• [Vous faites quoi ?] Les entretiens # 9 Véronique
    http://www.radiopanik.org/emissions/vous-faites-quoi-/les-entretiens-9-veronique

    Témoignage de Véronique, #Infirmière en salle d’opération à Delta, passée aux #soins intensifs dès la déclaration de la #pandémie. Elle témoigne des conditions de travail, des manques de moyens, du devoir de soigner les personnes dans un environnement où la population palie aux effets mobides de certaines décisions politiques.

    Réalisation Vincent Matyn

    #Pandemik #Hôpital #pandémie,Pandemik,Infirmière,soins,Hôpital
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/vous-faites-quoi-/les-entretiens-9-veronique_08799__1.mp3

  • TOULA DRIMONIS, à Montréal :

    "(...) Tout comme les personnes âgées dont elles s’occupent, les infirmières et les aides-soignantes sont sous-estimées, ce qui a des conséquences tragiques. (Note du traducteur : Le féminin inclut le masculin dans ce texte.)

    Lorsque le premier ministre du Québec, François Legault, a lancé la semaine dernière son appel désespéré à un plus grand nombre de travailleuses de la santé de première ligne, qui implorait les médecins généralistes et spécialistes d’intervenir pour mettre l’épaule à la roue dans les foyers pour personnes âgées qui manquent cruellement de personnel — et où plus de la moitié des décès de COVID-19 ont eu lieu jusqu’à présent au Québec — j’ai compris son désespoir, mais j’ai été gênée par l’image donnée et le langage utilisé.

    « Je comprends que les médecins sont surqualifiés pour faire le travail des infirmières dans les CHSLD, a-t-il dit. Je sais que ce n’est pas amusant, a-t-il dit, mais il n’y a personne d’autre pour le faire. »

    Quand sa conférence de presse a pris fin, il avait déjà répété le mot « surqualifié » deux ou trois fois de plus, en faisant référence aux médecins. À chaque fois, j’ai été hérissée de colère.(...)"

    https://tradfem.wordpress.com/2020/04/21/quebec-a-abandonne-son-personnel-de-sante-de-premiere-ligne #coronavirus #exploitation #aid-soignantes #infirmières #québec

  • Refugee nurse on the front line against coronavirus in Iran- UNHCR
    After earning a nursing degree on a UNHCR scholarship, Iraqi nurse Moheyman is working tirelessly to assist Iranians and fellow refugees in current COVID-19 crisis
    #Covid-19#Iran#Décès#santé#hopitaux#infirmiers#migrant#migration#réfugiés

    https://www.unhcr.org/news/stories/2020/4/5e8c3ab84/refugee-nurse-line-against-coronavirus-iran.html

  • Mascherine e tamponi : i 4 errori del governo sui medici

    Rileggere con gli occhi di oggi la lunga teoria di circolari, ripensamenti, contrordini e indicazioni ad interim prodotta dal governo, dalle regioni e dagli organi tecnico- scientifici che ne hanno puntellato le scelte, è utile per spiegare la strage dei medici e degli infermieri. Una peculiarità tutta italiana, che, al di là dei lutti e del dolore dei familiari, costerà caro allo Stato in termini di risarcimento dei danni. La più drammatica delle giravolte, all’origine del perché l’Italia ha tardato nell’individuare i primi casi di Covid 19 e del perché gli ospedali sono diventati dei focolai, è quella iniziale. Risale a gennaio, quando a Wuhan già contano centinaia di morti e il nostro Paese è convinto che l’onda non arriverà. Tanto convinto da mandare al governo di Pechino, sotto forma di donazione, una parte della già esigua scorta nazionale di mascherine.

    Il 22 gennaio il ministero della Salute emette la sua prima circolare (“Polmonite da nuovo coronavirus, 2019 nCov, in Cina”: https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=Polmonite+da+nuovo+coronavirus%2C+2019+nCov%2C+i) diretta a tutti gli assessorati alla Sanità, con la quale definisce i criteri per considerare un paziente “caso sospetto”, da sottoporre quindi a tampone: oltre a chi è stato in Cina, include qualsiasi persona «che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio». Insomma, un’indagine a largo spettro.

    Se questa circolare fossa stata in vigore anche a febbraio, quando a Codogno #Mattia, il paziente uno, si rivolge al pronto soccorso, e a #Vo_Adriano #Trevisan, la prima vittima del virus, si sente male, le loro positività sarebbero emerse ben prima del famoso 21 febbraio, data di inizio del contagio italiano. Ma, nel frattempo, il 27 gennaio il ministero ha cambiato idea, e ha scritto una seconda circolare (http://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/renderNormsanPdf?anno=2020&codLeg=72847&parte=1%20&serie=null), di senso opposto alla prima, nella quale autorizza il test solo su pazienti che, oltre ad avere importanti sintomi, hanno avuto «contatti stretti con un infetto»,hanno «visitato o lavorato in un mercato di animali vivi a Wuhan», «frequentato un reparto Covid». In sintesi: tamponi solo a chi proviene dalla Cina. È il primo vagito di una linea governativa “anti-tampone”, che segue l’orientamento dell’Organizzazione mondiale della Sanità, e che durerà sino al 16 marzo, quando la stessa Oms farà inversione con un tweet: «Test, test, test». Prima del cambio di rotta, è solo violando il protocollo che due medici sottopongono al tampone Mattia e Trevisan. Scoprendo così che, da giorni, i loro ospedali sono diventati potenziali focolai.
    Il decreto mascherine

    L’onda è arrivata. E occorre arginarla. Ma dell’arma principale, le mascherine professionali (le famose FFp2- #FFp3) per medici e infermieri, l’Italia è sprovvista. A differenza di quanto successo in Germania, nessuno ha attuato i piani pandemici (che prevedevano di farne scorta non appena si fosse avuta notizia di un contagio uomo-uomo, circostanza verificatasi il 31 dicembre), e anzi, una buona parte dello stock è stata mandata, come detto, a Wuhan. Il governo capisce di essere con l’acqua alla gola, deve inviare i suoi soldati al fronte ma non ha fucili da fornire. Le prime 42 mila FFp2, infatti, saranno consegnate dalla Protezione civile solo il 3 marzo. Così, fa quello che può: si arrangia. Con il decreto legge n.9 del 2 marzo (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/02/20G00026/sg), «in coerenza con le linee guida dell’Oms», decide di equiparare le mascherine chirurgiche — che non sono Dpi (Dispositivi di protezione individuale) perché non proteggono chi le indossa ma filtrano solo in uscita — a quelle professionali. Gli operatori sanitari, per decreto, possono andare nei reparti Covid indossando solo queste. Sono seguite diverse precisazioni, ma ancora il 19 marzo regna la confusione, come dimostra un documento interno dell’ospedale Molinette di Torino, in cui si considerano idonee anche le chirurgiche, se non disponibili le rare #FFp2, all’«esecuzione del tampone in pazienti Covid-19 positivi». Niente quarantena per i medici

    Il 9 marzo il governo emette il decreto numero 14 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/09/20G00030/sg), nel quale dispone che «la quarantena obbligatoria non si applica agli operatori sanitari», i quali si fermano solo nel caso di sintomi manifesti o esito positivo di test. È un’altra mossa della disperazione, bisogna evitare il rischio che i reparti rimangano sguarniti. Addirittura la regione Lombardia va oltre, e pubblica il 10 marzo una direttiva che nega il test all’operatore asintomatico «che ha assistito a un caso confermato Covid senza adeguati Dpi». «La confusione sulle norme — sostiene Andrea Filippi, segretario della Cgil-medici — e quei decreti folli sono i motivi principali per cui gli operatori sanitari si sono ammalati. L’Oms ha sbagliato a dare linee guida che, evidentemente, erano pensate per Paesi del Terzo mondo che hanno zero possibilità di reperire Dpi».

    Tamponi e suicidi

    Siamo a metà marzo, nel pieno della crisi. La linea ora sarebbe quella di fare tamponi a tappeto, a cominciare da chi sta in prima linea. Tre circolari del ministero della Salute (20 marzo, 25 marzo, 3 aprile) lo imporrebbero. Ma, ancora una volta, la Lombardia si distingue. «Continua a farli solo a medici e infermieri che hanno la febbre superiore a 37 e mezzo», denuncia Carmela Rozza, consigliera regionale Pd. «L’assessore Giulio Gallera sostiene di aver disposto tamponi per tutti a partire dal 3 aprile, ma non risulta».

    «Così — lamenta il portavoce della Federazione degli infermieri, Paolo Del Bufalo — ci siamo infettati e abbiamo continuato a lavorare negli ospedali, nelle cliniche private e nelle Rsa per anziani, liberi di diffondere il virus». Una situazione pesante anche dal punto di vista psicologico. Oltre ai molti decessi tra gli infermieri si sono registrati due casi di suicidio: «Erano colleghi devastati dal senso di colpa per aver contagiato colleghi e assistiti». E c’è una nuova paura che da qualche giorno soffia in corsia: la richiesta dei risarcimenti. «Dobbiamo sollevare i professionisti da responsabilità, che non hanno», suggerisce Filippi della Cgil. «Ma no ai colpi di spugna: avere un soggetto che si assume l’onere dei risarcimenti è un diritto di cittadini e operatori». Poche protezioni per lavorare in corsia e test in ritardo: due mesi di tira e molla pagati a caro prezzo.

    https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/04/10/news/mascherine_e_tamponi_i_4_errori_del_governo_sui_medici-253609627
    #Italie #coronavirus #masques #stock #responsabilité #politique #médecine #science #test #dépistage #Codogno #patient_zéro
    #in_retrospect #OMS #chronologie #ordonnance #masques_chirurgicales #décret #décret #confinement #Lombardie #travail #conditions_de_travail

    #décès #morts (d’#infirmiers et #médecins à l’occurrence, dans cet article...)
    #suicide #suicides #culpabilité #culpabilisation
    #indemnisation #justice

    ping @simplicissimus @fil —> ça vaut la peine de traduire, avec deepl ça devrait suffire

  • Covid-19 en Italie : une réanimatrice témoigne du coeur de la tourmente – L’Avventura
    https://www.lemonde.fr/blog/lavventura/2020/04/09/covid-19-en-italie-une-reanimatrice-temoigne-du-coeur-de-la-tourmente

    Irene, réanimatrice, prend son poste à #Milan en janvier #2020, peu avant l’éclatement du foyer du #Coronavirus en #Italie. Elle raconte comment le #Covid-19 explose dans l’impréparation et la désorganisation du système de santé. Le retard dans la distribution des équipements, la décentralisation du système de santé, la confusion engendrée par une pluie de mesures parfois contradictoires de communes, régions et état seront parmi les causes d’un taux de mortalité parmi les plus élevés du monde : à ce jour plus de 17.000 morts dont 120 #médecins et #infirmiers. Entre-temps, le confinement grippe le moteur économique du pays : l’aide alimentaire n’est pas nécessaire que dans les banlieues.

    #bd #lemonde

    L’ AUTEUR DE L’ AVVENTURA

    Je suis un auteur de BD indépendant et pas une journaliste du Monde, si ce blog vous plaît, partagez-le ! Vous pouvez me suivre sur Twitter, Facebook, Instagram, Linkedin . La femme qui prenait son mari pour un chapeau est mon dernier livre (disponible sur https://www.lalibrairie.com qui paie ses impôts et livre à domicile même pendant le confinement parce que le livre est un bien de première nécessité !

  • Chez moi hors de moi
    Lor Zevan (statut FB, 28 mars 2020)

    J’attends de la revoir. Je n’applaudis pas les soignants tous les soirs à 20h. Le spectacle de l’hôpital en ce moment me donne envie de hurler, pas d’applaudir. Je suis subjective, là ? Je serai objective quand je serai un objet. Pour le moment je suis sujette à la peur et à la colère. Ma fille est parmi les soignants dans un hôpital public qui naufrage « grâce » à nos bons maîtres. Je n’ai pas envie d’applaudir. Les soignants ne sont pas des héros. Ils travaillent. Dans l’enfer où on les a mis, ils font leur travail. Ils ne veulent ni mourir ni laisser mourir. Depuis deux ans, ils sont dans la rue pour dire la détresse et le danger de l’hôpital « managé », l’hôpital à conférences budgétaires, l’hôpital amputé de lits, de matériel, de personnel pour accueillir et soigner tout le monde, l’hôpital à faire fric mais à salaires minables, l’hôpital amputé de sa vocation à soigner et faire vivre.

    Chez moi hors de moi. Si je branlais des hashtags je dirais ça. Chez moi hors de moi. Deux êtres que je chéris sont parmi les soignants : un médecin et une infirmière. L’ infirmière, c’est ma fille. Je n’applaudis pas les soignants tous les soirs à vingt heures à ma fenêtre. J’ai envie de hurler pas d’applaudir. Je ne dors pas et, dans la nuit, j’ai peur et je veux parler d’elle, un peu. Ma fille, voyez vous, est une jeune-femme remarquable. Elle est née artiste et, dès l’enfance, elle nous a cloué le bec en dessinant le monde d’un trait. Attentive et attentionnée. Rien, du vivant, ne lui échappe. Elle est comme ça. Magique. Attentive et attentionnée. Elle aime la vie, elle aime la protéger, l’embellir, la préserver, la soigner. Elle est diplômée en arts appliqués, bien, mais avec ou sans diplômes, elle est artiste et, en plus, elle est devenue une adulte d’une rare gentillesse. La vraie gentillesse, celle qui est une force. Rare. Un jour, elle a changé de cap. Pas facile. Elle l’a fait. Ma fille, aujourd hui, depuis un an, est infirmière en chirurgie. Ma fille est infirmière et j’ai peur. J’ai peur.
    J’attends de la revoir. Je n’applaudis pas les soignants tous les soirs à 20h. Le spectacle de l’hôpital en ce moment me donne envie de hurler, pas d’applaudir. Je suis subjective, là ? Je serai objective quand je serai un objet. Pour le moment je suis sujette à la peur et à la colère. Ma fille est parmi les soignants dans un hôpital public qui naufrage « grâce » à nos bons maîtres. Je n’ai pas envie d’applaudir. Les soignants ne sont pas des héros. Ils travaillent. Dans l’enfer où on les a mis, ils font leur travail. Ils ne veulent ni mourir ni laisser mourir. Depuis deux ans, ils sont dans la rue pour dire la détresse et le danger de l’hôpital « managé », l’hôpital à conférences budgétaires, l’hôpital amputé de lits, de matériel, de personnel pour accueillir et soigner tout le monde, l’hôpital à faire fric mais à salaires minables, l’hopital amputé de sa vocation à soigner et faire vivre. Les soignants crient depuis des mois : « Nous devons retrouver un hôpital humain. » Personne ne les a écoutés. Dans l’hôpital délabré, ils étaient là. Ils ont dit. Personne n’a applaudi, ni compris, ni agi. Aujourd’hui, en plein fléau, dans l’hôpital carrément naufragé, ils sont toujours là. Comme avant. Quand ça allait très mal mais pas pour tout le monde, on n’écoutait pas. Quand ça va très mal mais pour tout le monde, là on applaudit. Qu ’est-ce qui fait applaudir aujourd’hui ? La prise de conscience d’un danger dont on se croyait préservé mais qui déborde ? La peur d’être touché aussi ? C’est le nombril de quelle angoisse personnelle qui applaudit tous les soirs à 20 heures ? L’hopital débordé, ça fait des mois que les soignants le crient partout où ils peuvent. Les soignants ne sont pas des héros. Le héros étouffe l’ humain. Le héros, on l’applaudit et on l’oublie. Le héros est éjecté de l’humain. Je n’ai pas mis au monde une héroïne. Je n’ai pas mis au monde un sacrifice sur pattes. Ma fille est infirmière. Elle travaille à l’hôpital public. Elle a choisi l’hôpital public. Elle travaille. Elle ne se sacrifie pas. Elle travaille. Elle fait très bien son métier et, comme tous les soignants, et tous les malades, elle est mise en danger par le contexte de ce travail, hôpital délabré par des choix politiques délibérés, dans l’indifférence générale jusqu’à présent.
    Ce métier, elle l’a choisi pour sa dimension humaine. Elle est comme ça. Je n’applaudis pas, je l’aime infiniment. D’être si vraie, si vivante. Ça fait grandir encore. Ma fille me fait grandir encore. Je n’applaudis pas. Seul, le silence peut.
    Quand mes enfants étaient petits, souvent me revenait une phrase entendue dans un film de Théo Angelopoulos, « l’Apiculteur ». Une scène dans laquelle, autour d’un nouveau-né, chacun y va de sa prophétie « Il sera roi, il sera acteur, il sera un génie, un héros ! » et l’apiculteur les arrête d’une voix douce : « S’il vous plait, si vous devez lui apprendre une seule chose, apprenez-lui à être comme tout le monde. » J’ai essayé d’ apprendre, ça, à mes enfants, être comme tout le monde. Ça ne veut pas dire faire ou avoir les mêmes choses. Ça veut dire être. Comme tout le monde. C’est-à-dire essayer de retrouver encore et toujours, n’importe quand, n’ importe où, en n’importe qui, le chemin de l’humain en soi-même et dans les autres. Ne pas perdre le code du vivant. Ce n’ est pas si facile. Surtout dans un monde où certains expliquent à d’autres qu’il y a des gens qui réussissent et des gens qui ne sont rien. Et qui reviennent, un jour de grand désastre, dire « Je compte sur vous. » Y compris sur ceux-là qui « ne sont rien » ? Oui. Simplement parce qu’il n y a pas de gens qui ne sont rien. Parce que chacun est tout et rien. Tout le monde est tout et rien. Nous le mesurons en ce moment.
    Le monde n a pas besoin de héros. Le monde a besoin d’humanisme et d’honnêteté. Et ça ira.

    Lor Zevan

    #hôpital #coronavirus #covid19 #santé #infirmières #infirmiers #soignants #néolibéralisme #austérité #HP

  • « Il n’y a plus une seule place de #réanimation dans le 93 »
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2020/03/26/il-n-y-a-plus-une-seule-place-de-reanimation-dans-le-93_6034502_3244.html

    Romain Dufau, chef du service des urgences de l’hôpital Jean-Verdier de Bondy, décrit la saturation des services hospitaliers en Seine-Saint-Denis.

    Romain Dufau est le chef du service des urgences de l’#hôpital Jean-Verdier à Bondy, l’un des trois établissements de l’AP-HP en Seine-Saint-Denis. Il s’inquiète de l’afflux important de cas graves, dans ce département où le confinement n’est pas strictement appliqué.

    Pourquoi la situation en Seine-Saint-Denis est-elle préoccupante ?

    Le confinement y est plus complexe, et donc le risque de contamination plus élevé. Il n’est pas rare de voir des familles de six dans des appartements de 45 mètres carrés. Très vite, les plus jeunes n’y tiennent plus et se retrouvent dehors.

    Toutes les personnes qui ont un emploi non déclaré sont aussi obligées de se déplacer pour travailler et garder un revenu. La police ferme sans doute les yeux, sinon cela exploserait.

    Une partie de la population ne parle pas très bien français. Les « gestes barrières » ou la « distanciation sociale », ce n’est pas forcément très parlant. Quand je circule dans Paris, je m’aperçois que l’écart d’un mètre est bien respecté dans les files d’attente. Mais, à Bondy, c’est plus difficile de s’y tenir : la population est plus dense et n’a pas d’alternative, les services de livraison ne s’aventurent pas dans les cités.

    Le nombre de cas graves ne cesse d’augmenter en Ile-de-France. Comment anticipez-vous les prochains jours ?

    Une centaine de patients sont déjà hospitalisés sur nos deux sites, Jean-Verdier, à Bondy, et Avicenne, à Bobigny. Aux urgences, nous intubons trois à quatre patients par jour, contre un tous les trois à quatre jours en temps normal. Nous ne pouvons pas continuer à ce rythme, car il n’y a plus une seule place de réanimation disponible pour nos patients dans le 93. Hier, nous avons dû envoyer un patient à Orléans, et d’autres pourraient être envoyés à Rouen.

    Pouvez-vous encore « pousser les murs » ?

    Nous avons prévu d’ouvrir huit lits supplémentaires à Avicenne et quatorze à Jean-Verdier, mais nous n’avons pas l’équipe pour les faire tourner. Nous manquons cruellement d’#infirmières_spécialisées. En réanimation, les patients doivent être surveillés vingt-quatre heures sur vingt-quatre, et il faut au minimum une infirmière pour trois patients. Nous sommes à des années-lumière de pouvoir en recruter autant.

    Les autres hôpitaux d’Ile-de-France sont-ils en mesure de vous prêter main-forte ?

    J’ai de grosses craintes. Ce n’est que le début de la vague, et les autres hôpitaux nous répondent déjà : « Oh là là, je préfère garder de la place pour mes urgences. » Tous les hôpitaux vont devoir s’organiser sans trop compter sur leurs voisins. Les hôpitaux pédiatriques commencent cependant à se mobiliser : à Robert-Debré, vingt lits ont été ouverts mardi pour accueillir des adultes. Nous y avons envoyé deux patients, mais il ne reste déjà plus que deux places.

    Quel est le profil des patients atteints de #Covid-19 hospitalisés ?

    Nous voyons arriver beaucoup de jeunes, entre 25 et 45 ans, ce qui n’est pas étonnant compte tenu de la démographie du département. Ils arrivent une semaine après le début des symptômes, avec une capacité respiratoire qui s’effondre. Leur état peut se dégrader très rapidement : hier, nous avons dû placer deux jeunes hommes de 28 et 32 ans en coma artificiel.

    Quel est le pronostic pour ces patients jeunes ?

    Ils sont intubés et ventilés pendant une à deux semaines mais s’en sortent avec une convalescence qui peut prendre six mois à un an . Les décès interviennent plutôt chez les plus de 65 ans, qui souffrent déjà d’autres pathologies comme le diabète, l’hypertension ou l’obésité.

    Craignez-vous de ne pas pouvoir prendre en charge tous les patients ?

    Nous n’en sommes pas du tout à limiter les soins, mais, dans dix jours, on pourrait en arriver là. C’est notre crainte. Les patients atteints de Covid-19 de plus de 80 ans ne sont presque jamais pris en réanimation, car le taux de mortalité avoisine 100 %. C’est compliqué à gérer pour des soignants, en particulier pour ceux venus en renfort. Il est toujours difficile d’annoncer aux familles qu’on n’ira pas plus loin.

    Comment sont pris en charge les patients pour lesquels la réanimation n’est pas possible ?

    Les morts du Covid-19 sont des morts douloureuses, par asphyxie. Cela n’a rien à voir avec un malade qui s’en va paisiblement. Pour accompagner les malades et améliorer leur confort, nous donnons aux malades des médicaments. Au début, nous imaginions que les personnes âgées pourraient retourner en maison de retraite, mais ce serait de la maltraitance. Ces établissements sont incapables de gérer une fin de vie comme celle-ci.

  • What Do Frontline Health Care Workers Need Most When They Face an Outbreak Like This?

    Health care workers are our first line of defense against disease, whether coronavirus or otherwise. In order to safely and effectively do their jobs they need to both have proper training and the right protective equipment. This keeps them safe from infection in “peace time” and during a large outbreak like we have now.

    Health care workers are often the first affected by these types of outbreaks and to some extent can act as a canary in the coal mine for how infectious a new disease outbreak is. In the past, health care workers have died from infections and also amplified initial cases spreading the outbreak quickly. If we are to protect health workers and limit transmission, we must do more to ensure the right training and the right equipment are available all the time and not just once an outbreak has started.

    Health workers are making heroic efforts in China, where they have converged on the epicenter. They can only protect us if they are protected.

    Amanda McClelland is the senior vice president, Prevent Epidemics at Resolve to Save Lives an Initiative of Vital Strategies, and has more than 15 years of experience in international public health management and emergency response.

    #Santé_publique #COVID-19 #Infirmières #Protection

  • "Une #ligne_rouge a été franchie" : la #lettre_ouverte à Macron des 1.300 #médecins hospitaliers démissionnaires

    Le 4 février 2020,

    Monsieur le président de la République,

    Nous sommes 1.300 #médecins_hospitaliers à avoir collectivement décidé de démissionner de nos fonctions administratives de chef de service ou d’unités de soins parce que, depuis des années, nous assistons à une #dégradation continue des #conditions_de_travail des équipes hospitalières. Une ligne rouge a été franchie : la qualité des #soins se dégrade, la #sécurité n’est plus assurée.

    Lors de votre élection à la présidence de la République, nous avons espéré un changement, la « fin d’un système à bout de souffle », comme le déclarait justement la ministre de la Santé. En effet, il n’est plus possible de continuer à faire fonctionner l’hôpital comme une entreprise commerciale, tout en lui imposant en moyenne 800 millions d’euros d’économies chaque année.

    Au cours des dix dernières années, la fameuse « #tarification_à_l’activité » a contraint les hôpitaux à augmenter toujours plus leur activité, alors que les gouvernements décidaient de baisser les #tarifs de paiement des séjours par la #Sécurité_sociale. Ainsi de 2005 à 2015, l’activité a augmenté de près de 15%, sans augmentation de personnel au lit des malades.

    Aujourd’hui, l’hôpital est à #bout_de_souffle, il n’est plus attractif ni pour les divers professionnels paramédicaux, en particulier les #infirmiers, ni pour les médecins. Bon nombre d’entre eux fuient les hôpitaux publics.

    Par conséquent, des lits ferment, l’activité baisse, les patients attendent des heures aux #urgences couchés sur des brancards.

    Votre #promesse d’un changement de financement n’a pas, à ce jour, été tenue.

    Le mouvement de #protestation des #personnels_hospitaliers a conduit le gouvernement à proposer, en urgence, une rallonge de 200 millions d’euros (plus 100 millions pour les EHPAD) en 2020, puis de 200 millions de plus en 2021 et en 2022. Mais on demande encore, pour cette année, une économie de 600 millions d’euros à l’hôpital public.

    Malgré l’attribution de #primes à moins du tiers des personnels, la France continuera à occuper la place honteuse de 28ème sur 32 dans le classement OCDE des #rémunérations infirmières.

    Certes le #plan_Ma_santé_2022 devrait permettre de mieux coordonner le travail des hôpitaux avec la médecine de ville ; certes l’accès aux #études_médicales va s’améliorer en mettant fin au #concours guillotine de première année, mais ces mesures vont mettre des années avant de produire leurs effets. D’ici là, que restera-t-il de l’#hôpital_public ?

    C’est maintenant qu’il faut agir. Il y a #urgence, urgence pour les Urgences, urgence pour la Psychiatrie, urgence pour la Pédiatrie, urgence pour tous les hôpitaux publics universitaires et non universitaires.

    Vous l’avez vous-même affirmé, l’hôpital public est un trésor de la République et il doit être sauvé. La prochaine élection présidentielle de 2022 ne doit pas donner lieu à un grand débat sur l’#effondrement de l’hôpital public.

    Monsieur le président de la République, nous vous demandons de sauver l’hôpital public, en prenant au moins deux décisions :

    - supprimer toute demande d’économie à l’hôpital public d’ici la fin du quinquennat (la reprise seulement partielle et échelonnée de la dette par l’État ne suffira pas). L’hôpital doit pouvoir embaucher le personnel nécessaire pour assurer des soins de qualité et garantir la sécurité des patients.
    – ouvrir des négociations avec les organisations syndicales représentatives des personnels hospitaliers pour engager un plan de rattrapage des #salaires, avec comme objectif la moyenne des pays de l’OCDE, et permettre ainsi de restaurer l’#attractivité de l’hôpital public.

    Nous vous prions de croire, Monsieur le Président, en notre profond respect et en notre dévouement à l’hôpital public.

    https://www.marianne.net/debattons/tribunes/une-ligne-rouge-ete-franchie-la-lettre-ouverte-macron-des-1300-medecins
    #hôpital #hôpitaux #France #démissions #Ma_santé_2022

    • Petit résumé de l’#entubage

      La réforme des retraites.

      Âge légal de la retraite actuellement : 62 ans.

      Le mode de calcul prévu par la réforme, soit le rapport Delevoye qui a paru au mois de juillet, rend nécessaire de travailler au-delà de l’#âge_légal. La retraite minimum envisagée à 1 000 euros par mois dans ce même rapport ne sera garantie qu’à celles et ceux qui partiront au-delà d’un « #âge_pivot » ou « âge d’équilibre », qui sera au départ fixé à 64 ans et pourra reculer par la suite. Ce nouvel ’âge pivot’ incite les travailleur.se.s à nettement différer leur départ à la retraite. Sous l’âge pivot, des tranches de moins 5% sont appliquées, au-dessus de l’âge pivot des tranches de +5%. Pour les #fonctionnaires, aujourd’hui, les retraites du public sont
      calculées sur les six derniers mois de salaire. Il est envisagé de
      prendre en compte l’intégralité de la carrière dans le nouveau #régime_universel, ce qui aboutit à un montant nécessairement fortement réduit.
      Actuellement en moyenne, la pension des #femmes (1 123 euros) est inférieure de 42 % à celle des #hommes (1 933 euros). La réforme va accentuer cet écart. Les #infirmières, les #aides-soignants et les #enseignants sont les salarié.e.s du public qui vont le plus être touché.e.s : les pensions ne seront plus calculées sur les six derniers mois, mais sur l’ensemble de la carrière, et sans bénéficier de l’intégration de #primes dans le calcul. Par ailleurs, en créant un régime dit universel de retraite par points (en fonction du nombre d’années travaillées, avec un âge pivot tardif, et amené encore à être repoussé), et la disparition des 42 caisses actuelles de retraite « Les gouvernements seraient seuls décideurs (…) pour gérer les retraites en fonction de ce que les gouvernement appelleront "contraintes budgétaires et financières" ».

      Reçu par email, le 05.12.2019

      #genre

    • Pour se conformer aux règles de l’Isotype, il faudrait, bien sûr, utiliser un pictogramme pour représenter l’argent, c’est à dire des pastilles. Pardonnez-moi cet abus.

    • Parole de #Macron... c’était le 25 avril 2019 :

      « Mes bons amis, allez travailler plus longtemps »... Le 25 avril 2019, Emmanuel Macron expliquait pourquoi il ne fallait pas reculer l’âge légal (avant de faire l’inverse dans sa réforme). Deux raisons :
      – Il s’est engagé à ne pas le faire
      – Ca serait hypocrite.

      source : https://twitter.com/nico_lambert/status/1205751406042472449

      #âge_légal #âge_pivot

    • Analyse Retraites par le ce comité de mobilisation de la DG de l’Insee

      Nous sommes des statisticiennes et statisticiens de l’Insee, l’Institut national de la statistique et des études économiques. À ce titre, nous réaffirmons que le rôle de la statistique publique est d’éclairer le débat public et d’apporter aux citoyens des éléments de compréhension des enjeux sociaux et économiques. Mercredi 11 décembre 2019, le Premier ministre, M. Édouard Philippe, a affirmé : « La responsabilité, c’est tenir compte, comme tous nos voisins, de données économiques et démographiques incontestables. » Nous le prenons au mot en rappelant quelques chiffres fondamentaux, afin que les citoyens s’en saisissent et comprennent l’enjeu d’un refus collectif de la réforme régressive en cours.

      Le comité de mobilisation de la direction générale de l’Insee, soutenu par les sections CGT, FO, SUD

      https://tendanceclaire.org/contenu/autre/Analyse_Retraites_Comite_mobilisation_Insee.pdf
      #pauvreté #solidarité #inégalités #dégradation #niveau_de_vie #femmes #marché_du_travail #répartition #démographie #choix_de_société #choix_politiques #temps_de_travail #productivité #financement_des_retraites #ressources_financières #cotisations_patronales #fonction_publique #austérité #chômage #cotisations_sociales #statistiques #chiffres #caisses_de_retraite #salaires #égalité_salariale #retraite_par_points #64_ans #espérance_de_vie #espérance_de_vie_en_bonne_santé #marché_du_travail #taux_de_remplacement

      signalé par @unagi sur seenthis :
      https://seenthis.net/messages/816267

    • ​Peut-on demander à toutes et tous de travailler jusqu’à 64 ans ?

      Un collectif d’agent·e·s de la #DARES (direction statistique du Ministère du Travail) a rédigé un article sur l’emploi des seniors à partir de données étayées sur leur situation actuelle.

      Un collectif d’agent·e·s de la DARES (direction statistique du Ministère du Travail) a rédigé un article sur l’emploi des seniors à partir de données étayées sur leur situation actuelle.

      Ce travail met en évidence les difficultés actuels auxquels font face les seniors sur le marché du travail avant leur retraite, de même que les inégalités, entre ca​dres et ouvrier×es, en matière de pénibilité, de santé et d’espérance de vie. Enfin, l’étude s’achève sur des comparaisons internationales sur l’évolution du taux de pauvreté des seniors.

      L’ensemble des éléments qui composent cette étude enrichissent le débat actuel sur la réforme des retraite par son analyse sur le fort taux d’inactivité des seniors, ainsi qu’une transition vers la retraite souvent affecté par des épisodes de non-emploi, y compris le chômage, et les liens entre pénibilité, santé et emploi. Ainsi, cette étude interroge sur les conséquences des principales mesures de la ​réforme des retraites à venir.

      Au-delà des données sur l’emploi des seniors, cette étude souligne la mobilisation des agent×es de la statistique publique, comme cela a été fait au préalable par des camarades de l’INSEE, à partir de données nationales validées, pour mettre en évidence les limites importantes de la réforme à venir.

      Depuis plus d’un mois les syndicats de salariés se mobilisent contre le projet de réforme du système de retraites présenté par le gouvernement. Jean-Paul Delevoye, ancien haut- commissaire à la réforme des retraites, déclarait, avant sa démission forcée, que cette réforme « doit être l’occasion de réfléchir collectivement à notre modèle de société, aux valeurs sur lesquelles nous voulons fonder notre pacte social » .

      Un collectif d’agents mobilisés contre cette réforme au sein de l’Insee a récemment rassemblé des données issues de la statistique publique qui infirment les principales justifications de la réforme [0]. À notre tour, nous, collectif d’agents de la Dares, direction statistique du ministère du Travail, voulons contribuer à cet exercice, en présentant des données sur la situation actuelle des seniors à l’égard du travail et de l’emploi. Nous espérons participer ainsi à la réflexion collective sur notre « modèle de société ».

      Collectif de mobilisation des agents de la Dares soutenu par la CGT.

      Emploi des seniors : une situation déjà fortement dégradée

      La réforme, comme beaucoup d’autres mesures récentes visant à augmenter l’activité des seniors (encadré 1), vise à prolonger la durée d’activité des seniors dans un contexte où leur situation d’emploi est déjà très dégra- dée, en particulier pour les moins qualifiés.
      Inactivité forcée et chômage de longue durée : les seniors particulièrement tou- chés

      Depuis 2008, du fait des réformes successives, l’âge moyen de départ à la retraite a augmenté, jusqu’à 62 ans et demi en 2017 (graphique 1, [1]. Si le taux de chômage des seniors apparaît relativement faible (7,5 % pour les 60-64 ans), c’est qu’il masque un fort taux d’inactivité : entre 59 et 61 ans plus d’un senior sur cinq est inactif sans être encore à la retraite [2] (graphiques 2a et 2b), souvent découragé après une recherche d’emploi longue et infructueuse ou pour des raisons de santé (infra).

      L’inactivité des seniors rime souvent avec pauvreté. En 2015, 11 % des personnes âgées de 53 à 69 ans (soit 1,4 million de personnes), ne perçoivent ni revenu d’activité ni pension de retraite, de droit direct ou de réversion [3]. Ces seniors sans emploi ni retraite, en majorité des femmes, sont moins diplômés que les autres et en moins bonne santé. Avec un niveau de vie médian de 1 270 euros par mois, leur taux de pauvreté atteint 32 %, contre 7 % pour les autres seniors en emploi ou à la retraite.

      Quand ils sont au chômage, les seniors y demeurent longtemps : 68% des chômeurs âgés de 55 à 64 ans le sont depuis un an au moins sans interruption [2]. Parmi les seniors demandeurs d’emploi s’étant inscrits à Pôle emploi en décembre 2016, 72 % sont ainsi encore au chômage 18 mois plus tard (contre 45 % pour l’ensemble des inscrits), et 51 % n’ont occupé aucun emploi durant ces 18 mois (contre 21 %) [4]. Selon Pôle emploi, la durée moyenne au chômage (2) des plus de 50 ans est de 546 jours, contre 336 jours pour l’ensemble des demandeurs d’emploi [5].

      C’est notamment parce qu’ils font l’objet de discriminations : trois managers sur quatre évoquent l’âge comme un facteur défavorable à l’embauche [6], ce qui est confirmé par d’autres travaux où l’âge est ainsi, avec le sexe, le premier motif évoqué de discrimination au travail [7].

      L’automatisation des processus de recrutement joue également, en défaveur des seniors, accordant beaucoup plus de valeur aux diplômes et autres critères formels, qu’aux parcours professionnels et aux compétences acquises, rendues invisibles par ces méthodes d’embauche [8].

      Une situation encore plus dégradée pour les femmes

      Quand elles sont au chômage, la durée moyenne de chômage des femmes de 50 à 59 ans est de 53 jours supérieure à celle des hommes du même âge. Les mon- tants qu’elles perçoivent par l’assurance chômage sont significativement plus faibles, de 33 % en moyenne. A partir de 60 ans cet écart atteint 44 % : 950 € nets par mois pour les femmes, 1 650 € pour les hommes, reflet des inégalités de salaires et de carrières [9].

      La retraite par points : désavantageuse pour les seniors en inactivité ou à temps partiel

      Non seulement beaucoup de seniors, notamment parmi les moins qualifiés, ne sont ni en emploi ni au chômage avant leur retraite et ne pourront donc pas accumuler de points ; mais ceux qui sont en emploi sont plus souvent à temps partiel en fin de carrière, ce qui les défavorisera de nouveau par rapport au système actuel où ces années pouvaient ne pas compter parmi les 25 meilleures et donc ne réduisaient pas les droits à retraite.

      En effet les salariés seniors sont deux fois plus nombreux que les 30-54 ans à déclarer être à temps partiel pour raison de santé. En particulier, les ouvriers de 55 à 64 ans déclarent 5 fois plus souvent être à temps partiel pour raison de santé que les cadres. Plus de 40 % des 55-64 ans à temps partiel ont une durée de travail inférieure ou égale à un mi-temps.

      Travail, retraite et santé des seniors : de fortes inégalités

      Les difficultés des seniors sur le marché du travail touchent particulièrement les employés et les ouvriers, dont la santé a souvent été affectée par un travail pénible.
      Inactivité avant la retraite : souvent à cause d’une santé dégradée par le travail

      Les seniors devenus inactifs avant d’avoir liquidé leur retraite indiquent que les principaux motifs d’arrêt d’activité ont été un licenciement (37 %) ou des problèmes de santé rendant le travail difficile (35 %) [10].

      Les problèmes de santé et d’emploi des seniors ne sont pas sans lien avec leur travail antérieur. Les salariés qui ont exercé pendant au moins quinze ans des emplois pénibles sont moins souvent en emploi, et bien plus souvent limités dans leurs activités quotidiennes (24 % contre 17 % des personnes qui n’ont pas été exposées au moins 15 ans) [11]. La pénibilité physique au travail est un facteur considérable d’inégalités : 61 % des aides- soignantes déclarent au moins une contrainte physique intense, ainsi que 79 % des ouvriers du second œuvre du bâtiment ou 80 % des ouvriers qualifiés de l’automobile, contre 38 % de l’ensemble des salariés en 2010 [12]. Les mêmes écarts se retrouvent pour l’exposition aux risques chimiques cancérogènes, qui touchent prioritairement les ouvriers.
      Pénibilité du travail : toujours pas prise en compte

      Avec l’âge, nombre de travailleurs, particulièrement chez les ouvriers, n’arrivent donc pas à se maintenir en emploi en raison de leur état de santé. Le compte personnel de prévention de la pénibilité (C3P), introduit par la réforme des retraites de 2013, était supposé compenser ces inégalités en permettant aux salariés les plus exposés au cours de leur carrière de partir plus tôt à la retraite (2 ans au maximum, après 20 ans d’exposition reconnue). Mais du fait d’une mauvaise volonté patronale le C3P n’a pas tenu ses promesses : alors que l’étude d’impact de la loi de 2013 prévoyait que chaque année 3,3 millions de salariés pourraient y avoir droit, cela n’a été le cas que pour 870 000 salariés en 2016 et 650 000 en 2017, respectivement 26 % et 20 % des bénéficiaires potentiels [13].

      La réforme de 2017, décidée sous la pression du Medef, a encore affaibli sa portée en supprimant 4 critères de pénibilité (postures pénibles, charges lourdes, vibrations, agents chimiques dangereux), qui concernaient particulièrement des professions difficiles comme les ouvriers du bâtiment ou les aides-soignantes. En supprimant les régimes spéciaux, la réforme élimine les rares dispositifs qui permettaient vraiment aux salariés exerçant des métiers pénibles de partir plus tôt.
      Les ouvriers, plus longtemps au travail mais moins longtemps à la retraite que les cadres

      Les plus diplômés (niveau bac +5, soit 17 % d’une génération) terminent leurs études à 25 ans environ, contre 19 ans au niveau CAP-BEP (13 %) et 18 ans en l’absence de tout diplôme (14 %) [14].

      Travaillant plus tôt, les ouvriers et employés profitent également moins longtemps de leur retraite : l’espérance de vie en France a certes progressé depuis 1947 (+3 années pour les femmes et +4,9 ans pour les hommes entre 1997 et 2017 [15]), mais demeure très inégale selon la position sociale. Entre les 5 % les plus aisés et les 5 % les plus pauvres, l’écart d’espérance de vie approche 13 ans pour les hommes (graphique 3, [16]).

      Les hommes ouvriers risquent beaucoup plus de mourir avant 60 ans que les hommes cadres (13 % contre 6 %) ; l’écart est un peu moins important pour les femmes (5 % pour les ouvrières contre 3 % pour les femmes cadres) [18].

      Les cadres retraités, vivant plus longtemps, bénéficient de leurs retraites pour une durée plus longue que les ouvriers, en moyenne 23 ans contre 20 ans chez les hommes et 29 ans contre 26 ans chez les femmes [19].

      L’écart entre cadres et ouvriers se creuse plus encore lorsque l’on considère l’espérance de vie sans incapacité. A 35 ans, selon le type d’incapacité, un cadre espère en moyenne vivre 34 à 45 ans sans incapacité, contre 24 à 38 ans pour un ouvrier [20]. En somme, pour une même durée de cotisation, les cadres passent plus de temps en retraite et en bonne santé que les ouvriers.
      Les réformes à l’étranger : des retraités appauvris

      Dans de nombreux pays de l’OCDE, le système des retraites actuel est le fruit de réformes enclenchées au cours des années 1990 après des périodes de concertation entre partenaires sociaux et État relativement longues. La mise en œuvre de ces réformes a été par ailleurs étalée sur une période également assez conséquente.

      Trois pays sont souvent évoqués comme exemplaires en matière de réformes sociales et/ou d’indicateurs de performance économique : la Suède, l’Allemagne et le Royaume Uni.

      La Suède a été citée à plusieurs reprises comme une « source d’inspiration » . En 1994, elle a adopté un sys- tème à points, entré progressivement en vigueur à partir de 2001. Les retraites jusqu’à-là indexées sur les quinze meilleures années et liquidées après trente ans de cotisations pour une pension à taux plein, sont désormais basées sur des cotisations fixes ; leur niveau dépend de l’âge de départ, de l’espérance de vie et de la situation économique du pays. Le montant annuel de la retraite est obtenu en divisant les cotisations versées pendant la vie active par le nombre d’années restant à vivre, selon l’espérance de vie moyenne, incitant à un départ plus tardif à la retraite. Le départ aujourd’hui fixé à 65 ans va progressivement passer à 67 ans en 2026. Ce système a pour objectif d’empêcher la possibilité d’un déficit en permettant à la valeur du point de fluctuer. Les pensions peuvent alors baisser en période de crise, comme cela fut le cas en 2010, 2011 et 2014. D’après l’OCDE, le taux de remplacement est passé de 60 % du dernier salaire il y a 20 ans [21], à 53,4 % aujourd’hui. Le taux de pauvreté des plus de 65 ans est, selon Eurostat, de 14,6 % en 2018 contre 7,3 % en France (tableau 1).

      En Allemagne, en dépit des réformes qui se sont succédées depuis les années 1990, le financement du système des retraites ne parvient toujours pas à faire face au vieillissement de la population et à la baisse du nombre d’actifs. Pourtant, la durée de cotisation a été plusieurs fois rallongée et l’âge de départ à la retraite a été progressivement reculé à 65 ans ou à 67 ans (pour les personnes nées après 1964). Pour percevoir une retraite à taux plein, il faut avoir cotisé 45 ans. Les cotisations-retraite (salarié et employeur) déjà à 18,6 %, atteindront 20 % en 2025. Selon Eurostat, 18,7% des retraités sont pauvres et les écarts entre les pensions des hommes et celles des femmes sont les plus élevés des pays de l’OCDE.

      Au Royaume-Uni, l’État verse 200 euros par semaine environ à tous ceux qui ont cotisé pendant 35 ans. L’âge minimum légal de départ à la retraite aujourd’hui de 65 ans, va passer à 66 ans en 2020, 67 ans en 2028 et 68 ans en 2037. Le taux de remplacement du dernier salaire n’est que de 28 %. À cette retraite publique peut s’ajouter un régime par capitalisation, dont le montant dépend de l’état des marchés financiers. Le taux de pauvreté des plus de 65 ans est très élevé : 19,3 % selon Eurostat.

      En France, le taux de pauvreté des plus de 65 ans se situe en 2018 à 1,7 point au-dessous de celui des 55-64 ans (Graphique 4). C’est là une caractéristique distinctive du système de retraites français actuel : cela n’a pas toujours été le cas auparavant (jusqu’en 2010, le taux de pauvreté des plus de 65 étant plus élevé que celui des 55-64 ans), et peu de pays de l’OCDE présentent des taux de pauvreté des seniors aussi faibles.

      https://reforme-retraite.info/travailler-jusque-64-ans
      #Suède #Allemagne #Royaume-Uni #UK

      Pour télécharger le document en pdf :
      https://www.souffrance-et-travail.com/wp-content/uploads/collectif-statistiques-du-travail.pdf

    • Rapport du #COR : un déficit construit de toutes pièces

      Le gouvernement a demandé au COR de publier une nouvelle #prévision du régime de retraites allant jusqu’en 2030, peu de temps donc après la projection de juin, qui allait jusqu’en 2070. Son objectif est clair : il s’agit de montrer que le système est déficitaire et donc qu’il faut des mesures de correction avant 2025, date envisagée de mise en place de la retraite par points, « pour redresser l’#équilibre_financier du régime ».

      Le COR a cependant publié un rapport relativement balancé annonçant certes un certain #déficit pour 2025, mais reconnaissant que son évaluation provient de conventions comptables discutables. Le risque est que le gouvernement et la presse mettent l’accent sur le déficit maximum prévu pour 2025, soit pour l’ensemble des régimes de retraite : 0,7 point de PIB (17,2 milliards d’euros) dans l’hypothèse que les #taux_de_cotisation restent fixes. Nous verrons que ce pseudo-déficit provient essentiellement de la baisse des #ressources affectées au système, en raison de la forte baisse de la part de la #masse_salariale du #secteur_public, de la #non-compensation de certaines #exonérations de #cotisations_sociales, de la baisse des transferts de l’#Unedic et de la #CNAF. Il disparaît pratiquement si une autre convention comptable est adoptée.

      http://www.atterres.org/article/rapport-du-cor-un-d%C3%A9ficit-construit-de-toutes-pi%C3%A8ces

      Note à télécharger ici :
      http://atterres.org/sites/default/files/Note%20EA%20COR_0.pdf

      –-> Note citée dans cette analyse de deux sociologues :
      Les fonctionnaires sacrifiés sur l’autel du système « universel » de retraites
      https://seenthis.net/messages/820914

    • Nous sommes à un tournant [https://www.youtube.com/watch?v=iJKVd609iGU&feature=emb_logo]

      dans le mouvement en faveur du système de retraite solidaire imaginé pour nous par le Conseil National de la Résistance, et revenu à l’équilibre financier [https://www.alternatives-economiques.fr/systeme-de-retraites-ne-connait-crise/00091163]. Si des dizaines de textes, venant même des économistes de LREM, ont fait une critique factuelle et chiffrée de la “réforme”, aucun argumentaire rationnel n’a été publié pour la soutenir mais un usage renversé de la rhétorique d’abolition des privilèges, contre la fonction publique [https://www.liberation.fr/debats/2020/01/14/les-fonctionnaires-sacrifies-sur-l-autel-du-systeme-universel-de-retraite. L’objet même de la réforme est indicible, car indéfendable : il s’agit de mettre le système de retraite en déficit de financement de 67 milliards € [https://www.alternatives-economiques.fr/guillaume-duval/reforme-risque-de-desequilibrer-fortement-financement-retraites/00091464], créant une crise qui amènera mécaniquement à une diminution des pensions facilitée par le système à points [https://www.alternatives-economiques.fr/michel-husson/garantir-point-ne-garantit-rien/00091288], à une augmentation de l’âge de départ en retraite et à un allongement de la durée de cotisation.

      Message reçu via une mailing-list militante, le 15.01.2020.

      Ci-dessous dans le fil de discussion je vais copier-coller quelques articles citées dans ce message et qui me paraissent forts intéressants.

    • Notre système de retraites ne connaît pas la crise

      Loin du tableau apocalyptique dressé par certains, l’avenir du système français de retraites est assez serein, les difficultés qu’il a connues étant d’ores et déjà largement résorbées.

      Le gouvernement veut chambouler le système de retraites. Au grand projet de réforme universelle à points défendu par Emmanuel Macron vient s’ajouter le spectre d’un allongement de la durée de vie au travail, justifié par l’annonce d’un déficit de 8 à 17 milliards d’euros en 2025. Une réforme, voire deux réformes à hauts risques pour un jeu qui n’en vaut pas forcément la chandelle. Car la santé de notre système par répartition qui a enchaîné les régimes se porte bien, merci. Tour d’horizon en 9 graphes.
      1/ Un système de retraites français (quasiment) revenu à l’équilibre

      Le déficit des retraites n’oblige-t-il pas, quoi qu’il arrive, à serrer les boulons ? Pas vraiment. La crise de 2008-2009 avait logiquement creusé ce déficit : les rentrées du système de retraite sont très dépendantes des cotisations payées par les salariés et les entreprises et donc de la santé économique du pays, tandis que ses dépenses ne varient pas avec l’activité.

      L’effet des réformes menées depuis 1990, combiné aux mesures supplémentaires prises en 2010 et 2013 pour combler ce déficit et au rétablissement de l’économie ont quasiment ramené le système de retraites à l’équilibre. Il n’y a donc aucune urgence particulière à réformer une fois de plus le système.

      2/ Financement des retraites : rien d’inquiétant à l’horizon 2030

      Le système est aujourd’hui quasiment à l’équilibre mais demain ? Comment ses finances vont-elles évoluer dans le futur ? Le gouvernement a demandé au Conseil d’orientation des retraites (COR) de produire un rapport à ce sujet à l’horizon 2030, un document qui vient d’être rendu public.

      Le rapport du COR aboutit à un creusement du déficit d’ici 2030 avec une fourchette assez large pour la valeur de ce déficit à cet horizon. L’évolution des dépenses de retraites dépend, sans surprise, du niveau qu’atteindra en moyenne la croissance économique d’ici 2030 : si cette croissance n’est que de 1 %, la part des retraites dans le PIB devrait monter selon le COR de 13,8 % du PIB aujourd’hui à 13,9 % en 2030. A contrario si la croissance est en moyenne de 1,8 % d’ici là, cette part baisserait à 13,6 %. Cela reste en tout cas dans l’épaisseur du trait et il ne devrait rien se produire qui ressemble de près ou de loin à une explosion des dépenses.

      Ce qui crée le déficit, c’est la baisse des recettes. Celle-ci est notamment liée à la baisse des emplois publics prévue par le gouvernement, car l’Etat cotise davantage que les employeurs privés pour le système de retraite. Cette diminution des recettes est due cependant également aux exonérations non compensées de cotisations sociales mises en place depuis 2017, notamment sur les heures supplémentaires. Le niveau des recettes dans le PIB dépend très peu en revanche de la croissance économique : c’est en gros un pourcentage constant de la richesse produite.

      Il dépend en revanche fortement des conventions qu’on prend pour l’évolution future de la contribution de l’Etat employeur au financement du système de retraite. Si on fait l’hypothèse, qui semble raisonnable, que la part du PIB qu’il y consacre devrait rester constante d’ici 2030, les recettes globales du système de retraite devraient baisser de 13,7 % du PIB - aujourd’hui à 13,4 % du PIB - , créant ainsi un déficit oscillant entre 0,2 et 0,5 % du PIB en 2030 au lieu de 0,1 % actuellement. Là aussi, il s’agit de l’épaisseur du trait avec 54 % de dépenses publiques… Ce déficit serait quasiment nul, voire se transformerait en excédent si on se contente simplement d’accroître de 0,3 point de PIB les recettes pour maintenir constante la part du PIB consacrée au financement des retraites. Rien de dramatique donc.

      3/ Les retraités partent déjà de plus en plus tard
      Alors que le discours gouvernemental plaide pour que les Français travaillent plus longtemps s’ils veulent toucher une retraite à taux plein, faut-il s’alarmer du fait qu’ils ouvrent leurs droits à la retraite bien trop tôt ? Pas d’inquiétude, là non plus. Les nombreuses réformes menées depuis le début des années 1990 ont produit leurs effets : l’âge de départ en retraite monte très régulièrement.

      Si on met de côté les salariés qui ont commencé à travailler avant 20 ans, dits en « carrière longue », qui bénéficient de dispositifs particuliers pour partir en retraite plus tôt, l’âge moyen de départ en retraite est déjà de 63,1 ans dans le secteur privé. Quant au public, il est déjà de 62,7 ans dans la fonction publique d’Etat, exception faite des militaires et des policiers, et de 63,2 ans dans les collectivités locales, hors pompiers. Et cet âge continue année après année à augmenter rapidement.
      4/ La retraite moyenne baisse déjà

      On justifie souvent l’urgence d’une nouvelle réforme des retraites par le niveau de vie relativement élevé des retraités. Celui-ci est équivalent à celui des actifs, sachant qu’« actifs » ne signifie pas en emploi : le niveau de vie moyen des retraités est inférieur à celui des actifs employés mais supérieur à celui des chômeurs, qui font eux aussi partie de la « population active ».

      Mais cette situation appartient en réalité déjà au passé : elle reflète la présence parmi les retraités de nombreuses personnes ayant bénéficié de règles qui étaient plus généreuses qu’aujourd’hui. Pour les nouveaux retraités, le niveau des pensions est déjà en recul sensible du fait du durcissement de ces règles : en 2017, 9,8 % des salariés du secteur privé ont dû prendre leur retraite avec une « décote » parce qu’ils n’ont pas cotisé assez longtemps pour obtenir une retraite à taux plein. C’est quasiment le double d’en 2006. Résultat : à l’âge de 66 ans, qui est l’âge où quasiment tout le monde est en retraite, la retraite moyenne n’était plus que de 1 514 euros en 2017 pour les résidents français contre 1 589 euros en 2013, un recul de 4,8 %.

      5/ La baisse des pensions devrait se poursuivre

      De plus, dans le cadre du système actuel, le mouvement engagé de baisse des pensions devrait se poursuivre au cours des prochaines décennies selon les projections réalisées par le Conseil d’orientation des retraites. Au point qu’il est surtout urgent de se demander si nous ne sommes pas déjà allés trop loin dans le durcissement des règles et la baisse des pensions futures.

      6/ La France est bien un des pays d’Europe où les retraites pèsent le plus lourd

      La France est incontestablement un des pays d’Europe, derrière la Grèce et l’Italie, qui dépense la plus grande part de son PIB pour financer les retraites. C’est un des principaux arguments utilisés pour justifier une énième réforme des retraites de manière à contenir cette part dans le futur mais en réalité cet argument ne tient pas la route.

      7/ Parce que l’Hexagone dépense beaucoup, il a peu de retraités pauvres

      La contrepartie de la part importante du PIB consacrée aux retraites en France est que nous sommes aussi un des pays d’Europe où la part des plus de 65 ans vivant sous le seuil de pauvreté est la plus faible. Le fameux modèle suédois de retraite à points, qui sert de référence dans la réforme engagée, ne se montre pas particulièrement performant en la matière. Mais la situation des personnes âgées est également très difficile en Allemagne ou au Royaume-Uni.

      Si l’objectif visé par le gouvernement est de nous ramener dans la moyenne européenne dans ce domaine, le prix à payer va être très élevé pour les futurs seniors… Leur situation est si dégradée chez beaucoup de nos voisins que plusieurs d’entre eux, à commencer par l’Allemagne, sont en train de prendre au contraire des mesures pour augmenter significativement leurs dépenses de retraites dans le futur afin de se rapprocher du « modèle français ».

      8/ La France est un des pays d’Europe où la part des retraites dans le PIB devrait baisser le plus

      La France est un des pays d’Europe qui consacre une des parts les plus importantes de son PIB aux retraites mais, dans le cadre du système actuel de retraites, cela ne devrait plus être le cas en 2070 compte tenu de la démographie française et des réformes déjà décidées selon les projections réalisées par la Commission européenne (qu’on ne peut guère soupçonner de francophilie excessive dans ce genre de domaine). Avec une baisse de plus de deux points de la part du PIB consacrée aux retraites, la France fait partie des pays européens où le retour de balancier – qui entraînera une réduction des pensions – est le plus fort.

      9/ La mauvaise-bonne nouvelle de l’espérance de vie

      Enfin, la plupart des scénarios alarmistes débouchant sur des prévisions catastrophiques sont établis sur la base d’une prolongation des tendances passées en matière d’allongement de l’espérance de vie. Or on a eu sur ce plan régulièrement des mauvaises nouvelles ces dernières années. Certes, cet allongement se poursuit mais à un rythme très lent, beaucoup plus lent que celui que l’Insee considérait jusque-là comme son scénario central dans ses prévisions démographiques. Ce qui est une mauvaise nouvelle pour nous toutes et tous, en est néanmoins plutôt une bonne pour le financement du système de retraite…

      Bref, notre système de retraites présente certes quelques défauts qu’il faudrait corriger mais il n’y a manifestement pas le « feu au lac ». Le gouvernement entend pourtant changer radicalement le fonctionnement du système. Avec la retraite à points, on passerait en effet d’un système principalement « à prestations définies » – le niveau de la rémunération reçue pendant la période d’activité détermine celui de la retraite future – à un système « à cotisation définie » – ce que l’on paie chaque mois pour la retraite n’engage à rien de précis sur ce qu’on touchera plus tard.

      Un tel changement risque de faire de nombreux perdants, notamment parmi les fonctionnaires mais aussi parmi ceux qui auront connu des années difficiles sur le marché du travail – chômage, petits boulots précaires… Il parachèverait également l’étatisation de la protection sociale en donnant les clefs du système à Bercy. Et la tentation serait évidemment forte pour nos grands argentiers d’en profiter pour accélérer encore la baisse des retraites futures afin de diminuer les dépenses publiques.

      https://www.alternatives-economiques.fr/systeme-de-retraites-ne-connait-crise/00091163

    • La réforme risque de déséquilibrer fortement le financement des retraites

      Ce qui frappe dans le projet de réforme des retraites du gouvernement, eu égard à l’ampleur du bouleversement proposé, c’est son imprécision et l’absence de tout chiffrage détaillé et transparent de ses effets tant globaux qu’individuels. Il n’est pas surprenant dans ces conditions que ce projet se révèle aussi anxiogène.

      Le plus impressionnant à ce niveau concerne un des points centraux d’une réforme censée créer un système de retraite unique, avec des taux de cotisation eux aussi uniques. « Il est proposé que le taux de cotisation des salariés et assimilés soit fixé à 28,12 %. Il sera partagé à 60 % pour les employeurs et à 40 % pour les assurés », précise le rapport Delevoye qui fait toujours foi avant le projet de loi qui sera examiné en conseil des ministres le 24 janvier. « Tous les salariés et leurs employeurs, quels que soient le secteur d’activité ou la nature juridique de l’employeur, seront traités identiquement du point de vue des cotisations », ajoute le rapport.

      Il en résulte un taux unique de cotisation patronale pour les retraites de 16,87 % rapporté au traitement brut des salariés qui devrait s’appliquer à l’avenir uniformément à tous les employeurs, publics comme privés. Or aujourd’hui, ces taux sont très différents suivant les secteurs. Ils sont surtout très supérieurs à ce niveau dans le secteur public : ils sont de 74,28 % dans la fonction publique d’Etat et de 30,65 % dans les collectivités territoriales et la fonction publique hospitalière. Alors que ce taux n’est que de 16,48 % dans le privé selon les chiffres du Conseil d’orientation des retraites (COR).

      Ces différences résultent, pour une part, de retraites un peu plus généreuses dans le secteur public : la fameuse « bonne retraite » qui compense des salaires faibles en période d’activité. Mais elles sont aussi et surtout le fruit d’une évolution démographique défavorable à l’emploi public, du fait des mesures restrictives en termes d’embauche dans ce secteur, et en particulier au niveau de l’Etat depuis de longues années maintenant. Il y a de ce fait beaucoup plus de retraités par actif dans le secteur public que dans le secteur privé.
      Un manque à gagner de 67 milliards d’euros

      Si on calcule la moyenne des cotisations patronales pour la retraite en pondérant les masses salariales des différents secteurs, on aboutit à un taux de 23,8 %. Or ce n’est pas du tout celui prévu par le projet du gouvernement. Ce dernier veut au contraire aligner toutes les cotisations patronales sur le taux le plus bas, celui du secteur privé.

      Entre le taux de 16,9 % prévu par le gouvernement et les 23,8 % moyens actuels, il existe donc un trou de presque 7 points de cotisations. Compte tenu des 916 milliards d’euros de salaires bruts distribués en 2018, cela équivaut à un manque à gagner de 63 milliards d’euros par an pour les retraites.

      Auxquels il convient d’ajouter les quelque 3,8 milliards d’euros de pertes de recettes estimées par l’Agirc-Arrco, suite à la sortie prévue du système obligatoire des revenus salariaux excédant 120 000 euros annuels, sans baisse équivalente des pensions versées. Alors haut-commissaire aux retraites, Jean-Paul Delevoye avait concédé aux syndicats une transition de 15 ans pour atteindre progressivement ce plafond, afin d’adoucir le choc pour les finances publiques.

      A terme, la facture sera au total de l’ordre de 67 milliards d’euros de manque à gagner par an pour le financement des retraites, 3 points de PIB ou encore une baisse de 22 % des ressources actuelles du système de retraites. Or nulle part dans le rapport Delevoye comme dans les éléments communiqués depuis par le Premier ministre, il n’est précisé par quel miracle le financement des retraites est supposé rester constant après la réforme malgré cette chute spectaculaire des cotisations employeurs du secteur public.

      En fait, parmi les points qui ne tiennent guère la route dans cette réforme, on trouve déjà à la base les éléments les plus fondamentaux de son équation financière.

      https://www.alternatives-economiques.fr/guillaume-duval/reforme-risque-de-desequilibrer-fortement-financement-retraites/00091464

      #équilibre #déséquilibre

    • Garantir la valeur du point ne garantit rien

      Les promoteurs de la réforme des retraites reprennent les chiffres donnés par le rapport Delevoye : « A l’instauration du système universel de retraite, un point correspondra à 10 euros de cotisations [et] la valeur du point servant au calcul de la retraite serait fixée à 0,55 euro au démarrage du système universel ». Ils y trouvent aussi des éléments de langage : les droits acquis par le travail « seront revalorisés comme les salaires : cette règle favorable permettra de préserver leur valeur jusqu’au moment du départ en retraite (…) A la liquidation, ces points seront convertis en euros, selon une valeur de service qui obéira à la même règle et la retraite ainsi versée sera indexée sur l’inflation. »

      Bref, nous dit-on, la valeur du point est garantie. Mais cette rhétorique rassurante comporte quelques aspérités. La valeur d’achat sera de 10 euros, mais « à l’instauration du système ». Et ensuite ? Pour déterminer le montant de la retraite le point vaudra 0,55 euro « au démarrage du système ». Et plus tard ?

      Le rapport Delevoye souligne que « les Français pourront ainsi déterminer en connaissance de cause à quel moment et avec quel revenu ils souhaitent partir en retraite ». A quel moment et avec quel revenu ? N’est-ce pas l’aveu qu’il existera un arbitrage entre âge du départ à la retraite et montant de la pension ?
      Une garantie qui ne garantit rien

      Comment réconcilier toutes ces affirmations ? La clé se trouve dans cette formule du rapport : « A la liquidation, les points seront convertis en euros selon une valeur de service ». C’est dans cette opération de conversion que gît le lièvre.

      Comme l’ont déjà bien montré Justin Benard et Michaël Zemmour, il faut en effet distinguer trois notions :

      La « valeur d’acquisition » du point (10 euros de cotisation = 1 point)
      La « valeur de service » (1 point = 0,55 euro de pension)
      Le « coefficient de conversion » qui permet de calculer la valeur effective du point au moment de la retraite

      La formule permettant de calculer sa pension est donc : « ma retraite » = « mon salaire » x « le taux de cotisation » x « valeur de service » x « coefficient de conversion »

      Cette équation a des implications bien précises si on la couple avec l’exigence d’équilibre du système comme le souhaite le gouvernement. Admettons, pour simplifier, que la valeur de service soit revalorisée comme les salaires (ce qui est annoncé), que le taux de cotisation est fixe (ce qui est prévu) et le système à l’équilibre : les dépenses (pensions versées) doivent donc être égales aux recettes (cotisations perçues).

      Moyennant quelques calculs, ces hypothèses conduisent à un résultat très simple : le coefficient de conversion varie en fonction du rapport entre le nombre de retraités et le nombre de cotisants (aujourd’hui, on a environ un retraité pour 1,5 cotisant). Puisque ce ratio est appelé à augmenter – il y aura encore moins de cotisants pour un retraité –, l’obscur coefficient de conversion est donc arithmétiquement appelé à baisser. En d’autres termes, moins il y aura de cotisants par retraités, plus les pensions futures baisseront.

      En janvier 2010, le Conseil d’orientation des retraites (COR) avait d’ailleurs publié un remarquable rapport intitulé Retraites : annuités, points ou comptes notionnels ? dont l’ex-haut-commissariat aux retraites aurait pu s’imprégner un peu plus. Il rassemblait dans un style pédagogique tout le savoir accumulé par les meilleurs spécialistes, et voilà ce qu’on pouvait y lire (page 103) :

      « Comme la masse des pensions est égale au produit du nombre de points de tous les retraités par la valeur de service du point, cette dernière peut être ajustée année après année de façon à respecter l’équilibre du régime », tout en pointant « le risque que les pensions durant la période de retraite connaissent une évolution incertaine et non nécessairement en phase avec l’évolution des prix ». Et il enfonçait le clou un peu plus loin (page 177) : « On peut agir année après année sur la valeur d’achat du point et/ou la valeur de service du point pour faire face aux besoins de financement entraînés par le vieillissement de la population ». C’est on ne peut plus clair !
      Expérience complémentaire

      On a déjà l’expérience de ce genre de situation avec les régimes complémentaires à points de l’Agirc-Arrco : le coefficient de conversion existe déjà, il est baptisé « taux d’appel ». C’est ce qu’explique très bien la CFDT-retraités : « A partir de 1971 à l’Arrco et de 1979 à l’Agirc, les régimes ont pratiqué un taux d’appel supérieur au taux contractuel ». Aujourd’hui, le taux d’appel est de 127 %, cela veut dire qu’il faut cotiser 127 euros pour être crédité de 100 de retraite.

      Une ancienne administratrice de l’Agirc et de l’Arrco, Sylvie Durand, vient de dresser un bilan détaillé des régimes complémentaires. Il a l’avantage de montrer à quel point le pilotage d’un système par points n’a vraiment rien d’automatique et qu’il nécessite des calculs extrêmement complexes.

      Les accords successifs ont conduit à une baisse des taux de remplacement (le niveau de la pension par rapport au dernier salaire, NDLR) de l’ordre d’un tiers entre 1993 et 2018. Pour parvenir à ce résultat, retrace-t-elle, « le prix d’acquisition du point de retraite augmenta plus vite que les salaires et la valeur de service du point fut au mieux indexée sur les prix, c’est-à-dire gelée en termes de pouvoir d’achat ». Voilà peut-être ce qui nous attend dans le régime à points généralisé.
      Espérances de vie

      Antoine Bozio, l’inspirateur de la réforme est déçu, puisqu’il parle d’un « formidable gâchis » dans les colonnes du journal Le Monde. Mais il est sans doute le mieux placé pour expliquer les principes que la réforme aurait dû selon lui respecter. Dans une note de l’Institut des politiques publiques (IPP) qu’il dirige, il est explicité que dans un système par points « pur », le montant des pensions est obtenu « en appliquant un coefficient de conversion à la somme des points accumulés. » Et c’est ce coefficient qui « définit le cœur du barème des pensions : pour chaque génération, et pour chaque âge, il détermine la conversion des droits accumulés en pension mensuelle ».

      La question clé est donc celle du niveau de ce coefficient de conversion. Comment est-il déterminé ? Un peu comme dans le système suédois, il « dépend négativement de l’espérance de vie au moment de la liquidation ». Un tel système n’a donc pas besoin d’un âge de référence : il est implicite. Admettons par exemple que j’ai 60 ans et que l’espérance de vie de ma génération est de 80 ans. Mon coefficient de conversion va donc dépendre de mon « reste à vivre », soit 20 ans. Si j’attends plutôt d’avoir 65 ans pour faire valoir mes droits à la retraite, il ne me reste plus (statistiquement) que 15 ans à vivre et donc mon coefficient de conversion sera plus favorable et ma pension plus élevée.

      Jean-Paul Delevoye ne semblait pas avoir vraiment compris la logique d’un système par points, on verra ce qu’il en est de son successeur. Il n’avait pas besoin d’afficher la notion d’âge dans son rapport en évoquant « un pilotage de l’âge du taux plein pour tenir compte de l’évolution de l’espérance de vie et de l’allongement de la durée passée en retraite ». Le réglage d’un système par points est beaucoup plus opaque : il passe par l’ajustement du coefficient de conversion, ou – ce qui se verrait plus – par l’introduction d’un mécanisme de taux d’appel qui rendrait plus coûteux l’acquisition d’un point.
      Déjà dans les tuyaux

      Même sans nouvelle réforme, l’appauvrissement des retraités est déjà programmé : c’est un élément qui est souvent oublié dans le débat actuel. Il suffit pour s’en convaincre de consulter les rapports du COR, et notamment celui de juin dernier. On y apprend qu’en 2017, la pension moyenne représentait 51,3 % du revenu d’activité moyen brut. Ce ratio serait en moyenne (selon les hypothèses de taux de croissance) de 47,7 % en 20301, puis de 40 % en 2050 et enfin de 35,8 % en 2070.

      Surtout, la part des pensions dans le PIB devrait même baisser, comme l’indique le rapport de novembre. Avec la « convention TCC » (taux de cotisation et de subvention d’équilibre figés à leur niveau de 2018) elle devrait passer de 13,8 % aujourd’hui à moins de 13 % en 2030.

      Universalisme, automaticité, équité : aucun de ces arguments rhétoriques ne résiste à un examen détaillé. La volonté de faire passer à tout prix la réforme, au lieu d’améliorer le système actuel, reste une énigme. A moins d’y voir un projet visant à dévaluer un peu plus nos retraites publiques.

      https://www.alternatives-economiques.fr/michel-husson/garantir-point-ne-garantit-rien/00091288

    • La valeur du point ne pourra pas baisser… Mais le niveau de votre pension, si.

      Dans le débat sur la réforme des retraites et le passage vers un système à point, une inquiétude revient souvent : qu’est-ce qui garantit la valeur du point ? Devant la défiance grandissante face à la réforme, le Premier Ministre a notamment annoncé le 27 novembre 2019 « L’indexation des points de retraite sur le niveau des salaires pour éviter tout risque de décrochage. (…) Nous le savons, nos concitoyens veulent être rassurés au sujet de la valeur du point, ils auront cette garantie ». Cette déclaration donne quelques indications sur le pilotage du futur système. En revanche, on aurait tort d’y voir une garantie sur le niveau des pensions, tout simplement car dans le système envisagé par le gouvernement, le calcul de la pension ne se base pas sur la « valeur du point », mais sur un « coefficient de conversion » qui évoluerait bien moins vite. De ce fait, l’indexation de la valeur du point n’empêchera pas la baisse du niveau des pensions.

      Une valeur du point en « pilote automatique », avantages et inconvénient

      La déclaration du Premier ministre a un premier sens : elle signifie que la « valeur du point » serait définie « automatiquement », en fonction de la situation de l’économie. Ce ne sera donc pas un paramètre de pilotage du système, dans les mains des gestionnaires (parlementaires). Dans une première version de la réforme (rapport Delevoye), il était envisagé que la valeur d’achat et la valeur de vente du point soient décidés chaque année par les gestionnaires du systèmes (en pratique, par le gouvernement avec un vote du parlement, et après consultation des partenaires sociaux). Cette déclaration renforce donc l’hypothèse d’un système « en pilote automatique » davantage que piloté à la discrétion des pouvoirs publics[1].

      Cela dit on peut se demander si cet engagement sera contraignant : dans quelle mesure sera-t-il simple ou compliqué pour un gouvernement futur de dévier de cette indexation de référence ? Il pourrait y avoir différentes raisons à cela : soit pour des raisons d’économies budgétaires, soit à l’inverse pour éviter une baisse en cas d’épisode de récession. D’ailleurs, dans les régimes complémentaires actuels (AGIRC-ARRCO), la liberté des organisations syndicales et patronales de définir la valeur d’achat et de service du point leur a permis d’éviter une baisse des retraites pendant la récession de 2008 (jouant ainsi le rôle d’amortisseur social), puis de levier pour réaliser des économies sur les pensions dans la période suivante.

      La valeur du point ne constitue aucunement une garantie contre le décrochage des pensions

      Derrière l’appellation de "valeur du point" on entend souvent, en réalité, trois choses tout à fait distinctes :

      la "valeur d’acquisition " s’entend de la valeur du point à l’achat. Selon le rapport Delevoye, la valeur du point sera de 10€ en 2025 : pour chaque 10€ de cotisation, vous pourrez accumuler un point retraites
      la "valeur de service" (appelé ainsi par le rapport Delevoye) représente la valeur qu’aura chaque point liquidation pour un départ à l’âge d’équilibre. Selon le rapport Delevoye, ce coefficient serait de 0,55€ en 2025 pour un départ à 64 ans.
      le "coefficient de conversion", valeur effective du point à la vente

      Le coefficient de conversion (« vente ») s’écarte de la valeur de service dès lors que l’âge de départ ne correspond pas strictement à l’âge d’équilibre (ou âge pivot). Pour toute année de départ avant l’âge d’équilibre, le coefficient de conversion est diminué de 5 %. A l’inverse, pour tout année de départ après l’âge d’équilibre, le coefficient de conversion augmente de 5%.

      La pension est donc calculée selon la formule suivante :

      Pension brute = stock de points x coefficient de conversion (« vente »)

      Dans laquelle le stock de points est la somme des points accumulés chaque année, telle que pour une année n :

      Nombre de points = salaire brut x taux de cotisation / valeur d’acquisition (« achat »)

      Un des engagements du gouvernement est de faire évoluer la valeur d’acquisition du point selon la croissance des salaires (sauf dans les premières années de la réforme où le point évoluerait moins vite). Qu’est-ce que cela signifie ? Tout simplement que, si votre salaire augmente au même rythme que le salaire moyen, vous accumulerez chaque année le même nombre de points que l’année précédente. Et donc qu’en fin de carrière, chacune de vos années de salaire contribuera a égalité à votre stock de points (il n’y a pas d’année qui compte plus que d’autres).

      La valeur de service sera indexée sur les salaires… mais pas le coefficient de conversion

      Le coefficient de conversion serait donc fixé aux alentours de 0,55€ en 2025 pour un départ à 64 ans. Pour maintenir le niveau des pensions[2], ce coefficient de conversion devrait augmenter à la même vitesse que la valeur d’acquisition, c’est-à-dire selon les salaires.

      Ce ne sera pas le cas : ce qui est indexé sur les salaires c’est « la valeur de service », c’est-à-dire la valeur du point à l’âge d’équilibre. Or cet âge d’équilibre augmenterait pour chaque nouvelle génération, notamment selon la hausse de l’espérance de vie.

      En pratique, le rapport Delevoye prévoit un décalage de « l’âge d’équilibre » d’environ 1 an tous les 12 ans, mais cela peut aller plus ou moins vite, dans le seul but d’équilibrer le système.. Pour chaque année de départ avant cet âge d’équilibre (64 ans en 2025), votre pension serait affectée d’une « décote », soit d’une diminution de 5 % (10% pour deux années, 15 % pour trois années etc.). Un décalage de cet âge d’équilibre conduirait donc, mécaniquement, à une augmentation de la décote pour un départ au même âge.

      Par exemple si une personne part à 63 ans en 2025 alors que l’âge d’équilibre est de 64 ans elle touche pour chaque point 95 % de sa « valeur de service » (5% de décote) car il lui manque un an avant d’atteindre l’âge d’équilibre. Pour une personne née douze ans plus tard, l’âge d’équilibre serait porté à 65 ans. Si cette personne part également à 63 ans, elle touchera donc pour chaque point seulement 90% de sa valeur de service (10% de décote).

      Ainsi, même si la "valeur de service", augmente chaque année aussi vite que les salaires (ici 1,3 % par an), le coefficient de conversion (valeur réelle de « vente ») à un âge donné, lui, augmente nettement moins vite (0,8% par an) (figure 1).

      Figure 1 : La « valeur de service » (ou valeur du point l’âge d’équilibre) est indexée sur les salaires (hypothèse 1,3 % par an), mais le coefficient de conversion (« valeur effective » du point au moment de la liquidation) à 63 ans, augmente lui, bien moins vite.

      La conséquence immédiate de ce mécanisme est que la véritable valeur, en montant de retraite, que l’on touche pour un point à un âge donné, diminuera par rapport au salaire moyen.

      Une baisse programmée des taux de remplacement

      Pour mesurer l’impact réel de cette baisse sur la pension de chacun, il faut utiliser un indicateur de taux de remplacement (niveau de la retraite par rapport au dernier salaire). Il représente la question que chacun.e se posera au moment de son départ en retraite : de combien vais-je pouvoir (ou non) bénéficier, par rapport à mon niveau de vie au travail ?

      Du fait du décrochage du coefficient de conversion par rapport aux salaires, le taux de remplacement diminue mécaniquement. Imaginons un stock de points qui garantit, en 2025, un taux de remplacement de 70 % à 63 ans. Avec la hausse de l’âge d’équilibre, et donc de la décote, le même stock de points (donc la même carrière) ne permet plus, en 2050, qu’un taux de remplacement de 62 % (Figure 2). Il est d’ailleurs tout à fait possible que la baisse soit plus forte ou plus faible, puisque la raison d’être de l’âge d’équilibre (et donc du coefficient de conversion) est de s’ajuster en fonction de l’espérance de vie[3] et des données macroéconomiques, pour équilibrer le système.

      Figure 2 : Evolution du taux de remplacement (pension/ dernier salaire) à 63 ans en fonction de l’année de départ. Exemple d’une carrière permettant de partir à 63 ans avec 70% de son dernier salaire en 2025. En 2050, la même carrière fournit le même nombre de points, mais leur valeur effective à 63 ans a évolué moins vite que les salaires. Le taux de remplacement n’est plus que de 62%.

      Aussi lorsque le Haut-commissaire affirme « que la valeur du point ne pourra pas baisser », ou le Premier ministre que « la valeur du point sera indexée », ils disent vrai, mais ils jouent sur les mots. Même avec une indexation du point sur les salaires telle que le prévoit le système, et même si la valeur nominale (en euros) du coefficient de conversion ne « baisse » pas, les pensions elles, vont bien décrocher par rapport aux salaires.

      Derrière la technicité de l’explication, il y a cette réalité simple que la communication autour de la réforme tend à masquer : le principe même du système à points, c’est que le niveau des pensions serve de variable d’ajustement, à la baisse, pour équilibrer le système.

      Ce billet s’inspire en partie des éléments présentés dans une note de l’IPP, ainsi que de nombreux échanges avec Sam.

      Justin Benard est membre du collectif @nosretraites

      [1] Le rapport Delevoye prévoit par ailleurs une transition d’une durée indéterminée durant laquelle le point est indexé plus que les prix, mais moins que les salaires.

      [2] On parle ici du « taux de remplacement, c’est-à-dire ce que la retraite représente par rapport au dernier salaire.

      [3] Il s’agit de l’espérance de vie moyenne de chaque génération, pas l’espérance de vie individuelle.

      https://blogs.alternatives-economiques.fr/zemmour/2019/11/30/la-valeur-du-point-ne-pourra-pas-baisser-mais-le-nive

    • Conférence de #Michael_Zemmour, très édifiante :

      https://www.youtube.com/watch?v=iJKVd609iGU&feature=youtu.be

      Je l’ai transcrite ici :
      https://seenthis.net/messages/821185

      Je remets ici la transcription :

      2 enjeux :
      – est-ce qu’on fait une nouvelle réforme de retraite pour faire des économies pour les personnes qui sont à 5 années de retraites ou plus ? —> Baisse de la retraite à partir de 2022
      – est-ce qu’on change de régime en passant d’un système à cotisation définie ou alors, comme c’est le cas dans la plupart des pays d’Europe, on veut faire de la retraite publique un premier étage ? En sachant qu’en France la plupart des retraités vivent uniquement de leur retraite, sauf le « top 10 », les retraités riches, qui peuvent avoir un peu d’épargne à côté. En France on a fait le choix de tout mettre dans le système par #répartition. Ce qui est prévu par la réforme c’est que cet étage public se dégonfle pour devenir un premier étage qui ne permet pas de maintenir son niveau de vie quand on part à la retraite et que celles et ceux qui peuvent doivent compléter... comment ? Avec de l’assurance vie, de la spéculation immobilière ou de la retraite par capitalisation.

      Qu’est-ce qu’il y a dans le projet de loi ?
      Il y a 2 types de systèmes :
      – un système à #prestations_définies, le système dans lequel on est aujourd’hui, un système dans lequel la loi inscrit le calcul des prestations. Le droit garanti le niveau des droits sociaux. On voit combien ça coûte à financer et on ajuste les financements, et quand il n’y a pas ces financements, on discute : est-ce qu’on fait une réforme ? Est-ce qu’on met plus de financements ? La loi a comme objectif qu’on maintienne son niveau de vie quand on part à la retraite. On a un objectif de niveau de vie.
      – un système à #cotisations_définies —> son objectif premier c’est l’équilibre financier du système, donc « pas de déficit ». L’objectif de niveau de vie disparaît et est subordonné à cela.

      Article 1 du #projet_de_loi_organique —> on instaure une #règle_d'or qui interdit le système d’être en #déficit sur une période de 5 ans. On impose l’équilibre.
      Ceci signifie que le passage d’un système à cotisations définies, donc on fixe les ressources et on ne sait pas combien vous aurez à la retraite, on n’attend pas le système à points pour le mettre en place, on le met en place tout de suite, en 2022 avec application en 2025.

      En quoi c’est un problème la règle d’or ?
      D’abord, on change d’objectif politique. On n’a plus un objectif de droit social, mais un objectif d’équilibre du système.
      Associée à cette règle d’or, il y a un double contexte :
      – le gouvernement et le patronat ont dit leur opposition à toute augmentation des ressources. Or, on sait que la part de retraités dans la population va augmenter. Si vous gelez le niveau des ressources et que la part des retraités augmente et qu’en plus vous voulez être à l’équilibre, c’est mécanique, ça diminue
      – le gouvernement et l’Etat ont les moyens de diminuer les recettes même sans changer de taux de cotisation. C’est ce qui s’est fait les années précédentes. Aujourd’hui le gouvernement pointe un déficit de 12 milliards d’EUR. D’où vient ce déficit ? La moitié environ c’est le ralentissement de la masse salariale de l’Etat. En gros, comme l’Etat paie moins ses fonctionnaires et embauche moins, il finance moins le système des retraites et ça génère du déficit. L’autre moitié, ce sont des baisses de compensations qui ne sont plus financées par l’Etat (les parts salariales sur lesquelles on ne paie pas de cotisations sociales, etc.). En gros c’est du définancement.

      –-> D’un côté on dit que ça soit à l’équilibre, d’un autre côté on a les moyens de diminuer les ressources.
      Donc, la première partie de la réforme, faire 12 milliards d’économie à l’horizon 2027, c’est l’application immédiate de cette règle d’or.

      Si vous voulez expliquer la réforme autour de vous... il faut créer 2 cases :
      – il y a des gens qui sont nés entre 1960 et 1975 : ce n’est pas vrai qu’ils ne sont pas concernés. Ils ne sont pas concernés par le système à points. Ils sont concernés par des mesures d’économie de l’ordre de 12 milliards d’ici 2027. 12 milliards c’est pas beaucoup si on regarde le système de retraites qui vaut 300 milliards. Par contre, il n’y a que 4 millions de personnes qui partent en retraite entre 2022 et 2027. Si vous concentrer 12 milliards d’économies, pas sur les retraités, pas sur les actives et les actifs, mais sur les personnes qui partent en retraite à ce moment-là, ça fait un choc très important. Comment vont être faites ces économies ? Dans le projet de loi il y avait une indication, c’était l’âge pivot. ça a changé. Pas la volonté de faire 12 milliards d’économies sur 4 milliards de personnes, même pas l’idée qu’on va payer plutôt que de faire des économies, ce qui a changé c’est que le gouvernement est d’accord de ne pas l’écrire dans le projet de loi, mais c’est une décision qu’on prendra par ordonnance. 2 mesures d’économies possibles : report de l’âge légal de retraite ou, plus probable, un allongement de la durée de cotisation. En gros, les gens ne les atteindront pas. On aura une durée tellement élevée qu’on fera payer aux gens un malus.
      – Les gens qui sont concernés par le système à points. C’est un système qui s’auto-ajuste avec un âge d’équilibre. L’#âge_d'équilibre sert à cela : on fixe le niveau de ressources, on a de plus en plus de retraités... la même enveloppe pour plus de retraités... pour ajuster, on déplace l’âge d’équilibre. Si vous n’avez pas atteint l’âge d’équilibre, votre point ne vaut pas sa valeur, il faut 5% en moins par année qui vous manque.

      Qu’est-ce que ça produit ?
      Pour les gens qui sont proches de la retraite, ça produit une baisse de la retraite car ils n’ont pas le temps de s’ajuster. Les gens qui sont loin de la retraite, ils vont devoir, si ils ont les moyens, compléter en cotisant à des systèmes de retraite complémentaires, en général en entreprises. Les gens qui n’ont pas les moyens vont avoir une retraite diminuée et il faudra cumuler emploi et retraite tant qu’on est encore en situation.

    • Une étude d’impact truquée, nous publions les chiffres corrigés

      Publiée ce jour, l’#étude_d’impact du gouvernement de près de 1 000 pages tient plus de l’opération de communication que de l’éclairage sincère du débat parlementaire. Les #cas-types présentés pour rendre compte de l’impact de la réforme sont délibérément faussés.

      Par conséquent, l’étude d’impact ne rend pas compte des conséquences du projet de réforme des retraites, ce qui est pourtant l’objectif que la Constitution lui assigne. De plus elle est volontairement trompeuse quant aux résultats de la réforme.

      Le projet de loi indique clairement (article 10) que l’âge d’équilibre du système à points sera amené à évoluer d’une génération à l’autre (par défaut, de l’équivalent des deux tiers des gains d’espérance de vie de la génération en question). Mais, au moment de comparer les résultats du système à points avec le système actuel, le gouvernement rétropédale : tous les cas types sont présentés avec un âge d’équilibre gelé à 65 ans, ce qui conduit à faire disparaître une partie du malus. Ce choix est à la fois en contradiction avec le chiffrage macro-économique de l’étude d’impact (qui inclut un âge d’équilibre glissant), et avec le texte de la loi.

      Le collectif Nos retraites a donc redressé les données des 28 cas-types du gouvernement, en les corrigeant de cet effet trompeur d’un âge d’équilibre fixe et non évolutif comme le prévoit le projet de loi. Alors que pour la génération 1990 le gouvernement présente 21 situations sur 28 comme avantageuses avec un départ à la retraite à 64 ans, elles ne sont plus que 10 une fois que les données ont été redressées. Pour cette génération, les retraité·e·s perdent 7 % du niveau de leur pension avec nos corrections, 7 % qui ont donc été indûment ajoutés dans l’étude d’impact.

      De nombreuses inquiétudes sont confirmées par cette étude et méritent d’être soulignées :

      Les #femmes avec enfants sont les grandes perdantes du passage au système Macron, en particulier pour un départ avant l’âge d’équilibre. Une femme, née en 1990 (au SMIC, 2 enfants) qui part à 62 ans, perdra ainsi 15 % de ses droits par rapport au système actuel.
      Dans le système à points, les employé·e·s perdent beaucoup plus que les cadres supérieur·e·s. Ces dernier·e·s seront ainsi “gagnant·e·s” quel que soit leur âge de départ, alors que les employé·e·s seront perdant·e·s pour tout départ avant 66 ans.

      Enfin, il est important de souligner qu’il ne s’agit pas d’un simple rapport qui serait un peu trop orienté. Le gouvernement ne s’est pas contenté de simuler sa réforme en prenant des hypothèses excessivement avantageuses ou en ne retenant que les cas qui lui étaient favorables. En incluant des données faussées dans une étude d’impact officiellement remise au Parlement, le gouvernement manque à ses obligations constitutionnelles. Il trompe la représentation nationale et, avec elle, bafoue notre système démocratique.

      https://reformedesretraites.fr/etude
      #trucage

      –—

      Le dossier en pdf :
      Retraites : une étude d’impact truquée, nous publions les chiffres corrigés


      https://reformedesretraites.fr/wp-content/uploads/2020/01/Communication_E%CC%81tude-dimpact_Nos-Retraites.pdf

    • Pour les retraites, l’Europe a un plan
      Une très bonne chronique à lire !
      https://www.liberation.fr/debats/2020/01/27/pour-les-retraites-l-europe-a-un-plan_1775567

      Si cette réforme passe, les retraites vont baisser, c’est mécanique : en passant au système à points, on fixe d’abord les cotisations et donc les recettes et on ajuste ensuite le niveau des retraites. Autrement dit, un nombre plus important de retraités va se partager un gâteau qui ne grossira pas. C’est ce que l’économiste Michael Zemmour explique de façon convaincante (1). La philosophie de la réforme est donc assez simple : la couche de répartition du système actuel est un minimum garanti, une sorte de plancher, mais elle ne sera pas suffisante. Il y a deux couches en plus : la complémentaire obligatoire où on cotise en commun avec d’autres salariés… et le plan épargne retraite qui est destiné à constituer un patrimoine pour la retraite. Assez logiquement, une baisse des prestations devrait inciter les Français à ouvrir des plans d’épargne.

      Ça tombe bien, parce que l’industrie est en train de s’organiser pour nous faciliter l’accès à « un produit d’épargne simple, sûr, transparent, favorable aux consommateurs, proposé à un prix raisonnable et transférable dans toute l’Union européenne ». Si, si… Le Parlement et le Conseil européen ont lancé le produit paneuropéen de l’épargne-retraite individuelle (PEPP) en juillet 2019 (2), produit qui « complétera les régimes existants dans les États membres ». Le texte officiel du règlement énonce des arguments économiques que l’économiste que je suis mettent franchement mal à l’aise : plus d’épargne retraite individuelle permettra de financer plus d’investissement dans l’économie réelle ; sauf que l’argument, finance-croissance est sérieusement remis en question aujourd’hui qu’on a compris que trop de finance nuit à la croissance et qu’elle est associée à plus d’inégalités (3).

      Second argument : un produit paneuropéen permet de transférer son capital facilement quand on part travailler dans un autre pays membre, et donc cela favorise la mobilité des travailleurs. Seriously ? Et la portabilité des droits sociaux dans l’Union, comme le chômage, la retraite, la maladie ? Ce n’est pas plutôt ça, le vrai frein à la mobilité du travail en Europe aujourd’hui ?

      Troisième argument : un seul produit pour plus de transparence et plus de concurrence entre les différents gérants de fonds et assureurs. Le bon vieil argument de la concurrence qui permet de baisser les prix. Sauf qu’aux Etats-Unis (là où le marché est unifié et la retraite capitalisée…), on observe une hyperconcentration des gérants de fonds. Black Rock, Vanguard, Fidelity et quelques mastodontes se partagent l’épargne des Américains et cela a des effets pervers sur la concurrence justement : quand ils possèdent dans leur « portefeuille » des titres de plusieurs concurrents sur un même secteur (plusieurs grosses entreprises de pharmacologie par exemple), on les soupçonne de casser la concurrence du secteur pour augmenter leurs profits (les médicaments sont vendus plus cher par exemple).

      En réalité, le sujet en jeu, c’est bien d’avoir un seul produit pour collecter plus facilement l’épargne des ménages européens. L’Autorité européenne en charge des assurances (EIOPA) a pour mission la mise en œuvre du PEPP d’ici 2021 avec un groupe d’experts dont la composition est… bluffante (4). Et là, on se met à douter de l’argument de vente « favorable aux consommateurs » : sur 21 membres, 13 représentants directs de l’industrie (dont Fidelity, Vanguard), 2 représentants de fédérations européennes de fonds de pension et d’assurance, seulement 2 membres de représentants de consommateurs et d’épargnants… Le seul universitaire dans le groupe d’experts est aussi au conseil d’administration d’une société de gestion filiale de la plus grosse banque italienne, déjà représentée…. Et cerise sur le gâteau : une seule femme sur les 21 membres. Non décidément, ils n’ont même pas fait semblant.

    • Né·e·s avant 1975, voici les économies que le gouvernement prépare pour vous

      Né·e avant 1975, vous pensiez ne pas être concerné.e par la réforme des retraites ? C’est sans compter sur la volonté du gouvernement de réaliser 30 milliards d’euros d’économies d’ici à 2030. Nous en avons chiffré les conséquences.

      Né.e avant 1975, vous pensiez ne pas être concerné.e par la réforme des retraites ? C’est sans compter sur la volonté du gouvernement de réaliser 30 milliards d’euros d’économies d’ici à 2030. Nous en avons chiffré les conséquences.

      Lors de sa conférence de presse du 11 décembre dernier, le Premier ministre Édouard Philippe a annoncé un report du passage dans un système à points aux générations nées après 1975. Dans le même temps, il a cependant réaffirmé la volonté du gouvernement de mettre en place des « mesures d’équilibre » avant la mise en place du système à points (2037), qui toucheront les personnes nées entre 1960 et 1975. L’enjeu : réaliser 30 milliards d’euros d’économies à l’horizon 2030, soit en moyenne 4600€ d’économies par retraité né entre 1960 et 1967, pour l’année 2030.

      Ces économies peuvent prendre différentes formes. La mise en place d’un âge pivot, ou « âge d’équilibre », a été présentée par Édouard Philippe comme la solution par défaut. Le gouvernement laisse cependant ouverte la possibilité, pour les partenaires sociaux, d’opter pour au moins deux autres options. Toutes partagent un dénominateur commun : l’incitation à travailler plus longtemps, sanctionnée par une pénalisation dans le cas contraire.

      Des économies directes sur les générations 1960 à 1975

      Quel serait l’impact de ces mesures d’économies sur les générations 1960 à 1975 ? En nous fondant sur les scénarios présentés par le Conseil d’orientation des retraites (COR) le 22 novembre dernier, nous avons analysé les effets sur trois cas-types des trois principaux scénarios envisagés, tous équivalents en termes budgétaires. Ces simulations permettent de donner une vision concrète des effets des économies envisagées selon l’âge, la durée de cotisation ou encore la profession exercée :

      Scénario « par défaut » : un âge pivot à 64 ans. C’est l’option pour l’instant privilégiée par le gouvernement. Avec sa mise en place, une décote serait appliquée en cas de départ en retraite avant 64 ans, même en cas de carrière complète, et la surcote serait diminuée au-delà de cet âge. Dans ce scénario, la retraite d’un·e salarié·e du privé né·e en 1965 et ayant commencé sa carrière à 20 ans, et ayant droit dans le système actuel à une pension à 62 ans de 1927€ nets par mois, serait diminuée de 8 % (- 161€ / mois). Un abaissement simultané de l’âge d’annulation de la décote bénéficierait aux personnes partant aujourd’hui à 67 ans pour éviter la décote : cette option n’est pas simulée ici.
      Scénario « alternatif » : une durée de cotisation portée à 44,5 annuités. Une augmentation de la durée de cotisation à 44,5 annuités pour la génération 1965 (soit 2 ans et 3 mois de plus que prévu actuellement) aboutirait à des résultats identiques en termes budgétaires. Pour ce.tte même salarié·e du privé, cette augmentation de la durée de cotisation représenterait une baisse du montant de la pension de 14 % (soit – 269 € / mois sur une retraite de 1927€ nets dans le système actuel).
      Scénario « à l’ancienne » : le recul de l’âge légal de départ en retraite. Pour produire des effets financiers similaires, l’âge légal devrait être fixé à 63 ans et 4 mois pour une personne née en 1965. Cette option semble aujourd’hui écartée par le gouvernement.

      Dans ces trois cas de figure, les générations nées avant 1975 seraient directement touchées par les mesures d’économies présentées au sein de ce projet de réforme des retraites. Nos simulations mettent en évidence le fait que l’âge pivot n’est que l’une des modalités possibles d’un objectif plus général de baisses des « dépenses » de retraites. Les conséquences pour les futur·e·s retraité·e·s seront, in fine, liées avant tout à l’ampleur des économies recherchées plus qu’à la modalité retenue pour les atteindre.

      L’enjeu du retour à l’équilibre d’ici à 2027 : trois pistes principales

      Le discours d’Édouard Philippe du 11 décembre dernier a insisté sur la nécessité de retour à l’équilibre, non plus à l’horizon 2025 comme le gouvernement l’entendait initialement, mais à l’horizon 2027. Il s’est, pour cela, appuyé sur une hypothèse principale : la mise en place d’un âge pivot à 64 ans à l’horizon 2027, le chemin pour y parvenir restant à définir par les partenaires sociaux. L’objectif d’économies serait alors de 30 milliards d’euros en 2030 (0,6 % du PIB).

      Le Conseil d’orientation des retraites (COR) suggère plusieurs autres pistes permettant de réaliser ce même objectif d’économies, dont beaucoup ont d’ores et déjà été écartées par le gouvernement. En particulier, la hausse des taux de cotisation ou la désindexation des retraites liquidées ont été, à ce stade, exclues. En affichant un objectif de prolongation de la durée d’activité, le gouvernement privilégie donc implicitement trois scénarios :

      L’instauration d’un âge pivot, mesure qui n’a encore jamais été mise en œuvre et qui viendrait alourdir la décote dans le calcul des pensions ;
      L’allongement de la durée de cotisation nécessaire pour une retraite à taux plein ;
      Le recul de l’âge légal de départ à la retraite.

      Dans son dossier de presse, le gouvernement a indiqué souhaiter mettre en place, en l’absence de décision contraire des partenaires sociaux, un âge pivot à 64 ans. Cet âge entrerait en vigueur progressivement, à partir 2022 (génération 1960) à raison d’une augmentation de 4 mois tous les ans (64 ans en 2027, pour la génération 1965).

      Parmi les scénarios du COR du 22 novembre 2019, celui qui s’approche le plus de cette hypothèse est également le scénario que l’on pourrait qualifier d’« intermédiaire » : un scénario d’ « équilibre permanent des régimes » (ou EPR, soit le scénario correspondant à la législation actuelle) dans une hypothèse de croissance de la productivité du travail à 1,3 % (soit celle retenue par le rapport Delevoye du 18 juillet 2019).

      Nous avons donc chiffré les mesures d’économies envisagées par le gouvernement à partir des scénarios similaires (EPR, 1,3%) pour les deux autres scénarios envisagés : une hausse de la durée de cotisation, progressivement, vers 44,5 annuités, ou une hausse de l’âge légal, progressivement, vers 63 ans et quatre mois.

      Population concernée par les différents scénarios envisagés

      1. Scénario “par défaut” : Mise en place d’un âge pivot

      La mesure qui a été présentée mercredi 11 décembre par Édouard Philippe vise à instaurer un âge pivot, aussi appelé « âge d’équilibre », à 64 ans. Son principe est d’inciter à partir plus tardivement en pénalisant les départs à 62 ans et ce, quelle que soit la durée de cotisation. Le rapport du COR précise les contours d’une telle mesure, sous le nom d’« âge minimal du taux plein ».

      Qui serait concerné·e ?

      Ne seraient exclues de l’application de cette mesure que :
      Les personnes qui, à l’âge pivot, n’atteignent pas encore le nombre de trimestres donnant droit à un taux plein.
      Les personnes partant déjà à l’âge d’annulation de la décote (67 ans) et qui ne subiraient donc pas les effets de cette mesure
      Au moins les deux tiers des personnes nées entre 1960 et 1975 seraient ainsi concernés : ils verraient leur décote s’aggraver ou leur surcote diminuer.
      Si une baisse de l’âge d’annulation de la décote était envisagée, les 15 % de personnes atteignant aujourd’hui le taux plein par l’âge (67 ans) et non par la durée bénéficieraient de cette mesure : elles pourraient en effet partir plus tôt (au nouvel âge d’annulation de la décote). Cette mesure, demandée de longue date par les syndicats, est bien moins coûteuse que les économies réalisées par la mise en place d’un âge du taux plein. Elle pourrait donc être mise en place isolément, sans être assortie de mesures d’économies drastiques. Par manque de données et de précision des intentions du gouvernement, nous ne l’illustrons pas dans ce dossier.
      La mise en place d’un âge pivot pénaliserait en outre les personnes disposant d’un petit salaire de référence et d’une carrière longue (à temps partiel par exemple), qui devront attendre non seulement une carrière complète mais également l’âge de 64 ans pour bénéficier des minima de pension.

      Âge pivot, ou “âge minimal du taux plein” : l’exemple d’Amira, Omar et Jeannine

      Amira est une salariée du privé, non cadre, à carrière continue, qui a commencé sa carrière à 18 ans, tout en ayant déjà validé un trimestre de cotisations avant cet âge (« petit boulot »). Elle est donc éligible à un départ anticipé pour « carrière longue », à partir de 60 ans. Née en 1965, Amira peut partir dans le système actuel à 60 ans en 2025 avec une retraite à taux plein de 1506 €, ce qui représente 71% de son dernier salaire (cf. annexe méthodologique).

      Dans le cas de la mise en place d’un âge pivot à 64 ans, il est probable que les conditions de départ soient aménagées pour lessalarié·e·s pouvant prétendre au dispositif dit « carrières longues », comme le suggérait le COR dans son rapport du 22 novembre dernier. Si cet âge d’équilibre était fixé de manière dérogatoire à 62 ans pour les personnes ayant commencé à travailler tôt, Amira pourrait maintenir son départ à 60 ans. Dans ce cas, elle perdrait alors 9% (-164 € par mois) de sa pension. En effet, il lui manquerait alors huit trimestres (deux ans) pour une retraite à taux plein, et elle subirait une décote à la fois sur sa retraite de base et sur sa retraite complémentaire.

      Omar est un salarié du privé, non cadre, à carrière continue, qui a commencé sa carrière à 20 ans. Né en 1965, Omar peut partir dans le système actuel à 62 ans en 2027 avec un seul trimestre manquant et une retraite de 1927 €, ce qui représente 69 % de son dernier salaire (cf. annexe méthodologique). Si Omar partait à 64 ans, il bénéficierait d’une surcote sur sa retraite de base (régime général) pour l’équivalent de 7 trimestres et partirait en retraite en 2029 avec une pension de 2 270 €, soit 76 % de son dernier salaire[1].

      Dans le cas de la mise en place d’un âge pivot à 64 ans, Omar pourrait maintenir son départ à 62 ans. Dans ce cas, il perdrait alors 8 % (-161 € par mois) de sa pension. En effet, il lui manquerait alors huit trimestres (deux ans) pour une retraite à taux plein, et il subirait une décote à la fois sur sa retraite de base et sur sa retraite complémentaire.

      Et, avec un âge pivot à 64 ans, même si Omar partaità 64 ans, il perdrait 6 % (-134 € par mois) de sa pension par rapport à un départ au même âge dans la législation actuelle[2]. En effet, sa surcote au régime général serait annulée.

      Jeannine est agente de la fonction publique (catégorie C), ayant commencé à travailler à 20 ans et ayant eu une carrière complète. Née en 1963, elle peut partir dans le système actuel à 62 ans en 2025 avec une retraite à taux plein de 1541 €, qui représenterait 75 % de son dernier salaire (cf. annexe méthodologique). Si Jeannine décide de partir à 64 ans – et si elle le peut -, elle bénéficiera d’une surcote sur sa retraite pour l’équivalent de 8 trimestres et partira en retraite en 2027 avec une pension de 1 724 €, soit 83 % de son dernier salaire[3].

      Le gouvernement a précisé que la mise en œuvre d’un âge pivot serait réalisée progressivement, à raison d’un décalage de 4 mois à partir de 2022. Puisqu’elle est née en 1963, l’âge pivot serait fixé, pour Jeannine et sa génération, à 63,25 ans (soit 63 ans et 3 mois[4]).

      Dans cette hypothèse, elle pourrait maintenir à un départ à 62 ans. Dans ce cas, elle perdrait environ 6 % (-96 € par mois) de sa pension : il lui manquerait 1 an et 1 trimestre (5 trimestres) pour la retraite à taux plein, et elle subirait donc une décote sur sa retraite publique.

      Si Jeannine partait à 64 ans en cas d’âge pivot fixé à 63,25 ans, elle perdrait toujours environ 6 % (-98 € par mois) de sa pension, par rapport à un départ à 64 ans sans réforme[5]. En effet, sa surcote serait atténuée (puisqu’elle aurait une surcote pour trois trimestres au lieu de huit sans la réforme).

      Analyse : L’« âge pivot », une proposition qui frapperait de manière uniforme tou·te·s les retraité·e·s, à la fois sur l’âge de départ et le montant de la pension

      Aucun « âge pivot » (ou « âge minimal du taux plein » selon l’expression du COR) n’a, jusqu’à présent, encore été mis en œuvre dans le système français de retraite. Le calcul de la décote est en effet fondé uniquement sur une notion de durée de carrière : toute personne qui a cotisé l’intégralité des annuités demandées peut prétendre à une retraite à taux plein, quel que soit son âge de départ. La proposition d’Édouard Philippe vise ici à ajouter à cette règle de durée une règle d’âge : pour prétendre à une retraite à taux plein, il faudrait non seulement avoir cotisé toutes ses annuités, mais également avoir atteint cet âge pivot. Plus les personnes auront commencé à cotiser tôt, et donc auront accumulé toutes leurs annuités avant cet âge, plus elles seraient donc perdantes.

      Avec un âge pivot, le nombre de trimestres de décote dépendrait ou bien du nombre de trimestres manquant par rapport à la durée de cotisation de référence (durée), ou bien du nombre d’années manquantes par rapport à l’âge minimal du taux plein (âge) : serait retenue la règle la plus défavorable à l’assuré·e. De même, la surcote serait réduite, dans les mêmes conditions que la décote est augmentée. Sous ses abords relativement « anodins », cette mesure combinerait donc à la fois une hausse de l’âge de départ pour les retraité·e·s, s’ils et elles veulent partir à taux plein (à 64 ans) et une diminution de la pension au même âge. En effet, si aucune réforme n’avait eu lieu, en partant à 64 ans, ces individus toucheraient une surcote. Avec la mise en place de l’âge pivot, ils toucheraient tout juste une retraite à taux plein, malgré une durée de cotisation plus élevée.

      2. Scénario “alternatif” : durée de cotisation portée à 44,5 annuités

      La deuxième mesure envisagée est un allongement de la durée de cotisation nécessaire pour obtenir une retraite à taux plein. Aujourd’hui, cette durée de cotisation est de 42 ans, soit 168 trimestres. Elle a augmenté progressivement sous l’effet des réformes successives : elle était ainsi de 37,5 annuités (150 trimestres) après la réforme de 1993, et la récente réforme Touraine a prévu son report jusqu’à 43 annuités (172 trimestres) en 2035. Pour la génération 1965, elle serait portée à 169 trimestres.

      La proposition serait ici d’allonger encore la durée de cotisation nécessaire, qui passerait progressivement à 44,5 annuités (178 trimestres), à raison d’une augmentation de deux trimestres par an entre 2022 et 2027.

      Qui serait concerné·e ?

      Toute personne née entre 1960 et 1975 non encore parties en retraite serait concernée.

      Hausse de la durée de cotisation : les exemples d’Amira, Omar et Jeannine

      En cas d’allongement de la durée de cotisation à 44,5 annuités, si Omar, salarié du privé né en 1965 (voir description ci-dessus) maintenait son départ à 62 ans, il perdrait 14 % (-269 € par mois) de sa pension. En effet, il lui manquerait alors 10 trimestres pour le taux plein, et il subirait une décote à la fois sur sa retraite de base et sur sa retraite complémentaire.

      Si, dans ce même cas d’allongement de la durée de cotisation, Omar partait à 64 ans, il perdrait 9 % (-202 € par mois) de sa pension. En effet, il perdrait le bénéfice de sa surcote sur sa retraite de base et subirait même une décote, puisqu’il lui manquerait 2 trimestres pour atteindre le taux plein.

      Pour Jeannine (fonctionnaire de catégorie C, née en 1963, voir ci-dessus) et sa génération, la durée de cotisation serait portée à 43,5 annuités.

      Dans ce cas, si Jeannine maintenait son départ à 62 ans, elle perdrait environ 11 % (-165 € par mois) de sa pension. Il lui manquerait en effet 6 trimestres pour atteindre le taux plein, et elle subirait donc une décote.

      Si, dans ce même cas d’allongement de la durée de cotisation à 43,5 annuités, Jeannine partait à 64 ans, elle perdrait 7 % (-118 € par mois) de sa pension, puisque sa surcote serait diminuée par rapport au système actuel, pour un départ au même âge.

      3. Scénario “à l’ancienne” : recul de l’âge légal de départ en retraite

      Une dernière mesure, qui semble pour le moment écartée par le gouvernement, est le recul de l’âge d’ouverture des droits, plus connu sous l’appellation d’« âge légal de départ en retraite » (parfois désigné comme âge d’ouverture des droits). Celui-ci représente l’âge en dessous duquel il est interdit de partir en retraite, quel que soit le nombre d’années cotisées. Fixé à 62 ans depuis la réforme Sarkozy de 2010 (précédemment 60 ans) à l’exception de certains métiers pénibles, cet âge connaîtrait alors un nouveau recul accéléré, de trois à quatre mois par génération, de manière à être repoussé à 63,4 ans en 2027 (63 ans et 5 mois pour la génération 1965).

      Qui serait concerné·e ?

      Seraient concernées toutes les personnes des générations 1960 à 1975 qui ne seraient pas encore parties à la retraite et, ce, quel que soit leur statut actuel (emploi, chômage, invalidité, RSA etc.). Mises à part d’éventuelles exceptions pour les carrières longues – ce qui n’est pas envisagé par le COR – le fait d’avoir commencé à travailler tôt, et donc d’avoir cotisé l’intégralité des annuités requises pour obtenir une retraite à taux plein, serait sans incidence sur le report de l’âge de départ.

      Recul de l’âge légal : l’exemple d’Omar et Amira et Jeannine

      Amira et Omar sont tous deux né·e·s en 1965. Elle et il subiraient donc de plein fouet les mesures de recul de l’âge légal de départ qui seraient alors décidées. Ainsi, elle et il n’auraient pas le droit de partir comme elle et il l’avaient prévu, respectivement à 60 ans (carrière longue) et 62 ans.

      L’âge légal de départ à la retraite reculerait de génération en génération : ainsi Jeannine, née en 1963, ne pourrait partir avant 62 ans et 10 ou 11 mois.

      L’ensemble des chiffres et des hypothèses ayant servi à réaliser ce dossier sont répertoriés dans deux annexes en accès ouvert (une annexe méthodologique et une annexe chiffrée).

      Le collectif Nos retraites reste en outre à votre disposition pour toute question sur les chiffres, les résultats ou leurs interprétations.

      Retrouvez l’étude sur le site du collectif Nos retraites : https://reformedesretraites.fr/neavant1975.

      https://blogs.mediapart.fr/collectif-nos-retraites/blog/231219/ne-e-s-avant-1975-voici-les-economies-que-le-gouvernement-prepare-po

    • Retraites : « L’étude envisage une forte paupérisation des #enseignants et plus généralement des #fonctionnaires »

      Même le cas type présenté dans l’étude d’impact indique que le pouvoir d’achat de la pension des enseignants connaîtra une forte baisse, analyse, dans une tribune au « Monde », l’économiste #Henri_Sterdyniak.

      La réforme des retraites a pour objectif de mettre en place un régime par points. Le niveau de la retraite dépendra de l’ensemble de la carrière, primes comprises. Les fonctionnaires seront donc particulièrement affectés puisque jusqu’à présent, ils ont droit à une retraite représentant 75 % du traitement indiciaire des six derniers mois de leur carrière (hors primes). Le principe selon lequel tous les fonctionnaires qui ont atteint le même grade doivent avoir la même retraite, considérée comme une rémunération différée, serait tout simplement oublié.

      En moyenne, le traitement de fin de carrière d’un fonctionnaire représente actuellement 123 % de son salaire moyen de carrière. Dans le nouveau système, qui annonce un taux de cotisation ouvrant des droits de 25,31 % et un taux de rendement de 5,5 %, le taux de remplacement à 65 ans, après 42 années de carrière, serait sur le salaire moyen de 58,47 % (soit 25,31 × 5,5 × 42/100). Sur le salaire de fin de période, il serait de 47,65 % alors qu’il est aujourd’hui de 70,5 % pour un enseignant dont les primes sont de 9 % du traitement – soit une baisse de 32,4 %.

      Ce chiffre n’est pas étonnant puisque la réforme vise à réduire le niveau relatif des retraites d’environ 22 % d’ici à 2050, afin de réduire de 0,5 point la part des retraites dans le PIB, ce malgré une hausse de plus de 20 % du nombre des retraités. La baisse relative du niveau des retraites des fonctionnaires avait été assurée jusqu’ici par la stagnation du point d’indice de la fonction publique, dont le pouvoir d’achat a diminué de 15 % depuis 2000.

      Malheureusement, ces informations sont totalement masquées dans l’étude d’impact associée au projet de loi.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/02/05/retraites-l-etude-envisage-une-forte-pauperisation-des-enseignants-et-plus-g
      #paywall

    • « Notre système de retraites n’a pas de problème de financement… »
      –-> Sébastien explique les retraites à un collègue

      Alors on répète : notre système de retraites actuel n’a pas de problème de financement. C’est le très officiel Conseil d’Orientation des Retraites qui l’illustre : voir ses deux derniers rapports : Évolutions des retraites et perspectives en France (juin 2019 : https://cor-retraites.fr/sites/default/files/2019-06/doc-4646.pdf) et Perspectives des retraites à l’horizon 2030 (novembre 2019 : https://www.cor-retraites.fr/sites/default/files/2020-01/Rapport_novembre_2019_V4.pdf)

      Actuellement il y a ZÉRO #déficit

      Vers 2027 le déficit sera à son max : une somme ridicule comprise entre 0.3 et 0.7% du PIB (deux fois plus faible en moyenne que la somme allouée au CICE chaque année, et pourrait être comblé en seulement 3 années de rétablissement de l’impôt sur la fortune ISF).
      Et surtout, sans réforme, ce déficit n’est que temporaire et le régime serait excédentaire d’ici 2040 / 2060 (pour les cas de croissance les moins pessimistes, y compris avec les comptabilités défavorables) .

      Et le système dispose de fonds disponibles dont certains ont été créés spécifiquement pour absorber les déficits momentanés :

      Le #Fond_de_Réserve_des_Retraites (32 Mds actuellement, 3 fois le déficit moyen attendu).
      Source : « Ce trésor de guerre qui pourrait faciliter la réforme des retraites », par Solveg Godeluck, Les Échos, 26 février 2018 (https://www.lesechos.fr/2018/02/ce-tresor-de-guerre-qui-pourrait-faciliter-la-reforme-des-retraites-985252).
      Mais aussi les autres fonds spéciaux des retraites (+ de 130 Mds, 10 fois le déficit moyen attendu)
      Source : Évolutions des retraites et perspectives en France, juin 2019.
      Sans oublier la disponibilité de la #Caisse_d’amortissement_de_la_dette_sociale #CADES
      Source : « L’extinction de la Cades libérera €24 mds à l’horizon 2024 », Reuters, 11 décembre 2018 (https://fr.reuters.com/article/frEuroRpt/idFRL8N1YG5NY).

      Par contre, la réforme assécherait le financement des retraites :

      Forte baisse des cotisations pour les salaires annuels entre 120000 et 324000 euros → manque à gagner de l’ordre de 3,7 milliards d’euros par an.
      Source : « Retraites : la fin des cotisations sur les hauts salaires coûterait 3,7 milliards par an pendant 15 ans », par Solveig Godeluck, 22 janvier 2020 (https://www.lesechos.fr/economie-france/social/retraites-la-fin-des-cotisations-sur-les-hauts-salaires-couterait-37-millia)
      Alignement vers le bas du taux de cotisation patronale public / privé ⇒ manque à gagner de 42 milliards d’euros par an (3.5 fois le déficit max attendu, par an !). Source : « Retraites : salariés, fonctionnaires, indépendants… qui va cotiser plus, qui va cotiser moins », par Solveig Godeluck, 21 janvier 2020 (https://www.lesechos.fr/economie-france/social/retraites-salaries-fonctionnaires-independants-qui-va-cotiser-plus-qui-va-c).

      Et la réforme et baisserait fortement le montant des retraites :

      Prise en compte de l’ensemble de la carrière et non plus des 25 meilleures années : baissera des pensions de tout le monde, en particulier des personnes ayant connu le chômage ou le temps partiel et les femmes..
      …et supprimera la dimension méritocratique au calcul de la retraite (un ouvrier qui aurait gravit tous les échelons pour devenir cadre en fin de carrière aura une pension moindre qu’un cadre au salaire identique mais qui aura cotisé dès le début de sa carrière comme cadre)
      La réforme sera particulièrement impactant pour les femmes mères de famille (on parle de pertes jusqu’à 15%).
      Source : « Réforme des retraites : chute de pension en vue pour les mères de famille », Marie-Cécile Renault, Le Figaro, 26 novembre 2019
      Perte de garantie sur le montant des pensions à l’avenir, qui pourra baisser, par ajustement de la valeur point :
      Source : François Fillon

      Baisse du niveau des pensions qu’il va falloir compléter par capitalisation … auquel même le MEDEF est opposé pour ses hauts cadres.
      Source : « Le patronat réclame le maintien de la retraite par répartition pour les hauts salaires », par Solveig Godeluck, Les Échos, 31 janvier 2020 (https://www.lesechos.fr/economie-france/social/le-patronat-reclame-le-maintien-de-la-retraite-par-repartition-pour-les-hau)
      Décalage du départ à la retraite, qui augmentera à chaque génération. Partir avant entraînera une décote pour toute la retraite de 7 à 8% par année de départ anticipé (et non pas 5%).
      Source : « Réforme des retraites : les simulations confirment le rôle capital de l’âge pivot », par Adrien Sénécat, Le Monde, 21 janvier 2020 (https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2020/01/21/retraites-les-simulations-du-gouvernement-confirment-le-role-capital-de-l-ag).

      Le tout sur fond de malhonnêteté gouvernementale :

      Les chiffres donnés par les « cas types » du gouvernement sont … faux : ils ne tiennent pas compte du texte du projet de loi (!) et omettent la prise en compte de l’âge pivot et de sa décote.
      Source : « Etude d’impact sur la réforme des retraites : le gouvernement accusé de calculs malhonnêtes », BFMTV, 25 janvier 2020.
      Sans parler qu’en plus de ça les cas sont choisis jusqu’à l’absurde pour être favorables (carrière pleine sans aucune augmentation de salaire).
      Source : « Retraites : comment le « simulateur » du gouvernement embellit la réforme », par Adrien Sénécat, Le Monde, 20 décembre 2019

      https://academia.hypotheses.org/12275

    • La carrière de Christelle : vers une baisse de 36% de la retraite des enseignants

      #Henri_Sterdyniak montre que les simulations présentées par le Haut-Commissariat à la Réforme des Retraites incorporent une baisse de 36% du niveau relatif des retraites des professeurs certifiés en 2050 par rapport à 2020.

      Le Haut-Commissariat à la réforme des retraites (HCRR) a publié sur son site l’impact de l’introduction du système universel à points sur une vingtaine de cas-types[1]. Dans la plupart des cas, l’impact est très faible, à la hausse ou à la baisse. En fait, ce résultat s’explique par le fait que le système à points n’est pas comparé au système actuel, mais au système tel qu’il serait après 25 ou 35 années de détérioration. Comme la détérioration du système actuel, telle qu’elle était déjà anticipée avant 2019 et le système à points envisagé aujourd’hui se donnent le même objectif de stabiliser (et même de baisser) les parts des dépenses de retraite dans le PIB malgré la hausse de 25% du ratio retraités/actifs, ce résultat n’est pas surprenant.

      Cependant, la méthode utilisée pour élaborer ces cas-types est plus que contestable. Nous allons le voir dans le cas de Christelle, en reprenant donc un des cas-type[2] et les hypothèses du HCRR. Christelle fait toute sa carrière de 22 à 67 ans comme professeure certifiée.

      Supposons d’abord que Christelle soit née en 1953 et qu’elle prenne sa retraite en 2020. Son dernier traitement[3] est de 3889 euros (en brut) et son taux de prime est de 9%. Dans le système actuel, sa retraite est de 75 % de son dernier traitement, soit 2917 euros, auxquels s’ajoutent environ 23 euros du régime additionnel de la fonction publique (RAFP) sur ses primes, ce qui amène à une retraite d’environ 2940 euros. Dans un système par points, sa retraite aurait été calculée sur l’ensemble des salaires de sa carrière, mais ceux-ci auraient été revalorisés selon la hausse du salaire moyen dans l’ensemble de l’économie. En reprenant la chronique de l’évolution du salaire des professeurs certifiés et du salaire moyen, le calcul montre que la retraite de Christelle aurait été alors de 2197 euros, soit une perte par rapport au système actuel de 25,3 % ou encore de 743 euros par mois.

      Le HCRR ne présente pas le bilan ainsi. Il évalue la retraite de Christelle en la faisant naître en 1990 ; elle prendrait donc sa retraite à 65 ans[4] en 2055, dans 35 ans. Le HCRR fait l’hypothèse que, durant ces 35 années, le salaire moyen de l’ensemble des salariés et le SMIC augmenteraient de 1,3% par an en pouvoir d’achat[5]. Pendant toute cette période, selon le HCRR, l’indice des traitements de la fonction publique serait fixe en pouvoir d’achat, tandis que le taux des primes des professeurs monterait de 9% à 17%. Aussi, le pouvoir d’achat du salaire d’un professeur certifié à un échelon donné n’aurait une augmentation que de 0,2% par an, entièrement due à la hausse des primes. Ainsi, le traitement indiciaire d’un professeur certifié à 10 ans de carrière passerait de 1,51 fois à 0,96 fois le SMIC, soit, en tenant compte de la prime, un salaire qui passerait de 1,65 fois le SMIC à 1,12 fois le SMIC, une perte de 32% par rapport au SMIC et au salaire moyen dans l’économie. Le HCRR envisage donc une forte paupérisation des enseignants (et plus généralement des fonctionnaires).

      Dans cette situation, selon le HCRR, Christelle partirait à la retraite à 65 ans avec une pension de 2991 euros selon le système actuel, de 2 903 euros (-3%) avec le système à points, mais la promesse du gouvernement que la réforme ne ferait pas baisser la retraite des enseignants, ferait monter ce montant à 3000 euros.

      Certes les 2991 euros versés par le régime actuel dégradé sont un peu supérieurs aux 2940 euros actuels, mais, comparés au salaire moyen de l’économie, ils représentent une baisse de 36 %. Il est facile pour le gouvernement de garantir que le nouveau système ne provoquera pas une baisse supplémentaire par rapport à un système ainsi dégradé.

      En fait, le nouveau système ne provoque en lui-même qu’une baisse de 3% par rapport au système actuel dégradé que pour 2 raisons. D’une part, le taux de prime est supposé passer à 17%. D’autre part, le salaire des enseignants, tout au long de leur carrière, serait stable en pourcentage du salaire moyen de l’économie : la hausse du salaire due à l’ancienneté serait à peu près équivalente à sa baisse à échelon donné, de sorte que le salaire de fin de carrière serait pratiquement égal au salaire moyen de la carrière revalorisé à 1,3% l’an.

      Si les salaires des professeurs certifiés augmentaient à l’avenir normalement, soit comme le salaire moyen de l’économie, Christelle aurait un traitement de fin de carrière de 6113 euros, avec 550 euros de prime. Sa retraite serait de 4628 euros (4585+43), selon les règles actuelles ; de 3102 euros dans le système à points, soit une perte de 33%. C’est le chiffre que le HCRR aurait dû indiquer. Le supplément nécessaire pour maintenir la retraite des professeurs certifiés ne devrait pas être de 97 euros, comme selon le HCRR, mais de 1 527 euros.

      La présentation de ce cas-type par le HCRR pose deux questions. Le gouvernement envisage-t-il de baisser de 36% le salaire relatif des enseignants ? Est-il acceptable qu’un ministre, qu’une administration présente des données fallacieuses dans le débat public ?

      https://blogs.mediapart.fr/les-economistes-atterres/blog/261219/la-carriere-de-christelle-vers-une-baisse-de-36-de-la-retraite-des-e

    • merci @cdb_77 . Je viens de regarder le cas des maîtres de conf, et il y a un truc me chiffonne : début de carrière à 23 ans ? Euhhh, je vois pas trop comment c’est possible... Sauf à compter les heures de monitorat/vacation/ATER etc. mais dans ce cas la personne n’est pas encore MCF.

  • VIDÉO. « Balance ta blouse » : à Saint-Nazaire, le clip des urgentistes en grève fait mouche
    https://www.ouest-france.fr/pays-de-la-loire/saint-nazaire-44600/video-balance-ta-blouse-a-saint-nazaire-le-clip-des-urgentistes-en-grev
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAxOTEyZGE4NjI2ZGQ5M2IzM2ZhZjM4MTc3YjVlNGRlMjEwY2I?width=1260&he

    « Buzyn on a pour toi le plus triste des poèmes ». C’est bien à la ministre de la Santé que s’adresse ce clip réalisé par les médecins et infirmières des urgences de Saint-Nazaire.

    Comme partout en France, ils sont en grève depuis le 10 mai dernier pour dénoncer le manque de moyens. Et après les manifestations, tracts, pétitions, ils ont choisi de réaliser un clip. Une parodie de Balance de ton quoi de la chanteuse Angèle rebaptisée Balance ta blouse.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=189&v=QV-OcN2wrgk&feature=emb_logo

  • Trois ans après l’intox sur une pseudo attaque contre l’Hôpital Necker, il semblerait que #Martin_Hirsch n’ait pas compris la leçon. Il annonce ce soir :

    Plein soutien aux équipes de @HopPitieSalpe qui ont fait face à une bande de manifestants/casseurs dans une tentative d’intrusion violente dans le service de réanimation chirurgicale ! Et qui ont empêché la mise en danger de patients. Merci à la police. Plainte @APHP sera déposée.
    https://twitter.com/MartinHirsch/status/1123625089088532481

    Dans la foulée, le ministre de l’intérieur #Christophe_Castaner surenchéri :

    Ici, à la Pitié-Salpêtrière, on a attaqué un hôpital. On a agressé son personnel soignant. Et on a blessé un policier mobilisé pour le protéger. Indéfectible soutien à nos forces de l’ordre : elles sont la fierté de la République.
    https://twitter.com/CCastaner/status/1123664392011304961

    Sauf que très vite des vidéos et témoignages remontent. La première vidéo qui contredit la version d’une attaque a été publiée un peu avant 22h sur twitter. Et des témoignages écrits circulent sur facebook. J’ai tenté un suivi par ici et sur twitter le soir même (https://twitter.com/ValKphotos/status/1123711083229925377) mais le mieux est de suivre le signalement 746 de @davduf, vidéos à l’appui :

    allo @Place_Beauvau - c’est pour un signalement - 746 « J’ai vu ces manifestants à l’entrée de l’hôpital de la Pitié-Salpêtrière qui voulaient se réfugier parce que une colonne de CRS arrivait par le haut du boulevard (...) » Paris, #1erMai, 16h environ, source courriel
    https://twitter.com/davduf/status/1123717931655995393

    allo @Place_Beauvau - c’est pour un signalement - 746 (précisions 1) « (...) puis la commissaire a repéeré ces gens à l’entrée, elle ordonne à ses policiers de rentrer et de les dégager, et c’est là où la vidéo commence » Paris, #1erMai, 16h environ, source : courriel
    https://twitter.com/davduf/status/1123718112489234433

    allo @Place_Beauvau - c’est pour un signalement - 746 (précisions 2) Pitié-Salpêtrière, autre angle de vue. Paris, #1erMai, 16h environ, source : @happle26
    https://twitter.com/davduf/status/1123718404479815680

    @Place_Beauvau - c’est pour un signalement - 746 (précisions 3) Pitié-Salpêtrière, autre angle de vue, un peu plus tard Paris, #1erMai, 16h environ, source : @happle26
    https://twitter.com/davduf/status/1123718704565510145

    //edit : Pour retrouver l’ensemble des 23 « précisions », comme il les appelle, c’est par là : https://twitter.com/search?q=from%3A%40davduf%20%22allo%20%40Place_Beauvau%20-%20c%27est%20pour

    D’autres témoignages & vidéos suivent, y’aura sans doute un ou deux articles de médias libres qui raconteront plus en détail tout ça demain, mais il vaut mieux contrer l’intox au plus vite...
    D’après tous les témoignages que j’ai vu sur ce 1er mai à Paris, ça a été nasse générale et gazages non-stop avant même que le cortège démarre. Beaucoup de personnes ont paniqué, coincées entre les grenades lacrymo ou désencerclement sans avoir la moindre issue de sortie...

    @paris a lancé un appel : « 1er mai : appel à témoignage contre la propagande sur la Pitié-Salpétrière ! » : les contacter directement : https://paris-luttes.info/pour-un-premier-mai-rouge-et-un-12022
    //edit : les témoignages reçus sont à retrouver par ici : Des témoignages sur l’intox de la préfecture à propos de l’intrusion à la Pitié-Salpêtrière : https://paris-luttes.info/des-temoignages-sur-l-intox-de-la-12091

    Pour rappel, il y a trois ans, le débunkage autour de la pseudo attaque contre l’hôpital Necker avait donné ça : https://seenthis.net/messages/500286
    Pourtant, certains continuent d’utiliser cet exemple pour faire passer les manifestant-e-s pour des sauvages sanguinaires qu’iels n’ont JAMAIS été, contrairement à d’autres censés nous en protéger...

    //edit : le lendemain, je découvre aussi cet autre mensonge :

    WoW... en fait ce n’est pas un mais DEUX mensonges que vous avez proféré hier, @MartinHirsch, vous n’avez pas chômé ! Vous annoncez la fin de la grève du service des Urgences quand il n’en est rien et en plus vous faites retirer les banderoles revendicatives...


    Voir les réponses du collectif @InterUrg :

    _Nous avons annoncé lors de la dernière réunion de #négociations notre insatisfaction aux prémices de solutions proposées. La #grève continue !
    #InterUrgences #urgencesengreve #soutienalagrevedesurgences_
    https://twitter.com/InterUrg/status/1123622897765974016

    Inadmissible !! Mme Welty, directrice de l’@HopPitieSalpe demandant aux #CRS de décrocher les banderoles des #urgences en #grève, et qui s’exécutent, lors de la venue de @CCastaner !
    https://twitter.com/InterUrg/status/1123662488598405120

  • Hôpital public : la cote d’alerte
    https://www.lemonde.fr/sante/article/2018/12/25/hopital-public-la-cote-d-alerte_5402017_1651302.html

    Analyse. Non-remplacement de départs à la retraite, redéploiement de personnels… La recette des hôpitaux publics pour juguler leurs déficits et récupérer des marges de manœuvre financières est connue de longue date. Mais après des années de mise en œuvre, la potion est devenue trop amère pour les soignants. « Nous sommes arrivés à un point insupportable, écrit la neurologue Sophie Crozier dans une tribune à Libération, le 19 décembre. Nous abîmons nos hôpitaux, nous abîmons les gens, et je ne peux me résigner à voir l’hôpital couler ainsi… »

    Et la situation pourrait se tendre davantage ces prochaines années. Pour répondre à des déficits qui devraient atteindre cette année entre 1,1 et 1,3 milliard d’euros, les plans de suppressions de postes se multiplient. Dans les hôpitaux de Marseille, Nancy et Tours, des centaines d’emplois sont sur la sellette. A Cherbourg, l’hôpital pourrait devoir économiser 190 équivalents temps plein d’ici à 2022, soit 10 % du total de ses effectifs.

    Après avoir réduit 405 postes équivalents temps plein cette année, l’Assistance publique-Hôpitaux de Paris (AP-HP) a annoncé, fin novembre, que 779 postes non médicaux (dont 240 dans les services de soins) allaient être supprimés en 2019 au sein de ses 39 établissements. « Une diminution des effectifs de nature à compromettre la bonne exécution des missions de service public hospitalier », a estimé le conseil de surveillance de l’AP-HP le 17 décembre. « On ne peut pas baisser les effectifs de soignants » car « ces équipes sont sous une énorme tension, et on ne peut pas leur imposer un rythme d’activité encore plus élevé », avait pourtant assuré la ministre de la santé Agnès Buzyn il y a un an.

    Las. Sous le couvert de l’anonymat, un directeur de groupe hospitalier explique que le non-remplacement de quasiment tous les départs en retraite de personnel soignant est sa « seule marge de manœuvre ». « Je redéploie mes effectifs avec deux exigences : la guérison du patient et le respect des contraintes de la Haute Autorité de santé, dit-il. Charge aux équipes de choisir ensuite elles-mêmes ce qu’elles vont faire différemment ou ne plus faire. » Et de confesser : « Depuis dix ans, je fais du cost killing. Partout où je passe, les emplois ont baissé. »

    Ces redéploiements se font généralement très vite ressentir. La disparition du poste d’infirmière-référente chargée de la formation, l’allégement ou la suppression du « pool » de remplacement, le non-remplacement de la secrétaire du service pendant ses vacances fragmentent et alourdissent le travail de ceux qui restent. « On a des tâches saccadées, on n’arrive pas à faire des trucs jusqu’au bout, c’est terrible, témoigne une infirmière de l’AP-HP. On se retrouve à faire plein de choses qui ne sont pas du soin. Ces tâches annexes nous parasitent, nous empêchent d’être au lit du patient. On travaille à flux tendu tout le temps. On est obligé de prioriser nos soins, par manque de temps… »

    #paywall

    • [...] Les syndicats ne cessent de dénoncer cette situation. En mai, ils l’ont fait en s’appuyant sur un document interne du ministère de la #santé où se trouvait détaillée la façon dont devait être menée une économie de 1,2 milliard d’euros sur la masse salariale des établissements publics de santé sur la période 2018-2022. « Ce sont 30 000 postes qui seraient supprimés sur cinq ans », en avait déduit FO-Santé. Dans les faits, ce sont aussi des #emplois qui ne sont pas créés.

      Emplois transversaux
      De plan de restructuration en plan de #restructuration, l’#hôpital serait aujourd’hui « à l’os ». « Il y a un moment où on ne peut plus améliorer la productivité. On est en train d’arriver à cette limite », souligne un bon connaisseur du monde hospitalier. Un constat formulé sans détour par Jérémie Sécher, le président du Syndicat des manageurs publics de santé (SMPS), une structure qui représente des directeurs d’hôpitaux : « A la suite des plans d’économies qui se succèdent depuis dix ans, il y a pas mal de services où on n’a plus de marges de manœuvre pour réguler la masse salariale sans mettre en question la qualité et la sécurité des soins. »

      Face à ces accusations, Mme #Buzyn, comme Marisol Touraine avant elle, oppose des chiffres de la fonction publique hospitalière en hausse régulière. « Contrairement à ce que l’on ressent dans les hôpitaux, le nombre de fonctionnaires de la fonction publique hospitalière augmente tous les ans de 1,5 % pour atteindre 1,2 million de fonctionnaires aujourd’hui car en réalité, il y a des établissements qui se créent », a fait valoir Mme Buzyn le 17 octobre au Quotidien du médecin. En réalité, cette hausse du nombre de fonctionnaires hospitaliers est plus modérée : elle a été de 0,7 % entre 2016 et 2017 (contre 0,4 % l’année précédente), selon des chiffres publiés par l’Insee le 13 décembre. Beaucoup des emplois créés sont transversaux (équipe mobile d’antibiothérapie, équipe d’hygiène, codage des actes, etc.) et ne le sont pas « #au_lit_du_malade », ce qui renforce la perception de ceux qui s’y trouvent de travailler de plus en plus à flux tendu.

      « L’augmentation de l’activité a été décorrélée de l’augmentation des effectifs » , souligne Anne Gervais, hépatologue à l’hôpital Bichat, à Paris, et membre du comité de défense de l’hôpital public. Selon la base Statistique annuelle des établissements de santé (SAE), le nombre de personnels non médicaux (infirmières, aides-soignantes) à l’hôpital a augmenté de 0,7 % entre 2013 et 2017, passant de 765 078 à 770 939 équivalents temps plein. Parallèlement, selon les calculs de Mme Gervais, le nombre de patients suivis pour cancer a augmenté de 10,6 %, le nombre de ceux suivis pour Alzheimer de 9,4 % et de ceux hospitalisés de plus de 80 ans de 17,4 %. Un décalage qui raconte à lui seul l’ampleur de la crise.
      François Béguin

      « L’hôpital public est à l’agonie » , Rémy Nizard , 4 avril 2018 (cité par le papier ci-dessus)

      Le professeur Rémy Nizard constate, dans une tribune au « Monde », que l’hôpital public est à bout de souffle. Il identifie six pistes à suivre afin de sortir de la situation actuelle, parmi lesquelles la remise en cause des 35 heures pour les médecins salariés moyennant des compensations.

      « La #tarification_à_l’activité, qui a permis un gain de productivité nécessaire à l’époque où elle a été initiée, mène à l’épuisement des soignants et au désengagement qui s’y associe » (Hôpital de la Pitié-Salpétrière).

      Tribune. L’hôpital public est une cocotte-minute prête à exploser. Après trente-quatre ans d’observation de tous les changements, parfois voulus mais le plus souvent subis, il convient de dresser un bilan très préoccupant.
      Je dois constater que le système est à l’agonie, il s’est épuisé, s’est échoué maintenant, sur la tarification à l’activité qui a constitué l’estocade. Ce mode de financement a eu la vertu de remettre un sens économiquement pertinent à l’activité hospitalière, il a permis un #gain_de_productivité nécessaire à l’époque où il a été initié. Mais aujourd’hui à force de pression et d’injonctions paradoxales, il mène à l’épuisement des soignants et au désengagement qui s’y associe.

      Les tragiques événements dans différents hôpitaux en France, même s’ils ne peuvent être analysés à la seule aune du #travail hospitalier intense, sont des signaux d’alarme à prendre en compte. Comme responsable élu d’une communauté médicale, je vois tous les jours les conséquences de cette course sans fin vers un idéal inaccessible : faire parfait pour tout avec des moyens qui, par la force de l’objectif national de dépenses d’assurance-maladie (Ondam), diminuent.

      Le royaume de l’#injonction_paradoxale
      La catastrophe de l’application des 35 heures a désorganisé un équilibre fragile en limitant les nécessaires temps d’échanges et de lien social. L’hôpital est devenu le royaume de l’injonction paradoxale. Ceci s’exprime à tous les niveaux dans tous les métiers. Les cadres, tout d’abord, pris entre le marteau d’une direction exigeante et l’enclume d’#infirmiers coincés par un travail lourd physiquement et émotionnellement qui leur font remonter leurs difficultés.

      Les infirmiers et infirmières, eux aussi pris entre des patients dont l’exigence est légitimement montée, des cadences accélérées liées aux progrès médicaux qui diminuent le temps passé par les patients à l’hôpital au profit d’une rotation plus rapide, des moyens humains rationnés au plus près. Ces difficultés sont payées au prix fort, l’#absentéisme augmente (au-delà de 8 %), aggravant encore davantage les problèmes financiers, la retombée de cela est une pression accrue sur la rentabilité de ceux en place, le mécanisme infernal est ici enclenché.

      Les directeurs, patrons de l’hôpital, comme l’a voulu la loi Hôpital, patients, santé, territoires (HPST) [de 2009], réalisent aujourd’hui leur impossibilité d’agir sur le réel sans la collaboration active des #médecins qui ont le pouvoir d’appuyer sur l’accélérateur ou le frein de l’activité. Certaines spécialités ont même le pouvoir de prendre en otage un hôpital entier de par leur activité transversale.
      Les directeurs sont pris entre une administration supérieure, l’Agence régionale de santé (ARS), bras armé du ministère, qui exige une rationalisation, et ces médecins maîtres de leur recrutement et/ou de leur temps de travail. La tentation du contrôle absolu en comptant les heures des médecins a été parfois appliquée, mais là encore c’est une spirale infernale : quand les médecins appliquent avec exactitude la réglementation horaire, cela conduit à diminuer encore davantage les capacités opérationnelles des hôpitaux, car spontanément, dans la majorité des cas, ils ne comptaient pas trop leurs heures.

      Certaines structures doivent fermer
      Les médecins, enfin, ne trouvent plus le sens de leur travail, tout a changé en quelques années : un statut social en berne, une productivité devenue mètre étalon, des patients devenus parfois #clients. Même les hospitalo-universitaires, « les mandarins », sont pressés de toutes parts pour trouver la solution à une équation impossible : la quadruple mission de soin, de recherche, d’enseignement et de conduite des équipes.

      Toutes ces activités sont, une à une, évaluées, décortiquées à coup de nombre de patients vus en consultation ou opérés, de nombre de publications transformées en points SIGAPS (système d’interrogation, de gestion et d’analyse des publications scientifiques), de rendus de notes données par les étudiants ou encore de mesures de bien-être de l’équipe que vous dirigez. Normal direz-vous, c’est le lot des postes « à responsabilité ».

      Mais là, trop c’est trop, le nombre de « blues du professeur » augmente de façon alarmante, conduisant certains à la démission, d’autres au désengagement ou, au pire, au #burn-out.
      Il existe des remèdes à cet état. Il faut les mener de front, accepter d’être politiquement courageux et intellectuellement audacieux. La médecine moderne, de pointe, ne peut se faire partout, elle nécessite compétence, moyens matériels et humains au-delà d’une norme bonne pour tous. Ceci signifie que certaines structures doivent fermer, le nombre d’hôpitaux, universitaires ou non, est trop important et leur rôle trop large.

      Des statuts inadaptés
      Les équipes qui composent ces hôpitaux universitaires, en particulier, sont souvent trop petites et ne permettent pas à ceux qui en ont la responsabilité de remplir les quatre missions de soins, de recherche, d’enseignement et d’animation. Il est certain qu’à l’image de la suppression de la taxe d’habitation les élus locaux se lèveront d’un bond, comme ils l’ont déjà fait, si leur hôpital est menacé de transformation ou de fermeture.

      Le premier employeur du territoire qu’il est souvent s’élèvera sans tenir compte de la qualité de ce qui est fait, de l’isolement de médecins prenant des gardes en nombre indécent, sans égard pour la dépense publique, en engageant des mercenaires à prix d’or. Comme à la SNCF les statuts ne sont plus adaptés à notre nouveau monde, il existe une absolue nécessité d’évoluer ; il va falloir du courage, de l’imagination, de l’audace.

      Des pistes existent.
      Ce sont : l’acceptation qu’un seul individu ne peut pas mener de front les quatre missions ; une nécessaire remise en cause des 35 heures pour les médecins salariés moyennant des compensations adaptées ; une modification de la gouvernance hospitalière dans le sens d’une simplification de la prise de décision et une diminution des tâches non liées à l’activité de soin ; une délégation de tâches pour des soignants ayant eu une formation complémentaire avec une rémunération adaptée ; une valorisation du travail collaboratif avec la médecine de ville en ouvrant largement les portes de l’hôpital pour une utilisation optimale des si coûteux plateaux de blocs opératoires ou d’imagerie ; le développement des outils numériques, qui seront, personne n’en doute, source de sécurité et de productivité.

      Sans tout cela, les risques sont que nos soignants soient moins engagés, que notre population soit moins bien soignée, et peut-être, le pire, que notre recherche biomédicale ne soit plus en mesure d’être présente dans la compétition mondiale.
      Rémy Nizard (Chef du service de chirurgie orthopédique et traumatologie, hôpital Lariboisière)

      Les urgences hospitalières confrontées à une surchauffe inhabituelle sur l’ensemble du territoire

      https://www.lemonde.fr/sante/article/2018/03/17/les-urgences-confrontees-a-une-surchauffe-inhabituelle-sur-l-ensemble-du-ter
      Un dispositif exceptionnel a été activé dans 97 hôpitaux sur 650 pour répondre à un afflux de patients depuis début mars. Faute de lits, beaucoup passent la nuit sur des brancards.

  • En Suède, l’hôpital au bord de la crise de « nurses » _ AFP - 3 Septembre 2018 - Romandie.com
    https://www.romandie.com/news/ZOOM-En-Su-de-l-h-pital-au-bord-de-la-crise-de-nurses/950353.rom

    Riche pays d’Europe du nord qui s’enorgueillit de décerner chaque année le prix Nobel de médecine, la Suède jouit de l’un des systèmes de santé les plus performants au monde. Mais il faut parfois attendre des mois, voire des années pour un rendez-vous avec un spécialiste.

    Les 10 millions de Suédois sont parmi les mieux soignés du monde, font des centenaires à ne plus savoir qu’en faire et le taux de survie des patients atteints de cancer est l’un des plus élevés d’Europe, selon l’OCDE.

    Et pourtant, l’exaspération est telle que la dégradation du réseau de soins primaires et de l’hôpital, avant tout dû à une pénurie criante d’infirmières, est la principale préoccupation des Suédois à l’approche des législatives du 9 septembre.

    Alors qu’ils acquittent un impôt sur le revenu de 50% en moyenne, « le risque est réel qu’ils perdent peu à peu leur confiance dans l’Etat-providence », s’alarme Lisa Pelling du cabinet d’études Arena Idé.

    Certaines enquêtes d’opinion mettent en avant l’immigration comme priorité numéro un des Suédois, mais les deux thématiques sont liées.


    Un panneau de la route non officiel montrant une femme en train d’accoucher pour dénoncer la fermeture d’une maternité près de Solleftea dans le nord de la Suède le 9 août 2017 / © TT News Agency/AFP / Izabelle NODFJELL

    Pour certains, l’arrivée de 400.000 demandeurs d’asile depuis 2012 aggrave les problèmes de l’hôpital liés à la pénurie d’infirmières et de spécialistes. Pour d’autres, elle répond au défi démographique d’un pays vieillissant qui aura de plus en plus besoin de petites mains pour s’occuper de ses aînés.

    « Dans cinq ans seulement, la population des plus de 75 ans augmentera de 70.000 personnes (...), ce qui veut dire aussi plus de maladies », prévient le Premier ministre sortant, le social-démocrate Stefan Löfven.

    En Suède, la loi prévoit un délai maximum de 90 jours pour une opération ou une consultation avec un spécialiste. Malgré cela, un tiers des patients attend plus longtemps.

    Asia Nader est de ceux-là. Diagnostiquée avec une malformation du coeur, elle a dû attendre un an pour se faire opérer.


    « J’ai complètement sombré quand je l’ai appris », se souvient la jeune femme atteinte de cardiopathie congénitale, après l’opération qui a finalement eu lieu en juin, un mois avant son 23ème anniversaire.

    Accoucher dans la voiture
    La loi garantit aussi de pouvoir consulter un généraliste dans les... sept jours, le délai légal le plus long en Europe après le Portugal (15 jours), indique un rapport du cabinet d’études Health Consumer Powerhouse.

    Dans la région à faible densité démographique du Jämtland (nord-ouest), plus de la moitié des patients doivent attendre plus de 90 jours pour se faire opérer, contre 17% à Stockholm.

    Si l’accès à un médecin généraliste est assuré à peu près partout, difficile en revanche de voir toujours le même. Car pour faire monter les enchères, praticiens et infirmières préfèrent recourir à des cabinets d’intérim qui monnayent leur service.

    « Chaque fois que vous en avez besoin, vous consultez un nouveau médecin. Cela nous fait perdre beaucoup de temps en matière de diagnostic et de suivi », déplore Heidi Stenmyren, présidente de l’Association des médecins suédois.

    Pour pallier les pénuries, les services de consultation à distance, sur internet, font florès.

    Pas moins de 80% des structures de santé en Suède manquent d’infirmières, selon l’Institut suédois des statistiques.


    En Suède, la loi prévoit un délai maximum de 90 jours pour une opération ou une consultation avec un spécialiste. Malgré cela, un tiers des patients attend plus longtemps.

    Lassées de faire des heures supplémentaires pour des salaires médiocres, des dizaines de milliers d’infirmières ont rendu leur blouse depuis le début de l’année, selon Sineva Ribeiro, cheffe de l’Association suédoise des professionnels de santé.

    Et comme ailleurs en Europe, la Suède voit naître sur son territoire de véritables déserts médicaux, pour des raisons budgétaires.

    A Solleftea, la ville d’origine du Premier ministre, l’unique maternité a fermé ses portes en 2017.

    La maternité la plus proche est désormais à 200 kilomètres et les sage-femmes ont dû lancer des formations à l’intention des futures mères pour leur apprendre à accoucher... dans la voiture, ce que certaines d’entre elles ont dû faire depuis.

    Le débat porte pourtant moins sur le manque de ressources financières que sur leur - mauvaise - utilisation.

    Ainsi à Stockholm, le chantier du New Karolinska University Hospital a-t-il fait scandale : alors que le contribuable a déboursé 61,4 milliards de couronnes (5,8 milliards d’euros) pour l’hôpital le plus cher du monde, des patients ont dû être transférés vers d’autres structures, certains services étant incapables de les accueillir.

    Imparfait, certes. Mais la Suède bénéficie du « 4e meilleur système de santé au monde », s’agace le Premier ministre.

    #Suède #État-providence #démocratie #nationalisme #élections #suède #réfugiés #société #santé #hôpital #hopital #médecine #fric #austérité #infirmières #médecine #soins #chirurgie #déglingue

  • Ehpad : le système de soins en accusation / Les maisons de retraite, " machines à broyer " Le Monde (mel transmis)

    Sept syndicats appellent à la grève mardi 30 janvier dans les établissements d’hébergement pour personnes âgées dépendantes (#Ehpad)

    Ce mouvement de protestation est soutenu par l’association des directeurs d’établissement, qui réclament eux aussi davantage de moyens

    Aides-soignants, infirmiers, cadres de santé : les personnels déplorent une dégradation de leurs conditions de travail dans le privé et dans le public

    " Je ne souhaite à personne d’être brusqué comme on brusque les résidents ", témoigne une ex-salariée d’une maison de retraite de l’Ardèche

    " Nous devons effectuer douze à quinze toilettes par matinée ", raconte une aide-soignante, dénonçant des cadences intenables

    Les maisons de retraite, " machines à broyer "

    Confrontés à des conditions de travail éprouvantes, les salariés des Ehpad sont appelés à la grève, mardi

    LES CHIFFRES
    728 000
    C’était le nombre de résidents accueillis dans des -établis-sements d’hébergement pour personnes âgées dépendantes (Ehpad) fin 2016.

    85 ans
    La moyenne d’âge à l’entrée en établissement.

    6 pour 10
    C’est le taux moyen d’encadrement. Les directeurs d’Ehpad en réclament 8 pour 10, les syndicats de salariés 10 pour 10. Les mieux dotés sont les établissements -publics rattachés à un hôpital.

    Les chambres étaient neuves, les murs peints de couleurs vives. On avait mis des tablettes numériques et même un aquarium dans le " lieu de vie " de cette maison de retraite de Provence-Alpes-Côte d’Azur. Stéphanie Crouzet, aide-soignante de 40 ans, espérait avoir trouvé enfin " un lieu où on me laisserait le temps de faire convenablement mon travail ". Un mois plus tard, les poissons étaient morts. On les avait laissés au fond du bocal, faute d’entretien.Un soir, au moment du coucher, une résidente avait confié avoir vécu " un grand luxe, parce qu’elle avait eu le droit à une douche ". C’était sa sixième en six mois.

    " L’ascenseur parlait plus souvent aux résidents que le personnel de soin ", résume l’aide-soignante,qui a préféré arrêter les remplacements dans cet établissement privé, où la chambre coûte au moins 3 000 euros par mois à un résident. Une situation extrême, de l’aveu de Stéphanie Crouzet, mais qui reflète la malaise grandissant du personnel soignant des établissements d’hébergement pour personnes âgées dépendantes (Ehpad).

    Aide-soignants, infirmiers, cadres de santé : ils sont nombreux à déplorer la dégradation de leurs conditions de travail en maison de retraite, dans le privé comme dans le public. A partager ce sentiment que " tout est fait pour inciter à la maltraitance ", constate Stéphanie Crouzet, du haut de ses onze ans d’expérience.

    " Tête, mains, cul "
    Mardi 30 janvier, tous sont appelés à une grève nationale intersyndicale inédite pour dénoncer " l’insuffisance des effectifs et des moyens ", dans ce secteur où les taux d’accidents du travail et d’absentéisme sont trois fois supérieurs à la moyenne.Un appel à la mobilisation maintenu malgré l’annonce par la ministre de la santé, Agnès Buzyn, du déblocage de 50 millions d’euros, en plus des 100 millions d’euros déjà accordés fin décembre. Un " pansement pour une jambe de bois ", selon les syndicats.

    Dans un appel à témoignages publié sur LeMonde.fr, nombre d’entre eux, particulièrement éreintés et en colère, nous ont fait remonter leurs conditions de travail, comme ils le font depuis plusieurs semaines sur les réseaux sociaux sous le hashtag #BalanceTonEhpad. Certains ont préféré l’anonymat, d’autres ont choisi de publier leur nom, pour ne plus cacher leur malaise.

    Car travailler dans un Ehpad, c’est pratiquer une gymnastique comptable de tous les instants. Jessica Colson, 34 ans, a fait et refait ses calculs. Soixante-trois résidents dans son établissement privé de Moselle. Quatre aides-soignantes le matin, deux l’après-midi. Ce qui laisse quatre minutes par patient pour lever, faire sa toilette matinale, changer et habiller ; trois minutes et vingt secondes pour déshabiller, changer, soigner, et coucher.

    Pour tenir le rythme, " on expédie en priant pour qu’il y ait le moins d’imprévus, de demandes des patients qu’on devra faire semblant de ne pas entendre ", dit Olga C., 36 ans, qui travaille dans un établissement en Bretagne. Pour la toilette, c’est la " méthode #TMC ", pour " tête, mains, cul ". Une situation qui ne fait qu’empirer avec le départ de deux de ses collègues, embauchées en contrats aidés. Depuis, Olga C. dit attendre le jour où " on mettra tous les résidents sous la même douche avec un jet pour aller plus vite ".

    Sans cesse, on tire, on saisit sans précautions, parce qu’on n’a pas le temps. Les bleus apparaissent parfois sur les bras de ces résidents à la peau qui marque si facilement. " On dit qu’ils sont tombés ", raconte Olga C.

    A table, le rythme n’est pas moins intense. Justine L., 29 ans, dont dix ans comme aide-soignante, raconte ces repas avec " quinze personnes à faire manger en une heure – ça fait quatre minutes par tête ". Alors parfois, certaines abdiquent. C’est une assiette où l’entrée, le plat chaud et le fromage sont mélangés pour réduire la durée des repas. Une " bouillie qu’on ne servirait pas à un chien ", regrette Justine L., qui désespère de " voir certains résidents se laisser mourir de faim ". " A un moment, la société s’est dit : “Ce n’est plus l’humain qui est important” ", analyse l’aide-soignante, dont la mère faisait le même métier, " mais pas dans les mêmes conditions ".

    Les traitements médicaux n’échappent pas à cette course effrénée. " Je bâcle et agis comme un robot ", raconte Mathilde Basset, infirmière de 25 ans, seule en poste pour 99 résidents répartis sur les trois étages de son Ehpad de l’Ardèche, sis au sein même de l’hôpital. " Je ne souhaite à personne d’être brusqué comme on brusque les résidents ", dit celle qui a préféré quitter fin 2017 cette " usine d’abattage qui broie l’humanité des vies qu’elle abrite, en pyjama ou en blouse blanche ", comme elle l’a expliqué dans un post Facebook partagé plus de 20 000 fois.

    Bien sûr, la situation n’est pas aussi dégradée dans tous les Ehpad de France. Nombre de soignants rappellent combien " les choix de la direction peuvent limiter la casse " ou que " des manageurs parviennent à rendre l’environnement de travail respirable ". Tous pourtant déplorent un rythme de travail devenu infernal au fil des ans.

    Car la pression n’est pas seulement sur les cadences. Chaque dépense est scrutée. Pascal N. a travaillé pendant trois ans comme cadre de santé dans un établissement public du Vaucluse. " Il fallait toujours faire avec, ou plutôt sans ", résume-t-il. Economies sur les pansements, sur les séances de kiné, les activités.

    Dans certains établissements, une règle tacite est imposée : trois " protections " par jour par résident, pas plus – souvent, les stocks sont mis sous clé. Les culottes que les résidents peuvent baisser eux-mêmes sont dix centimes plus chères ? " Qu’ils fassent dans leur couche, on viendra les changer ", donne-t-on pour consigne à Pascal N. Tant pis si cela les rend incontinents, et plus dépendants encore d’une équipe en sous-effectif chronique. " Le fric, c’était la seule logique ", dit celui qui est reparti travailler en psychiatrie, " où il n’y a pas de pression de rendement ".

    " Burn-out "
    Quelle place dans ce contre-la-montre quotidien pour les discussions, les suivis personnalisés ? Stéphanie Crouzet continue de se battre pour grapiller ces instants. Comme avec cette résidente atteinte de Parkinson qu’elle a tenté de faire marcher quelques minutes chaque jour. Jusqu’à ce que sa direction lui rétorque que " cette dame est entrée sous conditions que son état ne s’améliore pas ". " Il ne fallait pas qu’elle repose le pied par terre ", raconte l’aide-soignante. Sa collègue, elle, reçoit pour consigne d’arrêter de sourire : " Vous respirez le bonheur, ça vous rend pas crédible auprès des résidents. "

    " C’est à celle qui s’en fout le plus, et quand on s’en fout pas, on devient fou ", résume Mélanie L., aide-soignante dans le Nord de la France. Elle s’attriste de voir des personnels arrivés là seulement parce que ça embauchait, sans " vocation ni envie de prendre soin ". Les difficultés de recrutement sont immenses pour les directions : même les écoles d’aide-soignants ne font plus le plein.

    A l’inverse, Mélanie L. dit avoir toujours eu " le goût des vieux ". De leurs cheveux fins et de leurs rides qui font " comme des cartes d’un pays étranger ". Toucher leur peau, la laver, en prendre soin, " c’est un peu comme si je partais en voyage ", dit-elle souvent à ses proches. Depuis deux mois pourtant, cette femme de 46 ans, dont vingt-six dans des maisons de retraite, a pris de la distance. " Burn-out ", a répondu son médecin, quand elle lui a raconté ses insomnies, ses tendinites à répétition, ses douleurs de dos, sa " boule de nerfs au ventre ", ses infections urinaires sans fin. " Le corps qui sort le drapeau blanc ", dit-elle pudiquement pour résumer une bataille qui durait pourtant depuis plusieurs années déjà.

    Pour Jessica Colson, la " machine à broyer " est en place. L’aide-soignante dit avoir " souvent envie de tout lâcher ". Quand elle en parle, elle ne dit plus " si je craque ", mais " quand je craquerai ".

    Charlotte Chabas

    Personnels et directeurs unis pour une mobilisation inédite

    L’octroi, jeudi 25 janvier, d’une nouvelle enveloppe de 50 millions d’euros par le gouvernement n’a pas convaincu

    C’est une première. Mardi 30 janvier, les personnels des maisons de retraite sont appelés à la grève par sept syndicats (CGT, CFDT, FO, UNSA, CFTC, CFE-CGC et SUD) avec le soutien de l’Association des directeurs au service des personnes âgées (AD-PA). Des débrayages dans les établissements et des rassemblements sont prévus dans toute la France, dont un devant le ministère de la santé, à Paris. Il n’est pas prévu que les représentants syndicaux y soient reçus.

    " Il est inadmissible de ne pas prendre en compte la souffrance au quotidien que subissent professionnel, et par là même personnes âgées et familles ", commentent les organisations syndicales dans un communiqué publié dimanche 28 janvier.

    Voici plusieurs mois qu’elles sonnent l’alarme sur la détérioration des conditions de travail dans les Etablissements d’hébergement pour personnes âgées dépendantes (Ehpad), et par conséquent la dégradation de l’accompagnement des résidents. Ces derniers arrivent en établissement de plus en plus âgés, atteints de handicaps physiques et de troubles psychiques de plus en plus importants. Le personnel n’est pas assez nombreux ni assez préparé.

    " Nous devons effectuer douze à quinze toilettes par matinée, a témoigné Sandrine Ossart, aide-soignante dans un Ehpad de Nantes et militante CGT, le premier syndicat du secteur, jeudi, lors d’une conférence de presse. Pour le lever, l’habillage et la mise au fauteuil, nous avons dix minutes. A l’école, il nous en fallait quarante. On sert les aliments mixés parce que ça va plus vite. Les résidents ne sortent plus. Ils font leurs besoins dans leurs protections parce qu’on n’a pas le temps de les accompagner aux toilettes. "

    " On arrive au bout "
    " Cela fait des années que cette mobilisation sociale couve. Le système ne tient plus que sur les bonnes volontés des salariés, on arrive au bout, commente Claude Jarry, de la Fédération nationale des associations de directeurs d’établissements et services pour personnes âgées. Je me réjouis que les salariés lancent ces revendications et j’espère que les familles vont aussi faire les mêmes demandes. "

    La première réclamation du mouvement est l’augmentation du taux d’encadrement en Ehpad. Variable selon les établissements, il est aujourd’hui en moyenne de 6 soignants pour 10 résidents. Les syndicats réclament le " un pour un " (ou 10 soignants pour 10 résidents). Aujourd’hui, un tiers des établissements n’ont pas de médecin coordinateur. " C’est tout simplement illégal ! ", relève Jean-Paul Zerbib, au nom de la CFE-CGC.

    La réforme du financement des établissements, votée sous le précédent quinquennat et mise en œuvre par le gouvernement, est en outre dans le viseur. " Cela consiste à prendre aux moins pauvres, qui ont un ratio d’encadrement de 7 pour 10, pour donner aux plus pauvres, qui sont à 5,5 ", s’insurge Pascal Champvert, président de l’AD-PA. Les syndicats demandent également un renforcement de l’attractivité des métiers du secteur, qui peine à recruter.

    La ministre de la santé, #Agnès_Buzyn, tente depuis plusieurs jours d’éteindre l’incendie. Elle s’est élevée, vendredi, lors d’une visite dans un établissement relativement bien doté de Chevreuse (Yvelines), contre un " “Ehpad bashing” qui pointe des dysfonctionnements ". " Je ne veux pas les nier, mais ce ne sont pas des généralités ", a-t-elle affirmé, annonçant le lancement d’une enquête de satisfaction en Ehpad, comme il en existe à l’hôpital.

    Mme Buzyn s’est en outre engagée à ce que la réforme de la tarification n’aboutisse à " aucune réduction de postes ". Un médiateur sera nommé afin de suivre sa mise œuvre. La ministre a rappelé que les moyens alloués aux Ehpad ont été augmentés de 100 millions d’euros dans le budget 2018 de la Sécurité sociale, dont 72 millions d’euros pour créer des postes de soignants, et 28 millions pour les établissements en difficulté. Une enveloppe supplémentaire de 50 millions d’euros a été annoncée pour ces derniers, jeudi. En vain, l’appel à la mobilisation a été maintenu.

    Ces mesures sont qualifiées par les syndicats de " broutilles " et de " provocation " au regard des besoins. " Il ne s’agit pas d’un problème qui concerne seulement quelques établissements en difficulté, mais du sort que veut réserver la nation à ses aînés ", affirme Jean-Claude Stutz, secrétaire national adjoint de l’UNSA Santé-sociaux. Une réforme globale du financement du secteur, réclamée par les syndicats, a été annoncée par plusieurs gouvernements, mais n’a jamais été réalisée.

    Ch. C. et Gaëlle Dupont

    #santé #retraités #cadences #Burn-out #aides_soignantes #infirmières #vieux #broutilles #gouvernement

  • A Day in the Life of an NHS Nurse - How Our Government Is Failing Both Patients and Nurses | naked capitalism
    https://www.nakedcapitalism.com/2018/01/day-life-nhs-nurse-government-failing-patients-nurses.html

    How the ‘Market’ Intensifies Nurses Workloads

    The effects of years of austerity on hospital budgets, combined with the market mechanisms which allocate NHS funding, are also driving the workload up for nurses. Hospitals receive a payment (a tariff) per patient admission. Hospitals facing #budget restrictions and reductions in bed numbers are utilising medical and surgical advancements to improve patient care, but also to minimise time as inpatients. This is done to maximise through flow of patients so they can receive as many tariff payments and maximise their income at times of budget restrictions. They do this so they can afford to pay staff and continue to maintain services, but it drives up nurses workload to an unprecedented level. Whereas 15-20 years ago patients would stay on wards for weeks at a time till they were full recovered, now it’s common for patients to be discharged home as soon as they are stable and not acutely unwell, the remainder of their care being carried out in the community.

    #hopitaux #infirmières #capitalisme #santé

  • CHU de Tours : « Nous réclamons le droit d’être fier d’être des soignants »
    https://larotative.info/chu-de-tours-nous-reclamons-le-2474.html

    https://larotative.info/home/chroot_ml/ml-tours/ml-tours/public_html/local/cache-vignettes/L700xH489/arton2474-17d47-b4471.jpg?1508829335

    Lettre ouverte d’une infirmière du CHU de Tours concernant le plan de restructuration de l’hôpital, la dégradation des conditions de travail et la dégradation de la qualité de prise en charge des patients.

    Aujourd’hui nous avons bien compris que l’hôpital, outre sa fonction de service public, doit aussi se comporter comme une entreprise générant des profits, et qu’afin de recueillir ces dits profits, il faut rentabiliser la prise en charge non plus des patients et patientes, mais des clients et clientes. Et nous comprenons bien que pour des gestionnaires, écouter, tenir une main, rassurer, parfois essuyer des larmes et même accompagner les derniers souffles ne rapportent rien d’un point de vue financier. Mais pour nous, tout cela c’est notre quotidien.

    Comment assurer une éducation thérapeutique de qualité à nos patients en courant d’une chambre à l’autre ? Comment encadrer les personnels de demain, quand nous-mêmes, vous nous obligez par manque de temps, manque de moyens, manque d’effectifs à ne plus respecter scrupuleusement les protocoles de soins et d’hygiène ?

    Toutes ces interrogations sont pour nous source de stress, de malaise, de mal-être, d’insécurité au sein de notre travail. Nous nous soucions de la qualité de prise en charge de nos patients, nous demandons de respecter notre droit à travailler dans de bonnes conditions et en sécurité. Et pour cela, nous demandons des moyens humains pour le faire.

    #pénibilité #care #maltraitance #hôpital