• Le plastique ne se recycle pas
    https://lesjours.fr/obsessions/les-plastiqueurs/ep6-recyclage

    Les promesses n’engagent que ceux qui les croient. C’est le calcul qu’a fait l’industrie du plastique dès les années 1980, en décidant de promouvoir le recyclage de son matériau fétiche. À première vue, l’idée semble séduisante, brillante même. Qui ne voudrait pas croire au recyclage ? Un processus vertueux visant à faire disparaître les déchets plastiques que nous générons pour en faire de nouveaux emballages ou de nouveaux canards de bain. Avec cette alléchante promesse : la fin du plastique dans les océans et une boucle infinie qui permettrait de ne plus jamais produire de plastique vierge. Attendez… « Ne plus jamais produire de plastique vierge » ? À moins d’être suicidaire, comment l’industrie du plastique pourrait-elle soutenir un processus qui signerait sa mort ?

    La réponse se trouve dans l’excellent documentaire Plastic Wars, diffusé ce printemps et réalisé conjointement par NPR et PBS, la radio et la chaîne de télévision publiques américaines. Dans cette enquête de la journaliste Laura Sullivan, trois anciens responsables de l’industrie admettent pour la première fois à visage découvert que la promotion du recyclage ne faisait que répondre à une stratégie pour verdir l’image du plastique auprès des consommateurs et les déculpabiliser dans leurs achats.

  • #Marco_Albino_Ferrari. Contro l’assalto alle Alpi

    I territori montani sono minacciati da modelli di sviluppo ormai superati. È tempo di un pensiero nuovo, consapevole e rispettoso, come racconta il giornalista e scrittore, responsabile del settore cultura del Club alpino italiano

    “Assalto alle Alpi”, l’ultimo libro di Marco Albino Ferrari, giornalista, direttore editoriale e responsabile del settore cultura del Club alpino italiano (Cai), si apre con il racconto di una storia dimenticata ma dalla grande portata simbolica, quella di Viola Saint Gréé: un piccolo Comune in provincia di Cuneo dove negli anni Sessanta del Novecento iniziarono i lavori per la costruzione di un moderno complesso sciistico, sul modello delle stazioni “sky total” allora di moda in Francia. Nel volgere di pochi anni furono costruiti alberghi, appartamenti e multiproprietà e un enorme complesso edilizio (la Porta delle Alpi) dove gli sciatori potevano trovare tutto il necessario per il soggiorno e lo svago: dai ristoranti ai minimarket, dalle sale convegni a quelle per gli spettacoli.

    Per alcuni anni fu un successo. Poi, a partire dalla fine degli anni Ottanta, le nevicate si fecero sempre meno frequenti e abbondanti e gli anni Novanta segnarono la fine dell’avventura del piccolo comprensorio piemontese. Mentre cammina all’interno degli enormi locali vuoti e ormai vandalizzati, Ferrari si chiede quante siano le Viola Saint Gréé che punteggiano le Alpi: “Quante avventure fallimentari esistono intorno a noi, sulle quali ci ostiniamo a puntare grosse partite di denaro pubblico?”.

    Ferrari invita però a non demonizzare l’industria dello sci: “In passato ha evitato lo spopolamento di molte vallate sulle Alpi, ridotto la povertà e portato sviluppo economico -dice ad Altreconomia-. Oggi però la situazione è radicalmente cambiata. Molte stazioni sciistiche, soprattutto a quelle a bassa quota, hanno dovuto chiudere per effetto dei cambiamenti climatici: solo in Piemonte quelle attive oggi sono 30 a fronte delle 46 del 2013. Abbiamo tante piccole realtà che chiedono risorse pubbliche per poter continuare a operare. E poi ci sono le grandi società che gestiscono i grandi complessi, che puntano a crescere sempre più”.

    Può farci qualche esempio?
    MAF Penso a Dolomiti Supersky, con i suoi 12 comprensori e 450 impianti di risalita, che si estende su un totale di 1.200 chilometri di piste: l’equivalente della distanza tra Milano e Cosenza. Una superficie enorme dove si fa largo uso dei cannoni per produrre neve artificiale, ma le giornate in cui la temperatura rimane costantemente sotto i meno due gradi (in gergo, i cosiddetti “giorni-neve”) sono sempre meno e in quel ristretto lasso di tempo va prodotta la maggior quantità di neve possibile. Questo richiede una grande disponibilità d’acqua, servono quindi più invasi artificiali per raccoglierla e conservarla. Tutte queste infrastrutture resteranno sul territorio per sempre: si tratta di azioni irreversibili. Ma questi grandi comprensori non chiedono di aumentare la propria capacità di offerta per adeguarsi alla domanda degli sciatori (provenienti soprattutto dall’estero e da Paesi non alpini) ma per battere la concorrenza, vantare un nuovo primato. Un po’ come avviene nelle città con i centri commerciali che diventano sempre più grandi senza che ci sia una reale domanda.

    È possibile trovare una sostenibilità per l’industria dello sci?
    MAF Sì, è possibile. Ma per prima cosa occorre interrompere quell’accanimento terapeutico che permette di mantenere in vita le piccole stazioni sciistiche situate in località dove la neve è destinata a scomparire. E bisogna dire basta all’aumento delle piste da sci: non c’è bisogno di nuove infrastrutture dal momento che il numero di praticanti di questa disciplina non sta aumentando. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta: ma lo sci è solo un mezzo per farlo. Dopo il Covid-19 abbiamo visto grandi affollamenti di turisti in molte località alpine, soprattutto quelle più famose e pubblicizzate.

    “L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta. Ma lo sci è solo uno dei mezzi per farlo”

    Vede il rischio di ripetere con il turismo estivo quello che è stato fatto con quello invernale?
    MAF Sì, questo pericolo c’è. Non si può impedire a nessuno di andare in montagna e se ha voglia di farlo è giusto che vada: però si può riflettere su dove andare. Oggi ci sono grandi concentrazioni e altrettanto grandi vuoti. Il Parco nazionale del Gran Paradiso o le Dolomiti, solo per fare due esempi, sono frequentati da milioni di persone, mentre appena al di fuori dai loro confini il numero di turisti ed escursionisti cala significativamente. Stiamo creando una geografia di luoghi “di serie A” certificati in diversi modi come eccellenze, come è successo alle Dolomiti con il riconoscimento di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco, e in questo modo tutti gli altri vengono automaticamente declassati a luoghi ordinari e “di serie B”.

    Come fare per cambiare questa situazione?
    MAF Indicando strade alternative, evitando l’eccessiva concentrazione di turisti sia nei luoghi sia nel tempo. Le Alpi si affollano nel mese di agosto, certamente chi ha le ferie in quel periodo dell’anno non può fare diversamente, ma l’autunno è una stagione meravigliosa per frequentare le montagne e oggi i rifugi alpini tendono a prolungare le aperture. Occorre passare da un modello “concentrato e grande” a uno “diffuso e più piccolo” attraverso un’operazione culturale che aiuti questo cambio di prospettiva. Anche noi che facciamo comunicazione dovremmo lavorare per sostenere questo cambiamento.

    In “Assalto alle Alpi”, pubblicato per Einaudi, lei scrive che l’unica via per arginare la cultura dell’eccesso è promuovere un senso diffuso della misura e le Alpi possono insegnarci molto da questo punto di vista. Di quale insegnamento si tratta?
    MAF Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione, che può offrire solo una quantità di risorse limitata. Le comunità alpine storiche hanno dovuto fare i conti con questa finitezza dei luoghi e di conseguenza hanno dovuto sempre tenere sott’occhio l’andamento demografico: se diminuiva non c’erano abbastanza braccia per i lavori collettivi, ma se invece le bocche da sfamare aumentavano era necessario emigrare, andarsene. Analogamente, anche il nostro Pianeta è un luogo finito, proprio come un fondovalle alpino. La mia vuole essere una provocazione, io non sono una persona che guarda al passato come a un luogo di verità: però questo rappresenta l’esempio lampante di come una crescita infinita, come quella che ci impone il moderno sistema capitalistico, sia impossibile. Così come il mito di una storia che punta sempre verso un progresso non reversibile.

    “Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione e che può offrire solo un quantità finita di risorse”

    Quali interventi sono necessari per costruire un nuovo rapporto, più proficuo e sostenibile, tra città e aree montane?
    MAF Innanzitutto ricordando che la montagna non è solo turismo, come dimostrano le esperienze delle tante famiglie giovani che tornano o scelgono di trasferirsi nelle terre alte. La montagna ha bisogno di una legge quadro: durante la scorsa legislatura il Consiglio dei ministri aveva approvato un testo che sarebbe dovuto poi andare alle Camere, ma poi con la caduta dell’esecutivo si è fermato tutto. Ora bisognerà ricominciare da capo. Servono diverse tipologie di interventi per incentivare il ritorno della vita in montagna, ad esempio favorire la ricomposizione fondiaria dei terreni che, nel passaggio di padre in figlio, si sono sempre più ridotti di dimensioni fino a ridursi a microparticelle che singolarmente non sono sufficienti per vivere. Occorre intervenire per favorire le aziende che nascono in montagna per iniziativa dei giovani, ma soprattutto una visione complessiva che metta insieme tutte queste azioni. Ovviamente questo intervento da solo non basta, ma è urgente agire. Tenendo conto che purtroppo le aree montane offrono pochissimi voti e quindi, spesso, la politica se ne dimentica.

    Dedica anche ampio spazio all’analisi degli stereotipi che riducono le Alpi a luoghi salvifici o a parco di divertimenti per le persone in fuga dalla città. Quando nascono?
    MAF Nascono nell’Ottocento e individuano le Alpi come luogo alternativo alle città che, negli anni della seconda rivoluzione industriale, diventano sempre più inquinate e invivibili. Le vette alpine e i suoi abitanti vengono idealizzati, diventano il luogo salvifico per antonomasia: un mondo in cui tutto è bene, pulito, buono e armonioso. Questa idea di alterità rispetto alla città, in cui in montagna rimane tutto fermo e uguale a sé stesso continua fino ai giorni nostri e provoca uno scollamento dalla realtà che però non fa bene né ai cittadini né a chi abita sulle Alpi.

    https://altreconomia.it/marco-albino-ferrari-contro-lassalto-alle-alpi
    #Alpes #assaut #développement #modèle_de_développement #transition #ski #post-neige #montagne #livre #sky_total #industrie_du_ski #Dolomiti_Supersky #soutenabilité #tourisme_hivernal #alternatives #représentations #stéréotypes

  • la sécu assaisonne les pauvres - relevé aux marges de l’oiseau mort

    ça me rappelle quand la sécu m’est tombé dessus pour une merde dans le traitement ortho [de l’enfant].
    la salope me demandait à moi un trop perçu alors que c’était IMPOSSIBLE que je sois la source de l’erreur. ce sont les SOIGNANTS qui font les déclarations d’actes, pas moi !
    et pareil j’avais du chercher partout comprendre la cotation en TO d’un foutu orthodontiste qui gagne 150k par an et faire bosser sa secrétaire pour arriver à PROUVER une erreur de SA PART qui ne pouvait PAS m’être imputée. je ne passe pas les actes sur ma vitale moi même hein.
    mais la sale conne de la #cpam elle était FASCISTE DONC elle voyait aucun prb à me dire à moi de rendre 300 euros au lieu de demander à la soignante de vérifier sa compta !
    et vous voyez pas le NOMBRE de VIES que vous BOUSILLEZ comme ça INJUSTEMENT en BROYANT DES GENS qui n’ont pour la plupart pas les moyens de défendre parce qu’ils sont PAS même AUTORISES à entrer dans leur propre dossier !!

    pour ma part, je paume près de 200 euros de remboursement de frais de santé (une paille) et je ne suis pas certains après moultes démarches de récupérer un #indu en ma faveur de 200 balles résultant de prélèvements automatiques pour une couverture solidarité santé (#CSS, mais ils aiment pas la langue ordinaire, faut dire #C2S !) à laquelle j’étais de droit éligible gratos et de façon automatique du fait de dépendre du RSA socle durant la période concernée.
    après déplacements, messages, coups de fils, courriers divers, tous suivis de non réponses (on me parle d’autre chose que ce qui motive mes démarches ah ah ah), j’ai l’impression de devoir entamer une procédure... pour que - comme Pôle, CAF et préfectures savent le faire - ils lâchent le morcif la veille d’une audience afin d’éviter une condamnation. grosse fatigue.

    dernier contact en date :
    moi, en guise de politesse un tant soit peu politique, une manie avec les employés qui font du phoning (I did some), quelque soit l’objet, et pour les commerciaux c’est le standard " non je suis pas disponible pour vos employeurs, désolé, et puisque vous ne pouvez sans doute pas faire grève, n’hésitez pas à prendre un arrêt maladie si vous avez une mutuelle qui vous couvre", après avoir pris un énième râteau dans les ratiches, je conclue , "bon courage à vous, ça ne doit pas être facile de claquer la porte au nez des gens comme ça madame"
    l’agente qui m’a dit que c’est #normal que l’on me rembourse 40€ sur 220€ de frais de santé parce que c’est l’État mais pas eux qui fait payer chaque année 50 euros de #franchise sur les frais et que j’ai fait l’erreur d’aller au même labo d’imagerie que de coutume pour un truc éventuellement urgent mais qu’ils ont contrairement à l’habitude fait payer un dépassement : "mais non, rassurez-vous ! je suis très contente de mon métier, on aide les gens"

    l’impression d’avoir affaire à un contrôleur sncf zélé qui fait tout pour te mettre à l’amende et que ça sourd, effectivement, le fascisme, l’obéissance infinie dans la bonne conscience à bloc.

  • Interdiction européenne des « produits chimiques éternels » : Berlin se rétracte
    https://www.euractiv.fr/section/sante/news/interdiction-europeenne-des-produits-chimiques-eternels-berlin-se-retracte

    En janvier dernier, cinq États — l’Allemagne, la Suède, les Pays-Bas, le Danemark et la Norvège, non-membre de l’UE — ont proposé une interdiction à l’échelle de l’UE de plus de 10 000 substances per- et poly-fluoroalkyles (#PFAS) dangereuses, surnommées « produits chimiques éternels » en raison de leur longue durée de décomposition.

    Bien que Berlin ait été parmi les premiers à suggérer cette interdiction, le ministre de l’Économie verte et du Climat a fait part de ses inquiétudes jeudi (3 août) et a appelé à un « sens de la proportion » lorsqu’il s’agit de réglementer les PFAS.

    [...] M. Habeck a souligné que ce groupe de produits chimiques joue un rôle clé dans les « technologies du futur  », telles que les #semi-conducteurs, les électrolyseurs et les moteurs électriques, dont beaucoup sont essentiels pour les transitions écologique et numérique.

    « Dans ce cas, les PFAS ne peuvent pas être simplement remplacés et nous ne devons pas empêcher le développement de technologies en les réglementant de manière excessive », a-t-il déclaré, ajoutant qu’il fallait trouver un cadre réglementaire permettant des exemptions pour les « technologies clés ».

    Les préoccupations de M. Habeck concernant une interdiction générale ont été reprises par plusieurs associations industrielles [ou l’inverse].

    Dans une déclaration publiée le même jour, des représentants de l’industrie automobile, de l’ingénierie mécanique et de l’#industrie électronique et numérique ont alerté sur le fait que « sans les PFAS, la transition énergétique et la mobilité risquent de s’arrêter complètement  ».

  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis

  •  »Wir mussten uns immer etwas einfallen lassen« 
    https://www.jungewelt.de/artikel/455343.werksleiter-in-der-ddr-wir-mussten-uns-immer-etwas-einfallen-lassen

    L’industrie de l’état socialiste allemand comprenait plusieurs entreprises qui fabriquaient des produits de meilleure qualité que ceux des concurrents occidentaux. Dans son autobiographie le directeur d’usine Wolfgang Beck raconte comment c’était possible. Sa conclusion : l’organisation de la production selon les principes socialistes est plus humaine et efficace que celle pratiquée sous les régimes capitalistes - mais le pouvoir absolu du parti SED empêchait son succès.

    Cet article corrige quelques mythes et mensonges que les médias de la classe au pouvoir ne cessent de colporter.

    22.7.2023 von Arnold Schölzel - Als Teil der VEM-Firmengruppe wird bis heute in Wernigerode produziert. Archivfoto vom Tag vor der 40-Jahr-Feier (15.11.2001)

    Als damals jüngster Betriebsdirektor der DDR wurden Sie 1984 mit 34 Jahren Chef des Elektromotorenwerks Wernigerode. Allein dort gab es mehr als 3.000 Beschäftigte, an anderen Standorten noch mehr, und Sie exportierten in 47 Länder. Ihre Motoren waren der Konkurrenz auf dem Weltmarkt technisch überlegen. Ihrem Buch entnehme ich: Ein Betriebsdirektor war zwar für Produktion und Planerfüllung verantwortlich, zugleich aber auch für so ziemlich alles, was es in der sozialistischen Industrie sonst noch gab: Kantinen, Sozialeinrichtungen, Frauentagsfeiern, Feuerwehr, Zivilverteidigung, Kampfgruppen, Sportvereine, Stadtfest und vieles andere. Ich habe mir beim Lesen gesagt: Das kann niemand bewältigen. Ging offenbar doch, aber wie?

    Es stimmt, wir Betriebsdirektoren mussten alles organisieren und einigermaßen in der Materie Bescheid wissen. Da half zum Beispiel, dass wir uns untereinander kannten, uns austauschten und Partisanenaktionen starteten, wenn es eng wurde. Das passierte zum Beispiel beim Import von Kugellagern. Immer am Jahresende wollte der Generaldirektor des zuständigen Importbetriebes wenig Devisen ausgeben, weil davon seine Jahresendprämie abhing. Der Generaldirektor meines Kombinats erhielt die aber für realisierte Exporte – ein echter Interessenkonflikt. Ende 1984 wurden mal wieder die Kugellager nicht geliefert. Ich telefonierte mit Schweinfurt und verabredete eine Direktzustellung. Wir machten einen Lkw der Kampfgruppe einsatzbereit, ich besorgte über die Kreisdienststelle der Staatssicherheit alle Genehmigungen. Von Schweinfurt rollten zwei Tonnen Kugellager Richtung Grenze, beide Fahrzeuge trafen sich im Niemandsland, und alles wurde unter Bewachung umgeladen. Nach 24 Stunden lief unsere Produktion wieder. Das Nachspiel: Der Importbetrieb alarmierte die Bilanzinspektion der DDR wegen angeblichen Missbrauchs von Valutamitteln und illegaler Einfuhr und schickte sie los, um die Kugellager zu beschlagnahmen. Wir behaupteten einfach, alles sei schon verbaut. Für mich gab es ein Disziplinarverfahren, das nach einigen Monaten eingestellt wurde.

    Wir hatten eine andere Perspektive als die Generaldirektoren der Kombinate. Wir standen praktisch Tag und Nacht Gewehr bei Fuß. Ich war oft schon um fünf oder vier Uhr im Betrieb. Wenn ich meinen Rundgang machte, wusste ich genau, wo ich hinsehen musste: Da stand manche Flasche, obwohl Alkohol strikt verboten war – wir hatten nicht nur friedliche Schäfchen in der Produktion.

    Und hinzu kamen Leute auf der Leitungsebene, die nicht sehr sympathisch waren, weil sie Wasser predigten und Wein tranken. Ihr Parteisekretär gehörte ja offenbar dazu.

    Ja, der »rote Riese« – wir sind nie richtige Freunde geworden. Verallgemeinert gesagt, betrachte ich es als einen der Krebsschäden des sozialistischen Systems, dass sich die Partei in alles eingemischt hat. Manches war sicher akzeptabel, aber vieles ging über jede Hutschnur. Und mein Exemplar von Parteisekretär war auch noch vom Stamme »Nimm«.

    Diese Einmischung, die Sie im Buch schildern, ging sehr weit, ob das die Planvorgaben waren oder die Organisation im Betrieb.

    Das war wie eine doppelte Buchführung. Wir haben einmal an die Partei berichtet, einmal meinem Generaldirektor, und dann kam noch die staatliche Ebene. An die SED hat nur der Parteisekretär berichtet und ließ sich dafür von mir die Zahlen geben.

    Außerdem wollten das Statistikamt, der Beauftragte des Zentralkomitees der SED, Ministerien und der Außenhandel Berichte von Ihnen.

    Es herrschte das staatliche Außenhandelsmonopol, schon weil unsere Währung nur eine Binnenwährung war. Wir in den Betrieben waren für die Außenhändler eine Art Fachidioten, die für die Geschäfte leider benötigt wurden. Die Valuta, die mit unseren Produkten eingenommen wurden, haben wir in der Regel nicht gesehen. Das führte zu Gerüchten in der Belegschaft. 1989 standen Arbeiter vor meinem Büro und forderten die Herausgabe der Westmark, aber in meinem Tresor war keine.

    Ihre Produkte waren auf dem Weltmarkt sehr erfolgreich. Woran lag das?

    In Bangkok sah ich 1986 ein Förderband mit einem VEM-Motor – VEM hieß kurz unser Kombinat. Unsere Motoren kann man nämlich von weitem erkennen, sie hatten ein besseres Design als andere. Ein Elektromotor hat hinten immer einen Lüfter, und deren Schutzhauben sind in der Regel rund, unsere hatten gerundete Ecken. Wir hatten aber auch technisch etwas voraus. Wenn wir Bleche für die Motorengehäuse aus Eisenhüttenstadt erhielten, steigerten wir bei uns im Werk im Glühverfahren die Effizienz. Die westlichen Bleche hatten eine Isolationsschicht aus dünner Folie oder Lack, wir schufen eine Isolationsschicht durch Oxidierung. Die war um ein Vielfaches dünner als bei den westlichen Blechen, und der Motor hatte eine höhere Leistungsfähigkeit. Die Isolation zwischen den Blechen ist aus physikalischen Gründen nötig, aber die Dicke der Schicht bestimmt die Energieausbeute. Das Verfahren hat Günther Warnecke in Wernigerode entwickelt. Es war einmalig, und wir konnten die Leistung der Motoren fast eine Achse tiefer anlegen.

    Was bedeutet das?

    Die Höhen zwischen Boden und der Motorwelle, die vorn rausguckt, werden nach energetischer Leistung gestaffelt, Achshöhen nennt man das (Richtmaß für den Abstand zwischen dem Mittelpunkt der Welle und der Auflagefläche eines Fußmotors, jW). Und da schnitten wir gut ab. Wir haben zum Beispiel Motoren nach Carrara in die Marmorsteinbrüche geliefert. Die Marmorblöcke werden mit sogenannten Seilsägen geschnitten, der Antrieb dafür kam aus Wernigerode.

    Warum kam die Konkurrenz nicht auf die Idee mit der Oxidschicht?

    Wir verfügten über preiswertes Gas und Öl aus der Sowjetunion in Fülle. Die Glühöfen für die Bleche waren gasbetrieben. Auf der anderen Seite wurden wir vom Westen genug gebeutelt. Viele Dinge, die wir benötigten, standen auf der Cocom-Liste, der Embargoliste des Westens, die es seit 1949 gab – ein Produkt des antikommunistischen Wütens mit McCarthy und anderen in den USA an der Spitze. Vieles konnten wir nur über den DDR-Außenhandelsbetrieb Koko (»Kommerzielle Koordinierung«, jW) Alexander Schalck-Golodkowskis erhalten, das heißt unter Umgehung von Cocom.

    1988 sollten bestimmte Arbeiten für die Motoren ins Ausland verlagert werden. Elmo Wernigerode sollte das in Mönchengladbach machen. Was war da los?

    Erich Honecker war 1987 in der BRD, und davor gab es in der DDR eine große Amnestie. Damit verlor ich die mehr als 400 Leute im Knast, die für uns arbeiteten – allesamt keine politischen Gefangenen, sondern Mörder und andere Schwerverbrecher. Einige schafften es nach der Freilassung nur bis zum Bahnhof in Brandenburg an der Havel, brachen irgendwo ein oder klauten Alkohol aus dem Bahnhofskiosk. Wir hatten danach für die großen Motoren keine Wickelkapazitäten mehr und holten Leute aus der Verwaltung. Dann kam der Befehl, das nach Mönchengladbach zu verlagern, obwohl ich durch meine guten Kontakte nach Italien ein Angebot aus Malta hatte, das preisgünstiger war. Die Regierung dort wollte mit enormen Fördermitteln Industriearbeitsplätze aufbauen. Wir hatten mit Mönchengladbach nur Verluste, aber es ging darum, unsere Märkte weltweit zu sichern. Wir konnten keinem Kunden erzählen, dass wir nicht liefern können, weil wir eine Amnestie hatten.

    Warum gab es nach Italien so gute Kontakte?

    Unsere Motoren waren den italienischen, zum Beispiel von Marelli, weit überlegen. Das lag an einer technischen Besonderheit: Elektromotoren haben oben den Anschluss für das Stromkabel, nennt sich Klemmbrett. Die Italiener hatten dafür keine vernünftigen Lösungen und ihre Motoren rauchten immer wieder ab.

    Sie schildern im Buch eine Sabotageaktion an einem Motor, der dann in die Bundesrepublik geliefert worden war. Gab es so etwas öfter?

    Besonders die Jungs im Knast waren nicht zimperlich. Trotz strenger Kontrolle der fertigen Motoren passierte das – sie hatten eine Schraubenmutter in einen Wickelkopf gesteckt. Bei jedem Anlauf des Motors entwickeln sich dort große Kräfte, irgendwann scheuert das Kabel durch, und dann ist es passiert. Aber so etwas war die absolute Ausnahme.

    Wir führen dieses Gespräch am 5. Juli. In der heutigen Rheinischen Post aus Düsseldorf ist unter der Überschrift »Die Bahnkrise hat System« zu lesen: »Angesichts ihres hohen Marktanteils ist es der Bahn egal, ob Züge ausfallen oder zu spät kommen. An dieser DDR-Mentalität setzt die Monopolkommission an und fordert eine Aufspaltung. Richtig so.« Das schreibt die Wirtschaftschefin der Zeitung fast 33 Jahre nach dem Ende DDR. Was denken Sie, wenn Sie so etwas lesen?

    Purer Hass. Ich war vor 14 Tagen zur Lesung aus dem Buch »Der Osten: eine westdeutsche Erfindung« von Dirk Oschmann. Interessant waren die Gespräche der Leute hinterher: Was bin ich gewesen? Wo komme ich her? Es ging um die soziale Heimstatt der Menschen im Betrieb. Bei allen Problemen und allem Ärger, die das Arbeitsleben mit sich bringt – diese vermissen sie heute. Daher kommt der Frust. Die Menschen möchten kommunizieren und fragen nach anderen, neuen Möglichkeiten. Es geht nicht darum zu jammern, sondern das Ganze sachlich darzustellen. Ich bin kein Philosoph, sondern Techniker, für mich ist der rechte Winkel immer noch ein rechter Winkel und hat nicht 60 Grad. Gestern aber lief im Fernsehen der Film »Ein Tag in der DDR«, und ich staune, wie sie uns darstellen. Das erste, was ich sah: Diese Bierflaschen gab es in der DDR nicht, und die Bierkästen sahen anders aus. Dann haben sie noch einen alten verrosteten Laster ausgegraben. Bei aller Liebe: Solche Dinger gab es in der DDR nicht. Die Behauptung, dass die gesamte Wirtschaft marode war, ist Propaganda.

    Der Westen wundert sich, warum das Gedächtnis der DDR-Leute so lebendig ist – und damit auch die DDR. Wie erklären Sie sich das?

    Wir haben zwei Gesellschaftssysteme kennengelernt, können vergleichen und abwägen. Das führe ich im Buch ja vor. Es ist eine Hommage an alle Betriebsdirektoren, die das erlebt haben. Mir hat einer gesagt, wenn ich noch ein paar Dinge aus meinem Betrieb nehme und die einsetze, stimmt alles überein. Wie gesagt: Der Betrieb die soziale Heimat!

    Das Buch enthält eine exemplarische Geschichte?

    Wir mussten uns immer etwas einfallen lassen. Im Studium war insbesondere das dialektische Denken des Marxismus-Leninismus wichtig. Ich finde, das sollten Studierende heute wieder lernen, die Grundgesetze der Dialektik. Das wollte ich unbedingt auch in meinem Buch drin haben. Diese Denkweise eröffnet auch Blicke in die Zukunft, hin zu dem, was ich Bedarfsökonomie nenne und bei den Inuits gefunden habe: Man darf nur das verbrauchen, was tatsächlich benötigt wird. Aber wo sind wir heute? Zumal, wenn ich sehe, dass alle Haushalte gekürzt werden, nur der fürs Militär nicht.

    Die Vielzahl Ihrer Funktionen ist unglaublich. Sie waren Abgeordneter im Bezirkstag und schließlich auch in der Volkskammer. War das nicht einfach zu viel?

    Das war es, und ich habe irgendwann auch »Schluss« gesagt. Aber die Tatsache, dass das Elmo noch Bestand hat, hat damit zu tun, dass ich als Volkskammerabgeordneter einen guten Draht in die Modrow-Regierung hatte. Sonst hätten die uns platt gemacht wie andere Kombinate und Betriebe auch. Ich war in der Arbeitsgruppe, die das Kombinat 1990 in eine Aktiengesellschaft umwandeln sollte, der einzige Betriebsdirektor. Ich war kein großes Licht, aber wir haben sehr schnell mitbekommen, dass die Treuhandgesellschaft kommt. Außerdem kannte ich ihren ersten Direktor, dessen Name heute fast vergessen ist: Peter Moreth von der LDPD in Magdeburg. Er hat uns im Elmo besucht, und wir haben zusammen die erste GmbH der DDR gegründet. Später habe ich auch Detlev Karsten Rohwedder kennengelernt, der ab August 1990 die Treuhand zunächst kommissarisch leitete. Ich kann nur sagen: Er war sehr, sehr vernünftig. Zu mir sagte er zum Beispiel: »Sorgen Sie dafür, dass Ostdeutschland nicht das Land der Tochterunternehmen wird.« Ich bin darum heute noch der Meinung, dass nicht die RAF Rohwedder ermordet hat. Es reicht, sich anzuschauen, was danach kam.

    Die Figuren aus dem Westen, die bei Ihnen im Betrieb auftauchten, schildern Sie jedenfalls als unfähige Clowns. Welche Firma konnte sich dann das Elmo unter den Nagel reißen?

    Als Birgit Breuel an die Macht in der Treuhand kam, wurden sogenannte Management-KGs geschaffen. Ich nannte das die Klubs der Schwererziehbaren. Das Elmo hatte sich ja bewährt, und wir wollten jetzt eine vernünftige Umbewertung in D-Mark. Aber dann tauchte Adolf Merck­le auf, der durch Ratiopharm unheimliche Gewinne erzielte und Milliardär geworden war. Er erhielt von der Treuhand eine Mitgift zur Übernahme von VEM, das heißt einen Verlustvortrag von 800 Millionen, vielleicht sogar einer Milliarde D-Mark. Er übernahm den ganzen VEM-Verbund und dazu Immobilien, die er zunächst gar nicht wollte. Wir besaßen zum Beispiel ein wunderschönes Ferienheim in Altenberg sowie ein Gästehaus, ein Jugendklubhaus und eine Skihütte. Das passte alles nicht in eine Kapitalgesellschaft. Sie sind aber heute noch in der VEM Immobilien GmbH im Besitz der Merckle-Gruppe. 2017 erwarb dann eine chinesische Unternehmerfamilie die drei profitabelsten deutschen VEM-Standorte. In Wernigerode arbeiten heute noch 300 bis 350 Leute.

    Sie haben in Blankenburg einen Betrieb gegründet. Was wird da produziert?

    Wir haben in Wernigerode angefangen, Speziallacke zu entwickeln. Mit Nanopartikeln lassen sich funktionale Lacke herstellen – wärmeleitende, antimikrobakterielle und andere. Als Mikroelektroniker kannte ich mich bereits mit kleinen feinen Teilen aus. Und so gibt es heute einen Spezialklebstoff, mit dem zum Beispiel Solarzellen zwecks Kühlung verklebt werden können. Solarzellen haben nämlich die unangenehme Eigenschaft, sich bei Sonneneinstrahlung zu erwärmen, wodurch ihre Leistung sinkt. Wird aber die Solarzelle wie in unserer Energiebox gekühlt, erhöht sich ihr Wirkungsgrad – und zwar erheblich. Das Prinzip solcher Thermogeneratoren hat der Physiker Thomas Seebeck bereits 1821 entdeckt. In afrikanischen Ländern können so ganze Dörfer bei geringem Aufwand mit Strom und Wasser versorgt werden. Ich habe noch sehr gute Kontakte nach Uganda, weiß aber auch, dass zum Beispiel in Tansania die Entsalzung von Meerwasser, das ins Grundwasser eindringt, ein großes Problem ist. Das kann mit unserer Energiebox gelöst werden. Ein weiteres Beispiel ist Bangladesch: Das Wasser, das aus dem Himalaja kommt, ist stark mit Arsen belastet. Die Entgiftung wird mit geringen Kosten hier möglich.

    Der Titel Ihres Buches lautet: »Alles hat ein Ende – auch die Marktwirtschaft«. Warum sind Sie so davon überzeugt?

    Erstens bin ich der Meinung, dass die Entwicklung immer weitergeht.

    Die technische?

    Auch die gesellschaftliche. Zweitens wollte ich ein bisschen das Denken anheizen. Ich bin nach wie vor der Meinung, dass das sozialistische Wirtschaftssystem unheimlich gute Ansätze hat – wenn man die Partei aus ihnen rausnimmt. Am Ende meines Buches habe ich als Fazit acht Thesen formuliert, die sich mit dem produzierenden und dem verbrauchenden Teil der Gesellschaft befassen. Ich halte zum Beispiel überhaupt nichts davon, dass wir die Gesundheitsversorgung am Kommerz und nicht am Bedarf orientieren. In einer der Thesen steht, dass das, was wir in der DDR an kostenloser Bildung genießen durften, heute überall zu vermissen ist. Auf der einen Seite hat die Parteiherrschaft im Betrieb, der Lobbyismus, nichts zu suchen. Auf der anderen Seite muss die gesamte gesellschaftliche Struktur auf anderen Grundlagen als heute stehen, zum Beispiel dem Prinzip der materiellen Interessiertheit. Das steckt hinter dem Titel.

    Dr.-Ing. Wolfgang Beck wurde 1950 geboren, studierte an der Technischen Universität Dresden Elek­trotechnik und arbeitete ab 1975 in seiner Heimatstadt Blankenburg am Harz im Forschungs- und Entwicklungswerk der Deutschen Reichsbahn. 1984 wurde er zum damals jüngsten Betriebsdirektor der DDR berufen und leitete den VEB Elektromotorenwerk (Elmo) Wernigerode bis zur Übernahme durch eine westdeutsche Firma.

    Im Frühjahr erschien Wolfgang Becks Autobiographie »Alles hat ein Ende – auch die Marktwirtschaft« (Rohnstock-Biografien/THK- Verlag, Arnstadt 2023, 267 Seiten, 19,90 Euro)

    #DDR #Allemagne #histoire #biographie #industrie #socialisme

  • “Sound of Freedom”, le film à succès qui réjouit les complotistes américains
    https://www.telerama.fr/cinema/sound-of-freedom-le-film-a-succes-qui-rejouit-les-complotistes-americains-7

    Il faut dire que Sound of Freedom a tout pour plaire à la droite la plus conservatrice et conspirationniste, qui prospère dans les États du Middle West et du Sud. Il y a tout d’abord la personnalité de Tim Ballard, un « héros » américain à la religiosité exacerbée (il est mormon et a neuf enfants), qui a, d’ailleurs, utilisé les réseaux QAnon pour financer son ONG. Il y a, ensuite, le sujet même du film : la lutte contre la pédophilie est une obsession de longue date des réseaux conspirationnistes, comme l’a rappelé sur Twitter l’universitaire Marie Peltier : « C’est en réalité un vieil imaginaire, profondément ancré dans l’antisémitisme, qui refait surface, analyse cette professeure à l’institut supérieur de pédagogie Galilée de Bruxelles et spécialiste du complotisme. Le postulat : les “élites” seraient à la tête ou a minima couvriraient des réseaux pédocriminels. »

    Pour rappel, les partisans de QAnon sont persuadés qu’une guerre secrète oppose Trump aux élites démocrates de la finance, des médias et de Washington qui seraient à la tête de réseaux satanico-pédophiles et tortureraient des enfants pour leur soutirer de l’adrénochrome, une substance rajeunissante… Jim Caviezel, l’acteur principal – et par ailleurs catholique intégriste – de Sound of Freedom, a lui même repris ces accusations lors de sa tournée de promotion du film sur les médias pro-Trump (comme la télé en ligne Real America’s Voice), accusant notamment les agences de renseignement américaines de couvrir les réseaux pédophiles…

  • Marchons pour un monde sans arme nucléaire
    https://www.obsarm.info/spip.php?article565

    Le samedi 23 septembre, ICAN #France, le Mouvement pour une Alternative Non-violente, le Mouvement de la Paix et l’Observatoire des armements vous donnent rendez vous à Dijon, Lyon, Paris et dans de nombreuses autres villes, pour une grande mobilisation citoyenne et joyeuse. Soyons nombreus.e.s pour cette Marche contre les #Armes_nucléaires, pour affirmer que nous voulons que la France rejoigne le Traité sur l’interdiction des armes nucléaires (TIAN) ; nous refusons la Loi de programmation (...) #Événements

    / #Prolifération_nucléaire, France, Armes nucléaires, #Industrie_nucléaire, Implantation / Bases de (...)

    #Implantation_/_Bases_de_défense
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/marchons_pour_un_monde_sans_arme_nucleaire_lyon_23sept2023_r_v.pdf
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/marchons_pour_un_monde_sans_arme_nucleaire_lyon_23sept2023_affiche.pdf

  • La cigarette Puff, ou comment l’industrie du tabac s’attaque aux mineurs RTS - Garance Aymon

    Facile d’utilisation, pas chère, arômes fruités et sucrés. Avec la puff, l’industrie du tabac met le paquet pour attirer une nouvelle génération de fumeurs. Devant l’essor de cette cigarette électronique jetable, la France et la Suisse envisagent de durcir leur législation.

    Alors qu’elle n’existe que depuis 2019, la cigarette électronique jetable, aussi appelée « puff », est dans le viseur de plusieurs gouvernements. L’Australie a déjà décidé de l’interdire, et les processus législatifs allant dans ce sens sont aussi en cours en Allemagne, en Irlande et en Suède.


    En cause ? Son succès auprès des jeunes. Selon une étude suisse récente réalisée par Unisanté, 12% des Romandes et Romands âgés de 14 à 25 ans consomment « fréquemment » des puffs, soit plus de 10 jours par mois.

    Cette étude révèle aussi que 39% des jeunes ont eu leur premier contact avec la nicotine via d’autres produits que la cigarette classique. Un chiffre nettement plus élevé que les générations précédentes.

    Stratégie marketing 2.0
    Cette tendance inquiétante est amplifiée par des stratégies marketing agressives orchestrées par les géants du tabac. Malgré leur interdiction de vente aux mineurs, des influenceurs, souvent suivis par un jeune public, sont payés pour promouvoir ces produits.

    Une stratégie adoptée par British American Tobacco, comme l’a révélé une enquête du Bureau of Investigative Journalism. La compagnie a investi pas moins de 1,2 milliard de dollars principalement sur Instagram et Tiktok, une plateforme dont la moyenne d’âge est de moins de 24 ans.

    Addictives et polluantes
    Selon les études actuelles, les puffs ne sont pas plus dangereuses pour la santé que les cigarettes classiques. Cependant, le sel de nicotine, une forme de nicotine présente dans les liquides de cigarettes électroniques, est plus facilement absorbé par l’organisme et la rend plus addictive, surtout pour les cerveaux encore en développement.

    Mais la santé de celles et ceux qui en fument n’est pas la seule en jeu. L’impact environnemental de ces dispositifs est significatif. Leur nature jetable, combinée à l’utilisation de plastique difficile à recycler et de batteries au lithium, nécessitant d’énormes quantités d’eau pour leur extraction, pose un sérieux problème écologique. Selon les estimations du Financial Times, pas moins de 90 tonnes de lithium ont été utilisées pour ces produits en 2022.

    De nouvelles mesures législatives
    Le succès des produits dérivés du tabac bénéficie aussi d’un certain flou juridique, les gouvernements ayant de la difficulté à suivre le rythme des innovations en la matière.

    La Suisse, qui classait auparavant les cigarettes électroniques comme des denrées alimentaires, a récemment requalifié ces produits pour les mettre au même niveau que les cigarettes classiques et ainsi imposer des restrictions publicitaires plus dures et une limitation d’âge à partir de 2024.

    Par ailleurs, ces derniers mois, deux motions, portées par les Vert.e.s, demandent d’interdire la vente des cigarettes électroniques à usage unique.

    #puff #cigarette_électronique_jetable #tabac #santé #lobbying #cigarettes #lobby #cancer #en_vedette #industrie_du_tabac #influenceurs #influenceuses

    Source : https://www.rts.ch/info/monde/14175703-la-cigarette-puff-ou-comment-lindustrie-du-tabac-sattaque-aux-mineurs.h

  • Ayant une #spécialisation dans le mode de #gestion à l’ #affaire, on me demande régulièrement d’en expliquer les particularités. Egalement connue sous le nom de gestion par #projet, la gestion à l’affaire se distingue globalement de la gestion par #processus telle qu’on la rencontre couramment dans l’ #industrie. En passant je vais vous donner quelques exemples concrets pour mieux illustrer le #concept.
    https://michelcampillo.com/blog/3695.html

  • Moins on mange, plus ils encaissent : l’inflation gave les bourgeois
    https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

    C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les dividendes sont plus hauts que le ciel, et les milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde […]

    • Moins on mange, plus ils encaissent : l’#inflation gave les bourgeois

      C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les #dividendes sont plus hauts que le ciel, et les #milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde pas de plus près, on pourrait considérer comme paradoxale une situation qui est parfaitement logique. Pour accumuler les milliards, il faut accumuler les dividendes. Pour accumuler les dividendes, il faut accumuler les profits. Pour accumuler les profits, il faut appauvrir la population en augmentant les #prix et en baissant les #salaires réels. Ça vous parait simpliste ? Alors, regardons de plus près les chiffres.

      Selon l’INSEE, au premier trimestre de cette année, l’#excédent_brut_d’exploitation (#EBE) des entreprises de l’#industrie_agro-alimentaire (c’est-à-dire le niveau de profit que leur activité génère) a progressé de 18%, pour ainsi s’établir à 7 milliards d’euros. Les industriels se font donc de plus en plus d’argent sur le dos de leurs salariés et, plus globalement, sur celui des Français qui galèrent pour se nourrir correctement : les ventes en volume dans la #grande_distribution alimentaire ont baissé de 9% au premier trimestre 2023 par rapport à la même période l’année précédente. La #consommation en France est ainsi tombée en-dessous du niveau de 2019, alors que la population a grossi depuis de 0,3%. Selon François Geerolf, économiste à l’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques), cette baisse de la #consommation_alimentaire n’a aucun précédent dans les données compilées par l’Insee depuis 1980. Dans le détail, sur un an, on constate des baisses de volumes vendus de -6% l’épicerie, -3% sur la crèmerie, -1,6% pour les liquides, etc. Cela a des conséquences concrètes et inquiétantes : en avril dernier, l’IFOP montrait que presque la moitié des personnes gagnants autour du SMIC se privait d’un repas par jour en raison de l’inflation.

      Une baisse de la consommation pilotée par les industriels

      Comment les entreprises peuvent-elles se faire autant d’argent, alors que nous achetons de moins en moins leurs produits ? Tout simplement, car cette baisse de la consommation est pilotée par les industriels. Ils choisissent d’augmenter massivement leurs prix, en sachant que la majorité des gens accepteront malgré eux cette hausse, car ils considéreront qu’elle est mécaniquement liée à l’inflation ou tout simplement, car ces industriels sont en situation de quasi-monopole et imposent donc les prix qu’ils veulent (ce qu’on appelle le #pricing_power dans le jargon financier). Ils savent très bien que beaucoup de personnes n’auront par contre plus les moyens d’acheter ce qui leur est nécessaire, et donc que les volumes globaux qu’ils vont vendre seront plus bas, mais cette baisse de volume sera très largement compensée par la hausse des prix.

      Sur le premier trimestre 2023, en Europe, #Unilever et #Nestlé ont ainsi augmenté leurs prix de 10,7%, #Bonduelle de 12,7% et #Danone de 10,3 %, alors que l’inflation tout secteur confondu passait sous la barre des 7%. La quasi-totalité d’entre eux voient leurs volumes vendus chuter dans la même période. Les plus pauvres, pour lesquels la part de l’alimentaire dans la consommation est mécaniquement la plus élevée, ne peuvent plus se nourrir comme ils le souhaiteraient : la #viande et les #céréales sont particulièrement touchés par la baisse des volumes vendus. Certains foyers sautent même une partie des repas. Les #vols se multiplient, portés par le désespoir et les grandes enseignes poussent le cynisme jusqu’à placer des #antivols sur la viande et le poisson.

      Les hausse des profits expliquent 70% de la hausse des prix de l’alimentaire

      Comme nous avons déjà eu l’occasion de l’écrire, les hausses de profit des #multinationales sont déterminantes dans l’inflation que nous traversons. Même le FMI le dit : selon une étude publiée le mois dernier, au niveau mondial depuis 2022, la hausse des profits est responsable de 45 % de l’inflation. Le reste de l’inflation vient principalement des coûts de l’#énergie et des #matières_premières. Plus spécifiquement sur les produits alimentaires en France, d’après les calculs de l’institut La Boétie, « la hausse des prix de #production_alimentaire par rapport à fin 2022 s’explique à plus de 70 % par celle des profits bruts ». Et cela ne va faire qu’empirer : en ce début d’année, les prix des matières premières chutent fortement, mais les prix pratiqués par les multinationales poursuivent leur progression, l’appétit des actionnaires étant sans limites. L’autorité de la concurrence s’en inquiète : « Nous avons un certain nombre d’indices très clairs et même plus que des indices, des faits, qui montrent que la persistance de l’inflation est en partie due aux profits excessifs des entreprises qui profitent de la situation actuelle pour maintenir des prix élevés. Et ça, même la Banque centrale européenne le dit. », affirme Benoît Cœuré, président de l’Autorité de la concurrence, au Parisien.

      La stratégie des multinationales est bien rodée : augmenter massivement les prix, mais aussi bloquer les salaires, ainsi non seulement leur #chiffre_d’affaires progresse fortement, mais ils génèrent de plus en plus de profits grâce à la compression de la #masse_salariale. Les calculs sur longue période de l’Institut La Boétie donnent le vertige : « entre 2010 et 2023, le salaire brut horaire réel (c’est-à-dire corrigé de l’inflation) a baissé de 3,7 %, tandis que les profits bruts réels, eux, ont augmenté de 45,6 % ». Augmenter massivement les prix tout en maintenant les salaires au ras du sol permet d’augmenter le vol légal que les #actionnaires commettent sur les salariés : ce qu’ils produisent est vendu de plus en plus cher, et les patrons ne les payent par contre pas davantage.

      La Belgique a le plus bas taux d’inflation alors que les salaires y sont indexés

      L’une des solutions à cela est bien connue, et était en vigueur en France jusqu’en 1983 : indexer les salaires sur les prix. Aujourd’hui seul le SMIC est indexé sur l’inflation et la diffusion des hausses du SMIC sur les salaires plus élevés est quasi inexistante. Les bourgeois s’opposent à cette mesure en affirmant que cela risque de favoriser encore davantage l’inflation. Les statistiques prouvent pourtant le contraire : la Belgique est le pays affichant le plus bas taux d’inflation en avril 2023 (moins de 5% tandis qu’elle atteint 6,6% en France) alors que là-bas les salaires s’alignent automatiquement sur les prix. Il est urgent de mettre en œuvre ce genre de solutions en France. En effet, la situation devient de plus en plus intenable : la chute des #conditions_de_vies de la majorité de la population s’accélère, tandis que les bourgeois accumulent de plus en plus de richesses.

      Cela dépasse l’entendement : selon le magazine Challenges, le patrimoine professionnel des 500 plus grandes fortunes de France a progressé de 17 % en un an pour s’établir à 1 170 milliards d’euros cette année ! En 2009, c’était 194 milliards d’euros… Les 500 plus riches détiennent donc en #patrimoine_professionnel l’équivalent de presque la moitié de la #richesse créée en France par an, mesurée par le PIB. Et on ne parle ici que de la valeur des actions qu’ils détiennent, il faudrait ajouter à cela leurs placements financiers hors du marché d’actions, leurs placements immobiliers, leurs voitures, leurs œuvres d’art, etc.

      La #France au top dans le classement des gros bourges

      La fortune de #Bernard_Arnault, l’homme le plus riche du monde, est désormais équivalente à celle cumulée de près de 20 millions de Français et Françaises d’après l’ONG Oxfam. Sa fortune a augmenté de 40 milliards d’euros sur un an pour s’établir à 203 milliards d’euros. Ce type a passé sa vie à exploiter des gens, ça paye bien (à peine sorti de polytechnique, Bernard Jean Étienne avait pris la direction de l’entreprise de son papa). Au classement des plus grands bourges du monde, la France est donc toujours au top, puisque non seulement on a l’homme le plus riche, mais aussi la femme, en la personne de #Françoise_Bettencourt_Meyers (patronne de L’Oréal, 77 milliards d’euros de patrimoine professionnel). Mais il n’y a pas que le luxe de représenté dans ce classement, la grande distribution est en bonne place avec ce cher #Gérard_Mulliez (propriotaire des #Auchans notamment) qui détient 20 milliards d’euros de patrimoine ou #Emmanuel_Besnier, propriétaire de #Lactalis, le 1er groupe mondial de produits laitiers, qui émarge à 13,5 milliards.

      Les chiffres sont vertigineux, mais il ne faut pas se limiter à une posture morale se choquant de ces #inégalités sociales et appelant, au mieux, à davantage les taxer. Ces fortunes ont été bâties, et progressent de plus en plus rapidement, grâce à l’exploitation du travail. L’augmentation de valeur de leurs entreprises est due au travail des salariés, seul créateur de valeur. Tout ce qu’ils détiennent est ainsi volé légalement aux salariés. Ils doivent donc être pris pour cible des mobilisations sociales futures, non pas principalement parce qu’ils sont #riches, mais parce qu’ils sont les plus gros voleurs du monde : ils s’emparent de tout ce qui nous appartient, notre travail, notre vie, notre monde. Il est temps de récupérer ce qui nous est dû.

      https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

      #profit #économie #alimentation #chiffres #statistiques

  • A #Tataouine, ville des #candidats_à_l’exil : « Toute la #Tunisie souffre, mais ici, c’est pire »

    L’#exode des #jeunes de Tataouine, ce sont les parents qui en parlent le mieux. Le père de Wajdi porte beau, mais son costume élimé raconte aussi bien l’usure du tissu que celle de son propriétaire : « Tout nous est interdit. Les places dans les entreprises publiques et les compagnies pétrolières sont toujours pour les autres. Même commercer avec la Libye est devenu compliqué. Mon fils est parti l’an dernier pour la France. Je lui souhaite d’être heureux, car ici, c’est difficile. »

    Installé à la terrasse du café Ennour, donnant sur le principal rond-point de la ville, à 540 km au sud de Tunis, l’homme de 56 ans, qui refuse de donner son nom, résume en cinq minutes des décennies de marginalisation. A l’horizon, les collines rocailleuses entourant la ville accentuent le sentiment d’oppression. Tataouine est connue pour avoir donné son nom à la planète Tatooine dans la saga Star Wars. Dans la réalité, la région bascule du côté obscur de la Force. Quelque 12 000 jeunes, soit 8% du gouvernorat (équivalent d’une préfecture), sont partis en 2022 pour l’Europe, selon le sociologue du cru Mohamed Nejib Boutaleb, ancien professeur de l’Université de Tunis.

    Les Tataouinois ne sont pas les seuls à s’exiler. Selon le ministère italien de l’Intérieur, l’arrivée de clandestins tunisiens a augmenté de 55% depuis le début de l’année. En 2023, la Tunisie est même devenue le principal pays de départ des migrants souhaitant traverser la Méditerranée, devant la Libye voisine. Une hausse qui inquiète les Européens, en particulier l’Italie, qui redoute qu’un effondrement économique de la Tunisie, très endettée (80% du PIB), amplifie ce phénomène.

    La crise est telle qu’elle a conduit la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, accompagnée de la cheffe du gouvernement italien et du Premier ministre néerlandais, à se rendre à Tunis le week-end dernier. L’objectif : proposer une aide financière de plus d’1 milliard d’euros à long terme, dont 100 millions d’euros pour le « contrôle » de ses frontières. Un outil supplémentaire qui permet à l’Union européenne d’externaliser ses frontières, en déléguant la gestion des flux migratoires à des pays tiers, souvent peu réputés pour le respect des droits humains.
    De solides réseaux

    Pour éviter la dangereuse traversée de la Méditerranée et ses contrôles renforcés, Tataouine a donc cherché une autre route, celle des Balkans. Jusqu’au 20 novembre, les Tunisiens n’avaient pas besoin de visa pour se rendre en Serbie. Ils arrivaient donc à Belgrade en avion avant de franchir illégalement la frontière avec la Hongrie. Dans ses travaux, Mohamed Nejib Boutaleb a ainsi recensé, en 2022, 11 200 demandes d’autorisation parentale de voyage émanant du gouvernorat. Pour juguler le départ de combattants jihadistes dans les zones de combat, les autorités ont rendu ce document obligatoire pour les citoyens de moins de 35 ans.

    Une place dans un bateau pour traverser la Méditerranée coûte pourtant bien moins cher : 1 000 dinars (300 euros) contre environ 25 000 dinars (7 500 euros) pour le trajet de l’aéroport de Tunis à la France, via les Balkans. D’autant que la région méridionale est l’une des plus pauvres du pays, avec un chômage autour de 30%, deux fois supérieur au niveau national. Mais ses habitants s’appuient sur la solidarité régionale. Le père de Wajdi précise qu’il a contracté un prêt à la consommation de 3 500 dinars pour le départ de son fils. Un de ses amis, venu le rejoindre au café, embraye : « Moi, j’ai vendu 35 000 dinars un terrain de 400 m² pour payer le trajet à mon fils. C’est beaucoup plus sûr que de prendre la mer. » Et si les parents ne peuvent pas, la diaspora prend le relais.

    Depuis les années 60 et la première vague d’émigration, lancée par la France désireuse de main-d’œuvre bon marché, les Tataouinois ont eu le temps de construire de solides réseaux. Des entrepreneurs dans le secteur du bâtiment et de la boulangerie-pâtisserie acceptent de payer une partie des frais de leurs futurs employés. Rafik sort du coiffeur après avoir rafraîchi sa coupe, car il s’apprête à travailler dans un hôtel de Djerba pour la saison touristique. Sa famille a préféré miser sur son petit frère pour le grand départ : « Son patron lui a avancé de l’argent. Moi, je lui ai filé 4 000 dinars. Il bosse maintenant dans une boulangerie en région parisienne. »

    L’exode se ressent visuellement dans la ville. Les personnes âgées y sont plus visibles, bien que le gouvernorat possède le taux de fécondité le plus élevé du pays – 4,6 enfants par femme contre 3,4 au niveau national. Ce jour-là, les rues sont animées. L’équipe de football locale rencontre le Club africain, une des deux équipes phares de la capitale, Tunis. Une occasion rare d’échapper au quotidien. Au stade, dans la tribune des locaux, des supporteurs célèbrent aussi les buts des adversaires. Ils sont fiers d’être d’ici, mais au football comme dans la vie, ils aiment aller droit au but : l’US Tataouine peut difficilement prétendre au titre, tout comme les jeunes du coin à une vie meilleure. Sedki, un supporteur du Club africain qui a fait le déplacement, confirme à sa manière : « C’est mort cette ville. Même à Médenine, Gafsa ou Ben Guerdane [des villes marginalisées du sud, ndlr], tu peux faire du shopping. »

    Chaque été, quand les Tataouinois de France débarquent, les locaux ressentent plus profondément la déréliction dans laquelle ils vivent le reste de l’année : « Cette coutume de la diaspora de revenir avec une belle voiture, des vêtements à la mode et les accessoires faussement indispensables exacerbe la frustration des jeunes », avance l’anthropologue Mohamed Bettaieb. Vêtu d’un maillot de l’Espérance sportive de Tunis, l’autre grand club de la capitale, Amir Maiez a déjà tenté deux fois de se rendre en Europe. « Toute la Tunisie souffre, mais à Tataouine, c’est pire. On n’a rien alors qu’on devrait être riche ! » Pour l’athlète aux larges épaules, comme pour la majorité des jeunes rencontrés, la source de l’hémorragie se nomme « el-Kamour », du nom de la région pétrolière à proximité.

    « Kaïs Saïed n’est jamais venu écouter les doléances de notre jeunesse »

    Contrairement à ses voisins algériens et libyens, la Tunisie n’est pas une grande productrice de pétrole, mais, à l’échelle du pays, c’est une manne précieuse : le déficit de la balance commerciale énergétique pèse lourd (6,8% du PIB en 2022). Et environ la moitié du pétrole produit vient de Tataouine. Au printemps 2017, les jeunes ont organisé à el-Kamour un sit-in et ont fermé les vannes des oléoducs pour exiger que les revenus de l’or noir bénéficient directement au reste de la région. Plusieurs accords ont été signés, dont le dernier en novembre 2020. Il prévoyait notamment la création de deux fonds de développement et d’investissement régionaux pour l’équivalent de 48 millions d’euros, le recrutement de 125 locaux dans les compagnies pétrolières ou encore une enveloppe de 2,2 millions de dinars pour financer les projets entrepreneuriaux des jeunes. Les résultats se font encore attendre.

    Mardi 13 juin, le personnel de l’hôpital s’est mis en grève pour dénoncer le manque de moyens : « Il n’y a pas de réanimateur, les cardiologues viennent de Sfax [à 290 km au nord, ndlr] seulement quelques jours par semaine et il n’y a pas assez de gynécologues à la maternité », énumère un médecin. « Les jeunes ont acté l’échec du projet socio-économique du gouvernement qui n’a pas réussi à les inclure, analyse Mohamed Nejib Boutaleb, qui a intitulé son étude “D’el-Kamour à l’Europe, via les Balkans”. Ils ont vieilli aussi. Ils pensent à leur vie personnelle. »

    « Si je veux partir, c’est parce que je veux me marier. Et il faut de l’argent [il est de tradition pour l’homme de payer une dot]. Je me fais 600 dinars [180 euros] par mois comme livreur, ce n’est pas assez », explique Malik, pour qui la migration est une étape de la vie. Le jeune homme a déjà atteint deux fois l’Europe par les Balkans, en 2021 et 2022, avant d’être expulsé. A chacun de ses retours à l’aéroport de Tunis, les policiers l’ont laissé repartir chez lui sans formalité.

    Une mansuétude surprenante dans un pays qui aime ficher ses jeunes, mais que Mosbah Chnib, membre du bureau politique du parti d’opposition al-Joumhouri (centre) et Tataouinois, explique : « Il est manifeste que les autorités favorisent le départ des jeunes de la région pour éviter une nouvelle contestation d’envergure. Malgré les promesses, Kaïs Saïed n’est jamais venu pour écouter les doléances de notre jeunesse. » Malik partira une troisième fois. La route des Balkans s’est fermée avec l’instauration de visas, mais d’autres voies s’ouvrent, comme celle du Royaume-Uni.

    Chedly (1) est l’un des premiers à l’avoir empruntée, avec une facilité déconcertante et moyennant 7 000 euros. Un contact lui a promis un visa de six mois pour l’Angleterre, puis de s’occuper de sa traversée de la Manche par camion. « Après une semaine, on me dit de venir à Tunis, à côté de TLS [une société internationale qui gère les demandes de visas pour de nombreux pays]. Un homme masqué me remet des documents. Je les dépose directement et, un mois après, j’ai mon visa. Un vrai, j’insiste. » Après dix jours à attendre outre-Manche que le camion se remplisse de dix migrants, il arrive en France, « sans un contrôle ».
    Mutation de la population

    La société tunisienne dépérit d’« anémie sociale », selon Mohamed Nejib Boutaleb. L’émigration a appauvri les familles et l’heure du retour sur investissement – l’envoi d’euros – tarde. Notamment à cause des difficultés des émigrés à se faire une place dans une Europe de plus en plus fermée. Une difficulté économique qui s’ajoute à l’inflation (9,6 % en mai) et à la difficulté accrue de recourir au marché informel. Historiquement, les familles de la région avaient l’habitude d’arrondir les fins de mois en ramenant de Libye climatiseurs, écrans plats, bidons d’essence, etc. Mais, depuis l’édification en 2016 d’obstacles (fossés et murs de sable) à la frontière, seuls les 4x4 des gros trafiquants peuvent circuler.

    Les colons français ont développé la ville pour fixer la population nomade et enfermer civils et militaires récalcitrants dans le célèbre bagne, à l’origine de l’expression « partir à Tataouine » (partir dans un lieu hostile). Les citadins d’aujourd’hui veulent « partir de Tataouine ». La population a irrémédiablement mué. Les jeunes qui « font » la ville viennent dorénavant des régions limitrophes (Gafsa, Médenine), des villages reculés, voire de pays subsahariens pour pallier le déficit de main-d’œuvre.

    Entouré d’hibiscus en fleurs et dégustant un café avec sa fiancée sous un kiosque, Lotfi (1) savoure cet instant précieux. Originaire du très conservateur village de Remada, 80 km plus au sud, il apprécie les avantages liés à la ville : « Ici, on peut s’installer dans un parc sans que personne ne vérifie ce que tu fais, ni avec qui. » Ce même jardin public est moqué par les locaux qui pointent, eux, les jeux d’enfants cassés, les installations vieillottes et l’ennui. Malgré tout, la ville n’est pas exempte de distractions. La piscine est très utilisée, et pas seulement par l’association militaire. « Récemment une quarantaine de jeunes m’ont demandé de leur apprendre à nager », raconte Farouk Haddad, un des maîtres-nageurs. Ils s’apprêtent à traverser la Méditerranée.

    (1) Le prénom a été changé.

    https://www.liberation.fr/international/afrique/a-tataouine-ville-des-candidats-a-lexil-toute-la-tunisie-souffre-mais-ici

    #migrations #émigration #marginalisation #oppression #facteurs_push #facteurs-push #push-factors #route_des_Balkans #visa #Serbie #autorisation_parentale #pauvreté #chômage #prêt #prix #coût #frustration #pétrole #industrie_pétrolière #anémie_sociale

  • Le retour de l’État néo-industriel ? | #Cédric_Durand
    https://www.contretemps.eu/retour-etat-neo-industriel-durand

    Sur un plan très général, ce néo-industrialisme devrait être salué puisqu’il implique que le poids relatif de la décision d’investissement prise par délibération politique s’accroisse légèrement. Cependant, dans son déroulement historique concret, il y a des raisons de s’inquiéter. Au moins quatre aspects problématiques peuvent être soulignés

    Tout d’abord, l’ampleur de ce virage est elle-même discutable. Bien que les montants soient significatifs, ils ne sont pas à la hauteur des énormes défis de l’époque, notamment en ce qui concerne la restructuration complète de l’économie rendue nécessaire par la crise écologique. Cela est particulièrement vrai en Europe, confrontée à une vulnérabilité structurelle de long terme en raison des normes d’austérité qu’elle s’est elle-même infligées (actuellement présentées sous le nom de « trajectoires d’ajustement budgétaire ») et du fossé croissant entre le centre et la périphérie.

    [...]

    Deuxièmement, la substance même du néo-industrialisme doit être interrogée. Les choix effectués en termes d’orientation des financements façonnent la structure productive pour des décennies. Sur le plan écologique, le principal problème est qu’ils sont presque exclusivement conçus comme des subventions à l’écologisation des processus existants plutôt qu’à une refonte globale de la structure économique vers la durabilité. L’industrie automobile est à cet égard paradigmatique. [...]

    Un autre problème qualitatif renvoie à l’augmentation des dépenses militaires et à l’hostilité à la Chine [https://seenthis.net/messages/1006567] qui nourrit le néo-industrialisme. Faute d’un engagement diplomatique approprié pour permettre ce qu’Adam Tooze appelle « un nouvel ordre de sécurité fondé sur la prise en compte de la montée en puissance historique de la Chine », nous nous trouvons au cœur d’une nouvelle guerre froide qui, outre son potentiel effrayant d’escalade au-delà du théâtre ukrainien, implique un scandaleux gaspillage de ressources et de créativité humaine. [...]

    L’équilibre entre les classes est le troisième sujet d’inquiétude. [...]
    Une politique industrielle ambitieuse pourrait aggraver les biais de la politique fiscale en faveur des entreprises. Outre les entreprises industrielles, les gestionnaires d’actifs sont également désireux de profiter des nouvelles opportunités de rente offertes par les investissements dans les infrastructures soutenues par l’État. Sans augmentation de l’impôt sur les sociétés et/ou des revenus du capital et/ou de la propriété publique directe, les subventions et les garanties de l’État impliquent un transfert de ressources du travail et du secteur public vers le capital, ce qui, en fin de compte, accroît encore les inégalités de revenus et de richesses.

    La quatrième question concerne la capacité du néo-industrialisme à tenir ses promesses de modernisation et à rendre les processus de production respectueux des équilibres écologiques. Les entreprises sont avides de subventions, tandis que les nations et les régions sont en concurrence pour faire l’offre la plus alléchante. Cependant, une politique industrielle efficace nécessite non seulement des ressources pour soutenir les changements structurels, mais aussi la capacité des planificateurs de l’État à discipliner les capitalistes.

    Sur ce front, l’optimisme n’est pas de mise. Au niveau européen, puisque tout l’édifice a été construit sur l’idée que la concurrence suffisait à garantir l’efficacité économique, les capacités technico-administratives de contrôle de la politique industrielle sont quasiment nulles.

    #industrie

  • Guerre en Ukraine : comment la France contourne l’embargo sur la Russie
    https://www.obsarm.info/spip.php?article560

    Ce lundi 19 juin à Paris-Bourget s’ouvre le plus grand salon mondial de l’aéronautique (civile et militaire). La Russie ne disposera pas d’un pavillon comme lors des précédentes éditions de ce salon, mais cela ne signifie pas pour autant que les sanctions à son encontre soient rigoureusement appliquées. L’embargo comporte des failles et des entreprises françaises continuent à exporter des composants que l’on retrouve dans les armes russes utilisées en Ukraine, comme le souligne cette nouvelle étude de (...) #Notes_d'analyse

    / #Contrôle_des_exportations, Transferts / exportations, #Industrie_d'armement, (...)

    #Transferts_/_exportations #Guerres
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/ukraine_embargo_france_russie_web.pdf

  • Why plastic ? - Le #mensonge du #recyclage

    Qu’advient-il réellement de nos déchets plastiques une fois que nous les avons mis dans le bac de recyclage ?
    Alors que la crise de la pollution plastique est devenue un scandale international, les plus grandes marques de biens de consommation de la planète ont déclaré avoir une solution : le recyclage. Mais nos emballages plastiques ont toujours plus de chances de finir brûlés ou jetés que recyclés.

    https://pages.rts.ch/docs/doc/12884036-why-plastic-le-mensonge-du-recyclage.html
    #film #documentaire #film_documentaire
    #Bulgarie #incinération #emballage #décharges_sauvages #déchets_plastique #Grüne_Punkte #économie_circulaire #tri #décyclage #électricité #valorisation_thermique_des_déchets #Chine #marché_noir #Turquie #crime_organisé #corruption #combustible #Terracycle #Tom_Szaky #éco-blanchissement #industrie_pétrochimique #Alliance_to_end_plastic_waste

  • Décarbonation de l’industrie : la France lance un vaste programme de recherche
    https://www.connaissancedesenergies.org/afp/decarbonation-de-lindustrie-la-france-lance-un-vaste-progra

    Le CNRS et l’établissement public IFPEN Energies nouvelles ont annoncé vendredi le lancement en commun d’un vaste programme de recherches destiné à développer de « nouveaux procédés industriels décarbonés » et à aider l’industrie à réduire ses émissions de CO2 pour lutter contre le réchauffement climatique.

    Sur les 70 millions d’euros de budget public alloués à ce programme portant sur six ans et demi au total, 35 millions ont été déjà fléchés vers dix projets jugés prioritaires pour « réduire les émissions industrielles de gaz à effet de serre de 35% d’ici 2030 et de 80% d’ici 2050, par rapport à 2015 », indique un communiqué commun du CNRS et de IFPEN.

    2,9 milliards pour aider ST à fabriquer des puces électroniques, 70 millions pour décarboner l’industrie...

    Y-a des priorités...

    Pour ST : https://seenthis.net/messages/1006439

    • On va quand même distribuer quelques milliards aux plus émetteurs :
      Décarbonation de l’#industrie : Le gouvernement prêt à doubler l’aide à 10 milliards d’euros en échange d’un effort accru [nov 22]
      https://www.novethic.fr/actualite/environnement/climat/isr-rse/decarbonation-de-l-industrie-le-gouvernement-pret-a-doubler-l-aide-a-10-mil

      Il s’agit des sites sidérurgiques d’Arcelor Mittal à Dunkerque ou Fos sur Mer, des cimenteries de Vicat, Lafarge ou Calcia, des usines chimiques du Grand Est, de l’étang de Berre ou de Normandie, des fabricants d’engrais Yara ou Borealis, de la verrerie d’Arcques, ou encore des raffineries d’ExxonMobil et TotalEnergies en Normandie. Au total, ils pèsent pour 54% des émissions de gaz à effet de serre de l’industrie, le secteur représentant 20 % des émissions nationales.

      « Si des projets et des sites sont identifiés d’ici à 18 mois, si vous doublez vos efforts, si on arrive à passer des 10 millions de tonnes de CO2 évités à 20 millions instruits, nous doublerons les moyens consacrés à cet enjeu et passerons l’enveloppe de 5 à 10 milliards d’euros d’accompagnement », a lancé le chef de l’Etat aux industriels réunis à l’Elysée. « Le but c’est de diminuer par deux les émissions de gaz à effet de serre de ces sites en dix ans, donc d’enlever 5% des émissions françaises », a-t-il affirmé.

      Les 50 sites industriels les plus polluants de France ont reçu pour 3 milliards d’euros de quotas d émissions gratuits entre 2015 et 2020
      https://seenthis.net/messages/979126

  • Quand la #mode surchauffe : #Shein, ou la course destructrice vers toujours plus de #vêtements

    En 2022, Shein enregistrait une croissance de 100 % de son chiffre d’affaires, atteignant 30 milliards de dollars. Alors que les enseignes de prêt-à-porter françaises s’enfoncent dans une crise économique et sociale sans précédent, les marques de #fast-fashion semblent être les seules à sortir leur épingle du jeu.

    https://www.amisdelaterre.org/publication/quand-la-mode-surchauffe-shein-ou-la-course-destructrice-vers-toujour
    #rapport #industrie_textile #textile

    • SHEIN, la marque d’#ultra_fast-fashion qui envahit le monde

      Shein est une marque d’ultra fast fashion chinoise. L’ultra fast fashion propose des vêtements très bas de gamme à un rythme effréné, à des prix défiant toute concurrence, visant particulièrement un public adolescent grâce à un marketing digital agressif.

      La croissance de la marque est exponentielle. Ses méthodes de production et le caractère jetable de ses vêtements sont une menace pour l’environnement, et sont rendues possibles grâce à un système d’exploitation humaine et une stratégie commerciale si agressive qu’elle paraît relever de pratiques anticoncurrentielles. Son modèle est incompatible avec un développement durable de l’industrie de la mode et du vivant en général. Faut-il interdire Shein et l’ultra fast fashion ?

      Cette question simple appelle une réponse épineuse mais a permis de soulever un mouvement citoyen d’indignation. Le 4 mai 2023, un collectif porté par The Good Goods – média et agence de conseil pour une mode fondée sur des preuves – a lancé une pétition pour contrer le modèle économique insoutenable de l’ultra fast fashion. Elle a recueilli plus de 250 000 signatures à date et permis un premier rendez-vous avec Bruno Le Maire, Ministre de L’Economie, des Finances et du Numérique.

      En amont d’un second entretien pour définir les restrictions, la pétition a besoin d’un maximum de signatures et le mouvement d’une sensibilisation du plus grand nombre au sujet de Shein et de l’ultra fast fashion en général.

      https://bonpote.com/shein-la-marque-dultra-fast-fashion-qui-envahit-le-monde

  • « Leur fonctionnement absurde rend fou » : comment Pôle emploi et la CAF malmènent la santé mentale | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/230623/leur-fonctionnement-absurde-rend-fou-comment-pole-emploi-et-la-caf-malmene

    Le fonctionnement souvent brutal de Pôle emploi et des Caisses d’allocations familiales peut conduire à dégrader la santé déjà fragile des demandeurs d’emploi et des bénéficiaires du RSA. Confrontés à des institutions qui agissent sans garde-fous, les allocataires peuvent basculer, jusqu’au pire. 

    Dans la nuit du 15 au 16 mars 2021, Yohann Silly, 41 ans, a tenté de mettre fin à ses jours chez lui. Les retenues répétées sur son allocation chômage déjà peu élevée – 900 euros par mois – et des courriers menaçants de Pôle emploi ont fini par le pousser à bout.
    Il avait perdu son emploi et alternait un poste de cariste en intérim et de courtes périodes de chômage. Pendant des mois, Pôle emploi a modulé le paiement de son allocation en fonction du nombre d’heures travaillées déclarées, mais les « trop-perçus » et les « indus » – ces sommes que l’institution demande de rembourser en raison d’erreurs de déclaration ou de calcul – se sont multipliés, tout comme les mises en demeure et les retenues sur allocation, pourtant jugées illégales en 2022.
    « Ils déduisaient ce qu’ils pensaient que je leur devais, alors que je contestais systématiquement les trop-perçus », précise Yohann Silly. En colère, il hausse le ton et manifeste son mécontentement au siège de son #Pôle_emploi de Crépy-en-Valois (Oise) le 11 mars 2021. La police municipale intervient et la directrice de l’agence dépose deux plaintes pour « outrage ». Il est également fiché et fait désormais partie des chômeurs dits « agressifs ».

    Quatre jours plus tard, il appelle les pompiers, puis, au moment de leur arrivée, se plante un couteau dans le corps. « J’ai été à l’hôpital. Sans ça, je n’étais plus de ce monde. Leur fonctionnement est absurde, ça rend malade, ça rend fou, raconte-t-il, la voix fébrile. Pas besoin de harceler les gens pour si peu ! D’autant plus que je m’adapte au marché du travail. »

    #CAF #indus #contrôle #rendre_fou

  • Perenco au Gabon : révélations sur les pollutions cachées du numéro 2 du pétrole en France
    https://disclose.ngo/fr/article/perenco-au-gabon-revelations-sur-les-pollutions-cachees-du-numero-2-du-pet

    Photos et documents confidentiels à l’appui, Disclose et Investigate Europe révèlent l’existence de 17 pollutions au pétrole causées par le groupe Perenco au Gabon, entre 2019 et aujourd’hui. Plusieurs centaines de kilomètres carrés ont été souillés, dont des forêts primaires, des cours d’eau et des fonds marins. Lire l’article

  • Who profits from brutal and muderous Pushbacks?

    The podcast is in English

    Anlässlich des World Refugee Days am 20. Juni hört ihr einen Podcast von unserem Kooperationsradio Radio Mytilini auf Lesvos. Es geht um die brutalen und mörderischen Pushbacks an den Außengrenzen der EU und wer davon finanziell profitiert. Die Menschen die solche Pushbacks durchführen werden dafür bezahlt, wo das Geld herkommt erfahrt ihr in dieser Sendung.

    https://de.cba.fro.at/624115
    #asile #migrations #réfugiés #push-backs #refoulements #frontières #profit #Grèce #responsabilité #mer_Egée #Evros #frontières_terrestres #frontières_maritimes #violence #complexe_militaro-industriel #integrated_border_management_fund #technologie #Thales #Frontex #european_peace_facility #visa #industrie_militaire #consultants #McKinzie #accord_UE-Turquie

    #podcast #audio

    ping @_kg_ @kaparia

  • #Horlogerie, ordre et #anarchisme

    Il y a plus d’un siècle et demi, les travailleurs de l’#industrie_horlogère suisse contribuèrent à l’essor de l’anarchisme en tant que courant politique révolutionnaire. Organisés, rompus aux combats sociaux, conscients de la réalité économique mondiale et pionniers en matière d’#entraide_ouvrière, ils influencèrent des #mouvements_antiautoritaires à travers toute l’Europe.

    https://www.monde-diplomatique.fr/2023/06/EITEL/65821
    #Suisse #antiautoritarisme

  • François Ruffin : « Il nous faut une économie de guerre climatique »
    https://vert.eco/articles/francois-ruffin-il-nous-faut-une-economie-de-guerre-climatique

    Ensuite, il nous faut la main-d’œuvre. De la même manière qu’on a des campagnes pour l’armée « Engagez-vous, défendez la patrie », on devrait avoir des messages : « engagez-vous dans le bâtiment, devenez plombier, couvreur, maçon, défendez notre pays, sauvez la planète ». C’est-à-dire donner une fierté à ces jeunes qui vont dans le bâtiment. Qu’ils se disent : « j’y vais parce que j’ai une vocation, pour l’avenir ». C’est le volet spirituel.

    [...]

    Alors, d’accord pour travailler moins. Mais notre but premier doit être de travailler mieux. C’est pas le paradis, le #travail, c’est de l’effort, mais on doit en tirer une fierté. Il faut que le travail soit un lieu où l’on se réalise en réalisant.

    Dans une société écologique, il y a beaucoup de travail : d’abord, pour rénover les cinq millions de passoires thermiques. Si on veut moins de chimie et moins de mécanique dans l’agriculture, c’est un paquet de gens qui vont avoir mal au dos. Je pense qu’il faut un atelier de réparation par quartier ou par canton, pour qu’on ne change pas nos matériaux électroniques tout le temps. C’est une société où l’on s’occupe bien des enfants, des personnes en situation de handicap, des personnes âgées, des malades et ça encore c’est beaucoup de travail. Je ne suis pas du tout convaincu de la disparition du travail.

    Sans compter les #industries qu’on doit rapatrier : aliments, vêtements, médicaments. Et il y a certaines choses qu’il va falloir moins consommer : les ordinateurs, les téléphones portables, qu’on ne rapatriera pas.

    Si on rapatrie des activités, il faut réindustrialiser massivement la France. C’est ce que vous souhaitez ?

    Oui, c’est presque la mère de mes batailles. Mais je place au cœur la question de la démocratie. Quand je dis, un État qui canalise, qui organise, ça pose la question : ce n’est pas une technocratie qui doit décider mais ça doit être débattu largement. Et sur l’industrie : que veut-on produire et ne plus produire ? Ce n’est pas au marché de décider. Je me souviens d’une discussion avec les ouvriers de Whirlpool, moi leur disant en gros : « franchement produire des sèche-linges, est-ce qu’on en a besoin ? le vent fait le boulot depuis des millénaires… » Ils étaient d’accord ! Mais comment on explique que la France n’ait plus une seule usine de lave-linge quand la petite Suisse en a encore deux ?

  • Sablières de Saint-Colomban. De la campagne à la ville, ils rêvent d’une autre terre
    Ouest-France Marylise COURAUD, Isabelle LABARRE et Yasmine TIGOÉ. Publié le 11/06/2023 à 20h59
    https://www.ouest-france.fr/pays-de-la-loire/nantes-44000/sablieres-de-saint-colomban-de-la-campagne-a-la-ville-ils-revent-dune-a
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAyMzA2ZTJhMzBkYTkzNTIzZmRiOGE0MjE2NjQ1NzY0YmY0YmQ?width=1260&he

    Ce dimanche 11 juin, environ 1 500 manifestants ont suivi le chemin du sable, des carrières de Saint-Colomban (Loire-Atlantique) et d’ailleurs, vers Nantes qui grossit avec le béton. Une mobilisation pour dénoncer l’épuisement des ressources naturelles.

    Dans une prairie ensoleillée de Saint-Colomban (Loire-Atlantique), des cyclistes se tartinent de crème solaire. La route sera longue jusqu’à Nantes. Des gendarmes veillent au grain… de sable, devant les sablières de GSM et Lafarge. Celles qui mettent en rogne les associations à l’origine de cette mobilisation dominicale.

    La Tête dans le sable (1), Camil (Puceul), le collectif carrière du Tahun (Guémené) et le Cri du bocage soudanais, toutes bataillent contre des projets d’exploitation de sable dans le département, avec Les Soulèvements de la terre. Des carrières qui grignotent des terres agricoles.

    « C’est un scandale. » Christian Tanguy, 67 ans, ancien paysan et éducateur, est installé près de La Roche-sur-Yon (Vendée). Il a transmis la ferme et les terres à sa fille, 35 hectares classés en espaces naturels sensibles pendant quatre-vingt-dix-neuf ans.

    À Saint-Colomban, c’est deux fois cette surface que convoitent les carrières. Un projet toujours en cours d’étude, qui a obtenu l’aval d’une majorité des élus du pays de Retz, et des habitants de Saint-Colomban, à 54 % des votants.

    « Avant poussaient des céréales »

    Tracteurs en tête, plusieurs centaines de cyclistes dans leurs roues, des familles avec enfants, le convoi s’est élancé, suivi par un défilé de militants en voitures. L’opération escargot va durer près de cinq heures, entre les champs et la quatre-voies. « Nous sommes en colère : les industries ont toujours le droit à des dérogations pour pourrir encore plus la planète », lance au micro Marie Nicolas, l’une des quatorze coprésidentes et présidents de La Tête dans le sable.

    Grimpé à l’arrière d’un tracteur, Jean-Claude Avrilleau, né à Saint-Colomban, a vu le paysage se transformer autour de lui. « Avant les carrières, poussaient des céréales et de l’herbe pour le bétail. » Aujourd’hui, le sexagénaire participe à toutes les réunions autour du projet d’extension.

    Pour les manifestants, c’est tout un système qui déraille et qu’il faut remettre en cause. Céline (2) vit à Nantes depuis quinze ans et voit sa ville grossir toujours plus. « On est à bout de souffle. Il y a un besoin de logements, mais il y a d’autres façons de construire. » De l’argile pour remplacer le sable, évoque un autre. Rénover des bâtiments anciens, et habiter les logements vides, entend-on aussi.
    7 % des émissions de CO2

    Chiffres et références aux rapports du GIEC à l’appui, les militants arment leurs discours d’arguments scientifiques. « Si le béton était un pays, il serait le troisième émetteur mondial de gaz à effet de serre. » En effet, la production du ciment génère 7 % des émissions mondiales de CO2.

    Merlin, 23 ans, étudiant parisien, observe et prend des notes pour alimenter son « mémoire d’études environnementales ». Militant des Soulèvements de la terre et du Peps (Pour une écologie solidaire et sociale), il a manifesté pour la préservation de jardins à Aubervilliers (Seine-Saint-Denis). « On est sorti de la stratégie des Zad où on défendait un seul lieu, pour aller vers un combat plus collectif, plus accessible et populaire, mais pas moins radical. »

    Le convoi fait du sur place avant d’arriver aux Sorinières. Pascal, Fabienne, Magali et d’autres militants du collectif Bassines non merci, venus des Deux-Sèvres, se rafraîchissent. « On dénonce l’accaparement des ressources au profit des industries. On n’est pas des éco-terroristes, mais des gens normaux. On travaille, on cotise. Notre rôle est d’être là. »
    « Rats des villes, rats des champs »

    15 h 30, arrivée dans le centre-ville de Nantes, toujours dans la bonne humeur. Retrouvailles devant l’hôpital avec un second cortège parti d’Héric et les Nantais du collectif CHU Action santé.

    Ils sont environ 1 500. Sous les hourras, un geste qui réunit rats des villes et rats des champs, pour reprendre l’expression de Margot Medkour, du collectif opposé au déménagement du CHU.

    « On réclame du pognon pour la santé, pas pour le béton ! » clame Olivier Terrien, de la CGT. « Là, on va détruire une maternité entièrement rénovée en 2014 et on extrait du sable pour construire un nouvel hôpital », opine Juliette, 33 ans, activiste d’Attac 44.

    À peine fatiguée par son long périple à vélo, Julie, 36 ans, jubile. La jeune femme a quitté Nantes il y a quelques années pour s’installer dans une petite exploitation maraîchère, près de Legé. « J’ai toujours pensé que les luttes étaient plus sociales en ville et plus écolos à la campagne. Là, les deux se rejoignent. Ça fait du bien. »

    (1) C’est la troisième manifestation organisée par La Tête dans le sable. L’an dernier, elle avait mobilisé 700 personnes.

    (2) Plusieurs personnes rencontrées au cours de la journée n’ont pas souhaité donner leur nom.
    Maraîchers et centrale à béton ciblés par les militants

    « Tout va bien se passer ! » Dans le champ du Redour, près de Saint-Colomban, une militante explique tout de même au micro la marche à suivre en cas de garde à vue. Il n’y en aura pas besoin. Sur un parcours tenu secret jusqu’au dernier virage, les organisateurs avaient prévu quatre actions qu’ils qualifient de « désobéissance civile ».

    La première vise un gros maraîcher du secteur, le groupement maraîcher Vinet. Une partie des manifestants laissent leurs vélos dans le fossé et rentrent dans une parcelle pour arracher des plants de muguet et semer à la place du sarrasin.

    Acte 2, Pont-Saint-Martin : ils pénètrent dans une serre expérimentale de la Maison des maraîchers nantais, déterrent des salades, dispersent des semences « paysannes » et taguent des bâches.

    « Oui, on s’attaque à des agriculteurs, ça pose question. Mais là il s’agit de managers qui ne travaillent plus la terre eux-mêmes », se défend Léna Lazare, des Soulèvements de la terre. Sur Twitter, le président des maraîchers nantais Régis Chevallier réagissait quelques heures plus tard, se désolant de voir attaquées des serres expérimentales « en sol vivant et des cultures sans pesticides ».

    Troisième action aux Sorinières. Le cortège stoppe devant la centrale à béton de l’entreprise BHR. « Les travailleurs de l’ombre ont coupé l’alimentation en eau de la centrale », annonce une militante. Explication : 70 % du sable extrait à Saint-Colomban sert à la fabrication de béton, 30 % au maraîchage.

    Dernier round à Nantes, alors que la manif touche à sa fin. Des murs de paille enduits de terre sont érigés devant les portes de l’immeuble de Nantes métropole. « Pour montrer à Johanne Rolland, présidente du conseil de surveillance du CHU, qu’on peut construire autrement qu’avec du béton. »

    #industrie_agro-alimentaire #sable #Carrières
    #Les_Soulèvements_de_la_Terre

    • Les paysans du convoi du sable expliquent les actions menées contre le maraîchage industriel
      publié le 12 juin 2023
      https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/resistance-paysanne-au-maraichage-industriel

      Résistance paysanne au maraîchage industriel !

      Nous sommes des éleveurs-euses et maraîchers-ères de Loire-Atlantique. Nous avons participé depuis plus de deux ans à toutes les mobilisations contre l’extension des carrières de Saint-Colomban. Nous sommes venus - une fois encore - en force avec nos tracteurs pour cette journée de mobilisation organisée par la tête dans le sable et les soulèvements de la terre.

      Pour nous la présence paysanne dans toutes ces actions démontre que les luttes écologistes n’ont rien à voir avec une opposition binaire et caricaturale entre agriculteurs et écolos. En réalité, comme le soulignait déjà Bernard Lambert en son temps, une fracture traverse le monde agricole de l’intérieur : entre des grosses sociétés agro-industrielles et toutes celles et ceux qui pratiquent une agriculture paysanne, entre les grosses coopératives capitalistes et nos fermes, entre l’agro-écologie à dimension humaine et à vocation locale et l’agrobusiness exportateur.

    • Debunkage - Pourquoi viser l’agro-industrie nantaise - précisions sur les actions menées et réponse à Olivier Véran
      Le 11 juin 2023
      https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/debunkage-pourquoi-viser-lagro-industrie-nantaise-precisio

      Le lobby agro-industriel inonde les médias de sa complainte pour dénoncer le remplacement du muguet industriel et une poignée de plants expérimentaux non destinées à l’alimentation, par un semis de sarrasin bio. Comme d’habitude, le gouvernement complice reprend mot pour mot sa propagande. Mais pour qui prend le temps de s’intéresser un tant soit peu aux faits et d’enquêter derrière les piteuses tentatives de greewashing, il apparaît que:

      – les industriels du légumes nantais visés par ces actions sont responsables de divers empoisonnements récents aux pesticides comme le metamsodium
      – les serres visées à Pont-saint-Martin dimanche sont bien encore l’objet d’expérimentations sur des pesticides cancérigènes selon l’ANSES comme le métobromuron. Elles visent à maintenir le même modèle et à renforcer l’acceptabilité des pesticides en prétendant réduire leur usage plutôt que de permettre leur interdiction.
      – ces serres sont majoritairement ensablées et destinées à ce type de cultures plutôt qu’à de quelconques « sols vivants ».
      – ces industriels chef d’entreprise à la main d’oeuvre exploitée, n’ont rien d’"agriculteurs".
      – ils sont par contre bel et bien responsables de l’accroissement ravageur de la production de sable et de la consommation d’eau pour des productions non vivières ou tournées vers l’exportation.
      – ils ont été récemment condamné pour leur surplus de rejets toxiques dans l’atmosphère, notamment sur leurs cultures de concombres.
      – la collusion de certains dirigeants des maraîchers nantais avec l’industrie du sable est avérée. Le président de la maison des maraîchers Mr Torlasco a par exemple occupé pendant 11 ans le poste de secrtaire régional de l’UNICEM - union national des industries de carrière et matériaux de construction.
      – ils s’accaparent main dans la main avec l’industrie du sable des terres transformées en mer de plastique et serres chauffées, et tuent ainsi les autres formes d’agriculture paysanne dans le département. En Loire-Atlantique, les surfaces dédiées à l’agro-industrie légumière ont augmenté de 24% entre 2010 et 2021. Le paysage de bocage et de polyculture élevage qui a caractérisé pendant des siècles le terroir du Pays-de-Retz est remplacé par un désert agro-industriel ultra-spécialisé qui ravage la mosaïque de prairies et de cultures de la campagne nantaise. Si c’est cela la terre qu’aime Olivier Véran, c’est bien le signe qu’il n’a aucune culture paysanne ! Il semble manifestement confondre la terre et le sable. 1 ha de mâche, c’est jusqu’à 30 tonnes de sables par hectare chaque année ! Ensabler la terre, drainer les parcelles, araser les haies, c’est – structurellement – une artificialisation massive des sols. Oui nous préfèrons le sarrasin biologique aux champs de muguets de Vinet et aux expérimentations du lobby agro-industriel. (...)

  • Sous le soleil de l’#Andalousie, misères et #racisme dans les #bidonvilles

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    #Palos_de_la_Frontera, Espagne, mai 2023. Pour les uns, l’origine de l’incendie est accidentelle : une marmite oubliée sur un réchaud aurait mis le feu. Pour les autres, comme Adama* qui se fait régulièrement traiter de « sale nègre », elle est criminelle, elle serait l’œuvre « des racistes ».

    « Les Espagnols veulent qu’on retourne en Afrique – ils nous le disent –, alors ils brûlent nos #chabolas [abris de fortune – ndlr]. Ce n’est ni la première fois, ni la dernière », assure le jeune homme, en montrant du doigt l’étendue du désastre : une grande partie du bidonville où il vivote dans la zone industrielle de Palos de Frontera dans la région de Huelva, dans le sud de l’Espagne, au cœur du « potager de l’Europe », a été ravagée par les flammes le 13 mai. Heureusement, il n’y a eu cette fois ni blessés, ni morts brûlés vifs.

    Des cabanes ont échappé au drame, celles qui se trouvent de l’autre côté des talus et de la végétation calcinée. C’est là que les victimes se rabattent pour reconstruire un nouveau toit précaire. « Il ne faut pas perdre de temps, sinon c’est la rue qui nous attend », dit Adama.

    Dans ce #campement insalubre, sans eau ni électricité, ni installations sanitaires, où « on crève de froid l’hiver, de chaud l’été », des dizaines de travailleurs et travailleuses survivent dans des conditions indignes au milieu des ordures et des chiens errants. Des Africains subsahariens et des Marocaines sans papiers principalement, employées à récolter, dans les champs et les serres alentour, les fruits et les légumes de l’agriculture intensive qui alimentent l’Europe en poussant sur la misère.

    Parfois, une ONG passe avec son camion, comme cet après-midi de mai durant lequel la Croix-Rouge distribue des sacs de couchage. Souvent, des activistes espagnol·es révolté·es de voir « un tel bidonville en Europe, dans une démocratie », apportent un peu d’aide, de réconfort, matériel, administratif.

    « Je vais t’aider à déposer une demande de régularisation. Normalement, après trois ans de résidence en Espagne, tu peux demander un permis de travail. » Aujourd’hui, c’est une institutrice à la retraite, reconvertie dans le journalisme citoyen, qui s’arrête. Elle prépare un article pour dénoncer « l’indignité des autorités espagnoles » : « D’incendies criminels en démolitions officielles, elles ne font rien pour les reloger dignement. État et collectivités locales se renvoient la responsabilité. »

    Elle salue une militante qui a épousé un exilé avant de divorcer quelques mois après, en apprenant qu’il avait une femme au pays. Chacune vadrouille avec sa petite voiture. Autour, des champs de fraises, un océan de plastique à perte de vue.

    Adama a « tout perdu » pour la sixième fois en quelques années. Il épandait des pesticides dans un champ de fruits rouges quand le bidonville a brûlé. Une pensée l’obsède depuis : aurait-il pu sauver sa cabane s’il avait répondu à l’appel téléphonique de Moussa* qui cherchait à le prévenir, quitte à perdre son contrat de travail, inespéré, de quelques jours ?

    Il sait bien que non, pourtant. Une étincelle suffit à embraser leurs habitations faites de bric et de broc, avec des matériaux hautement inflammables : des palettes en bois, des plastiques (souvent les bâches des serres), des cartons, des tôles.

    Chaque jour, plusieurs fois par jour, il faut marcher – ou prendre le vélo, une richesse quand on en possède un –, pour aller à plusieurs kilomètres se ravitailler en eau, remplir les bidons de plastique.

    Adama, la quarantaine, vient de Bamako au Mali, où une famille, des enfants, des frères, des sœurs attendent qu’il les nourrisse. Il a d’abord séjourné en Italie puis en France mais « il n’y avait pas de travail ». Il a fini en Andalousie en Espagne et il pense que « l’enfer est ici ». Depuis 2019, il vit dans le bidonville, alternant chômage et travail au noir.

    Au prix de 2 euros la palette, la nouvelle maison va lui coûter une bonne centaine d’euros. Il n’avance pas aussi vite qu’il le voudrait. Il raconte, en enfonçant les clous, qu’aucun propriétaire ne veut leur louer un logement, ni même une chambre, « parce qu’[ils sont] des Noirs et des Arabes, même s[’ils ont] des papiers ».

    ll vit avec Noura*. Ils sont ensemble mais il ne le dit pas. C’est elle qui le dit. Elle débarque, un sac de viande surgelée à la main, vêtue d’un pyjama sale et troué, la chevelure hirsute. Elle rêve qu’Adama, qui a une épouse au Mali, la demande en mariage, mais il ne veut pas.

    Cela ne la dérange pas d’être sa deuxième femme : « Il me protège. C’est très dur d’être une femme dans le bidonville. On force celles qui sont seules à la prostitution, on les agresse sexuellement, on les viole. » Elle n’a rien dit de leur union à sa famille au Maroc : « Épouser un homme noir, c’est mal vu, dégradant, à cause du racisme, de la négrophobie. Mais pas ici, au contraire, on préfère fréquenter des Noirs, car ils ne prennent pas notre salaire comme les Marocains. »

    Là-bas, à Midlet, explique-t-elle, elle a divorcé d’un mari violent qui la battait à la ceinture. Ils ont eu ensemble deux enfants qu’elle n’a pas vus depuis quatre ans. Un jour, elle a appris qu’elle pouvait être recrutée pour la récolte des fraises en Espagne dans le cadre de l’accord de migration circulaire entre les deux pays (lire ici notre reportage). Elle a postulé. Au lieu de rentrer une fois la cueillette terminée, elle est restée, basculant dans l’illégalité.

    Un généreux donateur a laissé des matelas au bord de la route. Premiers arrivés, premiers servis. Malika retrouve le sourire. La nuit passée, elle a dormi à même la pierraille. Si au Maroc la famille connaissait ses conditions de vie et d’hébergement, elle lui demanderait de rentrer aussitôt, confie-t-elle. « C’est la honte de vivre ainsi comme des animaux. »

    Elle est originaire de Marrakech, ses deux enfants en bas âge sont restés avec ses parents. Quant à son mari, il a sombré dans l’alcoolisme et n’a « jamais ramené un sou à la maison ». Il ne lui manque pas. Ses enfants, en revanche, si, « énormément ».

    « C’est la pire des douleurs, être arrachée à ses enfants. Je les appelle tous les jours et je les pleure toutes les nuits. » Elle aimerait retourner au pays mais compte tenu de sa situation administrative irrégulière, elle craint de ne plus pouvoir remettre les pieds en Espagne. « C’est quand même notre gagne-pain. Nous n’avons pas d’avenir au Maroc. »

    L’illusion d’un confort tient à peu, à une cabane marquée « salle de bains » qui, une fois la porte entrouverte, consiste en un stockage de bidons d’eau avec lesquels on peut se laver en toute intimité.

    « Cette année, il y a beaucoup moins de travail à cause de la sécheresse. Si ça continue ainsi, on court vers la catastrophe. »

    Le coin détente d’une cabane aménagée en restaurant.

    « Ce n’est pas une vie, convient Houria*, mais que peut-on faire ? Retourner au Maroc ? Jamais. Notre pays est riche mais l’État est voleur. »

    Au lendemain de l’incendie qui a détruit une partie du campement. Les bidonvilles se concentrent dans le poumon agricole de la région de Huelva, dans les villes de Palos de la Frontera, Lepe, Moguer et Lucena del Puerto, une des régions où le parti d’extrême droite fait ses plus gros scores. Les associations de soutien aux exilé·es en dénombrent plus d’une quarantaine, abritant plusieurs milliers de migrant·es.

    La cabane de Fatema* est partie en fumée. Elle erre avec sa copine d’infortune dans le bidonville, à la recherche d’un homme qui les aiderait à reconstruire un toit.

    Elle n’est pas arrivée en Espagne avec « un contrat en origine » comme tant de Marocaines pour la saison des fraises. Elle a traversé le détroit de Gibraltar dans une patera arrivée à bon port, ces embarcations de fortune qui coulent en mer et coûtent la vie, par milliers, à des migrant·es, chaque année.

    Elle travaille souvent la nuit tombée : « Comme on est des sans-papiers, les patrons nous font travailler la nuit pour échapper aux inspections. On ramasse les fraises avec une lampe frontale. »

    Baba* travaillait dans le garage informel qui avait prospéré à l’entrée du bidonville. Une vie dans l’illégalité. Aujourd’hui, il aide à reconstruire le restaurant de son compatriote sénégalais, le lieu où les exilés aimaient se retrouver après une journée de labeur ou de chômage. Nombre d’entre eux noient détresse et problèmes dans l’alcool ou la drogue.

    Baba aurait préféré rebâtir sur les cendres près de la route, mais les tractopelles de la municipalité ont soulevé la terre et formé des montagnes pour empêcher toute nouvelle édification. « Ils veulent nous éloigner, nous tenir à distance, sous la pression des patrons des entreprises du coin et de la population. Nous sommes des rats pour eux. »

    Les prénoms suivis d’un astérisque sont des prénoms d’emprunt, à la demande des personnes interrogées.

    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/sous-le-soleil-de-l-andalousie-miseres-et-racisme-dans-les-bidonvilles
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