• Gli utili record dei padroni del cibo a scapito della sicurezza alimentare

    I cinque principali #trader di prodotti agricoli a livello mondiale hanno fatto registrare utili e profitti record tra il 2021 e il 2023. Mentre il numero di persone che soffrono la fame ha toccato i 783 milioni. Il report “Hungry for profits” della Ong SOMO individua le cause principali di questa situazione. E propone una tassa sui loro extra-profitti

    Tra il 2021 e il 2022 -anni in cui il numero di persone che soffrono la fame nel mondo è tornato ad aumentare, così come i prezzi dei beni agricoli spinti verso l’alto da inflazione e speculazione finanziaria- i profitti dei primi cinque trader di materie prime agricole a livello globale sono schizzati verso l’alto.

    Nel 2022 le multinazionali riunite sotto l’acronimo Abccd (Archer-Daniels-Midland company, Cargill, Cofco e Louis Dreyfus Company) hanno comunicato ai propri stakeholder un aumento degli utili per il 2021 compreso tra il 75% e il 260% rispetto al 2016-2020. “Mentre nel 2022 i profitti netti sono raddoppiati o addirittura triplicati rispetto allo stesso periodo. In base ai rapporti finanziari trimestrali disponibili al pubblico, i profitti netti dei commercianti di materie prime agricole sono rimasti eccessivamente alti nei primi nove mesi del 2023”, si legge nel rapporto “Hungry for profits” curato dalla Ong olandese Somo. Dati che fanno comprendere meglio quali sono i fattori che influenzano l’andamento del costo dei prodotti agricoli e -soprattutto- chi sono i reali vincitori dell’attuale sistema agroindustriale.

    La statunitense Cargill è la prima tra i Big five in termini di ricavi (165 miliardi di dollari nel 2022) e utili (6,6 miliardi), seguita dalla cinese Cofco (che nello stesso anno ha superato i 108 miliardi di dollari e i 3,3 miliardi di utili) e da Archer-Daniels-Midland company (Adm, con 101 miliardi di ricavi e 4,3 miliardi di utili). Nello stesso anno il numero di persone che soffrono la fame ha raggiunto i 783 milioni (122 milioni in più rispetto al 2019) e i prezzi dei prodotti alimentari hanno continuato a crescere, spinti dall’inflazione.

    Complessivamente questi cinque colossi detengono una posizione di oligopolio sul mercato globale dei prodotti di base come i cereali (di cui controllano una quota che va dal 70-90%), soia e zucchero. “Questo alto grado di concentrazione e il conseguente controllo sulle più importanti materie prime agricole del mondo, conferisce loro un enorme potere contrattuale per plasmare il panorama alimentare globale”, spiega Vincent Kiezebrink, ricercatore di Somo e autore della ricerca.

    La posizione dominante che di fatto ricoprono sul mercato globale rappresenta uno dei fattori che ha permesso agli Abccd di registrare profitti e utili da record negli ultimi tre anni. “La sola Cargill è responsabile della movimentazione del 25% di tutti i cereali e i semi di soia prodotti dagli agricoltori statunitensi -si legge nel report-. Anche il principale mercato agricolo per l’approvvigionamento di soia, l’America Latina, è dominato dagli Abccd: oltre la metà di tutte le esportazioni di questo prodotto passano da loro”.

    La situazione non cambia se si guarda a quello che succede in Europa: l’olandese Bunge e la statunitense Cargill da sole sono responsabili di oltre il 30% delle esportazioni di soia dal Brasile verso l’Unione europea. Bunge, in particolare, è il principale fornitore di soia per l’industria della carne dell’Ue con una chiara posizione di monopolio in alcuni mercati come il Portogallo, dove controlla il 90-100% delle vendite di olio di soia grezzo.

    Questa concentrazione è stata costruita nel tempo attraverso fusioni e acquisizioni che non sono state limitate dalle autorità per la concorrenza: quelle europee, ad esempio, hanno valutato un totale di 60 fusioni relative alle società Abccd dal 1990 a oggi. “Tutte le operazioni, tranne una, sono state autorizzate incondizionatamente -si legge nel report-. La prossima grande fusione in arrivo è quella tra la canadese Viterra (specializzata nella produzione e nel commercio di cereali, ndr) e Bunge. Un’operazione senza precedenti nel settore agricolo globale e che avvicinerà la nuova società alle dimensioni di Adm e Cargill”.

    Un secondo elemento che ha permesso a queste Big five di accumulare ricavi senza precedenti in questi anni è poi la loro capacità di influenzare la disponibilità dei beni alimentari attraverso un’enorme potenzialità di stoccaggio. “Il rapporto speciale 2022 del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili (Ipes) ha evidenziato che i trader conservano notevoli riserve di cereali -si legge nel report-. E sono incentivati ‘a trattenere le scorte fino a quando i prezzi vengono percepiti come massimi’”. Per avere un’idea delle quantità di materie prime in ballo, basti pensare che la capacità di stoccaggio combinata di Adm, Bunge e Cofco, è pari a circa 68 milioni di tonnellate, è simile al consumo annuo di grano di Stati Uniti, Turchia e Regno Unito messi assieme.

    Terzo e ultimo elemento individuato nel report è il fatto che queste società sono integrate verticalmente e hanno il pieno controllo della filiera produttiva dal campo alla tavola: forniscono cioè agli agricoltori prestiti, sementi, fertilizzanti e pesticidi; immagazzinano, trasformano e trasportano i prodotti alimentari.

    A fronte di questa situazione, Somo ha invitato la Commissione europea a intervenire per porre un freno alla crescente monopolizzazione del comparto: “L’indagine dovrebbe concentrarsi sul potere che può essere esercitato nei confronti dei fornitori per comprimere i loro margini di profitto -concludono i ricercatori-. È preoccupante che alle multinazionali sia stato permesso di triplicare i loro profitti facendo salire i prezzi degli alimenti, mentre le persone in tutto il mondo soffrono di una crisi del costo della vita e i più poveri sono alla fame”. Per questo motivo l’organizzazione suggerisce di applicare un’imposta sugli extra-profitti delle società Abccd che, con un’ipotetica aliquota fiscale del 33%. A fronte di utili che hanno toccato i 5,7 miliardi di dollari nel 2021 e i 6,4 miliardi nel 2022, permetterebbe di generare un gettito fiscale pari rispettivamente a 1,8 e 2 miliardi di dollari.

    https://altreconomia.it/gli-utili-record-dei-padroni-del-cibo-a-scapito-della-sicurezza-aliment
    #agriculture #business #profits #industrie_agro-alimentaire #sécurité_alimentaire #inflation #Archer-Daniels-Midland_company #Cargill #Cofco #Louis_Dreyfus_Company (#Abccd) #oligopole #céréales #soja #sucre

  • #Pesticides : « Le prochain #indicateur d’#Écophyto va endormir les gens »

    Le nouvel indicateur qui pourrait être utilisé dans le plan Écophyto est « trompeur », défend François Veillerette, de #Générations_futures, pour qui le gouvernement a cédé à une demande de la #FNSEA.

    À la suite des manifestations agricoles de ces dernières semaines, le gouvernement a déclaré le 1er février mettre « en pause » le #plan_Ecophyto de réduction de 50 % des pesticides. L’annonce a suscité l’indignation des associations écologistes ainsi que d’associations d’agriculteurs victimes de ces produits. Cette pause « n’est pas la marche arrière » et doit permettre de retravailler sur plusieurs points du plan, et en particulier sur l’indicateur de suivi, a néanmoins précisé Marc Fesneau sur LCI le 4 février.

    Le ministre de l’Agriculture envisage ainsi de remplacer l’indicateur actuel, le #Nodu (#nombre_de_doses_unités), par l’indicateur actuellement en construction au niveau européen, le #HRI1 (#indicateur_de_risque_harmonisé). Cette évolution, réclamée de longue date par le syndicat productiviste la FNSEA, inquiète les associations écologistes. Si elle paraît à première vue relever du détail technique, elle risque en réalité de ruiner pour longtemps toute efficacité du plan Écophyto, explique François Veillerette, porte-parole de l’association Générations futures.

    Reporterre — Le ministre de l’Agriculture, Marc Fesneau, a déclaré que la France allait changer d’indicateur d’utilisation des pesticides au profit, sans doute, de « l’indicateur européen ». Pourquoi le présentez-vous comme trompeur ?

    François Veillerette — L’indicateur HRI1 européen est censé figurer une sorte d’évolution de la dangerosité des pesticides. Le plan Écophyto, lui, a toujours eu comme objectif de réduire de 50 % l’usage des pesticides. Ce n’est pas du tout la même chose.

    En plus, l’utilisation de l’indicateur HRI1 introduit des biais. Le premier, c’est la fausse réduction des pesticides. Quand on regarde l’évolution du Nodu, l’indicateur utilisé actuellement en France dans Écophyto, et du HRI1 entre 2011 et 2019, le premier indique une baisse de 12 % de l’utilisation des pesticides et le second une baisse de 40 %. On voit bien que cette baisse de 40 % est trompeuse. On comprend mieux pourquoi la FNSEA et l’industrie des pesticides aiment bien cet indicateur, qui laisse à penser que l’objectif du plan Écophyto est quasiment atteint.

    Le second biais, c’est une évaluation trompeuse des risques. Pour venir à bout de la tavelure de la pomme, une affection fongique, vous pouvez utiliser au choix de la levure chimique, à faible risque et utilisable en agriculture biologique, ou du difénoconazole, classé plus dangereux. Seulement, il faut utiliser tellement plus de levure que de traitement chimique que le traitement bio obtiendra un moins bon score HRI1 que le produit dangereux. C’est complètement aberrant.

    Enfin, la mesure du risque n’est d’ailleurs pas toujours très précise. Aujourd’hui, on va croire qu’un produit n’est pas dangereux. Dans deux ans, on dira qu’on s’est trompés et qu’il l’était. Ça arrive tout le temps. On se met à retirer des produits du marché parce que la science progresse. Regardez les discussions sur le glyphosate : dangereux, pas dangereux ? Les agences ne sont pas d’accord.

    Il est très étrange que la France se mette à défendre le HRI1, alors que la présidente de la Commission européenne Ursula von der Leyen a proposé le 6 janvier d’enterrer le règlement SUR de réduction de 50 % de l’utilisation des pesticides d’ici 2030, déjà flingué par le Parlement européen sous la pression des conservateurs d’extrême droite et des syndicats agricoles. La France avait toujours défendu le Nodu au niveau européen. Cette conversion subite est évidemment liée au mouvement des agriculteurs, alors que cela fait quinze ans que la FNSEA refuse cet indicateur.

    En quoi le Nodu, utilisé jusqu’à présent en France, était-il plus satisfaisant ?

    Le Nodu français compte le nombre de doses standards par hectare. Il a été négocié au lancement du plan Écophyto en 2009, juste après le Grenelle de l’environnement. Il est impitoyable, très robuste. Même si les produits évoluent avec le temps, qu’ils sont actifs à des doses plus faibles, l’indicateur ne va pas baisser si le nombre de traitements reste le même. Il cherche clairement à évaluer l’évolution de l’usage, donc de la dépendance du système agricole aux pesticides. S’il n’y a pas de baisse du Nodu, il n’y a pas de baisse de la dépendance.

    Avec le HRI1, on ne voit rien de tout cela. Si l’on retourne sur l’évolution des courbes entre 2011 et 2019, on voit une augmentation de 25 % du Nodu entre 2017 et 2018. La courbe HRI1, elle, reste plate. On a l’impression que tout va bien. Cet indicateur sert à endormir les gens, à faire croire qu’on a déjà fait le boulot de réduction et qu’on n’a surtout rien à changer. C’est absolument inacceptable pour nous.

    Cet indicateur, c’était une demande dans la liste de courses de la FNSEA. Le gouvernement, qui ne voulait pas se fâcher avec le syndicat, lui a donné raison tout en faisant croire qu’il allait protéger l’environnement et continuer à travailler.

    Si l’utilisation des pesticides en France a légèrement augmenté depuis 2009, le gouvernement tend plutôt à communiquer sur une baisse en se basant sur la quantité des produits épandus…

    Le gouvernement a toujours montré qu’il préférait utiliser l’indicateur qui l’arrange. Il parle de quantités de substances actives, sépare dans les courbes les produits de synthèse et ceux utilisables en bio ou en biocontrôle... Dans les dernières notes de suivi, on a un mal de chien à trouver le Nodu. Il est sournoisement invisibilisé sous la pression de la FNSEA. Quand Stéphane Le Foll était ministre de l’Agriculture [de 2012 à 2017], le syndicat agricole avait tenté un putsch contre cet indicateur, en inventant un indicateur d’impact. Il ne tenait pas la route et n’est pas passé, mais les pressions avaient été énormes et elles continuent.

    Le Premier ministre a notamment annoncé aux agriculteurs la mise en pause du plan Écophyto, alors que des annonces devraient être faites à son sujet d’ici le Salon de l’agriculture, qui débute le 24 février...

    Ce qui nous inquiète, ce n’est pas la mise en pause du plan Écophyto pour trois semaines, mais ce qu’il va devenir ensuite. Un comité opérationnel de suivi est prévu. Je ne sais pas s’ils vont inviter la société civile ou s’ils vont se réunir entre eux. Car les annonces de Gabriel Attal sont également un scandale sur la forme : le Premier ministre a fermé le ban sans concertation avec les parties prenantes, sous la pression de la FNSEA. C’est assez dramatique.

    On attend maintenant que le gouvernement se reprenne en main. De toute manière, dans 20 ou 30 ans, les pesticides ne fonctionneront plus. Ce n’est pas moi qui le dis, mais Christian Huyghe, directeur scientifique agriculture de l’Inrae. On ne trouve plus de nouveaux modes d’action et le vivant s’habitue aux molécules existantes, de plus en plus de résistance apparait. On le voit déjà dans le Bordelais, où plein de fongicides ne fonctionnent plus très bien.

    https://reporterre.net/Pesticides-Le-prochain-indicateur-d-Ecophyto-va-endormir-les-gens
    #Ecophyto #agriculture #industrie_agro-alimentaire

  • #Productivisme et destruction de l’#environnement : #FNSEA et #gouvernement marchent sur la tête

    Répondre à la #détresse des #agriculteurs et agricultrices est compatible avec le respect de l’environnement et de la #santé_publique, expliquent, dans cette tribune à « l’Obs », les Scientifiques en rébellion, à condition de rejeter les mesures productivistes et rétrogrades du duo FNSEA-gouvernement.

    La #crise de l’agriculture brasse croyances, savoirs, opinions, émotions. Elle ne peut laisser quiconque insensible tant elle renvoie à l’un de nos #besoins_fondamentaux – se nourrir – et témoigne du #désarroi profond d’une partie de nos concitoyen·nes qui travaillent pour satisfaire ce besoin. Reconnaître la #souffrance et le désarroi du #monde_agricole n’empêche pas d’examiner les faits et de tenter de démêler les #responsabilités dans la situation actuelle. Une partie de son #traitement_médiatique tend à faire croire que les agriculteurs et agricultrices parleraient d’une seule voix, celle du président agro-businessman de la FNSEA #Arnaud_Rousseau. Ce directeur de multinationale, administrateur de holding, partage-t-il vraiment la vie de celles et ceux qui ne parviennent plus à gagner la leur par le travail de la terre ? Est-ce que les agriculteur·ices formeraient un corps uniforme, qui valoriserait le productivisme au mépris des #enjeux_environnementaux qu’ils et elles ne comprendraient soi-disant pas ? Tout cela est difficile à croire.

    Ce que la science documente et analyse invariablement, en complément des savoirs et des observations de nombre d’agriculteur·ices, c’est que le #modèle_agricole industriel et productiviste conduit à une #catastrophe sociale et environnementale. Que ce modèle concurrence dangereusement les #alternatives écologiquement et socialement viables. Que cette agriculture ne s’adaptera pas indéfiniment à un environnement profondément dégradé. Qu’elle ne s’adaptera pas à un #réchauffement_climatique de +4 °C pour la France et une ressource en #eau fortement diminuée, pas plus qu’à une disparition des #insectes_pollinisateurs.

    Actuellement, comme le rappelle le Haut Conseil pour le Climat (HCC), l’agriculture représente le deuxième secteur d’émissions de #gaz_à_effet_de_serre, avec 18 % du total français, derrière les transports. La moitié de ces émissions agricoles (en équivalent CO2) provient de l’#élevage_bovin à cause du #méthane produit par leur digestion, 14 % des #engrais_minéraux qui libèrent du #protoxyde_d’azote et 13 % de l’ensemble des #moteurs, #engins et #chaudières_agricoles. Le HCC rappelle aussi que la France s’est engagée lors de la COP26 à baisser de 30 % ses émissions de méthane d’ici à 2030, pour limiter le réchauffement climatique. L’agriculture, bien que répondant à un besoin fondamental, doit aussi revoir son modèle dominant pour répondre aux enjeux climatiques. De ce point de vue, ce qu’indique la science, c’est que, si l’on souhaite faire notre part dans le respect de l’accord de Paris, la consommation de #viande et de #produits_laitiers doit diminuer en France. Mais la solidarité avec nos agriculteur.ices ainsi que l’objectif légitime de souveraineté et #résilience_alimentaire nous indiquent que ce sont les importations et les élevages intensifs de ruminants qui devraient diminuer en premier.

    Côté #biodiversité, la littérature scientifique montre que l’usage des #pesticides est la deuxième cause de l’effondrement des populations d’#insectes, qui atteint 80 % dans certaines régions françaises. Les #oiseaux sont en déclin global de 25 % en quarante ans, mais ce chiffre bondit à 60 % en milieux agricoles intensifs : le printemps est devenu particulièrement silencieux dans certains champs…

    D’autres voies sont possibles

    Le paradoxe est que ces bouleversements environnementaux menacent particulièrement les agriculteur·ices, pour au moins trois raisons bien identifiées. Tout d’abord environnementale, à cause du manque d’eau, de la dégradation des sols, des événements météorologiques extrêmes (incendies ou grêles), ou du déclin des insectes pollinisateurs, qui se traduisent par une baisse de production. Sanitaires, ensuite : par leur exposition aux #produits_phytosanitaires, ils et elles ont plus de risque de développer des #cancers (myélome multiple, lymphome) et des #maladies_dégénératives. Financière enfin, avec l’interminable fuite en avant du #surendettement, provoqué par la nécessité d’actualiser un équipement toujours plus performant et d’acheter des #intrants pour pallier les baisses de production engendrées par la dégradation environnementale.

    Depuis des décennies, les #traités_de_libre-échange et la compétition intra-européenne ont privé la grande majorité des agriculteur·ices de leur #autonomie, dans un cercle vicieux aux répercussions sociales tragiques pouvant mener au #suicide. Si la FNSEA, les #JA, ou la #Coordination_rurale réclament une forme de #protectionnisme_agricole, d’autres de leurs revendications portent en revanche sur une baisse des #contraintes_environnementales et sanitaires qui font porter le risque de la poursuite d’un modèle délétère sur le long terme. Ce sont justement ces revendications que le gouvernement a satisfaites avec, en particulier, la « suspension » du #plan_Ecophyto, accueilli par un satisfecit de ces trois organisations syndicales rappelant immédiatement « leurs » agriculteurs à la ferme. Seule la #Confédération_paysanne refuse ce compromis construit au détriment de l’#écologie.

    Pourtant, des pratiques et des modèles alternatifs existent, réduisant significativement les émissions de gaz à effet de serre et préservant la biodiversité ; ils sont déjà mis en œuvre par des agriculteur·ices qui prouvent chaque jour que d’autres voies sont possibles. Mais ces alternatives ont besoin d’une réorientation des #politiques_publiques (qui contribuent aujourd’hui pour 80 % au #revenu_agricole). Des propositions cohérentes de politiques publiques répondant à des enjeux clés (#rémunération digne des agriculteur·ices non soumis aux trusts’de la grande distribution, souveraineté alimentaire, considérations climatiques et protection de la biodiversité) existent, comme les propositions relevant de l’#agroécologie, qu’elles émanent du Haut Conseil pour le Climat, de la fédération associative Pour une autre PAC, de l’IDDRI, ou encore de la prospective INRAE de 2023 : baisse de l’#élevage_industriel et du cheptel notamment bovin avec soutien à l’#élevage_extensif à l’herbe, généralisation des pratiques agro-écologiques et biologiques basées sur la valorisation de la biodiversité (cultures associées, #agro-foresterie, restauration des #haies favorisant la maîtrise des bio-agresseurs) et arrêt des #pesticides_chimiques_de_synthèse. Ces changements de pratiques doivent être accompagnés de mesures économiques et politiques permettant d’assurer le #revenu des agriculteur·ices, leur #accès_à_la_terre et leur #formation, en cohérence avec ce que proposent des syndicats, des associations ou des réseaux (Confédération paysanne, Atelier paysan, Terre de liens, Fédérations nationale et régionales d’Agriculture biologique, Réseau salariat, …).

    Nous savons donc que les politiques qui maintiennent le #modèle_agro-industriel sous perfusion ne font qu’empirer les choses et qu’une réorientation complète est nécessaire et possible pour la #survie, la #dignité, la #santé et l’#emploi des agriculteur·ices. Nombre d’enquêtes sociologiques indiquent qu’une bonne partie d’entre elles et eux le savent très bien, et que leur détresse témoigne aussi de ce #conflit_interne entre le modèle productiviste qui les emprisonne et la nécessité de préserver l’environnement.

    Une #convention_citoyenne

    Si le gouvernement convient que « les premières victimes du dérèglement climatique sont les agriculteurs », les mesures prises démontrent que la priorité gouvernementale est de sanctuariser le modèle agro-industriel. La remise en cause du plan Ecophyto, et la reprise en main de l’#Anses notamment, sont en totale contradiction avec l’urgence de s’attaquer à la dégradation environnementale couplée à celle des #conditions_de_vie et de travail des agriculteur·ices. Nous appelons les citoyen·nes et les agriculteur·rices à soutenir les changements de politique qui iraient réellement dans l’intérêt général, du climat, de la biodiversité. Nous rappelons que le sujet de l’agriculture et de l’#alimentation est d’une redoutable complexité, et qu’identifier les mesures les plus pertinentes devrait être réalisé collectivement et démocratiquement. Ces mesures devraient privilégier l’intérêt général et à long-terme, par exemple dans le cadre de conventions citoyennes dont les conclusions seraient réellement traduites dans la législation, a contrario a contrario de la précédente convention citoyenne pour le climat.

    https://www.nouvelobs.com/opinions/20240203.OBS84041/tribune-productivisme-et-destruction-de-l-environnement-fnsea-et-gouverne
    #tribune #scientifiques_en_rébellion #agriculture #souveraineté_alimentaire #industrie_agro-alimentaire

  • Il nuovo volto del #water_grabbing e la complicità della finanza

    Fondi pensione e società di private equity investono sulla produzione di colture di pregio, dai piccoli frutti alle mandorle, che necessitano abbondanti risorse idriche. Il ruolo del fondo emiratino #Adq che ha acquisito l’italiana #Unifrutti.

    Per osservare più da vicino il nuovo volto del water grabbing bisogna andare nella regione di Olmos, nel Nord del Perù, dove il Public sector pension investment board (Psp), uno dei maggiori gestori di fondi pensionistici canadesi (con un asset di circa 152 miliardi di dollari) ha acquistato nel 2022 un’azienda agricola di 500 ettari specializzata nella coltivazione di mirtilli. Un investimento finalizzato a sfruttare il boom della produzione di questi piccoli frutti, passata secondo le stime della Banca Mondiale dalle 30 tonnellate del 2010 alle oltre 180mila del 2020: quantità che hanno fatto del Paese latino-americano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti.

    Nella regione di Olmos l’avvio di questa coltivazione intensiva è stato reso possibile grazie a un progetto idrico, costato al governo di Lima oltre 180 milioni di dollari, per deviare l’acqua dal fiume Huancabamba verso la costa e migliorare la produzione agricola locale. “Ma il progetto non ha ottenuto i risultati annunciati”, denuncia il report “Squeezing communities dry” pubblicato a metà settembre 2023 da Grain, una Ong che lavora per sostenere i piccoli agricoltori nella loro lotta per la difesa dei sistemi alimentari controllati dalle comunità e basati sulla biodiversità. Chi ha realmente beneficiato del progetto, infatti, sono state le grandi realtà agroindustriali. “Quasi tutta l’acqua convogliata dalle Ande va alle aziende di recente costituzione che producono avocado, mirtilli e altre colture che vengono vendute a prezzi elevati all’estero -continua Grain-. Il progetto, finanziato con fondi pubblici, ha avuto pochi benefici per la popolazione ma ha creato una fonte di profitti per le aziende che hanno accesso libero e gratuito all’acqua e i loro investitori”.

    I protagonisti di questa nuova forma di water grabbing sono fondi pensione, società di private equity e altri operatori finanziari che si stanno muovendo in modo sempre più aggressivo per garantirsi le abbondanti risorse idriche necessarie alla produzione di colture di pregio. A differenza del passato, però, non cercano più di acquisire enormi superfici di terre coltivabili.

    “L’accesso all’acqua è sempre stato un fattore cruciale -spiega ad Altreconomia Delvin Kuyek, ricercatore di Grain e autore dello studio-. Ma negli ultimi anni abbiamo osservato un nuovo modello: investimenti in colture come mirtilli, avocado o mandorle che richiedono meno terra rispetto al grano o alla soia, ma quantità molto maggiori di acqua. A guidare l’investimento, in questo caso, è proprio la possibilità di accedere ad abbondanti risorse idriche per mettere sul mercato prodotti che permettano di generare un ritorno economico importante”. Una forma di sfruttamento che Grain paragona all’estrazione di petrolio: si pompa acqua da fiumi o falde fino all’esaurimento, senza preoccuparsi degli impatti sull’ambiente o dei bisogni della popolazione locale. Gli operatori finanziari, infatti, non prevedono di sviluppare attività produttive sul lungo periodo ma puntano a ritorno sui loro investimenti entro 10-15 anni. Un’altra caratteristica di questi accordi, è che tendono a realizzarsi in località in cui l’acqua è già scarsa o in via di esaurimento.

    Negli ultimi anni il fondo pensionistico canadese ha acquistato direttamente o investito in società che gestiscono piantagioni di mandorle in California, di noci in Australia e California. Mentre in Spagna, attraverso la controllata Hortifruit, è diventato uno dei principali produttori di mirtilli nella regione di Huelva (nel Sud-Ovest del Paese) dove si concentra anche la quasi totalità della coltivazione di fragole spagnole, destinata per l’80% all’export.

    In Perù nel 2020 sono stati prodotte 180mila tonnellate di mirtilli. Numeri che fanno del Paese latinoamericano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti. Nel 2010 erano solo 30

    Tutto questo sta avendo effetti devastanti sulle falde che alimentavano le zone umide della vicina riserva di Doñana, ricchissimo di biodiversità e patrimonio Unesco: un riconoscimento oggi messo a rischio proprio dall’eccessivo sfruttamento idrico. Lo studio “Thirty-four years of Landsat monitoring reveal long-term effects of groundwater abstractions on a World heritage site wetland” pubblicato ad aprile 2023 sulla rivista Science of the total environment, evidenzia come tra il 1985 e il 2018 il 59,2% della rete di stagni sia andata perduta a causa delle attività umane. “Il problema è collegato anche alla produzione di frutti rossi che ha iniziato a diffondersi a partire dagli anni Ottanta, grazie alla presenza di condizioni climatiche ottimali e a un suolo sabbioso”, spiega ad Altreconomia Felipe Fuentelsaz del Wwf Spagna. Ma la crescita del comparto ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle falde, da cui viene prelevata troppa acqua rispetto al tempo che necessitano per rigenerarsi. L’organizzazione stima che nel corso degli anni siano stati scavati più di mille pozzi illegali: “L’80% dei produttori rispetta le norme per l’utilizzo delle risorse idriche, ma il restante 20%, che equivale a circa duemila ettari di terreno, pompa acqua senza averne diritto”, puntualizza Fuentelsaz.

    Questa nuova forma di water grabbing interessa diversi Paesi: dal Marocco (dove il settore agro-industriale pesa per l’85% sul consumo idrico nazionale) al Messico dove è attiva la società di gestione Renewable resources group. Secondo quanto ricostruito da Grain, nel 2018 ha acquisito centomila ettari di terreni agricoli in Messico, Stati Uniti, Cile e Argentina, nonché diritti idrici privati negli Stati Uniti, in Cile e in Australia, generando rendimenti annuali superiori al 20% per i suoi investitori, che comprendono fondi pensione, di private equity e compagnie di assicurazione.

    Tra le società indicate nel report di Grain figura anche Adq, il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi anni ha effettuato importanti investimenti nel comparto agro-alimentare: attraverso la sua controllata Al Dahra ha acquistato terreni in Egitto, Sudan e Romania. Nel 2020 ha acquisito il 45% di Louis Dreyfus Company, una delle quattro principali aziende che controllano il mercato globale del commercio agricolo. E nel 2022 ha comprato la quota di maggioranza di Unifrutti group, società italiana specializzata nella produzione e nella commercializzazione di frutta fresca con oltre 14mila ettari di terreni tra Cile, Turchia, Filippine, Ecuador, Argentina, Sudafrica e Italia.

    Unifrutti group ha sede fiscale a Cipro, uno dei Paesi dell’Unione europea a fiscalità agevolata che garantiscono vantaggi alle società che vi hanno sede. Ma a sfruttare i benefici sono anche oligarchi russi colpiti dalle sanzioni dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014 e inasprite a seguito dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. A rivelarlo l’inchiesta “Cyprus confidential” pubblicata a novembre dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij)

    “Questi investimenti hanno un doppio obiettivo -spiega ad Altreconomia Christian Henderson, esperto di investimenti agricoli nel Golfo e docente presso l’Università di Leiden nei Paesi Bassi- da un lato, sono orientate a trarre profitto dal commercio internazionale e dalle materie prime. In secondo luogo, si preoccupano di garantire la sicurezza alimentare. Queste due logiche in qualche modo sono intrecciate tra loro, in modo da rendere la sicurezza alimentare redditizia per gli Emirati Arabi Uniti. C’è poi un altro elemento: penso che i Paesi del Golfo siano piuttosto preoccupati dal fatto di essere visti come ‘accaparratori’ di terra. In questo modo, invece, possono affermare di aver effettuato un semplice investimento sul mercato”.

    Fondata dall’imprenditore Guido De Nadai nel 1948 ad Asmara come compagnia di import/export di frutta e verdura, oggi Unifrutti group è una realtà globale “che produce in quattro diversi continenti e distribuisce in oltre 50 Paesi” si legge sul sito. Trecento tipologie di prodotti commercializzati, 14mila ettari di terreni (di proprietà o in gestione) e 12mila dipendenti sono solo alcuni numeri di una realtà che ha ancora la propria sede principale a Montecorsaro, in provincia di Macerata, dove si trova il domicilio fiscale di Unifrutti distribution spa. La società è controllata da Unifrutti international holdings limited, con sede fiscale a Cipro, Paese a fiscalità agevolata. Con l’ingresso di Adq come socio di maggioranza sono cambiati anche i vertici societari: il 13 novembre 2023, ha assunto l’incarico di amministratore delegato del gruppo Mohamed Elsarky che ha alle spalle una carriera ventennale come Ceo per società del calibro di Kellog’s Australia e Nuova Zelanda e Godiva chocolatier e come presidente di United biscuits del gruppo Danone. Mentre Gil Adotevi, chief executive officer per il settore “Food and agriculture” del fondo emiratino Adq, ricopre il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione: “Mentre il Gruppo si avvia verso un nuovo entusiasmante capitolo di crescita -ha dichiarato- siamo certi che la guida e la leadership di Mohamed porteranno l’azienda a realizzare i suoi ambiziosi piani”.

    Nel 2021 il gruppo ha commercializzato circa 620mila tonnellate di prodotti (in primo luogo banane, uva, mele, pere, limoni e arance) registrando un fatturato complessivo di 720 milioni di dollari (in crescita del 2% rispetto al 2020) e un margine operativo lordo di 78 milioni. Una performance estremamente positiva che “si è verificata nonostante le numerose sfide che hanno caratterizzato il perimetro operativo del gruppo a partire dalle condizioni climatiche avverse senza precedenti in Cile e in Italia”. Il Paese latino-americano -principale sito produttivo del gruppo, con oltre seimila ettari di terreno dove si producono mele, uva, pere e ciliegie- è stato infatti colpito per il quarto anno di fila da una gravissima siccità che alla fine del 2021 ha visto 19 milioni di persone vivere in aree caratterizzate da “grave scarsità d’acqua”. Come ricorda Grain nel report “Squeezing communities dry” tutte le regioni cilene specializzate nella produzione di frutta “stanno affrontando una crisi idrica aggravata dalla siccità causata dal cambiamento climatico”.

    https://altreconomia.it/il-nuovo-volto-del-water-grabbing-e-la-complicita-della-finanza
    #eau #agriculture #finance #financiarisation #fonds_de_pension #private_equity #Public_sector_pension_investment_board (#Psp) #petits_fruits #myrtilles #Olmos #Pérou #Huancabamba #industrie_agro-alimentaire #avocats #exportation #amandes #ressources_hydriques #extractivisme #Hortifruit #Huelva #Espagne #fraises #Doñana #fruits_rouges #Maroc #Renewable_resources_group #Mexique #Emirats_arabes_unis (#EAU) #Al_Dahra #Egypte #Soudan #Roumanie #Louis_Dreyfus_Company #Guido_De_Nadai #Chypre #Mohamed_Elsarky #Kellog’s #Godiva_chocolatier #United_biscuits #Danone #Gil_Adotevi #Chili

  • Une vraie #souveraineté_alimentaire pour la #France

    Le mercredi 6 décembre 2023, la FNSEA sortait du bureau d’Elisabeth Borne en déclarant fièrement que l’État abandonnait son projet de taxer l’usage des pesticides et des retenues d’eau. Cela vient conclure une séquence historique. Le 16 novembre déjà, l’Europe reconduisait l’autorisation du glyphosate pour 10 ans. Et, six jours plus tard, abandonnait aussi l’objectif de réduction de 50 % de l’usage des pesticides à l’horizon 2030.

    Comment en est-on arrivé là ? La question a été récemment posée dans un rapport de l’Assemblée nationale. En plus du #lobbying habituel de la #FNSEA et de l’état de crise permanent dans laquelle vivent les agriculteurs et qui rend toute #réforme explosive, la question de la souveraineté alimentaire – qui correspond au droit d’un pays à développer ses capacités productives pour assurer la sécurité alimentaire des populations – a joué un rôle clé dans cette dynamique.

    La souveraineté alimentaire est ainsi devenue, depuis la crise du Covid et la guerre en Ukraine, l’argument d’autorité permettant de poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures. Il existe pourtant d’autres voies.

    Le mythe de la dépendance aux #importations

    De quelle souveraineté alimentaire parle-t-on ? Les derniers chiffres de FranceAgrimer montrent que notre « #dépendance aux importations » – comme aiment à le répéter les défenseurs d’un modèle intensif – est de 75 % pour le blé dur, 26 % pour les pommes de terre, 37 % pour les fruits tempérés ou 26 % pour les porcs.

    Mais ce que l’on passe sous silence, c’est que le taux d’#autoapprovisionnement – soit le rapport entre la production et la consommation françaises – est de 148 % pour le blé dur, 113 % pour les pommes de terre, 82 % pour les fruits tempérés et 103 % pour le porc. Le problème de souveraineté alimentaire n’en est pas un. Le vrai problème, c’est qu’on exporte ce que l’on produit, y compris ce dont on a besoin. Cherchez l’erreur.

    D’autres arguments viennent encore se greffer à celui de la souveraineté, dans un monde d’#interdépendances : la #France serait le « grenier à blé de l’Europe », il faudrait « nourrir les pays du Sud », la France serait « une puissance exportatrice », etc.

    Au-delà de l’hypocrisie de certaines de ces affirmations – en effet, les #exportations des surplus européens subventionnés ont détruit tout un tissu productif, en Afrique de l’Ouest notamment – il ne s’agit pas là d’enjeux liés à la souveraineté alimentaire, mais d’enjeux stratégiques et politiques liés à la #compétitivité de certains produits agricoles français sur les marchés internationaux.

    Comprendre : la France est la 6e puissance exportatrice de #produits_agricoles et agroalimentaires au monde et elle entend bien le rester.

    Voir la #productivité de façon multifonctionnelle

    S’il ne faut évidemment pas renoncer aux objectifs de #productivité_alimentaire nationaux, ces derniers gagneraient à être redéfinis. Car comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des besoins en #eau pour produire les aliments, de la dépendance aux #énergies_fossiles générée par les #intrants de synthèse, de l’épuisement de la #fertilité des #sols lié à la #monoculture_intensive ou encore des effets du #réchauffement_climatique ?

    Comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des enjeux fonciers, de l’évolution du #travail_agricole (25 % des #agriculteurs sont en passe de partir à la retraite), du #gaspillage_alimentaire – qui avoisine les 30 % tout de même – des #besoins_nutritionnels et des #habitudes_alimentaires de la population ?

    La #productivité_alimentaire doit dorénavant se conjuguer avec d’autres formes de productivité tout aussi essentielles à notre pays :

    – la capacité de #rétention_d’eau dans les sols,

    – le renouvellement des #pollinisateurs,

    – le maintien des capacités épuratoires des milieux pour conserver une #eau_potable,

    – le renouvellement de la #fertilité_des_sols,

    – la régulation des espèces nuisibles aux cultures,

    – ou encore la séquestration du carbone dans les sols.

    Or, il est scientifiquement reconnu que les indicateurs de productivité relatifs à ces services baissent depuis plusieurs décennies. Pourtant, ce sont bien ces services qui permettront de garantir une véritable souveraineté alimentaire future.

    La #diversification pour maintenir des rendements élevés

    Une revue de littérature scientifique parue en 2020, compilant plus de 5000 études menées partout dans le monde, montrait que seules des stratégies de diversification des #pratiques_agricoles permettent de répondre à ces objectifs de #performance_plurielle pour l’agriculture, tout en maintenant des #rendements élevés.

    Les ingrédients de cette diversification sont connus :

    – augmentation de la #rotation_des_cultures et des #amendements_organiques,

    – renoncement aux #pesticides_de_synthèse et promotion de l’#agriculture_biologique à grande échelle,

    - réduction du #labour,

    - diversification des #semences et recours aux #variétés_rustiques,

    - ou encore restauration des #haies et des #talus pour limiter le ruissellement de l’#eau_de_pluie.

    Dans 63 % des cas étudiés par ces chercheurs, ces stratégies de diversification ont permis non seulement d’augmenter les #services_écosystémiques qui garantissent la souveraineté alimentaire à long terme, mais aussi les #rendements_agricoles qui permettent de garantir la souveraineté alimentaire à court terme.

    Les sérieux atouts de l’agriculture biologique

    Parmi les pratiques de diversification qui ont fait leurs preuves à grande échelle en France, on retrouve l’agriculture biologique. Se convertir au bio, ce n’est pas simplement abandonner les intrants de synthèse.

    C’est aussi recourir à des rotations de cultures impliquant des #légumineuses fixatrices d’azote dans le sol, utiliser des semences rustiques plus résilientes face aux #parasites, des amendements organiques qui nécessitent des couplages culture-élevage, et enfin parier sur la restauration d’un #paysage qui devient un allié dans la lutte contre les #aléas_naturels. La diversification fait ainsi partie de l’ADN des agriculteurs #bio.

    C’est une question de #réalisme_économique. Les exploitations bio consomment en France deux fois moins de #fertilisant et de #carburant par hectare que les exploitants conventionnels, ce qui les rend moins vulnérables à l’évolution du #prix du #pétrole. En clair, l’agriculture biologique pourrait être la garante de la future souveraineté alimentaire française, alors qu’elle est justement souvent présentée comme une menace pour cette dernière du fait de rendements plus faibles à court terme.

    Au regard des éléments mentionnés plus haut, il s’agit évidemment d’un #faux_procès. Nous sommes autosuffisants et nous avons les réserves foncières qui permettraient de déployer le bio à grande échelle en France, puisque nous sommes passé de 72 % du territoire dédié aux activités agricoles en 1950 à 50 % en 2020. Une petite partie de ces surfaces a été artificialisée tandis que la majorité a tout simplement évolué en friche, à hauteur de 1000 km2 par an en moyenne.

    Par ailleurs, le différentiel de rendement entre le bio et le #conventionnel se réduit après quelques années seulement : de 25 % en moyenne (toutes cultures confondues) au moment de la conversion, il descend à 15 % ensuite. La raison en est l’apprentissage et l’innovation dont font preuve ces agriculteurs qui doivent en permanence s’adapter aux variabilités naturelles. Et des progrès sont encore à attendre, si l’on songe que l’agriculture bio n’a pas bénéficié des 50 dernières années de recherche en #agronomie dédiées aux pratiques conventionnelles.

    Relever le niveau de vie des agriculteurs sans éroder le #pouvoir_d’achat des consommateurs

    Mais a-t-on les moyens d’opérer une telle transition sans réduire le pouvoir d’achat des Français ? Pour répondre à cette question, il faut tout d’abord évoquer le #revenu des #agriculteurs. Il est notoirement faible. Les agriculteurs travaillent beaucoup et vivent mal de leur métier.

    Or, on oublie souvent de le mentionner, mais le surcoût des produits bio est aussi lié au fait que les consommateurs souhaitent mieux rémunérer les agriculteurs : hors subventions, les revenus des agriculteurs bio sont entre 22 % et 35 % plus élevés que pour les agriculteurs conventionnels.

    Ainsi, le consommateur bio consent à payer plus parce que le bio est meilleur pour l’environnement dans son ensemble (eau, air, sol, biodiversité), mais aussi pour que les paysans puissent mieux vivre de leur métier en France sans mettre en danger leur santé.

    Par ailleurs, si le consommateur paie plus cher les produits bio c’est aussi parce qu’il valorise le #travail_agricole en France. Ainsi la production d’aliments bio nécessite plus de #main-d’oeuvre (16 % du total du travail agricole pour 10 % des surfaces) et est très majoritairement localisée en France (71 % de ce qui est consommé en bio est produit en France).

    Cette question du #travail est centrale. Moins de chimie, c’est plus de travail des communautés humaines, animales et végétales. C’est aussi plus d’incertitudes, ce qui n’est évidemment pas simple à appréhender pour un exploitant.

    Mais il faut rappeler que le discours sur le pouvoir d’achat des français, soi-disant garanti par le modèle hyper-productiviste de l’agriculture française, vise surtout à conforter les rentes de situations des acteurs dominants du secteur agricole. Car les coûts sanitaires et environnementaux de ce modèle sont payés par le contribuable.

    Rien que le #traitement_de_l’eau, lié aux pollutions agricoles, pour la rendre potable, coûte entre 500 millions d’euros et 1 milliard d’euros par an à l’État. Or, ce que le consommateur ne paie pas au supermarché, le citoyen le paie avec ses #impôts. Le rapport parlementaire évoqué plus haut ne dit pas autre chose : la socialisation des coûts et la privatisation des bénéfices liés aux #pesticides ne sont plus tolérables.

    Le bio, impensé de la politique agricole française

    Une évidence s’impose alors : il semblerait logique que l’État appuie massivement cette filière en vue de réduire les coûts pour les exploitants bio et ainsi le prix pour les consommateurs de produits bio. En effet, cette filière offre des garanties en matière de souveraineté alimentaire à court et long terme, permet de protéger l’eau et la #santé des Français, est créatrice d’emplois en France. Il n’en est pourtant rien, bien au contraire.

    L’État a promu le label #Haute_valeur_environnementale (#HVE), dont l’intérêt est très limité, comme révélé par l’Office français de la biodiversité (OFB). L’enjeu semble surtout être de permettre aux agriculteurs conventionnels de toucher les aides associés au plan de relance et à la nouvelle #PAC, au risque de créer une #concurrence_déloyale vis-à-vis des agriculteurs bio, d’autant plus que les #aides_publiques au maintien de l’agriculture biologique ont été supprimées en 2023.

    La décision récente de l’État de retirer son projet de #taxe sur l’usage des pesticides créé aussi, de facto, un avantage comparatif pour le conventionnel vis-à-vis du bio. Enfin, rappelons que la Commission européenne a pointé à plusieurs reprises que la France était le seul pays européen à donner moins de subventions par unité de travail agricole aux céréaliers bio qu’aux conventionnels.

    Ainsi, un céréalier bio français reçoit un tiers de subventions en moins par unité de travail agricole qu’un céréalier conventionnel, alors qu’en Allemagne ou en Autriche, il recevrait 50 % de #subventions supplémentaires. En France, l’État renonce aux taxes sur les pesticides tout en maintenant des #charges_sociales élevées sur le travail agricole, alors que c’est évidemment l’inverse dont aurait besoin la #transition_agroécologique.

    Que peuvent faire les citoyens au regard de ce constat déprimant ? Consommer des produits bio malgré tout, et trouver des moyens de les payer moins cher, grâce par exemple à la #vente_directe et à des dispositifs tels que les #AMAP qui permettent de réduire le coût du transport, de la transformation et de la distribution tout autant que le gâchis alimentaire, les variabilités de la production étant amorties par la variabilité du contenu du panier.

    Les agriculteurs engagés pour la #transition_écologique, de leur côté, peuvent réduire les risques associés aux variabilités naturelles et économiques en créant de nouvelles formes d’exploitations coopératives combinant plusieurs activités complémentaires : élevage, culture, transformation, conditionnement et distribution peuvent être organisés collectivement pour mutualiser les coûts et les bénéfices, mais aussi se réapproprier une part significative de la #chaîne_de_valeur laissée aujourd’hui au monde de l’agro-industrie et de la grande distribution.

    Il ne s’agit pas d’une #utopie. De nombreux acteurs essaient de faire émerger, malgré les résistances institutionnelles, ces nouvelles pratiques permettant de garantir la souveraineté alimentaire de la France à long terme.

    https://theconversation.com/une-vraie-souverainete-alimentaire-pour-la-france-220560
    #foncier #industrie_agro-alimentaire #alimentation #collectivisation
    #à_lire #ressources_pédagogiques

  • Terre : aux racines du capitalisme

    L’élément terre, dans son acception économique peut s’entendre de deux manières : la terre à exploiter, dont on peut tirer des ressources et du profit, et la Terre à préserver et à “sauver” d’un #capitalisme_prédateur qui l’épuise. L’idée de parler de capital Terre reprend deux notions incluses dans le terme Terre, à savoir comprendre la Terre à la fois comme notre planète et à la fois comme une ressource foncière. On ressent bien l’ambivalence dans l’expression capital Terre : la Terre est à la fois notre espace de vie, un espace commun et un bien précieux à préserver, mais elle est aussi une ressource dans laquelle puiser des richesses et dont on peut retirer des profits.
    Du 12ème au 19ème siècle : comment la croissance se fonde-t-elle sur le travail de la terre ?

    Selon Alessandro Stanziani, l’histoire économique de la terre comme capital commence au 12ème siècle, il précise "selon Fernand Braudel et Werner Sombart le capitalisme commence au 12ème siècle. Le capitalisme selon Braudel est identifié par le monopole, plutôt que la concurrence, et par la finance. Je complète cette définition avec la notion que les ressources sont uniquement à exploiter et non pas à préserver pour le futur et surtout que le travail doit être soumis à des contraintes sévères au long de plusieurs siècles. De ce point de vue-là, je n’associe pas, comme Marx, le travail et le capitalisme au travail salarié et au prolétaires, au contraire, j’associe les formes multiples du capitalisme aux formes différentes du travail contraint. D’où la possibilité d’inclure les régimes qui commencent au 12ème siècle sous le nom de capitalisme". Par ailleurs, du 12e au 19e, la hausse de la production agricole correspond à une augmentation des surfaces cultivées, en effet les déforestations n’ont cessé d’être présentes du néolithique au haut Moyen-Âge et elles s’accélèrent fortement entre le 8e et le 13e siècle. Cependant, même au 12ème siècle des contestations contre le déboisement et l’exploitation de la terre à des fins productives agraires existaient déjà, Alessandro Stanziani ajoute "les résistances sont importantes, plusieurs acteurs se rendent compte de la nécessité de préserver les forêts afin d’avoir de bonnes récoltes à côté, mais aussi pour des intérêts économiques, politiques et sociaux. Cette résistance est celle d’un capitalisme que j’appelle foncier, agraire et quasi industriel, qui va du 12ème au 19ème siècle".
    De 1870 à 1970 : vers un modèle productiviste et une surexploitation de l’élément terre

    Pendant ces décennies, l’exploitation des ressources de la terre et le système capitaliste connaissent des changements majeurs, marqués par une intensification remarquable. Alessandro Stanziani précise "dans l’agriculture et dans le pays du Nord, la mécanisation est très lente, mais on constate un changement significatif avec les semences. Après la crise de 29, aux Etats-Unis, on s’intéresse aux semences hybrides. Il y a des investissements massifs, on donne des semences hybrides aux fermiers américains et ensuite, on vend ces mêmes semences à l’Europe avec l’aide du plan Marshal et on impose aux agriculteurs européens d’avoir recours aux semences hybrides. L’avantage des semences hybrides, ce sont des rendements faramineux, ça commence par le maïs, la plante des plaines américaines, et de fait on arrive à nourrir de plus en plus de population à l’échelle mondiale. L’inconvénient c’est que les semences hybrides ont une durée de vie très courte, de un ou deux ans, pour qu’elles soient rentables il faut beaucoup de fertilisants chimiques. Les producteurs de semences produisent aussi le fertilisants chimiques, ils sont gagnants des deux côtés. Par ailleurs, ces producteurs ont le monopole et l’exclusivité de ce marché. Enfin, les rendements des hybrides commencent à décroître après 20 ans".
    De 1970 à 2050 : spéculer sur le capital Terre : la terre face à la libéralisation des marchés

    Les bouleversements majeurs ont lieu pendant les années 1970 : la fin du système de Bretton Woods, les chocs pétroliers, le déclin du keynésianisme et de l’État social en Occident et le début des réformes en Chine.
    Par ailleurs, la spéculation sur les produits agricoles s’élargit aux terres elles-mêmes : il ne s’agit pas seulement d’échanger des produits virtuels dont la plupart ne verront jamais le jour, mais de contrôler ces flux hypothétiques à l’échelle mondiale. Selon Alessandro Stanziani "avec le néolibéralisme des années 80 et surtout dans les années 1990, on assiste à la libéralisation totale des Bourses de marchandises, avec les spéculations sur les matières premières et sur le blé, et on arrive jusqu’aux crises de 2008/2010 et jusqu’au crise de nos jours sur la vie chère. C’est-à-dire que c’est une pénurie qui est provoquée, non pas par de mauvaises récoltes, mais surtout par les spéculations".

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/entendez-vous-l-eco/terre-aux-racines-du-capitalisme-8719942

    #capitalisme #terre #agriculture #histoire #économie_capitaliste #terres #Alessandro_Stanziani #capital_terre #spéculation #exploitation #foncier #ressource_foncière #à_écouter #ressources_pédagogiques #croissance #déforestation #forêts #déboisement #mécanisation #semences #semences_hybrides #plan_Marshal #maïs #rendements #industrie_agro-alimentaire #fertilisants #néolibéralisme #blé #matières_premières #pénurie #podcast #audio

    • Capital Terre. Une histoire longue du monde d’après (XIIe-XXIe siècle)

      Et si le cœur du problème de la faim dans le monde n’était pas la hausse de la population mais plutôt les modalités de la production agricole et surtout de la distribution au profit des plus riches ? Dans cet essai engagé pour des sociétés plus solidaires et plus justes, qui retrace l’histoire longue du capitalisme, Alessandro Stanziani propose de renouer avec le contrat social cher à J.-J. Rousseau et de faire de la démocratie, de l’égalité sociale et de l’environnement les trois piliers du monde d’après. Défenseur d’une politique publique conciliant croissance économique et démographique, droits du travail, lutte contre les inégalités et protection de la planète, il plaide pour la fin des spéculations sur les denrées alimentaires, de l’accaparement des terres et de la propriété industrielle, en particulier sur les semences, véritable « patrimoine de l’humanité », et prône une refonte plus égalitaire de la fiscalité et des finances publiques.
      Une pensée économique globale, qui se préoccupe autant de l’avenir de l’Asie et de l’Afrique que de celui de l’Europe, par un brillant historien reconnu à l’international et fort de décennies de recherches sur le terrain dans le monde entier.

      https://www.payot-rivages.fr/payot/livre/capital-terre-9782228929257
      #livre

  • Nos chats sont-ils des terreurs écologiques ?

    “Les chats sont une #catastrophe pour la #biodiversité. Les chiens sont une catastrophe pour le climat” a affirmé le 13 décembre, sur TF1, le chercheur médiatique #François_Gemenne, ancien membre du GIEC et enseignant à Science Po Paris. En disant cela, il a admis lui-même aborder un sujet sensible, susceptible de déclencher la colère des téléspectateurs. Et cela n’a pas loupé : la séquence a été largement commentée sur les réseaux sociaux, beaucoup de gens – y compris d’autres écologistes – rappelant qu’il y avait beaucoup à faire, par exemple s’en prendre aux grands bourgeois et leur train de vie délirant, avant de s’intéresser à l’impact de nos chats et de nos chiens sur la biodiversité et le #climat. Oui mais ne serions-nous pas des défenseurs de la planète en carton-pâte si nous ne considérions pas honnêtement la #responsabilité des animaux les plus populaires et les plus mignons sur ce qu’il nous arrive ?

    1 – La destruction de la biodiversité a plusieurs causes

    Quand on pense à l’écologie, on pense d’abord au sujet du réchauffement climatique dû à l’impact des activités humaines carbonés. Mais il y a d’autres sujets à prendre en compte parmi lesquels la baisse très rapide de la biodiversité (quantité d’espèces différentes sur la planète). Elle est en chute libre car de nombreux êtres vivants disparaissent du fait de la transformation, par les activités humaines, de leur environnement. C’est pourquoi on parle d’une “#sixième_extinction_de_masse” : une grande partie des espèces qui peuplent la terre pourrait disparaître prochainement. Selon l’Office Français de la Biodiversité, un établissement public créé récemment pour promouvoir la sauvegarde de ces espèces, 68 % des populations de vertébrés (mammifères, poissons, oiseaux, reptiles et amphibiens) ont disparu entre 1970 et 2016, soit en moins de 50 ans. Et rien qu’en 15 ans, 30% des oiseaux des champs ont disparu, ainsi que 38% des chauves-souris. Si jamais on s’en fout royalement de ces animaux, on peut se rappeler que tout est lié et que ces disparitions ont des conséquences sur nos vies, car chacune de ces espèces jouent un rôle au sein d’un #écosystème, et que certaines peuvent ensuite prendre le dessus et devenir envahissantes…

    La France a un rôle particulier à jouer car elle est le 6e pays du monde à héberger des espèces menacées. Qu’est-ce qui, chez nous, contribue à cette #extinction_de_masse ? Comme partout, le #changement_climatique joue un rôle important en déstabilisant la vie et la reproduction de nombre d’espèces. Ensuite, la pollution de l’air, de l’eau et du sol est considérée par l’ONG WWF comme la première cause de perte de biodiversité dans le monde. On peut également citer la transformation de l’usage des #sols, avec le développement de l’agriculture intensive et l’étalement urbain : le premier transforme la végétation, par exemple en détruisant les #haies pour augmenter les surfaces cultivables par des engins de plus en plus gros, ce qui dégomme des lieux de vie pour nombres d’espèces, en particulier les insectes et les rongeurs, dont la disparition affecte ensuite les oiseaux.

    Il faut aussi mentionner la surexploitation des animaux, via la #pêche_intensive mais aussi la #chasse, bien que sur cette dernière activité, le débat fasse rage dans le cas de la France : les défenseurs de la chasse estiment qu’elle contribue à préserver la biodiversité, puisque les chasseurs “régulent” certaines espèces potentiellement envahissantes et relâchent dans la nature des animaux qu’ils élèvent le reste de l’année. Les lobbies de chasseurs dépensent beaucoup d’argent et de temps pour imposer cette réalité dans le débat public, allant jusqu’à dire que les chasseurs sont “les premiers écologistes de France”, mais les faits sont têtus : seuls 10% des oiseaux relâchés par leurs soins survivent car ils sont désorientés, incapables de se nourrir correctement et pas autonome. Quiconque vit en zone rurale connaît le spectacle navrant de ces faisans et autres bécasses qui errent au bord des routes, attirés par la présence humaine, en quête de nourriture… Quant à la “régulation” des #espèces_invasives, il semble que cela soit en grande partie une légende urbaine : “La grande majorité des animaux tués à la chasse, approximativement 90 ou 95 % n’ont pas besoin d’être régulés” explique le biologiste Pierre Rigaud au Média Vert.

    2 – Les espèces invasives, produits du #capitalisme mondialisé

    Mais dans la liste des causes de la baisse de la biodiversité, il faut mentionner l’impact très important des espèces invasives introduites par l’homme dans la nature – on arrive à nos chatons. Dans son dernier rapport, la Plateforme intergouvernementale scientifique et politique sur la biodiversité et les services écosystémiques (IPBES, qui représente 130 gouvernements et publie des rapports réguliers) établit que la “présence cumulative d’#espèces_exotiques s’est accrue de 40% depuis 1980, et est associée à l’intensification des échange commerciaux ainsi qu’à la dynamique et aux tendances démographiques”. Parce que la “#mondialisation” est passée par là, ou, pour le dire clairement, que la #colonisation et la mise sous régime capitaliste du monde entier a eu lieu au cours du XXe siècle, des espèces circulent d’un continent à l’autre et parviennent dans des endroits où elles commettent de gros dégâts sur les espèces endémiques (“endémique” : qui vit dans un lieu donné. S’oppose à “exotique”).

    Le cas du #frelon_asiatique est très symptomatique : cette espèce a débarqué en France, vraisemblablement dans un conteneur venu de Chine, il y a 20 ans et nuit depuis largement à la biodiversité, notamment aux abeilles. 2004, c’est le début de l’intensification des #échanges_commerciaux avec l’Asie du fait de la délocalisation de toute une partie de la production industrielle en Chine, au grand bonheur des entreprises européennes et de leurs profits. Au passage, ils nous ont ramené le frelon.

    Mais nos animaux préférés seraient aussi en cause : les chats sont des mangeurs d’#oiseaux et ont effectivement, comme le dit François Gemenne, une part de responsabilité dans la baisse de la biodiversité… Ce qu’il ne dit pas, c’est qu’ils provoquent autant de mortalité en France et en Belgique que… nos #fenêtres, contre lesquelles les oiseaux se cognent et meurent… Selon le Muséum d’Histoire Naturelle, interrogé par France Info, les chats ne sont pas les principaux responsables de la disparition des oiseaux car ”Leur raréfaction tient avant tout à la disparition des #insectes et la perte d’habitat. Le chat représente toutefois une pression supplémentaire importante sur une population fragilisée.” Ce serait en #ville et sur les #îles que l’impact des chats serait important, et non dans les campagnes, où il est “un prédateur parmi d’autres”.

    3 – Accuser les chats pour préserver les capitalistes ?

    Lorsque l’on regarde les principaux facteurs de chute de la biodiversité dans le monde, on constate que tout à avoir des décisions humaines. Quel type d’#agriculture développons-nous ? Comment construisons-nous nos villes ? A quelle fréquence faisons-nous circuler les marchandises et les animaux entre les différentes parties du monde ? Quelles activités polluantes décidons-nous de réduire et lesquelles nous choisissons de garder ? On est donc très loin d’une simple équation scientifique : face à un problème comme la sixième extinction de masse, ce sont des décisions collectives potentiellement très conflictuelles que nous devons prendre. Qui arrête son activité ? Qui la poursuit ? Qui va continuer à gagner de l’argent ? Qui va devoir perdre une activité très rentable ?

    Puisque le pouvoir, en France comme dans le monde, appartient aux défenseurs du capitalisme, la décision est pour l’instant la suivante : ce qui génère du profit doit continuer à pouvoir générer plus de profit. L’#agriculture_intensive doit donc continuer et se développer. C’est pourquoi, depuis 50 ans, 70% des haies et des #bocages, refuges de biodiversité, ont disparu, et le phénomène s’accélère. Car les lobbies de l’#agriculture_industrielle ont sévi et, encore récemment, ont obtenu de pouvoir continuer leur jeu de massacre. La #pollution des sols et de l’air ? Elle continue. Le #glyphosate, cet #herbicide qui dégomme les insectes et rend les animaux malades, a été autorisé pour 10 années de plus par l’Union Européenne, pour continuer à produire davantage sur le plan agricole, une production qui sera en grande partie exportée et qui contribuera au grand jeu des profits de l’#agroalimentaire

    Les villes et les villages peuvent continuer de s’étendre et c’est flagrant en zone rurale : puisque le marché du logement est dérégulé et qu’il est plus profitable de construire sur terrain nu que de réhabiliter de l’ancien dans les centre-bourgs, les périphéries des petites villes s’étendent tandis que les centres se meurent… L’#étalement_urbain, qui fait reculer la biodiversité, s’étend sous la pression du #marché_immobilier. Là encore, c’est un choix en faveur du capitalisme et au détriment de la biodiversité… Et inutile de parler du réchauffement climatique : la COP 28, dont la délégation française comprenait Patrick Pouyanné, le patron de TotalEnergies, s’est soldée par un “accord pitoyable”, pour reprendre les mots de Clément Sénéchal, spécialiste du climat, dans Politis. Mais François Gemenne, lui, s’en est réjoui avec enthousiasme.

    Le consensus des dirigeants du monde entier est donc le suivant : il ne faut donner aucune véritable contrainte aux marchés qui prospèrent sur la destruction des espèces vivantes sur cette planète. Et en France, puissance agricole, ce constat est encore plus flagrant.

    Alors, que nous reste-t-il ? Les #décisions_individuelles. Ce pis-aller de l’#écologie_bourgeoise qui consiste finalement à dire : “bon, on a tranché, on ne va pas toucher au train-train du capitalisme qui nous plaît tant mais par contre on va vous demander à vous, citoyens, de faire des efforts pour la planète”. Mais attention : sans trop mentionner la consommation de #viande, le seul “#petit_geste” qui a un impact très significatif parce que la consommation de viande est en moyenne la troisième source d’émission carbone des Français (avant l’avion). Les industriels de la viande veillent au grain et ne veulent surtout pas qu’on se penche là-dessus.

    Parler des animaux domestiques s’inscrit dans cette veine-là. Bien sûr que, dans l’absolu, les chats et les chiens ont un impact sur la biodiversité et sur le climat. Car tout a un #impact. Mais d’une part cet impact reste marginal et d’autre part il est non systémique. Certes, le capitalisme a trouvé un bon filon pour faire du profit sur le dos de nos amours pour ces animaux qui apportent de la joie et du bonheur chez de nombreuses personnes, il suffit d’entrer dans une animalerie pour cela : la diversité des aliments, des jouets, des accessoires, le tout dans des couleurs chatoyantes pour appâter le maître bien plus que le chien… Mais lorsque l’on parle des chats qui mangent des oiseaux, on ne parle pas du capitalisme. Pire, on en profite pour masquer l’impact bien plus significatif de certaines activités. Les chasseurs, qui dépensent de lourds moyens pour influencer le débat public et ne reculent devant aucun argument ne s’y sont pas trompés : #Willy_Schraen, le président de la Fédération Nationale des Chasseurs (FNC) a tenté d’orienter, en 2020, l’attention du public sur l’impact des chats, qu’il accuse, ironie du sort, de trop chasser et qu’il a appelé à piéger. Aucune solidarité dans la profession !

    4 – Sortir du discours écolo bourgeois : un mode d’emploi

    Les chats sont bel et bien des chasseurs mais il existe des solutions pour limiter leur impact sur la biodiversité : stériliser le plus souvent possible pour éviter leur prolifération, les faire sortir uniquement à certaines heures de la journée ou… jouer davantage avec eux durant la journée. Pas sûr que les mêmes solutions fonctionnent pour réduire l’impact de la FNSEA, de TotalEnergies, de Lactalis, de la CMA CGM et de tous les milliardaires français : le patrimoine de 63 d’entre eux, en France, émettent autant de gaz à effet de serre que la moitié de la population française.

    Pour amuser vos petites boules de poils, la rédaction de Frustration recommande l’arbre à chat. Pour amuser vos petits milliardaires on recommande la visite de l’épave du Titanic dans un sous-marin peu étanche

    Comment utiliser efficacement son temps d’antenne quand on est un scientifique médiatique comme #François_Gemenne ? On peut se faire mousser en se payant un petit bad buzz par la #culpabilisation des individus possédant un chat. Ou bien on peut prioriser les sujets, étant entendu que dans l’absolu, oui, toutes les activités humaines polluent et ont un impact sur la biodiversité. Comment procéder ?

    - Aller du plus systémique au moins systémique : critiquer le capitalisme (ou ses sous-catégories : marché immobilier, #agro-industrie, industrie pétrolière etc.), qui conduit les entreprises et les individus à chercher la production permanente et l’exploitation permanente dans un monde aux ressources finies, plutôt que les chats, qui se contentent de vivre et de paresser sans chercher à performer ou faire preuve de leur respect de la “valeur travail”.
    - Aller du plus impactant au moins impactant : oui, la nourriture des chiens pollue, mais l’industrie de la viande dans le monde est une bombe climatique. Mais peut-être est-il moins gênant de vexer Frolic et Royal Canin que Fleury Michon et Fabien Roussel ?
    – Aller du plus superflu au moins superflu : dans l’ordre, commencer à interdire les yachts et les vols en jet privé avant de s’en prendre à la voiture individuelle serait une bonne chose. Sans quoi, personne ne comprend la demande d’un effort à forte conséquence sur son mode de vie quand, pour d’autres, ce sont les loisirs qui seraient visés.

    Ensuite, puisqu’il faut trancher, que ces choix se fassent démocratiquement. Pour préserver la biodiversité, préfère-t-on interdire la chasse ou limiter le nombre de chats par personne ? Veut-on sortir du modèle agricole productiviste orienté vers la production de viande ou interdire les chiens ? Et si on rappelait au passage que les #animaux_de_compagnie sont parfois la seule famille des personnes seules et fragilisées, notamment parmi les personnes pauvres, et qu’ils fournissent des services à la population, non quantifiable sur le plan financier ?

    Bref, préférez-vous en finir avec les chatons ou avec la bourgeoisie ? De notre côté, la réponse est toute trouvée.

    https://www.frustrationmagazine.fr/chats-ecologie

    #chats #chat #écologie #animaux_domestiques #industrie_agro-alimentaire #priorité #à_lire

  • Les nitrites interdits dans les croquettes mais autorisés dans le jambon
    https://www.leparisien.fr/societe/sante/les-nitrites-interdits-dans-les-croquettes-mais-autorises-dans-le-jambon-

    Pépite réglementaire passée inaperçue, l’Europe a considéré cet été que l’ajout de nitrite de sodium dans les croquettes de nos chiens ou la pâtée de nos chats étaient dangereux pour leur santé et l’a interdit, alors qu’elle a renoncé à le bannir dans la charcuterie à destination des humains.

  • Les #Agences_de_l’eau en mode essorage

    Indépendantes de l’État, ces structures décisives dans la gestion de la ressource sont pourtant l’objet de multiples #pressions pour financer le #lobby agricole.

    Depuis quelques jours, les grands acteurs des guerres de l’eau en France jouent aux chaises musicales. On a ainsi vu mercredi dernier, le 6 décembre, #Arnaud_Rousseau, le président de la #FNSEA (#Fédération_nationale_des_syndicats_d’exploitants_agricoles), annoncer lui-même depuis le perron de Matignon que le gouvernement renonçait d’une part à taxer les agriculteurs qui polluent les sols et les eaux en utilisant des #pesticides et d’autre part à augmenter la #redevance de ceux qui irriguent tant et plus. La Première ministre, Élisabeth Borne, s’est contentée d’observer sagement la scène. Ce mardi, à Rennes, d’autres agriculteurs ont exprimé leur colère. Ils ont manifesté et même occupé des bâtiments de l’État pour demander, entre autres, l’arrêt du glyphosate et la taxation des pesticides. Évidemment, ils étaient pour la plupart affiliés à la Confédération paysanne. Ils revendiquaient surtout le paiement de plusieurs dizaines de millions d’euros de subventions qui leur ont été promis et qui doivent financer des mesures agro-écologiques dans leurs fermes. Le grand perdant de ce jeu de chaises musicales, où chacun semble prendre une place inattendue ? Le ministre de la Transition écologique, Christophe Béchu, qui n’a visiblement aucune assise. Il laisse la parole à la FNSEA, et il laisse – vous le verrez, c’est un document que se sont procuré Les Jours – son homologue chargé de l’Agriculture, Marc Fesneau, lui remonter les bretelles sur un dossier qui concerne pourtant de très près l’environnement et des établissements publics dont il a la charge, les Agences de l’eau.

    Pour comprendre cette situation, il faut vous présenter un peu plus ces mastodontes aussi importants que méconnus. La France compte six Agences de l’eau, dont les territoires sont délimités en fonction de l’écoulement des eaux : chacune règne sur un grand bassin hydrographique. Les personnes qui connaissent bien ces assemblées – et elles sont plutôt rares – en sont fières et les surnomment les « parlements de l’eau ». Car, en théorie, ces agences dotées d’un budget conséquent – plus de 12 milliards d’euros sur la période 2019-2024 – sont indépendantes de l’État et gérées par des collèges représentants tous les utilisateurs de la ressource : consommateurs, collectivités, industriels, agriculteurs, pêcheurs… Chacun de ces acteurs finance le budget des Agences via des taxes appelées « redevances » et, ensemble, ils doivent parvenir à concilier trois objectifs de plus en plus difficiles à atteindre : que chacun dispose de suffisamment d’eau, que les cours d’eau et les êtres qui y vivent soient en bonne santé, mais aussi que l’eau soit suffisamment peu polluée pour pouvoir être bue par tous.

    Depuis au moins une décennie, ces belles intentions sont largement mises à mal. En 2015, un rapport de la Cour des comptes dénonçait déjà le noyautage des Agences de l’eau par ceux qui la polluent – les industriels, notamment –, ainsi que par ceux qui en usent tant qu’ils en sont les plus grands consommateurs du pays : les agriculteurs… qui parfois polluent aussi. Le rapport pointait notamment le poids de plus en plus important pris par la FNSEA dans les décisions concernant la ressource. La situation ne s’est pas améliorée depuis. Un autre rapport de la même Cour des comptes, publié en juillet dernier et consacré à la gestion de l’eau face au changement climatique, regrettait, lui, que les redevances soient réparties de façon extrêmement inégale. Les consommateurs paient plus de 70 % des taxes via leur facture d’eau, quand les agriculteurs irrigants ne payent que 6 % de ces redevances et les agriculteurs consommateurs de pesticides à peine 4 %. Une situation d’autant plus injuste que l’impact de l’agriculture sur le coût de l’eau est de plus en plus grand : peu à peu, on se rend compte que l’eau potable est ainsi très largement contaminée par les résidus de pesticides, et que la dépollution va coûter une fortune aux collectivités.

    En prime, beaucoup d’agents et responsables des Agences de l’eau ont l’impression qu’on tape dans leurs caisses. Car depuis les années 2010, l’État a régulièrement décidé de ponctionner leur budget pour financer des mesures censées être favorables à l’environnement. Avec des conséquences lourdes sur les moyens de ces établissement mais aussi sur la taille des couleuvres à avaler : en 2018 a par exemple été instaurée une « contribution financière des Agences de l’eau à l’Agence française pour la biodiversité et à l’Office national de la chasse et de la faune sauvage » d’un montant de 20 millions d’euros. Une somme qui permettait de compenser la perte de budget de ce dernier Office due à la promesse présidentielle – celle-là même qui avait poussé Nicolas Hulot à la démission – de diviser par deux le prix des permis de chasse. C’est ainsi que l’argent des parlements de l’eau a depuis été utilisé pour faciliter la pratique du fusil en milieu rural.

    En avril dernier, le même Emmanuel Macron a annoncé du côté du lac de Serre-Ponçon, dans les Hautes-Alpes, son « plan eau », censé porter des objectifs de sobriété. Cette feuille de route, que Les Jours décrivaient comme très favorable aux agriculteurs (lire l’épisode 2, « Tu cherches un plan eau près de chez toi ? »), devait en partie être financée via les deux taxes auxquelles le gouvernement vient donc de renoncer. Une annulation vécue comme une injustice de trop pour le président du comité de bassin de l’Agence de l’eau Loire-Bretagne, Thierry Burlot (pourtant ex-candidat macroniste aux régionales). Il se dit « abasourdi » : « On a construit ce plan eau pendant des mois. On s’était mis d’accord sur le financement, de façon collective. On a imaginé une taxe sur les pesticides qui, au regard du coût de la pollution, est franchement minime. Et on découvre que la FNSEA est allée négocier seule à Paris, dans le dos de tout le monde. On découvre qu’ils ne veulent même pas payer pour financer un plan dont ils sont de très loin les plus grands bénéficiaires. C’est trop, cette décision va générer beaucoup de tension. »

    À Rennes, l’élu PS et vice-président d’Eau du bassin rennais Ludovic Brossard tance : « On n’est même plus face à du renoncement, on est face à un choix idéologique du gouvernement de soutenir le fonctionnement actuel de l’économie agricole plutôt que de donner une réponse aux enjeux environnementaux. » Du côté des agents de ces Agences, la déception est tout aussi grande. Élue au Syndicat national de l’environnement (SNE-FSU), Delphine Jacono déplore qu’« une fois de plus, on constate un arbitrage au profit des intérêts agricoles et au détriment de l’intérêt général. Ces taxes sont prévues pour abonder des budgets, mais doivent aussi faire changer les pratiques. Y renoncer est dommageable pour tout le monde ».

    Et ce n’est pas le seul dossier financier chaud qui divise les Agences de l’eau et le monde agricole. Les agents rennais de la direction régionale de l’alimentation, de l’agriculture et de la forêt l’ont découvert ce mardi en voyant débarquer une centaine d’agriculteurs en colère. L’objet de leur courroux est né de plusieurs échanges épistolaires entre membres de la majorité. Fin octobre, une flopée de parlementaires bretons écrivent au ministre l’Économie Bruno Le Maire et à Marc Fesneau. Ils alertent : des agriculteurs de la région se sont engagés à prendre dans leurs exploitations des « mesures agro-environnementales et climatiques » (Maec) en échange de subventions, et ils attendent leur dû. Victimes de leur succès, ces aides ont explosé les plafonds prévus. Près de 3 000 agriculteurs bretons attendraient aujourd’hui un montant global de 53 millions d’euros. Qui peut les payer ?

    Dans un courrier que « Les Jours » se sont procuré, Marc Fesneau exige de Christophe Béchu que les Agences de l’eau sortent le chéquier. Encore

    Cette missive a été bien reçue et entendue par Marc Fesneau. Selon un document que Les Jours se sont procuré, ce dernier a renvoyé quelques jours plus tard la patate chaude à Christophe Béchu. Son courrier évalue les besoins de financements à 143 millions d’euros à l’échelle nationale et se termine ainsi : « Cette insuffisance de financement provient des Agences de l’eau qui sont sous votre tutelle. » En clair, Marc Fesneau veut encore que lesdites agences sortent le chéquier. Il l’a fait savoir directement à leurs dirigeants, précise Thierry Burlot : « Marc Fesneau a invité les présidents de comité de bassin il y a un mois pour nous le dire. On n’était pas au courant de cet arbitrage, on ne savait pas que c’était à nous de le payer. Je vais être tout à fait clair sur ma position : je suis favorable au financement des Maec. Mais je ne peux pas les payer. On ne peut payer que si on a de l’argent dans la caisse. »

    Sur le terrain, on avance enfin un autre argument, de poids : il faudrait veiller à ne pas subventionner tout et n’importe quoi sous la pression du ministère de l’Agriculture. Un anonyme contrôleur de la Politique agricole commune (PAC), qui a évalué de très nombreux dossiers de Maec, détaille : « Les Maec sont censées inciter à un changement de pratiques et compenser une perte de rendement. Une partie sont très intéressantes, mais dans une majorité de dossiers, on finance des pratiques déjà existantes ou pas forcément pertinentes. » Delphine Jacono, du SNE-FSU, confirme qu’« il y a Maec et Maec, avec des ambitions environnementales très variables ». Elle alerte donc sur le fait que « faire du saupoudrage indifférencié serait une nouvelle atteinte aux objectifs environnementaux et climatiques ».

    Thierry Burlot, qui craint que l’affaire ne décourage les agriculteurs partisans d’un changement de modèle, se veut, lui, beaucoup plus conciliant avec les Maec. Quant à Ludovic Brossard, qui est allé à la rencontre des agriculteurs en colère ce mardi, il assure que la grande majorité de ces exploitants s’engagent dans des mesures vraiment intéressantes pour l’environnement. « Ces agriculteurs se disent qu’il leur manque des millions d’euros et que quelques jours plus tôt la FNSEA a été écoutée en déversant du lisier sur les préfectures. Forcément, ils se disent que les choses marchent comme ça. » Mais n’est pas la FNSEA qui veut : ce mardi soir, les agriculteurs de la Confédération paysanne ont été évacués avec force par la police.

    https://lesjours.fr/obsessions/eau-guerres/ep9-agences-eau-fnsea
    #eau #France #lobbying #agriculture #industrie_agro-alimentaire #indépendance #irrigation #pollution #taxe #glyphosate #Confédération_paysanne #subventions #agro-écologie #Marc_Fesneau #Christophe_Béchu #cour_des_comptes #eau_potable #prix #coût #contamination #dépollution #plan_eau #économie_agricole #mesures_agro-environnementales_et_climatiques (#Maec)

  • Priced out by imports, Ghana’s farmers risk death to work in Italy

    Farmers in Ghana say cheap Italian tomatoes are ruining their businesses. Many have travelled to seek work abroad.

    Adu Poku was a farmer in Ghana. It was all he’d ever known. The maize, okra and tomatoes he grew had brought in enough money to pay for his wedding, and to prepare for the birth of his twins. But then everything changed.

    A mining company came and took over most of his land, and what he grew on the patch he had left was no longer enough to make ends meet. Cheap tomatoes from Italy had flooded the market and driven prices down. Most people in the area were struggling, and few could still afford to eat the more expensive local produce. If Adu kept farming, he was afraid he was going to starve.

    He heard that people were travelling to Italy, and there they were earning enough to keep their families alive back in Ghana. He decided he had no choice but to try his luck as well. What happens after such a decision is made is the focus of this series.

    Adu is one of six Ghanaians who tell the stories of their attempts to get Europe. All risked death in search of a better future, and many of them witnessed their travelling companions die along the way. These six men are still alive to tell us what they saw.
    The economics of survival

    This series sheds light on how, in the age of globalisation, agricultural exports from rich countries impact livelihoods and migration in poorer ones.

    We’re not the first to report on stories like this. The documentary Displaced: Tomatoes and Greed from Deutsche Welle and the results of the Modern Marronage research project both corroborate the series’ main point. But here you will hear it straight from the people experiencing it, in their own words. Their message is simple: people are leaving Ghana’s Bono region, once the country’s bread basket, because canned and frozen foods from abroad are causing their farms to fail.

    For them, the taste of this is made more bitter by what happens next. Farming is what these men know, so in Europe they often end up producing the products that had made their livelihoods unviable in the first place. They become the problem they’re trying to escape. On top of all this, their lack of papers makes them highly vulnerable in Europe. Exploitation, violence, dismal living and working conditions, precarity, and deportation are all commonplace for people in their position. All our contributors who made it were eventually detained and sent back. Getting their security back isn’t part of the bargain, despite the risks they take to get it.

    That is, if they get there. Many never make it all the way. For several of our contributors, the journey ended in Libya, where they were arrested after failing in their attempts to cross the sea. They describe their time in detention as “torture”, but what they had experienced up until that point wasn’t much better. In order to pay for their sea crossing, most had spent weeks, months, sometimes even years labouring on construction sites, trying to save money while running the gauntlet of abusive employers, kidnappers, robbers, and armed actors every single day.

    Giving in to ‘voluntary return’

    Once caught, all our contributors eventually chose to be ‘voluntarily returned’ to Ghana. Usually this is done by the International Organization for Migration – the UN body in charge of coordinating such repatriations. What they say about that experience highlights the ethically ambiguous nature of the idea.

    Voluntary returns are often presented as humanitarian. Proponents say they are good because they help people exit bad situations, even if they take migrants away from their goal rather than toward it. And to make that easier to accept, coordinators often offer migrants various kinds of support if they cooperate. This can include work and skills training, as well as capital to start small businesses or to invest in old ones.

    Researchers have long argued that migrants’ experiences of voluntary return are often very different to what is being advertised. Our contributors confirm this.

    To start with, they take issue with how the whole process is framed. They say that ‘voluntary’ is a strange word to use when their only alternative is continued detention in Italy or abuse by their Libyan jailers. That is a choice in name only, rather than saying ‘yes’ to something they want.

    They also believe they were misled – they claim they were offered substantially more help than they ended up receiving. They got a plane trip to Ghana and a bus ticket back to their home villages, but not the support for a fresh start that they believe they were promised. As a result, most returned worse off to the same situation they had left.

    Except for getting out of jail, nothing had been solved by voluntary return. Instead, it had exacerbated the challenges. Even after they were back for a year, our contributors said they were still facing worse socio-economic economic hardship, marginalisation, and vulnerability than before they first decided to travel. And the only solution they could see for that is more travel.

    Returning people back to an on-going problem isn’t a solution. Our contributors call instead for safe and accessible travel options, equal rights, and dignity for all. They also call for their home government, the international system, and the EU to change practices and policies so that a dignified life at home is possible.

    https://www.opendemocracy.net/en/beyond-trafficking-and-slavery/priced-out-by-imports-ghanas-farmers-risk-death-to-work-in-italy-migr

    #Ghana #Italie #tomates #exploitation #migrations #prix #mines #extractivisme #terres #industrie_agro-alimentaire #exportation #importation #économie_de_survie #Bono #livelihoods #migrerrance #itinéraire_migratoire #retour_volontaire

    –—

    voir aussi le très bon webdoc (que j’avais mis sur seenthis en 2014):
    The dark side of the Italian tomatos

    https://seenthis.net/messages/270740

    ping @_kg_

    • Tomatoes and greed – the exodus of Ghana’s farmers

      What do tomatoes have to do with mass migration? Tomatoes are a poker chip in global trade policies. Subsidized products from the EU, China and elsewhere are sold at dumping prices, destroying markets and livelihoods in Africa in the process.

      Edward still harvests tomatoes. But he is no longer on his own fields in Ghana. He now works on plantations in southern Italy under precarious conditions. The tomatoes he harvests are processed, canned and shipped abroad - including to Ghana, where they compete with local products. The flood of cheap imports from China, the US and the EU has driven Ghana’s tomato industry to ruin. Desperate farmers find themselves having to seek work elsewhere, including in Europe. For many, the only route available is a dangerous journey through the desert and across the Mediterranean. Ghana is a nation at peace, a democracy with free elections and economic growth. Nonetheless, tomato farmer Benedicta is only able to make ends meet because her husband regularly sends her money from his earnings in Italy.

      A former tomato factory in Pwalugu, Ghana, illustrates the predicament. This factory once helped secure the livelihood of tomato farmers across the region. Today it lies empty, guarded by Vincent, a former employee who hopes to keep it from falling into ruin. In the surrounding region, the market for tomatoes has collapsed and most farmers are no longer growing what could easily be Ghana’s ‘red gold’. An agricultural advisor is trying to help local tomato farmers, but has little by way of hope to offer. Conditions like this are what drive local farmers to cut their losses and head for Europe. Once in Italy, migrants from Ghana and other African countries are forced to live in desperate conditions near the plantations. They work as day laborers for extremely low wages, helping to grow the very tomatoes that are costing people back home their work and livelihoods. These days, canned tomatoes from China, Italy and Spain are available for purchase on the market of Accra. Some may call this free trade. But economist Kwabena Otoo says free trade should open doors; not destroy people’s lives.

      Every two seconds, a person is forced to flee their home. Today, more than 70 million people have been displaced worldwide. The DW documentary series ‘Displaced’ sheds light on the causes of this crisis and traces how wealthy industrialized countries are contributing to the exodus from the Global South.

      https://www.youtube.com/watch?v=rlPZ0Bev99s

      #reportage #vidéo

    • I left Ghana to farm in Italy. I was exploited in both places

      Kojo risked his life mining in Ghana. He went to Italy for better opportunities, but was shocked by what he saw.

      Kojo Afreh was a farmer and miner in Ghana before he decided to travel to Italy. He hoped that by finding work abroad, he could support his family and eventually marry the mother of his child. But his journey didn’t go to plan. Kojo is one of six migrant workers who told us about their experiences of migration for this series. An explanation of how we produced this interview can be found at the end.

      Raphel Ahenu (BTS): Hello Kojo, thank you for meeting me today. Can you tell me about yourself?

      Kojo Afreh: I’m 27 years old. I have a child but am no longer with the mother. I come from a family of maize farmers, and that was what I was doing for seven years before I travelled.

      My farm was small – I never had the money to invest in something bigger. I was also working in galamsey (small-scale, illegal mining) in order to supplement my income from the farm.

      Raphel: Why did you decide to leave Ghana?

      Kojo: Hardship! I was really struggling. I never had enough money. Galamsey mining is dangerous as well. Bad accidents happen and sometimes people lose their lives. My parents were always worried about me.

      My lack of finances was having a big impact on me. The mother of my child couldn’t marry me because of it – her parents didn’t think I could take care of her even though we had a child together. This situation was so sad and frustrating to me. I decided I had to change something.

      Down in the mining pits, all people spoke about was going overseas. Lots of people were leaving the area, so I decided to join them. I asked my older siblings and parents to help me with the trip, and they put some money together for me. It wasn’t exactly a loan, but they expected me to return the favour by helping them out once I was settled in my new life. They told me not to forget about them when I got there.

      Raphel: What was the journey like?

      Kojo: I joined a car going through Burkina Faso to Niger. One man in the group had travelled that way before and knew where to go. That was good, since it meant we didn’t have to pay anyone to take us.

      Then we had to get out and trek until we got to the edge of the Sahara Desert, where we were met by a pickup truck. There were about 30 people in that car. We each had to bring enough drinking water and food for the journey. Once we ran out, that was it.

      It’s a dangerous route: the desert is scorching hot and so windy. There are no trees for miles. It’s like walking on the sea: there’s simply nothing there.

      Finally, we made it to Libya. I stayed with a group of Ghanaians for about five months, where I did all sorts of jobs to make some money for the boat crossing. Then the opportunity came to leave Libya and we got on a boat crossing to Sicily.

      A lot of things happened on that journey, but I can’t talk about them. They’re too painful.

      Raphel: What was life like in Italy?

      Kojo: When we arrived, the Italian authorities processed us and sent us to a reception centre. From there I called some people who had told me they would help me when I got there. They collected me and took me to Piacenza in northern Italy, where I started working on farms in the countryside. There were a few of us doing whatever work we could find, mostly harvesting potatoes and tomatoes.

      Honestly, it was not great. The work was hard and I was lonely – I felt very far from my people. Our supervisors also treated us badly. They often cheated us out of our wages. I was told that workers are meant to receive €100 a day, but we never got more than €40. When we complained, they said it was because they had deducted food and tool costs. We didn’t have papers, so we couldn’t report them to anyone.

      Despite this, I was still able to send some money back home to repay my family and to buy a small plot of land. And in some ways, the work in Italy was still better than what I was doing in Ghana. Galamsey mining was so dangerous.

      Raphel: When did you get sent back?

      Kojo: I was in Italy for about two years, moving from place to place for work. I worked in Puglia, Campania, Foggia and several other places. I was always careful because I didn’t have papers. But, one day some labour inspectors showed up at a farm I was working on.

      My Italian was not very good, so a man who had been there for longer spoke for all of us. He explained to us that the inspectors thought we were slaves and were offering to assist us if we cooperated with them.

      The inspectors said they would help us get our papers and protection. We agreed and they took us away. We did all they asked. We told them where we’d worked, the pay we had received, and the names of the people we had worked for. Only then did we realise they’d tricked us and were planning to deport us.

      Raphel: You couldn’t stay like they’d promised?

      Kojo: No, we couldn’t. The police told me that because I left the processing centre without permission, I had broken the rules and therefore couldn’t get protection.

      I was taken to an immigration centre for deportation. I didn’t have anything with me – all my money and possessions were still where we’d been staying when the inspectors took us away. Fortunately, I had been transferring money home regularly, so I didn’t lose everything. But I had to leave behind around €300.

      In the detention centre, we were told that we would receive some money if we agreed to go back voluntarily. I felt I had no option but to take the offer. It was my choice, but at the same time it was not my choice.

      Raphel: What was the offer?

      Kojo: They gave me a ticket to Ghana and €1,600. In exchange, I wouldn’t be able to receive a visa for Italy or Europe for 10 years.

      I came back just before the Covid-19 pandemic. I wasn’t able to earn anything during the lockdown, so all the money I had saved quickly disappeared. Suddenly, I was back where I started.

      Hustling for work in Italy is hard, but it’s better than what I have in front of me right now. I’m working in the galamsey mines again, and am trying to raise enough money to return to Italy. This time I hope I will be more successful.

      Raphel: Can you tell me about the association you’re part of in your area?

      Kojo: There’s a movement for people like me who have been returned from Italy and Libya by the UN and IOM. We are trying to get these organisations to honour the promises they made to us.

      When they sent me back, they said they would help me stay in Ghana if I agreed to voluntary return. That’s why I cooperated. But they’re not helping me. I am on my own, and it’s the same for the others who were sent back.

      Most of us say that if we ever go back to Europe or North Africa, we will not agree to voluntary return. We now know they just tell us what we want to hear so that we agree to come back.

      The association meets every once in a while, but we haven’t achieved much because things are tough for everyone. People are thinking about how to afford food, not about what to do with this group.

      Raphel: In the meantime, do you have any requests for the government or local authorities in Ghana?

      Kojo: Yes, I want the authorities to offer people like me more support. I’ve been back for nearly four years and it’s been so difficult financially. I’m still supporting my child and the mother of my child. But I will never earn enough to actually be with them.

      https://www.opendemocracy.net/en/beyond-trafficking-and-slavery/i-left-ghana-to-farm-in-italy-i-was-exploited-in-both-places-migratio

      #choix

  • Paysans, artisans : ils se battent pour une activité qui respecte les #sans-papiers

    En France, l’association #A4 aide des personnes migrantes à être régularisées en les accompagnant vers une activité agricole ou artisanale. Une démarche à rebours de l’immigration utilitariste prônée par le gouvernement.

    « Le but n’est pas de forcer l’installation, seulement d’ouvrir des portes », explique Habib, membre fondateur et salarié de l’#association_d’accueil_en_agriculture_et_artisanat (A4). Depuis 2022, l’organisation aide les personnes migrantes à être régularisées en les accompagnant dans le développement d’une activité agricole ou artisanale décente. Le tout, en préservant les #terres_agricoles au profit de la #paysannerie. Du 9 au 14 octobre, ses membres étaient réunis à La Demeurée, un lieu de création à Saint-Contest près de Caen (Calvados), pour faire le point sur une année et demie d’activité intense.

    L’association gère depuis mai 2023 une ancienne serre industrielle de 3 000 mètres carrés à Lannion (Côtes-d’Armor), mise à disposition par un agriculteur retraité. Omar [], originaire du Soudan, Marie [], Congolaise, et Uma Marka [*], venue d’Amérique du Sud, ont pu y lancer des expérimentations pour la culture de plantes exotiques et tropicales : cacahuètes, gingembre, pastèques, melons, ananas, dattes, etc. Mais l’avenir de cette ferme reste incertain, alors qu’un nouveau PLU est prévu pour 2025.

    « Soit la mairie décide de rendre la parcelle constructible et les serres seront détruites ; soit la parcelle reste agricole et d’autres perspectives peuvent s’ouvrir pour ce lieu », explique Marie. Pour éviter l’artificialisation de ces terres, l’association travaille sur d’autres projets : un #fournil_mobile pour vendre du pain et organiser des ateliers sur le levain, un atelier de #réparation_de_vélos, un lieu de rencontre pour les associations et collectifs locaux. Reste à savoir si cela suffira à faire pencher la balance. « C’est le même problème dans toute la #Bretagne : les terres se vendent à des prix affolants », soupire Tarik, membre fondateur d’A4.

    Outre Lannion, d’autres lieux ont été prospectés dans le #Limousin, en région Provence-Alpes-Côte-d’Azur, dans les départements de l’#Isère et de la #Drôme et à #Saint-Affrique, dans l’Aveyron. Un sixième « voyage-enquête » est prévu en Ariège en 2024. L’objectif est de « faire émerger un réseau de fermes et d’artisans complices » qui pourraient accueillir et embaucher les exilés dans de bonnes conditions, explique Gaël Louesdon, membre du collectif #Reprise_de_terres, qui conseille A4 dans sa recherche de #foncier_agricole.

    Au-delà, ces voyages sont des moments de « découverte des luttes en milieu agricole », insiste Marie. Logique, alors que l’idée de l’association est née dans le cadre des rencontres Reprise de terres, au printemps 2021 sur la zad de Notre-Dame-des-Landes.

    Cette démarche s’inspire des premières enquêtes ouvrières des XIXᵉ et XXᵉ siècles, basées sur des questionnaires remplis par les ouvriers eux-mêmes. Ces dernières visaient à améliorer les conditions de travail en dénonçant le capitalisme, le productivisme et l’exploitation ouvrière. « Seuls les travailleurs connaissent leurs conditions. Et quand on mène une enquête sur ses conditions de vie, on les transforme », explique Paul, membre de l’association et du collectif d’enquêtes militantes Strike.

    En parallèle, l’association travaille sur un guide juridique à destination des personnes migrantes et des artisans et agricultures qui souhaitent les aider. Ce gros projet devait occuper une bonne partie de la réunion de l’association à Caen.

    Savoir-faire et aspirations

    L’objectif est double. D’une part, lutter contre l’#accaparement_des_terres agricoles par l’agro-industrie, qui mobilise « la violence mais aussi les outils juridiques et le droit existants », selon Gaël Louesdon. Mais aussi respecter les savoir-faire et les aspirations des personnes exilées, à l’heure où le gouvernement favorise une « optique utilitariste » de l’immigration, insiste Élise Costé, juriste spécialisée en droit des étrangers et salariée de l’antenne caennaise de l’association de solidarité pour tous les immigrés (Asti).

    De fait, dans le projet de loi asile et immigration, dont l’examen commence ce lundi 6 novembre au Sénat, l’exécutif veut permettre aux #travailleurs_sans-papiers présents sur le territoire depuis trois ans d’obtenir un titre de séjour « métiers en tension » valide un an — une proposition rejetée avec vigueur par la droite et l’extrême droite.

    Cette dérive alimente, selon A4, des scandales d’embauche de travailleurs sans-papiers dans des conditions indignes. « Il faut casser la tentation de l’#agro-industrie d’exploiter des gens », plaide Tarik, qui évoque les entreprises bretonnes #Aviland et #Prestavic, respectivement poursuivies et condamnées pour traite d’êtres humains — en l’occurrence, de dizaines de travailleurs migrants sans-papiers.

    Pour toutes ses actions, l’association cultive l’#entraide et prône une organisation « d’égal à égal », sans distinction entre les aidants et les aidés. Parmi le noyau dur des dix membres les plus actifs d’A4, certains sont passés d’un statut à l’autre, comme Awad, garagiste à Paris devenu chauffeur pour les voyages-enquêtes, Amine, qui développe un projet d’agriculture et de vie en collectif avec des amis, ou encore Habib, soudeur spécialisé dans les fours à pain qui aspire à devenir écrivain. Une approche réparatrice pour des membres souvent éprouvés par leurs expériences passées. « Ça soigne les blessures, sourit Habib. Si ça continue comme ça, on peut changer le monde ! »

    https://reporterre.net/Paysans-artisans-ils-se-battent-pour-une-activite-qui-respecte-les-sans-
    #travail #régularisation #artisanat #agriculture #France #industrie_agro-alimentaire #conditions_de_travail

  • Acque sporche: allevamenti intensivi e inquinamento al tempo della crisi climatica
    https://irpimedia.irpi.eu/allevamenti-intensivi-inquinamento-acque-lombardia

    Nel Bacino Padano, il sistema di allevamenti intensivi e le pratiche di irrigazione dei campi minacciano la qualità delle acque dei fiumi e delle falde, mentre i parametri della Direttiva Nitrati dell’UE sono spesso disattesi Clicca per leggere l’articolo Acque sporche: allevamenti intensivi e inquinamento al tempo della crisi climatica pubblicato su IrpiMedia.

  • Au #Sénégal, la farine de poisson creuse les ventres et nourrit la rancœur

    À #Kayar, sur la Grande Côte sénégalaise, l’installation d’une usine de #farine_de_poisson, destinée à alimenter les élevages et l’aquaculture en Europe, a bouleversé l’économie locale. Certains sont contraints d’acheter les rebuts de l’usine pour s’alimenter, raconte “Hakai Magazine”.
    “Ils ont volé notre #poisson”, affirme Maty Ndau d’une voix étranglée, seule au milieu d’un site de transformation du poisson, dans le port de pêche de Kayar, au Sénégal. Quatre ans plus tôt, plusieurs centaines de femmes travaillaient ici au séchage, au salage et à la vente de la sardinelle, un petit poisson argenté qui, en wolof, s’appelle yaboi ou “poisson du peuple”. Aujourd’hui, l’effervescence a laissé place au silence.

    (#paywall)

    https://www.courrierinternational.com/article/reportage-au-senegal-la-farine-de-poisson-creuse-les-ventres-

    #élevage #Europe #industrie_agro-alimentaire

    • Un article publié le 26.06.2020 et mis à jour le 23.05.2023 :

      Sénégal : les usines de farines de poisson menacent la sécurité alimentaire

      Au Sénégal, comme dans nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, le poisson représente plus de 70 % des apports en protéines. Mais la pêche artisanale, pilier de la sécurité alimentaire, fait face à de nombreuses menaces, dont l’installation d’usines de farine et d’huile de poisson. De Saint-Louis à Kafountine, en passant par Dakar et Kayar… les acteurs du secteur organisent la riposte, avec notre partenaire l’Adepa.

      Boum de la consommation mondiale de poisson, accords de #pêche avec des pays tiers, pirogues plus nombreuses, pêche INN (illicite, non déclarée, non réglementée), manque de moyens de l’État… La pêche sénégalaise a beau bénéficier de l’une des mers les plus poissonneuses du monde, elle fait face aujourd’hui à une rapide #raréfaction de ses #ressources_halieutiques. De quoi mettre en péril les quelque 600 000 personnes qui en vivent : pêcheurs, transformatrices, mareyeurs, micro-mareyeuses, intermédiaires, transporteurs, etc.

      Pourtant, des solutions existent pour préserver les ressources : les aires marines protégées (AMP) et l’implication des acteurs de la pêche dans leur gestion, la création de zones protégées par les pêcheurs eux-mêmes ou encore la surveillance participative… Toutes ces mesures contribuent à la durabilité de la ressource. Et les résultats sont palpables : « En huit ans, nous sommes passés de 49 à 79 espèces de poissons, grâce à la création de l’aire marine protégée de Joal », précise Karim Sall, président de cette AMP.

      Mais ces initiatives seront-elles suffisantes face à la menace que représentent les usines de farine et d’huile de poisson ?

      Depuis une dizaine d’années, des usines chinoises, européennes, russes, fleurissent sur les côtes africaines. Leur raison d’être : transformer les ressources halieutiques en farines destinées à l’#aquaculture, pour répondre à une demande croissante des consommateurs du monde entier.

      Le poisson détourné au profit de l’#export

      Depuis 2014, la proportion de poisson d’élevage, dans nos assiettes, dépasse celle du poisson sauvage. Les farines produites en Afrique de l’Ouest partent d’abord vers la #Chine, premier producteur aquacole mondial, puis vers la #Norvège, l’#Union_européenne et la #Turquie.

      Les impacts négatifs de l’installation de ces #usines sur les côtes sénégalaises sont multiples. Elles pèsent d’abord et surtout sur la #sécurité_alimentaire du pays. Car si la fabrication de ces farines était censée valoriser les #déchets issus de la transformation des produits de la mer, les usines achètent en réalité du poisson directement aux pêcheurs.

      Par ailleurs, ce sont les petits pélagiques (principalement les #sardinelles) qui sont transformés en farine, alors qu’ils constituent l’essentiel de l’#alimentation des Sénégalais. Enfin, les taux de #rendement sont dévastateurs : il faut 3 à 5 kg de ces sardinelles déjà surexploitées [[Selon l’organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO)]] pour produire 1 kg de farine ! Le poisson disparaît en nombre et, au lieu d’être réservé à la consommation humaine, il part en farine nourrir d’autres poissons… d’élevage !

      Une augmentation des #prix

      Au-delà de cette prédation ravageuse des sardinelles, chaque installation d’usine induit une cascade d’autres conséquences. En premier lieu pour les mareyeurs et mareyeuses mais aussi les #femmes transformatrices, qui achetaient le poisson directement aux pêcheurs, et se voient aujourd’hui concurrencées par des usines en capacité d’acheter à un meilleur prix. Comme l’explique Seynabou Sene, transformatrice depuis plus de trente ans et trésorière du GIE (groupement d’intérêt économique) de Kayar qui regroupe 350 femmes transformatrices : « Avant, nous n’avions pas assez de #claies de #séchage, tant la ressource était importante. Aujourd’hui, nos claies sont vides, même pendant la saison de pêche. Depuis 2010, quatre usines étrangères se sont implantées à Kayar, pour transformer, congeler et exporter le poisson hors d’Afrique, mais elles créent peu d’#emploi. Et nous sommes obligées de payer le poisson plus cher, car les usines d’#exportation l’achètent à un meilleur prix que nous. Si l’usine de farine de poisson ouvre, les prix vont exploser. »

      Cette industrie de transformation en farine et en huile ne pourvoit par ailleurs que peu d’emplois, comparée à la filière traditionnelle de revente et de transformation artisanale. Elle représente certes un débouché commercial lucratif à court terme pour les pêcheurs, mais favorise aussi une surexploitation de ressources déjà raréfiées. Autre dommage collatéral enfin, elle engendre une pollution de l’eau et de l’air, contraire au code de l’environnement.

      La riposte s’organise

      Face à l’absence de mesures gouvernementales en faveur des acteurs du secteur, l’#Adepa [[L’Adepa est une association ouest-africaine pour le développement de la #pêche_artisanale.]] tente, avec d’autres, d’organiser des actions de #mobilisation citoyenne et de #plaidoyer auprès des autorités. « Il nous a fallu procéder par étapes, partir de la base, recueillir des preuves », explique Moussa Mbengue, le secrétaire exécutif de l’Adepa.

      Études de terrain, ateliers participatifs, mise en place d’une coalition avec différents acteurs. Ces actions ont permis d’organiser, en juin 2019, une grande conférence nationale, présidée par l’ancienne ministre des Pêches, Aminata Mbengue : « Nous y avons informé l’État et les médias de problèmes majeurs, résume Moussa Mbengue. D’abord, le manque de moyens de la recherche qui empêche d’avoir une connaissance précise de l’état actuel des ressources. Ensuite, le peu de transparence dans la gestion d’activités censées impliquer les acteurs de la pêche, comme le processus d’implantation des usines. Enfin, l’absence de statistiques fiables sur les effectifs des femmes dans la pêche artisanale et leur contribution socioéconomique. »

      Parallèlement, l’association organise des réunions publiques dans les ports concernés par l’implantation d’usines de farines et d’huile de poisson. « À Saint-Louis, à Kayar, à Mbour… nos leaders expliquent à leurs pairs combien le manque de transparence dans la gestion de la pêche nuit à leur activité et à la souveraineté alimentaire du pays. »

      Mais Moussa Mbengue en a conscience : organiser un plaidoyer efficace, porté par le plus grand nombre, est un travail de longue haleine. Il n’en est pas à sa première action. L’Adepa a déjà remporté de nombreux combats, comme celui pour la reconnaissance de l’expertise des pêcheurs dans la gestion des ressources ou pour leur implication dans la gestion des aires marines protégées. « Nous voulons aussi que les professionnels du secteur, conclut son secrétaire exécutif, soient impliqués dans les processus d’implantation de ces usines. »

      On en compte aujourd’hui cinq en activité au Sénégal. Bientôt huit si les projets en cours aboutissent.

      https://ccfd-terresolidaire.org/senegal-les-usines-de-farines-de-poisson-menacent-la-securite-a

      #extractivisme #résistance

  • Le groupe Breton Roullier possède deux usines sur un site tunisien dévasté par la pollution
    https://www.radiofrance.fr/franceinter/podcasts/le-zoom-de-la-redaction/le-zoom-du-vendredi-20-octobre-2023-4998308

    Le géant de l’#agroalimentaire breton #Roullier exploite deux usines à Gabès dans le sud de la Tunisie. Il achète du #phosphate à un complexe chimique qui détruit l’#environnement à proximité.

  • Grosses marges, ventres vides : le scandale des profits de l’industrie agroalimentaire - Basta !

    L’inflation sur les produits alimentaires est majoritairement nourrie par une hausse des profits des entreprises de l’agroalimentaire, alors que près d’une personne sur trois a du mal en France à se payer trois repas par jour.

    Et dedans
    https://www.60millions-mag.com/2023/08/31/avec-l-inflation-les-aliments-essentiels-deviennent-inaccessibles-21
    https://www.famillesrurales.org/trimestre-antiinflation-consommateurs-perdants

    +50% d’augmentation sur le sucre ! wtf ya plus de limite

    #alimentation #agroalimentaire #inflation (mon cul) #marge #profits #santé #grande_distribution

  • Accaparement des terres : en Bretagne, des empires agricoles s’étendent à l’abri des regards | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/120923/accaparement-des-terres-en-bretagne-des-empires-agricoles-s-etendent-l-abr

    Combien de groupes agricoles détiennent et exploitent plus de 1 000 hectares en Bretagne ?

    Splann a posé la question à la Safer de Bretagne : « Nous n’en savons rien. » Splann a posé la question à la direction départementale des territoires et de la mer (DDTM) des Côtes-d’Armor : « Nous ne disposons pas du nombre d’exploitants qui possèdent et/ou exploitent plus de 1 000 hectares, et nous n’en avons jamais vu dans les demandes d’autorisation d’exploiter. » Nous avons posé la question à la direction régionale de l’alimentation, de l’agriculture et de la forêt (Draaf) : « Les informations sur la surface agricole dont nous disposons sont celles qui sont comptabilisées au siège de l’exploitation. Au regard de ces éléments, toutes les exploitations bretonnes sont bien en deçà de 1 000 hectares de surface agricole utile. »

    Les services de l’État se refusent à évaluer et à quantifier ces « groupes agricoles ». Impossible alors de lutter réellement contre l’accaparement des terres, pourtant affiché comme un objectif prioritaire.

  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis

  • Moins on mange, plus ils encaissent : l’inflation gave les bourgeois
    https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

    C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les dividendes sont plus hauts que le ciel, et les milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde […]

    • Moins on mange, plus ils encaissent : l’#inflation gave les bourgeois

      C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les #dividendes sont plus hauts que le ciel, et les #milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde pas de plus près, on pourrait considérer comme paradoxale une situation qui est parfaitement logique. Pour accumuler les milliards, il faut accumuler les dividendes. Pour accumuler les dividendes, il faut accumuler les profits. Pour accumuler les profits, il faut appauvrir la population en augmentant les #prix et en baissant les #salaires réels. Ça vous parait simpliste ? Alors, regardons de plus près les chiffres.

      Selon l’INSEE, au premier trimestre de cette année, l’#excédent_brut_d’exploitation (#EBE) des entreprises de l’#industrie_agro-alimentaire (c’est-à-dire le niveau de profit que leur activité génère) a progressé de 18%, pour ainsi s’établir à 7 milliards d’euros. Les industriels se font donc de plus en plus d’argent sur le dos de leurs salariés et, plus globalement, sur celui des Français qui galèrent pour se nourrir correctement : les ventes en volume dans la #grande_distribution alimentaire ont baissé de 9% au premier trimestre 2023 par rapport à la même période l’année précédente. La #consommation en France est ainsi tombée en-dessous du niveau de 2019, alors que la population a grossi depuis de 0,3%. Selon François Geerolf, économiste à l’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques), cette baisse de la #consommation_alimentaire n’a aucun précédent dans les données compilées par l’Insee depuis 1980. Dans le détail, sur un an, on constate des baisses de volumes vendus de -6% l’épicerie, -3% sur la crèmerie, -1,6% pour les liquides, etc. Cela a des conséquences concrètes et inquiétantes : en avril dernier, l’IFOP montrait que presque la moitié des personnes gagnants autour du SMIC se privait d’un repas par jour en raison de l’inflation.

      Une baisse de la consommation pilotée par les industriels

      Comment les entreprises peuvent-elles se faire autant d’argent, alors que nous achetons de moins en moins leurs produits ? Tout simplement, car cette baisse de la consommation est pilotée par les industriels. Ils choisissent d’augmenter massivement leurs prix, en sachant que la majorité des gens accepteront malgré eux cette hausse, car ils considéreront qu’elle est mécaniquement liée à l’inflation ou tout simplement, car ces industriels sont en situation de quasi-monopole et imposent donc les prix qu’ils veulent (ce qu’on appelle le #pricing_power dans le jargon financier). Ils savent très bien que beaucoup de personnes n’auront par contre plus les moyens d’acheter ce qui leur est nécessaire, et donc que les volumes globaux qu’ils vont vendre seront plus bas, mais cette baisse de volume sera très largement compensée par la hausse des prix.

      Sur le premier trimestre 2023, en Europe, #Unilever et #Nestlé ont ainsi augmenté leurs prix de 10,7%, #Bonduelle de 12,7% et #Danone de 10,3 %, alors que l’inflation tout secteur confondu passait sous la barre des 7%. La quasi-totalité d’entre eux voient leurs volumes vendus chuter dans la même période. Les plus pauvres, pour lesquels la part de l’alimentaire dans la consommation est mécaniquement la plus élevée, ne peuvent plus se nourrir comme ils le souhaiteraient : la #viande et les #céréales sont particulièrement touchés par la baisse des volumes vendus. Certains foyers sautent même une partie des repas. Les #vols se multiplient, portés par le désespoir et les grandes enseignes poussent le cynisme jusqu’à placer des #antivols sur la viande et le poisson.

      Les hausse des profits expliquent 70% de la hausse des prix de l’alimentaire

      Comme nous avons déjà eu l’occasion de l’écrire, les hausses de profit des #multinationales sont déterminantes dans l’inflation que nous traversons. Même le FMI le dit : selon une étude publiée le mois dernier, au niveau mondial depuis 2022, la hausse des profits est responsable de 45 % de l’inflation. Le reste de l’inflation vient principalement des coûts de l’#énergie et des #matières_premières. Plus spécifiquement sur les produits alimentaires en France, d’après les calculs de l’institut La Boétie, « la hausse des prix de #production_alimentaire par rapport à fin 2022 s’explique à plus de 70 % par celle des profits bruts ». Et cela ne va faire qu’empirer : en ce début d’année, les prix des matières premières chutent fortement, mais les prix pratiqués par les multinationales poursuivent leur progression, l’appétit des actionnaires étant sans limites. L’autorité de la concurrence s’en inquiète : « Nous avons un certain nombre d’indices très clairs et même plus que des indices, des faits, qui montrent que la persistance de l’inflation est en partie due aux profits excessifs des entreprises qui profitent de la situation actuelle pour maintenir des prix élevés. Et ça, même la Banque centrale européenne le dit. », affirme Benoît Cœuré, président de l’Autorité de la concurrence, au Parisien.

      La stratégie des multinationales est bien rodée : augmenter massivement les prix, mais aussi bloquer les salaires, ainsi non seulement leur #chiffre_d’affaires progresse fortement, mais ils génèrent de plus en plus de profits grâce à la compression de la #masse_salariale. Les calculs sur longue période de l’Institut La Boétie donnent le vertige : « entre 2010 et 2023, le salaire brut horaire réel (c’est-à-dire corrigé de l’inflation) a baissé de 3,7 %, tandis que les profits bruts réels, eux, ont augmenté de 45,6 % ». Augmenter massivement les prix tout en maintenant les salaires au ras du sol permet d’augmenter le vol légal que les #actionnaires commettent sur les salariés : ce qu’ils produisent est vendu de plus en plus cher, et les patrons ne les payent par contre pas davantage.

      La Belgique a le plus bas taux d’inflation alors que les salaires y sont indexés

      L’une des solutions à cela est bien connue, et était en vigueur en France jusqu’en 1983 : indexer les salaires sur les prix. Aujourd’hui seul le SMIC est indexé sur l’inflation et la diffusion des hausses du SMIC sur les salaires plus élevés est quasi inexistante. Les bourgeois s’opposent à cette mesure en affirmant que cela risque de favoriser encore davantage l’inflation. Les statistiques prouvent pourtant le contraire : la Belgique est le pays affichant le plus bas taux d’inflation en avril 2023 (moins de 5% tandis qu’elle atteint 6,6% en France) alors que là-bas les salaires s’alignent automatiquement sur les prix. Il est urgent de mettre en œuvre ce genre de solutions en France. En effet, la situation devient de plus en plus intenable : la chute des #conditions_de_vies de la majorité de la population s’accélère, tandis que les bourgeois accumulent de plus en plus de richesses.

      Cela dépasse l’entendement : selon le magazine Challenges, le patrimoine professionnel des 500 plus grandes fortunes de France a progressé de 17 % en un an pour s’établir à 1 170 milliards d’euros cette année ! En 2009, c’était 194 milliards d’euros… Les 500 plus riches détiennent donc en #patrimoine_professionnel l’équivalent de presque la moitié de la #richesse créée en France par an, mesurée par le PIB. Et on ne parle ici que de la valeur des actions qu’ils détiennent, il faudrait ajouter à cela leurs placements financiers hors du marché d’actions, leurs placements immobiliers, leurs voitures, leurs œuvres d’art, etc.

      La #France au top dans le classement des gros bourges

      La fortune de #Bernard_Arnault, l’homme le plus riche du monde, est désormais équivalente à celle cumulée de près de 20 millions de Français et Françaises d’après l’ONG Oxfam. Sa fortune a augmenté de 40 milliards d’euros sur un an pour s’établir à 203 milliards d’euros. Ce type a passé sa vie à exploiter des gens, ça paye bien (à peine sorti de polytechnique, Bernard Jean Étienne avait pris la direction de l’entreprise de son papa). Au classement des plus grands bourges du monde, la France est donc toujours au top, puisque non seulement on a l’homme le plus riche, mais aussi la femme, en la personne de #Françoise_Bettencourt_Meyers (patronne de L’Oréal, 77 milliards d’euros de patrimoine professionnel). Mais il n’y a pas que le luxe de représenté dans ce classement, la grande distribution est en bonne place avec ce cher #Gérard_Mulliez (propriotaire des #Auchans notamment) qui détient 20 milliards d’euros de patrimoine ou #Emmanuel_Besnier, propriétaire de #Lactalis, le 1er groupe mondial de produits laitiers, qui émarge à 13,5 milliards.

      Les chiffres sont vertigineux, mais il ne faut pas se limiter à une posture morale se choquant de ces #inégalités sociales et appelant, au mieux, à davantage les taxer. Ces fortunes ont été bâties, et progressent de plus en plus rapidement, grâce à l’exploitation du travail. L’augmentation de valeur de leurs entreprises est due au travail des salariés, seul créateur de valeur. Tout ce qu’ils détiennent est ainsi volé légalement aux salariés. Ils doivent donc être pris pour cible des mobilisations sociales futures, non pas principalement parce qu’ils sont #riches, mais parce qu’ils sont les plus gros voleurs du monde : ils s’emparent de tout ce qui nous appartient, notre travail, notre vie, notre monde. Il est temps de récupérer ce qui nous est dû.

      https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

      #profit #économie #alimentation #chiffres #statistiques

  • Sablières de Saint-Colomban. De la campagne à la ville, ils rêvent d’une autre terre
    Ouest-France Marylise COURAUD, Isabelle LABARRE et Yasmine TIGOÉ. Publié le 11/06/2023 à 20h59
    https://www.ouest-france.fr/pays-de-la-loire/nantes-44000/sablieres-de-saint-colomban-de-la-campagne-a-la-ville-ils-revent-dune-a
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAyMzA2ZTJhMzBkYTkzNTIzZmRiOGE0MjE2NjQ1NzY0YmY0YmQ?width=1260&he

    Ce dimanche 11 juin, environ 1 500 manifestants ont suivi le chemin du sable, des carrières de Saint-Colomban (Loire-Atlantique) et d’ailleurs, vers Nantes qui grossit avec le béton. Une mobilisation pour dénoncer l’épuisement des ressources naturelles.

    Dans une prairie ensoleillée de Saint-Colomban (Loire-Atlantique), des cyclistes se tartinent de crème solaire. La route sera longue jusqu’à Nantes. Des gendarmes veillent au grain… de sable, devant les sablières de GSM et Lafarge. Celles qui mettent en rogne les associations à l’origine de cette mobilisation dominicale.

    La Tête dans le sable (1), Camil (Puceul), le collectif carrière du Tahun (Guémené) et le Cri du bocage soudanais, toutes bataillent contre des projets d’exploitation de sable dans le département, avec Les Soulèvements de la terre. Des carrières qui grignotent des terres agricoles.

    « C’est un scandale. » Christian Tanguy, 67 ans, ancien paysan et éducateur, est installé près de La Roche-sur-Yon (Vendée). Il a transmis la ferme et les terres à sa fille, 35 hectares classés en espaces naturels sensibles pendant quatre-vingt-dix-neuf ans.

    À Saint-Colomban, c’est deux fois cette surface que convoitent les carrières. Un projet toujours en cours d’étude, qui a obtenu l’aval d’une majorité des élus du pays de Retz, et des habitants de Saint-Colomban, à 54 % des votants.

    « Avant poussaient des céréales »

    Tracteurs en tête, plusieurs centaines de cyclistes dans leurs roues, des familles avec enfants, le convoi s’est élancé, suivi par un défilé de militants en voitures. L’opération escargot va durer près de cinq heures, entre les champs et la quatre-voies. « Nous sommes en colère : les industries ont toujours le droit à des dérogations pour pourrir encore plus la planète », lance au micro Marie Nicolas, l’une des quatorze coprésidentes et présidents de La Tête dans le sable.

    Grimpé à l’arrière d’un tracteur, Jean-Claude Avrilleau, né à Saint-Colomban, a vu le paysage se transformer autour de lui. « Avant les carrières, poussaient des céréales et de l’herbe pour le bétail. » Aujourd’hui, le sexagénaire participe à toutes les réunions autour du projet d’extension.

    Pour les manifestants, c’est tout un système qui déraille et qu’il faut remettre en cause. Céline (2) vit à Nantes depuis quinze ans et voit sa ville grossir toujours plus. « On est à bout de souffle. Il y a un besoin de logements, mais il y a d’autres façons de construire. » De l’argile pour remplacer le sable, évoque un autre. Rénover des bâtiments anciens, et habiter les logements vides, entend-on aussi.
    7 % des émissions de CO2

    Chiffres et références aux rapports du GIEC à l’appui, les militants arment leurs discours d’arguments scientifiques. « Si le béton était un pays, il serait le troisième émetteur mondial de gaz à effet de serre. » En effet, la production du ciment génère 7 % des émissions mondiales de CO2.

    Merlin, 23 ans, étudiant parisien, observe et prend des notes pour alimenter son « mémoire d’études environnementales ». Militant des Soulèvements de la terre et du Peps (Pour une écologie solidaire et sociale), il a manifesté pour la préservation de jardins à Aubervilliers (Seine-Saint-Denis). « On est sorti de la stratégie des Zad où on défendait un seul lieu, pour aller vers un combat plus collectif, plus accessible et populaire, mais pas moins radical. »

    Le convoi fait du sur place avant d’arriver aux Sorinières. Pascal, Fabienne, Magali et d’autres militants du collectif Bassines non merci, venus des Deux-Sèvres, se rafraîchissent. « On dénonce l’accaparement des ressources au profit des industries. On n’est pas des éco-terroristes, mais des gens normaux. On travaille, on cotise. Notre rôle est d’être là. »
    « Rats des villes, rats des champs »

    15 h 30, arrivée dans le centre-ville de Nantes, toujours dans la bonne humeur. Retrouvailles devant l’hôpital avec un second cortège parti d’Héric et les Nantais du collectif CHU Action santé.

    Ils sont environ 1 500. Sous les hourras, un geste qui réunit rats des villes et rats des champs, pour reprendre l’expression de Margot Medkour, du collectif opposé au déménagement du CHU.

    « On réclame du pognon pour la santé, pas pour le béton ! » clame Olivier Terrien, de la CGT. « Là, on va détruire une maternité entièrement rénovée en 2014 et on extrait du sable pour construire un nouvel hôpital », opine Juliette, 33 ans, activiste d’Attac 44.

    À peine fatiguée par son long périple à vélo, Julie, 36 ans, jubile. La jeune femme a quitté Nantes il y a quelques années pour s’installer dans une petite exploitation maraîchère, près de Legé. « J’ai toujours pensé que les luttes étaient plus sociales en ville et plus écolos à la campagne. Là, les deux se rejoignent. Ça fait du bien. »

    (1) C’est la troisième manifestation organisée par La Tête dans le sable. L’an dernier, elle avait mobilisé 700 personnes.

    (2) Plusieurs personnes rencontrées au cours de la journée n’ont pas souhaité donner leur nom.
    Maraîchers et centrale à béton ciblés par les militants

    « Tout va bien se passer ! » Dans le champ du Redour, près de Saint-Colomban, une militante explique tout de même au micro la marche à suivre en cas de garde à vue. Il n’y en aura pas besoin. Sur un parcours tenu secret jusqu’au dernier virage, les organisateurs avaient prévu quatre actions qu’ils qualifient de « désobéissance civile ».

    La première vise un gros maraîcher du secteur, le groupement maraîcher Vinet. Une partie des manifestants laissent leurs vélos dans le fossé et rentrent dans une parcelle pour arracher des plants de muguet et semer à la place du sarrasin.

    Acte 2, Pont-Saint-Martin : ils pénètrent dans une serre expérimentale de la Maison des maraîchers nantais, déterrent des salades, dispersent des semences « paysannes » et taguent des bâches.

    « Oui, on s’attaque à des agriculteurs, ça pose question. Mais là il s’agit de managers qui ne travaillent plus la terre eux-mêmes », se défend Léna Lazare, des Soulèvements de la terre. Sur Twitter, le président des maraîchers nantais Régis Chevallier réagissait quelques heures plus tard, se désolant de voir attaquées des serres expérimentales « en sol vivant et des cultures sans pesticides ».

    Troisième action aux Sorinières. Le cortège stoppe devant la centrale à béton de l’entreprise BHR. « Les travailleurs de l’ombre ont coupé l’alimentation en eau de la centrale », annonce une militante. Explication : 70 % du sable extrait à Saint-Colomban sert à la fabrication de béton, 30 % au maraîchage.

    Dernier round à Nantes, alors que la manif touche à sa fin. Des murs de paille enduits de terre sont érigés devant les portes de l’immeuble de Nantes métropole. « Pour montrer à Johanne Rolland, présidente du conseil de surveillance du CHU, qu’on peut construire autrement qu’avec du béton. »

    #industrie_agro-alimentaire #sable #Carrières
    #Les_Soulèvements_de_la_Terre

    • Les paysans du convoi du sable expliquent les actions menées contre le maraîchage industriel
      publié le 12 juin 2023
      https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/resistance-paysanne-au-maraichage-industriel

      Résistance paysanne au maraîchage industriel !

      Nous sommes des éleveurs-euses et maraîchers-ères de Loire-Atlantique. Nous avons participé depuis plus de deux ans à toutes les mobilisations contre l’extension des carrières de Saint-Colomban. Nous sommes venus - une fois encore - en force avec nos tracteurs pour cette journée de mobilisation organisée par la tête dans le sable et les soulèvements de la terre.

      Pour nous la présence paysanne dans toutes ces actions démontre que les luttes écologistes n’ont rien à voir avec une opposition binaire et caricaturale entre agriculteurs et écolos. En réalité, comme le soulignait déjà Bernard Lambert en son temps, une fracture traverse le monde agricole de l’intérieur : entre des grosses sociétés agro-industrielles et toutes celles et ceux qui pratiquent une agriculture paysanne, entre les grosses coopératives capitalistes et nos fermes, entre l’agro-écologie à dimension humaine et à vocation locale et l’agrobusiness exportateur.

    • Debunkage - Pourquoi viser l’agro-industrie nantaise - précisions sur les actions menées et réponse à Olivier Véran
      Le 11 juin 2023
      https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/debunkage-pourquoi-viser-lagro-industrie-nantaise-precisio

      Le lobby agro-industriel inonde les médias de sa complainte pour dénoncer le remplacement du muguet industriel et une poignée de plants expérimentaux non destinées à l’alimentation, par un semis de sarrasin bio. Comme d’habitude, le gouvernement complice reprend mot pour mot sa propagande. Mais pour qui prend le temps de s’intéresser un tant soit peu aux faits et d’enquêter derrière les piteuses tentatives de greewashing, il apparaît que:

      – les industriels du légumes nantais visés par ces actions sont responsables de divers empoisonnements récents aux pesticides comme le metamsodium
      – les serres visées à Pont-saint-Martin dimanche sont bien encore l’objet d’expérimentations sur des pesticides cancérigènes selon l’ANSES comme le métobromuron. Elles visent à maintenir le même modèle et à renforcer l’acceptabilité des pesticides en prétendant réduire leur usage plutôt que de permettre leur interdiction.
      – ces serres sont majoritairement ensablées et destinées à ce type de cultures plutôt qu’à de quelconques « sols vivants ».
      – ces industriels chef d’entreprise à la main d’oeuvre exploitée, n’ont rien d’"agriculteurs".
      – ils sont par contre bel et bien responsables de l’accroissement ravageur de la production de sable et de la consommation d’eau pour des productions non vivières ou tournées vers l’exportation.
      – ils ont été récemment condamné pour leur surplus de rejets toxiques dans l’atmosphère, notamment sur leurs cultures de concombres.
      – la collusion de certains dirigeants des maraîchers nantais avec l’industrie du sable est avérée. Le président de la maison des maraîchers Mr Torlasco a par exemple occupé pendant 11 ans le poste de secrtaire régional de l’UNICEM - union national des industries de carrière et matériaux de construction.
      – ils s’accaparent main dans la main avec l’industrie du sable des terres transformées en mer de plastique et serres chauffées, et tuent ainsi les autres formes d’agriculture paysanne dans le département. En Loire-Atlantique, les surfaces dédiées à l’agro-industrie légumière ont augmenté de 24% entre 2010 et 2021. Le paysage de bocage et de polyculture élevage qui a caractérisé pendant des siècles le terroir du Pays-de-Retz est remplacé par un désert agro-industriel ultra-spécialisé qui ravage la mosaïque de prairies et de cultures de la campagne nantaise. Si c’est cela la terre qu’aime Olivier Véran, c’est bien le signe qu’il n’a aucune culture paysanne ! Il semble manifestement confondre la terre et le sable. 1 ha de mâche, c’est jusqu’à 30 tonnes de sables par hectare chaque année ! Ensabler la terre, drainer les parcelles, araser les haies, c’est – structurellement – une artificialisation massive des sols. Oui nous préfèrons le sarrasin biologique aux champs de muguets de Vinet et aux expérimentations du lobby agro-industriel. (...)

  • Sous le soleil de l’#Andalousie, misères et #racisme dans les #bidonvilles

    https://i.imgur.com/tzhNMT7.png

    #Palos_de_la_Frontera, Espagne, mai 2023. Pour les uns, l’origine de l’incendie est accidentelle : une marmite oubliée sur un réchaud aurait mis le feu. Pour les autres, comme Adama* qui se fait régulièrement traiter de « sale nègre », elle est criminelle, elle serait l’œuvre « des racistes ».

    « Les Espagnols veulent qu’on retourne en Afrique – ils nous le disent –, alors ils brûlent nos #chabolas [abris de fortune – ndlr]. Ce n’est ni la première fois, ni la dernière », assure le jeune homme, en montrant du doigt l’étendue du désastre : une grande partie du bidonville où il vivote dans la zone industrielle de Palos de Frontera dans la région de Huelva, dans le sud de l’Espagne, au cœur du « potager de l’Europe », a été ravagée par les flammes le 13 mai. Heureusement, il n’y a eu cette fois ni blessés, ni morts brûlés vifs.

    Des cabanes ont échappé au drame, celles qui se trouvent de l’autre côté des talus et de la végétation calcinée. C’est là que les victimes se rabattent pour reconstruire un nouveau toit précaire. « Il ne faut pas perdre de temps, sinon c’est la rue qui nous attend », dit Adama.

    Dans ce #campement insalubre, sans eau ni électricité, ni installations sanitaires, où « on crève de froid l’hiver, de chaud l’été », des dizaines de travailleurs et travailleuses survivent dans des conditions indignes au milieu des ordures et des chiens errants. Des Africains subsahariens et des Marocaines sans papiers principalement, employées à récolter, dans les champs et les serres alentour, les fruits et les légumes de l’agriculture intensive qui alimentent l’Europe en poussant sur la misère.

    Parfois, une ONG passe avec son camion, comme cet après-midi de mai durant lequel la Croix-Rouge distribue des sacs de couchage. Souvent, des activistes espagnol·es révolté·es de voir « un tel bidonville en Europe, dans une démocratie », apportent un peu d’aide, de réconfort, matériel, administratif.

    « Je vais t’aider à déposer une demande de régularisation. Normalement, après trois ans de résidence en Espagne, tu peux demander un permis de travail. » Aujourd’hui, c’est une institutrice à la retraite, reconvertie dans le journalisme citoyen, qui s’arrête. Elle prépare un article pour dénoncer « l’indignité des autorités espagnoles » : « D’incendies criminels en démolitions officielles, elles ne font rien pour les reloger dignement. État et collectivités locales se renvoient la responsabilité. »

    Elle salue une militante qui a épousé un exilé avant de divorcer quelques mois après, en apprenant qu’il avait une femme au pays. Chacune vadrouille avec sa petite voiture. Autour, des champs de fraises, un océan de plastique à perte de vue.

    Adama a « tout perdu » pour la sixième fois en quelques années. Il épandait des pesticides dans un champ de fruits rouges quand le bidonville a brûlé. Une pensée l’obsède depuis : aurait-il pu sauver sa cabane s’il avait répondu à l’appel téléphonique de Moussa* qui cherchait à le prévenir, quitte à perdre son contrat de travail, inespéré, de quelques jours ?

    Il sait bien que non, pourtant. Une étincelle suffit à embraser leurs habitations faites de bric et de broc, avec des matériaux hautement inflammables : des palettes en bois, des plastiques (souvent les bâches des serres), des cartons, des tôles.

    Chaque jour, plusieurs fois par jour, il faut marcher – ou prendre le vélo, une richesse quand on en possède un –, pour aller à plusieurs kilomètres se ravitailler en eau, remplir les bidons de plastique.

    Adama, la quarantaine, vient de Bamako au Mali, où une famille, des enfants, des frères, des sœurs attendent qu’il les nourrisse. Il a d’abord séjourné en Italie puis en France mais « il n’y avait pas de travail ». Il a fini en Andalousie en Espagne et il pense que « l’enfer est ici ». Depuis 2019, il vit dans le bidonville, alternant chômage et travail au noir.

    Au prix de 2 euros la palette, la nouvelle maison va lui coûter une bonne centaine d’euros. Il n’avance pas aussi vite qu’il le voudrait. Il raconte, en enfonçant les clous, qu’aucun propriétaire ne veut leur louer un logement, ni même une chambre, « parce qu’[ils sont] des Noirs et des Arabes, même s[’ils ont] des papiers ».

    ll vit avec Noura*. Ils sont ensemble mais il ne le dit pas. C’est elle qui le dit. Elle débarque, un sac de viande surgelée à la main, vêtue d’un pyjama sale et troué, la chevelure hirsute. Elle rêve qu’Adama, qui a une épouse au Mali, la demande en mariage, mais il ne veut pas.

    Cela ne la dérange pas d’être sa deuxième femme : « Il me protège. C’est très dur d’être une femme dans le bidonville. On force celles qui sont seules à la prostitution, on les agresse sexuellement, on les viole. » Elle n’a rien dit de leur union à sa famille au Maroc : « Épouser un homme noir, c’est mal vu, dégradant, à cause du racisme, de la négrophobie. Mais pas ici, au contraire, on préfère fréquenter des Noirs, car ils ne prennent pas notre salaire comme les Marocains. »

    Là-bas, à Midlet, explique-t-elle, elle a divorcé d’un mari violent qui la battait à la ceinture. Ils ont eu ensemble deux enfants qu’elle n’a pas vus depuis quatre ans. Un jour, elle a appris qu’elle pouvait être recrutée pour la récolte des fraises en Espagne dans le cadre de l’accord de migration circulaire entre les deux pays (lire ici notre reportage). Elle a postulé. Au lieu de rentrer une fois la cueillette terminée, elle est restée, basculant dans l’illégalité.

    Un généreux donateur a laissé des matelas au bord de la route. Premiers arrivés, premiers servis. Malika retrouve le sourire. La nuit passée, elle a dormi à même la pierraille. Si au Maroc la famille connaissait ses conditions de vie et d’hébergement, elle lui demanderait de rentrer aussitôt, confie-t-elle. « C’est la honte de vivre ainsi comme des animaux. »

    Elle est originaire de Marrakech, ses deux enfants en bas âge sont restés avec ses parents. Quant à son mari, il a sombré dans l’alcoolisme et n’a « jamais ramené un sou à la maison ». Il ne lui manque pas. Ses enfants, en revanche, si, « énormément ».

    « C’est la pire des douleurs, être arrachée à ses enfants. Je les appelle tous les jours et je les pleure toutes les nuits. » Elle aimerait retourner au pays mais compte tenu de sa situation administrative irrégulière, elle craint de ne plus pouvoir remettre les pieds en Espagne. « C’est quand même notre gagne-pain. Nous n’avons pas d’avenir au Maroc. »

    L’illusion d’un confort tient à peu, à une cabane marquée « salle de bains » qui, une fois la porte entrouverte, consiste en un stockage de bidons d’eau avec lesquels on peut se laver en toute intimité.

    « Cette année, il y a beaucoup moins de travail à cause de la sécheresse. Si ça continue ainsi, on court vers la catastrophe. »

    Le coin détente d’une cabane aménagée en restaurant.

    « Ce n’est pas une vie, convient Houria*, mais que peut-on faire ? Retourner au Maroc ? Jamais. Notre pays est riche mais l’État est voleur. »

    Au lendemain de l’incendie qui a détruit une partie du campement. Les bidonvilles se concentrent dans le poumon agricole de la région de Huelva, dans les villes de Palos de la Frontera, Lepe, Moguer et Lucena del Puerto, une des régions où le parti d’extrême droite fait ses plus gros scores. Les associations de soutien aux exilé·es en dénombrent plus d’une quarantaine, abritant plusieurs milliers de migrant·es.

    La cabane de Fatema* est partie en fumée. Elle erre avec sa copine d’infortune dans le bidonville, à la recherche d’un homme qui les aiderait à reconstruire un toit.

    Elle n’est pas arrivée en Espagne avec « un contrat en origine » comme tant de Marocaines pour la saison des fraises. Elle a traversé le détroit de Gibraltar dans une patera arrivée à bon port, ces embarcations de fortune qui coulent en mer et coûtent la vie, par milliers, à des migrant·es, chaque année.

    Elle travaille souvent la nuit tombée : « Comme on est des sans-papiers, les patrons nous font travailler la nuit pour échapper aux inspections. On ramasse les fraises avec une lampe frontale. »

    Baba* travaillait dans le garage informel qui avait prospéré à l’entrée du bidonville. Une vie dans l’illégalité. Aujourd’hui, il aide à reconstruire le restaurant de son compatriote sénégalais, le lieu où les exilés aimaient se retrouver après une journée de labeur ou de chômage. Nombre d’entre eux noient détresse et problèmes dans l’alcool ou la drogue.

    Baba aurait préféré rebâtir sur les cendres près de la route, mais les tractopelles de la municipalité ont soulevé la terre et formé des montagnes pour empêcher toute nouvelle édification. « Ils veulent nous éloigner, nous tenir à distance, sous la pression des patrons des entreprises du coin et de la population. Nous sommes des rats pour eux. »

    Les prénoms suivis d’un astérisque sont des prénoms d’emprunt, à la demande des personnes interrogées.

    https://www.mediapart.fr/studio/portfolios/sous-le-soleil-de-l-andalousie-miseres-et-racisme-dans-les-bidonvilles
    #Espagne #industrie_agro-alimentaire #photographie #migrations #exploitations #travail #agriculture #conditions_de_travail
    #racisme

  • Zahra, morte pour quelques #fraises espagnoles

    Le 1er mai, un bus s’est renversé dans la région de #Huelva, au sud de l’Espagne. À son bord, des ouvrières agricoles marocaines qui se rendaient au travail, dont l’une a perdu la vie. Mediapart est allé à la rencontre des rescapées, qui dénoncent des conditions de travail infernales.
    Aïcha* s’installe péniblement à la table, en jetant un œil derrière le rideau. « Si le patron apprend qu’on a rencontré une journaliste, on sera expulsées et interdites de travailler en Espagne. On a peur qu’un mouchard nous ait suivies, on est sous surveillance permanente. »

    Aïcha sait le risque qu’elle encourt en témoignant, même à visage couvert, sous un prénom d’emprunt. Mais elle y tient, pour honorer Zahra. Foulard assorti à sa djellaba, elle est venue clandestinement au point de rendez-vous avec Farida* et Hanane*, elles aussi décidées à parler de Zahra. « Elle était comme notre sœur. » Deux images les hantent.

    Sur la première, la plus ancienne, Zahra sourit, visage net, rond, plein de vie, lèvres maquillées de rouge, regard foncé au khôl. Sur la seconde, elle gît devant la tôle pliée dans la campagne andalouse, corps flou, cœur à l’arrêt. « Elle avait maigri à force de travailler, on ne la reconnaissait plus. Allah y rahmo [« Que Dieu lui accorde sa miséricorde » – ndlr] », souffle Aïcha en essuyant ses larmes avec son voile.

    Zahra est morte juste avant le lever du soleil, en allant au travail, le 1er mai 2023, le jour de la Fête internationale des travailleuses et des travailleurs. Elle mangeait un yaourt en apprenant des mots d’espagnol, à côté de Malika* qui écoutait le Coran sur son smartphone, quand, à 6 h 25, le bus qui les transportait sans ceinture de sécurité s’est renversé.

    Elles étaient une trentaine d’ouvrières marocaines, en route pour la « finca », la ferme où elles cueillent sans relâche, à la main, les fraises du géant espagnol Surexport, l’un des premiers producteurs et exportateurs européens, détenu par le fonds d’investissement Alantra. Le chauffeur roulait vite, au-dessus de la limite autorisée, dans un épais brouillard. Il a été blessé légèrement.

    Zahra est morte sur le coup, dans son survêtement de saisonnière, avec son sac banane autour de la taille, au kilomètre 16 de l’autoroute A484, à une cinquantaine de kilomètres de Huelva, en Andalousie, à l’extrême sud de l’Espagne, près de la frontière portugaise. Au cœur d’une des parcelles les plus rentables du « potager de l’Europe » : celle qui produit 90 % de la récolte européenne de fraises, « l’or rouge » que l’on retrouve en hiver sur nos étals, même quand ce n’est pas la saison, au prix d’un désastre environnemental et social.

    Cet « or rouge », qui génère plusieurs centaines de millions d’euros par an, et emploie, d’après l’organisation patronale Freshuelva, 100 000 personnes, représente près de 8 % du PIB de l’Andalousie, l’une des régions les plus pauvres d’Espagne et d’Europe. Et il repose sur une variable d’ajustement : une main-d’œuvre étrangère saisonnière ultraflexible, prise dans un système où les abus et les violations de droits humains sont multiples.

    Corvéable à merci, cette main-d’œuvre « bon marché » n’a cessé de se féminiser au cours des deux dernières décennies, les travailleuses remplaçant les travailleurs sous les serres qui s’étendent à perte de vue, au milieu des bougainvilliers et des pins parasols. Un océan de plastique blanc arrosé de produits toxiques : des pesticides, des fongicides, des insecticides...

    À l’aube des années 2000, elles étaient polonaises, puis roumaines et bulgares. Elles sont aujourd’hui majoritairement marocaines, depuis le premier accord entre l’Espagne, l’ancien colonisateur, et le Maroc, l’ancien colonisé, lorsqu’en 2006 la ville espagnole de Cartaya a signé avec l’Anapec, l’agence pour l’emploi marocaine, une convention bilatérale de « gestion intégrale de l’immigration saisonnière » dans la province de Huelva.

    Une migration circulaire, dans les clous de la politique migratoire sécuritaire de Bruxelles, basée sur une obligation contractuelle, celle de retourner au pays, et sur le genre : l’import à moindre frais et temporairement (de trois à neuf mois) de femmes pour exporter des fraises.

    Le recrutement se fait directement au Maroc, par les organisations patronales espagnoles, avec l’aide des autorités marocaines, des gouverneurs locaux, dans des zones principalement rurales. Ce n’est pas sans rappeler Félix Mora, cet ancien militaire de l’armée française, surnommé « le négrier des Houillères », qui sillonnait dans les années 1960 et 1970 les villages du sud marocain en quête d’hommes réduits à leurs muscles pour trimer dans les mines de la France, l’autre ancienne puissance coloniale.

    Même état d’esprit soixante ans plus tard. L’Espagne recherche en Afrique du Nord une force de travail qui déploie des « mains délicates », des « doigts de fée », comme l’a montré dans ses travaux la géographe Chadia Arab, qui a visibilisé ces « Dames de fraises », clés de rentabilité d’une industrie agro-alimentaire climaticide, abreuvée de subventions européennes.

    Elle recherche des « doigts de fée » très précis. Ceux de femmes entre 25 et 45 ans, pauvres, précaires, analphabètes, mères d’au moins un enfant de moins de 18 ans, idéalement célibataires, divorcées, veuves. Des femmes parmi les plus vulnérables, en position de faiblesse face à d’éventuels abus et violences.

    Zahra avait le profil type. Elle est morte à 40 ans. Loin de ses cinq enfants, âgés de 6 à 21 ans, qu’elle appelait chaque jour. Loin de la maison de fortune, à Essaouira, sur la côte atlantique du Maroc, où après des mois d’absence, elle allait bientôt rentrer, la récolte et le « contratación en origen », le « contrat en origine », touchant à leur fin.

    C’est ce qui la maintenait debout lorsque ses mains saignaient, que le mal de dos la pliait de douleur, lorsque les cris des chefs la pressaient d’être encore plus productive, lorsque le malaise menaçait sous l’effet de la chaleur suffocante des serres.

    L’autocar jusqu’à Tarifa. Puis le ferry jusqu’à Tanger. Puis l’autocar jusqu’au bercail : Zahra allait revenir au pays la valise pleine de cadeaux et avec plusieurs centaines d’euros sur le compte bancaire, de quoi sauver le foyer d’une misère aggravée par l’inflation, nourrir les proches, le premier cercle et au-delà.

    Pour rempiler la saison suivante, être rappelée, ne pas être placée sur « la liste noire », la hantise de toutes, elle a été docile. Elle ne s’est jamais plainte des conditions de travail, des entorses au contrat, à la convention collective.

    Elle l’avait voulu, ce boulot, forte de son expérience dans les oliveraies et les plantations d’arganiers de sa région, même si le vertige et la peur de l’inconnu l’avaient saisie la toute première fois. Il avait fallu convaincre les hommes de la famille de la laisser voyager de l’autre côté de la Méditerranée, elle, une femme seule, mère de cinq enfants, ne sachant ni lire ni écrire, ne parlant pas un mot d’espagnol. Une nécessité économique mais aussi, sans en avoir conscience au départ, une émancipation, par le travail et le salaire, du joug patriarcal, de son mari, dont elle se disait séparée.

    Et un certain statut social : « On nous regarde différemment quand on revient. Moi, je ne suis plus la divorcée au ban de la société, associée à la prostituée. Je suis capable de ramener de l’argent comme les hommes, même beaucoup plus qu’eux », assure fièrement Aïcha.

    Elle est « répétitrice » depuis cinq ans, c’est-à-dire rappelée à chaque campagne agricole. Elle gagne de 1 000 à 3 000 euros selon la durée du contrat, une somme inespérée pour survivre, améliorer le quotidien, acheter une machine à laver, payer une opération médicale, économiser pour un jour, peut-être, accéder à l’impossible : la propriété.

    Cette saison ne sera pas la plus rémunératrice. « Il y a moins de fraises à ramasser », à cause de la sécheresse historique qui frappe l’Espagne, tout particulièrement cette région qui paie les conséquences de décennies d’extraction d’eau pour alimenter la culture intensive de la fraise et d’essor anarchique d’exploitations illégales ou irriguées au moyen de puits illégaux.

    Au point de plonger dans un état critique la réserve naturelle de Doñana, cernée par les serres, l’une des zones humides les plus importantes d’Europe, classée à l’Unesco. Le sujet, explosif, est devenu une polémique européenne et l’un des enjeux des élections locales qui se tiennent dimanche 28 mai en Espagne.

    « S’il n’y a plus d’eau, il n’y aura plus de fraises et on n’aura plus de travail », s’alarme Aïcha. Elle ne se relève pas de la perte de son amie Zahra, seule passagère du bus à avoir rencontré la mort, ce 1er mai si symbolique, jour férié et chômé en Espagne, où l’on a manifesté en appelant à « augmenter les salaires, baisser les prix, partager les bénéfices ». Les autres ouvrières ont été blessées à des degrés divers.

    Trois semaines plus tard, elles accusent le coup, isolées du monde, dans la promiscuité de leur logement à San Juan del Puerto, une ancienne auberge où elles sont hébergées, moyennant une retenue sur leur salaire, par l’entreprise Surexport, qui n’a pas répondu à nos sollicitations. Privées d’intimité, elles se partagent les chambres à plusieurs. La majorité des femmes accidentées est de retour, à l’exception des cas les plus graves, toujours hospitalisés.

    « Ils nous ont donné des béquilles et du paracétamol. Et maintenant, ils nous demandent de revenir travailler alors qu’on en est incapables, qu’on est encore sous le choc. Le médecin mandaté par l’entreprise a dit qu’on allait très bien, alors que certaines ont des fractures et qu’on met des couches à l’une d’entre nous qui n’arrive pas à se lever ! On a eu droit à un seul entretien avec une psychologue », raconte Aïcha en montrant la vidéo d’une camarade qui passe la serpillère appuyée sur une béquille.

    « On a perdu le sommeil », renchérit Hanane. Chaque nuit, elles revivent l’accident. Farida fait défiler « le chaos » sur son téléphone, les couvertures de survie, les cris, les douas (invocations à Allah), le sang. Elle somnolait quand le bus s’est couché. Quand elle a rouvert les yeux, elle était écrasée par plusieurs passagères. Elle s’est vue mourir, étouffée.

    Le trio montre ses blessures, des contusions, des entorses, un bassin luxé, un traumatisme cervical. Elles n’ont rien dit à la famille au Maroc, pour ne pas affoler leurs proches. Elles ne viennent pas du même coin. « Tu rencontres ici tout le pays. » Des filles des montagnes, des campagnes, des villes, de la capitale… Elles ont la trentaine, plusieurs enfants en bas âge restés avec la grand-mère ou les tantes, sont divorcées. Analphabètes, elles ne sont jamais allées à l’école.

    « Ici ou au bled, se désole Hanane en haussant les épaules, on est exploitées, mais il vaut mieux être esclave en Espagne. Au Maroc, je gagnais à l’usine moins de cinq euros par jour, ici, 40 euros par jour. » Elles affirment travailler, certaines journées, au-delà du cadre fixé par la convention collective de Huelva, qui prévoit environ 40 euros brut par jour pour 6 h 30 de travail, avec une journée de repos hebdomadaire. Sans être payées plus.

    Elles affirment aussi avoir droit à moins de trente minutes de pause quotidienne, « mal vivre, mal se nourrir, mal se soigner », du fait d’un système qui les contrôle dans tous les aspects de leur vie et les maintient « comme des prisonnières » à l’écart des centres urbains, distants de plusieurs kilomètres.

    Il faut traverser la région de Huelva en voiture pour mesurer l’ampleur de leur isolement. Le long des routes, des dizaines d’ouvrières marocaines, casquette sur leur voile coloré, seules ou à plusieurs, marchent des heures durant, en sandales ou en bottes de caoutchouc, faute de moyen de transport, pour atteindre une ville, un commerce. Certaines osent l’autostop. D’autres se retournent pour cacher leur visage à chaque passage de véhicule.

    Les hommes sont nombreux aussi. À pied mais surtout à vélo, plus rarement à trottinette. Originaires du Maghreb ou d’Afrique subsaharienne, une grande partie d’entre eux est soumise à l’emploi illégal, qui cohabite avec « le contrat en origine », au rythme des récoltes de fruits et légumes. Dans les champs de fraises, ils sont affectés à l’épandage des pesticides, au démontage des serres, à l’arrachage des plastiques…

    « La liste des abus est interminable, surtout pendant les pics de production, quand il faut récolter, conditionner, encore plus vite », soupire Fatima Ezzohairy Eddriouch, présidente d’Amia, l’association des femmes migrantes en action. Elle vient de débarquer dans le local sombre, escortée de Jaira del Rosario Castillo, l’avocate qui représente la famille « très affectée » de Zahra au Maroc, une spécialiste du droit du travail.

    Aïcha, Hanane et Farida lui tombent dans les bras, heureuses de rencontrer en vrai « Fatima de TikTok », une épaule pour de nombreuses saisonnières qui se refilent son numéro de portable, tant elle ne vit que pour l’amélioration de leur sort, malgré « un climat d’omerta, de terreur ».

    Travail forcé ou non payé, y compris les jours fériés, les dimanches, heures supplémentaires non rémunérées, passeports confisqués par certains patrons, absence de repos, contrôles du rendement avec renvoi vers le Maroc si celui-ci est jugé insuffisant, absence de mesures de sécurité et de protection sur le lieu de travail, tromperie à l’embauche, harcèlement moral, violences sexuelles, racisme, xénophobie, logement indigne, accès aux soins de santé entravé… Fatima Ezzohairy Eddriouch est confrontée au « pire de l’humanité tous les jours ». Avant de nous rejoindre, elle aidait Rahma, qui s’est brisé le cou en cueillant les fraises : « Son employeur veut la licencier et refuse de prendre en charge les soins médicaux. »

    Elle-même a été saisonnière pendant plus de dix ans. Elle en avait 19 quand elle a quitté Moulay Bousselham, au Maroc, et rejoint Huelva. Elle doit sa « survie » à Manuel, un journalier andalou rencontré dans les champs devenu son époux. « Vingt-trois ans d’amour, ça aide à tenir », sourit-elle. Seule ombre au tableau : alors que sa famille a accueilli avec joie leur union, celle de son mari continue de la rejeter. « Le racisme est malheureusement très fort en Espagne. »

    Le 1er mai, Fatima Ezzohairy Eddriouch a été l’une des premières informées de la tragédie. Des travailleuses blessées l’ont sollicitée. Mais elle s’est heurtée aux murs de l’administration, de l’employeur : « Un accident mortel de bus qui transporte des ouvrières agricoles étrangères, le jour de la Fête des travailleurs, c’est une bombe à l’échelle locale et nationale. Heureusement pour le gouvernement et le patronat agricole, elles sont des immigrées légales, pas sans papiers. »

    Devant le logement de San Juan del Puerto, elle a découvert le portail cadenassé, une entrave à la liberté de circuler des ouvrières. Elle l’a dénoncée sur les réseaux sociaux. Et dans la presse, auprès du journaliste indépendant Perico Echevarria notamment, poil à gratter avec sa revue Mar de Onuba, seul média local à déranger un système agroalimentaire et migratoire qui broie des milliers de vies. Surexport a fini par faire sauter le verrou.

    « Elles ont été enfermées, interdites de parler à des associations, à la presse. Ce n’est pas tolérable », s’indigne encore la militante. Son regard s’arrête sur une des photos de Zahra. Celle où elle a basculé de vie à trépas. Elle n’était pas prête. Elle s’effondre. Cette fois, ce sont Aïcha, Hanane et Farida qui l’enlacent en claudiquant. Le corps de Zahra a été rapatrié, enterré dans un cimetière d’Essaouira.

    La presse, d’une rive à l’autre, spécule sur le montant des pensions et des indemnités que pourraient percevoir les proches de la défunte, selon le droit espagnol. « C’est indispensable de rendre justice à cette famille meurtrie à jamais, à défaut de pouvoir rendre la vie à Zahra », dit l’avocate. Aïcha, Hanane et Farida, elles, veulent qu’on retienne son visage souriant à travers l’Europe, en France, au Pays-Bas, en Belgique..., et qu’on l’associe à chaque barquette de fraises marquée « origine : Huelva (Espagne) ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/270523/zahra-morte-pour-quelques-fraises-espagnoles
    #décès #Espagne #agriculture #exploitation #esclavage_moderne #migrations #travail #Maroc #agricultrices #femmes #conditions_de_travail #ouvrières_agricoles #Surexport #industrie_agro-alimentaire #Alantra #saisonniers #saisonnières #Andalousie #or_rouge #abus #féminisation #féminisation_du_travail #convention_bilatérale #Anapec #migration_circulaire #genre #violence #contrat_en_origine #contratación_en_origen #émancipation #sécheresse #eau #isolement #travail_forcé

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    ajouté au fil de discussion sur la cueillette de fraises en Espagne :
    https://seenthis.net/messages/693859

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
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    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

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      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • Le ministre de l’Agriculture débauche la dircom de l’Ania, le lobby agroindustriel français
    https://www.usinenouvelle.com/article/la-dircom-de-l-ania-devient-conseillere-de-la-communication-de-marc-f

    Attention, mélange des genres. La rumeur circulait, Sophie Ionascu a levé le doute : la directrice de la communication de l’Ania, principal lobby des industriels de l’agroalimentaire, va rejoindre le ministre de l’Agriculture, Marc Fesneau, en tant que conseillère communication. L’intéressée a annoncé le 3 mai sa prise de poste, effective depuis la veille. Elle prend donc officiellement le relai de Claire Briançon, qui avait quitté Varenne début 2023.