• Mort d’#Adam et #Raihane : les incohérences de la version policière révélées

    En août 2022 à #Vénissieux, deux jeunes hommes étaient tués par des tirs policiers sur un véhicule signalé volé. Les policiers ont justifié leur usage des armes en invoquant la #légitime_défense : l’un des agents aurait tiré cinq fois alors qu’il se trouvait embarqué sur le capot du véhicule en fuite. Reconstitution 3D à l’appui, la contre-enquête d’INDEX révèle les failles de ce récit.

    Dans la nuit du 18 au 19 août 2022, une intervention de police sur le parking de l’hypermarché Carrefour à Vénissieux fait deux morts. Adam B., âgé de 20 ans, et Raihane S., âgé de 25 ans, sont tués par des tirs de pistolet semi-automatique alors qu’ils se trouvent à bord d’un véhicule Renault Mégane, signalé volé.

    L’enquête a déterminé que les deux individus ont été tués par des balles provenant de la même arme, appartenant au policier Geoffray D., chef de bord d’une patrouille de la Brigade Spécialisée de Terrain affectée à Vénissieux. Au total, onze balles ont atteint le véhicule dans lequel se trouvaient Adam et Raihane.

    Les policiers ont justifié ces tirs en invoquant la légitime défense, devant un cas de « refus d’obtempérer » qui les mettait en grave danger. Selon leur récit, le policier Geoffray D. aurait été percuté par le véhicule en fuite et aurait tiré alors qu’il se trouvait embarqué sur le capot du véhicule, affirmant qu’il n’avait « pas d’autres solutions ». L’expert balistique désigné a conclu que le scénario présenté par les policiers étaient « parfaitement cohérent » avec les constatations matérielles. Le parquet a classé l’affaire sans suite.

    INDEX a mené une contre-enquête, à partir d’une reconstitution numérique en 3D de l’incident. Celle-ci révèle le caractère très peu plausible du récit policier concernant les circonstances de la mort d’Adam B. et de Raihane S., et souligne de nombreuses zones d’ombres à ce jour ignorées par l’enquête officielle.

    Adam B. et Raihane S. sont deux des treize personnes tuées par des tirs policiers sur des véhicules en mouvement au cours de l’année 2022, dans des situations dites de « refus d’obtempérer ».

    https://www.index.ngo/enquetes/mort-dadam-et-raihane-les-incoherences-de-la-version-policiere-revelees
    #enquête #contre-enquête #violences_policières #Index #refus_d'obtempérer #reconstitution #reconstruction

  • Indemnités de licenciement : le barème Macron n’a pas eu l’effet escompté
    https://www.bfmtv.com/economie/economie-social/indemnites-de-licenciement-le-bareme-macron-n-a-pas-eu-l-effet-escompte_AN-20


    Je me demandais pourquoi des gus maltraités au boulot demandaient l’annulation du licenciement. Maintenant, je comprends mieux.

    Autre effet négatif : après la mise en place de la mesure, les avocats de salariés ont multiplié les demandes d’annulation de licenciement, parfois avec succès et avec à la clé des indemnités beaucoup plus importantes que celles prévues par le barème.

    Pour rappel, il faut souligner que la mise en place de cette mesure avait suscité la colère de nombreux juges qui considéraient qu’ils n’avaient plus la possibilité de réparer les préjudices subis par les salariés licenciés. Certains du coup n’ont pas hésité à s’engouffrer dans les failles du dispositif. Les deux experts soulignent ainsi que « l’opposition d’une partie des juges et la mobilisation des avocats de salariés, dans un contexte où les marges d’interprétation du droit et d’appréciation des faits offrent d’importantes marges de manœuvre, ont vraisemblablement fortement limité, voire sapé, l’impact du barème sur l’indemnisation de licenciement ».

  • Il Consiglio d’Europa chiede all’Italia di garantire più protezione alle vittime di tratta

    Nel rapporto del Gruppo di esperti sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) si chiede alle autorità di aumentare le indagini e le condanne, assicurare strumenti efficaci di risarcimento per le vittime e concentrarsi maggiormente sullo sfruttamento lavorativo. Oltre allo stop del memorandum Italia-Libia. Su cui il governo tira dritto.

    Più attenzione alla tratta per sfruttamento lavorativo, maggiori risarcimenti e indennizzi per le vittime e la necessità di aumentare il numero di trafficanti di esseri umani assicurati alla giustizia. Ma anche lo stop del memorandum Italia-Libia e la fine della criminalizzazione dei cosiddetti “scafisti”.

    Sono queste le principali criticità su cui il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta di esseri umani (Greta) a fine febbraio ha chiesto al governo italiano di intervenire per assicurare l’applicazione delle normative europee e una tutela efficace per le vittime di tratta degli esseri umani. “Ogni anno in Italia ne vengono individuate tra le 2.100 e le 3.800 -si legge nel report finale pubblicato il 23 febbraio-. Queste cifre non riflettono la reale portata del fenomeno a causa dei persistenti limiti nelle procedure per identificare le vittime, nonché di un basso tasso di autodenuncia da parte delle stesse che temono di essere punite o deportate verso i Paesi di origine”. Una scarsa individuazione dei casi di tratta che riguarderebbe soprattutto alcuni settori “ad alto rischio” come “l’agricoltura, il tessile, i servizi domestici, l’edilizia, il settore alberghiero e la ristorazione”.

    L’oggetto del terzo monitoraggio di attuazione obblighi degli Stati stabiliti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani era proprio l’accesso alla giustizia per le vittime. Dal 13 al 17 febbraio 2023, il gruppo di esperti si è recato in Italia incontrando decine di rappresentanti istituzionali e di organizzazioni della società civile. La prima bozza del report adottata nel giugno 2023 è stata poi condivisa con il governo italiano che a ottobre ha inviato le sue risposte prima della pubblicazione finale del rapporto. Quello in cui il Greta, pur sottolineando “alcuni sviluppi positivi” dall’ultima valutazione svolta in Italia nel 2019, esprime “preoccupazione su diverse questioni”.

    Il risarcimento per le vittime della tratta è una di queste. Spesso “reso impossibile dalla mancanza di beni o proprietà degli autori del reato in Italia” ma anche perché “i meccanismi di cooperazione internazionale sono raramente utilizzati per identificare e sequestrare i beni degli stessi all’estero”. Non solo. Il sistema di indennizzo per le vittime -nel caso in cui, appunto, chi ha commesso il reato non abbia disponibilità economica- non funziona. “Serve renderlo effettivamente accessibile e aumentare il suo importo massimo di 1.500 euro”. Come ricostruito anche da Altreconomia, da quando è stato istituito questo strumento solo in un caso la vittima ha avuto accesso al fondo.

    Il Greta rileva poi una “diminuzione del numero di indagini, azioni penali e di condanne” osservando in generale una applicazione ristretta di tratta di esseri umani collegandola “all’esistenza di un elemento transnazionale, al coinvolgimento di un’organizzazione criminale e all’assenza del consenso della vittima”. Tutti elementi non previsti dalla normativa europea e italiana. Così come “desta preoccupazione l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, in particolare della fase investigativa”.

    Il gruppo di esperti sottolinea poi la persistenza di segnalazioni di presunte vittime di tratta “perseguite e condannate per attività illecite commesse durante la tratta, come il traffico di droga, il possesso di un documento d’identità falso o l’ingresso irregolare”. Un problema che spesso porta la persona in carcere e non nei progetti di accoglienza specializzati. Che in Italia aumentano. Il Greta accoglie infatti con favore “l’aumento dei fondi messi a disposizione per l’assistenza alle vittime e la disponibilità di un maggior numero di posti per le vittime di tratta, anche per uomini e transgender” sottolineando però la necessità di prevedere un “finanziamento più sostenibile”. In questo momento i bandi per i progetti pubblicati dal Dipartimento per le pari opportunità, hanno una durata tra i 17 e i 18 mesi.

    C’è poi la difficoltà nell’accesso all’assistenza legale gratuita che dovrebbe essere garantita alle vittime che invece, spesso, si trovano obbligate a dimostrare di non avere beni di proprietà non solo in Italia ma anche nei loro Paesi d’origine per poter accedere alle forme di consulenza legale gratuita. Problematico è anche l’accesso all’assistenza sanitaria. “I professionisti del Sistema sanitario nazionale -scrive il Greta- non sono formati per assistere le vittime di tratta con gravi traumi e mancano mediatori culturali formati per partecipare alla fornitura di assistenza psicologica”.

    Come detto, il focus degli esperti riguarda la tratta per sfruttamento lavorativo. Su cui l’Italia ha adottato diverse misure di protezione per le vittime ma che però restano insufficienti. “Lo sfruttamento del lavoro continua a essere profondamente radicato in alcuni settori che dipendono fortemente dalla manodopera migrante” ed è necessario “garantire risorse che risorse sufficienti siano messe a disposizione degli ispettori del lavoro, rafforzando il monitoraggio dei settori a rischio e garantendo che le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori migranti soddisfare i requisiti previsti dalla normativa al fine di prevenire abusi”.

    Infine il Greta bacchetta il governo italiano su diversi aspetti relativi alla nuova normativa sui richiedenti asilo. “Temiamo che le misure restrittive adottate dall’Italia favoriscano un clima di criminalizzazione dei migranti, con il risultato che molte potenziali vittime della tratta non denunciano i loro casi per paura di detenzione e deportazione”, scrivono gli esperti. Sottolineando la preoccupazione rispetto al “rischio di aumento del numero di richiedenti asilo nei centri di detenzione amministrativa” previsto dagli ultimi provvedimenti normativi che aumenterebbe la possibilità anche per le vittime di tratta non ancora identificate di essere recluse. Un rischio riscontrato anche per il Protocollo sottoscritto con l’Albania per gli impatti che avrà “sull’individuazione e la protezione delle persone vulnerabili salvate in mare”.

    Sul punto, nelle risposte inviate al Greta l’8 febbraio 2024, il governo italiano sottolinea che il protocollo siglato con la controparte albanese “non si applicherà alle persone vulnerabili, incluse le vittime di tratta”. Resta il punto della difficoltà di identificazione fatta subito dopo il soccorso, spesso in condizioni precarie dopo una lunga e faticosa traversata.

    Ma nelle dieci pagine di osservazioni inviate da parte dell’Italia, salta all’occhio la puntualizzazione rispetto alla richiesta del Greta di sospendere il memorandum d’intesa tra Italia e Libia che fa sì che “un numero crescente di migranti salvati o intercettati nel Mediterraneo vengano rimpatriati in Libia dove rischiano -scrivono gli esperti- di subire gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la schiavitù, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale”. Nella risposta, infatti, il governo sottolinea che ha scelto di cooperare con le autorità libiche “con l’obiettivo di ridurre i morti in mare, nel pieno rispetto dei diritti umani” e che la collaborazione “permette di combattere più efficacemente le reti di trafficanti di esseri umani e di coloro che contrabbandano i migranti”. Con il rispetto dei diritti umani, del diritti umanitario e internazionale che è “sempre stata una priorità”. Evidentemente non rispettata. Ma c’è un dettaglio in più.

    Quel contrasto al traffico di migranti alla base anche del memorandum con la Libia, sbandierato a più riprese dall’esecutivo italiano (“Andremo a cercare gli ‘scafisti’ lungo tutto il globo terracqueo”, disse la premier Giorgia Meloni a inizio marzo 2023) viene messo in discussione nel rapporto. Dopo aver sottolineato la diminuzione delle indagini sui trafficanti di esseri umani, il Greta scrive che i “capitani” delle navi che arrivano in Italia “potrebbero essere stati costretti tramite minacce, violenza fisica e abuso di una posizione di vulnerabilità nel partecipare all’attività criminali”. Indicatori che li farebbero ricadere nella “categoria” delle vittime di tratta. “Nessuno, però, è stato considerato come tale”, osservano gli esperti. Si scioglie come neve al sole la retorica sulla “guerra” ai trafficanti. I pezzi grossi restano, nel frattempo, impuniti.

    https://altreconomia.it/il-consiglio-deuropa-chiede-allitalia-di-garantire-piu-protezione-alle-

    #traite_d'êtres_humains #Italie #protection #Conseil_de_l'Europe #exploitation #Greta #rapport #agriculture #industrie_textile #hôtelerie #bâtiment #BTS #services_domestiques #restauration #indemnisation #accès_à_la_santé #criminalisation_de_la_migration #Albanie

  • Le mariage forcé en Inde et au Népal

    Le mariage forcé est encore très fréquent en Inde et au Népal, distordant les réalités des jeunes filles. Un phénomène qui a été mis en avant au cours du panel « Youth-led to dismantling Child, Early, Forced Marriage and Union » organisé par Girls Not Brides. Selon l’ONG, douze millions de filles sont mariées avant l’âge de 18 ans, ce qui équivaut à vingt-trois filles par minute.

    Lorsqu’elles sont forcées dans un mariage, les filles arrêtent leurs études et prennent le rôle de femme au foyer, ce qui les isole de leur entourage. L’organisme Girls Not Brides insiste sur le fait que lorsqu’un mariage est fait, il doit automatiquement être avec une femme majeure et non une fille puisque celles-ci pensent souvent que la violence est normale au sein d’un couple. En effet, se disputer en présence des enfants est très commun pour les parents, ce qui altère la réalité de ce qui fait une relation de couple saine. Ainsi, il faut insister et éduquer les parents sur le modèle qu’ils transmettent à leurs enfants. Les panélistes proposent donc de mettre en place des programmes pour apprendre aux parents les risques d’un mariage forcé et leur transmettre les clefs pour diminuer ces risques.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/23/le-mariage-force-en-inde-et-au-nepal

    #féminisme #inde #nepal

  • Chasse aux #arrêts_de_travail : des médecins dénoncent « une campagne d’#intimidation générale »

    L’#Assurance_maladie contrôle des centaines de #médecins_généralistes qui prescriraient, selon elle, trop d’arrêts de travail, et leur impose des #quotas au mépris de la situation des patients. Des médecins, « écœurés », contestent la démarche.

    « Ça m’a fait perdre confiance en ma pratique. Je me suis dit : où est le problème, qu’est-ce que je ne fais pas bien ? » Comme d’autres confrères et consœurs, Valérie* [1] fait partie des 1000 médecins généralistes ciblés par l’Assurance maladie, parmi 6000 préalablement identifiés. En cause : leur trop grande prescription d’arrêts de travail. En juin 2023, le ministre de l’Économie, #Bruno_Le_Maire, dénonçait l’« explosion » des arrêts de travail et disait vouloir lutter contre les « #dérives » et « #abus ».

    Selon le gouvernement, les arrêts maladie auraient augmenté de 7,9 % en un an, et de 30 % entre 2012 et 2022, passant de 6,4 millions arrêts prescrits en 2012 à 8,8 millions désormais. Les #indemnités_journalières, versées par l’Assurance maladie pour compenser le salaire lors d’un arrête maladie, coûteraient 16 milliards d’euros par an.

    D’où la #chasse_aux_arrêts_de_travail, initiée par le gouvernement, qui se poursuit avec le projet de loi de financement de la #Sécurité_sociale pour 2024, adopté le 4 décembre dernier. Parmi les mesures que la #loi prévoit : la limitation à trois jours des arrêts de travail prescrits lors d’une téléconsultation, sauf prescription par le médecin traitant ou incapacité de se rendre chez le médecin. « Il y a véritablement eu un changement de politique en 2023 », constate Théo Combes, vice-président du syndicat des médecins généralistes MG France. L’homme voit dans cette offensive « une campagne d’intimidation générale contre la profession ».

    La particularité des patients oubliée

    « Qu’on discute de nos pratiques oui, mais on est dans le #soin, pas dans l’abus », réagit Valérie. Installée en Vendée, elle a eu la surprise de recevoir en juin dernier un courrier recommandé de l’Assurance maladie l’informant de sa trop grande prescription d’indemnités journalières. « En six ans, il y a une personne de 36 ans qui m’a demandé de lui faire un arrêt pour un rhume, que j’ai refusé. Là je suis d’accord qu’il ne faut pas abuser, mais ça m’est arrivé une fois ! » met-elle en avant. Surtout, les critères de contrôles ne tiennent selon elle pas du tout compte des particularités des patientèles.

    Partagée entre son cabinet en libéral et l’hôpital, Valérie est spécialisée en addictologie. « Pour les patients avec des problématiques d’addiction, on sait que les arrêts de travail, pour virus ou autre, sont source de rechute. Donc après, la pente est plus longue à remonter, et les arrêts aussi par conséquent. Pareil pour des patients qui ont des troubles psychiatriques, pour qui c’est vraiment source de décompensation », explique-t-elle. La professionnelle de santé a en effet constaté que ses prescriptions d’indemnités journalières ne font qu’augmenter : « Mais parce que ma patientèle ciblée augmente », précise-t-elle.

    Médecin depuis 30 ans dans le troisième arrondissement de Lyon et membre du Syndicat des médecins libéraux (SML), Laurent Negrello fait le même constat : « Je suis dans un quartier un peu défavorisé, avec 50 % de logements sociaux et plus de difficultés, ce qui impacte probablement mes quotas d’arrêts de travail », appuie-t-il. Contrôlé pour la deuxième fois en cinq ans, il insiste aussi sur le contexte sanitaire global, qu’il a vu nettement évoluer ces dernières années. « L’inflation des arrêts est à mon avis aussi due à des #conditions_de_travail qui sont devenues très difficiles. Les gens sont en #burn-out, ont des #accidents, une pression de rentabilité… ». Les conditions de travail (contraintes posturales, exposition à des produits toxiques, risque d’accidents, etc.) ne se sont globalement pas améliorées depuis 30 ans selon le ministère du Travail.

    Crainte de dépasser le quota

    Et il devient de plus en plus compliqué d’obtenir un rendez-vous chez un spécialiste. « À Lyon, il faut trois mois pour voir un orthopédiste ou un rhumatologue, et je ne parle même pas des psys, avec qui c’est impossible… », explique le généraliste. Plus les délais de prise en charge s’allongent, plus l’état d’un patient peut se dégrader et nécessiter un arrêt de travail. La #Caisse_nationale_d’Assurance_maladie (#Cnam) assure de son côté à Basta ! que ses données sont « standardisées » : « On essaie d’avoir des patientèles comparables. » La limite d’arrêts à ne pas dépasser, c’est plus de deux fois la moyenne du département. « Une approche purement statistique », déplore Théo Combes de MG France, qui pointe une « méthodologie contestable à plusieurs niveaux ».

    Alors que Michel Chevalier, médecin depuis 36 ans à Ousse, près de Pau, se remémore d’anciens contrôles par « entretiens confraternels », il déplore aujourd’hui « une absence de dialogue ». Après la réception d’un courrier recommandé en juin, il a été convoqué avec deux jeunes consœurs : « L’une exerce dans un quartier très pauvre de Pau et une autre dans un désert médical. Elle a 34 ans et n’en dort plus depuis le mois de juin », rapporte ce membre du Syndicat de la médecine générale (SMG). Valérie confie elle aussi s’être sentie « stressée d’être pointée du doigt » à la réception de ce courrier : « Je trouve la procédure violente en elle-même. Sachant qu’on a des délégués médicaux qui viennent régulièrement nous voir, avec qui ça se passe très bien. Je pense que ça aurait pu être fait autrement », met-elle en avant.

    À la réception du courrier, chaque médecin dispose d’un mois pour répondre et faire ses observations à l’Assurance maladie, qui décidera si les éléments apportés sont « suffisamment probants », nous détaille le service communication de la Cnam. Si ce n’est pas le cas, la procédure prévoit qu’il soit proposé au médecin ciblé une #mise_sous_objectif (#MSO) : pendant six mois, ce dernier doit réduire ses prescriptions d’arrêts de travail de 15 à 20 %. Ce que Valérie a refusé, comme de nombreux autres : « Heureusement, car au sein du cabinet médical où j’exerce, plus personne ne prend de nouveaux patients sauf moi quand ça touche des problématiques d’addiction. »

    Déjà contrôlé il y a cinq alors, Laurent Negrello avait alors accepté « la mise sous objectif » : « Pendant six mois, j’ai réduit mon temps de travail, donc les patients allaient voir ailleurs et j’ai atteint mes objectifs », relate-t-il avec ironie. Cette année, il a refusé ce procédé qu’il juge « très pesant et stressant » : « On travaille toujours dans la #crainte de dépasser le quota qui nous est imparti. Mais on est un peu dans le #flou parce qu’on ne sait pas vraiment quels sont les quotas exacts. On nous dit qu’il faut baisser de 20 %, mais c’est une zone grise, on ne sait pas comment baisser nos arrêts. Quels sont les critères ? On a face à nous des situations concrètes, donc baisser de 20 % c’est absurde », critique-t-il.

    En cas de refus de mise sous objectif, les médecins peuvent être « mis sous accord préalable », procédure pendant laquelle un médecin conseil de l’Assurance maladie doit valider tous les arrêts de travail prescrits par le médecin sous 48 heures. Valérie raconte avoir été convoquée à une commission ayant pour but de statuer sur sa soumission à ce dispositif en novembre.

    Convoqués à des « #commissions_des_pénalités »

    « Ça m’a occasionné beaucoup de stress et pris beaucoup de temps. J’ai préparé un argumentaire, fait des recherches. Sans compter les deux heures de route pour 30 minutes d’entretien prises sur ma journée de repos », relate-t-elle. La commission a voté à l’unanimité le refus de sa « #mise_sous_accord_préalable ». Mais la professionnelle de santé a dû attendre la réception d’un courrier de la CPAM, mi-décembre, pour avoir la confirmation de « l’abandon de la procédure ».

    Le 7 novembre dernier, Théo Combes a participé à l’une de ces « commissions des pénalités », notamment composées de représentants syndicaux et médecins d’un côté, et de représentants des employeurs et salariés de l’autre. « Des médecins sont venus s’expliquer. Ils étaient proches de la rupture d’un point de vue moral et psychologique, avec des risques suicidaires qui transparaissaient. J’aurais pensé que leurs récits auraient ému un mort, même si c’est peut-être un peu fort. Mais après quatre heures d’audition on s’est dit que c’était vraiment une #mascarade. C’est un système pour broyer les gens, les humilier », décrit le vice-président de MG France, écœuré.

    À l’issue des contrôles, des #pénalités_financières de plusieurs milliers d’euros peuvent s’appliquer s’il n’y a pas d’évolution du nombre de prescriptions d’arrêts de travail. « C’est très, très infantilisant. On a l’impression d’être dans la #punition plutôt que dans le dialogue, et de faire ça intelligemment », déplore Valérie, qui craint pour ses patients tout autant que pour sa profession. « On peut très bien imaginer maintenant que les médecins vont sélectionner les patients et ne plus s’occuper de ceux qui leur font faire trop d’arrêts », ajoute Michel Chevalier.

    L’Assurance maladie espère de son côté avoir un bilan chiffré de ces mesures « autour du deuxième trimestre 2024 ». Michel Chevalier, lui, ne sera plus là : « Le côté dramatique, c’est que j’ai décidé de prendre ma retraite à la suite de ces contrôles, ça a été la goutte d’eau. » Comme il n’a pas trouvé de successeur, ses patients n’ont plus de médecin depuis le 1er janvier.

    https://basta.media/chasse-aux-arrets-de-travail-medecins-denoncent-campagne-intimidation

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1041346
    #santé #France #humiliation #infantilisation #macronisme

    • Pourquoi ce médecin prescrit trois fois plus d’arrêts de travail que la moyenne à #Dieppe

      Le docteur Tribillac exerce au #Val-Druel, à Dieppe. Sanctionné pour avoir délivré trop d’arrêts de travail, il tente en vain d’expliquer la situation à l’Assurance maladie.

      « Je suis un lanceur d’alerte ! », commence #Dominique_Tribillac. Depuis 35 ans, ce médecin de famille exerce dans le quartier du Val-Druel, à Dieppe (Seine-Maritime). Âgé de 70 ans, il est ce que l’on appelle « un retraité actif ».

      Il devrait prendre bientôt sa retraite, avant l’été, mais un problème administratif l’occupe fortement depuis plusieurs mois : l’Assurance maladie l’a sanctionné car il donne trop d’arrêts de travail.

      La Sécurité sociale a fait les calculs, entre le 1er septembre 2022 et le 28 février 2023 : 4 911 journées indemnisées ont été prescrites.
      Trois fois plus d’arrêts de travail

      « Le nombre d’indemnités journalières versées, rapporté au nombre de patients a été de 16,7 », indique l’Assurance maladie. « En Normandie et au sein du groupe de communes semblables au sens de l’indice de défavorisation de l’Insee, l’institut national de la statistique et des études économiques, pour les praticiens exerçant une activité comparable, le nombre d’indemnités journalières versées par nombre de patients est de 5,90. »

      Le médecin du Val-Druel prescrit donc trois fois plus d’arrêts de travail.

      Une lettre aux médecins de France

      Mais le docteur Tribillac ne se laisse pas faire. Il conteste notamment l’indice de défavorisation mis en place par la Sécurité sociale. Selon lui, il ne reflète pas la réalité. « Il est très mal conçu, souligne-t-il. Il fait le contraire de ce qu’il est censé faire ». C’est-à-dire protéger et prendre en compte les populations les plus fragiles.

      « J’ai débusqué une véritable saloperie, ajoute Dominique Tribillac qui a le sentiment qu’on l’empêche d’aller au bout de sa démarche : « L’Assurance maladie essaie d’étouffer l’affaire. »

      Il va même envoyer une lettre ouverte à tous les médecins de France pour raconter son histoire et sa trouvaille concernant le référentiel sécu.
      Une population défavorisée

      Ce docteur, très apprécié de ses patients, ne cesse d’invoquer l’usure de ces derniers, dans un quartier prioritaire de la cité dieppoise. « Un quartier fermé avec une patientèle qui ne bouge pas, précise le professionnel. En tant que médecin de famille, j’ai vu les grands-parents, les parents, les enfants… Les gens qui vivent là y restent. »

      Au Val-Druel, « plus de la moitié de la population vit sous le seuil de pauvreté, indique-t-il. Les #polypathologies sont donc plus fréquentes, en moyenne deux fois plus élevées ». Le secteur dans lequel le médecin évolue est principalement touché par des problématiques psychologiques, de l’obésité, de chômage, de tabac, de cancers…

      Manque de spécialistes

      Selon lui, la moitié des habitants de ce quartier populaire arrive à la retraite invalide. « Ce sont des travailleurs qui ont des conditions de travail difficiles, explique Dominique Tribillac. Jusqu’à 45 ans, ils n’ont pas d’arrêt, et après ça commence.

      L’usure se déclare à cause de mouvements répétitifs qui sollicitent les mêmes membres ou muscles. « On arrive donc à une situation bancale en fin de carrière. Le patient peut-il encore travailler ou non, faire le même job… »

      Le médecin pointe aussi le manque de spécialistes dont les délais d’attente pour un rendez-vous sont de plus en plus élevés : « Les gens ne peuvent donc pas reprendre leur travail sans les avoir vus. »

      Un médecin dans l’#illégalité

      Mais tous ces arguments n’ont pas convaincu l’Assurance maladie. Ainsi, le docteur Tribillac a été sanctionné malgré un avis favorable d’une commission consultative pour le laisser exercer sereinement. C’était sans compter sur la direction de la CPAM de Seine-Maritime qui en a décidé autrement. Cette dernière n’a d’ailleurs pas souhaité répondre à nos questions au sujet du médecin du Val-Druel.

      Il exerce donc sa fonction dans l’illégalité depuis le 1er février 2024, refusant de remplir des papiers supplémentaires permettant à un médecin-conseil de vérifier les prescriptions d’arrêts maladie du docteur Tribillac. On appelle cette procédure une MSAP, une mise sur accord préalable.

      « Pas coupable »

      « Je ne suis pas coupable ! », argue-t-il. « Je ne remplirai pas ces dossiers. Ce médecin-conseil devrait plutôt voir ou appeler lui-même mes patients. »

      Conséquence pour ces derniers : ils ne peuvent plus toucher leurs indemnités journalières versées par la Sécu.

      https://actu.fr/normandie/dieppe_76217/pourquoi-ce-medecin-prescrit-trois-fois-plus-darrets-de-travail-que-la-moyenne-

  • Excellente histoire du Robots.txt, ce fichier qui autorise ou non l’indexation. Excellente mise en perspective qui explique pourquoi beaucoup souhaitent interdire l’indexation pour l’IA, mais peine à identifier les robots dédiés au-delà de GPTbot : https://www.theverge.com/24067997/robots-txt-ai-text-file-web-crawlers-spiders

    Et le problème, c’est que les robots commencent à ne plus respecter les contraintes du fichier... #indexation

  • Monira Moon ❤️🇵🇸🔻 sur X : « En plein #génocide sur #Gaza, France Info a choisi de donner la parole à un #sniper franco-israélien qui se vante d’avoir tué et justifie le massacre de #civils. Côté palestinien, pas de témoignage direct, que des plans larges, des nombres, des ruines. La déshumanisation. 1/3 » /
    https://twitter.com/MoonMonira/status/1756246277795316166

    #snipers
    Totale #indécence
    #génocidaires

  • What do Germany’s migration partnerships entail ?

    Migration partnerships cannot halt large movements of refugees, but they can help countries manage migration better. Germany has signed a number of partnerships into effect in recent years.

    The German government seems to be working tirelessly when it comes to migration. In January, during her visit Rabat, Morocco’s capital, German Economic Cooperation and Development Minister Svenja Schulze announced a new migration partnership with Morocco.

    Just days later, on February 6, she inaugurated a migrant resource center in Nyanya near Abuja, Nigeria’s capital, alongside Nigerian Minister of State for Labor and Employment Nkeiruka Onyejeocha.

    In May last year, German Chancellor Olaf Scholz announced a migration partnership with Kenya in an attempt to attract skilled workers from the East African nation.

    Apart from Morocco, Nigeria and Kenya, the German government has also signed migration partnerships or is in negotiations to do so with Colombia, India, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Georgia and Moldova.

    At the European Union (EU) level, such agreements have been in place for over 15 years. According to the EU-funded Migration Partnership Facility, there are around 50 such partnerships.

    ’Part of overall concept’

    What is the difference between these partnerships, repatriation cooperation agreements or previous migration agreements?

    For Joachim Stamp, Germany’s Special Commissioner for Migration Agreements, “migration partnerships are a component of an overall concept.” According to the Interior Ministry, to which Stamp’s post is assigned, this includes “a paradigm shift to reduce irregular migration and strengthen legal migration.”

    He explained that in contrast to general migration agreements, migration partnerships are more about trust-based exchange and cooperation in labor, training and attracting skilled workers. The idea is not only to fight irregular migration but to replace it with regular migration.

    Migration expert Steffen Angenendt from the Berlin-based German Institute for International and Security Affairs considers migration partnerships to be “extremely important” and “indispensable” but points out that they are not “a panacea for large migration movements.”
    Partner countries’ interests ignored

    “Previous agreements have generally been ineffective or have not achieved the effect they were supposed to,” Angenendt told DW. “This is because all the EU migration and mobility partnerships concluded since 2007 have been primarily aimed at reducing irregular immigration.”

    He added that the problem was that the interests of partner countries had consistently been neglected.

    These interests include the expansion of regular immigration opportunities to work, study or train in EU countries, he explained. Angenendt said that as long as these considerations were not considered, countries’ political will to fulfill treaty obligations would remain low.

    Such obligations include the rapid issuing of documents to nationals living in countries where they do not have the right to stay so they can be moved to their country of origin. They also include the stricter monitoring of those wanting to leave a country.
    Most asylum seekers in Germany fleeing from war

    On closer inspection, this means that migration partnerships are only partially suitable for reducing migration movements. Most people entering Germany as refugees are from countries where there are massive human rights violations and war.

    “We cannot develop migration partnerships with countries such as Syria and Afghanistan,” said Stamp in a statement. Instead, he stated that the German government was trying to support “neighboring countries that take in refugees from these countries.”

    According to the Federal Office for Migration and Refugees, most asylum seekers in recent years have originated from Syria and Afghanistan. In the past three years, the number of asylum seekers from Turkey has also increased, accounting for 19% of the total.

    Countries with which Germany has migration partnerships, such as Georgia, tend to be at the bottom of the statistics.

    “I am very pleased that we have succeeded in reaching an agreement with Georgia and [will do so] in the coming weeks, with Moldova,” said Stamp in an interview with the German television news channel Welt TV in early February.

    He added that the migration partnership with Morocco announced at the end of January was already being implemented. “After many years in which things didn’t go so well, we now have a trusting relationship,” he said.

    Controversial deal between Italy and Albania

    For its part, Italy has reached a controversial agreement with Albania, which has EU candidate status, to reduce migration. This is sometimes called a migration partnership but does not seem to fit the description.

    According to the agreement, Albania will establish two centers this year that will detain asylum seekers while their applications are being processed. The international advocacy organization Human Rights Watch says the deal breaches international law.

    Compared to Italian Prime Minister Georgia Meloni, German development minister Schulze appears to have struck a different tone regarding migration. But she still wants to see more migrants without the right to stay deported from Germany.

    “Migration is a fact of life,” she said at the inauguration of the migrant resource center in Nigeria at the beginning of February. “We have to deal with it in a way that benefits everyone: migrants, countries of origin and the communities that receive migrants.”

    https://www.infomigrants.net/en/post/55097/what-do-germanys-migration-partnerships-entail

    #accords #Allemagne #accords_bilatéraux #asile #migrations #réfugiés #Maroc #Nyanya #Nigeria #Kenya #Colombie #Inde #Géorgie #Moldavie #Ouzbékistan #Kirghizistan #Migration_Partnership_Facility #accords_migratoires #partenariats #partenariats_migratoires

  • #Homicide de #Bilal_M. : la #reconstitution 3D invalide la version policière
    https://www.youtube.com/watch?v=-tZ-8v0v9dU&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.index.ngo%2F&em

    Le 23 juin 2021, Bilal M., 34 ans, est tué par des policiers qui procèdent à son expulsion locative. Ces derniers ont plaidé la légitime défense, accusant Bilal M. de les avoir agressés avec un couteau. INDEX a mené une #contre-enquête et révèle des #incohérences majeures dans la version policière des faits.

    https://www.index.ngo/enquetes/homicide-de-bilal-m-la-reconstitution-3d-invalide-la-version-policiere
    #Bilal #reconstruction #police #violences_policières #France #architecture_forensique #INDEX

  • Des milliers d’Indiens postulent pour travailler en Israël
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/01/30/des-milliers-d-indiens-postulent-pour-travailler-en-israel_6213904_3210.html

    Des milliers d’Indiens postulent pour travailler en Israël
    Par Carole Dieterich (New Delhi, correspondance)
    Après avoir parfois parcouru des centaines de kilomètres, des milliers d’Indiens, âgés de 21 à 45 ans, ont fait la queue des heures durant dans le froid devant les centres de recrutement installés du 17 au 21 janvier à Rohtak, dans l’Haryana, à la frontière de la capitale, New Delhi, puis du 21 au 30 janvier à Lucknow, dans l’Uttar Pradesh, dans l’espoir de décrocher un emploi en Israël, qui fait face à une pénurie de main-d’œuvre depuis les attaques menées par le Hamas, le 7 octobre 2023.
    Le 1er janvier, Gurmeet Kashyap, un maçon d’à peine 25 ans, a répondu à une annonce publiée sur un site du gouvernement de l’Haryana pour un emploi de plâtrier en Israël. Face à l’offre alléchante, le travailleur journalier n’a pas hésité. « Que pouvons-nous faire ? La sécurité n’existe pas quand vous gagnez à peine de quoi acheter du pain et de l’eau. Notre sécurité est entre les mains de Dieu », lance Gurmeet Kashyap, qui a passé des entretiens lors du premier cycle de recrutement, organisé dans l’enceinte d’une université de Rohtak. Les salaires proposés par les recruteurs israéliens dépassent les 1 500 euros mensuels. C’est plus de dix fois ce que Gurmeet Kashyap peut espérer gagner en Inde – une centaine d’euros les bons mois, dit-il.
    L’Inde, qui se targue d’être la cinquième puissance économique mondiale devant le Royaume-Uni, est marquée par un chômage chronique. Des millions de personnes ne parviennent pas à trouver d’emploi stable à temps plein. Près de 22 % des salariés indiens sont des travailleurs occasionnels, dont le revenu mensuel moyen n’atteint même pas les 90 euros. Les jeunes, qui sont des millions à arriver chaque année sur le marché de l’emploi, souffrent particulièrement de ce fléau. Selon le rapport sur l’emploi de l’université Azim Premji, à Bangalore, le chômage touche 15 % des diplômes universitaires de tous les âges et environ 42 % des diplômes de moins de 25 ans. « Il n’y a pas d’emploi en Inde, j’ai postulé alors même que je n’ai aucune qualification dans la construction », admet Abhishek, un jeune de 24 ans, titulaire d’une licence.
    Israël pour sa part manque cruellement de travailleurs dans le secteur du bâtiment, quasiment au point mort. Depuis le début de la guerre, de nombreux travailleurs étrangers ont fui Israël, qui a également retiré leur permis de travail à plus de 100 000 Palestiniens. « Nous avons perdu 82 000 travailleurs dans le secteur de la construction, la plupart venaient d’Europe de l’Est ou encore de Chine et vivaient en Israël depuis des années », indique Shay Pauzner, directeur général adjoint de l’Association des constructeurs d’Israël, qui participe actuellement au recrutement de 20 000 personnes en Inde, sous l’égide de New Delhi et de Tel-Aviv. Avant le début du conflit, en mai 2023, les deux pays avaient signé un accord pour permettre à 40 000 Indiens d’être employés dans les secteurs de la construction mais aussi des soins infirmiers. Quelque 18 000 Indiens travailleraient déjà en Israël.
    Cette vague de recrutement pour des postes de menuisiers, de maçons ou encore de plâtriers et d’électriciens a débuté fin décembre et s’est poursuivie jusqu’au 30 janvier. Les candidats, qui doivent posséder des connaissances de base en anglais, sont également soumis à un test de compétences en conditions réelles. Environ 7 000 Indiens ont déjà été embauchés et l’Association des constructeurs d’Israël espère pouvoir commencer à les faire venir sous peu, au rythme de 1 000 par semaine. « La difficulté est que peu de vols commerciaux desservent actuellement Israël et il va falloir que nous trouvions une solution pour y remédier », indique Shay Pauzner, qui aimerait recruter encore davantage en Inde. Plusieurs milliers d’ouvriers seront également engagés au Sri Lanka mais aussi en Ouzbékistan.
    Le gouvernement indien, qui s’est rapproché d’Israël ces dernières années, avait assuré dès le mois de novembre 2023 qu’il ne s’agissait pas de remplacer les travailleurs palestiniens. Plusieurs syndicats de gauche indiens se sont néanmoins indignés du recrutement de leurs compatriotes par Israël. Le Centre of Indian Trade Unions a accusé le gouvernement indien de fournir de la main-d’œuvre bon marché à Israël et appelé les travailleurs indiens à ne pas devenir des proies en postulant à des emplois en Israël, une « zone déchirée par un conflit » et dont « le gouvernement prive de leur emploi des milliers de Palestiniens travaillant en Israël ». New Delhi a assuré que l’Inde s’engageait à garantir la sécurité et la protection de ses travailleurs migrants et a fait valoir que le droit du travail en Israël était robuste. « Le gouvernement israélien a interrompu les constructions dans les zones dangereuses », abonde Shay Pauzner, affirmant que ces nouveaux travailleurs n’avaient rien à craindre pour leur sécurité. « Avec un salaire à plus de 1 500 euros, j’ai tout naturellement postulé », fait valoir Sunil Kumar, un maçon de 33 ans qui a passé un entretien à la fin du mois de janvier. « Nous voulons tous une vie décente, pouvoir envoyer nos enfants à l’école et manger à notre faim », conclut-il, dans l’attente d’une réponse de ses recruteurs.

    #Covid-19#migrant#migration#israel#gaza#inde#travailleurmigrant#economie#securite#pauvrete

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

    • A few publicly available government documents, however, provide a peek into the workings of the programme.

      To build the database, the government first collected demographic and identity data of the families, including their Aadhaar numbers, the biometric-based unique identity number assigned to every Indian citizen, their age proof, bank accounts, and tax identification numbers through data-entry operators at the village level.

      A centralised electronic system then used Aadhaar-based authentication to match the identities of citizens in other government databases such as birth and death registries, land and property records, government employee databases, electricity consumption, and income tax return databases, among others, to build their comprehensive socioeconomic profiles.

      This data was then used to “electronically” verify the annual income, age and other eligibility conditions of the applicants. Where electronic verification was not possible due to the unavailability of data, physical field verification was carried out. In cases where the physical verification did not pan out, the family income is derived by “logic-based artificial intelligence [AI].”

      The chief minister’s office and the departments administering the PPP and the old-age pension schemes did not respond to Al Jazeera’s queries asking about the logic, formula and source code used by the AI. Neither did it clarify if the errors in the PPP were a result of wrong data entry or incorrect predictions by the AI. The government has also not responded to Dhuli Chand’s RTI query asking the authorities to explain why PPP had marked him as “dead.”

      #Inde #allocation_vieillesse

  • Entretien (audio et vidéo) avec Simukai Chigudu.

    Les fantômes de la colonisation - La Vie des idées
    https://laviedesidees.fr/Les-fantomes-de-la-colonisation

    La vie des des idées , janvier 2024

    Quelles traces les entreprises coloniales ont-elles laissées ? En confrontant l’histoire publique du colonialisme au Royaume-Uni et au Zimbabwe à celle de sa propre famille, Simukai Chigudu fait apparaître la part refoulée du legs colonial et comment elle continue d’alimenter le cycle de la violence.❞

    (suite à lire sur le site en libre-accès de La Vie des idées).

    #Zimbabwe #indépendances #décolonisations #RhodesMustFall

  • « Les réformes du droit du travail, au motif de le “simplifier”, le font disparaître », Sophie Binet, secrétaire générale de la CGT ; Judith Krivine, présidente du Syndicat des avocats de France ; Kim Reuflet, présidente du Syndicat de la magistrature

    Depuis 2008, les différents gouvernements, unanimement, se sont appliqués à mener des réformes du #droit_du_travail qui, au motif de le « simplifier », le font disparaître. Encore en décembre 2023, le ministre de l’#économie annonçait qu’il fallait raccourcir à deux mois le délai de contestation d’un licenciement, car « il faut des mesures drastiques de simplification pour les entreprises ». Qu’un salarié dispose de droits et se défende lorsque ceux-ci sont bafoués est traité comme un facteur de « complexité », comme s’il s’agissait d’une formalité administrative !

    La vie des entreprises s’est déjà fortement « simplifiée » depuis 2008, ainsi qu’en témoigne la diminution continue du #contentieux_prud’homal. Différents rapports (notamment « Les affaires prud’homales dans la chaîne judiciaire de 2004 à 2018 », Evelyne Serverin, 2019) démontrent que les réformes successives ont déjà eu pour effet de décourager et d’entraver l’action des salariés devant la juridiction prud’homale .

    Le délai dont dispose un salarié pour contester son #licenciement est passé en quelques années de trente à cinq ans (2008), à deux ans (2013), puis à douze mois (2017). Avec cette réduction des prescriptions, associée à la mise en place de la #rupture_conventionnelle, en 2008, du barème plafonnant drastiquement l’#indemnisation des salariés licenciés abusivement, depuis 2017, et de la complexification de la procédure de saisine, en 2016, le nombre de saisines est passé de 176 687 en 2009 à 99 147 en 2018, puis à 88 958 en 2021. De 2009 à 2018, le contentieux a donc diminué de 44 % et a continué de diminuer de 10 % de 2018 à 2021. Et les femmes restent toujours minoritaires à faire respecter leurs droits vis-à-vis de leurs employeurs (40,3 % des saisines en 2018).

    Insécurité du chômage

    La baisse du contentieux affecte plus lourdement les #salariés non-cadres. Entre 2017 et 2021, le contentieux devant la section encadrement a diminué de 4 %, contre – 22 % et – 21 % devant les sections commerce et industrie (salariés non-cadres). Le contentieux s’est également concentré devant les conseils de prud’hommes des gros bassins d’emploi, marquant un recul de l’accès au juge dans les zones rurales. Les salariés les plus jeunes recourent également de moins en moins à la justice : les plus de 50 ans représentaient 32,5 % des demandeurs en 2018, contre 25,2 % en 2009.

    L’accès au juge est donc devenu un privilège. A l’égard des plus #pauvres, l’#employeur peut en revanche affirmer sa toute-puissance de manière discrétionnaire, sans contrôle ni sanction. Cette diminution du contentieux n’est pas un indicateur de bonne santé de la société, mais plutôt de la création de zones de non-droit au bénéfice de l’employeur. C’est ce que le gouvernement appelle « simplifier le droit du travail ».

    Le contentieux, en droit du travail, a toujours essentiellement été un contentieux autour de la rupture du contrat . Compte tenu du coût d’une procédure pour le justiciable, le salarié ne peut se permettre de saisir le juge uniquement pour faire respecter les conditions d’exécution de son contrat, d’autant qu’une telle saisine revient, dans la très grande majorité des cas, à provoquer son futur licenciement ou l’arrêt définitif de la relation de travail s’il est en emploi précaire. Pour toutes ces raisons, le salarié ne formule généralement les demandes au titre de l’exécution de son contrat que lorsqu’il conteste également la rupture de celui-ci.

    C’est donc le contentieux de la rupture du contrat de travail qui porte le peu de contentieux restant, et c’est celui que visent la réduction des #prescriptions et la mise en place des #barèmes. La sécurité juridique invoquée pour justifier leur instauration ne concerne que l’employeur : le salarié injustement licencié se voit plongé dans l’insécurité du chômage, son indemnisation à ce titre faisant elle-même l’objet de réductions continues dans le cadre de réformes successives.

    Conforter les intérêts des employeurs

    L’évocation d’une prescription à deux mois est symptomatique des réformes menées. Elle ferait passer le salarié d’espèce en voie de disparition devant les tribunaux à spécimen de la galerie des espèces disparues.

    Des délais réduits pour saisir, alors que les délais de jugement n’ont fait qu’augmenter et constituent un déni de justice. Alors que le salarié a vu ses délais pour agir se raccourcir et que le contentieux a diminué, il doit attendre toujours plus longtemps que son litige soit jugé. En 2021, la durée moyenne d’une affaire au fond devant la juridiction prud’homale était de 18,1 mois, durée portée à 35 mois en cas de départage. La durée moyenne en appel est passée de 13,7 mois en 2009 à 20,4 mois en 2018. Ces délais constituent déjà des dénis de justice, et l’Etat français est régulièrement condamné à ce titre par les juridictions européennes sans qu’il améliore les moyens donnés à la justice sociale.

    « Simplifier » le droit du travail revient, depuis 2008, à conforter les intérêts des employeurs en les mettant un peu plus à l’abri des conséquences de leurs fautes, sans l’ombre d’un souci du droit et de la réparation des injustices. C’est transformer l’accès à la justice en une course effrénée, pour la faire disparaître, et ne plus laisser l’arme du droit à la partie faible du contrat de travail pour pouvoir se défendre. La justice est le troisième pilier de notre démocratie, et l’exécutif s’acharne à le fragiliser par des réformes renforçant toujours l’impunité patronale.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/19/sophie-binet-judith-krivine-et-kim-reuflet-les-reformes-du-droit-du-travail-

    #travail #droit

  • Pourquoi la vie sexuelle des femmes est-elle meilleure sous le socialisme ?
    https://labrique.net/index.php/thematiques/feminismes/1291-pourquoi-la-vie-sexuelle-des-femmes-est-elle-meilleure-sous-le-social

    Derrière ce titre un poil racoleur se cache une étude très sérieuse de l’universitaire Kristen Ghodsee sur le féminisme des anciens pays de l’Est. Le raisonnement qui fait passer de l’économie à l’orgasme est simple : la volonté des pays du bloc de l’Est d’enrôler les femmes dans la force de travail, couplée aux luttes des féministes communistes, ont permis la création d’une série de dispositifs favorisant l’indépendance économique des femmes. Celle-ci rend possible une plus grande égalité dans les couples (hétérosexuels), ce qui a des répercussions directes sur l’intimité : être moins préoccupée par sa survie quotidienne, moins accaparée par le travail domestique, moins dépendante de son mari, rend plus disponible pour la (...)

    #En_vedette #Féminismes

    • Why Women Have Better Sex Under Socialism And Other. Arguments for Economic Independence

      A spirited, deeply researched exploration of why capitalism is bad for women and how, when done right, socialism leads to economic independence, better labor conditions, better work-life balance and, yes, even better sex.

      In a witty, irreverent op-ed piece that went viral, Kristen Ghodsee argued that women had better sex under socialism. The response was tremendous — clearly she articulated something many women had sensed for years: the problem is with capitalism, not with us.

      Ghodsee, an acclaimed ethnographer and professor of Russian and East European Studies, spent years researching what happened to women in countries that transitioned from state socialism to capitalism. She argues here that unregulated capitalism disproportionately harms women, and that we should learn from the past. By rejecting the bad and salvaging the good, we can adapt some socialist ideas to the 21st century and improve our lives.

      She tackles all aspects of a woman’s life – work, parenting, sex and relationships, citizenship, and leadership. In a chapter called “Women: Like Men, But Cheaper,” she talks about women in the workplace, discussing everything from the wage gap to harassment and discrimination. In “What To Expect When You’re Expecting Exploitation,” she addresses motherhood and how “having it all” is impossible under capitalism.

      Women are standing up for themselves like never before, from the increase in the number of women running for office to the women’s march to the long-overdue public outcry against sexual harassment. Interest in socialism is also on the rise — whether it’s the popularity of Bernie Sanders or the skyrocketing membership numbers of the Democratic Socialists of America. It’s become increasingly clear to women that capitalism isn’t working for us, and Ghodsee is the informed, lively guide who can show us the way forward.

      https://www.hachettebookgroup.com/titles/kristen-r-ghodsee/why-women-have-better-sex-under-socialism/9781568588896

      #livre #indépendance_économique #capitalisme

  • #Chowra_Makaremi : « Le #viol devient le paradigme de la loi du plus fort dans les #relations_internationales »

    En #Ukraine, Poutine revendique de faire la guerre au nom du genre. En #Iran, le régime réprime implacablement la révolution féministe. Dans d’autres pays, des populistes virilistes prennent le pouvoir. Une réalité que décrypte l’anthropologue Chowra Makaremi.

    IranIran, Afghanistan, invasion russe en Ukraine, mais aussi les discours des anciens présidents Donald Trump ou Jair Bolsonaro ou du chef de l’État turc, Recep Tayyip Erdogan : tous ont en commun de s’en prendre aux #femmes, comme l’explique l’anthropologue Chowra Makaremi.

    L’autrice de Femme ! Vie ! Liberté ! Échos du soulèvement en Iran (La Découverte, 2023) fait partie des chercheuses sollicitées par Mediapart pour #MeToo, le combat continue, l’ouvrage collectif publié récemment aux éditions du Seuil et consacré à la révolution féministe qui agite le monde depuis l’automne 2017 et le lancement du fameux mot-clé sur les réseaux sociaux. Depuis, toutes les sociétés ont été traversées de débats, de controverses et de prises de conscience nouvelles. Entretien.

    Mediapart : « Que ça te plaise ou non, ma jolie, il va falloir supporter. » Cette phrase a été prononcée le 7 février 2022 par le président russe, #Vladimir_Poutine, devant Emmanuel Macron. Elle était adressée à l’Ukraine et à son président, Volodymyr Zelensky, qui venait de critiquer les accords de Minsk, signés en 2015 pour mettre fin à la guerre dans le Donbass. Quelle lecture en faites-vous ?

    Chowra Makaremi : Le viol devient le paradigme de la #loi_du_plus_fort dans les relations internationales. La philosophe #Simone_Weil souligne dans un texte combien la #guerre relève de la logique du viol, puisque sa matrice est la #force qui, plus que de tuer, a le pouvoir de changer l’être humain en « une #chose » : « Il est vivant, il a une âme ; il est pourtant une chose. [L’âme] n’est pas faite pour habiter une chose ; quand elle y est contrainte, il n’est plus rien en elle qui ne souffre violence », écrit-elle.

    Cette comptine vulgaire de malfrats que cite #Poutine dit la culture criminelle qui imprègne sa politique. Elle me fait penser à ce que l’anthropologue Veena Das nomme la dimension voyou de la souveraineté étatique : la #truanderie comme n’étant pas seulement un débordement illégitime du pouvoir mais, historiquement, une composante de la #souveraineté, une de ses modalités.

    On le voit avec le pouvoir de Poutine mais aussi avec ceux de #Narendra_Modi en #Inde (dont parle Veena Das), de #Donald_Trump aux #États-Unis, de #Jair_Bolsonaro au #Brésil, de #Recep_Tayyip_Erdogan en #Turquie. Quand Poutine a dit sa comptine, personne n’a quitté la salle, ni Emmanuel Macron ni la presse, qui a cherché, au contraire, à faire parler la symbolique de cette « remarque ». Tout le réseau de sens et de connexions qui permet à cette cruelle boutade de tenir lieu de discours guerrier intuitivement compréhensible et audible montre que le type d’#outrage dont elle relève est une #transgression qui appartient, à la marge, à l’#ordre.

    On parle de la #masculinité_hégémonique au pouvoir avec Poutine, mais elle fait écho à celle de nombreux autres chefs d’État que vous venez de citer. Quelles sont les correspondances entre leurs conceptions de domination ?

    Il n’y a pas, d’un côté, les théocraties comme l’Iran et l’Afghanistan, et, de l’autre, les populismes virilistes de Trump, Erdogan, Bolsonaro, qui s’appuient sur des « #paniques_morales » créées par la remise en cause des rôles traditionnels de #genre, pour s’adresser à un électorat dans l’insécurité. Bolsonaro, très lié à l’armée et à l’Église, s’est appuyé sur je ne sais combien de prêcheurs pour mener sa campagne. Dimension religieuse que l’on retrouve chez Poutine, Modi, Erdogan.

    La #religion est un des éléments fondamentaux d’un #pouvoir_patriarcal très sensible à ce qui peut remettre en question sa #légitimité_symbolique, sa #domination_idéologique, et dont la #puissance est de ne pas paraître comme une #idéologie justement. Cette bataille est menée partout. Il y a un même nerf.

    Quand l’anthropologue Dorothée Dussy parle de l’inceste et de sa « fonction sociale » de reproduction de la domination patriarcale, son analyse est inaudible pour beaucoup. C’est ainsi que fonctionne l’#hégémonie : elle est sans pitié, sans tolérance pour ce qui peut en menacer les ressorts – et du même coup, en cartographier le pouvoir en indiquant que c’est là que se situent les boulons puisque, précisément, la puissance de l’hégémonie est dans l’invisibilité de ses boulons.

    Si on prend le #droit_de_disposer_de_son_corps, en Occident, il s’articule autour de la question de la #santé_contraceptive et du #droit_à_l’avortement et dans les mondes musulmans, autour de la question du #voile. De façon troublante, une chose est commune aux deux situations : c’est le viol comme la vérité des rapports entre genres qui organise et justifie la #contrainte sur les femmes à travers leur #corps.

    En Occident, le viol est le cas limite qui encadre juridiquement et oriente les discussions morales sur l’#avortement. Dans les sociétés musulmanes, la protection des femmes – et de leur famille, dont elles sont censées porter l’honneur – contre l’#agression_masculine est la justification principale pour l’obligation du voile. Il y a de part et d’autre, toujours, cet impensé du #désir_masculin_prédateur : un état de nature des rapports entre genres.

    C’est ce qu’assènent tous les romans de Michel Houellebecq et la plupart des écrits du grand Léon Tolstoï… « L’homme est un loup pour l’homme, et surtout pour la femme », dit un personnage du film Dirty Dancing. Cette population définie par ces rapports et ces #pulsions, il s’agit de la gouverner à travers l’#ordre_patriarcal, dont la domination est posée dès lors comme protectrice.

    L’Iran et l’#Afghanistan figurent parmi les pays les plus répressifs à l’encontre des femmes, les régimes au pouvoir y menant un « #apartheid_de_genre ». Concernant l’Afghanistan, l’ONU parle même de « #crime_contre_l’humanité fondé sur la #persécution_de_genre ». Êtes-vous d’accord avec cette qualification ?

    Parler pour la persécution de genre en Afghanistan de « crime contre l’humanité » me semble une avancée nécessaire car elle mobilise les armes du #droit pour désigner les #violences_de_masse faites aux femmes et résister contre, collectivement et transnationalement.

    Mais il me paraît tout aussi important de libérer la pensée autour de la #ségrégation_de_genre. À la frontière entre l’Iran et l’Afghanistan, au #Baloutchistan, après la mort de Jina Mahsa Amini en septembre 2022, les femmes sont sorties dans la rue au cri de « Femme, vie, liberté », « Avec ou sans le voile, on va vers la révolution ». Dans cette région, leur place dans l’espace public n’est pas un acquis – alors qu’il l’est à Téhéran – et elles se trouvent au croisement de plusieurs dominations de genre : celle d’un patriarcat traditionnel, lui-même dominé par la puissance étatique centrale, iranienne, chiite.

    Or, en participant au soulèvement révolutionnaire qui traversait le pays, elles ont également renégocié leur place à l’intérieur de ces #dominations_croisées, chantant en persan, avec une intelligence politique remarquable, le slogan des activistes chiliennes : « Le pervers, c’est toi, le salopard, c’est toi, la femme libérée, c’est moi. »

    C’est en écoutant les femmes nommer, en situation, la #ségrégation qu’on saisit le fonctionnement complexe de ces #pouvoirs_féminicides : en saisissant cette complexité, on comprend que ce n’est pas seulement en changeant des lois qu’on les démantèlera. On se trouve ici aux antipodes des #normes_juridiques, lesquelles, au contraire, ressaisissent le réel dans leurs catégories génériques. Les deux mouvements sont nécessaires : l’observation en situation et le #combat_juridique. Ils doivent fonctionner ensemble.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/040124/chowra-makaremi-le-viol-devient-le-paradigme-de-la-loi-du-plus-fort-dans-l

  • Sur France Info : le reportage le plus indigne du réveillon - Contre Attaque
    https://contre-attaque.net/2023/12/31/sur-france-info-le-reportage-le-plus-indigne-du-reveillon

    Sur France Info : le reportage le plus indigne du réveillon
    31 décembre 2023Extrême droite, Guerre, Médias dominants, Moyen Orient, Nos articles favoris
    Cette année, France Info est sur le podium des titres les plus monstrueux et indécents du réveillon. « Les Israéliens se préparent à un réveillon morose » titre le média de service public, ce 31 décembre 2023. Ce reportage commence par : « à Tel-Aviv, l’esprit n’est pas à la fête pour ce passage à l’année 2024 ».

    La distance entre Tel Aviv et Gaza est de 74 kilomètres, moins que la taille d’un département français. On peut sans doute y entendre la détonation des bombes d’une tonne larguées sur la population palestinienne.

    Pourtant, France Info nous raconte que Katy, patronne de restaurant, n’aura pas de DJ dans son établissement ce soir, et que Ofir, autre commerçant, va peut être perdre du chiffre d’affaire ce réveillon. Terrible. Nous sommes sommés de compatir avec des restaurateurs israéliens pendant qu’un peuple meurt.

    C’est déjà indécent quand, en France, les médias aux ordres tentent de nous faire pleurer pour des petits patrons qui perdent du chiffre d’affaire pendant les grèves, ça l’est encore plus ici. À quelques kilomètres de Tel-Aviv, la population de Gaza est effacée et meurt dans la famine, les bombes et l’effroi.

    Nous subissons la propagande interne d’un pays en guerre comme si la France était elle-même en guerre. Israël est l’alpha et l’oméga de l’actualité. Et le pire, c’est que les « journalistes » Willy Moreau et Sandrine Mallon qui ont pondu ce sujet ne se rendent sans doute même pas compte de leur inhumanité. Ils ont totalement intégré que 10.000 vies palestiniennes restent négligeables par rapport à une soirée sans DJ en Israël. Il faut bien comprendre qu’une rédaction d’un grand média public national s’est dit qu’il était pertinent et utile de mettre des moyens pour un tel sujet, que c’était normal, légitime. La banalité du mal est intacte.

    France Info avait déjà titré le 14 décembre que 2023 était l’année où le nombre de journalistes tués était « au plus bas niveau » depuis 20 ans, reprenant les mensonges de l’association Reporters Sans Frontières, sans aucun travail d’enquête, alors qu’une centaine de journalistes ont été tué en Palestine. Une négation absolue d’allumer de crimes répétés contre la presse.

    Le 26 novembre, France Info écrivait après une descente néo-nazie dans un quartier de Romans-sur-Isère en représailles à la mort du jeune Thomas : « un militant de 20 ans hospitalisé après avoir été agressé par des jeunes ». D’entrée de jeu, l’information principale n’était pas que des néo-nazis aient attaqué un quartier pour frapper des noirs

    Sur le même registre, au 20 heures, sur France2, il y a deux jours le speaker a terminé son édition en évoquant les guerres dans le monde, dixit « en Ukraine et en Israël ». Dans le genre invisibilisation des colonisés qu’on extermine, c’est quand même gratiné.

    Au moment du confinement, ne supportant plus le rituel du JT, on a coupé net le cordon avec la « télé de service public » (on ne regarde la TV que très épisodiquement sur une tablette) et là, avec cette nouvelle tentative, on ne peut pas dire que ça donne envie de s’y remettre.

  • Le « rêve américain » des Indiens, de plus en plus nombreux à migrer illégalement vers les Etats-Unis
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/30/le-reve-americain-des-indiens-de-plus-en-plus-nombreux-a-migrer-illegalement

    Le « rêve américain » des Indiens, de plus en plus nombreux à migrer illégalement vers les Etats-Unis
    Par Carole Dieterich (New Delhi, correspondance)
    L’affaire se poursuit désormais en Inde. Après avoir passé cinq jours bloqués à l’aéroport de Vatry, dans la Marne, en raison de soupçons d’immigration clandestine, les passagers indiens du vol Legend Airlines ont commencé à être interrogés par la police locale des différents Etats dont ils sont originaires, principalement du Gujarat et du Pendjab. L’A340 de la petite compagnie aérienne roumaine, avec quelque 300 Indiens à son bord, avait été cloué au sol le 21 décembre par les autorités françaises. L’avion ne devait initialement effectuer qu’une escale technique, le temps de faire le plein sur son trajet reliant les Emirats arabes unis au Nicaragua. Il a finalement été renvoyé vers Bombay, où il a atterri mardi 26 décembre. Vingt-cinq passagers, dont cinq mineurs, sont restés en France, où ils ont demandé l’asile.
    Selon les premiers éléments dévoilés par la police du Gujarat, les passagers restés bloqués à Paris avaient pour projet de se rendre au Mexique via le Nicaragua, afin de traverser ensuite la frontière illégalement vers les Etats-Unis. Ils auraient versé des sommes allant de 43 500 euros à 130 500 euros à des passeurs. Ces routes de l’immigration illégale sont bien connues en Inde. On les surnomme les « donkey routes » du terme pendjabi dunki, qui signifie « passer d’un endroit à un autre ». Pour les aspirants à l’expatriation, la méthode consiste à obtenir un titre de séjour dans un pays proche des Etats-Unis ou encore du Royaume-Uni, pour lequel il est plus facile d’obtenir un visa, avant de rejoindre la terre convoitée.
    L’incident met en lumière l’augmentation spectaculaire de l’immigration illégale indienne vers les Etats-Unis au cours des cinq dernières années. En 2021, ils étaient quelque 725 000 Indiens en situation irrégulière aux Etats-Unis, selon une estimation du Pew Research Center. Un chiffre qui n’a cessé d’augmenter depuis 2017. Les Indiens sont le troisième plus important groupe de migrants illégaux aux Etats-Unis, derrière les Mexicains et les Salvadoriens. Le nombre de migrants indiens tentant de traverser l’une des frontières des Etats-Unis a été multiplié par plus de 10 depuis 2019. Le service des douanes et de la protection des frontières américain aurait recensé 96 917 migrants illégaux indiens en 2022-2023, contre 8 027 en 2018-2019. La majorité tente le passage à partir de la frontière sud, depuis le Mexique.
    Plusieurs drames ont ébranlé l’opinion publique indienne ces dernières années. Au mois d’avril 2023, une famille du Gujarat a été retrouvée morte noyée dans le Saint-Laurent. Avec un visa de tourisme au Canada, les parents accompagnés de leurs deux enfants auraient tenté de se rendre aux Etats-Unis illégalement en traversant le fleuve. En janvier 2022, une autre famille du même Etat est morte de froid à quelques mètres de la frontière. Et, en 2019, une fillette de 6 ans originaire du Pendjab avait été retrouvée morte dans le désert de l’Arizona.
    Ces départs massifs de la jeunesse pour un avenir incertain à l’étranger interrogent. L’Inde, géant de 1,4 milliard d’habitants, se vante d’être l’une des économies les plus dynamiques au monde. En dépit de son taux de croissance insolent (7,2 % en 2022), le pays ne parvient pas à créer suffisamment d’emplois pour les quelque 10 millions de nouveaux travailleurs qui entrent chaque année sur le marché du travail. « Le fait que les Indiens soient prêts à prendre des risques et à subir d’énormes difficultés pour finalement devenir des immigrants illégaux aux Etats-Unis suggère qu’ils le font soit en désespoir de cause, soit car ils sont induits en erreur », estime The Hindu dans un éditorial daté du 29 décembre.
    Le Royaume-Uni a également assisté à une recrudescence de l’immigration illégale en provenance de l’Inde. Entre janvier et mars 2023, environ 670 Indiens sont arrivés sur les côtes anglaises à bord de bateaux de fortune. Jamais le pays n’en avait enregistré autant, selon les chiffres du ministère de l’intérieur britannique. En 2022, Frontex a également recensé plus de 7 000 clandestins indiens aux frontières de l’Union européenne, contre quelques centaines les années précédentes.
    Cette immigration illégale contraste avec les « success stories » indiennes, incarnées par les grands PDG de la Silicon Valley comme Sundar Pichai, à la tête d’Alphabet, la maison mère de Google, ou encore Satya Nadella, qui dirige Microsoft. Les Indiens font figure de « migrants modèles » aux Etats-Unis. Ils sont les principaux bénéficiaires des visas H-1B pour les travailleurs étrangers hautement qualifiés et représentaient 74 % des dossiers approuvés au cours de l’exercice 2021, selon le Migration Policy Institute.
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    « Les migrants qualifiés empruntent les voies légales, quant aux candidats à l’immigration illégale, ce sont généralement des hommes peu éduqués mais avec un peu de capital, souvent issus du milieu agricole et qui souhaitent s’en extraire », estime Sugandha Nagpal, professeure à l’université Jindal, dans la banlieue de New Delhi. Beaucoup viennent du Pendjab, du Gujarat, ancien fief du premier ministre Narendra Modi pourtant présenté par ce dernier comme un modèle de réussite économique, ou encore de l’Haryana. « La voie illégale a été complètement normalisée car beaucoup ont des amis ou des proches l’ayant empruntée avant eux et cela n’est pas vu comme un problème », poursuit Mme Nagpal, spécialiste des migrations.
    Le phénomène est tel que la culture populaire s’en empare. Un film de Bollywood, Dunki, mettant en scène le demi-dieu du cinéma Shahrukh Khan, est actuellement à l’affiche et relate l’histoire de quatre Pendjabis d’origine modeste qui souhaitent migrer à Londres. Sur les réseaux sociaux, les donkey influencers ou dunki influencers pullulent. Dans des vidéos YouTube ou des réels Instagram, ils se mettent en scène marchant dans la forêt entre la Colombie et le Panama, par exemple, ou encore proposent des conseils d’itinéraires pour passer d’un pays à l’autre. « Il est temps que le gouvernement indien prête attention [à ce type de trafic], exhorte The Hindu, [car] des personnes crédules sont devenues la proie de grandes promesses d’un avenir meilleur aux Etats-Unis. »

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  • Comment le Nicaragua est devenu le raccourci des migrants africains et asiatiques vers les Etats-Unis
    https://www.seneweb.com/news/International/comment-le-nicaragua-est-devenu-le-racco_n_429343.html

    Comment le Nicaragua est devenu le raccourci des migrants africains et asiatiques vers les Etats-Unis
    Par : AFP - Webnews | 30 décembre, 2023 à 10:12:21 | Lu 702 Fois |
    L’Airbus A340 de la compagnie roumaine Legend Airlines, qui se rendait à Managua depuis Dubaï, a été immobilisé le 21 décembre lors d’une escale à l’est de Paris, en raison de soupçons « de traite d’êtres humains ». Lundi 276 passagers indiens ont été renvoyés vers Bombay, 27 personnes sont restées en France, dont deux soupçonnées d’être des passeurs et présentées devant un juge d’instruction parisien. La police indienne a également ouvert une enquête. Les passagers auraient payé des dizaines de milliers de dollars à des passeurs pour atteindre les États-Unis, a affirmé à l’AFP un commissaire de police indien.
    Manuel Orozco, expert en migration au sein du groupe de réflexion Inter-American Dialogue, a expliqué à l’AFP que le gouvernement du président nicaraguayen Daniel Ortega, qui considère les États-Unis comme un « ennemi », avait facilité « un réseau de services aériens internationaux » afin que les migrants « puissent atteindre plus rapidement la frontière entre Mexique et États-Unis », utilisant le Nicaragua comme « un raccourci ». Une action « préméditée » selon lui, « pour augmenter le poids de la crise migratoire vers les États-Unis et capter des revenus » en visas et taxes aéroportuaires. « Nous avons recueilli des données sur plus de 500 vols charters » et « même l’autorité aéroportuaire » a passé un contrat « avec des entreprises privées situées à Dubaï pour former des fonctionnaires à la gestion de la paperasserie internationale », a ajouté l’expert. L’avocate de Legend Airlines, Liliana Bakayoko, a confirmé à l’AFP que les ressortissants indiens « devaient obtenir leur visa à l’aéroport » de Managua et que le Nicaragua avait approuvé la liste des passagers avant qu’ils n’embarquent, comme le prévoit la procédure migratoire.Sans cette approbation « l’avion ne pouvait pas obtenir l’autorisation d’atterrir au Nicaragua et donc de décoller » de Dubaï, a-t-elle expliqué. Le flux de migrants asiatiques et africains entrant au Honduras par sa frontière terrestre avec le Nicaragua - où ils arrivent directement en taxi ou en bus depuis l’aéroport - a quintuplé, passant de 14 569 en 2022 à 76 178 en 2023 (+522 %).
    Les migrants traversent ensuite le Guatemala pour entrer au Mexique jusqu’à la frontière Sud des États-Unis, au prix de milliers de dollars pour de nouveaux passeurs.
    L’Organisation internationale pour les migrations (OIM) souligne une « tendance significative » des migrants africains et cubains souhaitant se rendre aux États-Unis à choisir « les routes aériennes vers l’Amérique centrale en évitant le Darién », la jungle entre Colombie et Panama. Cubains, Haïtiens, Chinois, Vietnamiens et Africains avaient rejoint ces dernières années la vague de Vénézuéliens qui traversent cette dangereuse frontière naturelle où ils sont livrés aux trafiquants ainsi qu’à la rudesse de l’épaisse jungle, considérée comme « l’enfer » des migrants. Plus d’un demi-million ont emprunté cette année cette route longue de 266 km, plus du double qu’en 2022. Le Nicaragua, selon Manuel Orozco, est depuis 2021 un « tremplin » vers les États-Unis pour les Cubains et les Haïtiens pour lesquels aucun visa n’est requis.Une moyenne de 50 vols charters par mois ont transité entre La Havane et Managua de janvier à octobre 2023. Depuis Port-au-Prince, les vols sont passés de 30 en août, à 100 en septembre et 130 en octobre, selon Inter-American Dialogue. Comme le Panama, hub international, San Salvador est également une plaque tournante d’Amérique centrale pour migrants à bord de vols commerciaux à destination du Nicaragua, a expliqué à l’AFP un porte-parole de la Direction générale des migrations du Salvador. À l’instar du Costa Rica et du Panama, le Salvador a imposé en octobre une taxe aéroportuaire de 1 130 dollars (1 498 $ canadiens) aux ressortissants africains et indiens en transit. Ces derniers mois, les autorités colombiennes ont, elles, remarqué qu’une majorité des passagers de vols en provenance de Turquie étaient des Africains en transit vers San Salvador, via un vol depuis Bogota, pour se rendre au Nicaragua. « Des personnes qui [...] veulent migrer et paient des billets et d’autres choses pour éviter de passer par le Darién », a expliqué cette semaine le vice-ministre colombien des Affaires étrangères, Francisco Coy.

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  • En Inde, la police enquête sur un trafic de migrants révélé par la saisie d’un avion en France
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/12/29/en-inde-la-police-enquete-sur-un-trafic-de-migrants-revele-par-la-saisie-d-u

    En Inde, la police enquête sur un trafic de migrants révélé par la saisie d’un avion en France
    Le Monde avec AFP
    La police indienne a déclaré, vendredi 29 décembre, s’efforcer de retrouver les chefs d’un réseau de passeurs, découvert lors de la récente immobilisation par les autorités françaises d’un avion convoyant 303 passagers indiens à destination du Nicaragua. Venant des Emirats arabes unis, l’Airbus A340 avait été immobilisé par la police française la semaine dernière à l’aéroport de Vatry, à l’est de Paris, lors d’une escale pour faire le plein de carburant, après un signalement anonyme indiquant qu’il transportait des victimes potentielles de traite d’êtres humains.
    L’avion a redécollé lundi de France vers Bombay après la levée de la saisie, avec à bord 276 de ses passagers. Ces derniers avaient payé entre « 4 et 12 millions de roupies » (entre 43 000 et 130 000 euros) à des passeurs pour les aider à atteindre la frontière sud des Etats-Unis depuis l’Amérique du Sud, a déclaré Sanjay Kharat, commissaire de police de l’Etat du Gujarat. « Nous voulons savoir comment ces personnes sont entrées en contact avec les passeurs », et « quel était leur plan après avoir atteint le Nicaragua », a-t-il ajouté. Sur les 276 passagers renvoyés en Inde, 66 étaient originaires du Gujarat. « Nous avons identifié des personnes susceptibles de nous fournir des informations sur ce trafic illégal et sommes en train de les interroger », a-t-il expliqué.
    La plupart des autres passagers sont originaires de l’Etat du Pendjab, dans le nord de l’Inde, où la police mène une enquête. Un responsable de la police locale a précisé sous couvert d’anonymat que les enquêteurs tentaient de déterminer l’ampleur du réseau et l’implication éventuelle d’agents officiels. Le vol était assuré par la compagnie charter roumaine Legend Airlines, et durant l’affaire, qui a alimenté un feuilleton médiatique, les passagers ont été maintenus dans la zone d’attente du petit aéroport de Vatry. Parmi les personnes restées en France, deux personnes interrogées par la police pour des soupçons de trafic d’êtres humains ont été libérées une fois établi que les passagers avaient embarqué dans l’avion de leur plein gré, selon une source judiciaire française. Vingt-cinq autres passagers, dont cinq mineurs, ont demandé l’asile en France, où les autorités continuent d’enquêter sur l’affaire pour violation potentielle des lois sur l’immigration, selon des sources judiciaires. Près de 100 000 migrants indiens ont tenté d’entrer illégalement aux États-Unis en 2023, selon le service des douanes et de la protection des frontières.

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