• La Terra Nuova - Inchiesta di Nicola Adelfi (1952)

    Documentario che illustra i progressi economici nel Mezzogiorno avvenuti nei primi anni del secondo dopoguerra.


    https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL3000052960/1/la-terra-nuova-inchiesta-nicola-adelfi.html?startPage=0&jso{%22jsonVal%22:{%22query%22:[%22emigranti%20clandestini%22],%22fieldDate%22:%22dataNormal%22,%22_perPage%22:20}}

    #archive #histoire #Italie #Italie_du_Sud #modernisation #agriculture #misère #progrès #investissements #routes #infrastructure_routière #puits #machines_agricoles #villages_ruraux #film #vidéo #Gaudiano #bonification #paysage
    On parle de «#marche_vers_le_sud»
    #colonisation

  • Gli attivisti eritrei denunciano la Ue : “Finanzia il lavoro forzato”

    Grazie alle risorse del “#Trust_fund” per l’Africa, la Commissione europea ha stanziato 20 milioni di euro per la costruzione di una strada che collega i porti eritrei al confine etiope. Tra i lavoratori coinvolti nel progetto anche i giovani costretti alla leva obbligatoria a tempo indeterminato.

    L’Unione europea sta finanziando con un contributo di 20 milioni di euro il progetto per la costruzione di un’importante arteria stradale in Eritrea in cui la manodopera è formata in parte da giovani sottoposti al cosiddetto “National service”. Ovvero ragazzi e ragazze che vengono reclutati nell’ambito del servizio militare e civile obbligatorio, previsto nel Paese per tutti i cittadini dai 18 anni d’età (ma secondo molte denunce il reclutamento avviene anche prima). Oltre all’addestramento militare, i coscritti sono spesso costretti a lavorare come manodopera a bassissimo costo nella costruzione di infrastrutture (strade, ospedali, alberghi) o nelle miniere del Paese. Una prassi che diversi rapporti delle Nazioni Unite e di organizzazioni per i diritti umani come Human Rights Watch hanno definito un “crimine contro l’umanità” equiparandolo, di fatto, al lavoro forzato e alla riduzione in schiavitù. Il finanziamento europeo è stato erogato attraverso le risorse del “Trust Fund” per l’Africa.

    L’accusa alla Commissione europea arriva dalla “Foundation Human Rights for Eritreans” (FHRE), un’associazione con sede in Olanda che riunisce attivisti e rifugiati in fuga dal regime di Asmara. Il 1° aprile, tramite uno studio legale di Amsterdam, l’associazione ha inviato una lettera alla Commissione europea per denunciare questa situazione e chiedere un incontro. Se non ci sarà una risposta entro il 15 aprile o se l’offerta di incontro non verrà presa in considerazione, la federazione procederà con le azioni legali. “È inaccettabile che l’Unione europea finanzi un progetto che utilizza manodopera forzata -sottolinea Mulueberhan Temelso, direttore dell’FHRE-. L’Eritrea è una prigione a cielo aperto, chi è sottoposto alla coscrizione obbligatoria vive in condizioni molto dure e l’Europa è perfettamente a conoscenza di questa situazione”.

    Nella documentazione relativa al progetto (https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/sites/euetfa/files/t05-eutf-hoa-er-66_-_eritrea_road_rehabilitation.pdf) per la costruzione della strada (che andrà a collegare i porti eritrei con l’Etiopia), pubblicata sul sito del “Trust fund” vengono identificate tre tipologie di lavoratori: “Professionisti del Governo, quelli del ‘National service’ e quelli mobilitati dalle comunità locali”. “Sorprendentemente, l’Europa è chiaramente a conoscenza di questa situazione e la accetta -scrive nella lettera Emiel Jurjens, l’avvocato che sta promuovendo la causa degli attivisti eritrei-. Il ‘Trust fund’ semplicemente accetta l’affermazione del governo eritreo secondo cui non vi saranno riforme a breve termine del servizio nazionale dal momento che le attuali realtà economiche lo escludono”. La sola preoccupazione espressa dal documento europeo riguarda i rischi legati alla “bassa qualità” del lavoro a causa dell’impiego di una manodopera non-qualificata o poco specializzata”.

    L’avvocato Jurjens inoltre evidenzia come non ci siano evidenze del fatto che il recente accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia abbia avuto un impatto positivo sul miglioramento dei diritti umani in Eritrea. Il 16 marzo 2019, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Kate Gillmore, ha chiesto all’Eritrea di mettere fine al servizio nazionale obbligatorio: “La durata della leva va ben al di là dei 18 mesi previsti dalla legge e, di fatto, è a tempo indeterminato. Inoltre spesso si svolge in condizioni estremamente lesive dei diritti umani, che possono includere il ricorso alla tortura, alle violenze sessuali e al lavoro forzato”. Il 28 marzo 2019, anche il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso la sua preoccupazione circa le accuse secondo cui i giovani sottoposti alla coscrizione obbligatoria “sono impiegati in varie attività lavorative, comprese le miniere o imprese di costruzione di proprietà privata ricevendo un salario estremamente basso o nullo”.

    “Finanziare progetti che fanno ricorso a manodopera forzata è una chiara violazione dei diritti umani -commenta l’avvocato Jurjens-. L’Europa deve cessare queste attività immediatamente e ripensare il suo approccio all’Eritrea. Chiediamo inoltre che la Commissione ci fornisca tutti i documenti relativi a questo progetto per indagare ulteriormente sulle modalità con cui sono state prese queste decisioni”.

    Il Fondo fiduciario europeo di emergenza per l’Africa (detto anche “Trust fund”) è stato lanciato nell’ottobre 2015 a La Valletta (Malta) con l’obiettivo di finanziare con rapidità iniziative e progetti per “affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari”. I destinatari di questi fondi sono 23 Paesi africani di origine e di transito dei flussi migratori. Dei circa 4 miliardi di euro destinati al “Trust fund”, circa 3,7 provengono dal Fondo sociale europeo di sviluppo e da altri strumenti finanziari dell’Unione per l’aiuto allo sviluppo nei Paesi terzi. Tuttavia, il Parlamento europeo, non ha modo di controllare né di verificare come vengono spesi questi soldi. Diverse inchieste giornalistiche e report pubblicati da organizzazioni non governative hanno messo in luce come i fondi del “Trust fund” siano stati spesso utilizzati per migliorare i controlli di polizia lungo le frontiere dei Paesi di transito.

    https://altreconomia.it/eritrea-ue-lavoro-forzato

    #travail_forcé #Erythrée #UE #EU #Europe #esclavage_moderne #trust_fund_for_africa #développement (sic) #route #infrastructure_routière #national_service

    La description de l’aide financière à l’Erythrée via le Trust fund :


    https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/sites/euetfa/files/t05-eutf-hoa-er-66_-_eritrea_road_rehabilitation.pdf

    N’oublions pas que le but du Trust Fund est de "combattre la migration irrégulière" :

    The European Union Emergency Trust Fund for stability and addressing root causes of irregular migration and displaced persons in Africa (EUTF for Africa) aims to foster stability and to contribute to better migration management, including by addressing the root causes of destabilisation, forced displacement and irregular migration.

    https://ec.europa.eu/trustfundforafrica/content/homepage_en

    ping @isskein

    • Eritrea: progetti finanziati con i soldi UE impiegano “lavoro forzato”

      Mentre prova a limitare i flussi di migranti africani e a favorire lo sviluppo in diversi Paesi del continente, l’Unione europea continua a spendere milioni di euro in Eritrea nella realizzazione di progetti in cui si utilizza “lavoro forzato”. L’anno scorso, come parte del Fondo fiduciario europeo di Emergenza per l’Africa, l’UE si è impegnata a spendere 20 milioni di euro in Eritrea per finanziare iniziative volte a limitare le migrazioni irregolari affrontandone le cause profonde. Il denaro, in particolare, è servito ad acquistare attrezzature e materiali per la costruzione e il miglioramento di strade necessarie a facilitare i trasporti di merci. Tuttavia, a partire da aprile 2019, diverse organizzazioni umanitarie, in particolare La Fondazione di difesa dei Diritti Umani per gli eritrei, con sede in Olanda, hanno cominciato a denunciare il fatto che molti lavoratori, impiegati nel cantiere, erano costretti al servizio militare obbligatorio. Ciò pare non abbia però impedito all’Unione di rivalutare l’invio di ulteriori fondi, decisi a dicembre 2019, da destinare all’Eritrea, continuando di fatto a finanziare un sistema di coscrizione forzata che le Nazioni Unite hanno descritto come “equivalente alla schiavitù”.

      L’aiuto aggiuntivo, pari a 95 milioni di euro, giunge nonostante l’Unione europea abbia ammesso di non avere una reale supervisione dei progetti che finanzia in Eritrea, una nazione chiusa fatta di circa 5 milioni di abitanti, ed è stato deciso con la clausola di non subordinare i finanziamenti alle garanzie di riforme democratiche. Il denaro fa parte del Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa, pari a 4,6 miliardi di euro, creato al culmine della crisi migratoria del 2015 per affrontare il fenomeno alla radice. Sebbene tale piano sia supportato da un ampio consenso, la sua esecuzione ha offuscato quello che molti vedono come un obiettivo degno, sollevando persino dubbi sul fatto che stia diventando controproducente per il Paese stesso. Il flusso di richiedenti asilo provenienti dall’Eritrea rimane elevato. Almeno 5.000 l’anno hanno chiesto asilo in Europa negli ultimi dieci anni. Nel 2015 e nel 2016, il numero ha raggiunto il picco di oltre 30.000 e l’anno scorso è stato di circa 10.000. almeno l’80% delle richieste viene accolto, secondo i dati forniti dall’Eurostat. Ciò significa che, per la maggior parte dei Paesi europei, i richiedenti asilo eritrei sono considerati legittimi rifugiati.

      Nel caso dell’Eritrea, i funzionari europei adottano un approccio chiamato “a doppio binario”, che consiste nel dialogare con il governo fornendogli allo stesso tempo denaro indipendentemente dai risultati. Nel complesso, 200 milioni di euro del fondo sono destinati all’Eritrea. La speranza è che il denaro aiuti a risollevare l’economia locale, a creare posti di lavoro, a indurre gli eritrei a non lasciare le proprie case e a consolidare l’accordo di pace raggiunto con l’Etiopia nel luglio 2018. A prescindere dai risultati dell’iniziativa, secondo quanto riferiscono i critici del progetto, il fatto spaventoso è che il governo eritreo è considerato uno dei peggiori al mondo in termini di rispetto dei diritti umani.

      Il presidente di Asmara, Isaias Afwerki, mantiene lo stato d’emergenza nel Paese dal 2000. Come parte di questa condizione, il Servizio Nazionale è obbligatorio, universale e indefinito. “Nonostante l’accordo di pace con l’Etiopia, la situazione dei diritti umani in Eritrea rimane terribile”, ha dichiarato Laetitia Bader, che si occupa del Paese e della regione del Corno d’Africa all’interno di Human Rights Watch. “Il governo continua ad arruolare gran parte della sua popolazione nell’ambito del Servizio Nazionale obbligatorio e trattiene decine di detenuti politici in condizioni disumane”, ha aggiunto. Gli eritrei sono intrappolati all’interno di questo sistema e, più in generale, del Paese, perché per uscire è necessario un visto. Molti rimangono arruolati anche a 40 anni, facendo lavori civili o militari con salari minimi.

      Le Nazioni Unite e diversi gruppi per i diritti umani affermano che la leva obbligatoria in Eritrea equivale a lavoro forzato. Gli Stati Uniti hanno da tempo sospeso gli aiuti e i finanziamenti per lo sviluppo del Paese. La Commissione europea, in merito ai progetti finanziati nel Paese del Corno d’Africa, ha dichiarato di essere stata “informata” dal governo che i coscritti sarebbero stati utilizzati per i lavori stradali. Tuttavia, ha dichiarato: “L’Unione Europea non paga la manodopera nell’ambito di questo progetto. Il finanziamento riguarda solo l’approvvigionamento di materiali e attrezzature per affrontare la riabilitazione delle strade”.

      La Commissione, che ha incaricato l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Servizi di Progetto di gestire il programma per suo conto, ha affermato che vige la massima attenzione per garantire che gli standard minimi di salute e sicurezza dei lavoratori siano rispettati. Tuttavia, l’agenzia dell’ONU non ha un ufficio in Eritrea e afferma che sta controllando la situazione attraverso visite organizzate dal governo di Asmara. In più, l’Ufficio ha ammesso: “Non siamo monitorando l’attuazione del progetto, perché questo è realizzato dal governo e i progressi vengono monitorati dal Ministero dei Lavori pubblici”. Interrogata dal New York Times sul fatto che con questo finanziamento rischia di favorire la pratica del lavoro forzato in Eritrea, un problema denunciato da molte altre agenzie delle Nazioni Unite, l’Ufficio per i Servizi di Progetto ha detto che “rispetta i principi fondamentali dell’ONU, inclusa l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato o obbligatorio” ma che ha deciso di procedere ugualmente.

      https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/01/08/eritrea-progetti-finanziati-soldi-ue-impiegano-lavoro-

  • The roundabout revolutions

    The history of these banal, utilitarian instruments of traffic management has become entangled with that of political uprising, #Eyal_Weizman argues in his latest book

    This project started with a photograph. It was one of the most arresting images depicting the May 1980 #Gwangju uprising, recognised now as the first step in the eventual overthrow of the military dictatorship in South Korea. The photograph (above) depicts a large crowd of people occupying a roundabout in the city center. Atop a disused fountain in the middle of the roundabout a few protestors have unfurled a South Korean flag. The roundabout organised the protest in concentric circles, a geometric order that exposed the crowd to itself, helping a political collective in becoming.

    It had an uncanny resonance with events that had just unfolded: in the previous year a series of popular uprisings spread through Tunisia, Egypt, Bahrain, #Oman, Yemen, Libya, and Syria. These events shared with Gwangju not only the historical circumstances – they too were popular protests against military dictatorships – but, remarkably, an urban-architectural setting: many of them similarly erupted on roundabouts in downtown areas. The history of these roundabouts is entangled with the revolutions that rose from them.

    The photograph of the roundabout—now the symbol of the “liberated republic” – was taken by #Na_Kyung-taek from the roof of the occupied Provincial Hall, looking toward Geumnam-ro, only a few hours before the fall of the “#Gwangju_Republic”. In the early morning hours of the following day, the Gwangju uprising was overwhelmed by military force employing tanks and other armed vehicles. The last stand took place at the roundabout.

    The scene immediately resonates with the well-known photographs of people gathering in #Tahrir_Square in early 2011. Taken from different high-rise buildings around the square, a distinct feature in these images is the traffic circle visible by the way it organises bodies and objects in space. These images became the symbol of the revolution that led to the overthrow of President Hosni Mubarak in February 2011 – an event described by urban historian Nezar AlSayyad as “Cairo’s roundabout revolution”. But the Gwangju photograph also connects to images of other roundabouts that erupted in dissent in fast succession throughout the Middle East. Before Tahrir, as Jonathan Liu noted in his essay Roundabouts and Revolutions, it was the main roundabout in the capital of Tunisia – subsequently renamed Place du 14 Janvier 2011 after the date on which President Zine el-Abidine Ben Ali was forced to flee the country. Thousands of protesters gathered at the roundabout in Tunis and filled the city’s main boulevard.

    A main roundabout in Bahrain’s capital Manama erupted in protests shortly after the overthrow of Mubarak in Egypt. Its central traffic island became the site of popular protests against the government and the first decisive act of military repression: the protests were violently broken up and the roundabout itself destroyed and replaced with a traffic intersection. In solidarity with the Tahrir protests, the roundabouts in the small al-Manara Square in Ramallah and the immense Azadi Square in Tehran also filled with protesters. These events, too, were violently suppressed.

    The roundabouts in Tehran and Ramallah had also been the scenes of previous revolts. In 2009 the Azadi roundabout in Iran’s capital was the site of the main protests of the Green Movement contesting President Mahmoud Ahmadinejad’s reelection. Hamid Dabashi, a literature professor at Columbia University and one of the most outspoken public intellectuals on these revolutions, claims that the Green Movement was inspirational for the subsequent revolutionary wave in the Arab world. In Palestine, revolt was a permanent consequence of life under occupation, and the al-Manara roundabout was a frequent site of clashes between Palestinian youth and the Israeli military. The sequence of roundabout revolutions evolved as acts of imitation, each building on its predecessor, each helping propel the next.

    Roundabouts were of course not only exhilarating sites of protest and experiments in popular democracy, but moreover they were places where people gathered and risked their life. The Gwangju uprising is, thus, the first of the roundabout revolutions. Liu wrote: “In all these cases, the symbolism is almost jokingly obvious: what better place to stage a revolution, after all, then one built for turning around?” What better way to show solidarity across national borders than to stage protests in analogous places?

    Why roundabouts? After all, they are banal, utilitarian instruments of traffic management, certainly not prone to induce revolutionary feeling. Other kinds of sites – squares, boulevards, favelas, refugee camps – have served throughout history as the setting for political protest and revolt. Each alignment of a roundabout and a revolution has a specific context and diverse causes, but the curious repetition of this phenomenon might give rise to several speculations. Urban roundabouts are the intersection points of large axes, which also puts them at the start or end of processions.

    Occupying a roundabout demonstrates the power of tactical acupuncture: it blocks off all routes going in and out. Congestion moves outward like a wave, flowing down avenues and streets through large parts of the city. By pressuring a single pivotal point within a networked infrastructure, an entire city can be put under siege (a contemporary contradistinction to the medieval technique of surrounding the entire perimeter of a city wall). Unlike public squares, which are designed as sites for people to gather (therefore not interrupting the flow of vehicular traffic) and are usually monitored and policed, roundabout islands are designed to keep people away. The continuous flow of traffic around them creates a wall of speeding vehicles that prohibits access. While providing open spaces (in some cities the only available open spaces) these islands are meant to be seen but not used.

    Another possible explanation is their symbolic power: they often contain monuments that represent the existing regime. The roundabouts of recent revolutions had emblematic names – Place du 7 Novembre 1987, the date the previous regime took power in Tunisia; “Liberty” (Azadi), referring to the 1979 Iranian Revolution; or “Liberation” (Tahrir), referring to the 1952 revolutions in Egypt. Roundabout islands often had statues, both figurative and abstract, representing the symbolic order of regimes. Leaders might have wished to believe that circular movement around their monuments was akin to a form of worship or consent. While roundabouts exercise a centripetal force, pulling protestors into the city center, the police seek to generate movement in the opposite direction, out and away from the center, and to break a collective into controllable individuals that can be handled and dispersed.

    The most common of all centrifugal forces of urban disorganisation during protests is tear gas, a formless cloud that drifts through space to disperse crowds. From Gwangju to Cairo, Manama to Ramallah, hundreds of tear-gas canisters were used largely exceeding permitted levels in an attempt to evict protesters from public spaces. The bodily sensation of the gas forms part of the affective dimension of the roundabout revolution. When tear gas is inhaled, the pain is abrupt, sharp, and isolating. The eyes shut involuntary, generating a sense of disorientation and disempowerment.

    Protestors have found ways to mitigate the toxic effects of this weapon. Online advice is shared between activists from Palestine through Cairo to Ferguson. The best protection is offered by proper gas masks. Improvised masks made of mineral water bottles cut in half and equipped with a filter of wet towels also work, according to online manuals. Some activists wear swim goggles and place wet bandanas or kaffiyehs over their mouths. To mitigate some of the adverse effects, these improvised filters can be soaked in water, lemon juice, vinegar, toothpaste, or wrapped around an onion. When nothing else is at hand, breathe the air from inside your shirt and run upwind onto higher ground. When you have a chance, blow your nose, rinse your mouth, cough, and spit.


    https://www.iconeye.com/opinion/comment/item/12093-the-roundabout-revolutions
    #révolution #résistance #giratoire #carrefour #rond-point #routes #infrastructure_routière #soulèvement_politique #Corée_du_Sud #printemps_arabe #Egypte #Tunisie #Bahreïni #Yémen #Libye #Syrie #Tahrir

    Du coup : #gilets_jaunes ?

    @albertocampiphoto & @philippe_de_jonckheere

    This project started with a photograph. It was one of the most arresting images depicting the May 1980 #Gwangju uprising, recognised now as the first step in the eventual overthrow of the military dictatorship in South Korea. The photograph (above) depicts a large crowd of people occupying a roundabout in the city center. Atop a disused fountain in the middle of the roundabout a few protestors have unfurled a South Korean flag. The roundabout organised the protest in concentric circles, a geometric order that exposed the crowd to itself, helping a political collective in becoming.

    –-> le pouvoir d’une #photographie...

    signalé par @isskein

    ping @reka

  • #Rural !

    C’est l’histoire d’un coin tranquille à la #campagne. Un couple achève d’y retaper une vieille bâtisse devenue en dix ans de travaux une agréable maison. Un peu plus loin, trois jeunes paysans, convaincus qu’une autre agriculture est possible, tentent le pari du #bio. Tout va bien, jusqu’au jour où la nouvelle tombe : le tracé d’une future #autoroute passe ici-même. Durant une année entière, Étienne Davodeau a suvi ces gens crayon en main, a mené son enquête sur les origines de cette décision absurde et ses répercussions dramatiques sur la vie d’une région.


    https://www.editions-delcourt.fr/serie/rural.html

    Quelques extraits...

    Sur l’#agriculture_biologique :


    #engrais

    #nourriture #alimentation #terre #santé

    #frontières #barrières

    La disparition du lieu-dit du #Bignon, désormais effacé par l’autoroute :


    #toponymie

    #paysannerie #GAEC #BD #bande_dessinée #agriculture #ruralité #géographie_rurale #livre #agriculture_biologique #biologique #A87 #infrastructure_routière

  • Elus, zadistes et la pasteure du village se mobilisent contre une autoroute en #Alsace

    Les travaux préparatoires en vue de la mise en place, par le groupe #Vinci, d’une autoroute de contournement de #Strasbourg ont commencé lundi. Une ZAD a été évacuée, des arbres sont en cours d’abattage. Sur place, les habitants ne décolèrent pas. Ce grand projet, considéré comme inutile et imposé, fédère largement contre lui.


    https://www.mediapart.fr/journal/france/150918/elus-zadistes-et-la-pasteure-du-village-se-mobilisent-contre-une-autoroute
    #résistance #France #autoroute #manifestation #infrastructure_routière

  • Le piège chinois de l’autoroute #Bar-Boljare se referme sur le #Monténégro

    L’#autoroute Bar-#Boljare verra-t-elle jamais le jour ? Le FMI « déconseille » sa construction, alors que le choix d’un concessionnaire chinois se révèle désastreux. En effet, le devis a été libellé en dollars, tout comme le prêt accordé par une banque publique chinoise, alors que le cours de l’euro ne cesse de baisser par rapport à la monnaie américaine.


    http://balkans.courriers.info/article26583.html
    #Chine #transport_routier #infrastructure_routière

    cc @reka