategies deployed by the Swiss food giant.

      https://stories.publiceye.ch/nestle-babies

  • Des universités françaises au bord de l’#asphyxie : « Ça craque de partout »

    Locaux vétustes, #sous-financement structurel, #pénurie d’enseignants, inégalités sociales et scolaires… Les universités de Créteil, Villetaneuse ou encore Montpellier-III cumulent les difficultés. Le fossé se creuse encore entre les établissements prestigieux et les autres.

    A l’#université_Sorbonne-Paris_Nord, sur le campus de Villetaneuse, en Seine-Saint-Denis, la visite guidée se transforme immanquablement en un passage en revue du #délabrement. Tel couloir ou telle salle, inondés à chaque forte pluie, cumulent vétusté et moisissures sur les murs. Des amphithéâtres aux sièges cassés, des prises abîmées depuis des années, et des vidéoprojecteurs qui, régulièrement, ne fonctionnent pas. Les filets de fortune qui retiennent des bouts de plafond qui s’écroulent au-dessus d’une passerelle reliant plusieurs bâtiments. Cet ascenseur, également, en panne depuis la rentrée, rendant le deuxième étage du département des lettres inaccessible aux étudiants à mobilité réduite.

    De façon moins visible, une grande partie des bâtiments contient encore de l’#amiante, plus ou moins bien protégée. « Là ou encore là, le sol est abîmé, montre Stéphane Chameron, maître de conférences en éthologie, membre du comité social d’administration, encarté SUD-Education, en désignant des dalles usées dans des couloirs ou des escaliers. Donc il peut arriver que de la poussière amiantée soit en suspension dans l’air. C’est une #mise_en_danger. »

    Selon la Cour des comptes, 80 % du bâti de l’université Sorbonne-Paris Nord est aujourd’hui vétuste. Mais le constat national n’est guère réjouissant non plus, avec un tiers du #patrimoine_universitaire jugé dans un état peu ou pas satisfaisant. « Honnêtement, on a honte de faire travailler les étudiants dans ces conditions » , souligne une des enseignantes de l’établissement qui, comme beaucoup, a demandé à rester anonyme.

    En matière d’#encadrement aussi, « la situation est critique », alerte Marc Champesme, chargé du département d’informatique de Paris Nord, membre du syndicat Snesup-FSU. Dans sa composante, le nombre d’étudiants en première année a été multiplié par plus de trois entre 2010 et 2022, et par deux sur les trois années de licence. Dans le même temps, le nombre d’enseignants titulaires n’a pas bougé. « On est maintenant contraints de faire des travaux dirigés en amphi avec soixante étudiants parce qu’on manque de professeurs , réprouve-t-il. Alors même que les pouvoirs publics ne cessent de dire qu’il faut former plus d’informaticiens et de spécialistes de l’IA [intelligence artificielle] , que c’est l’avenir. »

    « Sans l’État, ce ne sera pas possible »

    Ici, comme dans d’autres facultés, les personnels ont été désespérés par le signal envoyé, en février, avec l’annonce de coupes budgétaires de près de 1 milliard d’euros dans l’enseignement supérieur – en contradiction avec la volonté affichée, fin 2023 par Emmanuel Macron, de « donner plus de moyens » pour la recherche. « On nous disait que l’université serait une priorité, mais cela a vite été oublié. C’est un #délaissement total. Et les premiers à trinquer, ce sont nous, universités de banlieue populaire ou de petites villes déjà en mauvaise forme » , s’exaspère un autre enseignant-chercheur de Sorbonne-Paris Nord.

    Cette réalité s’impose comme le signe d’une université française en crise, qui maintient sa mission de service public en poussant les murs, colmatant les brèches et serrant les dents. La conséquence de décennies pendant lesquelles les établissements ont absorbé une augmentation significative de la #population_étudiante, sans que les moyens aient suivi. Entre 2008 et 2021, le nombre d’étudiants a augmenté de 25 %, quand le #budget de l’enseignement supérieur a progressé de moins de 10 %. Quant aux fonds versés par l’Etat liés spécifiquement au #bâti, ils stagnent depuis plus de dix ans.

    Désormais, « ça craque de partout » , résume un enseignant dans un Baromètre des personnels réalisé en 2023 par la Conférence des praticiens de l’enseignement supérieur et de la recherche. A Villetaneuse, « on essaie de mettre les bouchées doubles depuis trois ans pour les travaux urgents. On a investi 6 millions d’euros sur fonds propres. Mais on ne dispose pas de ressources infinies. Sans l’Etat, ce ne sera pas possible » , souligne son président, Christophe Fouqueré. Sur tout le territoire, la pression budgétaire contraint les établissements à se contenter de rafistoler un bâti vieillissant plutôt que d’entamer des travaux de #rénovation nécessaires, ou encore à geler les embauches de #titulaires et à avoir recours à des #vacataires précaires – à présent majoritaires au sein des personnels enseignants dans les universités.

    Mais, à l’image de Sorbonne-Paris Nord, certaines se trouvent plus en difficulté que d’autres en matière de conditions d’études. « La question du bâti et de son délabrement éclaire en fait toutes les #inégalités entre élèves, et entre établissements du supérieur : d’abord entre universités et grandes écoles type Sciences Po, mieux loties, et désormais entre universités elles-mêmes, analyse la sociologue Annabelle Allouch, qui mène un projet de recherche sur le #bâti_universitaire. Mais elle renforce aussi ces inégalités, en encourageant des étudiants à adopter des stratégies d’évitement de certains campus. »

    De fait, des #écarts se sont creusés. Si certains campus ont bénéficié de belles rénovations, comme de moyens plus conséquents pour l’enseignement, d’autres universités, moins subventionnées, décrochent. « On a été oubliés du #plan_Campus de 2008, qui a permis à d’autres universités, y compris voisines, de se remettre à niveau » , regrette le président de Sorbonne-Paris Nord. « L’Etat avait fait le choix de porter les efforts sur 21 sites seulement. Cela a créé un premier différentiel, qui n’a cessé de s’accentuer puisque ces universités lauréates ont été, par la suite, mieux placées, aussi, pour répondre à des appels à projet sur le patrimoine » , explique Dean Lewis, vice-président de France Universités.

    Se sont ajoutées les diverses politiques d’ « #excellence », mises en œuvre durant la dernière décennie, et notamment les labels #Initiative_d’excellence, décernés à certains établissements prestigieux, avec des moyens supplémentaires correspondants. « On a été face à des politiques qui ont décidé de concentrer les moyens sur un petit nombre d’établissements plutôt que de les distribuer à tout le monde » , résume la sociologue Christine Musselin.

    #Violence_symbolique

    Une situation qui laisse de plus en plus apparaître une université à plusieurs vitesses. « Quand je passe de mon bureau de recherche de l’ENS [Ecole normale supérieure] aux locaux où j’enseigne, la différence me frappe à chaque fois », témoigne Vérène Chevalier, enseignante en sociologie à l’#université_Paris_Est-Créteil (#UPEC), qui subit aussi, avec ses élèves, un environnement dégradé. Dans certains bâtiments de cette université, comme celui de la Pyramide, les cours ont dû être passés en distanciel, cet hiver comme le précédent, en raison d’une défaillance de #chauffage, la #température ne dépassant pas les 14 0C. En avril, le toit d’un amphi, heureusement vide, s’est effondré sur un site de Fontainebleau (Seine-et-Marne) – en raison d’une « malfaçon », explique la présidence.

    Plongée dans une #crise_financière, avec un #déficit abyssal, l’UPEC est dans la tourmente. Et la présidence actuelle, critiquée en interne pour sa mauvaise gestion des finances. « Mais lorsqu’on voit arriver 10 000 étudiants en cinq ans, on se prend de toute façon les pieds dans le tapis : cela veut dire des heures complémentaires à payer, des locations ou l’installation de préfabriqués très coûteuses » , défend le président, Jean-Luc Dubois-Randé.

    Au sein d’un même établissement, des fossés peuvent se former entre campus et entre disciplines. « Quand mes étudiants vont suivre un cours ou deux dans le bâtiment plus neuf et entretenu de l’IAE [institut d’administration des entreprises] , dont les jeunes recrutés sont aussi souvent plus favorisés socialement, ils reviennent dans leur amphi délabré en disant : “En fait, ça veut dire que, nous, on est les pauvres ?” » , raconte Vérène Chevalier, qui y voit une forme de violence symbolique.

    Ce sont des étudiants « qu’on ne voit pourtant pas se plaindre », constate l’enseignant Stéphane Chameron. « Pour beaucoup issus de classes moyennes et populaires, ils sont souvent déjà reconnaissants d’arriver à la fac et prennent sur eux » , a-t-il observé, comme d’autres collègues.

    Dans le bâtiment Pyramide, à Créteil, une dizaine d’étudiants en ergothérapie préparent leurs oraux collectifs de fin d’année, assis au sol dans le hall, faute de salles disponibles. « Les conditions, cela nous paraît normal au quotidien. C’est quand on met tout bout à bout qu’on se rend compte que cela fait beaucoup » , lâche Charlotte (qui a souhaité rester anonyme, comme tous les étudiants cités par leur prénom), après avoir égrené les #dysfonctionnements : les cours en doudoune cet hiver, l’impossibilité d’aérer les salles, l’eau jaunâtre des robinets ou l’absence de savon dans les toilettes… « Ça va » , répondent de leur côté Amina et Joséphine, en licence d’éco-gestion à Villetaneuse, citant la bibliothèque récemment rénovée, les espaces verts et l’ « ambiance conviviale », malgré « les poubelles qu’il faut mettre dans les amphis pour récupérer l’eau qui tombe du plafond quand il pleut » .

    Dans l’enseignement supérieur, les dynamiques récentes ont renforcé un phénomène de #polarisation_sociale, et les étudiants les plus favorisés se retrouvent aussi souvent à étudier dans les établissements les mieux dotés. La sociologue Leïla Frouillou y a documenté l’accélération d’une #ségrégation_scolaire – qui se recoupe en partie avec la #classe_sociale. Favorisées par #Parcoursup, les universités « parisiennes » aspirent les bacheliers avec mention très bien des autres académies. « Se pose la question du maintien de la #mixité dans nos universités » , souligne-t-elle.

    En l’occurrence, un campus en partie rénové ne protège pas nécessairement ni d’une situation financière délétère, ni de difficultés sociales plus importantes que la moyenne du territoire. L’un des lauréats du plan Campus de 2008, l’#université_Montpellier-III, présente en majesté l’#Atrium. Une bibliothèque universitaire (BU) tout de verre vêtue, un bijou architectural de 15 000 m2 financé par l’Etat, la région et la métropole, et livré en avril à la porte de l’établissement. L’ouvrage masque un campus quinquagénaire arboré et aussi quelques classes en préfabriqué posées provisoirement à proximité du parking… il y a vingt et un ans. Montpellier-III reste l’une des universités les moins bien dotées de France.

    Un peu plus loin, derrière le bâtiment S, Jade attend patiemment son tour. En première année de licence de cinéma et boursière, comme 48 % des étudiants de son université (quand la moyenne nationale est de 36 %), elle s’apprête à remplir un panier de vivres à l’#épicerie_solidaire de l’établissement. Une routine hebdomadaire pour cette étudiante qui a fait un saut dans la #précarité en rejoignant l’université.

    « Nous avons des étudiants qui ne mangent pas à leur #faim » , regrette Anne Fraïsse, présidente de l’université. Ils sont, par ailleurs, ceux qui auraient le plus besoin d’encadrement. Quand, en 2022, l’#université_Gustave-Eiffel, implantée dans différentes régions, reçoit une subvention pour charge de service public de 13 195 euros par étudiant, Montpellier-III en reçoit 3 812. Les universités de lettres, de droit et de sciences humaines et sociales sont traditionnellement moins bien dotées que les universités scientifiques, dont les outils pédagogiques sont plus onéreux.

    Mais dans les établissements d’une même spécialité, les écarts sont considérables. Nanterre, la Sorbonne-Nouvelle, à Paris, Bordeaux-Montaigne ou Toulouse-Jean-Jaurès : toutes ces universités de #sciences_humaines ont une dotation supérieure de plus de 30 % à celle de Montpellier-III. « Si nous étions financés à la hauteur de ce que reçoit Toulouse-II, c’est 30 millions de budget annuel supplémentaire que l’on recevrait, calcule Florian Pascual, élu CGT au conseil scientifique de l’université Montpellier-III. Nous pourrions cesser de gérer la pénurie, embaucher des enseignants. »

    « Un poids pédagogique »

    En février, le conseil d’administration de l’université a voté un budget affichant un déficit prévisionnel de 5 millions d’euros. Alors que l’établissement a augmenté ses effectifs étudiants (+ 7 % sur la période 2018-2021) pour répondre au #boom_démographique, la #dotation de l’Etat par étudiant a, pour sa part, dégringolé de 18,6 % entre 2016 et 2022. Un rapport rendu en juin 2023 par l’inspection générale de l’éducation, du sport et de la recherche, reconnaît « une situation de #sous-financement_chronique et un état de #sous-encadrement_structurel » . L’université doit néanmoins répondre à l’injonction du gouvernement de se serrer la ceinture. « C’est ne pas tenir compte des grandes inégalités entre établissements » , répond Anne Fraïsse.

    « Ce que nous répète l’Etat, c’est de fermer des postes, en réduisant l’administration et en remplaçant des professeurs par des contractuels ou des enseignants du secondaire. Pourtant, dans treize départements, la moitié des cours ne sont plus assurés par des professeurs titulaires, rappelle la présidente de l’université . Cela a un poids pédagogique pour les étudiants. Pour augmenter les taux de réussite, il faut créer des heures d’enseignement et mettre des professeurs devant les étudiants. »

    La pression démographique absorbée par ces universités amène avec elle une autre difficulté insoupçonnée. « Chez nous, le taux d’utilisation des amphis est de 99 %, on n’a quasiment plus le temps de les nettoyer. Alors si on devait faire des chantiers, on n’aurait tout simplement plus d’endroit pour faire cours, et c’est le cas partout » , soulève Julien Gossa, enseignant à l’université de Strasbourg. « Mais plus on attend, plus ça se dégrade et plus ce sera cher à rénover » , souligne Dean Lewis, de France Universités.

    Or, dans certaines facultés, comme en Seine-Saint-Denis et dans le Val-de-Marne, la démographie étudiante ne devrait pas ralentir. « Nous ne sommes pas sur un reflux démographique comme d’autres, en raison d’un phénomène d’installation des classes moyennes en grande couronne. On envisage une trajectoire d’augmentation de deux mille étudiants par an durant encore un moment. Il va falloir trouver une façon de les accueillir dignement » , souligne Jean-Luc Dubois-Randé, de l’UPEC. D’autant que, malgré les difficultés matérielles, « les profs sont passionnés et les cours très bons », assure une étudiante, en licence de psychologie à Villetaneuse.

    Conscients de cette valeur des cours dispensés et des diplômes délivrés, les enseignants contactés marchent sur des œufs. En mettant en lumière les points de craquage de l’université, ils craignent d’accélérer la fuite vers l’#enseignement_privé, qui capitalise sur l’image dégradée du public. Pourtant, « former la jeunesse est une mission de l’Etat, baisser les dépenses en direction de l’enseignement, au profit du privé, c’est compromettre notre avenir » , rappelle Anne Fraïsse.

    Le nombre de #formations_privées présentes sur Parcoursup a doublé depuis 2020, et elles captent plus d’un quart des étudiants. « Mais même si elles peuvent se payer des encarts pub dans le métro avec des locaux flambant neufs, elles sont loin d’avoir toutes la qualité d’enseignement trouvée à l’université, qui subsiste malgré un mépris des pouvoirs publics » , souligne l’enseignant Stéphane Chameron.

    La fatigue se fait néanmoins sentir parmi les troupes, essorées. « Comme à l’hôpital, on a des professionnels attachés à une idée du #service_public, gratuit, accessible à tous et adossé à une recherche de haute volée , observe le président de l’UPEC, ancien cadre hospitalier. Mais le sentiment d’absence de #reconnaissance pèse, et on observe de plus en plus de #burn-out. » De la même manière que, dans les couloirs des urgences hospitalières, les équipes enseignantes interrogent : souhaite-t-on laisser mourir le service public ?

    https://www.lemonde.fr/campus/article/2024/05/11/des-universites-francaises-au-bord-de-l-asphyxie-ca-craque-de-partout_623255
    #ESR #France #université #facs #enseignement_supérieur #recherche

  • « Il y a un lien entre l’augmentation du nombre de tueurs en série et le contexte économique » - Basta !
    https://basta.media/Serial-Killer-et-capitalisme-Il-y-a-un-lien-entre-l-augmentation-du-nombre-

    À force de polars ou de séries, les serial killers font désormais partie de la culture populaire. Dans le monde réel, leur multiplication serait liée à l’aggravation des inégalités, selon le sociologue Laurent Denave qui publie un livre sur le sujet.

    #meurtres #homicides #inégalités #violences_sociales

    • Tueurs en série ou séries de tueurs ?
      En fait, ma motivation à relayer cet article serait plutôt l’augmentation des tueries de masses, phénomènes dont la fréquence augmente significativement depuis 2023. A moins que ce soit une sorte de volonté de surmédiatisation.
      Par contre, ce weekend, en déplacement sur les routes françaises, je ne puis que constater une aggravation de la « violence routière ». Mais ça n’a sûrement rien à voir ...

    • Augmentation des meurtres : tentatives de catégorisation.
      – règlements de comptes entre jeunes gens pour venger son honneur
      – règlements de comptes entre trafiquants de toutes obédiences
      _ attaques dites gratuites contre des personnes par des individus armés (le plus souvent armes blanches)

      Quelles sont les raisons de cette augmentation de la #criminalité puisque, notamment dans la dernière catégorie, les motivations « terroristes » semblent être abandonnées par les autorités policières ainsi que judiciaires ?

    • Concernant la violence routière, au vu du comportement de certains conducteurs, serait-on en droit de considérer qu’un véhicule motorisé puisse être une arme par destination ? Il me semble que derrière certains de ces comportements il y a des intentions de meurtre.

    • Honte sur moi ! Dans les catégories précitées, j’ai hélas omis de mentionner les meurtres de femmes et d’enfants découlant de violences intra-conjugales et intra-familiales ... Les féminicides et les infanticides.

      En tout cas, dans toutes les catégories que j’ai mentionnées, il y a sur-représentation du genre masculin parmi les meurtriers.

      J’aurais préféré ne pas avoir à rajouter cette dernière catégorie ...

  • Milan la ville forgée par le #socialwashing - #greenwashing au profit des riches

    Le livre super efficace de Lucia Tozzi raconte la dernière grande #transformation de Milan au bénéfice des profits de la #spéculation financière-immobilière à travers un bombardement de communication du sociawashing mixé avec le greenwashing, donc la #gentification aux dépenses des moins fortunés contraints à migrer ailleurs ou expulsés. Un cas exemplaire de contrerévolution néolibérale pervasive.

    Ceux qui visitent Milan aujourd’hui ne pourront jamais imaginer que jusqu’au début des année 1970 cette ville était la capitale du mouvement ouvrier, avec des grèves et manifs de cent-cinquante mille travailleurs, étudiants et habitants, la plus importante ville industrielle, commerciale et des groupes financiers d’Italie. Depuis la ville n’a pas arrêté de perdre des centaines de milliers d’habitants (aujourd’hui 1.371.850 résidents dont environ 40% qui y sont nés). Et le turnover de ses résidants augmente de plus en plus : de 1971 à 2022 on a eu presque deux millions de nouveaux inscrits à l’état civil et deux millions d’effacés (émigré ailleurs). De 2001 à la fin de 2021 on a eu 40.520 décès plus des naissances. Un turnover que selon Lucia Tozzi arrange bien le « modèle » de ville que les administrateurs et les acteurs dominants poursuivent : une ville de gens qui n’ont pas de racines, qui n’ont pas de mémoire du territoire, qui sont prêtes à être phagocytés par les discours dominant merci au bombardement de la communication pervasive.

    Jusqu’au début des année 2000 Milan était une ville plutôt triste et en déclin. Comme raconte Lucia Tozzi c’est avec l’Expo de 2005 que tout est bouleversé par la stratégie des grands groupes financiers-immobiliers qui misent sur une communication hyper pervasive et efficace mélangeant le discours de la pseudo-conversion verte (le greenwashing à la mode un peu partout dans le monde) et le discours pseudo-social (socialwashing) qui fait croire dans des projets qui en réalité ne font que donner aux privés de plus en plus du patrimoine public ; c’est notamment le cas de ce qu’on appelle le social housing, c.à.d. la privatisation déguisé des logements HLM et ILM ou leur insertion dans le marché des locations et ventes aux prix … de marché qui maintenant à Milan est en voie de s’approcher de celui de Paris.

    La littérature mainstream des intellos et académiciens bien aimés par les acteurs dominants (par exemple Patrick Le Galès) ne rend pas compte de ce processus et au contraire exalte les changements e cours comme une fabuleuse « renaissance » bien gouvernée. Ainsi, Lucia Tozzi n’arrête pas de décrypter cette littérature qui concerne aussi les experts des plusieurs Fondations derrière lesquelles on trouve les groupes financiers-immobilières transnationaux. De fait Milan devient la capitale ou province du capitalisme néo-libéral globalisée. Une ville à la merci de la spéculation du Real Estate, des économies souterraines, la ville la plus polluée d’Europe (comme le montrent les images satellitaires européennes ainsi que l’état des cours d’eaux, des terrains et de l’agriculture des environs, l’énorme quantité d’élevages industriels et aussi les données sur la mortalité). Une réalité effrontément coupée en deux notamment entre la très longue queue de pauvres qui quotidiennement attendent d’avoir un petit sachet d’aliments devant la porte du Pane quotidiano, les familles des périphéries (qui maintenant la langue socialwashing appelle quartier en voie de requalification), la ville des riders et des dizaines de milliers de navetteurs, des étudiants non-résidents qui n’arrivent pas à avoir un lits vue les prix hallucinants, et, de l’autre coté la ville des dizaines de nouveaux tours des grandes firmes et groupes financiers avec autour leurs squares aux bistros et boutiques de luxe. Les acteurs dominants de la ville avec le plein soutien de l’administration (de “gauche”) n’arrêtent pas de construire des logements hyper chers (pas moins de mille euros à chambre et récemment en très forte augmentation).

    Selon le site UE l’Italie est première en UE pour la TVA non collectée (évadée) et la province de Milan (ainsi que toute la Lombardie) est la région avec le plus haut montant d’évasion fiscale et des contributions sociales. 25% des contribuables ont un revenu annuel inférieur à 10 mille euros, 11% ceux avec un revenu entre 10 mille et 15 mille et 26% ceux entre 15 mille et 26 mille ; donc 62% des contribuables n’atteignent pas un revenus annuel de plus de 26 mille euros, alors que 7% dépassent 75 mille euros. Bref, le revenu annuel du quinzième plus riche de la population atteigne 105 mille euros et plus, tandis que le quart le plus pauvre ne dispose que de 4.521 euros.

    Cette situation est en rapide évolution dans le sens quel les moins fortunés sont contraints à émigrer vers les banlieues les plus pauvres. Par ailleurs les contribuables avec les plus hauts revenus sont souvent les fraudeurs du fisc, toujours bien épaulés par des experts dans ce domaine ainsi que dans celui des paradis fiscaux. Remarquons qu’en Italie presque toujours les forces de police et une partie de la magistrature sont complices des illégalismes des acteurs dominants ; cela depuis Berlusconi et l’ex-gauche qui a gouverné en alternance aux droites. Et maintenant, ce n’est pas un hasard que l’actuel gouvernement fasciste ne fait qu’adopter des décrets et lois en faveur de l’évasion fiscale et des contributions sociales, bref des économies souterraines et donc des illégalismes des dominants. Par ailleurs on constate un très fort turnover de la plupart des activités économiques, (surtout bistros, boutiques d’alimentation ou de pacotilles etc., petits restos etc.).

    Mais comme raconte Lucia Tozzi les critiques et contestations de la dérive néolibérale de la ville sont très limitées, marginalisées, obscurées tout d’abord parce que la grande majorité des habitants est prisonnière d’une double piège : celle de la communication très phagocytante/pervasive et celle des réseaux. Il y a un chape de propagande et censure diffusées merci au chantage : “On est toujours sur le bord de l’abime, mais la seule voie du salut est communiquer tous ensemble qu’ici tout va bien ! Que Milan est une exception, un modèle positif, vertueux ! Lors de l’explosion de la pandémie qui a frappé Milan plus que toutes les autres villes italiennes, le maire (de “gauche”) avait lancé le slogan : #milanononsiferma (Milan ne s’arrête pas !) et encore après les fortes critiques reçues il a déclaré : “En ville le retour à la normalité sera dans une paire de mois”. Bref l’idée est que si on collabore tous ensemble on va convaincre le monde que c’est vrai et on va gagner. Quant aux réseaux c’est l’effet de la prolifération énorme des projets et des appels d’offre pour toutes sortes de projets et n’importe quoi. Cela contraigne à se mettre en réseau et à se plier aux règles et cages de ces appels qui inévitablement conduisent à faire et dire ce qui veulent les donneurs des financements.

    La narration dominante dit : « le public n’a pas d’argent et il est nul, le privé fait mieux et rapidement ». La marche dévastatrice de la privatisation a commencé dans le secteur de la santé par œuvre de la région aux mains de la droite la plus ignoble (Comunione e Liberazione, la holding-secte de cathos de droite dont l’alors président de la région était un fidèle adepte -il fut ensuit condamné pour corruption … mais pas pour tous les délits commis pendant presque quinze ans de pouvoir). Depuis la privatisation a grimpé sans arrêt jusqu’au point que progressivement la Mairie a confié aux privés presque tout le patrimoine immobilier (piscines, parcs, squares, places publiques, jardins, écoles, bibliothèques, logements etc. etc.). La justification passée comme indiscutable a été que tout ce patrimoine était délabré, dans un état qui rendait impossible son utilisation et la Mairie n’avait pas l’argent pour les travaux nécessaires à la restauration. Dès lors toute la ville est devenue une suite de zones exclusives maitrisées par les propriétaire de fait des espaces « publics » … interdits à ceux qui par les faciès ou l’allure conformes à des quartiers de riches consommateurs ; chaque espace de ce genre est hyper surveillé par des polices privées, vidéosurveillance à gogo etc.

    Un autre fait emblématique est que la participation aux élections communales a chuté à environ 40%, ce qui permet de gouverner avec à peine 20-22% des ayants droit de vote (c’est aussi le cas de presque toutes les villes italiennes). C’est le triomphe de la post-politique et de la dépolitisation généralisée. Un processus qui convient bien à tous les partis car ainsi ils ont moins de clientèle à cultiver ou acheter. En plus comme le remarque Lucia Tozzi il est éclatant noter que la plus forte abstention concerne les banlieues (comme en France) parce que leurs habitants sont depuis longtemps abandonnés par tous : ils ne correspondent pas à aucun profil convenant pour une ville qui mise sur les consommateurs aisés ou en mesure de dépenser assez pour un after hours, pour la soirées dans les dehors ou les innombrables boites où on mange, on écoute de la musique (souvent horrible) ou quelques jeunes rappeurs… alors il est évident que les moins fortunés des banlieues ne méritent que d’être chassé le plus loin possible de la ville qui doit être réservée surtout sinon uniquement à des résidents aisés et bien réceptifs de la communication des acteurs dominants.

    Bien au-delà de ses spécificités, Milan est une réalité tout à fait similaire à celle que presque toutes les villes aspirent à imiter. L’autrice cite nombre d’exemples, de la New York de Bloomberg à Londres, Paris, Vienne, Berlin, Barcelone etc. et une vaste littérature. Il apparait alors que Milan Mais est sans doute un cas extrême dans une Italie qui maintenant est aux mains d’une coalition de droite qui gouverne avec 27% des ayants droit de vote (le fascisme "démocratique" au pouvoir). Mais comme signale Lucia Tozzi, il est possible contraster cette dérive réactionnaire suivant l’exemple de ville comme Berlin où le mouvement des habitants a réussi à obliger la mairie à investir dans un très grand parc vraiment public totalement en dehors de toutes les visées des entrepreneurs-spéculateurs privés.

    Ce livre mérite d’être publié en français.

    https://blogs.mediapart.fr/salvatore-palidda/blog/030524/milan-la-ville-forgee-par-le-socialwashing-greenwashing-au-profit-de

    #géographie_urbaine #Milan #Italie

  • Maka – The Documentary
    https://www.meltingpot.org/2024/04/maka-the-documentary

    Maka presenta la storia della prima donna nera ad avere ricevuto un dottorato e ad essere diventata direttrice di un quotidiano in Italia: Geneviève Makaping (Maka). Questo documentario ispirato alla biografia e al pensiero di Maka e distribuito da OpenDDB, racconta la sua dolorosa storia di migrazione dal Camerun attraverso il deserto, l’arrivo in Calabria nel 1982 in seguito alla tragica morte del compagno di viaggio, il successo come giornalista e conduttrice televisiva, e il recente trasferimento e l’attuale attività di insegnante a Mantova. La storia di Maka offre lo spunto per ripensare l’appartenenza nazionale, e il modo in (...)

  • Patrimoines immobiliers : comment l’espace creuse les inégalités
    https://metropolitiques.eu/Patrimoines-immobiliers-comment-l-espace-creuse-les-inegalites.html

    Tous les propriétaires ne sont pas égaux face aux évolutions des marchés immobiliers. Si certains savent tirer parti de marchés en croissance pour faire fructifier leur #patrimoine, d’autres deviennent propriétaires au prix d’un endettement croissant. Loïc Bonneval et Renaud Le Goix montrent comment l’espace joue désormais un rôle capital dans les trajectoires socio-économiques des ménages. Le récent ralentissement du marché #immobilier observé concomitamment à la hausse des taux d’intérêt a conduit à #Terrains

    / #Paris, immobilier, #inégalités, #Lyon, #Avignon, #marché_immobilier, patrimoine

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-bonneval-legoix.pdf

  • Discrimination 2.0 : ces algorithmes qui perpétuent le racisme

    L’IA et les systèmes algorithmiques peuvent désavantager des personnes en raison de leur origine, voire conduire à des discriminations raciales sur le marché du travail. A l’occasion de la Journée internationale pour l’élimination de la discrimination raciale, AlgorithmWatch CH, humanrights.ch et le National Coalition Building Institute NCBI mettent en lumière la manière dont les systèmes automatisés utilisés dans les procédures de recrutement peuvent reproduire les inégalités.

    Les procédures d’embauche sont et ont toujours été caractérisées par une certaine inégalité des chances. Aujourd’hui, les entreprises utilisent souvent des systèmes algorithmiques pour traiter les candidatures, les trier et faire des recommandations pour sélectionner des candidat·e·x·s. Si les départements des ressources humaines des grandes entreprises souhaitent augmenter leur efficacité grâce aux « Applicant Tracking Systems » (ATS), l’utilisation de tels systèmes peut renforcer les stéréotypes discriminatoires ou même en créer de nouveaux. Les personnes issues de l’immigration sont souvent concernées par cette problématique.
    Exemple 1 : un algorithme qui préfère les CV « indigènes »

    Une étude récente menée en Grande-Bretagne a comparé les CV sélectionnés par une personne experte en ressources humaines et ceux qu’un système de recommandation algorithmique avait identifiés comme étant ceux de candidat·e·x·s compétent·e·x·s. La comparaison a montré que les personnes que les recruteur·euse·x·s considéraient comme les meilleur·e·x·s candidat·e·x·s ne faisaient parfois même pas partie de la sélection effectuée par les systèmes basés sur des algorithmes. Ces systèmes ne sont pas capables pas lire tous les formats avec la même efficacité ; aussi les candidatures compétentes ne correspondant pas au format approprié sont-elles automatiquement éliminées. Une étude portant sur un autre système a également permis de constater des différences claires dans l’évaluation des CV. Ainsi, il s’est avéré que le système attribuait davantage de points aux candidatures « indigènes », en l’occurrence britanniques, qu’aux CV internationaux. Les candidat·e·x·s britanniques avaient donc un avantage par rapport aux personnes migrantes ou ayant une origine étrangère pour obtenir une meilleure place dans le classement.
    Exemple 2 : les formations à l’étranger moins bien classées

    En règle générale, les systèmes de recrutement automatisés sont entraînés de manière à éviter l’influence de facteurs tels que le pays d’origine, l’âge ou le sexe sur la sélection. Les candidatures contiennent toutefois également des attributs plus subtils, appelés « proxies » (en français : variables de substitution), qui peuvent indirectement donner des informations sur ces caractéristiques démographiques, par exemple les compétences linguistiques ou encore l’expérience professionnelle ou les études à l’étranger. Ainsi, la même étude a révélé que le fait d’avoir étudié à l’étranger entraînait une baisse des points attribués par le système pour 80% des candidatures. Cela peut conduire à des inégalités de traitement dans le processus de recrutement pour les personnes n’ayant pas grandi ou étudié dans le pays dans lequel le poste est proposé.

    Les critères de sélection de nombreux systèmes de recrutement basés sur les algorithmes utilisés par les entreprises sont souvent totalement opaques. De même, les jeux de données utilisés pour entraîner les algorithmes d’auto-apprentissage se basent généralement sur des données historiques. Si une entreprise a par exemple jusqu’à présent recruté principalement des hommes blancs âgés de 25 à 30 ans, il se peut que l’algorithme « apprenne » sur cette base que de tels profils doivent également être privilégiés pour les nouveaux postes à pourvoir. Ces stéréotypes et effets discriminatoires ne viennent pas de l’algorithme lui-même, mais découlent de structures ancrées dans notre société ; ils peuvent toutefois être répétés, repris et donc renforcés par l’algorithme.

    Ces exemples illustrent la discrimination par les algorithmes de personnes sur la base de leur origine. Les algorithmes discriminent également de nombreux autres groupes de population. En Suisse aussi, de plus en plus d’entreprises font usage d’algorithmes pour leurs processus de recrutement ainsi que sur le lieu de travail.

    Discrimination algorithmique en Suisse : le cadre légal de protection contre la discrimination en Suisse ne protège pas suffisamment contre la discrimination par les systèmes algorithmiques et doit être renforcé. Ce papier de position présente les problématiques liées à la discrimination algorithmique et décrit les moyens d’améliorer la protection contre ce type de discrimination.

    Les algorithmes discriminent également de nombreux autres groupes de population. Dans la série « Discrimination 2.0 : ces algorithmes qui discriminent », AlgorithmWatch CH et humanrights.ch, en collaboration avec d’autres organisations, mettent en lumière divers cas de discrimination algorithmique.

    https://www.humanrights.ch/fr/nouvelles/discrimination-20-algorithmes-perpetuent-racisme
    #discrimination #racisme #algorithme #xénophobie #IA #AI #intelligence_artificielle #travail #recrutement #discrimination_raciale #inégalités #ressources_humaines #Applicant_Tracking_Systems (#ATS) #CV #curriculum_vitae #sélection #tri

    • « L’IA et les systèmes algorithmiques peuvent désavantager des personnes en raison de leur origine, voire conduire à des discriminations raciales sur le marché du travail. » mais l’ia et les systemes algorithmiques peuvent tout aussi bien avantager des personnes en raison de leur origine, voire conduire à des discriminations raciales sur le marché du travail. La banque mondiale exige déja une discrimination selon les pratiques sexuelles pour favoriser emprunts et subventions !

  • Le trésor des seniors
    https://laviedesidees.fr/Le-tresor-des-seniors

    Comment financer les investissements d’avenir qui nous attendent, en particulier concernant la transition écologique ? Par taxation de l’héritage, qui permette aux parents d’épargner pour leurs enfants. À propos de : André Masson, Chronique d’un #impôt sur l’héritage en perdition. Pourquoi et comment le sauver ?, Puf

    #Société #inégalités #héritage

  • Ô mon #français !

    J’ai passé ma jeunesse à suer sur des dictées à quatre points la faute, j’ai même fini par aimer ça. Suffisamment pour m’en infliger en dehors de l’école. J’ai le souvenir d’une dictée de Pivot, retransmise en direct à la télé, que j’avais tenu mordicus à faire. Télé vieillotte, en noir et blanc avec un écran qui crépitait et un son qui grésillait, dont il fallait ajuster la fréquence de la chaine à la main à l’aide d’un bouton-potentiomètre. Évidemment, je n’étais pas très fort, et j’enfilais les fautes comme les perles. Mais j’étais fier de faire mon maximum pour faire honneur à ma langue maternelle. Paternelle aussi, d’ailleurs. Et puis j’ai appris l’anglais, avec difficulté, tant bien que mal. Ça me paraissait au moins autant abscons et complexe que le français, mais c’était ainsi. Plus tard, j’étais en Italie, alors j’ai appris l’#italien. Également avec des efforts (je ne suis pas particulièrement doué pour les langues étrangères), mais le quotidien aidant, au bout de quelques mois (enfin, environ douze !) je fus capable de tenir une conversation. J’ai compris que l’italien était bien plus simple (et cela n’empêche pas les Italiens d’avoir une culture très riche !) que le français, ne serait-ce que parce qu’il se prononce quasiment comme il s’écrit (et inversement). Contrairement au français (et à l’anglais). De quoi avoir 20/20 à une dictée d’italien. Mais pour la peine, ça ne serait pas drôle. Donc il n’y a pas de dictée en italien.

    Plus tard je suis tombé sur la vidéo d’une courte conférence intitulée « la faute de l’orthographe » par deux profs belges (inventez un mot, puis calculez combien il y aurait – théoriquement – de manières de l’écrire en français). Cette vidéo m’a ouvert l’esprit. J’ai compris que l’orthographe n’était qu’un #outil. Que la langue n’était qu’un outil ; pour communiquer, transmettre des idées, en l’occurrence. Et que si l’outil était moins complexe à utiliser qu’il ne l’est, le temps incommensurable que l’on passe à l’étudier, à tenter d’essayer de l’apprivoiser, à éventuellement vouloir le maitriser, pourrait être dédié à faire des choses plus constructives. Des maths, de la physique, écrire, lire, réfléchir, jouer de la musique, ou avec son chat, faire du ski de rando ou grimper, bref, d’autres trucs. L’orthographe devait redescendre du piédestal sur lequel mes études l’avaient placé.

    Dans le même temps (ou avant, même, plutôt), cette histoire d’#écriture_inclusive commençait à infuser. Franchement, ajouter des points au milieu des mots dans une langue aussi complexe, ça n’allait pas aider. N’était-ce pas barbare ? En plus l’#Académie_française avait pris position contre cette incongruité. Alors…

    Et puis j’ai commencé à faire pas mal de vélo, je me suis acheté un casque à conduction osseuse pour pouvoir écouter des podcasts assis sur ma selle. J’en écoute à la pelle. Je suis tombé sur les émissions de Binge Audio, je ne sais plus trop comment, et surtout sur le podcast de #Laélia_Véron, « Parler comme jamais » (https://www.binge.audio/podcast/parler-comme-jamais). Notamment un épisode intitulé « Écriture inclusive : pourquoi tant de haine ? » que j’ai écouté par curiosité (https://www.binge.audio/podcast/parler-comme-jamais/ecriture-inclusive-pourquoi-tant-de-haine). J’ai compris alors que l’écriture inclusive ne se limitait pas au point médian, loin s’en faut. Il y a beaucoup d’autres choses à côté. Mais alors pourquoi autant d’efforts à vouloir peser sur l’usage ? Simplement parce que les linguistes ont montré qu’une #langue_genrée avait un effet pas du tout négligeable sur les #inégalités_de_genre dans la société. Le linguiste #Pascal_Gygax, auteur de telles études, conclut un article de vulgarisation ainsi : « L’histoire nous enseigne que la société patriarcale a eu un effet sur la #masculinisation de la langue et les données disent que la #masculinisation_de_la_langue a une influence sur notre manière de percevoir le monde. À partir de là, ce qu’il faut se demander, c’est : veut-on changer cela ? Si oui, alors le langage inclusif est un outil pour y parvenir » (https://www.revue-horizons.ch/2021/09/02/comment-le-masculin-forge-la-pensee-de-lenfant). Quand il a commencé à vulgariser son travail, il a reçu une flopée d’insultes. Décidément, touchez pas au français… Et pourtant, y toucher, volontairement, c’est changer potentiellement les rapports au monde de la moitié de l’humanité (tout au moins des francophones).

    L’oppression de la femme par l’homme ne date pas d’hier, et le langage a été modelé par l’homme en ce sens au cours de l’histoire (comme pour leur interdire l’accès à certaines professions, par exemple). Le #patriarcat a ainsi fait son œuvre notamment via ce moyen de communication entre les humains et les humaines. Il semble n’y avoir que peu de langues, dans le monde, tout au moins celui qui vit dans les sociétés dites occidentales (même si elles sont aussi à l’orient suite aux colonisations), qui ne sont pas genrées, et ainsi, masculinisées.

    Le patriarcat est une forme de #capitalisme. Ce dernier est l’#exploitation des ressources naturelles (ce que l’on nomme pudiquement externalités !) ad nauseam, qui génère des pollutions (autres externalités) ad nauseam, mais c’est aussi l’exploitation des humains (ressources « humaines »). Dans ce cadre, le patriarcat se fait un malin plaisir à exploiter un peu plus les femmes. Dès qu’il s’agit d’augmenter les profits et de trouver des marchés, le capitalisme n’a aucune limite, même si l’Histoire a tout de même réussi à mettre fin au marché de l’esclavagisme. Enfin, pas partout ; et les femmes y sont probablement les plus mal loties.

    Pour mettre fin à ce capitalisme destructeur (de la planète, des sociétés humaines, de l’humanité), et à ses avatars que sont les nombreuses inégalités, dont les inégalités de #genre sous la forme du patriarcat qui perdurent y compris en France, il n’y a pas qu’une façon de faire, une méthode idéale, tracée, parfaite, avec un protocole qui resterait à appliquer. Ce qui est sûr, c’est que sans aplanir ces inégalités, c’est voué à l’échec, comme en témoigne le mouvement des Gilets Jaunes. La « solution » est nébulaire et diffuse, c’est pourquoi il faut faire feu de tout bois et utiliser tous les leviers disponibles. La langue, qui est l’outil avec lequel nous communiquons, est dans cette lutte d’une capitale importance : elle fabrique et façonne notre société ainsi que les rapports que nous avons entre nous.

    La langue française actuelle (re)construite historiquement petit à petit par la classe bourgeoise masculine dominante comme un outil d’accès réservé à l’#élite (masculine) n’est pas immuable : l’outil peut très bien être retourné pour servir la cause. Et donc évoluer dans une direction souhaitable. Inclusive. En somme, un effort minuscule (changer à la marge notre façon d’écrire et de parler) pour un résultat immense : une diminution des inégalités de genre ! Le jeu en vaut certainement la chandelle d’autant qu’il est appuyé par les résultats de la #linguistique. Les enjeux écologiques de frontières planétaires que nous sommes en train de dépasser sont très liés à la question des #inégalités : toute l’humanité n’est pas responsable des pollutions diverses et variées, seulement une minorité, la plus riche. Inégalités de richesse donc, mais aussi, et c’est lié, de genre, de race, de handicap, de classe, de religion, nord-sud, et j’en passe. Dans le jeu de celui qui est le plus fort, ce dernier trouve toujours un moyen d’enfoncer les plus faibles ; et tous les coups sont permis.

    Quand on identifie un nouvel outil dont il est démontré [1] qu’il pourrait permettre de diminuer une partie de ces inégalités pourquoi s’enfoncer dans un #conservatisme mortifère ? Allons-y ! Qu’avons-nous à perdre ? Le #français_inclusif, même si les études scientifiques se trompaient sur sa propension à diminuer les inégalités de genre, n’en serait pas moins toujours le moyen de communication au sein des sociétés francophones. Quant au #point_médian, ce n’est jamais qu’un raccourci à l’écrit, il n’est pas obligatoire [2], alors pourquoi tant de haine ? Je vous conseille la lecture de « Eutopia » de Camille Leboulanger, un roman qui raconte une société où la notion de propriété privée est abolie (non seulement des habitations, mais aussi de la nature, et même la notion de famille est revisitée !), seule perdure la propriété d’usage. Le roman est écrit au féminin générique. Vous verrez, ça rafraichit !

    Mais la langue française n’attise pas les passions que sur les questions de genre. Je vous invite à lire le tract Gallimard « Le français va très bien, merci » par le collectif des Linguistes atterrés (https://tracts.gallimard.fr/fr/products/le-francais-va-tres-bien-merci). Quelques citations glanées çà et là pour un panorama de ce que j’en retiens : « Le français n’a jamais été homogène. Le #standard unique est un mythe. » 300 millions de personnes parlent français dans le monde, il fait partie des cinq langues les plus parlées sur la planète. « Le français n’est pas envahi par l’anglais. […] Le contact entre les langues ressemble davantage à un jeu à somme positive qu’à une guerre : ce que « gagne » l’une, l’autre ne le perd pas. […] Le #mélange, l’impur sont signe de vitalité pour une langue. Le séparé, le pur, une vue de l’esprit, un idéal, une langue statufiée. La langue se renouvèle d’abord parce que le monde change et qu’il faut le nommer, pour le meilleur et pour le pire (« covid » est-il un mot anglais ou français ?), mais aussi par besoin expressif, par jeu, pour faire place aux jeunes, aux autres, à l’altérité. » Autre idée reçue : « le français n’est pas règlementé par l’Académie française. » Elle n’a aucun pouvoir sur la langue, et ne renferme aucun (ni aucune d’ailleurs) spécialiste de la langue puisqu’aucun (ni aucune) linguiste n’y siège. Son dictionnaire est obsolète et sa grammaire encore plus. Dans leur ouvrage « Le français est à nous ! », les linguistes Laélia Véron et Maria Candea posent la question « Au XXIe siècle, à quoi sert l’Académie française ? » Elles répondent : « À rien. Rigoureusement à rien. C’est une institution d’opérette. […] qui sert encore à recycler confortablement des personnalités, grâce à un patrimoine exorbitant et à des finances opaques. » L’orthographe est compliquée : « Il est devenu pratiquement impossible d’écrire sans faire aucune faute. » Cela parce que l’orthographe n’a pas été réformée depuis quasiment deux siècles : la dernière réforme en date, celle de 1990 « peine à s’imposer dans les pratiques. […] Et si notre orthographe ne parvient pas à faire peau neuve, c’est parce qu’elle est devenue un #marqueur_social extrêmement puissant qui donne l’illusion de pouvoir juger des facultés linguistiques de quelqu’un sans entrer dans la complexité de la syntaxe, du vocabulaire ou de tout ce qui constitue la véritable qualité d’un texte écrit. » Bref. Convaincu que réformer l’orthographe est un nivèlement par le haut, j’ai décidé, depuis la lecture de cet opus, d’appliquer la réforme de 1990 au mieux. Pour cela, je m’aide du logiciel Antidote (https://www.antidote.info/fr/blogue/enquetes/redaction-inclusive), qui est également utilisé par les étudiantes et les étudiants à l’université au Québec, tout comme elles (et les nôtres aussi) utilisent la calculatrice. Il y a beaucoup d’autres choses dans ce petit livre, que je vous laisse découvrir. Car vous allez le lire, maintenant, n’est-ce pas ?

    [1] « Le langage inclusif […] a bien l’effet pour lequel il est préconisé : réduire les stéréotypes de genre et augmenter la visibilité des femmes. »

    [2] Même si : « L’usage du point médian permet de supprimer le biais de représentation vers le masculin. » selon le psycholinguiste Léo Varnet.

    http://gblanc.fr/spip.php?article780
    #langue #langue_française #orthographe 

    • La faute de l’orthographe | #Arnaud_Hoedt et #Jérôme_Piron

      Nous avons été profs de français. Sommés de nous offusquer des #fautes_d'orthographe, nous avons été pris pour les curés de la langue. Nous avons écrit pour dédramatiser, pour réfléchir ensemble et puis aussi parce que nous avons toujours pensé que l’#Académie_Française avait un vrai potentiel comique. « Les deux belges qui veulent simplifier la langue française » : tout est faux dans cette phrase. Pas « simplifier » mais bien faire preuve d’esprit critique, se demander si tout se vaut dans notre orthographe. Pas deux Belges, mais bien deux curieux qui veulent transmettre le travail des linguistes de toute la francophonie, pas même la « langue française », seulement son orthographe. Car l’orthographe, c’est pas la langue, c’est juste le code graphique qui permet de la retranscrire. Passion pour les uns, chemin de croix pour les autres, elle est sacrée pour tous. Et pourtant, il ne s’agit peut-être que d’un énorme #malentendu. Arnaud Hoedt et Jérôme Piron sont linguistes de formation. Ils ont vécu 25 ans sans se connaître, mais c’était moins bien. Ils ont ensuite enseigné pendant 15 ans dans la même école. Quand Arnaud participe à la rédaction des programmes de français en Belgique, Jérôme se spécialise en médiation culturelle. En 2016, ils écrivent et mettent en scène le spectacle « La Convivialité », au Théâtre National de Bruxelles. Ce spectacle conférence qui traite de la question du rapport dogmatique à l’orthographe tourne depuis 3 ans dans toute la francophonie. Dans la foulée, ils publient l’ouvrage « La faute de l’orthographe », aux éditions Textuel. Ils se définissent comme suit : « Linguistes dilet(t)antes. Pédagogues en (robe de) chambre. Tentent de corriger le participe passé. Écrivent des trucs. Vrais-Faux Comédiens. Bouffeurs d’Académicien ». A la question « est-ce que ça se dit ? » , Arnaud et Jérôme répondent invariablement « oui, tu viens de le faire ».

      https://www.ted.com/talks/arnaud_hoedt_jerome_piron_la_faute_de_l_orthographe
      #tedx

    • Comment le masculin forge la pensée de l’#enfant

      Les données disent que la langue masculinisée influence nos pensées. C’est du moins la conclusion du nouveau livre du psycholinguiste fribourgeois Pascal Gygax.

      Le cerveau pense-t-il au masculin ? C’est la question que pose Pascal Gygax, psycholinguiste à l’Université de Fribourg, en titre d’un livre* publié récemment avec la linguiste Sandrine Zufferey et la psychologue sociale Ute Gabriel. Pas de suspense inutile : la réponse est oui. L’ouvrage le montre à travers une multitude d’études suisses et internationales qui ont analysé l’influence du langage genré sur les représentations sexistes. « Sur ce sujet, il y a cinquante ans de recherches et quelque 200 études, explique Pascal Gygax, premier auteur. Il était temps d’écrire un livre grand public pour recadrer le débat, qui est devenu très passionnel. » Les réactions à l’ouvrage en attestent. « Depuis dix-sept ans que je travaille sur cette thématique, je n’ai jamais reçu autant d’insultes, confie le Biennois. Il s’agit surtout d’hommes blancs quinquagénaires ou sexagénaires dans des positions dominantes qui m’écrivent pour m’expliquer leur point de vue, souvent très peu documenté. C’est dommage, car le but était justement de prendre de la hauteur de manière scientifique. »

      Le livre se penche en particulier sur l’interprétation de la forme grammaticale dite « générique ». En français, en allemand, en anglais et dans d’autres langues, le genre masculin est également utilisé pour le genre « neutre », au singulier ou au pluriel (en plus de son sens « spécifique »). Exemple tiré du livre : « When a kid goes to school, he often feels excited on the first day » (« Quand un enfant va à l’école, il se sent souvent excité le premier jour »). Le « he » a ici fonction de générique. En français, on peut l’expliquer de la manière suivante : dans « Il y a beaucoup d’excellents chercheurs en Suisse », le mot « chercheur » devrait également inclure tous les genres. Problème : ce sens générique n’est pas perçu comme tel.
      Le générique n’est pas neutre

      En 1984, Janet Hyde, une chercheuse étatsunienne, a demandé à des personnes en formation d’âges différents d’écrire une histoire commençant par la phrase avec l’enfant citée au paragraphe précédent. Chez les universitaires, 21% des récits portaient sur un personnage féminin contre 7% chez les 5-12 ans. Pour l’immense majorité, le masculin a donc induit une représentation masculine.

      En 2008, une étude de Pascal Gygax et de ses collègues a montré qu’en français et en allemand, il était difficile d’appréhender des suites de phrases présentant des femmes après des amorces avec un métier ou une activité au masculin pluriel (« les musiciens », par exemple), donc pouvant agir comme générique. En clair : il est naïf de penser que le générique puisse être complètement détaché du masculin.

      L’ouvrage regorge aussi d’exemples qui témoignent à quel point la langue a été construite autour du masculin. Il n’est pas innocent que l’on dise « Adam et Eve » et « mari et femme ». Selon une méta-analyse réalisée en 2016 par Peter Hegarty et ses collègues, l’ordre de mention est souvent lié à l’importance perçue des entités mentionnées. Et cette masculinisation est au moins en partie intentionnelle, expose le livre. On apprend par exemple qu’aux Etats-Unis et en Angleterre, le pronom pluriel neutre « they » était utilisé jusqu’au XIXe siècle comme singulier lorsque l’on ne connaissait pas le genre d’une personne. Mais que des grammairiens ont imposé le pronom « he » (« il ») comme générique, le jugeant plus « digne ». Le « they » revient en force aujourd’hui.

      Ce langage activement androcentré « nous force à voir le monde au travers d’un prisme masculin », participant aux inégalités entre les genres, soutient l’ouvrage. C’est là qu’intervient le langage inclusif, boîte à outils permettant de « démasculiniser » l’expression orale et écrite. En français ou en allemand, les doublets (« écrivaines et écrivains ») ou les formes contractées des doublets (« écrivain·es ») peuvent par exemple être utiles pour réduire les stéréotypes associés aux métiers. Sabine Sczesny le confirme. Professeure de psychologie sociale à l’Université de Berne, elle a notamment réalisé des travaux mettant au jour un lien entre attitude sexiste et opposition au langage inclusif : « Les filles sont plus intéressées par les professions typiquement masculines lorsqu’elles leur sont présentées sous forme de conomination par rapport à la forme masculine. »
      Le chat des voisins

      Anne Dister, professeure de linguistique à l’Université Saint-Louis de Bruxelles, pense également qu’il est judicieux de mentionner les professions avec un double nom si elles sont stéréotypées masculines, et de mentionner les titres de postes masculins et féminins dans les offres d’emploi. Toutefois, elle juge inutile de vouloir systématiquement tout féminiser et plaide pour « l’économie du langage ». « Dans certains contextes, ce n’est simplement pas pertinent. Si je raconte que mes voisins ont adopté un chat, quel est l’intérêt de préciser leur genre ? »

      Anne Dister juge par ailleurs que le générique, dans les interactions langagières au quotidien, est très bien compris comme tel : « Qui pense sérieusement que les femmes ne peuvent pas traverser sur un passage pour piétons ? » Elle conteste aussi les affirmations selon lesquelles la langue aurait été entièrement masculinisée par les grammairiens : « Le lexique pour certains noms, assurément. Mais pas la grammaire. On prend d’ailleurs toujours les mêmes exemples. » Et de poursuivre : « Ce qui invisibilise, ce n’est pas tant le masculin que notre connaissance du monde. Aujourd’hui, le terme « ministre » qui est épicène n’active pas les mêmes représentations qu’il y a cinquante ans. » La linguiste sait de quoi elle parle. Avec Marie-Louise Moreau, elle a analysé l’évolution des termes utilisés par les candidates aux élections européennes en France et en Belgique pour se décrire depuis 1989 (« sénatrice » ou « sénateur », typiquement). Résultat : la féminisation est massive.

      Accordons-nous trop d’importance au langage ? N’est-il pas uniquement le reflet de la société et appelé à évoluer avec elle ? « Il ne sert presque à rien de se poser cette question, répond Pascal Gygax. L’histoire nous enseigne que la société patriarcale a eu un effet sur la masculinisation de la langue et les données disent que la masculinisation de la langue a une influence sur notre manière de percevoir le monde. A partir de là, ce qu’il faut se demander, c’est : veut-on changer cela ? Si oui, alors le langage inclusif est un outil pour y parvenir. »

      Les attaques personnelles subies après la publication du livre n’entament d’ailleurs en rien l’engagement du chercheur, très présent dans les médias : « J’ai toujours eu envie de sortir de la bulle académique. »

      *« Le cerveau pense-t-il au masculin ? », Pascal Gygax, Sandrine Zufferey, Ute Gabriel, Le Robert, 2021, 176 pages

      https://www.revue-horizons.ch/2021/09/02/comment-le-masculin-forge-la-pensee-de-lenfant

    • Le français va très bien, merci

      « Nous, linguistes de France, de Belgique, de Suisse, du Canada, sommes proprement atterrées par l’ampleur de la diffusion d’idées fausses sur la langue française. » Les Linguistes atterrées
      Les discours sur les "fautes" saturent quasiment l’espace éditorial et médiatique contemporain. Mais la différence entre une faute et une évolution, c’est la place qu’elle occupera à long terme dans l’usage. Et l’usage, ça s’étudie avec minutie. C’est le travail des linguistes. Face aux rengaines déclinistes, il devient indispensable de rétablir la rigueur des faits. Non, l’orthographe n’est pas immuable en français. Non, les jeunes, les provinciaux ou les Belges ne "déforment" pas la langue. Oui, le participe passé tend à devenir invariable. Non, le français n’appartient pas à la France. Oui, tout le monde a un accent, voire plusieurs. Dix idées reçues sur la langue, et surtout trente propositions pour en sortir.

      https://tracts.gallimard.fr/fr/products/le-francais-va-tres-bien-merci
      #Linguistes_atterrées

    • J’ai écrit : il meure. Tranquilou. Au bout de deux jours je me suis dit mmm il y a quelque chose qui ne va pas. J’ai cherché et trouvé : il meurt ! Me suis dit ,mais pourquoi écrire il meure comme ça ? Quelle raison logique ? Pas trouvé de réponses satisfaisantes . Il y a toujours moyen de faire des fautes, TOUJOURS ! C’est pénible.

  • Notation des allocataires : la CAF étend sa surveillance à l’analyse des revenus en temps réel – La Quadrature du Net
    https://www.laquadrature.net/2024/03/13/notation-des-allocataires-la-caf-etend-sa-surveillance-a-lanalyse-des-

    Il y a tout juste deux mois, nous publiions le code source de l’algorithme de notation des allocataires de la CAF. Cette publication démontrait l’aspect dystopique d’un système de surveillance allouant des scores de suspicion à plus de 12 millions de personnes, sur la base desquels la CAF organise délibérement la discrimination et le sur-contrôle des plus précaires. Ce faisant, nous espérions que, face à la montée de la contestation1, les dirigeant·es de la CAF accepteraient de mettre fin à ces pratiques iniques. Il n’en fut rien.

    À la remise en question, les responsables de la CAF ont préféré la fuite en avant. La première étape fut un contre-feu médiatique où son directeur, Nicolas Grivel, est allé jusqu’à déclarer publiquement que la CAF n’avait ni « à rougir » ni à s’« excuser » de telles pratiques. La deuxième étape, dont nous venons de prendre connaissance2, est bien plus inquiétante. Car parallèlement à ses déclarations, ce dernier cherchait à obtenir l’autorisation de démultiplier les capacités de surveillance de l’algorithme via l’intégration du suivi en « temps réel »3 des revenus de l’ensemble des allocataires. Autorisation qu’il a obtenue, avec la bénédiction de la CNIL, le 29 janvier dernier4.
    Surveillance et « productivité » des contrôles

    Pour rappel, le revenu est une des quelques quarante variables utilisées par la CAF pour noter les allocataires. Comme nous l’avions montré, plus le revenu d’un·e allocataire est faible, plus son score de suspicion est élevé et plus ses risques d’être contrôlé·e sont grands. C’est donc un des paramètres contribuant directement au ciblage et à la discrimination des personnes défavorisées.

    Jusqu’à présent, les informations sur les revenus des allocataires étaient soit récupérées annuellement auprès des impôts, soit collectées via les déclarations trimestrielles auprès des allocataires concerné·es (titulaires du RSA, de l’AAH…)5. Désormais, l’algorithme de la CAF bénéficiera d’un accès en « temps réel » aux ressources financières de l’ensemble des 12 millions d’allocataires (salaires et prestations sociales).

    Pour ce faire, l’algorithme de la CAF sera alimenté par une gigantesque base de données agrégeant, pour chaque personne, les déclarations salariales transmises par les employeurs ainsi que les prestations sociales versées par les organismes sociaux (retraites, chômage, RSA, AAH, APL…)6 : c’est le « Dispositif des Ressources Mensuelles » (DRM). Cette base, créée en 2019 lors de mise en place de la réforme de la « contemporanéisation » des APL7, est mise à jour quotidiennement, et offre des capacités inégalées de surveillance des allocataires.

    La justification d’une telle extension de la surveillance à l’œuvre à des fins de notation des allocataires est d’accroître la « productivité du dispositif [de l’algorithme] » selon les propres termes des responsables de la CAF8. Qu’importe que se multiplient les témoignages révélant les violences subies par les plus précaires lors des contrôles9. Qu’importe aussi que les montants récupérés par l’algorithme soient dérisoires au regard du volume des prestations sociales versées par l’institution10. Les logiques gestionnaires ont fait de la course aux « rendements des contrôles » une fin en soi à laquelle tout peut être sacrifié.

    #Surveillance #CAF #Chasse_aux_pauvres #Inégalités

  • Que reste-t-il de Paris et le désert français ?
    https://metropolitiques.eu/Que-reste-t-il-de-Paris-et-le-desert-francais.html

    Un demi-siècle après la dernière réédition du best-seller du géographe Jean-François Gravier, que reste-t-il des thèses défendues dans cet ouvrage longtemps présenté comme la Bible des aménageurs du territoire d’après-guerre ? Publié pour la première fois en 1947 aux éditions Le Portulan, avant d’être réédité par Flammarion en 1958 puis en 1972, Paris et le désert français de Jean-François Gravier a laissé une trace significative. Ce livre « toujours cité, rarement lu, jamais discuté », selon la formule du #Essais

    / #décentralisation, #aménagement, #inégalités, #géographie, #aménagement_du_territoire, #histoire

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_warnant-ozouf.pdf