• (16-17.12.2023)

    ⛰️💥 Ce week-end, nous étions plus de 2000 dans les #Alpes_Apuanes pour lutter contre l’extractivisme et défendre un autre avenir pour nos montagnes.


    Dans les Apuanes, en #Italie, de nombreux collectifs de citoyens se battent contre un modèle mortifère d’exploitation du territoire, qui crée d’énormes #profits mais concentrés dans les mains de quelques-uns, au détriment de la #santé des gens et du vivant

    🏗 Ici, l’#industrie_du_marbre a façonné la ville et les montagnes en fonction de ses intérêts économiques. Comme cela a été rappelé lors de la conférence, chaque année, plus de 5 millions de tonnes de #marbre sont extraites des carrières, dont la plupart finissent dans les mains de #multinationales pour produire du #carbonate_de_calcium, une poudre utilisée dans les dentifrices, les médicaments et l’industrie alimentaire... on est bien loin de l’utilisation qu’en faisait Michelangelo pour son art !

    💧 Ces processus d’extraction ont un impact élevé sur les écosystèmes, les nappes phréatiques et les eaux des rivières, et augmentent le #risque_hydrogéologique dans une zone déjà extrêmement délicate, avec des conséquences dévastatrices pour la ville de #Carrare, qui a été à plusieurs reprises le théâtre de graves inondations

    Les premiers à payer sont donc les citoyens et les mineurs eux-mêmes, soumis à des travaux extrêmement lourds avec un risque élevé d’accidents - dont le dernier s’est produit ce samedi matin.

    Les Alpes Apuanes sont ainsi l’emblème d’un système extractif.

    Mais n’en est-il pas de même dans le reste des Alpes ? Alors que nos glaciers fondent à grande vitesse et que les événements extrêmes se multiplient partout, au lieu de tout faire pour prévenir et réduire les dégâts, on va dans le sens inverse, pour s’accaparer un maximum de ressources, et extraire jusqu’au dernier centime. Qu’il s’agisse de retenues de neige artificielle, de stations de ski ou de méga-événements sportifs, c’est toujours la même logique extractiviste sans limite qui domine..

    (Photo de la manifestation de Michele Lapini)

    https://www.linkedin.com/feed/update/urn:li:activity:7142511937828937728
    #résistance #manifestation #extractivisme #marbre #Alpes #montagne

    • Carrara, una giornata per le Apuane

      Oggi si è tenuta la giornata nazionale “Le montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”: quasi 500 persone al convegno della mattina, in migliaia al corteo del pomeriggio.

      «Questo convegno che ha aperto la due giorni di riflessione e proposta sulle Apuane ha reso evidente come oggi il sistema estrattivo non rispetti nessuna delle tre gambe della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale e quella economica. Le norme che regolano l’attività estrattiva esistono, ma se non vengono rispettate sono assolutamente inutili. Il loro rispetto è la prima cosa che vogliamo chiedere. Dopo la giornata di oggi, è necessario che tutti coloro che hanno a cuore questo territorio, la popolazione, le associazioni e gli operatori, si uniscano in una sola voce con un obiettivo primario: il Parco regionale delle Alpi Apuane deve diventare nazionale, questo è l’unico sistema per garantire salvaguardia ambientale e sviluppo sostenibile a questo territorio, sottraendolo a pressioni locali».

      Con queste parole il Presidente generale del Cai Antonio Montani ha concluso questa mattina a Carrara, davanti a quasi 500 persone, il convegno che ha aperto la giornata nazionale “Le montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”.

      Una giornata promossa dal Club alpino italiano, con la Commissione centrale tutela ambiente montano e il Gruppo regionale Cai Toscana, Arci, Athamanta, Comitato Comunità Civica della Cappella di Seravezza (LU), Coordinamento ambientalista apuoversiliese e Italia Nostra, riuniti nell’"Assemblea per l’accesso alla montagna". Oltre a loro, sono state un centinaio le realtà aderenti alla giornata, tra cui diverse Sezioni Cai.

      Tra coloro che stamane hanno portato il proprio saluto, il presidente del Cai Toscana Giancarlo Tellini, che ha evidenziato come il concetto di “estrattivismo”, che non vada confuso con “estrazione”: «si tratta di un sistema che vede il mondo imprenditoriale legato alle cave, appoggiato dalla politica locale, perseguire il proprio interesse economico ignorando gli impatti ambientali della propria attività, un costo che viene scaricato sulla collettività. Pensiamo, ad esempio, alle sorgenti d’acqua, sempre più inquinate a causa della marmettola».
      Tellini ha poi sottolineato l’attuale presenza di una settantina di cave nel Parco Regionale delle Alpi Apuane, all’interno delle aree contigue di cava. «Questo non è accettabile, questo territorio è il simbolo della peggiore gestione ambientale possibile».

      I contenuti del convegno

      Le relazioni sono state di Maura Benegiamo (Ricercatrice dell’Università di Pisa), Matteo Procuranti (Blanca Teatro), Nadia Ricci (Presidente Federazione Speleologica Toscana), Ildo Fusani (Circolo Arci Chico e Marielle), Rossanna Giannini (Comitato Civico La Cappella) e Alessandro Gogna (alpinista e storico dell’alpinismo).

      I concetti chiave espressi sono stati innanzitutto che nel modello estrattivista gli interessi privati vengono confusi con i bisogni sociali. Questo sistema totalizza ogni aspetto della vita del territorio, compresi quelli identitari e culturali, oltre a essere incompatibile con il vincolo paesaggistico e con l’idea di conservazione del patrimonio naturale per le generazioni future.
      Tutto ciò nonostante il fatto che fino al 95% del materiale estratto sia di scarto. Questo materiale, infatti, ha comunque un importante mercato, in quanto da esso si ricava il carbonato di calcio.
      Si deve scavare meno dunque, e solo quello che la comunità è in grado di lavorare e valorizzare.

      Ampio spazio ha ricevuto la già citata marmettola, che, oltre a inquinare la maggior parte delle sorgenti d’acqua delle Apuane, riduce la porosità degli ammassi rocciosi e occlude i condotti, aumentando in modo improvviso la portata dei corsi d’acqua e, di conseguenza, il rischio idraulico. Non è mancata la denuncia dei sentieri Cai interrotti o cancellati a causa delle attività estrattive nelle aree che li intercettano, un fatto che ostacola l’accesso e la frequentazione da parte degli escursionisti e contrasta lo sviluppo di economie sostenibili alternative.

      Si è parlato anche di lavoro, con la disoccupazione che, dal 2009 al 2021 nella provincia di Massa Carrara, è stata quattro volte superiore alla media regionale e due volte sopra quella nazionale. Dato dovuto anche al fatto che, con i nuovi sistemi di escavazione, la forza lavoro richiesta nelle cave sia in costante diminuzione.

      L’ultimo intervento, quello di Alessandro Gogna, ha posto l’accento sul concetto di limite, che deve valere non solo per l’alpinismo e per il turismo montano, ma anche per l’attività estrattiva. Il limite presuppone umiltà, nei confronti degli altri, di se stessi, ma anche dell’ambiente in cui viviamo. Un limite che non viene imposto, ma che ognuno dovrebbe scegliere per non offendere la natura e l’umanità intera.

      Il corteo e la giornata di domenica

      In più di un migliaio, nel pomeriggio, hanno partecipato al corteo che, dallo Stadio dei Marmi, si è snodato lungo le vie del centro cittadino, con la partecipazione di diverse Sezioni Cai. I manifestanti hanno voluto ribadire che estrattivismo non sia sinonimo di estrazione, bensì sia un modello che concentra i profitti nelle mani di pochi, socializzandone i costi.

      Domani la manifestazione continua con tavoli di approfondimento e dibattito diffusi in diversi spazi sociali e circoli della città, con l’obiettivo di avviare un percorso collettivo che sia in grado di dialogare con la comunità proponendo alternative sostenibili per questi territori montani.

      https://www.loscarpone.cai.it/dettaglio/carrara-una-giornata-per-le-apuane

  • Les nitrites interdits dans les croquettes mais autorisés dans le jambon
    https://www.leparisien.fr/societe/sante/les-nitrites-interdits-dans-les-croquettes-mais-autorises-dans-le-jambon-

    Pépite réglementaire passée inaperçue, l’Europe a considéré cet été que l’ajout de nitrite de sodium dans les croquettes de nos chiens ou la pâtée de nos chats étaient dangereux pour leur santé et l’a interdit, alors qu’elle a renoncé à le bannir dans la charcuterie à destination des humains.

  • Mine games

    Rare earths are to the 21st century what coal was to the 19th and oil to the 20th. Our everyday electronics - and Europe’s climate goals - depend on them. But China controls almost all supply chains. Can Europe free itself from this dependence?

    Your mobile has them. Your laptop as well. They are likely in the toothbrush you used this morning. E-scooters are full of them. So are electric cars.

    Rare earths and other minerals are essential for wind and solar power installations, defence, and for the gadgets that we now rely upon in our daily lives. The demand for critical raw materials is going to skyrocket in the years ahead, far beyond current supply.

    There is no “climate neutrality” ahead without them. This implies more mining than ever before. “We, eight billion of us, will use more metal than the 108 billion people who lived before us,” according to Guillaume Pitrón, author of the book Rare Metals War.

    The political headache is that Europe depends heavily on imports of these critical raw materials, primarily from China.

    China controls EU supply of critical raw materials
    The trade in rare earths and other materials is controlled by the Chinese. Russia and Chile are significant suppliers as are some European nations.

    European dependency on Russian gas was a wake-up call last year, when Russia invaded Ukraine. Now the EU urgently wants to reduce the similar dependency on Chinese supplies of rare earth elements, lithium, bismuth, magnesium and a series of other critical minerals.

    European consumers have for decades not had to be much concerned with the environmental destruction and pollution that often comes with mining. Now, governments haste to revive mining across the continent – and to fast-track processes that otherwise may take a decade or more.

    https://www.youtube.com/watch?v=qzw9-1G9Sok

    Investigate Europe reporters have unearthed what lies beneath these “green mining” ambitions. We have broken into a mountain of dilemmas, challenges and questions that come with Europe’s pressing need for minerals.

    To what extent will Europe be practically able to revive a mining industry that it has long abandoned? How can governments secure social acceptance for new mines if they are to fast-track permit processes? What kind of autonomy can come in an industry dominated by global companies?

    https://www.investigate-europe.eu/themes/investigations/critical-raw-materials-mining-europe
    #minières #mines #extractivisme #Europe #Chine #dépendance #indépendance #terres_rares #neutralité_climatique #transition_énergétique #importation #lithium #bismuth #magnésium #green_mining #industrie_minière #autonomie

    disponible en plusieurs langues, français notamment :
    https://www.investigate-europe.eu/fr/themes/investigations/critical-raw-materials-mining-europe

    • Écocides et #paradis_fiscaux : révélations sur les dérives du soutien européen à l’industrie minière

      Pour développer l’industrie des #batteries_électriques ou des éoliennes, l’Union européenne finance des entreprises minières au travers du programme #Horizon. Une partie de ces fonds soutient des sociétés impliquées dans des catastrophes environnementales, voire, pour l’une d’entre elles, domiciliée dans un paradis fiscal.

      C’est une immense tâche blanche, un entrelacs de tuyaux et de cuves, au milieu d’un écrin vert-bleu, à l’embouchure du fleuve Amazone, au #Brésil. Ici, l’usine de la société minière française #Imerys a laissé un souvenir amer aux communautés autochtones. En 2007, plusieurs dizaines de familles ont été contraintes à l’exil lorsque le leader mondial de la production de minéraux industriels a déversé 200 000 m3 de #déchets_toxiques dans les rivières alentour. #Cadmium, #baryum et autres #métaux_lourds cancérigènes se sont déposés au fond des cours d’eau dans lesquels puisent les populations, aux confins de la plus grande forêt pluviale du monde.

      De l’autre côté du globe, dans le #désert_de_Gobi, en #Mongolie, #Orano, (ex-#Areva), exploite des gisements d’#uranium. Cette fois, le géant français du combustible nucléaire est suspecté d’avoir injecté dans le sol « d’énormes quantités d’#acide_sulfurique », contaminant les #eaux_souterraines au #strontium — mortel à très haute dose — et à l’#arsenic, selon une enquête judiciaire mongole. « Moutons, chèvres, chevaux qui naissent handicapés, eau souterraine polluée, femmes qui font des fausses couches… » : l’association locale #Eviin_huch_eh_nutgiin_toloo, interrogée récemment par Reporterre, énumère les conséquences sanitaires potentiellement désastreuses de l’exploitation d’Orano.

      Plus loin au sud, près de l’équateur, l’île d’#Halmahera, en #Indonésie, fait face aux effets dévastateurs de l’exploitation récente de #nickel, à #Weda_Bay, en partie détenue par le groupe métallurgique et minier français, #Eramet. Là aussi, les terres sont détruites, et les populations autochtones déplacées. Sa filiale calédonienne, la société #Le_Nickel, est à l’origine d’une importante #pollution au #fuel constatée en avril 2023. Environ 6 000 litres de combustible se seraient échappés d’une conduite percée.

      Ces trois sociétés françaises n’ont pas pour seul point commun d’être impliquées dans des scandales environnementaux : elles bénéficient des largesses du programme européen Horizon. D’après notre enquête, la société française Eramet a touché 1,9 million d’euros, entre 2019 et 2022. Quant à Orano et Imerys, elles ont reçu respectivement 2,3 millions d’euros et 312 637 euros du programme européen. Parmi les prérequis indispensables à l’obtention de ces #subventions, figurait celui de « ne pas nuire à l’un des six objectifs environnementaux » présent au cœur du “#green_deal” européen, le #pacte_vert, en français. À commencer par la prévention contre les #risques_de_pollution ou la protection des écosystèmes. Sollicitée, la Commission européenne se contente de déclarer qu’elle accorde « une attention approfondie » aux enjeux environnementaux.

      Quinze sociétés impliquées dans des crimes environnementaux

      Doté d’un budget de 95 milliards d’euros sur sept ans (2021-2027), le programme européen Horizon, initié en 2014, et financé en grande partie sur fonds publics, a pour mission de soutenir la #recherche et l’innovation au sein de l’Union européenne. Avec l’émergence des besoins en batteries électriques, en #éoliennes et autres industries liées au secteur de la #transition_énergétique, ce soutien se dirige en grande partie vers le secteur minier, d’après notre analyse des données mises en ligne par l’UE. Avec une nette accélération ces dernières années : sur les 667 millions d’euros réservés à ce type de projets, entre 2014 et 2023, près de la moitié ont été attribués à partir de 2020.

      Projets financés par le programme de l’UE Horizon, en lien avec la loi sur les #matières_premières_critiques

      Depuis 2014, Horizon a financé 95 projets de ce type. Ceux-ci ont reçu 667 millions d’euros distribués entre 1 043 organisations. Les 67 présentés dans le graphique ont reçu plus de 2 millions d’euros.

      En plus des trois entreprises françaises ayant bénéficié du fonds Horizon malgré leur lien avec des pollutions environnementales, Disclose et Investigate Europe ont identifié douze autres sociétés problématiques. À chaque fois, celles-ci ont été impliquées dans des catastrophes environnementales. Leurs liens avec lesdites catastrophes sont accessibles en quelques clics sur Internet.

      Un exemple : l’entreprise minière suédoise #Boliden. Elle a perçu près de 2,7 millions d’euros dans le cadre de huit appels à projets Horizon. La dernière fois, c’était en novembre 2019. Or, cette société spécialisée dans la production de #zinc et de #cuivre a un lourd passif en matière de dégradation des écosystèmes. En 1998, près de Séville, en Espagne, le barrage d’un bassin de décantation d’une mine de #pyrite lui appartenant s’est rompu, déversant des eaux polluées sur plus de 40 km de terres agricoles. Dans les années 1980, Boliden a également été épinglé pour avoir exporté des milliers de tonnes de #déchets_miniers depuis la Suède vers #Arica, au nord du #Chili. Les #boues_toxiques d’arsenic liées au stockage sont pointées par des locaux pour être vraisemblablement à l’origine de #cancers et #maladies chez des milliers de résidents, lui valant d’être un cas d’étude dans un document du Parlement européen.

      Défaillances en chaîne

      Les données analysées réservent d’autres surprises. Alors que l’Union européenne ne cesse de défendre la nécessité de réduire sa dépendance vis-à-vis de la Chine et de la Russie, surtout depuis la pandémie et le conflit russo-ukrainien, le #programme_Horizon semble souffrir de quelques défaillances. Et pour cause, selon l’examen détaillé des entreprises bénéficiaires, il est arrivé à au moins trois reprises que les fonds versés par l’UE terminent soit sur le compte en banque d’un acteur étatique chinois, soit sur celui d’oligarques russes.

      Dans le premier cas, il s’agit du dossier déposé par la #Soil_Machine_Dynamics, une entreprise britannique leader dans le domaine de la robotique sous-marine. Celle-ci a reçu 3,53 millions d’euros du budget d’Horizon pour un projet baptisé #Vamos. Il visait à développer une technique permettant d’extraire des minéraux à des profondeurs jusque-là inaccessibles. Le projet a démarré le 1er février 2015. Mais, cinq jours plus tard, le fonds d’investissement privé Inflexion a cédé l’entreprise à #Zhuzhou_CSR_Times_Electric, dont l’actionnaire majoritaire est l’État chinois. Le projet Vamos, passé sous pavillon chinois, est resté actif jusqu’au 31 janvier 2019.

      Le second cas fait référence à la société #Aughinish_Alumina. L’entreprise basée en Irlande raffine la #bauxite, la roche dont est extraite l’#alumine utilisée pour produire l’#aluminium. En 2018, elle a reçu 563 500 euros en provenance de l’Union européenne pour sa participation à un projet visant à étudier la réutilisation des résidus de bauxite. Or, cette entreprise minière appartient depuis 2007 à #Rusal, un groupe russe qui domine le secteur et dont l’un des principaux actionnaires n’est autre qu’#Oleg_Deripaska. Réputé proche de Vladimir Poutine, ce dernier figure sur la liste des oligarques russes sanctionnés par le Royaume-Uni et les États-Unis… et l’Europe.

      Des fonds publics européens atterrissent dans un paradis fiscal

      Un autre cas intrigue, celui de la société #Lancaster_Exploration_Limited, spécialisée dans l’exploration de terres rares. L’entreprise a participé à un projet Horizon qui promettait de développer de nouveaux « modèles d’exploration pour les provinces alcalines et de carbonatite » destinés à l’industrie européenne de haute technologie. Pour ce projet, elle a perçu plus de 168 000 euros de la part de l’Europe, alors que son siège social est situé dans les #îles_Vierges britanniques, paradis fiscal notoirement connu. Interrogé sur ce cas précis, un porte-parole de la Commission européenne explique que l’institution peut mettre fin à un contrat la liant avec une société qui se serait rendue coupable d’infractions avec ses « obligations fiscales » ou qui aurait été « créé sous une juridiction différente, avec l’intention de contourner les obligations fiscales, sociales ou autres obligations légales dans le pays d’origine. »

      Reste à savoir si l’Union européenne prendra des mesures contre des sociétés ne respectant manifestement pas leurs obligations. D’autant plus que l’acquisition d’une souveraineté dans le secteur des #matières_premières critiques et des terres rares est l’une des priorités affichées par l’exécutif européen. La Commission a d’ailleurs présenté, en mars dernier, le #Critical_Raw_Materials_Act, consistant à relancer l’activité minière sur le continent. Grâce, notamment, aux centaines de millions d’euros que le programme Horizon destine aux professionnels du secteur.

      https://www.investigate-europe.eu/fr/posts/eu-horizon-scheme-millions-funding-mining-companies-environmental
      #paradis_fiscal #fisc #évasion_fiscale #écocide

  • Les #Agences_de_l’eau en mode essorage

    Indépendantes de l’État, ces structures décisives dans la gestion de la ressource sont pourtant l’objet de multiples #pressions pour financer le #lobby agricole.

    Depuis quelques jours, les grands acteurs des guerres de l’eau en France jouent aux chaises musicales. On a ainsi vu mercredi dernier, le 6 décembre, #Arnaud_Rousseau, le président de la #FNSEA (#Fédération_nationale_des_syndicats_d’exploitants_agricoles), annoncer lui-même depuis le perron de Matignon que le gouvernement renonçait d’une part à taxer les agriculteurs qui polluent les sols et les eaux en utilisant des #pesticides et d’autre part à augmenter la #redevance de ceux qui irriguent tant et plus. La Première ministre, Élisabeth Borne, s’est contentée d’observer sagement la scène. Ce mardi, à Rennes, d’autres agriculteurs ont exprimé leur colère. Ils ont manifesté et même occupé des bâtiments de l’État pour demander, entre autres, l’arrêt du glyphosate et la taxation des pesticides. Évidemment, ils étaient pour la plupart affiliés à la Confédération paysanne. Ils revendiquaient surtout le paiement de plusieurs dizaines de millions d’euros de subventions qui leur ont été promis et qui doivent financer des mesures agro-écologiques dans leurs fermes. Le grand perdant de ce jeu de chaises musicales, où chacun semble prendre une place inattendue ? Le ministre de la Transition écologique, Christophe Béchu, qui n’a visiblement aucune assise. Il laisse la parole à la FNSEA, et il laisse – vous le verrez, c’est un document que se sont procuré Les Jours – son homologue chargé de l’Agriculture, Marc Fesneau, lui remonter les bretelles sur un dossier qui concerne pourtant de très près l’environnement et des établissements publics dont il a la charge, les Agences de l’eau.

    Pour comprendre cette situation, il faut vous présenter un peu plus ces mastodontes aussi importants que méconnus. La France compte six Agences de l’eau, dont les territoires sont délimités en fonction de l’écoulement des eaux : chacune règne sur un grand bassin hydrographique. Les personnes qui connaissent bien ces assemblées – et elles sont plutôt rares – en sont fières et les surnomment les « parlements de l’eau ». Car, en théorie, ces agences dotées d’un budget conséquent – plus de 12 milliards d’euros sur la période 2019-2024 – sont indépendantes de l’État et gérées par des collèges représentants tous les utilisateurs de la ressource : consommateurs, collectivités, industriels, agriculteurs, pêcheurs… Chacun de ces acteurs finance le budget des Agences via des taxes appelées « redevances » et, ensemble, ils doivent parvenir à concilier trois objectifs de plus en plus difficiles à atteindre : que chacun dispose de suffisamment d’eau, que les cours d’eau et les êtres qui y vivent soient en bonne santé, mais aussi que l’eau soit suffisamment peu polluée pour pouvoir être bue par tous.

    Depuis au moins une décennie, ces belles intentions sont largement mises à mal. En 2015, un rapport de la Cour des comptes dénonçait déjà le noyautage des Agences de l’eau par ceux qui la polluent – les industriels, notamment –, ainsi que par ceux qui en usent tant qu’ils en sont les plus grands consommateurs du pays : les agriculteurs… qui parfois polluent aussi. Le rapport pointait notamment le poids de plus en plus important pris par la FNSEA dans les décisions concernant la ressource. La situation ne s’est pas améliorée depuis. Un autre rapport de la même Cour des comptes, publié en juillet dernier et consacré à la gestion de l’eau face au changement climatique, regrettait, lui, que les redevances soient réparties de façon extrêmement inégale. Les consommateurs paient plus de 70 % des taxes via leur facture d’eau, quand les agriculteurs irrigants ne payent que 6 % de ces redevances et les agriculteurs consommateurs de pesticides à peine 4 %. Une situation d’autant plus injuste que l’impact de l’agriculture sur le coût de l’eau est de plus en plus grand : peu à peu, on se rend compte que l’eau potable est ainsi très largement contaminée par les résidus de pesticides, et que la dépollution va coûter une fortune aux collectivités.

    En prime, beaucoup d’agents et responsables des Agences de l’eau ont l’impression qu’on tape dans leurs caisses. Car depuis les années 2010, l’État a régulièrement décidé de ponctionner leur budget pour financer des mesures censées être favorables à l’environnement. Avec des conséquences lourdes sur les moyens de ces établissement mais aussi sur la taille des couleuvres à avaler : en 2018 a par exemple été instaurée une « contribution financière des Agences de l’eau à l’Agence française pour la biodiversité et à l’Office national de la chasse et de la faune sauvage » d’un montant de 20 millions d’euros. Une somme qui permettait de compenser la perte de budget de ce dernier Office due à la promesse présidentielle – celle-là même qui avait poussé Nicolas Hulot à la démission – de diviser par deux le prix des permis de chasse. C’est ainsi que l’argent des parlements de l’eau a depuis été utilisé pour faciliter la pratique du fusil en milieu rural.

    En avril dernier, le même Emmanuel Macron a annoncé du côté du lac de Serre-Ponçon, dans les Hautes-Alpes, son « plan eau », censé porter des objectifs de sobriété. Cette feuille de route, que Les Jours décrivaient comme très favorable aux agriculteurs (lire l’épisode 2, « Tu cherches un plan eau près de chez toi ? »), devait en partie être financée via les deux taxes auxquelles le gouvernement vient donc de renoncer. Une annulation vécue comme une injustice de trop pour le président du comité de bassin de l’Agence de l’eau Loire-Bretagne, Thierry Burlot (pourtant ex-candidat macroniste aux régionales). Il se dit « abasourdi » : « On a construit ce plan eau pendant des mois. On s’était mis d’accord sur le financement, de façon collective. On a imaginé une taxe sur les pesticides qui, au regard du coût de la pollution, est franchement minime. Et on découvre que la FNSEA est allée négocier seule à Paris, dans le dos de tout le monde. On découvre qu’ils ne veulent même pas payer pour financer un plan dont ils sont de très loin les plus grands bénéficiaires. C’est trop, cette décision va générer beaucoup de tension. »

    À Rennes, l’élu PS et vice-président d’Eau du bassin rennais Ludovic Brossard tance : « On n’est même plus face à du renoncement, on est face à un choix idéologique du gouvernement de soutenir le fonctionnement actuel de l’économie agricole plutôt que de donner une réponse aux enjeux environnementaux. » Du côté des agents de ces Agences, la déception est tout aussi grande. Élue au Syndicat national de l’environnement (SNE-FSU), Delphine Jacono déplore qu’« une fois de plus, on constate un arbitrage au profit des intérêts agricoles et au détriment de l’intérêt général. Ces taxes sont prévues pour abonder des budgets, mais doivent aussi faire changer les pratiques. Y renoncer est dommageable pour tout le monde ».

    Et ce n’est pas le seul dossier financier chaud qui divise les Agences de l’eau et le monde agricole. Les agents rennais de la direction régionale de l’alimentation, de l’agriculture et de la forêt l’ont découvert ce mardi en voyant débarquer une centaine d’agriculteurs en colère. L’objet de leur courroux est né de plusieurs échanges épistolaires entre membres de la majorité. Fin octobre, une flopée de parlementaires bretons écrivent au ministre l’Économie Bruno Le Maire et à Marc Fesneau. Ils alertent : des agriculteurs de la région se sont engagés à prendre dans leurs exploitations des « mesures agro-environnementales et climatiques » (Maec) en échange de subventions, et ils attendent leur dû. Victimes de leur succès, ces aides ont explosé les plafonds prévus. Près de 3 000 agriculteurs bretons attendraient aujourd’hui un montant global de 53 millions d’euros. Qui peut les payer ?

    Dans un courrier que « Les Jours » se sont procuré, Marc Fesneau exige de Christophe Béchu que les Agences de l’eau sortent le chéquier. Encore

    Cette missive a été bien reçue et entendue par Marc Fesneau. Selon un document que Les Jours se sont procuré, ce dernier a renvoyé quelques jours plus tard la patate chaude à Christophe Béchu. Son courrier évalue les besoins de financements à 143 millions d’euros à l’échelle nationale et se termine ainsi : « Cette insuffisance de financement provient des Agences de l’eau qui sont sous votre tutelle. » En clair, Marc Fesneau veut encore que lesdites agences sortent le chéquier. Il l’a fait savoir directement à leurs dirigeants, précise Thierry Burlot : « Marc Fesneau a invité les présidents de comité de bassin il y a un mois pour nous le dire. On n’était pas au courant de cet arbitrage, on ne savait pas que c’était à nous de le payer. Je vais être tout à fait clair sur ma position : je suis favorable au financement des Maec. Mais je ne peux pas les payer. On ne peut payer que si on a de l’argent dans la caisse. »

    Sur le terrain, on avance enfin un autre argument, de poids : il faudrait veiller à ne pas subventionner tout et n’importe quoi sous la pression du ministère de l’Agriculture. Un anonyme contrôleur de la Politique agricole commune (PAC), qui a évalué de très nombreux dossiers de Maec, détaille : « Les Maec sont censées inciter à un changement de pratiques et compenser une perte de rendement. Une partie sont très intéressantes, mais dans une majorité de dossiers, on finance des pratiques déjà existantes ou pas forcément pertinentes. » Delphine Jacono, du SNE-FSU, confirme qu’« il y a Maec et Maec, avec des ambitions environnementales très variables ». Elle alerte donc sur le fait que « faire du saupoudrage indifférencié serait une nouvelle atteinte aux objectifs environnementaux et climatiques ».

    Thierry Burlot, qui craint que l’affaire ne décourage les agriculteurs partisans d’un changement de modèle, se veut, lui, beaucoup plus conciliant avec les Maec. Quant à Ludovic Brossard, qui est allé à la rencontre des agriculteurs en colère ce mardi, il assure que la grande majorité de ces exploitants s’engagent dans des mesures vraiment intéressantes pour l’environnement. « Ces agriculteurs se disent qu’il leur manque des millions d’euros et que quelques jours plus tôt la FNSEA a été écoutée en déversant du lisier sur les préfectures. Forcément, ils se disent que les choses marchent comme ça. » Mais n’est pas la FNSEA qui veut : ce mardi soir, les agriculteurs de la Confédération paysanne ont été évacués avec force par la police.

    https://lesjours.fr/obsessions/eau-guerres/ep9-agences-eau-fnsea
    #eau #France #lobbying #agriculture #industrie_agro-alimentaire #indépendance #irrigation #pollution #taxe #glyphosate #Confédération_paysanne #subventions #agro-écologie #Marc_Fesneau #Christophe_Béchu #cour_des_comptes #eau_potable #prix #coût #contamination #dépollution #plan_eau #économie_agricole #mesures_agro-environnementales_et_climatiques (#Maec)

  • LNG-Konflikt : Indien fordert Milliarden von Deutschland
    https://www.telepolis.de/features/LNG-Konflikt-Indien-fordert-Milliarden-von-Deutschland-9572832.html
    Ils ont essayé de ruiner la Russie, maintenant ils ruinent l’Allemagne. Sarah Wagenknecht avait raison lors ce qu’elle a appellé l’actuel gouvernement allemand le plus incompétent de tous les gouvernements allemands.

    L’état allemand doit dédommager une entreprise indienne pour les pertes subies suite à la nationalisation de Gazprom Allemagne.

    Christoph Jehle - Indien verklagt Deutschland wegen LNG-Lieferausfällen. Sefe, ehemals Gazprom Germania, steht im Zentrum des Konflikts. Wie Bundesregierung Problem lösen will.

    Indien verklagt Deutschland wegen LNG-Lieferausfällen. Sefe, ehemals Gazprom Germania, steht im Zentrum des Konflikts. Wie Bundesregierung Problem lösen will.

    Wirtschaftspolitisches Ziel der Bundesregierung ist es, die Abhängigkeit Deutschlands von China zu verringern. Als möglichen neuen Partner hat sie Indien ins Visier genommen, von wo künftig mehr importiert werden soll. Doch inzwischen nehmen auch die Konflikte mit Neu-Delhi zu.

    Der indische Staatskonzern Gail hat die Bundesregierung auf Zahlung von 1,8 Milliarden US-Dollar verklagt. Das Unternehmen sieht sich durch den Wirtschaftskrieg Berlins gegen Russland geschädigt, der im vergangenen Jahr zum Ausfall zugesagter Lieferungen von Flüssiggas geführt hatte.
    Sefe und Gazprom: Verstaatlichung und ihre Folgen

    Die Sefe, ehemals Gazprom Germania, war Teil des russischen Gazprom-Konzerns und umfasste ihrerseits rund 60 Tochtergesellschaften. Unter dem Dach der SEEHG (Securing Energy for Europe Holding) GmbH in Berlin wurde der gesamte Teilkonzern zunächst von der Bundesnetzagentur unter Treuhandverwaltung gestellt und im November 2022 von der Bundesregierung verstaatlicht.

    Ziel dieser Maßnahme war die Sicherung der Gasversorgung in Deutschland. Die faktische Enteignung durch die Bundesregierung führte jedoch dazu, dass Gazprom seine Lieferungen einstellte. Dies brachte Russland den Vorwurf ein, Gas als politische Waffe einzusetzen.

    Um die Liquidität des verstaatlichten Unternehmens zu sichern, ergriff die Bundesregierung Stabilisierungsmaßnahmen, darunter ein KfW-Darlehen in Höhe von insgesamt 13,8 Milliarden Euro. Sefe ist einer der größten Gashändler Europas und liefert rund 30 Prozent des in Deutschland verbrauchten Gases.
    Vertragsrisiken nach Eigentümerwechsel

    Nach der Verstaatlichung kamen in Deutschland Befürchtungen auf, man habe sich mit der Enteignung russische Spione ins Haus geholt. Aus arbeitsrechtlichen Gründen konnten die rund 1.500 Mitarbeiter nach dem Eigentümerwechsel jedoch nicht geheimdienstlich durchleuchtet werden. Die eigentlichen Probleme schlummerten aber offensichtlich in den übernommenen Verträgen mit nun plötzlich riskanten Lieferverpflichtungen.

    In Deutschland konnte in einigen Fällen eine außergerichtliche Einigung erzielt werden, so bei der VNG-Tochter VNG Handel & Vertrieb GmbH und der inzwischen gelöschten Sefe-Tochter WIEH GmbH, ehemals Wintershall Erdgas Handelshaus. In beiden Fällen konnte eine Einigung über die Aufteilung der Kosten für die Ersatzbeschaffung erzielt werden. Die genauen Konditionen dieser Vereinbarungen wurden jedoch nicht veröffentlicht.

    Im Zuge der wirtschaftlichen Auseinandersetzungen zwischen dem Westen und Russland wurde Gazprom Marketing and Trading Singapore (GMTS) zu einer der Gazprom Germania untergeordneten Einheit, bevor Gazprom Germania schließlich enteignet wurde und fortan unter dem Namen Sefe firmierte.
    Sefe M&T Singapore: Unterbrechung und Wiederaufnahme von LNG-Lieferungen

    Im Juni 2022 stellte die Sefe M&T Singapore, die über die Sefe Marketing & Trading Ltd. in London zur Sefe-Gruppe gehört, die Erfüllung der bei der Verstaatlichung der deutschen Gazprom-Tochter übernommenen Verträge ein. Sie nahm die LNG-Lieferungen jedoch offenbar im April 2023 wieder auf.

    Gail ging zunächst gegen ihren ursprünglichen Vertragspartner, die Gazprom-Tochter in Singapur, vor. Ab dem 1. Dezember 2023 richtete sich der Rechtsstreit dann gegen die Sefe Group.
    Konventionalstrafen als Lösungsansatz im Lieferstreit

    Der deutsche Staat versuchte seinerseits, das Problem des einseitigen Lieferstopps auf internationaler Ebene durch die Zahlung von Konventionalstrafen zu lösen. Dies wurde jedoch nicht von allen Kunden akzeptiert, da eine Ersatzbeschaffung der nun fehlenden Gasmengen auf dem Weltmarkt nicht zuletzt aufgrund der preistreibenden deutschen Gasnachfrage nicht realisierbar war.

    Zwar zahlt die verantwortliche Sefe Marketing & Trading (SM&T) an die indische Gail Konventionalstrafen in Höhe von 20 Prozent des vertraglich vereinbarten Preises, der Anfang 2022 weit unter den aktuellen Marktpreisen lag. Diese Vertragsstrafe macht jedoch nur einen Bruchteil der Kosten aus, die Gail derzeit am Spotmarkt für Ersatzlieferungen hätte zahlen müssen. Indien forderte die Sefe auf, die vertraglich vereinbarten Gasmengen anderweitig zu beschaffen, um ihren Lieferverpflichtungen nachzukommen.

    Mit Gail (India) klagt jetzt der größte, mehrheitlich staatliche Gasversorger Indiens vor dem London Court of International Arbitration gegen die von Deutschland verstaatlichte Sefe-Gruppe. Ob es bei diesem einen Verfahren bleibt, dürfte nicht zuletzt von dessen Ausgang abhängen.

    Langfristige Verträge und politische Spannungen

    Gail hatte seit 2012 einen 20-jährigen Liefervertrag mit Gazprom Marketing and Trading Singapore (GMTS), der die Lieferung von 2,85 Millionen Tonnen LNG pro Jahr vorsah.

    Sowohl Sefe als auch die Bundesregierung betrachteten die inländischen Verpflichtungen anders als die Verträge mit internationalen Partnern. Erstere standen unter hohem politischem Erfüllungsdruck und wurden daher von der Bundesregierung finanziell abgesichert.

    Bei den Lieferungen nach Indien wurde jedoch auf die Erfüllung der Lieferverpflichtungen verzichtet. Seit Mai 2022 wurden 17 LNG-Ladungen nach Indien storniert und damit die Regierung in Neu-Delhi vor den Kopf gestoßen.

    Rechtliche Auseinandersetzungen und Marktentwicklungen

    Die von Sefe geltend gemachte höhere Gewalt soll nicht den vertraglichen Bestimmungen entsprechen. Nach der aktuellen Kursentwicklung der Gail-Aktie gehen die beteiligten Investoren wohl von hohen Erfolgsaussichten der Inder aus.

    Inzwischen bezieht die Sefe-Gruppe wieder LNG aus Russland, da es sich bei den Gaslieferverträgen mit Russland eindeutig um sogenannte Take-or-pay-Verträge handelte, wie sie auch für die Lieferungen durch die Nord-Stream-Pipeline bestanden haben sollen. (Christoph Jehle)

    #économie #politique #impérialisme #guerre #Allemagne #Inde

  • Marine pollution, a Tunisian scourge: Jeans industries destroy the marine ecosystem in the #Ksibet_El-Mediouni Bay

    The Made in Tunisia clothes industry for the European market consumes large amounts of water and pollutes Tunisia’s coastline. In Ksibet El Mediouni, the population is paying the price of the environmental cost of #fast_fashion.

    Behind the downtown promontory, blue-and-white tourist villas and monuments celebrating former Tunisian President Habib Bourguiba, born in Monastir, give way to gray warehouses. Made in Tunisia clothes for export are cut, sewn, and packed inside these hangars and garages, many undeclared, by a labor force mostly of women, who are paid an average of 600 dinars, as confirmed by the latest social agreement signed with the main trade union, the Tunisian General Labour Union (UGTT), obtained by inkyfada.

    The triangle of death”

    The clothes are then shipped to the European Union, the primary export market. While most Tunisians can afford to buy second-hand clothes on the so-called “fripes” markets, 82% of Tunisian textile production leaves the country, according to the latest figures published in a report by the NGO Avocats Sans Frontières. Tunisia, like Morocco and Egypt, are attractive destinations for textile manufacturing multinationals due to their geographical proximity to the European market.

    Here, the tourist beaches quickly become a long, muddy marine expanse. The road that leads to the working-class neighborhoods south of Monastir, known as a hub of the textile industry - Khniss, Ksibet, Lamta, Ksar Hellal, Moknine - is paradoxically called Boulevard de l’Environnement (Environment Boulevard).

    This street name can be found in every major city in the country as a symbol of the ’authoritarian environmentalism of Ben Ali’s 1990s Tunisia’ - as researcher Jamie Furniss called it - redeeming the image of dictatorship ’by appealing to strategic hot-button issues in the eyes of the “West.”’

    After rolling up his pants, he dips his feet into the dirty water and climbs into a small wooden boat. ’Nowadays, to find even a tiny fish, we must move away from the coast.’

    ’Sadok is one of the last small fishermen who still dares to enter these waters,’ confirms Yassine, a history professor in the city’s public school, watching him from the main road to cope with the strong smell.

    Passers-by of Boulevard de l’Environnement agree: the Ksibet El-Mediouni Bay died ‘because of an abnormal concentration of textile companies in a few kilometers’, they say, polluting the seawater where the population used to bathe in summer.

    The region is home to five factory clusters. ’Officially, there are 45 in all, but there are illegal ones that we cannot count or even notice. They are often garages or warehouses without signs,’ confirms Mounir Hassine, head of Monastir’s Tunisian Forum for Economic and Social Rights.

    This is how the relocation of textile industries works: the big brands found in French, Italian, Spanish, and German shops relocate to Tunisia to cut costs. ’Then some local companies outsource production to other smaller, often undeclared companies to reduce costs and be more competitive,’ explains Habib Hazemi, President of the General Federation of Textiles, Clothing, Footwear, and Leather in the offices of the trade union UGTT.

    According to Hassine from the Tunisian Forum for Economic and Social Rights (FTDES), ‘undeclared factories often dig wells to access groundwater and end up polluting the Bay by discharging wastewater directly into the sea’.

    The public office responsible for water treatment (Office National de l’Assainissement, ONAS) ’fails to treat all this wastewater,’ he adds, so State and private parties bounce responsibilities off each other’. ’The result is that nothing natural is left here,’ Yassine keeps repeating.

    The unheard call of civil society

    Fatma Ben Amor, 28, has learned the meaning of pollution by looking at it through her window and listening to the stories of her grandparents, born and raised in the small town of Ksibet El Mediouni. ’ They often tell me that people used to bathe and go fishing here. I never knew the ’living’ beach,’ says this local activist.

    After the revolution, her city became the center of a wave of protests in 2013 by the population against ’an ecological and health disaster,’ it was written on the protesters’ placards. Nevertheless, the protests yielded no results, and marine pollution has continued.

    Founded in 2014, the Association for the Protection of the Environment in Ksibet el Mediouni (APEK) monitors the level of marine pollution in the so-called ’triangle of death.’ Fatma tries to raise awareness in the local community: ’We began with a common reflection on resource management in the region and the idea of reclaiming our bay. Here, youth are used to the smells, the waste, the dirty sea.’

    Under one of the bridges on Boulevard de l’Environnement runs one of the few rivers where there is still water. That water, however, ‘gathers effluent from the area’s industries’, the activists complain. ’The water coming from Oued el-Melah, where all the factories unload, pollutes the sea,’ she explains by pointing to the oued.

    According to the latest report by Avocats Sans Frontières (ASF) and FTDES in August 2023, one of the leading causes of marine pollution in Monastir governorate would be the denim washing process, a practice used in the dyeing of jeans.

    The ASF research explains that the jeans sector is characterized by technical processes involving chemicals - such as acetic acid used for washing, several chemical detergents and bleaching products, or hydrogen peroxide - and massive water consumption in a country suffering from water stress.

    During the period of 2011-2022, Tunisia has ratified important international texts that will strengthen and enrich Tunisian national law in terms of pollution control, environmental security, and sustainable development. ’ Although the regulations governing environmental protection and the use of water resources are strict, the authorities in charge of controls and prosecutions are outdated and unable to deal with the infringements,’ the ASF report confirms.

    According to both civil society organizations, there are mainly two sources of pollution in Ksibet Bay: polluting industries discharging chemicals directly into the seawater and the Office de l’Assainissement (ONAS) , ’which should be responsible for treating household wastewater, but mainly manages wastewater from factories discharging, and then throw them into the sea,’ Fatma Ben Amor explains.

    ’Take, for example, the ONAS plant at Ouad Souk, in Ksibet Bay. Created in 1992, it has a treatment capacity of 1,680 cubic meters per day, with a population more or less adapted to this capacity. It receives more than 9,000 cubic meters daily on average,’ Mounir Hassine confirms.

    ONAS did not respond to our interview requests. The Tunisian Textile and Clothing Federation (FTTH), representing part of the sector’s employers, assures that ‘the large companies in the region have all the necessary certifications and now use a closed cycle that allows water to be reused.’ The FTTH adds that the sector is taking steps towards the energy transition and respect for the environment.

    UTICA Monastir, the other branch of the employers’ association, has also confirmed this information. While a system of certifications and environmental audits has been put in place to monitor the work of large companies, ‘the underground part of the production chain escapes the rules,’ admits one entrepreneur anonymously.

    This pair of jeans is water’

    ONAS finds itself treating more water than the treatment stations’ capacities because, within a few decades, the Monastir region has radically changed its economic and resource management model. A few kilometers from the towns on the coast, roads run through olive groves that recall the region’s agricultural past.

    But today, agriculture and fishing are also industrialized: the governorate of Monastir produced almost 20,000 tonnes of olive oil by 2020. With 14 aquaculture projects far from the coast, the region ranks first in fish production, with an estimated output of between 17,000 and 18,000 tonnes by 2022.

    A wave of drought in the 1990s intensified the rural exodus from inland Tunisia to the coast. ’This coastal explosion has been accompanied by a development model that looked to globalization rather than domestic needs,’ Mounir Hassine from FTDES explains. ’Our region has been at the heart of so-called vulnerable investments, which bring in cheap labor without considering environmental needs and rights.’

    This sudden increase in residents has put greater pressure on the region’s natural water resources, ‘which supply only 50% of our water needs,’ he adds. The remaining 50 percent comes from the increasingly empty northern Oued Nebhana and Oued Medjerda dams. However, much of the water resources are not used for household needs but for industrial purposes.

    According to the ASF report, export companies draw their water partly from the public drinking water network (SONEDE). But the primary source is wells that draw water directly from the water table: ’Although the water code regulates the use of wells, 70% of the water used by the textile industry comes from the region’s unauthorized groundwater’. ’Most wells are dug inside the factories,’ Mounir Hassine from FTDES confirms.

    Due to the current drought wave and mismanagement of resources, Tunisia is now in water poverty, with an average use of 450 cubic meters of water per citizen (the poverty line is 500), according to 2021 data. Moreover, the Regional Agricultural Commission figures show that the water level in Monastir’s aquifers falls between three and four meters yearly.

    Water mismanagement is not just a problem in the textile industry. This type of production, however, is highly water-hungry, especially when it comes to the denim washing process.

    Even if the big brands are at the top of the production chain that ends on the coast of Ksibet El Medeiouni, ‘ they will rarely be held accountable for the social and environmental damage they leave behind,’ admits an entrepreneur in the sector working in subcontracting. Tunisian companies all work for several brands at the same time, and they don’t carry the same name as the big brands, which outsource production.

    ‘Tracing the chain of responsibility is complicated, if not impossible,’ confirms Adel Tekaya, President of UTICA #Monastir.

    The EU wants to produce more green but continues to relocate South

    Once taken directly from the aquifer or from the public drinking water company, SONEDE, a part of the waters polluted by chemical processes, thus ends up in the sea without being filtered. According to scholars, textile dyeing is responsible for the presence of 72 toxic chemicals in water, 30 of which cannot be eliminated.

    According to the World Bank, between 17% and 20% of industrial water pollution worldwide is due to the dyeing and finishing processes used in the textile industry. A figure confirmed by the European Parliament states:

    “Textile production is estimated to be responsible for around 20% of global clean water pollution from dyeing and finishing products".

    The EU has set itself the target of achieving good environmental status in the marine environment by 2025 by applying the Marine Strategy Framework Directive. Still, several polluting sectors continue to relocate their production to the Southern countries, where ‘there are fewer controls and costs,’ explains the entrepreneur requesting anonymity for fear of consequences for criticizing a ’central sector’ in the country.

    But pollution knows no borders in the Mediterranean. 87% of the Mediterranean Sea remains contaminated by chemical pollutants, according to the first map published by the European Environment Agency (EEA), based on samples taken from 1,541 sites.

    The environmental damage of the textile industry - considered one of ‘the most polluting sectors on the planet’ - was also addressed at Cop27 in Sharm El-Sheikh, where a series of social and climate objectives concerning greater collaboration between the EU and the MENA region were listed.

    One of the main topics was the urgent harmonization of environmental standards in the framework of the installation of digital product passports’, a tool that will track the origin of all materials and components used in the manufacturing process.

    FTTH ensures that large companies on the Monastir coast have invested in a closed water re-use cycle to avoid pollution. ‘All companies must invest in a closed loop that allows water reuse,’ Mounir Hassine reiterates.

    But to invest in expensive and reconversion work requires a long-term vision, which not all companies have. After a period of ten years, companies can no longer benefit from the tax advantages guaranteed by Tunisian investment law. ‘Then they relocate elsewhere or reopen under another name,’ Mounir Hassine adds.
    Environmental and health damages of marine pollution

    Despite the damage, only female workers walking around in white or colored uniforms at the end of the working day prove that the working-class towns south of Monastir constitute the most important manufacturing hub of Made In Tunisia clothes production. The sector employs 170,000 workers in the country.

    Tunisia is the ninth-largest exporter of clothing from the EU, after Cambodia, according to a study by the Textile Technical Centre in 2022. More than 1,530 companies are officially located there, representing 31% of the national fabric. 82% of this production is exported mainly to France, Italy, Belgium, Germany, and Spain.

    Some women sit eating lunch not far from warehouses on which signs ending in -tex. Few dare to speak; one of them mentions health problems from exposure to chemicals. ’We have received complaints about health problems caused by the treatment and coloring of jeans,’ confirms FGTHCC-UGTT (Textile, Clothing, Footwear and Leather Federation) general secretary Habib Hzemi. Studies have also shown that textile workers – particularly in the denim industry – have a greater risk of skin and eye irritation, respiratory diseases, and cancer.

    Pollution, however, affects not only the textile workers but the entire community of Ksibet. ’We do not know what is in the seawater, and many of us prefer not to know. We have tried to get laboratory tests, but they are very expensive,’ explains Fatma Ben Amor of the APEK Association.

    According to an opinion poll by the Association for the Protection of the Environment of Ksibet Mediouni (APEK) in July 2016, the cancer rate is 4.3%. Among the highest rates worldwide,’ explains a study on cancer in Ksibet for the German Heinrich Böll Stiftung. Different carcinogenic diseases have been reported in the local community, but a cancer register has never been set up.

    Pollutants from the textile industry have impacted marine life too. Like all towns on the coast, Monastir is known for fishing bluefish, sea bream, cod, and other Mediterranean species. But artisanal fishing is increasingly complicated in front of the bay of Ksibet El Mediouni, and the sector has become entirely industrialized. Thus, the town’s small port is deserted.

    ’The port of Ksibet is emptying out, while the ports of Sayeda and Teboulba, beyond the bay, are still working. There are only a few small-scale fishermen left. We used to walk into the water to catch octopuses with our hands,’ one of the port laborers explains anonymously, walking on the Bay.

    ’Thirty years ago, this was a nursery for many Mediterranean species due to the shallow waters. Now, nothing is left,’ he adds. As confirmed by several fishermen in the area, the population has witnessed several fish deaths, most recently in 2020.

    ’We sucked up the algae, waste, and chemical waste a few years ago for maintenance work,’ explains the port laborer. ’Once we cleaned it up, the sea breathed again. For a few days, we saw fish again that we had not seen for years. Then the quicksand swallowed them up again.’

    https://inkyfada.com/en/2023/11/03/marine-pollution-jean-industry-tunisia

    #pollution #jeans #mode #Tunisie #mer #textile #industrie_textile #environnement #eau #pollution_marine

  • Espionnage des journalistes : la France fait bloc aux côtés de six États européens
    https://disclose.ngo/fr/article/espionnage-des-journalistes-la-france-fait-bloc-aux-cotes-de-six-etats-eur

    La France, l’Italie, la Finlande, la Grèce, Chypre, Malte et la Suède veulent torpiller la première loi européenne visant à protéger la liberté et l’indépendance des médias dans l’UE en militant activement pour autoriser la surveillance des journalistes, au nom de « la sécurité nationale », révèlent des documents obtenus par Disclose, en partenariat avec Investigate Europe et Follow the Money.

    Le bras de fer touche à sa fin. Depuis plus d’un an, un projet de loi sur la liberté des médias en Europe, l’European Media Freedom Act, fait l’objet de vives discussions à Bruxelles et Strasbourg. Dans ce texte censé garantir l’indépendance, la liberté et le pluralisme des médias, une disposition est au cœur des tensions entre les États membres et le Parlement européen : son article 4, qui concerne la protection des sources journalistiques, considérées comme l’une « des conditions fondamentales de la liberté de la presse » par la Cour européenne des droits humains. Sans cette protection, « le rôle vital de la presse comme gardien de la sphère publique risque d’être mis à mal ».

    #indépendance_des_médias

  • Sehjo Singh : « Le système des castes a besoin du patriarcat pour rester fort »

    En Inde, la déforestation et le patriarcat vont de pair ; par conséquent, le féminisme et l’écologie doivent également se construire ensemble

    Sehjo Singh fait partie de la Confluence des alternatives (en hindou, Vikalp de Sangam), une articulation d’organisations et de mouvements de défense de la nature, des communautés et de la souveraineté alimentaire en Inde. Sehjo a accordé cette interview lors de la 13e Rencontre internationale de la Marche mondiale des femmes, à Ankara, Turquie. Lors de la rencontre, la présence de délégations de pays asiatiques parmi les militantes du mouvement et les organisations alliées était significative.

    À l’occasion, Capire a parlé avec Sehjo de l’histoire de la construction du féminisme en Inde et des résistances et alternatives actuelles proposées par les femmes de la région. Selon Sehjo, les confrontations anti-patriarcales impliquent une critique du système des castes et de la lutte pour la terre, basée sur la réalité et les besoins des femmes populaires. Pour elle, la première bataille à mener est de reconnaître la centralité des agricultrices dans la production alimentaire et dans la garantie de la biodiversité : « Cela ne veut pas dire que les femmes contribuent – je dirais que ce sont les femmes qui la soutiennent ».

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/12/09/sehjo-singh-le-systeme-des-castes-a-besoin-du-

    #feminisme #inde

  • Caricatural, ultra-politisé : le grand n’importe quoi du nouveau #musée_d'Histoire de #Lyon

    Nous avons visité la nouvelle #exposition_permanente du #musée niché dans le vieux Lyon : un parcours déroutant, regorgeant de lacunes, défendant une vision de l’#histoire_engagée et surtout trompeuse.

    Le jour de notre visite, un dossier de presse le martèle, en #écriture_inclusive : le nouveau parcours du musée d’Histoire de Lyon, qui achevait samedi 2 décembre une réorganisation commencée en 2019, a été « co-construit », aussi bien avec des « expert.es » que des témoins et… « témouines », citoyens anonymes de Lyon. Une des conceptrices du musée le détaille : « On est allé en ville, on a posé des questions aux passants, à des jeunes qui faisaient du skate pour leur demander leur récit de la ville ». Un postulat de départ qui fait sourire autant qu’il inquiète et augure du sentiment qu’on éprouvera pendant toute la visite.

    Celle-ci tient par-dessus tout à s’éloigner de la si décriée approche chronologique. Une première salle « questionne » donc la ville, exposant pêle-mêle des objets touristiques ou sportifs récents (maillot de foot), sans enseignement apparent. Il faudra s’y faire : l’histoire n’est pas vraiment au centre du musée d’histoire. La fondation de la ville est évoquée au détour d’un panneau sur lequel un Lyonnais de l’Antiquité exhibe sa… Rolex. Une farce assumée par le musée, dont les guides nous préviennent que les anachronismes fleuriront tout au long des salles. On se mettrait à rire si le musée n’était pas destiné aux enfants aussi bien qu’aux adultes, avec la confusion que ces erreurs assumées entraîneront chez les premiers.
    L’homme blanc quasi absent de... l’industrie lyonnaise

    Les salles, justement, sont magnifiques dans cet hôtel de Gadagne, bâti au XVIe siècle. Mais l’architecture des lieux ne semble pas devoir nous intéresser : un tout petit cartel pour présenter une cheminée monumentale, puis plus rien. Les objets historiques sont rares et s’effacent au profit de montages photographiques et de récits (tous en écriture inclusive bien sûr) de quatre personnages fictifs censés raconter la ville : trois femmes nées à différents siècles, et Saïd, ouvrier devenu bénévole associatif. À l’étage suivant, une pirogue-vivier datée de 1540 trône quand même, dans une ambiance bleutée : c’est la partie consacrée au Rhône et à la Saône. Quelques (beaux) tableaux figurant des scènes de vie des deux fleuves sont exposés... à quelques centimètres du sol : cette seconde partie est dédiée aux enfants de cinq ans et l’on apprend que deux groupes de maternelle ont été consultés pour la concevoir. Des jeux ont été élaborés avec eux, « sans mauvaise réponse pour ne pas être moralisateurs » et parce que le musée est un avant tout un lieu d’amusement. Nous commençons à le croire.

    La suite de l’exposition permanente, qui aborde le sujet de l’industrie lyonnaise, prend toutefois un tour nettement plus désagréable, voire odieux. Voyons bien ce que nous voyons : une absence quasi totale de référence aux ouvriers masculins et blancs. Un métier à tisser inanimé constitue la seule preuve tangible de l’existence des canuts et une salopette vide accrochée au mur figure le prolétariat du XXe siècle. Une véritable provocation car les ouvrières sont elles bien mises en avant, et surtout les travailleurs immigrés. Le directeur, Xavier de La Selle, avait prévenu : « Le concept de Lyonnais de souche n’a aucun sens. » Un visiteur manquant de recul sortira de cette pièce convaincu que la ville n’a été construite que par le travail de femmes et de maghrébins. Le prisme social de l’histoire aurait pu présenter ici un réel intérêt : il est manipulé pour servir une vision politique qu’on ne peut qualifier autrement que de délirante.

    Et nous ne sommes pas au bout de ce délire : la dernière partie, celle qui vient d’être révélée au public, porte sur les « engagements » des Lyonnais. On entre ici dans un bric-à-brac stupéfiant, synthèse gauchiste assumée faisant de l’histoire politique de Lyon une sorte de grande convergence des luttes. Sur les murs et dans les vitrines, des nuages de mots à peu près tous synonymes de rébellion, des pancartes féministes, un haut-parleur, et même un objet sordide : un fait-tout utilisé par une avorteuse locale, célèbre semble-t-il, qui y stérilisait ses ustensiles médicaux mais y cuisait aussi ses pâtes. Le père Delorme, prêtre connu pour avoir organisé en 1983 une grande marche contre le racisme, est abondamment glorifié. Rappelons qu’en matière de religion, le musée ne nous a toujours pas expliqué pourquoi et quand fut construite la basilique de Fourvière ! L’autre référence au catholicisme dans la ville est celle du Sac de Lyon par les calvinistes, une œuvre de bois peint de 1565 décrivant des scènes de pillage, un bûcher d’objets liturgiques, des moines chassés. Son intérêt historique est toutefois anéanti par le commentaire de notre guide, qui n’y voit « pas du tout une scène violente ».

    Désacralisation du savoir

    À ce stade, le musée d’Histoire de Lyon réussit son pari : il n’est plus qu’un divertissement. On aborde une salle qui couvre à rebours la crise algérienne, la Seconde Guerre mondiale et enfin la Révolution. Cette dernière ne fait l’objet que d’un panneau succinct. Le musée est-il ennuyé de devoir évoquer plus en détail les tendances contre-révolutionnaires de Lyon ? À propos de Joseph Chalier, qui avait mis en place une dictature sanguinaire dans la ville avant d’être renversé par le peuple en 1793, un commentaire : « Certains l’ont considéré comme un martyr de la liberté. » L’homme avait commandé la première guillotine à Lyon et préconisait de l’installer sur le pont Morand afin que « les têtes tombent directement dans le Rhône »... Le principal historien consulté sur cette époque, Paul Chopelin, est entre autres fonctions président de la Société des études robespierristes. Enfin, une galerie des grandes figures de l’histoire lyonnaise conclut ce drôle de parcours. Miracle : il s’y trouve presque autant de femmes que d’hommes. Quitte à ce que la première conseillère municipale féminine y tienne la même place qu’Édouard Herriot, maire pendant près d’un demi-siècle. Pas de portrait de Raymond Barre en revanche, mais une lettre anonyme fièrement disposée, le qualifiant de « peu regretté [maire], qui de toute sa carrière s’est bien peu occupé du sort de ceux que son système économique met de côté ».

    Tirons un bilan positif : il n’est pas donné à tout amateur d’histoire d’expérimenter une telle distorsion, une telle désacralisation du savoir. Aux inventions « pédagogiques » en vogue, pour certaines réussies mais souvent inutiles, le musée d’histoire de Lyon ajoute un militantisme qui laisse pantois, et ignore des pans entiers de l’histoire lyonnaise, ne faisant qu’effleurer le reste. L’équipe du musée est certes enthousiaste, convaincue de bien faire, mais s’est méprise sur la notion d’engagement. Plus qu’une déception, pour une structure qui emploie 50 personnes (et exploite aussi un musée de la marionnette et de guignol, peut-être moins amusant) avec un budget annuel d’environ 3 millions d’euros. Son projet scientifique et culturel, validé par l’État, bénéficie du plein soutien de l’actuelle mairie : le maire Grégory Doucet (EELV) se dit ainsi « admiratif du travail colossal » des équipes du musée d’une ville « profondément humaine, tissée par les lumières du monde ». Un tissu, oui, mais pas vraiment de lumière.

    https://www.lefigaro.fr/histoire/mensonger-ultra-politise-le-grand-n-importe-quoi-du-nouveau-musee-d-histoir

    Mots-clé tirés de l’article et de la vidéo :
    #wokisme #woke #révolution_culturelle_woke #intersectionnalité #affaire_de_Grenoble #militantisme #militants_extrémistes #ségrégationnisme #séparatisme #pride_radicale #non-mixité #genre #panique_morale #anti-wokisme #universalisme #universités #culture #films #imaginaire #civilisation_occidentale #industrie_lyonnaise #woke-washing #engagement #père_Delorme #1983 #Marche_pour_l'égalité_et_contre_le_racisme #planning_familial #catholicisme #racisme_systémique #Sac_de_Lyon #divertissement #Joseph_Chalier #histoire #Paul_Chopelin #militantisme

    Les invité·es :

    1. #Nora_Bussigny, autrice de ce #livre :
    Les Nouveaux Inquisiteurs


    https://www.albin-michel.fr/les-nouveaux-inquisiteurs-9782226476951

    2. #Pierre_Valentin, auteur de ce livre :
    L’#idéologie_woke. Anatomie du wokisme


    https://www.fondapol.org/etude/lideologie-woke-1-anatomie-du-wokisme

    3. #Samuel_Fitoussi :
    https://www.wikiberal.org/wiki/Samuel_Fitoussi
    (et je découvre au même temps « wikilibéral »)
    –-> qui parle notamment du film #Barbie (min 18’30)

    https://www.fondapol.org/etude/lideologie-woke-1-anatomie-du-wokisme

  • Des chèques qui sauvent des vies - Québec Science
    https://www.quebecscience.qc.ca/societe/des-cheques-qui-sauvent-des-vies

    Comment lutter contre la pauvreté extrême dans les pays en développement ? En donnant de l’argent aux pauvres, tout simplement ! Si l’aide sociale existe depuis des décennies dans plusieurs pays industrialisés (depuis 1970 au Québec), une centaine de pays à revenu faible et moyen offrent maintenant des allocations ou des pensions de vieillesse aux personnes les plus démunies, qui peuvent ainsi répondre à leurs besoins essentiels comme elles l’entendent.

    Ainsi, depuis 2006, au Pérou, tous les ménages pauvres comptant au moins une femme enceinte ou un enfant reçoivent 100 soles (35 $ CA) par mois. En Haïti, le programme Ti Manman Cheri, fondé en 2013, vire chaque trimestre 1000 gourdes (10 $) aux familles admissibles, pour chaque enfant qui fréquente l’école primaire. Au Sénégal, les ménages vulnérables reçoivent 25 000 francs CFA (54 $) tous les trois mois, un programme fondé en 2014. Parfois assortis de conditions – comme envoyer son enfant à l’école ou le faire vacciner –, ces modestes paiements constituent souvent le seul filet de protection sociale.

    Les effets socioéconomiques de ces mesures – sur l’indépendance économique, l’autonomisation des femmes ou la sécurité alimentaire, par exemple – ont fait l’objet de plusieurs études. Leurs bénéfices pour la santé publique ne sont cependant pas encore reconnus à leur juste valeur, soutient Aaron Richterman, médecin et professeur à la division des maladies infectieuses de l’hôpital de l’Université de Pennsylvanie. Dans deux études récentes, ses collègues et lui ont montré que les programmes de transferts d’argent diminuent la mortalité chez les femmes et les enfants de cinq ans et moins, en plus de lutter efficacement contre l’épidémie de VIH.

  • L’augmentation du #chiffre_d’affaires issu des ventes d’#armes du Top 100 du #SIPRI impactée par des défis de production et des carnets de commandes remplis

    Le chiffre d’affaires issu des #ventes_d’armes et de services à caractère militaire par les 100 plus grandes entreprises d’#armement s’élève à 597 milliards de dollars en 2022, soit 3,5 % de moins qu’en 2021 en termes réels, alors même que la demande a fortement augmenté. C’est ce que révèlent les nouvelles données publiées aujourd’hui par le Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).

    Cette diminution s’explique principalement par la baisse du chiffre d’affaires issu des ventes d’armes des plus grandes entreprises américaines. Le chiffre d’affaires a augmenté de manière significative en Asie, Océanie et au Moyen-Orient. Les commandes en cours et la multiplication de nouveaux contrats laissent présager que le chiffre d’affaires mondial issu des ventes d’armes pourrait augmenter de manière significative au cours des prochaines années.

    La demande en armement augmente mais la #production reste à la traîne

    L’invasion à grande échelle de l’Ukraine par la Russie et les tensions géopolitiques dans le monde ont provoqué une forte augmentation de la demande d’armes et d’équipements militaires en 2022. Cependant, malgré de nouvelles commandes, de nombreuses entreprises d’armement américaines et européennes n’ont pas pu augmenter de manière significative leur capacité de production en raison de difficultés de recrutement, de flambée des coûts et de perturbations dans les chaînes d’approvisionnement exacerbées par la #guerre_en_Ukraine. En outre, les pays ont passé de nouvelles commandes en fin d’année et en raison du décalage entre les commandes et la production, l’augmentation de la demande ne s’est pas reflétée dans le chiffre d’affaires de ces entreprises en 2022.

    « De nombreuses entreprises d’armement ont été confrontées à des obstacles pour adapter leur production en vue d’une guerre de haute intensité », souligne Dr Lucie Béraud-Sudreau, directrice du programme Dépenses militaires et Production d’armes du SIPRI. « Toutefois, de nouveaux contrats ont été signés notamment pour des #munitions, ce qui devrait se traduire par une hausse du chiffre d’affaires en 2023 et au-delà. » Contrairement aux plus grands fournisseurs américains et européens, les entreprises d’Asie, d’Océanie et du Moyen-Orient ont vu leur chiffre d’affaires issu des ventes d’armes augmenter de manière significative en 2022, démontrant ainsi leur capacité à répondre à une demande accrue dans des délais plus courts. Cela est particulièrement vrai dans les pays où les entreprises disposent de capacités de fabrication réactives et compétitives, comme #Israël et la #Corée_du_Sud, et dans ceux où les entreprises ont tendance à s’appuyer sur des chaînes d’approvisionnement courtes.

    Aux États-Unis, le chiffre d’affaires issu des ventes d’armes chute en raison de problèmes de production

    Le chiffre d’affaires issu des ventes d’armes des 42 entreprises américaines du Top 100 a chuté de 7,9 % pour atteindre 302 milliards de dollars en 2022. Il représente 51 % du chiffre d’affaires total issu des ventes d’armes du Top 100. Sur les 42 entreprises américaines, 32 ont enregistré une baisse de leur chiffre d’affaires sur un an, citant le plus souvent des problèmes persistants dans la chaîne d’approvisionnement et des pénuries de main-d’œuvre résultant de la pandémie de Covid-19.

    « On constate un afflux de nouvelles commandes liées à la guerre en Ukraine et certaines grandes entreprises américaines, dont #Lockheed_Martin et #Raytheon_Technologies, ont reçu de nouvelles commandes en conséquence », précise Dr Nan Tian, chercheur principal au SIPRI. « Cependant, en raison des carnets de commandes déjà existants de ces entreprises et des difficultés à augmenter leur capacité de production, les revenus générés par ces nouvelles commandes ne se refléteront dans les comptes de l’entreprise probablement que d’ici deux à trois ans. »

    L’#Asie surpasse l’#Europe tirée par un phénomène de #modernisation_militaire

    Le chiffre d’affaire issu des ventes d’armes des 22 entreprises d’Asie et d’Océanie répertoriées dans le classement a augmenté de 3,1 % pour atteindre 134 milliards de dollars en 2022. Il s’agit de la deuxième année consécutive où le chiffre d’affaires issu des ventes d’armes des entreprises du Top 100 situées en Asie et en Océanie est supérieur à celui des entreprises situées en Europe.

    « La demande intérieure et l’appui sur des fournisseurs locaux ont protégé les entreprises d’armement asiatiques des perturbations dans la chaîne d’approvisionnement en 2022 », explique Xiao Liang, chercheur au programme Dépenses militaires et Production d’armes du SIPRI. « Les entreprises en #Chine, en #Inde, au #Japon et à Taïwan ont toutes bénéficié d’investissements gouvernementaux soutenus dans le cadre des programmes de modernisation militaire. »

    Le #chiffre_d’affaires combiné des quatre entreprises sud-coréennes du Top 100 a chuté de 0,9 %, principalement en raison d’une baisse de 8,5 % enregistrée par le plus grand producteur d’armes du pays, #Hanwha_Aerospace. Deux entreprises sud-coréennes ont enregistré une augmentation de leur chiffre d’affaires, notamment #LIG_Nex1. Les entreprises sud-coréennes devraient connaître un accroissement de leur chiffre d’affaires dans les années à venir en raison d’une augmentation des commandes enregistrées après la signature d’importants contrats d’armement avec la Pologne et les Émirats arabes unis.

    Augmentation modeste du chiffre d’affaires en Europe alors que la demande liée à l’Ukraine commence à affluer

    Le chiffre d’affaires issu des ventes d’armes des 26 entreprises du Top 100 basées en Europe a augmenté de 0,9 % pour atteindre 121 milliards de dollars en 2022.

    « La guerre en Ukraine a entraîné une demande de matériel adapté à une guerre d’usure, comme les munitions et les véhicules blindés. De nombreux producteurs européens ont vu leur chiffre d’affaires augmenter », souligne Lorenzo Scarazzato, chercheur au programme Dépenses militaires et Production d’armes du SIPRI. « Il s’agit notamment d’entreprises basées en #Allemagne, en #Norvège et en #Pologne. Par exemple, la société polonaise #PGZ a augmenté son chiffre d’affaires de 14 %, bénéficiant du programme accéléré de modernisation militaire que le pays poursuit. »

    Les sociétés transeuropéennes #Airbus et #KNDS comptent parmi les principales sources d’augmentation du chiffre d’affaires issu des ventes d’armes en Europe, en grande partie grâce aux livraisons effectuées sur des commandes de longue date.

    Les entreprises turques mènent une augmentation significative du chiffre d’affaires issu des ventes d’armes au Moyen-Orient

    Le Moyen-Orient a connu la plus forte augmentation en pourcentage du chiffre d’affaires issu des ventes d’armes de toutes les régions en 2022. Les sept entreprises basées au Moyen-Orient figurant dans le Top 100 ont enregistré une augmentation substantielle. Leur chiffre d’affaires combiné de 17,9 milliards de dollars représente une augmentation de 11 % sur un an. Le chiffre d’affaires combiné des quatre entreprises turques a atteint 5,5 milliards de dollars, soit 22 % de plus qu’en 2021. Le chiffre d’affaires combiné des trois entreprises israéliennes du Top 100 a atteint 12,4 milliards de dollars en 2022, soit une augmentation de 6,5 % par rapport à 2021.

    « Les entreprises du Moyen-Orient spécialisées dans des produits moins sophistiqués sur le plan technologique ont pu augmenter leur production plus rapidement afin de répondre à l’augmentation de la demande », précise Dr Diego Lopes da Silva, chercheur principal au SIPRI. « L’exemple le plus frappant est celui de #Baykar, en Turquie, producteur du #drone #Bayraktar_TB-2. Baykar est entré dans le Top 100 pour la première fois en raison de l’augmentation de son chiffre d’affaires issu des ventes d’armes de 94 %, soit le taux d’augmentation le plus rapide de toutes les entreprises du classement. »

    Autres développements notables

    - En 2022, la Chine représente la deuxième plus grande part du chiffre d’affaires par pays du Top 100, soit 18 %. Le chiffre d’affaires issu des ventes d’armes combiné des huit entreprises d’armement chinoises du Top 100 a augmenté de 2,7 % pour atteindre 108 milliards de dollars.
    - Le chiffre d’affaires issus des ventes d’armes des sept entreprises britanniques dans le Top 100 ont augmenté de 2,6 % pour atteindre 41,8 milliards de dollars, soit 7,0 % du total.
    - En raison du manque de données, seules deux entreprises russes ont été incluses dans le Top 100 pour 2022. Leur chiffre d’affaires combiné a chuté de 12 %, à 20,8 milliards de dollars. La transparence des entreprises russes continue de régresser. Bien qu’il s’agisse d’une holding, sans capacité de production directe, #Rostec est incluse dans le Top 100 de 2022 en tant que mandataire des entreprises qu’elle contrôle.
    - La seule entreprise ukrainienne figurant dans le Top 100, #UkrOboronProm, a vu son chiffre d’affaires issu des ventes d’armes chuter de 10 % en termes réels, à 1,3 milliard de dollars. Bien que son chiffre d’affaires ait augmenté en termes nominaux, cela a été compensé par la forte inflation du pays.

    À l’attention des rédacteurs

    À propos de la base de données du SIPRI sur l’industrie de l’armement

    La base de données du SIPRI sur l’industrie de l’armement a été créée en 1989. À cette époque, elle excluait les données des entreprises installées en Chine, en Union soviétique et en Europe de l’Est. La version actuelle contient des données pour 2002-2022, y compris des données sur les entreprises russes. Les entreprises chinoises sont incluses à partir de 2015.
    Le « chiffre d’affaires issu des ventes d’armes » fait référence au chiffre d’affaires généré par la vente de biens et de services à caractère militaire à des clients militaires nationaux et étrangers. Sauf indication contraire, tous les changements sont exprimés en termes réels et tous les chiffres sont donnés en dollars américains constants de 2022. Les comparaisons entre 2021 et 2022 sont basées sur la liste des entreprises du classement 2022 (c’est-à-dire que la comparaison annuelle s’effectue entre le même ensemble d’entreprises). Les comparaisons à plus long terme sont basées sur des ensembles d’entreprises listées au cours de l’année respective (c’est-à-dire que la comparaison porte sur des listes différentes d’entreprises).

    La base de données du SIPRI sur l’industrie de l’armement, qui présente un ensemble de données plus détaillées pour les années 2002 à 2022, est disponible sur le site Web du SIPRI : https://www.sipri.org/databases/armsindustry

    https://www.obsarm.info/spip.php?article631

    #industrie_de_l'armement #rapport #chiffres #statistiques #USA #Etats-Unis #business #Turquie

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1029978

  • L’Inexploré - Pierre Legendre
    https://www.youtube.com/watch?v=8zkdFbCeRLU

    Pierre Legendre, à l’écart du brouhaha médiatique et des idéologies à la mode, a tracé patiemment, sur plus de soixante ans, le chemin de l’anthropologie dogmatique. Il est revenu, en la maison qui l’a accueilli dans ses premières années d’étude des manuscrits médiévaux, l’École des chartes, pour livrer « à la jeunesse désireuse des lois » le suc de son labeur.

    Dans le droit fil de « De la Société comme texte » (2001) et en résonance avec ses conférences données au Japon en 2004 « Ce que l’Occident ne voit pas de l’Occident », dans un style dépouillé, Pierre Legendre découvre ce qui fait tenir debout, enlacés, l’humain et la société. Quel meilleur guide que Piero della Francesca pour ouvrir nos yeux à l’invisible ?

    https://arsdogmatica.com

    #chrétienté #anthropologie_dogmatique #langue #institution #civilisation #montage #scène #individu #personne #fiction #Piero_della_Francesca #principe_de_réalité #religion #ritualité #pacte_dogmatique #faille_institutionnelle #modernité #droit_naturel #droit_romain #occident #papauté #activisme_juridique #contrat #protestantisme #universalisme_politique #impératif_libéral #révolution_protestante #révolutions #Europe #narration_totémique #chorégraphie #logiques_contraires #tiers-terme

  • L’augmentation du chiffre d’affaires issu des ventes d’armes du Top 100 du SIPRI impactée par des défis de production et des carnets de commandes remplis
    https://www.obsarm.info/spip.php?article631

    Le chiffre d’affaires issu des ventes d’armes et de services à caractère militaire par les 100 plus grandes entreprises d’armement s’élève à 597 milliards de dollars en 2022 #Armements

    / #Industrie_d'armement, Transferts / exportations, #Coopération_industrielle, #La_une

    #Transferts_/_exportations
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/arms_production_pr_2023_fre.pdf

  • Chômage : le gouvernement charge les seniors pour justifier son échec
    https://www.humanite.fr/social-et-economie/assurance-chomage/chomage-le-gouvernement-charge-les-seniors-pour-justifier-son-echec

    Les demandeurs d’emploi #seniors sont plus que jamais dans le viseur. Lundi, le gouvernement a confirmé qu’il n’allait pas agréer en l’état la nouvelle convention d’#assurance-chômage issue de l’accord entre le patronat, la CFDT, FO et la CFTC, le 10 novembre, envisageant plutôt de prolonger les règles actuelles par décret jusqu’en juin. L’exécutif veut en effet attendre l’aboutissement de la négociation sur l’#emploi_des_seniors qui devrait démarrer d’ici peu.

    Dans un document envoyé aux syndicats et au patronat, le gouvernement annonce viser un taux d’emploi des 60-64 ans de 65 % (contre 33 % aujourd’hui) à l’horizon 2030, notamment en aménageant les fins de carrière ou en renforçant la formation professionnelle.

    « Si on ne secoue pas les puces »

    Les mesures concernant l’#indemnisation des quinquagénaires seront également abordées dans cette discussion, même si l’accord régressif sur l’assurance-chômage prévoit déjà 440 millions d’euros d’économies à réaliser sur leur dos pour la période 2024-2027.

    Mais, sans attendre, la semaine passée, le ministre de l’Économie Bruno Le Maire avait déjà prévenu qu’il souhaitait abaisser la durée d’indemnisation pour les plus 55 ans, pointant le fait qu’elle dure « vingt-sept mois » à cet âge contre « dix-huit mois pour les chômeurs plus jeunes », avait-il déclaré sur franceinfo.

    Une façon selon lui « de mettre à la retraite de manière anticipée les plus de 55 ans ». Pour le ministre : _« Si on ne secoue pas les puces, il n’y aura pas 5 % de taux de chômage en fin de quinquennat, soit le #plein-emploi_ (contre 7,4 % aujourd’hui NDLR). »

    Cinq millions de chômeurs

    Si le gouvernement multiplie les déclarations tonitruantes et stigmatisantes, c’est que les statistiques du #chômage continuent de remonter en flèche depuis deux trimestres consécutifs, selon l’Insee. Une tendance confirmée par les dernières statistiques de la Dares, parues ce lundi.

    En incluant les chômeurs n’ayant pas travaillé (catégorie A) et ceux en activité réduite (catégories B et C), le nombre de demandeurs d’emploi en France (hors Mayotte) augmente de 0,29 % (+15 800) par rapport à septembre et s’établit à 5,377 millions.

    Le nombre d’inscrits de 50 ans et plus, traditionnellement élevé, est de 1,39 million en octobre, contre 1,38 million en septembre. Ils sont 835 800 âgés de 50 ans et plus à être présents sur les listes de Pôle emploi en octobre depuis un an ou plus, en légère hausse par rapport à septembre.

    Plutôt que de remettre en cause sa politique axée sur la #précarisation de l’#emploi, qui risque de frapper encore plus fort les seniors à l’avenir avec la récente #réforme_des_retraites, le gouvernement persiste à réduire leurs droits.

    Dernière trouvaille, selon les informations de la Tribune dimanche, la première ministre Élisabeth Borne envisagerait désormais de limiter les #ruptures_conventionnelles, qui explosent entre 55 et 60 ans faisant office de #préretraite déguisée, en pointant une nouvelle fois du doigt les bénéficiaires. Mais sans lutter contre les discriminations liées à l’âge chez les employeurs, souvent prompts à se débarrasser des salariés les plus matures.

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • La Caf des Landes condamnée pour avoir mis fin au RSA d’allocataires après un contrôle | StreetPress
    https://www.streetpress.com/sujet/1701427927-caf-landes-condamnee-rsa-allocataires-controle-aides-pauvret

    « Après des contrôles, il arrive que certaines Caf coupent le RSA à titre presque punitif et ne le rétablissent jamais ensuite », dénonce Maître Terrasson. D’après lui, il s’agit de mesures « illégales, vexatoires et humiliantes » :

    « D’éventuelles irrégularités déclaratives ne justifient en rien qu’il soit mis fin à des prestations de survie. Le RSA est un droit, pas une aumône. »

    L’autre problème, selon l’avocat, est le manque de précision comptable de l’institution qui ne justifie jamais les sommes qu’elle réclame. « La Caf est incapable d’avoir la précision qu’elle exige pourtant d’allocataires dans le besoin ! » tonne-t-il. Il n’est pas rare qu’elle récupère plus que ce qu’elle ne devrait, et se fasse ainsi de l’argent sur le dos des plus précaires. Ce qui s’expliquerait justement par le fait que les allocataires ne font que très rarement valoir leurs droits.

    • Le 13 novembre 2023, le tribunal administratif de Pau a jugé que la Caf n’avait pas à suspendre les aides d’un couple d’allocataires vivant sous le seuil de pauvreté.
      Magali et Serge, 48 ans, sans-emploi tous les deux, et leur fils de 22 ans, ont l’habitude de vivre avec presque rien. La famille remplit régulièrement son frigo aux Restos du Cœur. Dans son modeste appartement à Mont-de-Marsan, dans les Landes (40), elle n’a plus d’eau chaude ni de chauffage depuis un an, la faute à une dette de 4.000 euros auprès d’EDF. Tout a encore empiré depuis un contrôle de la caisse d’allocations familiales (Caf), en avril dernier. Depuis cette date, l’organisme leur réclame un trop-perçu de 17.722 euros qui a entraîné la suspension du revenu de solidarité active (RSA) de Serge et la baisse des allocations personnalisées au logement (APL) de Magali. Ils doivent désormais plus de 5.000 euros à leur fournisseur d’électricité, ne sortent même plus pour aller à la plage car il faudrait payer un ticket de bus et se demandent comment nourrir leurs deux chats.

      Alors, le 13 novembre 2023, en apprenant la décision du Tribunal administratif de Pau, ils ont eu l’impression de sortir un tout petit peu la tête de l’eau. Dans le cadre d’une procédure d’urgence, le juge des référés a estimé que la Caf des Landes n’avait pas le droit de mettre fin au RSA de Serge, le couple ayant des ressources inférieures au seuil de pauvreté. « C’était un gros gros soulagement », souffle Magali, la voix tremblante à travers le téléphone. « Les allocataires pensent souvent, à tort, que la Caf est toute puissante, mais cela prouve que les tribunaux peuvent encore être des garde-fous », estime leur avocat Clément Terrasson qui souligne une décision « rare ». En outre, la juridiction reproche à l’organisme de protection sociale d’avoir effectué des retenues sur leurs aides avant même d’avoir étudié les #recours des allocataires, pourtant faits dans les délais.

      Une affaire banale pour des allocataires de la CAF

      « C’est une affaire triste mais on ne peut plus banale », note maître Clément Terrasson. Comme StreetPress l’a raconté dans un précédent article, les #trop-perçus touchent des millions d’allocataires de la Caf ou de #Pôle Emploi souvent en raison d’une erreur de l’organisme, parfois à tort.

      Après avoir enchaîné les petits boulots, Magali a dû arrêter de travailler à cause d’une d’une polyarthrite rhumatoïde, une maladie auto-immune qui atteint les articulations. Depuis dix ans, la quadragénaire touche une pension d’#invalidité d’environ 430 euros par mois. Quant à Serge, auteur de quelques ouvrages sur le rock, il a perdu son emploi alimentaire dans une station-service et n’a plus le chômage depuis 2020. L’écrivain occasionnel touche un RSA de 450. À cela s’ajoutent des #APL de plus de 300 euros. Devant les juges, ils estiment vivre à trois avec 1.300 euros d’aides, dont 600 euros partent dans leur loyer.

      Le 5 avril 2023, une agent de la Caf se présente chez Magali et Serge pour un #contrôle, après leur avoir demandé de préparer des documents comme leurs relevés bancaires et leurs avis de non-imposition. Après avoir feuilleté leur dossier, la salariée de la Caf les informe qu’ils n’ont pas déclaré les aides familiales, conséquentes, qu’ils ont reçues ni les droits d’auteurs de Serge – autour de 250 euros en trois ans. Elle leur annonce qu’ils vont passer en « commission fraude ». « J’étais en larmes et j’ai eu l’impression que ça l’agaçait », se souvient Magali, qui s’est sentie humiliée. Elle assure :

      « Pour les anniversaires ou à Noël, ma famille nous envoie de l’argent pour nous aider… Je ne savais qu’il fallait déclarer ce qu’on touchait d’aide familiale ! » [mieux vaut éviter : en espèces, par mandat, ou par l’entremise d’un prête nom sans dossier Caf, ndc]
      Vingt jours plus tard, le RSA de Serge est interrompu et sur le site de la Caf, le couple découvre qu’il doit un total de 17.723 euros. Le 5 juin 2023, ils font un recours administratif préalable contre ces décisions, qui n’est jamais pris en compte.

      La famille est détruite

      « On n’a jamais eu énormément d’argent. Mais là, ça nous a détruits. C’est un peu comme si, quand on est pauvre, on ne peut jamais s’en sortir… » s’exaspère Magali. La maman en situation de handicap dit être tombée dans un état dépressif sévère avec l’envie de « passer à l’acte ».

      Au-delà des sommes qui représentent une véritable épée de Damoclès pour les allocataires touchés par un tel contrôle, c’est l’accusation de #fraude qui la heurte. Elle se souvient d’une conversation particulièrement blessante avec une #assistante_sociale du département. « Elle m’a dit que je vivais au crochet de la société depuis trop longtemps et qu’on allait me remettre au travail » , raconte Magali :

      « Quand on entend des choses sur les #fraudeurs à la télé, on ne se rend pas compte qu’on peut rentrer dans cette case. On n’a escroqué personne, on ne s’est pas enrichis… On n’a même pas de four à micro-ondes ! On essayait juste de survivre dans un quotidien un peu compliqué. »

      Le tribunal pour obliger la Caf à rendre des comptes

      La mère de famille, qui milite au sein de la #CGT_chômeurs et précaires, en parle à ses copains syndicalistes. C’est grâce à l’un d’eux qu’elle est mise en relation avec l’avocat Clément Terrasson, qui a fait de l’aide aux #allocataires de la Caf l’une de ses spécialités. Avec son conjoint, Magali décide de se battre pour leurs droits devant la justice. « J’ai eu l’impression d’avoir été piégée et qu’ils ne s’attendaient pas à ce qu’on se défende », dit-elle.

      [passage cité au-dessus]

      Le combat judiciaire du couple des Landes n’est pas fini. Si Serge devrait récupérer son #RSA dans quelques jours, la décision en référé est une mesure d’urgence et le jugement final aura lieu dans environ un an et demi. Magali conclut :

      « Je suis contente d’avoir gagné. Maintenant, on sait que c’est possible et qu’ils ne peuvent pas faire n’importe quoi. »

      #indus #droit #Caf #précaires #data_mining #société_punitive

  • #TotalÉnergies : la #carte des #projets qui vont faire flamber le climat

    La date choisie n’est pas anodine : le 18 mai 2021 coïncide avec la parution du rapport Net Zero 2050 de l’Agence internationale de l’énergie (AIE). Ce document, réalisé par une organisation intergouvernementale qui défend la soutenabilité énergétique de la planète, préconisait l’arrêt immédiat du développement ou de l’extension de tout nouveau projet pétrogazier afin de contenir le réchauffement global des températures mondiales en dessous de 1,5 °C. Fixé par les scientifiques, ce seuil permettrait d’éviter un niveau insoutenable de réchauffement, qui se traduirait par la multiplication des catastrophes naturelles. Dix jours plus tard, le 28 mai, lors de l’assemblée générale de TotalÉnergies, son PDG, Patrick Pouyanné, avait assuré vouloir transformer le groupe en « une major de l’énergie verte » pour faire face à « la révolution énergétique en cours ». Pour marquer son ambition, l’entreprise Total s’était rebaptisée TotalÉnergies.
    Feu vert pour treize projets

    Depuis, il n’y a pourtant pas eu de tournant vert, encore moins de révolution. Bien au contraire.

    Comme le montre la carte de Reporterre, TotalÉnergies a annoncé ou reçu une « décision finale d’investissement », ce qui correspond à un feu vert pour lancer la production d’hydrocarbures, pour au moins treize nouveaux projets fossiles dont la compagnie française est l’opératrice ou l’actionnaire.

    Le 1er février 2022, elle a par exemple annoncé sa décision finale d’investir dans le forage de 400 puits dans le cadre des projets pétroliers de Tilenga et Kingfisher en Ouganda, rattachés à l’oléoduc East African Crude Oil Pipeline (Eacop), long de 1 440 kilomètres. Ils devraient rentrer en production en 2025 et atteindre une production cumulée de 230 000 barils par jour.
    Au moins une gigatonne de CO2 supplémentaire

    Quelques mois plus tôt, elle avait officialisé le lancement de la quatrième phase du projet Mero, situé en eaux profondes à 180 kilomètres des côtes de Rio de Janeiro, dans le bassin de Santos : une unité flottante de production d’une capacité de traitement liquide de 180 000 barils par jour. Son démarrage est prévu d’ici à 2025.

    Si l’on en croit les données du cabinet Rystad Energy, une société indépendante de recherche énergétique et de veille économique, communiquées à Reporterre par l’ONG Reclaim Finance, le projet North Field South, au Qatar, a obtenu sa décision finale d’investissement en 2023. Celui-ci fait partie de l’ensemble de projets North Field, pour lesquels TotalÉnergies a été sélectionné comme premier partenaire international de Qatar Energy, leur opérateur. Ils constituent, selon le Guardian et les scientifiques de l’université de Leeds, la troisième plus grosse « bombe carbone » au monde, et la première à ne pas déjà être en exploitation.

    Au total, si l’intégralité du pétrole et du gaz des projets validés par TotalÉnergies depuis mai 2021 était brûlée, cela représenterait au minimum une gigatonne de CO2 supplémentaire rejetée dans l’atmosphère. C’est 2,5 fois plus que les émissions annuelles de gaz à effet de serre de la France. L’estimation des émissions par projet provient des calculs estimatifs réalisés par Reporterre via les métriques King.
    Seize projets dans les starting blocks

    Le groupe français était, en 2022, la troisième firme mondiale ayant approuvé le plus de nouveaux projets pétrogaziers. Il était même la première entreprise privée, derrière les sociétés publiques saoudienne et iranienne.

    Reporterre a fait le choix de ne pas retenir, dans sa carte et ses calculs d’émissions, les projets ayant obtenu une décision finale d’investissement avant le 18 mai 2021, même s’ils sont entrés en phase de production entre temps. N’y figure pas, par exemple, le projet North Field East, que Total a rejoint en juin 2022, mais qui avait reçu sa décision finale d’investissement en février 2021.

    Nous avons aussi trouvé seize autres projets, au minimum, qui sont dans les starting blocks, en attente d’une décision finale d’investissement. Celle du projet d’extraction et d’exportation de gaz Papua LNG est prévue pour le début de 2024 en Papouasie-Nouvelle-Guinée. Feu vert serait alors donné à l’installation de neuf puits, d’une usine de traitement du gaz, d’un gazoduc long de 320 kilomètres — majoritairement offshore — et de quatre trains de liquéfaction. La production, à hauteur de 6 millions de tonnes de gaz liquéfié par an, pourrait démarrer fin 2027 ou début 2028. « C’est une catastrophe pour les communautés papouasiennes, qui ont déjà les pieds dans l’eau », déclarait à Reporterre Peter Bosip, représentant du Centre pour les droits communautaires et la loi environnementale (Celcor), une ONG locale.

    « TotalÉnergies méprise autant les conclusions et recommandations scientifiques que la vie des citoyens »

    Signe d’une volonté inépuisable de poursuivre la production d’énergies fossiles, nous avons aussi relevé une soixantaine de projets d’exploration de nouveaux gisements pétrogaziers de la part de TotalÉnergies. Nous avons décidé de ne pas faire figurer les projets pour lesquels l’exploration n’a pas été probante et sur lesquels il est de notoriété publique que TotalÉnergies compte se retirer. Ces résultats sont corroborés par le rapport « Global Oil and Gas Exit List » publié le 15 novembre par l’ONG allemande Urgewald, qui montre que la compagnie française est celle qui explore ou développe de nouveaux champs dans le plus grand nombre de pays : 53.

    « Avec ces nouveaux projets pétroliers et gaziers, TotalÉnergies méprise autant les conclusions et recommandations scientifiques internationales que la vie des citoyens, dénonce Hadrien Goux, chargé de recherche et de plaidoyer carbone pour Bloom. Elle a pour réponse systématique que l’entreprise sera « neutre en carbone » à l’horizon 2050, laissant entendre que cela constitue un engagement suffisant, mais c’est faux : elle omet la nécessité de réduire ses émissions de CO2 de 45% d’ici 2030. Continuer d’investir dans les hydrocarbures est un choix criminel. »

    Le Programme de l’ONU pour l’environnement (PNUE), dans son rapport publié le 20 novembre sur l’écart entre les besoins et les perspectives en matière de réduction des émissions, pointe un décalage entre l’urgence climatique et les actions actuellement menées. Son constat est proche de celui contenu dans « l’avertissement » de Total : il montre que le monde va faire face à un réchauffement de 2,5 °C à 2,9 °C d’ici 2100.

    Mais, tandis que TotalÉnergies continue d’aller chercher du #gaz et du pétrole dans les sols, le secrétaire général de l’ONU, António Guterres, a une autre analyse. Il appelle à arracher d’urgence « les racines empoisonnées de la crise climatique : les énergies fossiles ».

    #visualisation #cartographie #industrie_pétrolière #énergie #énergies_fossiles #projets_pétroliers #pétrole #monde

  • Livret A : Non au financement de l’armement • Oui au financement du logement social et de la transition écologique
    https://www.obsarm.info/spip.php?article630

    Débat au Sénat du projet de loi de finances pour 2024. L’Observatoire des #Armements s’est associé à la demande de suppression de l’amendement intégré dans qui permet le détournement des fonds du Livret A et du LDDS, au profit du financement de l’industrie d’armement. Armements

    / #Industrie_d'armement, #Actions_contre_la_guerre, #Opinion_publique, #La_une, Dépenses militaires / Budgets, #Communiqué_de_presse

    #Dépenses_militaires_/_Budgets