• Un rapporto sulla frontiera tra Lettonia, Russia e Bielorussia

    Il monitoraggio della ONG “I want to help refugees”

    A ottobre 2023 la ONG lettone Gribu palīdzēt bēgļiem (Voglio aiutare i rifugiati) 2, ha pubblicato un report sulla monitoraggio delle frontiere curato da Anna E. Griķe e Ieva Raubiško 3.

    Questa pubblicazione segue il report sulla visita effettuata in Lettonia dal 10 al 20 maggio del 2022 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), un dossier a cui il governo lettone ha replicato in modo ambiguo e fuorviante. L’ONG lettone ha così deciso di redigere un proprio report che contesta le affermazione governative.

    Il Rapporto del Comitato europeo, infatti, forniva 21 raccomandazioni in merito alla situazione di detenzione nei confronti delle persone migranti, mentre la risposta del governo lettone considerava 18 di queste come risolte e/o ingiustificate, per cui non dovrebbero essere prese ulteriori misure, e 3 raccomandazioni presentate insieme a una potenziale azione.

    Tra le raccomandazioni, il CPT ha indicato alle autorità lettoni di garantire che le persone migranti che arrivano nella zona di frontiera o che sono presenti nel Paese non siano rimpatriate con la forza in Bielorussia. E’, invece, doveroso effettuare uno screening individuale al fine di identificare le persone bisognose di protezione, valutare tali necessità e prendere le misure appropriate. Inoltre, è essenziale che i cittadini stranieri abbiano accesso a una procedura di asilo, o altra procedura di soggiorno, che preveda una valutazione del rischio di maltrattamento in caso di espulsione della persona interessata verso il Paese di origine o un Paese terzo, sulla base di un’analisi obiettiva e indipendente della situazione dei diritti umani in quegli Stati.

    Per le autorità lettoni, attualmente, la situazione nei territori amministrativi al confine tra Lettonia e Bielorussia è considerata come un’emergenza e «non consente il flusso incontrollato di persone che attraversano il confine di Stato in luoghi non previsti», e allo stesso tempo non limita il diritto delle persone ad accedere alla procedura di asilo, poiché «il diritto di presentare una domanda al valico di frontiera previsto dalla legge sull’asilo non è limitato».

    Tuttavia, le testimonianze delle persone respinte con la forza dal confine lettone verso la Bielorussia indicano che al confine non viene effettuato un esame adeguato (ad esempio, non vengono verificati i documenti d’identità: nazionalità, età e altri dati identificativi sono sconosciuti), in violazione del divieto di espulsione collettiva dei rifugiati sancito dalla Convenzione di Ginevra, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla CEDU (principio di non-refoulement). Ci sono stati casi in cui non solo le famiglie con bambini, ma anche i minori non accompagnati sono stati respinti. Inoltre, perfino il principio dell’unità familiare non sempre è rispettato.

    Altre testimonianze di persone che sono riuscite ad entrare in Lettonia e hanno presentato domanda di asilo per motivi umanitari, mostrano che né le autorità bielorusse né quelle lettoni permettono ai migranti di spostarsi verso i valichi di frontiera ufficiali, respingendo invece in Lettonia o in Bielorussia, nonostante la legislazione vigente preveda che le persone possano presentare domanda di asilo ai valichi di frontiera ufficiali (ce ne sono due a Pāternieki e Silene) e al Centro di detenzione per stranieri di Daugavpils.

    Per dissuadere le persone dall’attraversare la frontiera, le guardie ricorrono all’uso della forza fisica e mezzi speciali, nonché all’uso di cani da guardia. Il 29 agosto 2023, il governo ha ratificato gli emendamenti al “Regolamento sui tipi di mezzi speciali e sulla procedura per il loro utilizzo“, prevedendo oltre ai mezzi speciali già in uso – tra cui manganelli, taser, spray di gas cs, candelotti e granate fumogene, granate a gas, luminose e sonore – anche dispositivi sonori con effetti stordenti.

    L’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine è illegale e per questo il CPT ha raccomandato che le forze dell’ordine vengano informate a riguardo e ricevano una formazione pratica sull’uso proporzionato della forza per l’arresto di cittadini stranieri alla frontiera.

    Le autorità lettoni ribattono di non aver fatto ricorso alla forza fisica e a mezzi speciali contro le persone migranti in quanto non si sono verificati casi in cui queste non hanno obbedito agli ordini considerati legittimi delle guardie di frontiera: le persone, infatti, vengono informate che l’attraversamento del confine di Stato è illegale e che è prevista una responsabilità penale per il suo attraversamento e vengono invitate a non attraversare il confine di Stato o, di conseguenza, a tornare in Bielorussia. Nonostante sia consentito l’uso dei taser ai funzionari, attualmente non sono utilizzati per la sorveglianza delle frontiere a causa della loro carenza numerica, del loro breve periodo di autonomia e della necessità di utilizzarli per le esigenze di altri servizi dell’SBG 4.

    Tuttavia, la risposta del governo è in contraddizione con diverse testimonianze di persone migranti raccolte da “Voglio aiutare i rifugiati” nel 2022-2023, che hanno subito violenze emotive e fisiche, tra cui insulti e minacce, percosse e folgorazioni, sia durante i respingimenti che durante la permanenza nelle tende/basi dell’SBG in territorio lettone.

    Secondo queste testimonianze, gli abusi sono stati commessi il più delle volte da membri di unità speciali non identificate che indossavano maschere. Nel report si legge che «almeno quattro denunce sull’uso eccessivo della violenza sono state presentate all’Ufficio per la sicurezza interna e uno dei denuncianti si è rivolto alla Corte europea dei diritti umani».

    Per quanto riguarda l’accoglienza dei minori non accompagnati, il Comitato vorrebbe fosse adibita una struttura specifica, mentre il governo lettone afferma che sarebbe impossibile in quanto il numero dei minori è esiguo. Per l’associazione questa risposta è fuorviante: nonostante il basso numero solo alcuni minori non accompagnati vengono accolti in modo adeguato. Nel maggio 2023 Anna E. Griķe ha incontrato una ragazza di 13 anni dell’isola di Comore ospitata nel “centro di accoglienza” per richiedenti asilo “Mucenieki“, che offriva le stesse condizioni di alloggio degli adulti e che quindi non può essere considerato un istituto di assistenza all’infanzia. Tra il 4 e il 7 luglio la minore è scomparsa.

    Oltre a strutture specifiche adeguate per l’età dei richiedenti asilo, il CPT vorrebbe assicurare ai richiedenti asilo trattenuti nei centri di Daugavpils e Mucenieki attività come lezioni di lingua, di computer, percorsi formativi ecc. Il massimo sforzo dovrebbe essere dedicato soprattutto per garantire ai bambini in età scolastica attività educative adeguate.

    Il governo lettone ha risposto che all’SBG non compete la pianificazione delle attività del tempo libero, tuttavia collabora con le ONG lettoni, come l’associazione “Voglio aiutare i rifugiati” e la Croce Rossa che, per quanto possibile, assicurano l’organizzazione di varie attività ricreative, di socializzazione e integrazione, misure di sostegno psicologico e di istruzione.

    Nonostante ciò, il report afferma che da quanto osservato nel 2023 l’unica attività garantita dalla CR è stata fornire indumenti scadenti a entrambi i centri di detenzione e che solo nell’estate del 2023 l’associazione ha organizzato attività settimanali in entrambi i centri di detenzione per bambini e famiglie e a volte per adulti: un’iniziativa basata sulla buona volontà, non una soluzione sistemica.

    In ultima istanza, il report si occupa delle problematiche relative alle cure psichiatriche e all’assistenza psicologica nei centri di detenzione. Il CPT insiste che siano presi provvedimenti a riguardo insieme a un necessario servizio di interpretariato professionale. Le autorità lettoni dichiarano che in base alla proposta avanzata dall’Ong “Medici senza frontiere“, nel periodo compreso tra luglio e il 31 dicembre 2022, i loro rappresentanti hanno visitato regolarmente l’IDC (centro di detenzione per immigrati) di Daugavpils e di Mucenieki, fornendo assistenza psicologica agli stranieri detenuti e ai richiedenti asilo ospitati nell’IDC dell’SBG.

    Da quando Medici Senza Frontiere ha cessato la sua attività in Lettonia, nel dicembre 2022 5, non è più disponibile alcun supporto psicologico per le persone detenute. Inoltre nel 2013, l’SBG e la Croce Rossa Lettone hanno firmato un accordo di cooperazione, in base al quale quest’ultima si è impegnata a fornire per le persone accolte misure di sostegno psicologico ed educativo. Secondo “Voglio aiutare i rifugiati” la Croce Rossa non ha offerto assistenza psicologica presso gli IDC anche a causa della difficoltà di organizzare gli interpreti. Sebbene le ONG possano offrire un valido supporto psicologico ai richiedenti asilo e agli stranieri detenuti nei centri di detenzione, i loro servizi non possono essere considerati una sostituzione del supporto psicologico che lo Stato dovrebbe fornire.

    “Voglio aiutare i rifugiati” ha ripreso lo slogan “Nessuno è illegale” (Neviena persona nav nelegāla!) per cercare di sensibilizzare sulla situazione al confine: «Il termine “migrante irregolare” non solo è indesiderabile (ad esempio, si veda il Glossario sulle migrazioni dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni), ma denigra anche i diritti umani di qualsiasi migrante e non è in linea con i principi delle buone pratiche».

    La maggior parte delle persone giunte in Lettonia dalla Bielorussia sono richiedenti asilo: fino a quando non verrà presa una decisione sul loro status, da un punto di vista giuridico dovrebbero essere chiamati richiedenti asilo, nonostante abbiano attraversato il confine “illegalmente“. Da un punto di vista legale ed etico, un processo o un atto può essere etichettato come irregolare, ma non lo può essere una persona.
    Nessuna persona, infatti, è illegale!

    https://www.meltingpot.org/2024/03/un-rapporto-sulla-frontiera-tra-lettonia-russia-e-bielorussia

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    • BORDER MONITORING REPORT, LATVIA

      Background

      On 11 July 2023 both the “Report to the Latvian Government on the periodic visit to Latvia carried out by the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 10 to 20 May 2022” (here and after – Report) and the “Response of the Latvian Government to the report of the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) on its periodic visit to Latvia from 10 to 20 May 2022” (here and after – Response) were published. The Report provides 21 recommendations in terms of Immigration detention; Response considers 18 recommendations as in progress and/or unjustified where no additional steps should be taken, and 3
      recommendations are presented along with a potential action plan.
      Ieva Raubiško has closely followed the situation of irregular migrants at the Latvian-Belarussian border since August 2021. In October 2022, she joined the NGO “I Want to Help Refugees” as an advocacy officer. In February 2023 Anna E. Griķe began to fulfil her duties as both border monitoring expert and coordinator of
      humanitarian aid for asylum seekers. Based on prior reports, observations, and individual cases, the following border monitoring report aims to highlight misleading information within the Response. It does not cover all recommendations/responses because of the insufficient data available regarding issues such as access to
      legal aid or to health care, but it is more focused on the everyday life in detention, especially, in regard to minors. The reference to both documents includes paragraphs and page numbers.

      Key Findings

      [1] Accommodation of unaccompanied minors

      Report, par. 30, p. 17: “The Committee recommends that the Latvian authorities take the necessary measures to ensure that unaccompanied minors are accommodated in an open (or semi-open) specialised establishment for juveniles (for example, a social welfare/educational institution) where they can be provided with appropriate care and activities suitable for their age; the relevant legal provisions should be amended accordingly.”

      Response, p. 12: “There is no open (or semi-open) specialised establishment in Latvia intended specifically for a minor foreigner to be extradited or unaccompanied asylum seeker and it is not planned to create such an establishment, because the number of unaccompanied minors is small and it would not be feasible to open such an establishment. An unaccompanied minor, who is not detained, is accommodated in a child care institution based on the decision of the Orphan’s and Custody Court.”

      Indeed, the number of asylum seekers – unaccompanied minors is low, and there is no specialised establishment for their accommodation. However, the Response is misleading since only some unaccompanied minors are properly taken care of. In May 2023, Anna E. Griķe came across two of them, a 13-years old girl from Comoros island and a 14-years old boy from DRC. They both were accommodated in the Accommodation centre for asylum seekers “Mucenieki” provided the same accommodation conditions as adults (free of charge accommodation and allowance of 3 euros per day). It could be considered a childcare institution in any way, as it requires individuals to have complete autonomy in taking care of themselves on a daily basis. After the girl’s disappearance of between July 4 and 7 and ‘with serious concerns about the lack of action, relevant institutions as Ombudsman or State Police were informed about the situation.

      [2] Access to education and/or leisure activities for minors in IDCs [immigration detention center]

      Response, p. 12: “Minors accompanied by their parents are accommodated in the IDC, based on the parents’ application for accommodating children together with parents, and after evaluating the best interests of a child. Thus, children are not detained, but accommodated together with their parents, who are detained. In turn, detained unaccompanied minors are accommodated in the premises of the IDC premises, in which there is personnel and equipment to take the needs of their age into account. Minors accommodated in the premises of the IDC are provided with opportunities for acquiring education, engaging in leisure time activities, including games and recreational events corresponding to their age.” Even though there is a theoretical possibility for children from IDC to access education, it does not take place due to multiple factors. For instance, it takes one month to get the response from the Ministry of Education to be assigned to an educational institution, and as the detainees do not know the length of their detention and live in hope that it will not be lasting long, there is low interest to submit an application. Apart from a room with a limited number of toys, there are no specific opportunities considered for children/youth who experience the same limited access of movement within the detention centre as adults. For instance, outdoor space is not openly available. In the premises of the IDC, there is no opportunity for acquiring education; also, online learning is not possible due to the limited access to electronic devices which is restricted to just one hour per day. None of IDC’s personnel has the task to meet the education and or/leisure activity needs.

      [3] About access to purposeful activities for detainees

      Report, par. 35, p. 19: “The CPT recommends that the Latvian authorities take steps to ensure that foreign nationals held at Daugavpils and Mucenieki Immigration Detention Centres are offered a range of purposeful activities (for example, language classes, computer courses, crafts, etc.). The longer the period for which foreign nationals are detained, the more developed should be the activities which are offered to them. Further, every effort should be made to provide children of school age with suitable educational activities.”

      Response, p. 14-15: “The SBG ensures the security guarding of persons accommodated in the IDC, but does not get involved in planning their free time activities. Nevertheless, the SBG actively cooperates with Latvian NGOs, such as the association “I want to help refugees”, which, as far as possible, ensures the organisation of various leisure activities in the IDC of the SBG for both children and adults. […] In 2013, the SBG and the association “Latvian Red Cross” (hereinafter – LRC) signed an agreement on cooperation, based on which the LRC, among other things, undertook to organise, as far as possible, for persons accommodated in the IDC, psychological support and educational measures or other measures that would improve living conditions, as well as to provide the services of social work experts and other measures promoting socialisation and integration, including, if necessary, to organise Latvian language classes. Recommendations regarding the provision of purposeful activities (including the Latvian language classes) for foreigners in accommodation centres for asylum seekers, as well as regarding measures to reduce the language barrier between health care personnel and admitted foreign nationals, by providing translation/interpreting services, are to be supported.”

      In summer 2023, “I Want to Help Refugees” organized weekly activities in both detention centres for children and families, and – when possible, for adults, both men and women. It was based on good will, and in no terms could be perceived as a systemic solution. However, these activities created an opportunity to get a better insight of the everyday life in detention and was an attempt to meet individual or collective needs. These included provision of underwear, socks, basic footwear, additional clothing, spices for food, books, toys, and games.
      Prior to summer 2023 no regular activities were provided by any institution, NGOs or Latvian Red Cross (besides two unsuccessful episodes in December 2022 and April 2023 when a team of LRC did not manage establish contact with detainees to provide leisure time activities). From what has been observed during 2023, the sole outcome of the cooperation agreement with LRC is the provision of donated clothes to both IDCs. These are of very poor quality and do not include such basic items as underwear or socks. No psychological support, educational measures or other initiatives that would improve living conditions are being implemented in any of IDCs. Services of social work experts and other measures promoting socialization and integration, including Latvian language classes, are not provided either.

      [4] About access to outdoor exercise at the IDCs

      Report. par. 36, p. 20: “The CPT recommends that the Latvian authorities take steps to increase significantly the daily outdoor exercise period for foreign nationals held at Daugavpils Immigration Detention Centre. In the Committee’s view, detained foreign nationals should, as a rule, have ready access to an outdoor area throughout the day.

      Response, p. 15: “According to Clause 21 of Cabinet of Ministers Regulation No. 254 of 16 May 2017, the daily schedule of the accommodation premises shall include daily walk time in fresh air (outdoor exercise) – for at least two hours. In turn, Clause 18 of Cabinet of Ministers Regulation No. 254 of 16 May 2017 provides that if a detained person refuses to exercise any rights (for example, outdoor exercise), an official of the accommodation premises may request to confirm it with a written submission. Given the structure of Daugavpils IDC and Mucenieki IDC, it is not possible to ensure free access of the detained persons to the outdoor area throughout the day.” “I Want to Help Refugees” has received complaints from a number detainees at both Daugavpils and Mucenieki Detention Centres about their restricted access to outdoor areas. While no clear-cut reasons for such restriction have been provided, these complaints also indicate a lack of clear procedure as to how the access to open-air areas should be requested by the detainees and why and how the time limit outdoor activities is determined (for example, why only one hour is granted for outdoor activities, not the two-hour minimum as prescribed in the Cabinet of Ministers Regulation No. 254, Internal Rules of Procedure of Accommodation Premises for Detained Foreigners and Asylum Seekers.) As a result, inhabitants of IDCs lose the possibility to be in fresh air for sufficient time each day or, on some days, are not able to spend time outdoors at all.

      [5] About the alleged ill-treatment of detained foreign nationals (irregular migrants) by Latvian special police forces between August 2021 and March 2022 in the border area.

      Report, par. 33, p. 18: “The CPT recommends that all law enforcement agencies concerned are given a clear and firm message on a regular basis that any use of excessive force is illegal and will be punished accordingly. Further, they should be provided with further practical training relating to the proportionate use of force, including control and restraint techniques, in the context of apprehending foreign nationals at the border. As regards more specifically the use of electrical discharge weapons, reference is made to the principles listed in paragraphs 65 to 84 of the 20th General Report on the CPT’s activities.23“

      Response, p. 13: “It has not been necessary to use physical force and special means against persons, because there have been no cases when they did not obey the lawful orders of the border guards. In order to prevent crossing or attempted crossing of the state border outside official border crossing points and procedures established for legal entry, persons are informed that crossing the state border is illegal and there is criminal liability prescribed for crossing it and are invited not to cross the state border or correspondingly invited to return to Belarus. Furthermore, at that moment persons also visually see armed border guards and national guards, and their preparedness for active response in preventing the possibilities of illegal crossing of the state border. Following such actions and the provision of information, persons, as a rule, do not risk approaching Latvia or, if they have already crossed the border, they return to Belarus. The enumeration of special means of the SBG contains electric shock devices, which the officials, based on Cabinet of Ministers Regulation No.55 of 18 January 2011, are entitled to use for fulfilment of the functions assigned to them. There are no electric shock devices of any kind (including TASER) currently used for border surveillance due to the numerical shortage thereof, expiry of their useful life and the necessity to use them for the needs of other SBG services (immigration control, border inspections).”

      The government’s response contradicts several testimonies of irregular border-crossers recorded by “I Want to Help Refugees” in 2022–2023 on having experienced emotional and physical violence, including cursing and threats, beatings, and electrocution both during the pushbacks and while in tents/ SBG bases in the Latvian territory. According to these testimonies, abuse was most often committed by members of unidentified special units wearing masks. At least four complaints on the excessive use of violence have been submitted to the Internal Security Bureau, and one of the complainants has turned to the European Court of Human Rights.

      [6] About the lack of psychological assistance to the detainees at the IDCs.

      Report, par. 44, p. 57: “The CPT recommends that steps be taken at Daugavpils and Mucenieki Immigration Detention Centres to ensure adequate access to psychiatric care and psychological assistance for foreign nationals, combined with the provision of professional interpretation.”

      Response, p. 18-19: “Based on the proposal made by the international non-governmental organisation “Doctors without Borders”, during the period from July to 31 December 2022, the representatives of the international non-governmental organisation “Doctors without Borders” have been regularly visiting Daugavpils IDC and Mucenieki IDC and providing psychological support to the detained foreigners and asylum seekers accommodated in the IDC of the SBG.

      By means of the funds raised via the project from the Asylum, Migration and Integration Fund, in order to reduce the everyday psychological sufferings or struggles of the target group, it is planned to attract psychologists and cover expenses for psychologist services for the foreigners accommodated in the centres.

      Additionally, as already mentioned herein above, in 2013, the SBG and the LRC signed an agreement on cooperation, based on which the LRC, among other things, undertook to organise, as far as possible, for persons accommodated in the IDC of the SBG, psychological support and educational measures or other measures that would improve living conditions of the referred to persons…”

      While NGOs might offer valuable psychological support to asylum seekers and detained foreigners at the IDCs, their services cannot be considered a viable alternative and substitution of state-provided in-house psychological support. Since December 2022 when “Doctors without Borders” ceased its operation in Latvia, no psychological support has been available to the detainees. LRC has not been able to offer any psychological assistance at the IDCs, citing the difficulty of arranging interpreters as one of the main challenges.

      [7] About the forcible return of irregular migrants from Latvia to Belarus

      Report, par. 48, p. 57: “… the CPT recommends that the Latvian authorities take the necessary measures to ensure that irregular migrants arriving at the border or present in the territory of Latvia are not forcibly returned to Belarus prior to an individualised screening with a view to identifying persons in need of protection, assessing those needs and taking appropriate action. Further, it is essential that foreign nationals have effective access to an asylum procedure (or other residence procedure) which involves an individual assessment of the risk of ill-treatment in case of expulsion of the person concerned to the country of origin or a third country, on the basis of an objective and independent analysis of the human rights situation in the countries concerned.38 The CPT considers that the relevant provisions of the Cabinet of Ministers’ Decree No. 518 on the Declaration of a State of Emergency should be revised accordingly.”

      Response, p. 19: “Currently, the emergency situation in the administrative territories at the Latvia- Belarus border does not allow the uncontrolled flow of people across the state border in places not intended for this, and at the same time does not limit the right of persons to access the asylum procedure, because the right to lodge an application at the border crossing point provided for by the Asylum Law is not restricted. The referred to regulation was based on the internationally recognised right of countries to control the border of their country and to prevent the illegal crossing thereof (see the judgment of the ECHR of 13 February 2020 in the case of ND and NT v. Spain and the judgment of the ECHR of 5 April 2022 in the case A.A. and others v. North Macedonia).”

      Testimonies of irregular migrants forcibly returned from Latvia/ Latvian border to the territory of Belarus indicate that no proper screening of persons is performed at the border. There have been cases when not only families with children, but also unaccompanied minors have been pushed back.
      Testimonies of irregular migrants allowed to enter Latvia on humanitarian grounds and submit their claims for asylum, show that neither the Belarussian nor the Latvian authorities allow the migrants to move to the official border crossing points, instead pushing them back to either Belarus or Latvia.

      Recommendations and Action Points

      Clarify the statements in the Response with authorities in question.
      Create an action plan that identifies the gaps in the treatment of detainees in detention centres and explores for possible solutions.
      Establish an obligation and a clear procedure for a prompt investigation of all claims of violence voiced by irregular migrants and detained asylum seekers.
      Ensure presence of a psychologist/psychotherapist at both IDCs to provide psychological help to the detained when necessary (also, ensure that the regular medical staff is present).
      Ensure the possibility for detainees to spend sufficient time outdoors each day.
      Ensure transparent evaluation of migrants’ individual circumstances upon their arrival at the border; share the assessment guidelines with independent monitoring bodies and NGOs.

      https://gribupalidzetbegliem.lv/en/2023/10/01/border-monitoring-report-latvia

  • Ce que ça coûte de s’exprimer sur Israël-Palestine

    Personne ne devrait avoir à craindre de prendre la parole dans le champ médiatique, y compris pour exprimer des critiques à l’encontre de la politique israélienne. Pourtant chercheurs, journalistes ou responsables politiques préfèrent souvent ignorer le sujet, ou nuancer leur propos, plutôt que d’être la cible de la fachosphère et de ses relais institutionnels.

    Après mon récent passage sur France 5, dans l’émission « C ce soir », j’ai reçu beaucoup de messages de soutien, mais aussi quelques critiques et insultes. Rien de nouveau et tout cela aurait dû, comme à l’habitude, en rester là. Mais Florence Bergeaud-Blackler, dont les écrits lui ont valu le titre de « prophète » par Valeurs actuelles, a décidé de me prendre pour cible sur plusieurs tweets. En utilisant son statut de fonctionnaire au CNRS, elle multiplie les invectives et procès d’intention sur les réseaux sociaux, qui relèvent toujours davantage d’attaques personnelles que de critiques de fond. Dans mon cas, elle accuse France Télévisions de donner le micro à un « militant », un terme qui vise à disqualifier n’importe quel chercheur qui expose des analyses opposées aux siennes.

    Il n’en fallait pas plus, le soir-même, à Pascal Praud pour décider de diffuser un extrait de mon passage à France 5 dans son émission sur CNews, « L’heure des pros 2 », au plus fort de l’audience. Au programme : lecture des tweets de leur égérie et donner la parole à ses « chroniqueurs » pendant cinq minutes pour enfoncer le clou. Évidemment, les inconditionnels du soutien à Israël s’en sont donnés à cœur joie : dans l’objectif évident de me décrédibiliser, ils s’en prennent essentiellement à mon parcours, préférant partir sur le terrain personnel au détriment du fond. La rédaction de CNews avait pourtant jugé bon, à deux reprises en 2023, de me proposer d’intervenir sur leur plateau, ce que j’ai toujours refusé.

    Peu importe les fantasmes de ces gens, le statut de « chercheur indépendant », c’est-à-dire d’activités de recherche effectuées en dehors d’un cadre universitaire, est le seul au nom duquel je peux m’exprimer dans les médias. Il n’y a aucune usurpation, et si c’était le cas, mes propres contradicteurs sur les plateaux n’hésiteraient pas à me le rappeler. Du reste, je refuse de me soumettre aux injonctions à justifier mon parcours ou ma légitimité. Analyses d’archives, études de terrain et de données statistiques, entretiens et suivi d’acteurs de premier plan : mes écrits et travaux parlent pour moi, et j’attends de celles et ceux qui ne les partagent pas qu’on en débatte. Il ne devrait être question que de cela.

    Désigner une cible, l’harceler d’insultes et de menaces, faire taire en terrorisant : voici les méthodes de l’extrême droite islamophobe et des inconditionnels d’Israël, les deux ayant largement convergé sous Netanyahou. Naturellement, tout cela ne peut pas être déconnecté d’un climat plus global de censure et de restriction de toute parole critique de la politique de l’État d’Israël. Si j’en ai été cette semaine la cible, d’autres en ont fait l’expérience par le passé.

    C’est la principale raison qui m’a poussé à écrire cet article : mettre en lumière ces procédés, qui ne peuvent laisser indemne, et poussent nombre de chercheurs à s’autocensurer par peur d’être à leur tour victimes d’attaques personnelles. L’enjeu est donc profondément démocratique : en laissant de telles pratiques prospérer, la société risque à terme de plus en plus se priver des analyses et regards d’experts ou d’intellectuels reconnus, capables de proposer des clés de compréhension à des problématiques sensibles et de premier ordre.

    https://blogs.mediapart.fr/thomasvescovi/blog/280124/ce-que-ca-coute-de-s-exprimer-sur-israel-palestine

    #médias #libertés_académiques #fachosphère #réseaux_sociaux #attaques #militantisme #disqualification #recherche #Pascal_Praud #CNews #décrédibilisation #insultes #menaces #extrême_droite #censure #cible #autocensure #auto-censure
    –-
    voir aussi ce fil de discussion initié par @rumor :
    https://seenthis.net/messages/1038855

  • LA CONDITION DES PERSONNES EXILÉES A PARIS : 8 ANNÉES DE VIOLENCES POLICIÈRES ET INSTITUTIONNELLES

    Trois ans après l’expulsion brutale d’un campement de 500 tentes #place_de_la_République, nous vous partageons le premier #rapport du #CAD (#Collectif_Accès_au_Droit), qui documente les violences policières envers les personnes exilées à Paris et dans sa proche périphérie.

    Ce travail, basé sur le recueil de 448 #témoignages recensés depuis 2015 et sur une enquête flash réalisée ces dernières semaines auprès de 103 personnes exilées, démontre que ces violences constituent depuis 8 ans la condition des personnes exilées à Paris.

    https://collectifaccesaudroit.org/rapport

    #sans-papiers #migrations #France #violences_policières #harcèlement #violence #violence_systémique #violences_institutionnelles #campement #destruction #nasse #nasse_mobile #Paris

    ping @isskein @karine4

  • #Of_Land_and_Bread

    « #B'Tselem – le centre israélien d’information pour les droits de l’homme dans les #territoires_occupés – a promu en 2007 un projet qui consistait à donner des caméras vidéo aux Palestinien.ne.s en Cisjordanie afin qu’ils/elles puissent documenter les violations des droits de l’homme qu’ils étaient contraint.e.s de subir sous l’occupation israélienne. Ces #enregistrements_vidéo bruts capturent de la manière la plus simple et la plus efficace les abus quotidiens et implacables commis à répétition par les colons illégaux et l’armée contre les Palestinien.ne.s. Au fil des ans, tous ces films sont devenus des #archives vivantes et malheureusement en constante expansion des #abus incessants et de la violence dont souffre la population palestinienne et avec lesquels elle doit vivre. Of Land and Bread rassemble certains de ces courts métrages dans un long métrage documentaire qui n’est indéniablement pas facile à regarder. La brutalité des colons et de l’armée n’épargne personne. Et pourtant, il est nécessaire de voir pour bien saisir et comprendre l’ampleur du cycle sans fin des violations des droits de l’homme auxquelles les Palestinien.ne.s sont confronté.e.s, alors que le monde regarde obstinément de l’autre côté. »


    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/59534_0
    #film #documentaire #film_documentaire #Cisjordanie #Palestine #colonisation #Israël #terre #armée_israélienne #violence #humiliations #destruction #brutalité #arrestations_arbitraires #menaces #insultes #provocation #documentation #droits_humains #archive #à_voir

  • Punitions, intimidations, salariés sous pression... Une ambiance toxique dénoncée à l’hôpital de Lomagne Marc Centene - ladepeche.fr

    «  On va remettre de l’ordre. Je suis sur le dossier depuis quelques semaines avec l’ARS, et il y a des choses qui méritent d’être éclaircies…  » Le maire de Fleurance, Ronny Guardia Mazzoleni, ne cache pas sa colère. Alerté par les salariés de l’établissement public de santé de Lomagne, l’EPSL, l’élu a rencontré également les trois syndicats présents dans la structure – CFDT, CGT et FO – au titre de son rôle de président du conseil de surveillance.

    L’EPSL est le 3e centre de santé du département, avec près de 300 employés. Outre un service de SSR, l’EPSL gère trois Ehpad  : le Tané à Lectoure, et Cadéot et la Pépinière à Fleurance. La situation y devient intenable pour les salariés, depuis le départ de l’ancien directeur l’année dernière. Une intersyndicale a même été envisagée.

    "Copinage politique"
    «  Des salariés nous ont alertés voilà près de 3 mois sur de graves dysfonctionnements  », explique Christophe Bukovec, secrétaire départemental de la CGT santé et action sociale. Le syndicat, très présent à l’Ehpad Cadéot, expose le rôle tenu par une cadre supérieure, qui gère les trois Ehpad de l’EPSL. «  Elle a mis en place un climat toxique, basé sur l’agressivité, des insultes ou des punitions, avec des agents convoqués sans motifs et sans pouvoir se défendre. On ne peut pas accepter de voir des agents de 20 ans tenir avec des cachets, ou pleurer en prenant leur service…  »

    La CGT, qui a constitué un épais dossier qu’elle a exposé à l’ARS, dénonce un petit groupe constitué de personnel d’animation ou médical, autour de la cadre supérieure. «  On s’est aperçu que ces personnes avaient des relations amicales mais aussi politiques. Il y a un copinage qui n’a pas sa place dans un établissement de santé.  » Le directeur adjoint, dans une rencontre avec les représentants du personnel, déclare même que «  la situation est proche de l’omerta  ».

    La CFDT a elle aussi sonné l’alarme, en rencontrant le député David Taupiac et le maire de Fleurance. «  Les problèmes sont concentrés sur les Ehpad, le SSR est plutôt épargné. Les salariés travaillent en conscience, mais tout le monde est très mal, y compris dans l’administratif. Et cela se répercute sur les résidents. Il y a un problème dans la direction, et cela influe sur tout…  » Le syndicat dénonce «  un climat très pourri  », où la délation est devenue une méthode de fonctionnement. «  On attend que des réponses soient mises en place, mais rien ne se passe  !  »

    Le cas de Lectoure
    L’Ehpad du Tané à Lectoure n’est pas épargné par les difficultés. Au mois de mars, le conseil de surveillance a vu le président mettre un terme à des rumeurs qui courent dans le Lectourois et le Fleurantin. Non, il n’est pas question de provoquer la fermeture de cet Ehpad public pour voir s’ouvrir un établissement privé. L’unité Barrère, à l’Ehpad du Tané, a fermé près de 30 lits sur 80. L’occupation d’un Ehpad atteint normalement 95 %. «  Nous sommes étonnés du silence de la municipalité de Lectoure, s’interroge Christophe Bukovec. Il y a pourtant des besoins sur le bassin du Lectourois.  » Ces lits vides représentent une forte perte pour l’établissement, alors que la masse salariale est restée la même.

    De quoi alimenter les grandes difficultés financières de l’établissement, et l’hypothèse d’une fermeture, qui inquiète autant les salariés et les syndicats que les familles. «  Une partie des lits est fermée, ce qui pourrait entraîner un déficit structurel  », analyse David Taupiac, contacté par les familles et les syndicats. «  Le fonctionnement actuel [de l’ESPL] entraîne une forme de maltraitance auprès des salariés et des résidents. Il faut sortir de cette spirale.  » Le dossier est désormais sur le bureau de l’ARS.

    #management #EnMarche à la #McKinsey #agressivité #insultes #punitions #délation #maltraitance #Ehpad #santé #travail #Fleurance #Lomagne #Lectoure

    source : https://www.ladepeche.fr/2023/06/22/punitions-intimidations-salaries-sous-pression-une-ambiance-toxique-denonc

  • Harcèlement sexuel, brûlures, insultes : les étudiants d’une célèbre école hôtelière en grève depuis trois semaines - La Libre
    https://www.lalibre.be/international/europe/2023/04/18/harcelement-sexuel-brulures-insultes-les-etudiants-dune-celebre-ecole-hoteli

    Harcèlement sexuel, propos homophobes, insultes : une promotion entière d’étudiants en management hôtelier de la célèbre école hôtelière Vatel est en grève depuis trois semaines, pour dénoncer « l’inaction de la direction » face au comportement de certains professeurs.

    Créé il y a 42 ans par Alain Sebban et son épouse, Vatel qui se présente comme le 1er groupe mondial de l’enseignement du management de l’hôtellerie avec 52 écoles dans 32 pays et un chiffre d’affaires de 90 millions d’euros, se targue de transmettre un « esprit Vatel » alliant « savoir-faire » et « savoir-être » à ses 42.000 diplômés, actifs dans le tourisme et l’hôtellerie.

    Mais depuis le 27 mars, la soixantaine d’élèves de troisième année de Bachelor de l’école parisienne sont en grève, refusant d’aller en cours de cuisine, pour dénoncer le comportement de certains professeurs du restaurant d’application ouvert au public, où ils apprennent les métiers de la cuisine et de la salle.

  • #Bras_d’honneur d’Eric #Dupond-Moretti : « Le #délit d’#outrage pourrait être caractérisé à l’encontre du #garde_des_sceaux »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/03/09/bras-d-honneur-d-eric-dupond-moretti-le-delit-d-outrage-pourrait-etre-caract

    #insulteur_insulté
    #auto_legiferation

    « Les parlementaires et les élus locaux sont, par leur engagement et le mandat qu’ils détiennent, les représentants de la démocratie nationale et locale. Ils occupent une place fondamentale dans le fonctionnement de nos institutions et toute atteinte à leur encontre constitue également une atteinte au pacte républicain » : c’est par ces mots vibrants qu’Eric Dupond-Moretti, en sa qualité de garde des sceaux, commence sa circulaire du 7 décembre 2020 relative au traitement judiciaire des infractions commises à l’encontre des personnes investies d’un mandat électif.

    Ironie du sort : un peu plus de deux années plus tard, le ministre de la justice s’est mis en situation d’être rattrapé par sa propre circulaire. En effet, en reconnaissant avoir effectué, en plein Hémicycle, deux bras d’honneur en réaction aux propos d’Olivier Marleix, président du groupe des députés Les Républicains (LR), le garde des sceaux pourrait s’exposer à des poursuites pour outrage devant la Cour de justice de la République. D’un point de vue juridique, la démonstration en est très simple.

    Pour commencer, l’article 433-5 du code pénal prévoit que « constituent un outrage puni de 7 500 euros d’amende les paroles, gestes ou menaces, les écrits ou images de toute nature non rendus publics ou l’envoi d’objets quelconques adressés à une personne chargée d’une mission de service public, dans l’exercice ou à l’occasion de l’exercice de sa mission, et de nature à porter atteinte à sa dignité ou au respect dû à la fonction dont elle est investie ».

    [...]

    Si aucune poursuite ne devait avoir lieu, on retiendra que, chaque année, plusieurs de nos concitoyens sont condamnés pour avoir adressé des doigts d’honneur à des personnes chargées d’une mission de service public ou dépositaires de l’autorité publique, sans bénéficier d’un tel traitement de faveur, et parfois en s’appuyant sur une circulaire émanant du garde des sceaux lui-même…

    En plus de faire mal à la #République, cette #affaire serait aussi un #bras_d’honneur au #principe_d’égalité_des_citoyens_devant_la_justice.

  • Des septuagénaires jugés pour avoir menacé de mort une enseignante « islamo-gauchiste »

    Lors de la polémique qui visait Sciences Po Grenoble en mars 2021, certains journalistes à l’instar de Pascal Praud et Caroline Fourest, avaient accusé à tort une enseignante. Après avoir subi une vague de #cyber-harcèlement, celle-ci avait porté #plainte contre dix personnes.

    « Je vais tenter de parler bien fort », prévient le président de la 24e chambre du tribunal judiciaire de Paris. L’audience a en effet quelque chose de peu banal. Les prévenus présents ce vendredi et poursuivis pour « #harcèlement au moyen d’un service de communication » et « #menaces_de_mort » sont majoritairement très âgés. Il fallait donc s’imaginer des personnes de plus de 70 ans saisir leur clavier, se connecter à leur compte Facebook et lâcher des #insultes et des menaces d’une extrême violence. Leur cible ? Une enseignante-chercheuse accusée de n’être rien d’autre qu’« une islamo-gauchiste ». 

    « Pour bien situer le contexte », le président résume la situation en lisant un article de presse. Il rappelle le début de cette affaire médiatisée en mars 2021 lorsque deux enseignants, #Klaus_Kinzler et #Vincent_T, sont la cible d’affiches placardées sur la façade de l’#IEP de Grenoble : « Des fascistes dans nos amphis Vincent T. […] et Klaus Kinzler démission. L’islamophobie tue. » Le syndicat étudiant Unef relaie l’action sur les réseaux sociaux, avant de tout supprimer. 

    Comme le racontait Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/110321/accusations-d-islamophobie-la-direction-de-sciences-po-grenoble-laisse-le-), ce #collage, condamné unanimement, venait après d’intenses tensions entre ces deux professeurs et une autre enseignante, Claire M., autour d’une journée de débats nommée « Racisme, antisémitisme et islamophobie » et organisée dans le cadre d’une « semaine pour l’égalité et la lutte contre les discriminations ». Rapidement, Klaus Kinzler fait le tour des plateaux télé pour livrer une version comportant de nombreuses omissions. Il affirme, à tort, avoir été viré de ce groupe préparatoire pour s’être opposé à l’utilisation du terme « islamophobie ». En plus de l’enseignante, il accuse Anne-Laure Amilhat Szary, patronne du laboratoire Pacte, rattaché à l’IEP, d’avoir livré son nom en pâture et d’avoir contribué à ce que des gens placardent des affiches sur les murs de l’institut. 

    Une victime ciblée par #Pascal_Praud et #Caroline_Fourest 

    L’accusation est rapidement reprise par Marianne, BFMTV et par l’essayiste Caroline Fourest. « D’après ce témoignage, c’est une enseignante et le laboratoire de recherche Pacte (CNRS) qui ont excité les étudiants contre ces deux professeurs et lâché la meute contre le droit de questionner un mot qui a tué. Affligeant. Elle a bon dos la “liberté académique” », tweete cette dernière le 6 mars 2021. Tout est faux comme l’a révélé Mediapart, mais qu’importe, l’accusation se propage en même temps que naît l’emballement médiatique. 

    Sur CNews, Pascal Praud va beaucoup plus loin et tient à être le premier à donner le nom et le prénom de la patronne du labo. « Puis intervient ce laboratoire Pacte avec cette dame, je vais citer son nom, Anne-Laure Amilhat Szary. Cette dame-là, c’est la directrice du laboratoire, cette dame c’est une militante […] qui avance avec le sentiment d’impunité, et c’est très révélateur parce qu’on voit le #terrorisme_intellectuel qui existe dans l’#université à travers leurs exemples », déclare-t-il le 9 mars 2021. 

    Il n’en fallait pas plus pour que la directrice en question reçoive des centaines de messages d’insultes et de menaces de mort. Entre le 12 et le 17 mars 2021, on veut « la buter », « l’éliminer » ou lui « trancher la gorge ». 

    Première invitée à la barre, Anne-Laure Amilhat Szary veut d’abord laver son honneur en rappelant les vérités bafouées par certains journalistes. Non, elle n’a jamais publié un communiqué officiel pour livrer le nom des deux enseignants mentionnés sur les affiches de l’IEP. Il s’agissait d’un simple courrier pour défendre une membre du laboratoire prise pour cible par ces deux professeurs. « Je suis intervenue pour assurer le respect de la laïcité et défendre une collègue », explique-t-elle tout en précisant avoir immédiatement « affirmé sa solidarité » avec ces deux enseignants lorsqu’elle a pris connaissance des affiches. Klaus Kinzler s’attaquait violemment à Claire M. et n’hésitait pas à fustiger les musulmans et hiérarchiser les religions en disant préférer le christianisme. 

    Très émue, elle détaille ensuite les conséquences de cette haine virtuelle. « Je craignais pour ma sécurité et d’être suivie dans la rue, raconte-t-elle. Je me suis mise à passer mes nuits sur les réseaux sociaux pour voir ce qui tombait. » Dans le même temps, plusieurs posts Facebook la ciblent directement et reprennent l’idée amorcée par Caroline Fourest. « L’islamo-gaucho Anne Laure Amilhat Szary est une instigatrice de la “fatwa” lancée contre deux professeurs à Sciences Po Grenoble ! Comme elle a trouvé normal de diffuser les photos des professeurs… rien ne va déranger à ce que l’on diffuse la sienne », peut-on lire dans un post accompagné de la photo de la directrice et publié le 12 mars par un certain Jean-Luc.

    Dans les commentaires, on peut lire un flot de #haine et d’#insultes. Et les messages des dix personnes poursuivies ce vendredi. 

    - Jacques L., 79 ans : « Quand ils la violent elle aura compris à moi que ça lui plaise !! […] Déjà pour la violer, il faut vraiment le vouloir beurk !! »
    - Alain B., 73 ans : « Qu’elle crève le cul bourré de chiffon rouge et la gueul ouvert. »
    - Annick L., 73 ans : « Horrible nana !! Le caillou rasé ! Pauvre tâche. Un jour viendra où tu devras te repentir ! »
    - Jean-Marie C., 60 ans : « Saloupe à butté »
    - Dominique B., 74 ans : « Il faut lui trancher la gorge »
    - Wilfrid B, 65 ans : « A l’échafaud (…) Regardez la gueule de la bavure. A expédier au pays du Maghreb »
    - Christian D., 58 ans : « Pauvre conne ton tour viendra »
    - Ronan M., 56 ans : « Grosse connasse on va te butter »
    - Dominique V., 56 ans : « Il faut tondre cette collabo de merde. »

    Seul Maxence D., 32 ans, se démarque en lâchant sur Twitter : « Potence + corde pas trop épaisse pour lui lacérer le coup à cette p*** ». 

    Des prévenus âgés et amnésiques 

    Très sûrs d’eux sur les réseaux sociaux, les quatre prévenus présents à l’audience sont désormais beaucoup moins fiers. Presque tous se disent amnésiques et affirment ne pas se souvenir de toute la polémique liée à Sciences Po Grenoble. Certains minimisent aussi la teneur de leur propos. « J’ai vu le post Facebook, j’ai lu deux trois commentaires et j’ai mis le mien, mais c’est juste une insulte, pas une menace de mort », lâche Alain B, qui contraint le tribunal à se répéter du fait de ses graves problèmes d’audition. « Qu’elle crève », ne serait pas une menace de mort selon cet ancien plombier aujourd’hui retraité. Tout juste « une connerie ». 

    Les mains dans les poches, il considère que « ce qui est fait est fait » et tarde à s’excuser, sans vraiment penser à la principale intéressée. « Je regrette bien sûr, si j’avais su que ça allait me ramener des ennuis comme ça… » Et d’insister face à une assemblée quelque peu médusée : « Je n’ai pas dit “je vais la crever”, j’ai dit “qu’elle crève”. Comme si elle tombait et que je la laissais par terre sans la ramasser. »

    Dominique B, secrétaire de direction à la retraite, qui voulait « trancher la gorge » d’Anne-Laure Amilhat Szary, aurait tout oublié. « C’est parti de mon ordinateur, mais je ne me rappelle pas avoir marqué ces propos », justifie-t-elle tout en expliquant ne pas vraiment maîtriser Facebook. Wilfrid B, 65 ans et ancien ouvrier, tente d’expliquer en quoi « À l’échafaud » n’est pas une menace de mort « puisque cela n’existe plus ». 

    « Je débutais avec Facebook et je ne savais pas comment ça fonctionnait », avance-t-il avant de reconnaître : « J’ai lu qu’on instaurait une fatwa contre ces profs. Je répondais à ça, mais je ne la visais pas particulièrement. » Même dénégation de Christian D., 58 ans, qui tente d’expliquer en quoi écrire « ton tour viendra » n’est pas une menace de mort. Pourquoi la phrase était-elle accompagnée par trois emojis « crotte » et trois emojis « flammes » ? « J’utilise l’emoji flamme pour tout, pour les anniversaires par exemple », tente-t-il avant de laisser sa place à Annick L. 

    Cette femme de 72 ans se déplace difficilement et dit avoir été « traumatisée » par sa garde à vue. « Depuis je suis sous antidépresseurs », confie-t-elle. « Y a rien à faire, je n’ai aucun souvenir de cette histoire. J’ai vu mon nom qui apparaissait sur Facebook mais je ne comprends pas. Je ne conteste pas l’avoir écrit mais je ne m’en souviens pas », poursuit-elle. Elle aurait donc oublié qu’elle voulait voir cette « traître », l’ex-directrice du laboratoire Pacte, clouée « au pilori » « le caillou rasé ». 

    Des sympathisants de Zemmour et Le Pen 

    Les quatre prévenus semblent aussi sincères que vulnérables et aucun d’entre eux ne veut laisser d’indice sur ses accointances politiques. Tant mieux puisque le président du tribunal ne souhaite pas en savoir plus et tient à rappeler qu’il « se fiche » de savoir ce « qu’ils pensent sur le fond ». Il faut attendre la plaidoirie de Raphaël Kempf, l’avocat d’Anne-Laure Amilhat Szary, pour avoir un profil politique un peu plus précis. 

    Lors de leur garde à vue en effet, la plupart ont confessé leur colère contre les « islamo-gauchistes », qu’ils définissent tantôt comme des « musulmans de gauche », tantôt comme des « gens de gauche pro-islam ». À la lecture de son audition, on découvre que Christian D « adore » Éric Zemmour et qu’il est, comme d’autres prévenus, membre du groupe « L’avenir France avec Éric Zemmour ». « Les gens de gauche sont des pro-islam et immigration qui organisent des réunions interdites aux gens de type caucasien et amènent des idées nauséabondes au sein des établissements publics français », déclare quant à lui Jean-Marie C, 60 ans et sous curatelle. 

    « Grâce à cette procédure, il devient évident que je voterai à tout jamais Marine Le Pen et que j’inciterai ma famille à faire de même », lâche de son côté Dominique V. aux enquêteurs. Annick L., enfin, a plus de mal à disserter sur ses opinions politiques. Lorsqu’on lui demande si elle connaît le groupe « Marion Maréchal-Le Pen, on t’aime » qu’elle suit sur Facebook, la réponse est évasive : « J’ai peut-être déjà mis un pouce, mais sans plus. »

    L’exploitation de son téléphone portable révèle pourtant de très nombreux commentaires virulents et des termes parfaitement explicites du type « nous les Français de souche ». « Ma belle-fille est chinoise, mon mari est d’origine polonaise. On n’est pas raciste », jure-t-elle. Elle affirme avoir répondu sans réfléchir et ne pas connaître Anne-Laure Amilhat Szary. Interrogée pour savoir ce qu’elle a contre les islamo-gauchistes , elle déroule les arguments déployés par certaines chaînes d’info en continu : « Y a cette histoire de Samuel Paty qui avait été égorgé, vous ne trouvez pas ça horrible ? Les gens qui sont poignardés pour rien, c’est affreux, c’est inhumain. Y a pas que ça. Tous les faits divers qu’on entend franchement c’est horrible, toutes ces jeunes femmes qui se font tuer. On ne vit plus dans un monde serein. »

    Une vie « bouleversée » pour Anne-Laure Amilhat Szary 

    Les avocats de la défense insistent sur l’âge des prévenus qui ne sauraient pas vraiment utiliser les réseaux sociaux et ne sauraient pas vraiment qu’un commentaire publié sur le réseau est lisible par tous dès lors que l’option privée n’est pas cochée. L’un des conseils, l’avocat de Jean-Marc C., tient tout de même à évoquer la responsabilité de certains journalistes dans cette affaire. « Les chaînes d’info en continu peuvent avoir une vraie influence tout comme certains journalistes, estime-t-il. Mon client a pu se dire que Caroline Fourest , qui elle, est journaliste , a recoupé ses sources avant de tweeter. Pour beaucoup de personnes et pour mon client, son tweet était une information. »

    Les prévenus, sorte de #fachosphère du troisième âge, ont en effet en commun de considérer les réseaux sociaux comme des sources à part entière et de ne rien vérifier. Ils confondent « article de presse » et « post-Facebook », et baignent dans des groupes qui s’affranchissent de toute réalité et qui partagent la même obsession que leurs journalistes préférés : la lutte contre des supposés islamo-gauchistes. 

    Lors de sa plaidoirie, Me Kempf livre sa déception de ne pas avoir eu « les explications » qu’il espérait. « Je regrette l’absence totale de prise en compte de ce que Anne-Laure Amilhat Szary a pu dire », enchaîne-t-il. Il rappelle donc les conséquences de ces mots sur la vie de sa cliente. Les quatre jours d’ITT, l’arrêt maladie, les troubles du sommeil et la dépression qui ont suivi. Il insiste aussi sur le « bouleversement professionnel » que cette victime collatérale de l’affaire de Sciences Po a dû subir.

    Peu de temps après ces attaques, l’ex-patronne du laboratoire rattaché au CNRS et renommé dans le milieu scientifique a préféré renoncer à son mandat. Si elle enseigne de nouveau depuis peu, elle dit ne plus pouvoir prendre un poste de direction. Il revient sur le rôle de Caroline Fourest qui a contribué à relayer « la légende » selon laquelle Anne-Laure Amilhat Szary aurait contribué à ce que deux professeurs de l’IEP soient pris pour cible. Il n’oublie pas non plus « la communauté d’intérêt politique » qui lie tous ces prévenus et demande qu’ils soient condamnés solidairement à une peine de 20 000 euros d’amende.

    La procureure, elle aussi déçue par la plupart des justifications, s’étonne que tous ces gens qui prétendent dénoncer ce qui est arrivé à Samuel Paty déploient la même mécanique « qui a tué Samuel Paty ». Pour les dix prévenus, elle a requis des peines avoisinant les mille euros d’amende à payer dans les 90 jours sous peine d’incarcération. La décision sera rendue le 13 janvier 2023.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/021222/des-septuagenaires-juges-pour-avoir-menace-de-mort-une-enseignante-islamo-

    #affaire_de_Grenoble #justice #réseaux_sociaux

    –—

    ajouté à la métaliste atour de ce qu’on a surnommé l’#affaire_de_Grenoble :
    https://seenthis.net/messages/943294

    ping @_kg_ @karine4 @isskein

    • Cyberharcèlement d’une enseignante de l’IEP de Grenoble : « Ils critiquent le meurtre de Samuel Paty, mais appellent eux-mêmes au meurtre »

      Dix prévenus ont comparu vendredi à Paris pour des accusations de #harcèlement_en_ligne et des menaces de mort à l’encontre d’une enseignante, dans le cadre d’une polémique médiatique à Sciences-Po Grenoble en mars 2021.

      Des cyberharceleurs aux cheveux blancs. Dix personnes comparaissaient vendredi au #tribunal_correctionnel de Paris, accusées de harcèlement en ligne et de menace de mort à l’encontre d’Anne-Laure Amilhat Szary, professeure des universités, dans le cadre de la polémique sur l’Institut d’études politiques de Grenoble en mars 2021. Les cinq prévenus présents n’ont pourtant pas le profil attendu dans une affaire de ce type. Ils sont nés entre 1948 et 1964. L’une d’entre eux à du mal à se lever pour venir jusqu’à la barre.

      Alain B., Corrézien de 74 ans, a écrit sur son compte Facebook, à propos d’Amilhat Szary, « qu’elle crève le cul bourré de chiffons rouges et la gueule ouverte ». Une « connerie », reconnaît-il devant le tribunal. Mais pas une menace de mort pour autant, selon lui. « Oui, c’est violent », mais « « qu’elle crève », c’est différent de « Je vais la crever » », tente-t-il d’argumenter. Le président de la séance lui demande s’il regrette son acte. « Bien sûr, si j’avais su que cela allait m’amener des ennuis comme ça… » L’avocat de la plaignante, maître Raphaël Kempf, dira dans sa plaidoirie qu’il s’attendait à « des excuses » de la part des prévenus, mais qu’« à une ou deux exceptions près, cela n’a pas été pas le cas ».

      « Ce n’est pas dans mes habitudes »

      Le procès était celui des fausses informations et du mécanisme de meutes engendré par les réseaux sociaux. Anne-Laure Amilhat Szary, 52 ans, est l’ancienne directrice du laboratoire de sciences sociales de Grenoble. Son nom a été propulsé dans le débat public il y a un an et demi, après l’affichage sur les murs du campus de l’IEP de Grenoble par des étudiants du nom de deux professeurs taxés de fascisme et d’islamophobie. Une démarche irresponsable quelques mois seulement après l’assassinat de Samuel Paty, enseignant de géographie accusé à tort d’islamophobie sur les réseaux sociaux.

      L’un des deux enseignants grenoblois mis en cause, Klaus Kinzler, avait alors décidé de répondre médiatiquement et jeté en pâture, avec la complicité de Pascal Praud sur CNews, le nom d’Anne-Laure Amilhat Szary. Il lui reprochait de l’avoir recadré après un échange de mail dans lequel il remettait en cause la présence du mot « islamophobie » sur le même plan que « racisme » et « antisémitisme », dans l’intitulé d’un séminaire sur les discriminations. Klaus Kinzler a par la suite été suspendu en décembre 2021 pour avoir tenu « des propos diffamatoires dans plusieurs médias contre l’établissement d’enseignement supérieur dans lequel il est en poste ».

      De cette polémique à tiroirs, nos prévenus ne savent quasiment rien. Certains ont lu un simple message sur Facebook – que certains appellent « un article » –, selon lequel Anne-Laure Amilhat Szary aurait notamment lancé une fatwa contre deux professeurs et aurait diffusé leur photo. Rien de tout cela n’est vrai, mais le post déclenche une avalanche de commentaires haineux.

      Wilfried B., 65 ans, reconnaît avoir écrit « A l’échafaud » et « Regardez-moi la gueule de la bavure » sous la publication. « Ce n’est pas dans mes habitudes, assure-t-il. Mais après ce qui s’était passé avec l’assassinat de Samuel Paty… C’est pour ça que j’ai répondu ce genre de commentaire. » Il s’excuse maintenant auprès de sa victime. Reste une incohérence relevée par la procureure : « Ils critiquent le meurtre de Samuel Paty, mais ils appellent eux-mêmes au meurtre et à la violence », pointe-t-elle dans son réquisitoire. Elle réclame des amendes allant de 630 à 1 350 euros selon les prévenus.

      « Ce sont des gens qui ne connaissent rien à Facebook »

      L’audience faisait aussi office de révélateur sur l’effet d’entraînement dans le cyberharcèlement. Plusieurs prévenus disent avoir publié leur message pour aller dans le même sens d’autres commentaires lus auparavant, sans vraiment se renseigner sur le fond de l’affaire. « Ce sont des gens qui ne connaissent rien à Facebook », glisse un proche d’une prévenue dans la salle. De fait, le procès a parfois tourné à la leçon sur les réseaux sociaux. « Quand vous publiez sur Facebook, tout le monde ne fait pas attention que s’il y a une petite planète, le post est visible par tous », tente le président de la séance.

      Mais l’absence de maîtrise des outils numériques n’excuse pas la violence des propos. Quand Jacques L., 79 ans, absent mais excusé par lettre, écrit « Quand ils la violeront, elle comprendra », il n’a probablement pas conscience de raviver un souvenir traumatisant de la vie de sa victime. Il n’en reste pas moins qu’il a rouvert « un gouffre », « une blessure béante », déplore Anne-Laure Amilhat Szary.

      Si Dominique B., 74 ans, pull en laine vert et écharpe rose, affirme ne pas se souvenir d’avoir écrit « Il faut lui trancher la gorge » à la barre, les conséquences dans la vie de la plaignante n’en sont pas moins tragiques. Redevenue simple enseignante-chercheuse, Anne-Laure Amilhat Szary ne se sent plus capable de reprendre des responsabilités dans sa carrière après avoir quitté la direction du laboratoire de sciences sociale de l’IEP Grenoble, en octobre 2021. Elle « s’autocensure » si elle doit prendre la parole publiquement et même sa vie personnelle s’est « effondrée », d’après la procureure.

      « Le système judiciaire est capable de réagir »

      Malgré ce déversement de violence, Anne-Laure Amilhat Szary ne regrette « ni ses engagements ni ce procès ». Elle le fait « pour les autres enseignants et chercheurs victimes de harcèlement ». « Comme la philosophe Sophie Djigo, à qui on reproche de vouloir emmener ses étudiants voir des migrants », pointe-t-elle, en référence à cette enseignante valenciennoise dont la sortie scolaire à Calais a été annulée sous la pression de l’extrême droite. La parole scientifique dans le débat public est loin d’être simple. Et le combat est bien politique, selon elle.

      Si le président de la chambre n’a pas voulu s’aventurer sur ce terrain vendredi, les publications Facebook incriminées ont pourtant bien souvent été vues par les prévenus sur des groupes de soutien à Eric Zemmour ou Marion Maréchal-Le Pen. La critique sans mesure des universitaires a été lancée par Jean-Michel Blanquer et Frédérique Vidal (alors respectivement ministre de l’Education nationale et de l’Enseignement supérieur) quand ils sont partis en croisade contre un supposé #islamo-gauchisme à l’université. Elle a été largement reprise par Zemmour à la présidentielle 2022.

      Cette audience laisse donc un goût doux-amer. Dix prévenus sur les milliers de messages reçus, cela semble bien faible. « On a sélectionné les messages les plus outrageants », reconnaît maître Kempf. Mais le mieux est l’ennemi du bien. « Quand on porte plainte, je ne suis pas certain qu’elle aboutisse », nous glisse-t-il.

      « Cette audience montre que le système judiciaire est capable de réagir », positive aussi Anne-Laure Amilhat Szary, qui a remercié la cour de sa rapidité. Cette audience participe à faire reculer le sentiment d’impunité en ligne. Dominic V., un prévenu de 56 ans absent à l’audience, a revendiqué ses propos lors de sa garde à vue, croyant que « seuls des rappels à la loi sont prononcés » dans ce genre de cas. La procureure a enjoint la cour à « lui donner tort ». Réponse le 13 janvier.

      https://www.liberation.fr/societe/police-justice/cyberharcelement-dune-enseignante-de-liep-de-grenoble-ils-critiquent-le-m

    • C’est à cause de la #télévision :
      https://contre-attaque.net/2022/12/03/le-profil-des-trolls-dextreme-droite-enfin-devoile

      Au procès, ces personnes âgées disent qu’elles ne se souviennent plus. Pourtant, lors de leurs arrestations, plusieurs avaient déclaré leur haine contre les « islamo-gauchistes » et leur proximité avec Zemmour ou Le Pen. Annick, 73 ans, avait parlé des « gens poignardés pour rien » et des « faits divers » qu’elle voyait : « franchement c’est horrible, toutes ces jeunes femmes qui se font tuer ». Bref, les prévenus sont des seniors rivés devant leurs télés, intoxiqués par les horreurs et la désinformation quotidienne de chaînes en continu. D’ailleurs l’avocat d’un prévenu dénonce à l’audience la responsabilité des journalistes : « Mon client a pu se dire que Caroline Fourest, qui elle, est journaliste, a recoupé ses sources avant de tweeter. » Pourtant, ni Pascal Praud ni Fourest ni les patrons de ces médias semeurs de haine ne sont sur le banc des accusés. Impunité totale.

      Voilà donc le profil mystérieux de ces milliers de trolls fascistes. Des personnes vulnérables, séniles, parfois sous curatelle, qui se font pourrir le cerveau par les chaînes d’extrême droite. Ce pays bascule à cause d’une poignée de milliardaires qui ont fait main basse sur l’information. Nous sommes beaucoup à connaître un oncle, un grand-père, un ami d’ami âgé ou des parents retraités à avoir vrillé progressivement ces dernières années, à force de regarder ces chaînes. Parlons-leur, proposons-leur de sortir, aidons-les à se désintoxiquer. Et organisons-nous pour mettre hors d’état de nuire Bolloré et ses amis.

      Le #PAF en état d’insalubrité publique ?
      Petite histoire de la « régulation audiovisuelle » :
      https://www.csa.fr/Informer/Toutes-les-actualites/Actualites/Histoire-de-la-regulation-audiovisuelle

      Le saviez-vous ? Le « pendant » internet du PAF s’appelle le #PIF. Étonnant, non ?

    • Sciences Po Grenoble : dix personnes condamnées pour avoir menacé de mort une enseignante « islamo-gauchiste »

      Lors de la polémique qui visait Sciences Po Grenoble en mars 2021, certains journalistes, à l’instar de Pascal Praud et Caroline Fourest, avaient accusé à tort une enseignante qui avait ensuite subi une vague de cyberharcèlement. Dix personnes ont été condamnées ce vendredi. 

      Ils croyaient, à tort, pouvoir insulter et menacer en toute impunité. En pleine polémique sur Sciences Po Grenoble, accusée d’être un repaire d’« islamo-gauchistes », les journalistes Caroline Fourest et Pascal Praud avaient fait circuler plusieurs mensonges pour dénoncer le rôle d’Anne-Laure Amilhat Szary, directrice du laboratoire de sciences sociales Pacte, rattaché à l’institut d’études politiques (IEP) de Grenoble. L’animateur de CNews avait même révélé son identité dans son émission « L’heure des pros ». 

      Dans la foulée, la chercheuse avait reçu de nombreuses insultes et menaces de mort sur les réseaux sociaux et avait fini par porter plainte contre dix personnes. Ces dernières viennent d’être condamnées ce vendredi par le tribunal judiciaire de Paris pour « cyberharcèlement » à une amende de 3 000 euros avec sursis chacune et à une peine de un an d’inéligibilité. L’une d’entre elles a également été reconnue coupable d’« injures à caractère sexiste ». Les dix prévenus sont également condamnés solidairement à verser à la victime 4 000 euros en réparation de son préjudice moral, et 1 500 euros au titre de ses frais d’avocat.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/130123/sciences-po-grenoble-dix-personnes-condamnees-pour-avoir-menace-de-mort-un

    • Cyberharcèlement d’une enseignante de l’IEP de Grenoble : les auteurs condamnés à une amende

      La sanction est tombée pour les seniors coupables de harcèlement à l’encontre d’#Anne-Laure_Amilhat_Szary. Ils écopent de 3 000 euros d’amende avec sursis et d’un an d’inéligibilité.

      La justice ne laisse plus le cyberharcèlement impuni, même quand ses auteurs sont des seniors jusqu’à présent sans histoire. Les 10 prévenus accusés de harcèlement en ligne et de menace de mort à l’encontre d’Anne-Laure Amilhat Szary, professeure des universités, dans le cadre de la polémique sur l’Institut d’études politiques de Grenoble en mars 2021, ont été reconnus coupable par le tribunal correctionnel de Paris ce vendredi 13 janvier. L’un d’entre eux est également condamné pour injure sexiste. Ils écopent tous de 3 000 euros d’amende avec sursis et d’un an d’inéligibilité. Ils doivent également collectivement verser à la victime 4 000 euros pour préjudice moral et 1 500 euros pour ses frais d’avocat.

      De quoi donner tort à l’un d’entre eux, Dominic V., 56 ans absent lors de l’audience le 2 décembre et qui avait déclaré lors de sa garde à vue que « seuls des rappels à la loi sont prononcés » dans ce genre de cas. Les condamnés se sont retrouvés acteurs d’une polémique à tiroir complexe dont ils ne savaient souvent rien, ou pas grand-chose. Pour rappel, leur victime, Anne-Laure Amilhat Szary, 52 ans, est l’ancienne directrice du laboratoire de sciences sociales de Grenoble. Son nom a été propulsé dans le débat public il y a un an et demi, après l’affichage sur les murs du campus de l’IEP de Grenoble par des étudiants du nom de deux professeurs taxés de fascisme et d’islamophobie. Une démarche irresponsable quelques mois seulement après l’assassinat de Samuel Paty, enseignant de géographie accusé à tort d’islamophobie sur les réseaux sociaux.

      L’un des deux enseignants grenoblois mis en cause, Klaus Kinzler, avait alors décidé de répondre médiatiquement et jeté en pâture, avec la complicité de Pascal Praud sur CNews, le nom d’Anne-Laure Amilhat Szary. Il lui reprochait de l’avoir recadré après un échange de mail dans lequel il remettait en cause la présence du mot « islamophobie » sur le même plan que « racisme » et « antisémitisme », dans l’intitulé d’un séminaire sur les discriminations. Klaus Kinzler a par la suite été suspendu en décembre 2021 pour avoir tenu « des propos diffamatoires dans plusieurs médias contre l’établissement d’enseignement supérieur dans lequel il est en poste ».

      Raphaël Kempf, l’avocat de la victime, rappelle à Libération que « l’enquête a démontré que ces enquêtes provenaient de l’extrême droite [beaucoup des messages incriminés ont été posté sur des groupes Facebook de soutien à Eric Zemmour ou Marion Maréchal Le Pen, ndlr]. Le danger de ce courant politique est tel aujourd’hui qu’il met en danger des universitaires et des enseignants ».

      https://www.liberation.fr/societe/police-justice/cyberharcelement-dune-enseignante-de-liep-de-grenoble-les-auteurs-condamn

  • #SalePute

    Loin d’être un phénomène isolé, le #cyberharcèlement touche en majorité les #femmes. Une enquête édifiante sur ce déferlement de #haine virtuelle, aux conséquences bien réelles. Avec le #témoignage d’une dizaine de femmes, de tous profils et de tous pays, et de spécialistes de la question, qui en décryptent les dimensions sociologiques, juridiques et sociétales.

    Les femmes sont vingt-sept fois plus susceptibles que les hommes d’être harcelées via #Internet et les #réseaux_sociaux. Ce constat, dressé par l’European Women’s Lobby en 2017, prouve que les #cyberviolences envers les femmes ne sont pas une addition d’actes isolés, mais un fléau systémique. Plusieurs études sociologiques ont montré qu’il était, en majorité, le fait d’hommes, qui, contrairement aux idées reçues, appartiendraient à des milieux plutôt socio-économiques plutôt favorisés. Se sentant protégés par le caractère virtuel de leurs actions, les auteurs de ces violences s’organisent et mènent parfois des « #raids_numériques », ou #harcèlement_en_meute, aux conséquences, à la fois personnelles et professionnelles, terribles pour les victimes. Celles-ci, lorsqu’elles portent plainte, n’obtiennent que rarement #justice puisqu’elles font face à une administration peu formée sur le sujet, à une législation inadaptée et à une jurisprudence quasi inexistante. Les plates-formes numériques, quant à elles, sont encore très peu régulées et luttent insuffisamment contre le harcèlement. Pour Anna-Lena von Hodenberg, directrice d’une association allemande d’aide aux victimes de cyberharcèlement, le phénomène est une menace directe à la #démocratie : « Si nous continuons de tolérer que beaucoup de voix se fassent écarter de cet #espace_public [Internet, NDLR] et disparaissent, alors nous n’aurons plus de #débat_démocratique, il ne restera plus que les gens qui crient le plus fort ».

    Acharnement haineux
    #Florence_Hainaut et #Myriam_Leroy, deux journalistes belges cyberharcelées, recueillent les témoignages d’une dizaine de femmes, de tous profils et de tous pays, (dont la chroniqueuse de 28 minutes #Nadia_Daam, l’humoriste #Florence_Mendez ou encore l’auteure #Pauline_Harmange), elles aussi insultées et menacées sur le Net. En partant des messages malveillants reçus par ces dernières, le duo de réalisatrices enquête sur la prolifération de la haine en ligne auprès de différents spécialistes de la question, qui décryptent les aspects sociologiques, juridiques ou encore sociétaux du cyberharcèlement.

    https://www.arte.tv/fr/videos/098404-000-A/salepute

    –-> déjà signalé sur seenthis (https://seenthis.net/messages/919957 et https://seenthis.net/messages/920100), mais je voulais y ajouter des mots-clé et citations...

    #Renaud_Maes, sociologue (à partir de la min 16’30)

    « Généralement c’est plutôt des hommes qui agressent sur internet et c’est plutôt des gens qui viennent de milieux socio-économiques plus favorisés (...), des gens qui viennent de la classe moyenne, voire de la classe moyenne supérieure. Cela permet de révéler quelque chose qu’on croit relativement absent : il existe une violence structurelle dans nos société, il existe une domination structurelle et on s’en est pas débarrassés. Clairement, encore aujourd’hui, c’est pas facile d’être un homosexuel, c’est pas facile d’être une femme, c’est pas facile d’être une personne racisée, c’est encore moins facile si on commence à avoir plusieurs attributs au même temps. C’est quelque chose qui parfait ne transparaît pas dans le monde social, parce qu’on a plus de self-control. Avec internet on voit bien que le problème est bien là et que dès qu’on a eu l’occasion d’enlever un peu de #contrôle_social, d’avoir, ne fut-ce que l’illusion, car ce n’est pas forcément vrai, moins de conséquences immédiatement les choses sont mises à nu. Et on voit qu’il y a de la violence, il y a du #rejet des personnes homosexuelles, il y a de la misogynie, il y a du racisme. »

    #Ketsia_Mutombo, co-fondatrice du collectif « Féministes contre le harcèlement » (à partir de la min 22’30) :

    « On est encore dans des sociétés où la parole publique ou l’espace public n’est pas fait pour les femmes, n’est pas fait pour les groupes minorés. On est pensé comme des personnes qui doivent rester dans l’espace domestique, s’acquitter du travail domestique, familial, relationnel, mais ne pas prendre la place. »

    #Laurence_Rosier, linguiste (à partir de la min 22’45) :

    "Les femmes qui s’expriment, elles s’expriment dans la place publique. (...) Et à partir du moment où ’elles l’ouvrent’, elles se mettent en #danger parce qu’elles vont en général tenir une parole qui n’est pas la parole nécessairement attendue. C’est quoi une parole attendue depuis des lustres ? C’est que la femme au départ elle doit respecter les #convenances, donc elle doit être polie, c’est elle qui fait l’éducation à la politesse des enfants, elle doit être mesurée, en retenue, pas violente. Et dès qu’elle adopte un ton qui n’est pas celui-là, qui est véhément, qui est agressif, qui est trivial, sexuel... et bien, on va lui faire sentir que justement elle sort des codes établis et elle va être punie

    #Lauren_Bastide (à partir de la minute 22’18) :

    « Je trouve que le cyberhacèlement a beaucoup de résonance avec le #viol et la #culture_du_viol, qu’il y a ce continuum de la simple interpellation dans la rue au viol. Pour moi c’est pareil, il y a le petit mot écrit, le petit commentaire un peu haineux sous ta photo et puis le raid qui fout ta vie par terre. Il y a cette espèce de #tolérance de la société pour ça... ’c’est le tarif en fait... il ne fallait pas sortir la nuit, il ne fallait pas te mettre en jupe’. ’Bhein, oui, c’est le tarif, t’avais qu’à pas avoir d’opinion politique, t’avais qu’à pas avoir un métier visible. Les conséquences qu’il peut y avoir c’est que les femmes sont moins prêtes à parler, c’est plus difficile pour elles. Prendre la parole dans l’espace public quand on est une femme c’est l’#enfer. Il faut vraiment être très blindée, très sure de soi pour avoir la force d’y aller. Surtout quand on va exprimer une opinion politique »

    #Anna-Lena_von_Hodenberg, Hate aid (à partir de la minute 33’48) :

    « Nous devons réaliser qu’internet c’est l’espace public au même titre que la vie physique. »

    #Emma_Jane, autrice du livre Misogyny Online (à partir de la minute 35’30), en se référant au fait que le sujet n’est pas vraiment traité sérieusement...

    "La plupart des politiciens sont de vieux hommes blancs, ils ne reçoivent pas d’insulte raciste, ils ne reçoivent pas d’insultes sexistes, ils n’ont pas grandi avec internet.

    #Renate_Künast, députée écologiste allemande (à partir de la minute 39’20) :

    « Ce qui est choquant ce n’est pas seulement la haine dont j’ai été la cible, mais le fait que beaucoup de femmes sont visées par ce type de violence sexualisée. (...) On se sent personnellement visé, mais il s’agit d’un problème systémique, c’est caractéristique de l’extrême droite qui ne supporte pas que les femmes soient autre chose que des femmes au foyer et qu’elles jouent un rôle actif dans la société. (...) Il ne s’agissait pas d’une phrase, mais de milliers de messages qui ne disparaîtraient jamais. Pour toutes ces raisons j’ai porté plainte. Et j’ai été stupéfaite quand la réponse, se basant selon moi sur une mauvaise interprétation de la jurisprudence a été qu’en tant que femme politique je devais accepter ce genre de messages. (...) ’Détritus de chatte’, pour les juges en Allemagne, c’était de la liberté d’expression’. »

    #Laurence_Rosier (à partir de la minute 41’35) :

    « La liberté d’expression est invoquée aujourd’hui, pas dans tous les cas, mais dans beaucoup de cas, pour justifier des discours de haine. Et les discours de haine c’est pas soudain que la haine sort, c’est parce que ça a été permis et favorisé par ’oh, une petite blague sexiste, une petite tape sur l’épaule, un petit mot d’abord gentil’ et que progressivement on libère le niveau du caniveau. »

    #Florence_Mendez, humoriste (à partir de la minute 43’01) :

    « Le sexisme que même pour moi était acceptable avant, parce qu’on a toutes nagé dans cette mer en ce disant ’ça va, l’eau n’est pas si salée, je peux en boire encore un peu !’... On a toutes laissé passé ça. Et maintenant il y a des choses qui sont juste insupportables. (...) Je ne laisse plus rien passer du tout, rien passer du tout dans ma vie de tous les jours. »

    #Renate_Künast, députée écologiste allemande (à partir de la minute 43’25) :

    « ça me rappelle ce slogan des mouvements féministes des années 1970 : ’Le pouvoir des hommes est la patience des femmes’. Il faut juste qu’on arrête d’être patientes. »

    Anna-Lena von Hodenberg (à partir de la minute 47’32) :

    « Si on laisse courir les choses, sans régulation, sans poursuites judiciaires, si en tant que société on continue à rester des témoins passifs, alors ça aura des conséquences massives sur nos démocraties. Nous voyons déjà maintenant aux Etats-Unis : la polarisation. Nous l’avons vu en Grande-Bretagne pendant le Brexit. Et ça, c’est juste un avant-goût. Le net est l’espace public le plus important que nous avons, si nous continuons de tolérer que beaucoup de voix se font écarter de cet espace public, qu’elles disparaissent, alors nous n’avons plus de débat démocratique, alors il ne restera plus que les gens qui crient le plus fort et par conséquent, dans le débat public, régnera la loi du plus fort. Et ça, dans nos cultures démocratiques, nous ne pouvons pas l’accepter. »

    Voix off (à partir de la minute 52’40) :

    « ’Fermer sa gueule’, c’est déserter les réseaux, c’est changer de métier, adopter un ton très polissé, c’est refuser des opportunités quand elles sont trop exposées. Et serrer les dents quand on est attaqué, ne surtout pas donner l’impression de se plaindre. »

    #Florence_Mendez (à partir de la minute 53’40) :

    «C’est la fin de la tranquillité.»

    #fait_de_société #cyber-harcèlement #menaces #santé_mentale #violence_structurelle #domination_structurelle #misogynie #racisme #sexisme #intersectionnalité #insulte #espace_numérique #punition #code_établi #plainte #impunité #extrême_droite #fachosphère #liberté_d'expression #polarisation #démocratie #invisibilisation #silenciation #principe_de_la_nasse #nasse
    #documentaire #film_documentaire

    ping @isskein @_kg_ @karine4 @cede

  • Qui est complice de qui ? Les #libertés_académiques en péril

    Professeur, me voici aujourd’hui menacé de décapitation. L’offensive contre les musulmans se prolonge par des attaques contre la #pensée_critique, taxée d’islamo-gauchisme. Celles-ci se répandent, des réseaux sociaux au ministre de l’Éducation, des magazines au Président de la République, pour déboucher aujourd’hui sur une remise en cause des libertés académiques… au nom de la #liberté_d’expression !

    Je suis professeur. Le 16 octobre, un professeur est décapité. Le lendemain, je reçois cette menace sur Twitter : « Je vous ai mis sur ma liste des connards à décapiter pour le jour où ça pétera. Cette liste est longue mais patience : vous y passerez. »

    C’est en réponse à mon tweet (https://twitter.com/EricFassin/status/1317246862093680640) reprenant un billet de blog publié après les attentats de novembre 2015 (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/161115/nous-ne-saurions-vouloir-ce-que-veulent-nos-ennemis) : « Pour combattre le #terrorisme, il ne suffit pas (même s’il est nécessaire) de lutter contre les terroristes. Il faut surtout démontrer que leurs actes sont inefficaces, et donc qu’ils ne parviennent pas à nous imposer une politique en réaction. » Bref, « nous ne saurions vouloir ce que veulent nos ennemis » : si les terroristes cherchent à provoquer un « conflit des civilisations », nous devons à tout prix éviter de tomber dans leur piège.

    Ce n’est pas la première fois que je reçois des #menaces_de_mort. Sur les réseaux sociaux, depuis des années, des trolls me harcèlent : les #insultes sont quotidiennes ; les menaces, occasionnelles. En 2013, pour Noël, j’ai reçu chez moi une #lettre_anonyme. Elle recopiait des articles islamophobes accusant la gauche de « trahison » et reproduisaient un tract de la Résistance ; sous une potence, ces mots : « où qu’ils soient, quoi qu’ils fassent, les traîtres seront châtiés. » Je l’analysais dans Libération (https://www.liberation.fr/societe/2014/01/17/le-nom-et-l-adresse_973667) : « Voilà ce que me signifie le courrier reçu à la maison : on sait où tu habites et, le moment venu, on saura te trouver. » J’ajoutais toutefois : « l’#extrême_droite continue d’avancer masquée, elle n’ose pas encore dire son nom. » Or ce n’est plus le cas. Aujourd’hui, les menaces sont signées d’une figure connue de la mouvance néonazie. J’ai donc porté #plainte. C’est en tant qu’#universitaire que je suis visé ; mon #université m’accorde d’ailleurs la #protection_fonctionnelle.

    Ainsi, les extrêmes droites s’enhardissent. Le 29 octobre, l’#Action_française déploie impunément une banderole place de la Concorde : « Décapitons la République ! »

    C’est quelques heures après un nouvel attentat islamiste à Nice, mais aussi après une tentative néofasciste avortée en Avignon. Avant d’être abattu, l’homme a menacé d’une arme de poing un commerçant maghrébin. Il se réclamait de #Génération_identitaire, dont il portait la veste avec le logo « #Defend_Europe », justifiant les actions du groupe en Méditerranée ou à la frontière franco-italienne ; un témoin a même parlé de #salut_nazi (https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/vaucluse/avignon/avignon-homme-arme-couteau-abattu-policiers-1889172.htm). Le procureur de la République se veut pourtant rassurant : « c’est un Français, né en France, qui n’a rien à voir avec la religion musulmane ». Et de conclure : « nous avons plus affaire à un #déséquilibré, qui semble proche de l’extrême droite et a fait des séjours en psychiatrie. Il n’y a pas de revendication ». « Comme dans le cas de l’attentat de la mosquée de Bayonne perpétré par un ancien candidat FN en octobre 2019 » (https://www.mediapart.fr/journal/france/281019/attentat-bayonne-l-ex-candidat-fn-en-garde-vue?onglet=full), note Mediapart, « le parquet national antiterroriste n’a pas voulu se saisir de l’affaire ». Ce fasciste était un fou, nous dit-on, pas un terroriste islamiste : l’attaque d’Avignon est donc passée presque inaperçue.

    Si les #Identitaires se pensent aux portes du pouvoir, c’est aussi que certains médias ont préparé le terrain. En une, l’#islamophobie y alterne avec la dénonciation des universitaires antiracistes (j’y suis régulièrement pointé du doigt) (https://www.lepoint.fr/politique/ces-ideologues-qui-poussent-a-la-guerre-civile-29-11-2018-2275275_20.php). Plus grave encore, l’extrême droite se sent encouragée par nos gouvernants. Le président de la République lui-même, qui a choisi il y a un an de parler #communautarisme, #islam et #immigration dans #Valeurs_actuelles, s’inspire des réseaux sociaux et des magazines. « Le monde universitaire a été coupable. Il a encouragé l’#ethnicisation de la question sociale en pensant que c’était un bon filon. Or, le débouché ne peut être que sécessionniste. » Selon Le Monde du 10 juin 2020, Emmanuel Macron vise ici les « discours racisés (sic) ou sur l’intersectionnalité. » Dans Les Inrocks (https://www.lesinrocks.com/2020/06/12/idees/idees/eric-fassin-le-president-de-la-republique-attise-lanti-intellectualisme), je m’inquiétais alors de cet #anti-intellectualisme : « Des sophistes qui corrompent la jeunesse : à quand la ciguë ? » Nous y sommes peut-être.

    Car du #séparatisme, on passe aujourd’hui au #terrorisme. En effet, c’est au tour du ministre de l’Éducation nationale de s’attaquer le 22 octobre, sur Europe 1, à « l’islamo-gauchisme » qui « fait des ravages à l’Université » : il dénonce « les #complices_intellectuels du terrorisme. » « Qui visez-vous ? », l’interroge Le JDD (https://www.lejdd.fr/Politique/hommage-a-samuel-paty-lutte-contre-lislamisme-blanquer-precise-au-jdd-ses-mesu). Pour le ministre, « il y a un combat à mener contre une matrice intellectuelle venue des universités américaines et des #thèses_intersectionnelles, qui veulent essentialiser les communautés et les identités, aux antipodes de notre #modèle_républicain ». Cette idéologie aurait « gangrené une partie non négligeable des #sciences_sociales françaises » : « certains font ça consciemment, d’autres sont les idiots utiles de cette cause. » En réalité, l’intersectionnalité permet d’analyser, dans leur pluralité, des logiques discriminatoires qui contredisent la rhétorique universaliste. La critique de cette assignation à des places racialisées est donc fondée sur un principe d’#égalité. Or, à en croire le ministre, il s’agirait « d’une vision du monde qui converge avec les intérêts des islamistes. » Ce qui produit le séparatisme, ce serait donc, non la #ségrégation, mais sa dénonciation…

    Si #Jean-Michel_Blanquer juge « complices » celles et ceux qui, avec le concept d’intersectionnalité, analysent la #racialisation de notre société pour mieux la combattre, les néofascistes parlent plutôt de « #collabos » ; mais les trolls qui me harcèlent commencent à emprunter son mot. En France, si le ministre de l’Intérieur prend systématiquement le parti des policiers, celui de l’Éducation nationale fait de la politique aux dépens des universitaires. #Marion_Maréchal peut s’en féliciter : ce dernier « reprend notre analyse sur le danger des idéologies “intersectionnelles” de gauche à l’Université. »


    https://twitter.com/MarionMarechal/status/1321008502291255300
    D’ailleurs, « l’islamo-gauchisme » n’est autre que la version actuelle du « #judéo-bolchévisme » agité par l’extrême droite entre les deux guerres. On ne connaît pourtant aucun lien entre #Abdelhakim_Sefrioui, mis en examen pour « complicité d’assassinat » dans l’enquête sur l’attentat de #Conflans, et la gauche. En revanche, le ministre ne dit pas un mot sur l’extrême droite, malgré les révélations de La Horde (https://lahorde.samizdat.net/2020/10/20/a-propos-dabdelhakim-sefrioui-et-du-collectif-cheikh-yassine) et de Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/221020/attentat-de-conflans-revelations-sur-l-imam-sefrioui?onglet=full) sur les liens de l’imam avec des proches de #Marine_Le_Pen. Dans le débat public, jamais il n’est question d’#islamo-lepénisme, alors même que l’extrême droite et les islamistes ont en commun une politique du « #conflit_des_civilisations ».

    Sans doute, pour nos gouvernants, attaquer des universitaires est-il le moyen de détourner l’attention de leurs propres manquements : un professeur est mort, et on en fait porter la #responsabilité à d’autres professeurs… De plus, c’est l’occasion d’affaiblir les résistances contre une Loi de programmation de la recherche qui précarise davantage l’Université. D’ailleurs, le 28 octobre, le Sénat vient d’adopter un amendement à son article premier (https://www.senat.fr/amendements/2020-2021/52/Amdt_234.html) : « Les libertés académiques s’exercent dans le respect des #valeurs_de_la_République », « au premier rang desquelles la #laïcité ». Autrement dit, ce n’est plus seulement le code pénal qui définirait les limites de la liberté d’expression des universitaires. Des collègues, désireux de régler ainsi des différends scientifiques et politiques, appuient cette offensive en réclamant dans Le Monde la création d’une « instance chargée de faire remonter directement les cas d’atteinte aux #principes _épublicains et à la liberté académique »… et c’est au nom de « la #liberté_de_parole » (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-) ! Bref, comme l’annonce sombrement le blog Academia (https://academia.hypotheses.org/27401), c’est « le début de la fin. » #Frédérique_Vidal, ministre de l’Enseignement supérieur et de la recherche, le confirme sans ambages : « Les #valeurs de la laïcité, de la République, ça ne se discute pas. »


    https://twitter.com/publicsenat/status/1322076232918487040
    Pourtant, en démocratie, débattre du sens qu’on veut donner à ces mots, n’est-ce pas l’enjeu politique par excellence ? Qui en imposera la définition ? Aura-t-on encore le droit de critiquer « les faux dévots de la laïcité » (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/101217/les-faux-devots-de-la-laicite-islamophobie-et-racisme-anti-musulmans) ?

    Mais ce n’est pas tout. Pourquoi s’en prendre aux alliés blancs des minorités discriminées, sinon pour empêcher une solidarité qui dément les accusations de séparatisme ? C’est exactement ce que les terroristes recherchent : un monde binaire, en noir et blanc, sans « zone grise » (https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/260716/terrorisme-la-zone-grise-de-la-sexualite), où les musulmans feraient front avec les islamistes contre un bloc majoritaire islamophobe. Je l’écrivais dans ce texte qui m’a valu des menaces de décapitation : nos dirigeants « s’emploient à donner aux terroristes toutes les raisons de recommencer. » Le but de ces derniers, c’est en effet la #guerre_civile. Qui sont donc les « #complices_intellectuels » du terrorisme islamiste ? Et qui sont les « idiots utiles » du #néofascisme ?

    En France, aujourd’hui, les #droits_des_minorités, religieuses ou pas, des réfugiés et des manifestants sont régulièrement bafoués ; et quand des ministres s’attaquent, en même temps qu’à une association de lutte contre l’islamophobie, à des universitaires, mais aussi à l’Unef (après SUD Éducation), à La France Insoumise et à son leader, ou bien à Mediapart et à son directeur, tous coupables de s’engager « pour les musulmans », il faut bien se rendre à l’évidence : la #démocratie est amputée de ses #libertés_fondamentales. Paradoxalement, la France républicaine d’Emmanuel #Macron ressemble de plus en plus, en dépit des gesticulations, à la Turquie islamiste de Recep Tayyip Erdogan, qui persécute, en même temps que la minorité kurde, des universitaires, des syndicalistes, des médias libres et des partis d’opposition.

    Pour revendiquer la liberté d’expression, il ne suffit pas d’afficher des caricatures ; l’esprit critique doit pouvoir se faire entendre dans les médias et dans la rue, et partout dans la société. Sinon, l’hommage à #Samuel_Paty serait pure #hypocrisie. Il faut se battre pour la #liberté_de_la_pensée, de l’engagement et de la recherche. Il importe donc de défendre les libertés académiques, à la fois contre les menaces des réseaux sociaux et contre l’#intimidation_gouvernementale. À l’heure où nos dirigeants répondent à la terreur par une #politique_de_la_peur, il y a de quoi trembler pour la démocratie.

    https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/011120/qui-est-complice-de-qui-les-libertes-academiques-en-peril
    #Eric_Fassin #intersectionnalité #SHS #universalisme #Blanquer #complicité

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    Pour compléter le fil de discussion commencé par @gonzo autour de :
    Jean-François Bayart : « Que le terme plaise ou non, il y a bien une islamophobie d’Etat en France »
    https://seenthis.net/messages/883974

    ping @isskein @karine4 @cede

    • Une centaine d’universitaires alertent : « Sur l’islamisme, ce qui nous menace, c’est la persistance du déni »

      Dans une tribune au « Monde », des professeurs et des chercheurs de diverses sensibilités dénoncent les frilosités de nombre de leurs pairs sur l’islamisme et les « idéologies indigénistes, racialistes et décoloniales », soutenant les propos de Jean-Michel Blanquer sur « l’islamo-gauchisme ».

      Tribune. Quelques jours après l’assassinat de Samuel Paty, la principale réaction de l’institution qui est censée représenter les universités françaises, la Conférence des présidents d’université (CPU), est de « faire part de l’émotion suscitée » par des propos de Jean-Michel Blanquer sur Europe 1 et au Sénat le 22 octobre. Le ministre de l’éducation nationale avait constaté sur Europe 1 que « l’islamo-gauchisme fait des ravages à l’université », notamment « quand une organisation comme l’UNEF cède à ce type de choses ». Il dénonçait une « idéologie qui mène au pire », notant que l’assassin a été « conditionné par des gens qui encouragent cette #radicalité_intellectuelle ». Ce sont des « idées qui souvent viennent d’ailleurs », le #communautarisme, qui sont responsables : « Le poisson pourrit par la tête. » Et au Sénat, le même jour, Jean-Michel Blanquer confirmait qu’il y a « des courants islamo-gauchistes très puissants dans les secteurs de l’#enseignement_supérieur qui commettent des dégâts sur les esprits. Et cela conduit à certains problèmes, que vous êtes en train de constater ».

      Nous, universitaires et chercheurs, ne pouvons que nous accorder avec ce constat de Jean-Michel Blanquer. Qui pourrait nier la gravité de la situation aujourd’hui en France, surtout après le récent attentat de Nice – une situation qui, quoi que prétendent certains, n’épargne pas nos universités ? Les idéologies indigéniste, racialiste et « décoloniale » (transférées des campus nord-américains) y sont bien présentes, nourrissant une haine des « Blancs » et de la France ; et un #militantisme parfois violent s’en prend à ceux qui osent encore braver la #doxa_antioccidentale et le prêchi-prêcha multiculturaliste. #Houria_Bouteldja a ainsi pu se féliciter début octobre que son parti décolonial, le #Parti_des_indigènes_de_la_République [dont elle est la porte-parole], « rayonne dans toutes les universités ».

      La réticence de la plupart des universités et des associations de spécialistes universitaires à désigner l’islamisme comme responsable de l’assassinat de Samuel Paty en est une illustration : il n’est question dans leurs communiqués que d’« #obscurantisme » ou de « #fanatisme ». Alors que le port du #voile – parmi d’autres symptômes – se multiplie ces dernières années, il serait temps de nommer les choses et aussi de prendre conscience de la responsabilité, dans la situation actuelle, d’idéologies qui ont pris naissance et se diffusent dans l’université et au-delà. L’importation des idéologies communautaristes anglo-saxonnes, le #conformisme_intellectuel, la #peur et le #politiquement_correct sont une véritable menace pour nos universités. La liberté de parole tend à s’y restreindre de manière drastique, comme en ont témoigné récemment nombre d’affaires de #censure exercée par des groupes de pression.

      « Nous demandons à la ministre de prendre clairement position contre les idéologies qui sous-tendent les #dérives_islamistes »

      Ce qui nous menace, ce ne sont pas les propos de Jean-Michel Blanquer, qu’il faut au contraire féliciter d’avoir pris conscience de la gravité de la situation : c’est la persistance du #déni. La CPU affirme dans son communiqué que « la recherche n’est pas responsable des maux de la société, elle les analyse ». Nous n’en sommes pas d’accord : les idées ont des conséquences et les universités ont aussi un rôle essentiel à jouer dans la lutte pour la défense de la laïcité et de la liberté d’expression. Aussi nous étonnons-nous du long silence de Frédérique Vidal, la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, qui n’est intervenue le 26 octobre que pour nous assurer que tout allait bien dans les universités. Mais nous ne sommes pas pour autant rassurés.

      Nous demandons donc à la ministre de mettre en place des mesures de #détection des #dérives_islamistes, de prendre clairement position contre les idéologies qui les sous-tendent, et d’engager nos universités dans ce combat pour la laïcité et la République en créant une instance chargée de faire remonter directement les cas d’atteinte aux principes républicains et à la liberté académique. Et d’élaborer un guide de réponses adaptées, comme cela a été fait pour l’éducation nationale.

      Premiers signataires : Laurent Bouvet, politiste, professeur des universités ; Jean-François Braunstein, philosophe, professeur des universités ; Jeanne Favret-Saada, anthropologue, directrice d’études honoraire à l’Ecole pratique des hautes études ; Luc Ferry, ancien ministre de l’éducation nationale (2002-2004) ; Renée Fregosi, politiste, maîtresse de conférences HDR en science politique ; Marcel Gauchet, philosophe, directeur d’études émérite à l’Ecole des hautes études en sciences sociales ; Nathalie Heinich, sociologue, directrice de recherche au CNRS ; Gilles Kepel, politiste, professeur des universités ; Catherine Kintzler, philosophe, professeure honoraire des universités ; Pierre Nora, historien, membre de l’Académie française ; Pascal Perrineau, politiste professeur des universités ; Pierre-André Taguieff, historien des idées, directeur de recherche au CNRS ; Pierre Vermeren, historien, professeur des universités

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      Liste complète des signataires :

      Signataires

      Daniel Aberdam, directeur de recherches à l’INSERM – Francis Affergan, professeur émérite des Universités – Alya Aglan, professeur des Universités – Jean-François Agnèse, directeur de recherches IRD – Joëlle Allouche-Benayoun, chargée de recherche au CNRS – Éric Anceau, maître de conférences HDR – Julie d’Andurain, professeur des Universités – Sophie Archambault de Beaune, professeur des Universités – Mathieu Arnold, professeur des Universités – Roland Assaraf, chargé de recherche au CNRS – Philippe Avril, professeur émérite des Universités – Isabelle Barbéris, maître de conférences HDR – Clarisse Bardiot, maître de conférences HDR – Patrick Barrau, maître de conférences honoraire – Christian Bassac, professeur honoraire des Universités – Myriam Benarroch, maître de conférences – Martine Benoit, professeur des Universités – Wladimir Berelowitsch, directeur d’études à l’EHESS – Florence Bergeaud-Blackler, chargée de recherche au CNRS – Maurice Berger, ancien professeur associé des Universités – Marc Bied-Charrenton, professeur émérite des Universités – Andreas Bikfalvi, professeur des Universités – Jacques Billard, maître de conférences honoraire – Jean-Cassien Billier, maître de conférences – Alain Blanchet, professeur émérite des Universités – Guillaume Bonnet, professeur des Universités – ​Laurent Bouvet, professeur des Universités – Rémi Brague, professeur des Universités – Joaquim Brandão de Carvalho, professeur des Universités – Jean-François Braunstein, professeur des Universités – Christian Brechot, professeur émérite des Universités – Stéphane Breton, directeur d’études à l’EHESS – Jean-Marie Brohm, professeur émérite des Universités – Michelle-Irène Brudny, professeur honoraire des Universités – Patrick Cabanel, directeur d’études, École pratique des hautes études – Christian Cambillau, directeur de recherches émérite au CNRS – Belinda Cannone, maître de conférences – Dominique Casajus, directeur de recherches émérite au CNRS – Sylvie Catellin, maître de conférences – Brigitte Chapelain, maître de conférences – Jean-François Chappuit, maître de conférences – Patrick Charaudeau, professeur émérite des Universités – Blandine Chelini-Pon, professeur des Universités – François Cochet, professeur émérite des Universités – Geneviève Cohen-Cheminet, professeur des Universités – Jacqueline Costa-Lascoux, directrice de recherche au CNRS – Cécile Cottenceau, PRAG Université – Philippe Crignon, maître de conférences – David Cumin, maître de conférences HDR – Jean-Claude Daumas, professeur émérite des Universités – Daniel Dayan, directeur de recherches au CNRS – Chantal Delsol, membre de l’Académie des sciences morales et politiques – Gilles Denis, maître de conférences HDR – Geneviève Dermenjian, maître de conférences HDR – Albert Doja, professeur des Universités – Michel Dreyfus, directeur de recherche au CNRS – Philippe Dupichot, professeur des Universités – Alain Ehrenberg, directeur émérite de recherche au CNRS – Marie-Claude Esposito, professeur émérite des Universités – Jean-Louis Fabiani, directeur d’études à l’EHES – Jeanne Favret-Saada, directrice d’études honoraire à l’EPHE – Laurent Fedi, maître de conférences – Rémi Ferrand, maître de conférences – Luc Ferry, ancien ministre de l’Éducation nationale – Michel Fichant, professeur émérite des Universités – Dominique Folscheid, professeur émérite des Universités – Nicole Fouché, chercheuse CNRS-EHESS - Annie Fourcaut, professeur des Universités – Renée Fregosi, maître de conférences HDR retraitée – Pierre Fresnault-Deruelle, professeur émérite des Universités – Marc Fryd, maître de conférences HDR – Alexandre Gady, professeur des Universités – Jean-Claude Galey, directeur d’études à l’EHESS – Marcel Gauchet, directeur d’études à l’EHESS – Christian Gilain, professeur émérite des Universités – Jacques-Alain Gilbert, professeur des Universités – Gabriel Gras, chargé de recherche au CEA – Yana Grinshpun, maître de conférences – Patrice Gueniffey, directeur d’études à l’EHESS – Éric Guichard, maître de conférences HDR – Jean-Marc Guislin, professeur émérite des Universités – Charles Guittard, professeur des Universités – Philippe Gumplowicz, professeur des Universités – Claude Habib, professeur émérite des Universités – François Heilbronn, professeur des Universités associé à Sciences-Po – Nathalie Heinich, directrice de recherche au CNRS – Marc Hersant, professeur des Universités – Philippe d’Iribarne, directeur de recherche au CNRS – François Jost, professeur émérite des Universités – Olivier Jouanjan, professeur des Universités – Pierre Jourde, professeur émérite des Universités – Gilles Kepel, professeur des Universités – Catherine Kintzler, professeur honoraire des Universités – Marcel Kuntz, directeur de recherche au CNRS – Bernard Labatut, maître de conférence HDR – Monique Lambert, professeur des Universités – Frédérique de La Morena, maître de conférences – Philippe de Lara, maître de conférences HDR – Philippe Larralde, PRAG Université – Dominique Legallois, professeur des Universités – Anne Lemonde, maître de conférences – Anne-Marie Le Pourhiet, professeur des Universités – Andrée Lerousseau, maître de conférences – Franck Lessay, professeur émérite des Universités – Marc Levilly, maître de conférences associé – Carlos Levy, professeur émérite des Universités – Roger Lewandowski, professeur des Universités – Philippe Liger-Belair, maître de conférences – Laurent Loty, chargé de recherche au CNRS – Catherine Louveau, professeur émérite des Universités – Danièle Manesse, professeur émérite des Universités – Jean-Louis Margolin, maître de conférences – Joseph Martinetti, maître de conférences – Céline Masson, professeur des Universités – Jean-Yves Masson, professeur des Universités – Eric Maulin, professeur des Universités – Samuel Mayol, maître de conférences – Isabelle de Mecquenem, PRAG Université – Ferdinand Mélin-Soucramanien, professeur des Universités – Marc Michel, professeur émérite des Universités –​ Jean-Baptiste Minnaert, professeur des Universités – Nathalie Mourgues, professeur émérite des Universités – Lion Murard, chercheur associé au CERMES – Franck Neveu, professeur des Universités – Jean-Pierre Nioche, professeur émérite à HEC – Pierre Nora, membre de l’Académie française – Jean-Max Noyer, professeur émérite des Universités – Dominique Ottavi, professeur émérite des Universités – Bruno Ollivier, professeur des Universités, chercheur associé au CNRS – Gilles Pages, directeur de recherche à l’INSERM – Marc Perelman, professeur des Universités – Pascal Perrineau, professeur des Universités – Laetitia Petit, maître de conférences des Universités – Jean Petitot, directeur d’études à l’EHESS – Béatrice Picon-Vallin, directrice de recherches au CNRS – René Pommier, maître de conférences – Dominique Pradelle, professeur des Universités – André Quaderi, professeur des Universités – Gérard Rabinovitch, chercheur associé au CNRS-CRPMS – Charles Ramond, professeur des Universités – Jean-Jacques Rassial, professeur émérite des Universités – François Rastier, directeur de recherche au CNRS – Philippe Raynaud, professeur émérite des Universités – Dominique Reynié, professeur des Universités – Isabelle Rivoal, directrice de recherches au CNRS – Jean-Jacques Roche, professeur des Universités – Pierre Rochette, professeur des Universités – Marc Rolland, professeur des Universités – Danièle Rosenfeld-Katz, maître de conférences – Bernard Rougier, professeur des Universités – Andrée Rousseau, maîtresse de conférences – Jean-Michel Roy, professeur des Universités – François de Saint-Chéron, maître de conférences HDR – Jacques de Saint-Victor, professeur des Universités – Xavier-Laurent Salvador, maître de conférences HDR – Jean-Baptiste Santamaria, maître de conférences – Yves Santamaria, maître de conférences – Georges-Elia Sarfati, professeur des Universités – Jean-Pierre Schandeler, chargé de recherche au CNRS – Pierre Schapira, professeur émérite des Universités – Martine Segalen, professeur émérite des Universités – Perrine Simon-Nahum, directrice de recherche au CNRS – Antoine Spire, professeur associé à l’Université – Claire Squires, maître de conférences – Marcel Staroswiecki, professeur honoraire des Universités – Wiktor Stoczkowski, directeur d’études à l’EHESS – Jean Szlamowicz, professeur des Universités – Pierre-André Taguieff, directeur de recherche au CNRS – Jean-Christophe Tainturier, PRAG Université – Jacques Tarnero, chercheur à la Cité des sciences et de l’industrie – Michèle Tauber, maître de conférences HDR – Pierre-Henri Tavoillot, maître de conférences HDR – Alain Tedgui, directeur de recherches émérite à l’INSERM – ​Thibault Tellier, professeur des Universités – Françoise Thom, maître de conférences HDR – André Tiran, professeur émérite des Universités – Antoine Triller, directeur de recherches émérite à l’INSERM – Frédéric Tristram, maître de conférences HDR – Sylvie Toscer-Angot, maître de conférences – Vincent Tournier, maître de conférences – Christophe Tournu, professeur des Universités – Serge Valdinoci, maître de conférences – Raymonde Vatinet, professeur des Universités – Gisèle Venet, professeur émérite des Universités – François Vergne, maître de conférences – Gilles Vergnon, maître de conférences HDR – Pierre Vermeren, professeur des Universités – Nicolas Weill-Parot, directeur d’études à l’EPHE – Yves Charles Zarka, professeur émérite des Universités – Paul Zawadzki, maître de conférences HDR – Françoise Zonabend, directrice d’études à l’EHESS

      https://manifestedes90.wixsite.com/monsite

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-
      #manifeste_des_cents #manifeste_des_100 #décolonial #ESR #enseignement_supérieur

    • De la liberté d’expression des « voix musulmanes » en France

      Le traumatisme né de l’assassinat de l’enseignant Samuel Paty à Conflans-Sainte-Honorine le 16 octobre 2020 impose une réflexion collective profonde, aussi sereine que possible. L’enjeu est fondamental pour la société française qui, d’attentat revendiqué par une organisation constituée en attentat mené par un « loup solitaire », de débat sur le voile en débat sur Charlie, et de loi antiterroriste en loi contre le « séparatisme » s’enferre depuis plusieurs décennies dans une polarisation extrêmement inquiétante autour des questions liées à l’islam.

      Le constat de la diffusion, au sein des composantes se déclarant musulmanes en France, de lectures « radicales » et qui survalorisent la violence est incontestable. L’idéologie dite « djihadiste » demeure certes marginale, mais possède une capacité d’adaptation manifeste, liant les enjeux propres au monde musulman avec des problématiques françaises. Internet lui offre une caisse de résonance particulière auprès des plus jeunes, générant du ressentiment, mais aussi des frustrations. La #prison et la #délinquance, sans doute autant que certaines mosquées et associations cultuelles, constituent d’autres espaces de #socialisation à cette vision mortifère du monde.

      En revanche, les interprétations des racines de cette diffusion divergent, donnant lieu à des #controverses_scientifiques et médiatiques qui n’honorent pas toujours les personnes concernées. Il est manifeste que face à un problème complexe, l’analyse ne saurait être monocausale et ne se pencher que sur une seule variable. L’obsession pour la part purement religieuse du phénomène que légitiment certains chercheurs et qui est au cœur des récentes politiques du gouvernement français fonctionne comme un #écran_de_fumée.

      S’attaquer par des politiques publiques aux « #prêcheurs_de_haine » ou exiger la réforme d’un Islam « malade » sans autre forme de réflexion ou d’action ignore la dimension relationnelle de la #violence et des tensions qui déchirent la France.

      Quand les « islamo-gauchistes » doivent rendre des comptes

      Cette perspective revient à négliger l’importance de la #contextualisation, oubliant d’expliquer pourquoi une interprétation particulière de l’islam a pu acquérir, via sa déclinaison politique la plus fermée, une capacité à incarner un rejet de la société dominante. En somme cette lecture méconnaît comment et pourquoi une interprétation radicale du #référent_islamique trouve depuis quelques années une pertinence particulière aux yeux de certains, et pourquoi ce serait davantage le cas en #France qu’ailleurs en Europe. Elle revient surtout à oublier la nature circulaire des dynamiques qui permet à un contexte et à une idéologie de s’alimenter mutuellement, désignant alors de façon simpliste celui qui « aurait commencé » ainsi que — et c’est là une funeste nouveauté des derniers mois — ses « collabos » affublés du label « islamo-gauchiste » et qui devraient rendre des comptes.

      Beaucoup a ainsi été écrit et dit, parfois trop rapidement. En tant que chercheur et citoyen, je ressens autant de la lassitude que de la tristesse, mesurant combien mon champ professionnel développe de façon croissante une sorte d’incommunicabilité, entrainant des haines tenaces et donnant de plus en plus souvent lieu à de la diffamation entre ses membres. Il m’apparait que la perspective faisant toute sa place à la #complexité des phénomènes politiques et sociaux a, d’une certaine manière, perdu la partie. Marginalisée dans les médias, elle devient manifestement de plus en plus inaudible auprès d’institutions publiques en quête de solutions rapides et brutales, faisant souvent fi du droit. L’approche nuancée des sciences sociales se trouve reléguée dans des espaces d’expression caractérisés par l’entre-soi politique, scientifique ou, il faut le reconnaitre, communautaire (ce dernier parfois prompt à tordre le discours et à le simplifier pour se rassurer).

      « Liberté d’expression », mais pas pour tout le monde

      Cette mécanique de parole complexe reléguée ne concerne pas uniquement les chercheurs. Ma frustration de « perdant » n’a au fond que peu d’importance. Elle renvoie toutefois à un enjeu beaucoup plus fondamental qui concerne l’espace de représentation et d’expression des musulmans français. Dans un contexte de fortes tensions autour de la question musulmane, il s’agit là d’un blocage récurrent dont les pouvoirs publics et une grande partie des médias se refusent à percevoir la centralité. La faiblesse des espaces offerts aux voix qui se revendiquent musulmanes et sont reconnues comme légitimes par leurs coreligionnaires constitue un angle mort que les tenants de la « liberté d’expression » auraient tout intérêt à aborder. Autant que le contrôle policier et la surveillance des appels à la haine sur Internet et dans les mosquées, c’est là un levier nécessaire pour contenir la violence et lutter contre elle.

      La liberté d’expression n’a jamais été totale, et certains tabous légitimes demeurent ou évoluent avec le temps. Pensons à la pédocriminalité dans les années 1970, ou aux caricatures sur les juifs et l’argent dans les années 1930. Parmi les tenants d’une laïcité intégrale, qui a déjà discuté avec une femme voilée ? Partons tout d’abord du principe que l’ignorance de l’Autre et de sa propre histoire constitue une racine de la #polarisation grave de la société française. Admettons ensuite qu’il est important pour chacun d’avoir une perception juste de ses concitoyens et aussi, en démocratie, de se sentir correctement et dignement représenté à une variété d’échelons.

      La figure de #Hassen_Chalghoumi, imam d’origine tunisienne d’une mosquée en Seine–Saint-Denis très fréquemment mobilisé dans les grands médias, symbolise un dysfonctionnement patent de ce mécanisme de #représentation. Sa propension à soutenir des positions politiques à rebours de ses « ouailles » supposées, en particulier sur la Palestine, mais surtout son incapacité à s’exprimer correctement en français ou même à avoir un fond de culture générale partagée ne constitue aucunement des caractéristiques rédhibitoires pour faire appel à lui quand un sujet en lien avec l’islam émerge. Pire, il semblerait même parfois que ce soit exactement le contraire comme quand Valeurs actuelles, alors accusé d’avoir caricaturé la députée Danièle Obono en esclave, a fait appel à lui pour défendre la liberté d’expression et l’a placé, détail sans doute potache, mais tellement symptomatique de mépris affiché, devant une plaque émaillée « Licence IV » (autrefois utilisée pour désigner les débits de boissons alcoolisées).

      Pour les millions de Français d’origine musulmane dont l’élocution française est parfaite et qui partagent les mêmes références culturelles populaires que la majorité des Français, reconnaissons qu’il est parfaitement humiliant d’avoir l’impression que les médias n’ont pas d’autre « modèle » à mobiliser ou à valoriser pour entendre une voix décrite comme musulmane. Comment dès lors ne pas comprendre la défiance envers les médias ou la société dans son ensemble ?

      L’ère du #soupçon

      Certes, il revient aux musulmans au premier chef de s’organiser et de faire émerger des figures représentatives, dépassant ainsi la fragmentation qui est celle de leur culte, ainsi que la mainmise exercée par les États d’origine, Maroc, Algérie et Turquie en tête. Les luttes internes sont elles-mêmes d’une grande violence, souvent fondées sur le « narcissisme des petites différences » de Sigmund Freud. Toutefois, reconnaissons que l’expérience démontre que les restrictions ne sont pas seulement internes à la « communauté ». Il y a plus de vingt ans déjà, le sociologue #Michel_Wieviorka avait pointé du doigt l’incapacité de la société française à accueillir les voix se revendiquant comme musulmanes :

      "Plutôt que d’être perçus comme des acteurs qui inventent et renouvellent la #vie_collective — avec ses tensions, ses conflits, ses négociations —, les associations susceptibles de passer pour « ethniques » ou religieuses […] sont couramment ignorées, soupçonnées de couvrir les pires horreurs ou traitées avec hostilité par les pouvoirs publics. […] À force de rejeter une association sous prétexte qu’elle serait intégriste et fermée sur elle-même, à force de lui refuser toute écoute et tout soutien, on finit par la constituer comme telle."

      De la chanteuse #Mennel (candidate d’origine syrienne à une émission sur TF1 et qui alors portait le foulard) à #Tariq_Ramadan (certes de nationalité suisse) en passant par l’humoriste #Yassine_Belattar et le #Comité_contre_l’islamophobie_en_France (CCIF), les occasions d’exclure les voix endogènes qui revendiquent une part d’#islamité dans leur discours et sont à même de servir de référence tant cultuelle que politique et culturelle ont été nombreuses. Parfois pleinement légitimes lorsque des accusations de viols ont été proférées, des dispositifs de contrôle imposent de « montrer patte blanche » au-delà de ce qui devrait légitimement être attendu. Non limités à l’évaluation de la probité, ils rendent en plus toute critique adressée à la société française et ses failles (en politique étrangère par exemple) extrêmement périlleuses, donnant le sentiment d’un traitement différencié pour les voix dites musulmanes, promptes à se voir si facilement criminalisées. Dès lors, certaines positions, pourtant parfaitement raisonnables, deviennent indicibles.

      Revendiquer la nécessité de la #lutte_contre_l’islamophobie, dont l’existence ne devrait pas faire débat par exemple quand une femme portant le foulard se fait cracher dessus par des passants fait ainsi de manière totalement absurde partie de cette liste de tabous, établie sans doute de manière inconsciente par des années d’#injonctions et de #stigmatisations, héritées de la période coloniale.

      Une telle mécanique vient enfin légitimer les logiques d’#exclusion propres au processus de #radicalisation. Elle s’avère dès lors contreproductive et donc dangereuse. Par exemple, dissoudre le CCIF dont l’action principale est d’engager des médiations et de se tourner vers les institutions publiques est à même de constituer, en acte aux yeux de certains, la démonstration de l’inutilité des #associations et donc l’impossibilité de s’appuyer sur les institutions légales. C’est une fois encore renvoyer vers les fonds invisibles de l’Internet les #espaces_d’expression et de représentation, c’est ainsi creuser des fossés qui génèrent l’#incompréhension et la violence.

      Il devient impérieux d’apprendre à s’écouter les uns les autres. Il demeure aussi nécessaire de reconnaitre que, comme l’entreprise a besoin de syndicats attentifs et représentatifs, la société dans son ensemble, diverse comme elle est, a tout à gagner à offrir des cadres d’expression sereins et ouverts à ses minorités, permettant aussi à celles-ci de revendiquer, quitte à ne pas faire plaisir à moi-même, à la majorité, ou au patron.

      https://orientxxi.info/magazine/de-la-liberte-d-expression-des-voix-musulmanes-en-france,4227
      #religion

    • « La pensée “décoloniale” renforce le narcissisme des #petites_différences »

      80 psychanalystes s’insurgent contre l’assaut des « #identitaristes » dans le champ du savoir et du social

      « Les intellectuels ont une mentalité plus totalitaire que les gens du commun » écrivait Georges Orwell (1903-1950), dans Essais, Articles et Lettres.

      Des militants, obsédés par l’#identité, réduite à l’#identitarisme, et sous couvert d’antiracisme et de défense du bien, imposent des #idéologies_racistes par des #procédés_rhétoriques qui consistent à pervertir l’usage de la langue et le sens des mots, en détournant la pensée de certains auteurs engagés dans la lutte contre le racisme qu’ils citent abondamment comme #Fanon ou #Glissant qui, au contraire, reconnaissent l’#altérité et prônent un nouvel #universalisme.

      Parmi ces militants, le Parti des indigènes de la République -dit le #PIR- qui s’inscrit dans la mouvance « décoloniale ».

      La pensée dite « décoloniale » s’insinue à l’Université et menace les sciences humaines et sociales sans épargner la psychanalyse. Ce phénomène se répand de manière inquiétante et nous n’hésitons pas à parler d’un #phénomène_d’emprise qui distille subrepticement des idées propagandistes. Ils véhiculent une idéologie aux relents totalitaires.

      Réintroduire la « #race » et stigmatiser des populations dites « blanches » ou de couleur comme coupables ou victimes, c’est dénier la #complexité_psychique, ce n’est pas reconnaître l’histoire trop souvent méconnue des peuples colonisés et les traumatismes qui empêchent la transmission.

      Une idéologie qui nie ce qui fait la singularité de l’individu, nie les processus toujours singuliers de #subjectivation pour rabattre la question de l’identité sur une affaire de #déterminisme culturel et social.

      Une idéologie qui secondarise, voire ignore la primauté du vécu personnel, qui sacrifie les logiques de l’#identification à celle de l’identité unique ou radicalisée, dénie ce qui fait la spécificité de l’humain.

      Le livre de Houria Bouteldja, porte-parole du PIR, intitulé Les Blancs, les Juifs et nous. Vers une politique de l’amour révolutionnaire (La Fabrique, 2016), soutenu par des universitaires et des chercheurs du CNRS, prétend défendre les #victimes - les « indigènes » - alors qu’il nous paraît en réalité raciste, antisémite, sexiste et homophobe et soutient un islamisme politique. L’ensemble du livre tourne autour de l’idée que les descendants d’immigrés maghrébins en France, du fait de leurs origines, seraient victimes d’un “#racisme_institutionnel” - voire un #racisme_d’Etat-, lequel aboutirait à véritablement constituer des “#rapports_sociaux_racistes”.

      L’auteure s’adresse aux « Juifs » : « Vous, les Juifs » : des gens qui pour une part seraient étrangers à la « blanchité », étrangers à la « race » qui, depuis 1492, dominerait le monde (raison pour laquelle elle distingue les « Juifs » des « Blancs »), mais qui pour une autre part sont pires que les « Blancs », parce qu’ils en seraient les valets criminels.

      Fanon, auquel les décoloniaux se réfèrent, ne disait-il pas : « Quand vous entendez dire du mal des Juifs, dressez l’oreille, on parle de vous ».

      Le #racialisme pousse à la #position_victimaire, au #sectarisme, à l’#exclusion, et finalement au #mépris ou à la #détestation du différent, et à son exclusion de fait. Il s’appuie sur une réécriture fallacieuse de l’histoire qui nie les notions de #progrès de #civilisation mais aussi des racismes et des rivalités tout aussi ancrés que le #racisme_colonialiste.

      C’est par le « #retournement_du_stigmate » que s’opère la transformation d’une #identité_subie en une #identité_revendiquée et valorisée qui ne permet pas de dépasser la « race.

      Il s’agit là, « d’#identités_meurtrières » (#Amin_Maalouf) qui prétendent se bâtir sur le meurtre de l’autre.

      Ne nous leurrons pas, ces revendications identitaires sont des revendications totalitaires, et ces #dérives_sectaires, communautaristes menacent nos #valeurs_démocratiques et républicaines en essentialisant les individus, en valorisant de manière obsessionnelle les #particularités_culturelles et en remettant à l’affiche une imagerie exotique méprisante que les puissances coloniales se sont évertuées à célébrer.

      Cette idéologie s’appuie sur ce courant multiculturaliste états-unien qu’est l’#intersectionnalité en vogue actuellement dans les départements des sciences humaines et sociales. Ce terme a été proposé par l’universitaire féministe américaine #Kimberlé_Crenshaw en 1989 afin de spécifier l’intersection entre le #sexisme et le #racisme subi par les femmes afro-américaines. La mouvance décoloniale peut s’associer aux « #postcolonial_studies » afin d’obtenir une légitimité académique et propager leur idéologie. Là où l’on croit lutter contre le racisme et l’oppression socio-économique, on favorise le #populisme et les #haines_identitaires. Ainsi, la #lutte_des_classes est devenue une #lutte_des_races.

      Des universitaires, des chercheurs, des intellectuels, des psychanalystes s’y sont ralliés en pensant ainsi lutter contre les #discriminations. C’est au contraire les exacerber.

      #Isabelle_de_Mecquenem, professeure agrégée de philosophie, a raison de rappeler que « emprise » a l’avantage de faire écho à l’article L. 141-6 du #code_de_l'éducation. Cet article dispose que « le service public de l’enseignement supérieur est laïque et indépendant de toute emprise politique, économique, religieuse ou idéologique (…) ». Rappelons que l’affaire Dorin à l’Université de Limoges relève d’une action sectaire (propagande envers les étudiants avec exclusion de toute critique).

      Il est impérieux que tout citoyen démocrate soit informé de la dangerosité de telles thèses afin de ne pas perdre de vue la tension irréductible entre le singulier et l’universel pour le sujet parlant. La #constitution_psychique pour Freud n’est en aucun cas un particularisme ou un communautarisme.

      Nous appelons à un effort de mémoire et de pensée critique tous ceux qui ne supportent plus ces logiques communautaristes et discriminatoires, ces processus d’#assignation_identitaire qui rattachent des individus à des catégories ethno-raciales ou de religion.

      La psychanalyse s’oppose aux idéologies qui homogénéisent et massifient.

      La psychanalyse est un universalisme, un humanisme. Elle ne saurait supporter d’enrichir tout « narcissisme des petites différences ». Au contraire, elle vise une parole vraie au profit de la singularité du sujet et de son émancipation.
      Signataires
      Céline Masson, Patrick Chemla, Rhadija Lamrani Tissot, Laurence Croix, Patricia Cotti, Laurent Le Vaguerèse, Claude Maillard, Alain Vanier, Judith Cohen-Solal, Régine Waintrater, Jean-Jacques Moscovitz, Patrick Landman, Jean-Jacques Rassial, Anne Brun, Fabienne Ankaoua, Olivier Douville, Thierry Delcourt, Patrick Belamich, Pascale Hassoun , Frédéric Rousseau, Eric Ghozlan, Danièle Rosenfeld-Katz, Catherine Saladin, Alain Abelhauser, Guy Sapriel, Silke Schauder, Kathy Saada, Marie-José Del Volgo, Angélique Gozlan, Patrick Martin-Mattera, Suzanne Ferrières-Pestureau, Patricia Attigui, Paolo Lollo, Robert Lévy, Benjamin Lévy, Houria Abdelouahed, Mohammed Ham, Patrick Guyomard, Monique Zerbib, Françoise Nielsen, Claude Guy, Simone Molina, Rachel Frouard-Guy, Françoise Neau, Yacine Amhis, Délia Kohen, Jean-Pierre Winter, Liliane Irzenski, Jean Michel Delaroche , Sarah Colin, Béatrice Chemama-Steiner, Francis Drossart, Cristina Lindenmeyer, Eric Bidaud, Eric Drouet, Marie-Frédérique Bacqué, Roland Gori, Bernard Ferry, Marie-Christine Pheulpin, Jacques Barbier, Robert Samacher, Faika Medjahed, Pierre Daviot, Laetitia Petit, David Frank Allen, Daniel Oppenheim, Marie-Claude Fourment-Aptekman, Michel Hessel, Marthe Moudiki Dubreuil, Isabelle Floch, Pierre Marie, Okba Natahi, Hélène Oppenheim-Gluckman, Daniel Sibony, Jean-Luc Gaspard, Eva Talineau, Paul Alerini, Eliane Baumfelder-Bloch, Jean-Luc Houbron, Emile Rafowicz, Louis Sciara , Fethi Benslama, Marielle David, Michelle Moreau Ricaud, Jean Baptiste Legouis, Anna Angelopoulos, Jean-François Chiantaretto , Françoise Hermon, Thierry Lamote, Sylvette Gendre-Dusuzeau, Xavier Gassmann, Guy Dana, Wladi Mamane, Graciela Prieto, Olivier Goujat, Jacques JEDWAB, Brigitte FROSIO-SIMON , Catherine Guillaume, Esther Joly , Jeanne Claire ADIDA , Christian Pierre, Jean Mirguet, Jean-Baptiste BEAUFILS, Stéphanie Gagné, Manuel Perianez, Alain Amar, Olivier Querouil, Jennifer Biget, Emmanuelle Boetsch, Michèle Péchabrier, Isabel Szpacenkopf, Madeleine Lewensztain Gagna, Michèle Péchabrier, Maria Landau, Dominique Méloni, Sylvie Quesemand Zucca

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/09/25/la-pensee-decoloniale-renforce-le-narcissisme-des-petites-differences_601292

      #pensée_décoloniale #psychanalyse #totalitarisme

    • Les sciences sociales contre la République ?

      Un collectif de revues de sciences humaines et sociales (SHS) met au défi le ministre de l’éducation nationale de trouver dans ses publications des textes permettant de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste.

      Dans le JDD du 25 octobre, le ministre de l’éducation nationale déclarait qu’il y avait, dans les universités, un combat à mener. Contre l’appauvrissement de l’enseignement supérieur ? Contre la précarité étudiante ? Contre les difficultés croissantes que rencontrent tous les personnels, précaires et titulaires, enseignants et administratifs, à remplir leurs missions ? Contre la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), qui va amplifier ces difficultés ? Non : contre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises ». Et le ministre, téméraire : face à cette « #gangrène », il faut cesser la « #lâcheté ».

      On reste abasourdi qu’un ministre de l’#éducation_nationale s’en prenne ainsi à celles et ceux qui font fonctionner les universités. Mais pour aberrants qu’ils soient, ces propos n’étonnent pas tout à fait : déjà tenus, sur Europe 1 et au Sénat, ils prolongent ceux d’Emmanuel Macron, en juin 2020, dans Le Monde, qui accusait les universitaires d’ethniciser la question sociale et de « casser la République en deux ». Plutôt que de se porter garant des libertés académiques, attaquées de toutes parts, notamment dans le cadre du débat parlementaire actuel, Jean-Michel Blanquer se saisit de l’assassinat d’un professeur d’histoire et géographie pour déclarer la guerre aux sciences sociales, qui défendraient des thèses autorisant les violences islamistes ! Sa conviction est faite : ce qui pourrit les universités françaises, ce sont les « thèses intersectionnelles », venues des « universités américaines » et qui « veulent essentialiser » les communautés.

      Ignorance ministérielle

      Le ministre « défie quiconque » de le contredire. Puisque les revues scientifiques sont, avec les laboratoires et les universités, les lieux d’élaboration des sciences sociales, de leurs controverses, de la diffusion de leurs résultats, c’est à ce titre que nous souhaitons mener cette contradiction, ses propos révélant son ignorance de nos disciplines, de leurs débats et de leurs méthodes.

      La démarche scientifique vise à décrire, analyser, comprendre la société et non à décréter ce qu’elle doit être. Les méthodes des sciences sociales, depuis leur émergence avec Emile Durkheim dans le contexte républicain français, s’accordent à expliquer les faits sociaux par le social, précisément contre les explications par la nature ou l’essence des choses. A ce titre, elles amènent aussi à rendre visibles des divisions, des discriminations, des inégalités, même si elles contrarient. Les approches intersectionnelles ne sont pas hégémoniques dans les sciences sociales : avec d’autres approches, que, dans leur précieuse liberté, les revues font dialoguer, elles sont précisément l’un des outils critiques de la #désessentialisation du monde social. Néologisme proposé par la juriste états-unienne Kimberlé Crenshaw à la fin des années 1980, le terme « intersectionnalité » désigne en outre, dans le langage actuel des sciences sociales, un ensemble de démarches qui en réalité remontent au XIXe siècle : il s’agit d’analyser la réalité sociale en observant que les #identités_sociales se chevauchent et que les logiques de #domination sont plurielles.

      Dès 1866, Julie-Victoire Daubié, dans La Femme pauvre au XIXe siècle, montre la particularité de la situation des ouvrières, domestiques et prostituées obligées de travailler pour survivre, faisant des femmes pauvres une catégorie d’analyse pour le champ de la connaissance et de la politique, alors que lorsqu’on parlait des pauvres, on pensait surtout aux hommes ; et que lorsqu’on parlait des femmes, on pensait avant tout aux bourgeoises.

      Une politique répressive de la pensée

      Plus près de nous, l’équipe EpiCov (pour « Epidémiologie et conditions de vie »), coordonnée par la sociologue Nathalie Bajos et le démographe François Héran, vient de publier des données concernant l’exposition au Covid-19 à partir de critères multiples parmi lesquels la classe sociale, le sexe, le lieu de naissance. Une première lecture de ces données indique que les classes populaires travaillant dans la maintenance (plutôt des hommes) et dans le soin (plutôt des femmes) ont été surexposées, et que, parmi elles, on compte une surreprésentation de personnes nées hors d’Europe. Une analyse intersectionnelle cherchera à corréler ces données, entre elles et avec d’autres disponibles, pour mieux comprendre comment les #discriminations s’entrelacent dans la vie des personnes. Où sont l’essentialisation, l’encouragement au communautarisme ? Pour les chercheurs et chercheuses en sciences sociales, il s’agit simplement, à partir de données vérifiées par des méthodes scientifiques, validées entre pairs et ouvertes à la discussion, de faire leur travail.

      L’anathème que le ministre lance traduit une politique répressive de la pensée. Nous mettons M. Blanquer au défi de trouver un seul texte publié dans la bibliothèque ouverte et vivante de nos revues qui permette de dire que l’intersectionnalité inspire le #terrorisme_islamiste. Se saisir d’un mot, « intersectionnalité », pour partir en guerre contre les sciences sociales et, plus généralement, contre la liberté de penser et de comprendre la société, est une manœuvre grossière. Si elle prend, nos universités devront troquer la liberté de chercher (qui est aussi la liberté de se tromper) pour rien moins qu’une science aux ordres, un obscurantisme ministériel. On voit mal comment la République pourrait en sortir grandie.

      Le collectif des revues en lutte, constitué en janvier 2020 autour de l’opposition aux projets de LPPR et de réforme des retraites, rassemble aujourd’hui 157 revues francophones, pour l’essentiel issues des sciences humaines et sociales.

      https://www.lemonde.fr/sciences/article/2020/11/02/les-sciences-sociales-contre-la-republique_6058195_1650684.html

    • Academic freedom in the context of France’s new approach to ’separatism’

      From now on, academic freedom will be exercised within the limits of the values ​​of the Republic. Or not.

      For months, France has been severely weakened by a deepening economic crisis, violent social tensions, and a health crisis out of control. The barbaric assassination of history professor Samuel Paty on October 16 in a Paris suburb and the murder of Vincent Loquès, Simone Barreto Silva, Nadine Devillers in the Notre-Dame basilica in Nice on October 29 have now plunged the country into terror.

      Anger, bewilderment, fear and a need for protection took over French society. French people should have the right to remain united, to understand, to stay sharp, do everything possible not to fall into the trap set by terrorists who have only one objective: to divide them. It is up to politics to lead the effort of collective elaboration of the mourning, to ensure the unity of the country. But that’s not what is happening. Politics instead tries to silence any attempt at reflection tying itself in knots to point the finger at the culprit, or, better yet, the culprits.

      In the narrative of the French government, there are two direct or indirect sources responsible for the resurgence of terrorism: abroad, the foreign powers which finance mosques and organizations promoting the separatism of Islamic communities, and consequently - as is only logical on the perpetually slippery slope of Macronist propaganda - terrorism; at home, it is the academics.

      It is true that the October attacks coincided with tensions which have been increasing for months between France and Turkey on different fronts: Syria, Libya, Nagorno-Karabakh, and above all the Eastern Mediterranean. And it is also true that the relationship between international tensions and the resurgence of terrorism needs to be explored. However, the allusion to the relationship between the role of academics and these attacks is simply outrageous and instrumental, aimed only at discrediting the category of academics engaged in recent weeks in a desperate struggle to prevent the passing of a Research programming law, which violently redefines the methods of funding and management of research projects, the status, the prerogatives as well as the academic freedom of university professors.
      Regaining control?

      “A teacher died and other teachers are being blamed for it" wrote the sociologist Eric Fassin, alluding to a long series of attacks that have been reiterated in recent months on the French university community – a community guilty, according to Macron and his collaborators, of excessive indulgence in the face of “immigration, Islam and integration”.

      “I must regain control of these subjects”, said Emmanuel Macron a year ago to the extreme right-wing magazine Valeurs Actuelles. A few months later, in the midst of a worldwide struggle against racism and police violence, Macron, scandalized by the winds of revolt – rather than by racism and police violence in themselves – explained to Le Monde that "The academic world has been guilty. It has encouraged the ethnicization of social issues, thinking that this was a good path to go down. But the outcome can only be secessionist.” The Minister of National Education Jean-Michel Blanquer, presenting in June 2020 to the Senate’s commission of inquiry on Islamist radicalization, had evoked for his part, “the permeability of the academic world with theories that are at the antipodes of the values of the Republic and secularism”, citing specifically “the indigenist theories”.

      A few days after the homicide of Samuel Paty, in an interview with Europe 1, the minister accused academics of “intellectual complicity with terrorism”, adding that “Islamo-leftism wreaks havoc in the University”… “favoring an ideology that only spells trouble”. Explaining himself further in Le Journal Du Dimanche, on October 24, Blanquer reiterated these accusations, specifying: "There is a fight to be waged against an intellectual matrix coming from American universities and intersectional theses that want to essentialize communities and identities, at the antipodes of the Republican model, which postulates the equality between human beings, independently of their characteristics of origin, sex, religion. It is the breeding ground for a fragmentation of societies that converges with the Islamic model”.
      A Darwinian law

      Such accusations and interferences have provoked many reactions of indignation, including that of the Conférence of University Presidents. However, nothing was sufficient to see the attack off. On Friday evening, after the launch of a fast-track procedure that effectively muzzled the debate, the Senate approved the research programming law. In many respects, this is the umpteenth banal neo-liberal, or, more exactly, admittedly Darwinian, reform of the French university: precarisation of the work of teachers, concentration of the funds on a limited number of “excellent” poles and individuals, promotion of competition between individuals, institutions and countries, strengthening of the managerial management of research, weakening of national guarantee structures and, more generally, weakening of self-governance bodies.

      But this law also contains a clear and astounding plan to redefine the respective roles of science and politics. The article of the law currently in force, which very effectively and elegantly defined the meaning of academic freedom:

      “Teacher and researchers enjoy full independence and complete freedom of expression in the exercise of their teaching functions and their research activities, subject to the reservations imposed on them, in accordance with university traditions and the provisions of this code, the principles of tolerance and objectivity”, has been amended by the addition of this sentence:

      “Academic freedoms are exercised with respect for the values ​​of the Republic”

      This addition which is in itself an outrage against the principles of the separation of powers and academic freedom has been joined by an explicit reference to the events of these days:

      “The terrible tragedy in Conflans-Sainte-Honorine shows more than ever the need to preserve, within the Republic, the freedom to teach freely and to educate the citizens of tomorrow”, states the explanatory memorandum. "The purpose of this provision is to enshrine this in law so that these values, foremost among which is secularism, constitute the foundation on which academic freedoms are based and the framework in which they are expressed.”

      The emotion engendered by the murder of innocent people was therefore well and truly exploited in an ignoble manner to serve the anti-democratic objective of limiting academic freedoms and setting the choices of the subjects to be studied, as well as the “intellettual matrix” to be adopted under the surveillance today of the presidential majority and tomorrow, who knows?

      To confirm this reading of the priorities of the majority and the fears it arouses, on Sunday November 1, Thierry Coulhon, adviser to the President of the Republic was appointed, through a “Blitzkrieg”, head of the Haut Council for the Evaluation of Research and Higher Education (Hceres), the national body responsible for the evaluation of research.

      A few details of this law, including the amendment on the limits of research freedom, may still change in the joint committee to be held on November 9. But the support of academics, individuals, organizations, scholarly journals, for the Solemn appeal for the protection of academic freedom and the right to study is now more urgent and necessary than ever.

      https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/academic-freedom-in-the-context-of-frances-new-approach-to-separatism

    • Les sciences sociales contre la République ?

      Le 2 novembre 2020, l’AG des Revues en Lutte a répondu dans Le Monde au ministre J.-M. Blanquer qui entend combattre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises », au prétexte de la lutte anti-terroriste.

      Cette tribune, que nous reproduisons ci-dessous, rejoint de très nombreuses prises de position récentes, contre l’intervention de J.-M. Blanquer, mais aussi contre E. Macron qui accuse les universitaires de « casser la République en deux » et contre deux amendements ajoutés à la LPPR (déjà parfaitement délétère) au Sénat : « les libertés académiques s’exercent dans le respect des valeurs de la République » et « les trouble-fête iront en prison ».

      Voici quelques-unes de ces prises de position :

      - Appel solennel pour la protection des libertés académiques et du droit d’étudier, sur Academia : https://academia.hypotheses.org/27287
      - Libertés académiques : des amendements à la loi sur la recherche rejetés par des sociétés savantes, dans Le Monde : https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/11/02/libertes-academiques-des-amendements-a-la-loi-sur-la-recherche-rejetes-par-d
      – Lettre ouverte aux Parlementaires, par Facs et labos en lutte, RogueESR, Sauvons l’Université et Université Ouverte : rogueesr.fr/lettre-ouverte-lpr/
      - Communiqué de presse : retrait de 3 amendements sénatoriaux à la LPR, par le collectif des sociétés savantes académiques : https://societes-savantes.fr/communique-de-presse-retrait-de-3-amendements-senatoriaux-a-la-lpr
      – « Cette attaque contre la liberté académique est une attaque contre l’État de droit démocratique », dans Le Monde : https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/11/02/cette-attaque-contre-la-liberte-academique-est-une-attaque-contre-l-etat-de-
      - Communique de presse national, par Facs et labos en lutte, RogueESR, Sauvons l’Université et Université Ouverte : rogueesr.fr/communique_suspendre_lpr/
      - Intersectionnalité : Blanquer joue avec le feu, par Rose-Marie Lagrave : https://www.liberation.fr/debats/2020/11/03/intersectionnalite-blanquer-joue-avec-le-feu_1804309
      - Qui est complice de qui ? Les libertés académiques en péril, par Eric Fassin : https://blogs.mediapart.fr/eric-fassin/blog/011120/qui-est-complice-de-qui-les-libertes-academiques-en-peril
      - Les miliciens de la pensée et la causalité diabolique, par Seloua Luste Boulbina : https://blogs.mediapart.fr/seloua-luste-boulbina/blog/021120/les-miliciens-de-la-pensee-et-la-causalite-diabolique
      - L’islamo-gauchisme : comment (ne) naît (pas) une idéologie, par Samuel Hayat : https://www.nouvelobs.com/idees/20201027.OBS35262/l-islamo-gauchisme-comment-ne-nait-pas-une-ideologie.html
      – Après Conflans : gare aux mots de la démocratie, par Olivier Compagnon : https://universiteouverte.org/2020/10/27/apres-conflans-gare-aux-mots-de-la-democratie
      – Toi qui m’appelles islamo-gauchiste, laisse-moi te dire pourquoi le lâche, c’est toi, par Alexis Dayon : https://blogs.mediapart.fr/alexis-dayon/blog/221020/toi-qui-mappelles-islamo-gauchiste-laisse-moi-te-dire-pourquoi-le-la
      - « Que le terme plaise ou non, il y a bien une islamophobie d’État en France », par Jean-François Bayart : https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/jean-francois-bayart-que-le-terme-plaise-ou-non-il-y-a-bien-une-islamophobie

      On peut également mentionner les nombreux numéros de revues académiques, récents ou à venir, portant sur l’intersectionnalité, cœur de l’attaque du gouvernement. Les Revues en Lutte en citent plusieurs dans un superbe fil Twitter (https://twitter.com/RevuesEnLutte/status/1321861736165711874?s=20).

      Un collectif de revues de sciences humaines et sociales (SHS) met au défi le ministre de l’éducation nationale de trouver dans ses publications des textes permettant de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste.

      Tribune

      Dans le JDD du 25 octobre, le ministre de l’éducation nationale déclarait qu’il y avait, dans les universités, un combat à mener. Contre l’appauvrissement de l’enseignement supérieur ? Contre la précarité étudiante ? Contre les difficultés croissantes que rencontrent tous les personnels, précaires et titulaires, enseignants et administratifs, à remplir leurs missions ? Contre la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), qui va amplifier ces difficultés ? Non : contre « une partie non négligeable des sciences sociales françaises ». Et le ministre, téméraire : face à cette « gangrène », il faut cesser la « lâcheté ».

      On reste abasourdi qu’un ministre de l’éducation nationale s’en prenne ainsi à celles et ceux qui font fonctionner les universités. Mais pour aberrants qu’ils soient, ces propos n’étonnent pas tout à fait : déjà tenus, sur Europe 1 et au Sénat, ils prolongent ceux d’Emmanuel Macron, en juin 2020, dans Le Monde, qui accusait les universitaires d’ethniciser la question sociale et de « casser la République en deux ». Plutôt que de se porter garant des libertés académiques, attaquées de toutes parts, notamment dans le cadre du débat parlementaire actuel, Jean-Michel Blanquer se saisit de l’assassinat d’un professeur d’histoire et géographie pour déclarer la guerre aux sciences sociales, qui défendraient des thèses autorisant les violences islamistes ! Sa conviction est faite : ce qui pourrit les universités françaises, ce sont les « thèses intersectionnelles », venues des « universités américaines » et qui « veulent essentialiser » les communautés.
      Ignorance ministérielle

      Le ministre « défie quiconque » de le contredire. Puisque les revues scientifiques sont, avec les laboratoires et les universités, les lieux d’élaboration des sciences sociales, de leurs controverses, de la diffusion de leurs résultats, c’est à ce titre que nous souhaitons mener cette contradiction, ses propos révélant son ignorance de nos disciplines, de leurs débats et de leurs méthodes.

      La démarche scientifique vise à décrire, analyser, comprendre la société et non à décréter ce qu’elle doit être. Les méthodes des sciences sociales, depuis leur émergence avec Emile Durkheim dans le contexte républicain français, s’accordent à expliquer les faits sociaux par le social, précisément contre les explications par la nature ou l’essence des choses. A ce titre, elles amènent aussi à rendre visibles des divisions, des discriminations, des inégalités, même si elles contrarient. Les approches intersectionnelles ne sont pas hégémoniques dans les sciences sociales : avec d’autres approches, que, dans leur précieuse liberté, les revues font dialoguer, elles sont précisément l’un des outils critiques de la désessentialisation du monde social. Néologisme proposé par la juriste états-unienne Kimberlé Crenshaw à la fin des années 1980, le terme « intersectionnalité » désigne en outre, dans le langage actuel des sciences sociales, un ensemble de démarches qui en réalité remontent au XIXe siècle : il s’agit d’analyser la réalité sociale en observant que les identités sociales se chevauchent et que les logiques de domination sont plurielles.

      Dès 1866, Julie-Victoire Daubié, dans La Femme pauvre au XIXe siècle, montre la particularité de la situation des ouvrières, domestiques et prostituées obligées de travailler pour survivre, faisant des femmes pauvres une catégorie d’analyse pour le champ de la connaissance et de la politique, alors que lorsqu’on parlait des pauvres, on pensait surtout aux hommes ; et que lorsqu’on parlait des femmes, on pensait avant tout aux bourgeoises.
      Une politique répressive de la pensée

      Plus près de nous, l’équipe EpiCov (pour « Epidémiologie et conditions de vie »), coordonnée par la sociologue Nathalie Bajos et l’épidémiologiste Josiane Warszawski, vient de publier des données concernant l’exposition au Covid-19 à partir de critères multiples parmi lesquels la classe sociale, le sexe, le lieu de naissance. Une première lecture de ces données indique que les classes populaires travaillant dans la maintenance (plutôt des hommes) et dans le soin (plutôt des femmes) ont été surexposées, et que, parmi elles, on compte une surreprésentation de personnes nées hors d’Europe. Une analyse intersectionnelle cherchera à corréler ces données, entre elles et avec d’autres disponibles, pour mieux comprendre comment les discriminations s’entrelacent dans la vie des personnes. Où sont l’essentialisation, l’encouragement au communautarisme ? Pour les chercheurs et chercheuses en sciences sociales, il s’agit simplement, à partir de données vérifiées par des méthodes scientifiques, validées entre pairs et ouvertes à la discussion, de faire leur travail.

      L’anathème que le ministre lance traduit une politique répressive de la pensée. Nous mettons M. Blanquer au défi de trouver un seul texte publié dans la bibliothèque ouverte et vivante de nos revues qui permette de dire que l’intersectionnalité inspire le terrorisme islamiste. Se saisir d’un mot, « intersectionnalité », pour partir en guerre contre les sciences sociales et, plus généralement, contre la liberté de penser et de comprendre la société, est une manœuvre grossière. Si elle prend, nos universités devront troquer la liberté de chercher (qui est aussi la liberté de se tromper) pour rien moins qu’une science aux ordres, un obscurantisme ministériel. On voit mal comment la République pourrait en sortir grandie.

      https://universiteouverte.org/2020/11/03/les-sciences-sociales-contre-la-republique

    • Islamisme : où est le déni des universitaires   ?

      Dans une tribune publiée par « le Monde », une centaine de professeurs et de chercheurs dénoncent les « idéologies indigénistes, racialistes et décoloniales » de leurs pairs, lesquelles mèneraient au terrorisme. Les auteurs rejouent ainsi la rengaine du choc des cultures qui ne peut servir que l’extrême droite identitaire.

      Comment peut-on prétendre alerter sur les dangers, réels, cela va sans dire, de l’islamisme en se référant aux propos confus et injurieux de Jean-Michel Blanquer ? Or, une récente tribune du Monde (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/10/31/une-centaine-d-universitaires-alertent-sur-l-islamisme-ce-qui-nous-menace-c-), au lieu de contribuer à une nécessaire clarification, n’a pas d’autre fonction que de soutenir un ministre qui, loin de pouvoir se prévaloir d’une quelconque expertise sur les radicalités contemporaines, mène en outre une politique régressive pour l’école, c’est-à-dire indifférente à la reproduction des inégalités socio-culturelles dont s’accommode l’idéologie méritocratique. Faire oublier cette politique en détournant l’attention, d’autres que lui l’ont fait. Il convient seulement de ne pas être dupe.

      Car que disent les auteurs (certains d’entre eux, fort estimables, ont probablement oublié de relire) ? Que « l’islamo-gauchisme », ni défini ni corrélé au moindre auteur, est l’idéologie « qui mène au pire », soit au terrorisme. Ceux qui la propagent dans nos universités, « très puissants dans l’enseignement supérieur », commettraient d’irréparables dégâts. Et l’on invoque pêle-mêle l’indigénisme, le racialisme et le décolonialisme, sans le moindre souci de complexification, ni même de définition, souci non utile tant le symptôme de la supposée gangrène serait aisément repérable : le port du voile.

      Plus de trente ans après l’affaire de Creil, et quantité de travaux sociologiques, on n’hésite donc toujours pas à nier l’équivocité de ce signe d’appartenance pour le réduire à un outil de propagande. Chercher à comprendre, au lieu de condamner, serait une manifestation de l’esprit munichois. Que la Conférence des présidents d’université (CPU) proteste contre les déclarations du ministre, en rappelant utilement la fonction des chercheurs, passe par pertes et profits, l’instance que l’on ne peut soupçonner d’un quelconque gauchisme étant probablement noyautée par des islamistes dissimulés !

      Cette tribune rejoue, une fois encore, une vieille rengaine, celle du #choc_des_civilisations : « haine des Blancs », « doxa antioccidentale », « #multiculturalisme » (!), voilà les ennemis dont les universitaires se réclameraient, ou qu’ils laisseraient prospérer, jusqu’à saper ce qui fait le prix de notre mode de vie. Au demeurant, les signataires de la présente tribune sont profondément attachés aux principes de la République et, en l’espèce, à la liberté de conscience et d’expression. C’est au nom de celle-ci qu’ils se proposent de dénoncer les approximations de leurs collègues.

      Choisir le #débat plutôt que l’#invective

      Concernant l’#indigénisme, sa principale incarnation, le Parti des indigènes de la République (PIR) a totalement échoué dans sa volonté d’être audible dans nos enceintes universitaires. Chacun sait bien que l’écho des thèses racistes, antisémites et homophobes d’#Houria_Bouteldja est voisin de zéro. Quant au #décolonialisme, auquel l’indigénisme se rattache mais qui recouvre quantités d’autres thématiques, il représente bien un corpus structuré. Néanmoins, les études sur son influence dans nos campus concluent le plus souvent à un rôle marginal. Et, quoi qu’il en soit, ses propositions méritent débat parce qu’elles se fondent sur une réalité indiscutable : celle de l’existence d’injustices « épistémiques », c’est-à-dire d’#injustices qui se caractérisent par les #inégalités d’accès, selon l’appartenance raciale ou de genre, aux positions académiques d’autorité.

      D’une façon générale, il ne fait aucun doute que la communauté scientifique a, dans le passé, largement légitimé l’idée de la supériorité des hommes sur les femmes, des Blancs sur les Noirs, des « Occidentaux » sur les autochtones, etc. Mais, à partir de ce constat, les décoloniaux refusent la possibilité d’un point de vue universaliste et objectif au profit d’une épistémologie qui aurait « une couleur et une sexualité ». Ce faisant, ils oublient #Fanon dont pourtant ils revendiquent l’héritage : « Chaque fois qu’un homme a fait triompher la dignité de l’esprit, chaque fois qu’un homme a dit non à une tentative d’asservissement de son semblable, je me suis senti solidaire de son acte. En aucune façon je ne dois tirer du passé des peuples de couleur ma vocation originelle. […] Ce n’est pas le monde noir qui me dicte ma conduite. Ma peau noire n’est pas dépositaire de valeurs spécifiques. » Nous devons choisir le débat plutôt que l’invective.

      L’obsession antimulticulturaliste

      Quant à l’obsession antimulticulturaliste (« #prêchi-prêcha », écrivent-ils), elle est ignorante de ce qu’est vraiment ce courant intellectuel. A de nombreux égards, ce dernier propose une conception de l’#intégration différente de celle cherchant à assimiler pour égaliser. Il est donc infondé de le confondre avec une vision ethno-culturelle du lien politique. Restituer à l’égal sa différence, tel est le projet du multiculturalisme, destiné en définitive à aller plus loin dans l’instauration de l’#égalité que n’était parvenue à le faire la solution républicaine classique. Le meilleur de ce projet, mais non nécessairement sa pente naturelle, est sa contribution à ce que l’un de nous nomme la « #décolonisation_des_identités » (Alain Renaut), conciliation que les crimes de la #colonisation avaient rendue extrêmement difficile. Bref, nous sommes très éloignés du « prêchi-prêcha ».

      Enfin, un mot sur la « #haine_des_Blancs ». Cette accusation est non seulement stupéfiante si elle veut rendre compte des travaux universitaires, mais elle contribue à l’#essentialisation « racialiste » qu’elle dénonce. En effet, elle donne une consistance théorique à l’apparition d’un nouveau groupe, les Blancs, qui auparavant n’était pas reconnu, et ne se reconnaissait pas, comme tel. Dès lors, en présupposant l’existence d’une idéologie racialiste anti-française, anti-blanche, on inverse les termes victimaires en faisant de la culture dominante une culture assiégée. Ce tour de passe-passe idéologique ne peut servir que l’extrême droite identitaire.

      Toutes nos remarques critiques montrent qu’au lieu d’amorcer un nécessaire débat, la tribune ici analysée témoigne du déni dont pourtant des intellectuels non clairement identifiés sont accusés. Comment interpréter ce « manifeste » autrement que comme un appel à censurer ?

      https://www.liberation.fr/debats/2020/11/04/islamisme-ou-est-le-deni-des-universitaires_1804439

    • « Les libertés sont précisément foulées aux pieds lorsqu’on en appelle à la dénonciation d’études et de pensée »

      Environ deux mille chercheurs et chercheuses dénoncent, dans une tribune au « Monde », l’appel à la police de la pensée dans les universités signé par une centaine d’universitaires en soutien aux propos de Jean-Michel Blanquer sur « l’islamo-gauchisme ».

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/11/04/les-libertes-sont-precisement-foulees-aux-pieds-lorsqu-on-en-appelle-a-la-de

    • Open Letter: the threat of academic authoritarianism – international solidarity with antiracist academics in France

      A critical response to the Manifesto signed by over 100 French academics and published in the newspaper Le Monde on 2 November 2020, after the assassination of the school teacher, Samuel Paty.

      At a time of mounting racism, white supremacism, antisemitism and violent far-right extremism, academic freedom has come under attack. The freedom to teach and research the roots and trajectories of race and racism are being perversely blamed for the very phenomena they seek to better understand. Such is the contention of a manifesto signed by over 100 French academics and published in the newspaper Le Monde on 2 November 2020. Its signatories state their agreement with French Minister of Education, Jean-Michel Blanquer, that ‘indigenist, racialist, and “decolonial” ideologies,’ imported from North America, were responsible for ‘conditioning’ the violent extremist who assassinated school teacher, Samuel Paty, on 16 October 2020.

      This claim is deeply disingenuous, and in a context where academics associated with critical race and decolonial research have recently received death threats, it is also profoundly dangerous. The scholars involved in this manifesto have readily sacrificed their credibility in order to further a manifestly false conflation between the study of racism in France and a politics of ‘Islamism’ and ‘anti-white hate’. They have launched it in a context where academic freedom in France is subject to open political interference, following a Senate amendment that redefines and limits it to being ‘exercised with respect for the values of the Republic’.

      The manifesto proposes nothing short of a McCarthyist process to be led by the French Ministry for Higher Education, Research and Innovation to weed out ‘Islamist currents’ within universities, to take a clear position on the ‘ideologies that underpin them’, and to ‘engage universities in a struggle for secularism and the Republic’ by establishing a body responsible for dealing with cases that oppose ‘Republican principles and academic freedom’. The ‘Islamogauchiste’ tag (which conflates the words ‘Islam’ and ‘leftists’) is now widely used by members of the government, large sections of the media and hostile academics. It is reminiscent of the antisemitic ‘Judeo-Bolshevism’ accusation in the 1930s which blamed the spread of communism on Jews. The ‘Islamogauchiste’ notion is particularly pernicious as it voluntarily confuses Islam (and Muslims) with Jihadist Islamists. In other words, academics who point out racism against the Muslim minority in France are branded allies of Islamist terrorists and enemies of the nation.

      This is not the only contradiction that shapes this manifesto. Its signatories appear oblivious to how its feverish tone is redolent of the antisemitic witch-hunts against so-called ‘Cultural Marxists’ that portrayed Jewish intellectuals as enemies of the state. Today’s enemies are Muslims, political antiracists, and decolonial thinkers, as well as anyone who stands with them against rampant state racism and Islamophobia.

      Further, when seen in a global context, the question of who is in fact ‘importing’ ideas from North America is worth considering. The manifesto comes on the back of the Trump administration’s executive order ‘on Combating Race and Sex Stereotyping’ which effectively bans federal government contractors or subcontractors from engaging what are characterised as ideologies that portray the United States as ‘fundamentally racist or sexist’. Quick on Trump’s heels, the British Conservative Party moved to malign Critical Race Theory as a separatist ideology that, if taught in schools, would be ‘breaking the law’.

      We are concerned about the clear double standards regarding academic freedom in the attack on critical race and decolonial scholarship mounted by the manifesto. In opposition to the actual tenets of academic freedom, the demands it makes portray any teaching and research into the history or sociology of French colonialism and institutionalised racism as an attack on academic freedom. In contrast, falsely and dangerously linking these scholarly endeavours to Islamic extremism and holding scholars responsible for brutal acts of murder, as do the signatories of the Manifesto, is presented as consistent with academic freedom.

      This is part of a global trend in which racism is protected as freedom of speech, while to express antiracist views is regarded as a violation of it. For the signatories of the manifesto – as for Donald Trump – only sanitised accounts of national histories that omit the truth about colonialism, slavery, and genocide can be antiracist. In this perverse and ahistorical vision, to engage in critical research and teaching in the interests of learning from past injustices is to engage in ‘anti-white racism’, a view that reduces racism to the thoughts of individuals, disconnecting it from the actions, laws and policies of states and institutions in societies in which racial socioeconomic inequality remains rife.

      In such an atmosphere, intellectual debate is made impossible, as any critical questioning of the role played by France in colonialism or in the current geopolitics of the Middle East or Africa, not to mention domestic state racism, is dismissed as a legitimation of Islamist violence and ‘separatism’. Under these terms, the role of political and economic elites in perpetuating racism both locally and on a global scale remains unquestioned, while those who suffer are teachers and activists attempting to improve conditions for ordinary people on the ground.

      In the interests of a real freedom, of speech and of conscience, we stand with French educators under threat from this ideologically-driven attack by politicians, commentators and select academics. It is grounded in the whitewashing of the history of race and colonialism and an Islamophobic worldview that conflates all Muslims with violence and all their defenders with so-called ‘leftist Islamism’. True academic freedom must include the right to critique the national past in the interests of securing a common future. At a time of deep polarization, spurred by elites in thrall to white supremacism, defending this freedom is more vital than ever.

      https://www.opendemocracy.net/en/can-europe-make-it/open-letter-the-threat-of-academic-authoritarianism-international-sol

    • Qui pour soutenir les « coupables de dérives intellectuelles idéologiques dans les universités » ?

      Mercredi 25 novembre 2020 : deux députés demandent la « création d’une mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires », et le font publiquement savoir par un communiqué de presse.

      Ni la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, ni la Conférence des présidents d’université, ni l’Udice, l’association autoproclamée des dix plus grandes « universités de recherche » françaises, ne bougent le petit doigt.

      Jeudi 26 novembre 2020 : l’un des deux députés précédents, un certain Julien Aubert, se sentant pousser des ailes, décide d’aller plus loin, et dresse une liste de sept universitaires, dont un président d’université, qui ont en commun d’avoir dit sur les réseaux sociaux le dégoût que leur inspire l’idée même de « dérives intellectuelles idéologiques ». Publiant leurs photos de profils et leurs comptes Twitter personnels, le député jubile, avec le message suivant :

      « Les coupables s’autodésignent. Alors que la privation du débat, l’ostracisation et la censure est constatée par nombre de professeurs, étudiants ou intellectuels, certains se drapent dans des accusations de fascisme et de maccarthysme. »

      La ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, la Conférence des présidents d’université et l’Udice ne bougent pas davantage le petit doigt.

      Vendredi 27 novembre 2020 : L’Auref, l’Alliance des universités de recherche et de formation, qui regroupe rien de moins que 35 universités, décide de sortir du bois, et il faut la saluer. Il faut dire, aussi, que l’un de ses membres, le président de l’université de Bordeaux Montaigne, figure par les « coupables » désigné par le député Aubert. Le communiqué choisit de rester tout en rondeur : il « appelle à plus de calme et de retenue dans les propos, de dignité et de respect de l’autre dans le légitime débat public, de mobilisation sur les vrais enjeux de la France et de son université ». Mais il a le mérite, lui, d’exister.

      L’université de Rennes 2, de son côté, annonce se réserver « le droit de donner une suite juridique à cette dérive grave ». C’est en effet une vraie question, à tout le moins sur le terrain de la diffamation.

      Du côté de la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation, de la Conférence des présidents d’université et de l’Udice, en revanche, rien. Toujours rien. Désespérément rien.

      Ils bougeront un jour, c’est sûr, il le faudra bien, comme ils avaient bougé après les propos de Jean-Michel Blanquer sur l’islamo-gauchisme. Mais bouger comme ils le font, à la vitesse d’escargots réticents, ce n’est pas un soutien résolu et indéfectible dans la défense des libertés académiques. Ces gens ne sont tout simplement pas à la hauteur de l’Université.

      https://academia.hypotheses.org/29081

    • Chasse aux sorcières. Un député contre-attaque

      Loi recherche, libertés académiques et furie parlementaire..
      Comme elles venaient cette fois de députés, j’ai demandé au Président de l’@AssembleeNat de se saisir des attaques personnelles contre des personnels de l’enseignement supérieur et de la recherche.
      Rien ne va plus.

      https://twitter.com/Sebastien_Nadot/status/1332350483437150209


      https://academia.hypotheses.org/29133

      #Sébastien_Nadot

    • La liste des coupables s’allonge. Au tour des universités ?

      Au Journal officiel de ce 3 décembre 2020, on trouve le décret portant dissolution d’un « #groupement_de_fait », l’« Association de défense des droits de l’homme – #Collectif_contre_l’islamophobie_en_France » (https://www.legifrance.gouv.fr/download/pdf?id=-nWvo0jS6QqmBjWn9EPe_u_AvWkqbw3aGTWSBldcbDg=). Cette association était plus connue sous le nom de « #CCIF ».

      Ce décret de #dissolution inhabituellement long – trois pages – a déjà largement été commenté et dénoncé1. Academia se permet néanmoins d’insister sur un point : il est important de lire avec attention l’argumentation de ce décret — ce qu’en droit, on nomme les motifs — et d’observer par quels sautillements logiques le gouvernement en arrive aux pires conclusions. C’est même crucial pour la communauté de l’ESR, dans un contexte bien particulier d’attaques contre les libertés académiques. Certes, ce n’est pas la même artillerie qui est déployée contre le CCIF, d’un côté, et contre les universités et les scientifiques, de l’autre ; mais les petits bonds logiques qui y conduisent présentent de très fortes ressemblances.

      Prenons le premier des motifs du décret :

      « En qualifiant d’islamophobes des mesures prises dans le but de prévenir des actions terroristes et de prévenir ou combattre des actes punis par la loi, [le CCIF] doit être regardé comme partageant, cautionnant et contribuant à propager de telles idées, au risque de susciter, en retour, des actes de haine, de violence ou de discrimination ou de créer le terrain d’actions violentes chez certains de ses sympathisants ».

      Et voyons à quelle conclusion ce motif conduit :

      « Considérant que par suite, [le CCIF] doit être regardé comme provoquant à la haine, à la discrimination et à la violence en raison de l’origine, de l’appartenance à une ethnie, à une race ou à une religion déterminée et comme propageant des idées ou théories tendant à justifier ou encourager cette discrimination, cette haine ou cette violence ».

      Voilà donc un raisonnement qui se déploie de manière très décomplexée. Voir de l’islamophobie dans certaines évolutions arbitraires et discriminatoires de l’action anti-terroriste, c’est, première conséquence, prendre le « risque » de susciter du terrorisme ; et dans tous les cas, cela doit, seconde conséquence, être regardé comme une provocation à la haine, à la discrimination et à la violence en raison de l’origine, de l’appartenance à une ethnie, à une race ou à une religion déterminée et comme une propagation des idées ou théories tendant à justifier ou encourager cette discrimination, cette haine ou cette violence.

      Ce mode bien particulier de raisonnement appelle deux remarques.

      La première remarque a trait au choix bien précis des mots qui sont employés dans le décret de dissolution du 2 décembre 2020. Ce décret fait référence, en réalité, à deux infractions pénales :

      - Il suggère d’abord l’infraction de provocation directe à des actes de terrorisme. Au terme de l’article 421-2-5 du code pénal, en effet, « le fait de provoquer directement à des actes de terrorisme ou de faire publiquement l’apologie de ces actes est puni de cinq ans d’emprisonnement et de 75 000€ d’amende ».
      - Il suggère ensuite l’infraction d’incitation à la haine, à la violence ou à la discrimination raciale. Au terme de l’article 24 de la loi du 29 juillet 1881 sur la liberté de la presse, en effet, « ceux qui auront provoqué à la discrimination, à la haine ou à la violence à l’égard d’une personne ou d’un groupe de personnes à raison de leur origine ou de leur appartenance ou de leur non-appartenance à une ethnie, une nation, une race ou une religion déterminée, seront punis d’un an d’emprisonnement et de 45 000 euros d’amende ou de l’une de ces deux peines seulement ».

      Mais le décret ne fait que suggérer ces infractions : il en reprend des formules, mais il ne dit pas qu’elles ont été commises par le CCIF. Il ne le dit pas parce que ces infractions n’ont pas été commises. Si elles l’avaient été, des poursuites pénales auraient immédiatement été engagées. Les outils de la police administrative — ici la dissolution d’une association — viennent donc suppléer les outils de la répression pénale, en singeant ces derniers : puisque le CCIF n’était pas sérieusement attaquable devant le juge pénal, le pouvoir exécutif choisit de l’attaquer par la voie administrative, et pour cela, il mime le vocabulaire pénal, tout en s’affranchissant, évidemment, de toutes les garanties qui caractérisent le procès pénal.

      La seconde remarque est, pour les universités, la plus importante. La dissolution du CCIF est largement justifiée par des propos tenus par l’association et ses dirigeants, au titre de leur liberté d’expression et sans qu’aucune infraction pénale n’ait été commise. La Ligue des droits de l’homme l’a bien identifié dans son communiqué : avec ce décret « le gouvernement s’engage sur la voie du délit d’opinion », un délit qui, précisément, n’existe pas. Un des motifs retenus dans le décret est, de ce point de vue, significatif :

      « sous couvert de dénoncer les actes de discriminations commis contre les musulmans, [le CCIF] défend et promeut une notion d’islamophobie particulièrement large, n’hésitant pas à comptabiliser au titre des ‘actes islamophobes‘ des mesures de police administrative, voire des décisions judiciaires, prises dans le cadre de la lutte contre le terrorisme ».

      Ainsi donc, qualifier des pans de la lutte contre le terrorisme d’actes « islamophobes » est désormais interdit. Ce n’est pas interdit sur le plan pénal ; mais c’est sanctionné par le pouvoir exécutif, qui use pour cela de ses outils de police administrative.
      Quels enseignements pour l’enseignement supérieur et la recherche ?

      Ces petits bonds logiques grâce auxquels Emmanuel Macron, Jean Castex et Gérald Darmanin, les trois signataires du décret, justifient des atteintes à la libre expression sont évidemment inquiétants quant à l’état général des droits et libertés en France. Or, on observe quelques tressaillements du même ordre du côté de l’enseignement supérieur et de la recherche, et c’est sur ce point que nous aimerions insister à présent. Bien sûr, la situation du CCIF et celle de l’ESR restent incomparables, dans la mesure où, du côté de l’ESR, la grande machinerie de la police administrative n’a pas été mise en branle comme elle l’a été pour le CCIF. En revanche, des petits bonds logiques du même ordre que ceux dont le CCIF a été victime se multiplient jusqu’au sein des plus prestigieux établissements d’enseignement supérieur et de recherche. Plus inquiétant encore, ils se diffusent dans des cercles de plus en plus officiels au parlement et au gouvernement.

      L’établissement de relations entre des recherches scientifiques, d’un côté, et des qualifications pénales, de l’autre, sans pour autant que le moindre début de délit ne puisse être établi, se retrouve désormais couramment sous la plume de certain·es universitaires. Nathalie Heinich, directrice de recherche CNRS (classe exceptionnelle), membre du Centre de recherches sur les arts et le langage (CNRS/ EHESS), s’y prête allègrement par exemple : comme elle l’a récemment déclaré au Times Higher Education2, « les affirmations des universitaires sur le ‘racisme systématique’ et le ‘racisme d’État’ sont un encouragement direct au terrorisme ». Un encouragement direct au terrorisme, dit-elle : la référence à l’article 421-2-5 du code pénal, évoqué plus haut, est à nouveau explicite. À l’instar de ce que fait le pouvoir exécutif dans le décret de dissolution du CCIF, le vocabulaire du droit pénal est appelé à la rescousse pour attaquer certaines formes d’expression, sans, pour autant, qu’aucun début d’infraction pénale ne puisse être mobilisé.

      Ces références mal contrôlées au droit pénal auxquelles se livrent certain·es universitaires ne sont pas sans effets. Elles sont désormais reprises non sans opportunisme par certaines des plus hautes autorités de l’État. C’est le cas du député Julien Aubert qui, après avoir appelé avec le président du groupe des Républicains de l’Assemblée nationale à la mise en place d’une « mission d’information sur les dérives intellectuelles idéologiques dans les milieux universitaires », dresse des listes d’universitaires qu’il désigne comme « coupables ». C’est le cas, aussi, du ministre de l’Éducation nationale Jean-Michel Blanquer lorsqu’il parle, à propos des universités, de « complicité intellectuelle du terrrorisme ».

      Quand un parlementaire et un ministre, l’un et l’autre de premier plan, décident de mobiliser du vocabulaire pénal et de parler de « culpabilité » et de « complicité » à propos d’universitaires, il y a lieu d’être inquiet·es. Pour Jean-Michel Blanquer, agrégé de droit public, ces références pénales se font en toute connaissance de cause, d’ailleurs, si l’on veut bien se souvenir que, dans son autre vie, il a publié des travaux très sérieux au sujet des relations entre responsabilité pénale et responsabilité politique. Notons que l’un de ses ouvrages s’appelait La responsabilité des gouvernants, ce qui, c’est le moins qu’on puisse dire, est un titre qui résonne aujourd’hui étrangement concernant le ministre Blanquer.

      Dans un tel contexte, le décret de dissolution du CCIF est riche d’enseignements et justifie ce long billet d’Academia. Résumons les choses : si le CCIF a été dissout, ce n’est pas sur la base d’infractions pénales, puisqu’il n’était pas sérieusement possible d’actionner ces infractions, alors même qu’on n’a cessé d’en étendre le champ depuis vingt ans. Si le CCIF a été dissout, c’est par des références abusives à des infractions pénales, sur la base de quoi des mesures de police administrative ont été actionnées par le pouvoir exécutif, dont les motifs, nous l’avons vu, se situent d’abord et avant tout sur le terrain de la liberté d’expression.

      Que peut-on dans ces conditions craindre pour l’enseignement supérieur et la recherche ? Dès lors que l’on observe, aujourd’hui, que des collègues et du personnel politique de premier plan singent eux aussi des infractions pénales pour critiquer des recherches scientifiques, on peut légitimement craindre qu’un mouvement de terrain du même ordre que celui dont le CCIF a été la victime se réalise s’agissant des universités. Tout y mène.

      L’exclusion du champ académique

      Ce risque ne viendra sans doute pas du droit pénal lui-même, en tout cas pas dans un premier temps. Certes, on se souvient que la loi de programmation de la recherche a déjà étendu brusquement le champ du droit pénal universitaire, avec le nouveau délit d’atteinte au bon ordre et à la tranquillité des établissements. Mais on peut espérer que ce délit ne sorte pas sans dommage du contrôle du Conseil constitutionnel ; surtout, il ne suffira pas pour attaquer les recherches qui représentent « un encouragement direct au terrorisme », pas plus que la législation pénale anti-terroriste n’a suffi pour s’attaquer aux propos du CCIF. C’est donc vers de nouvelles formes juridiques de contraintes, autres que celles que propose le droit pénal, que le débat est en train de se déplacer plus ou moins consciemment, comme il s’est déplacé pour le CCIF. La voie la plus simple, pour cela, consiste à inventer de nouvelles limites à la libre expression des enseignant·es et des chercheur·ses, afin d’exclure du champ académique, et donc du champ des libertés académiques, certains propos et certain·es collègues.

      Cette démarche d’exclusion hors du champ des libertés académiques, dont les fondements épistémologiques ne sont pas neufs3, a pris une dimension professionnelle particulière depuis quelques années. Épistémologiquement, il s’agit de « faire coupure » entre ce qui est bonne science et mauvaise science, selon un principe médical de l’amputation pour éviter la propagation de la gangrène au corps entier : certain·es rappellent ainsi régulièrement que les sciences sociales critiques ne sont pas des sciences militantes, l’invocation du « militantisme » disqualifiant la légitimité épistémologique des travaux menés par des hommes et des femmes engagé∙es. Olivier Beaud, voix écoutée et reconnue de l’association Qualité de la science française, s’exprimait ainsi dans Le Monde du 2 décembre :

      « Je refuse l’inquisition politique mais je refuse aussi le silence qui serait de la lâcheté intellectuelle et reviendrait à cautionner des universitaires dont la pratique serait de surdéterminer leurs recherches censément scientifiques (donc objectives) par des considérations lourdement idéologiques, fût-ce au motif de défendre telle ou telle minorité ».

      L’article du Monde précise ensuite les propos d’Olivier Beaud : selon lui, des universitaires « radicaux » auraient délaissé la distinction opérée par Max Weber entre le « jugement de fait », qui fonde leurs recherches, et le « jugement de valeur », qui fonde leurs opinions.

      En se référant ainsi à la « neutralité axiologique » de Max Weber, Olivier Beaud tord la pensée d’un homme profondément engagé dans la construction de l’État prussien par les sciences économiques et sociales. Par chance pour notre démonstration, la traduction commandée à Julien Freund par Raymond Aron et parue en 1963 dans un contexte de guerre froide, a fait récemment l’objet de plusieurs éditions critiques qui retraduisent en français le texte original Du métier de savant (Wissenschaft als Beruf, 1917)4. Pour celles et ceux qui ont eu accès au texte de Weber par la seule traduction française, la lecture de cette traduction révisée est très éclairante : l’universitaire, pour faire science, a besoin d’une « inspiration », qui donne un sens à son travail, notamment ses tâches calculatoires ; cette inspiration a partie liée avec une question éthique, intime et indispensable : « quelle est la vocation de la science pour l’ensemble de la vie de l’humanité ? Quelle en est la valeur ? ».

      De nos jours, il est fréquent que l’on parle d’une « sciences sans présupposés, écrit Max Weber. Une telle science existe-t-elle ? Tout dépend ce que l’on entend par là. Tout travail scientifique présuppose la validité des règles de la logique et de la méthode, ces fondements universels de notre orientation dans le monde. Ces présupposés-là sont les moins problématiques du moins pour la question particulière qui nous occupe. Mais on présuppose aussi que le résultat du travail scientifique est important au sens où il mérite d’être connu. Et c’est de là que découlent, à l’évidence, tous nos problèmes. Car ce présupposé, à son tour, ne peut être démontré par les moyens de la science. On ne peut qu’en interpréter le sens ultime, et il faut le refuser ou l’accepter selon les positions ultimes que l’on adopte à l’égard de la vie
      — Weber, 1917 [2005], p. 36

      Les problèmes que Max Weber5 repérait hier sont les nôtres aujourd’hui : certains ou certaines disqualifient le travail scientifique de leurs collègues, non à l’aune de leur qualité scientifique intrinsèque, reposant sur la qualité de la réflexion, de la documentation, de l’analyse, mais par les présupposés qui ont initié la recherche.

      Ces derniers mois, les choses sont devenues très claires de ce point de vue : il y a des recherches dont certain·es ne veulent plus.

      C’est leur scientificité même qui est déniée : ces recherches sont renvoyées à de la pure « idéologie », sans qu’aucune explication précise ne soit jamais donnée, si ce n’est la référence à une autre idéologie, qu’il s’agisse des « valeurs de la République » ou de « l’unité de la nation ». « L’unité de la nation », c’est ce à quoi renvoyait l’association Qualité de la science française dans un récent communiqué : « il fait peu de doute que se développent dans certains secteurs de l’université des mouvances différentialistes plus ou moins agressives, qui mettent en cause l’unité de la nation, et dont l’attitude envers les fondamentalismes est ambiguë ». La comparaison sémantique avec les textes académiques prônant le maccarthysme est à ce titre très éclairante, même si leur rédaction doit être replacée dans le contexte de la guerre froide6 : le caractère scandaleux de toute opération de « chasse aux sorcières » se mesure, considère-t-on alors, à l’aune des risques encourus par la nation.

      Quelle va être la suite ? Va-t-on exclure ces savant∙es contemporain∙es de l’université, qui repose pourtant sur le principe de la pluralité et du dissensus ? Va-t-on les exclure en leur déniant tout travail de production et de transmission des connaissances scientifiques, pour les rejeter du côté de la simple expression des opinions ? Le risque, derrière ce feu qu’allument certain∙es universitaires, est connu : c’est évidemment que le pouvoir politique s’en saisisse, pour en tirer des conséquences juridiques.

      Nous nous trouvons très précisément au seuil d’un mouvement de ce type aujourd’hui en France. On y a échappé de peu lors des débats sur la loi de programmation de la recherche, avec l’amendement subordonnant les libertés académiques au respect des valeurs de la République auquel la ministre Vidal avait donné, on ne le rappellera jamais assez, un « avis extrêmement favorable ».

      Dans un contexte aussi pesant, c’est avec beaucoup d’appréhension, désormais, que l’on attend, du côté de la rédaction d’Academia, l’examen du « projet de loi renforçant les principes républicains » (plus connu sous le nom de « projet de loi Séparatismes »). Plusieurs collègues ont en particulier alerté Academia sur le fait qu’un collectif dénommé Vigilance Universités échange à propos de ce projet de loi avec la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur, chargée de la Citoyenneté, pour introduire les universités dans le champ de celui-ci. Nous craignons le pire. Cela fait plusieurs années maintenant que ces mêmes collègues propagent le sentiment d’une immense insécurité physique et de grands dangers intellectuels dans les universités, sans vouloir reconnaître qu’en conséquence de leurs propos, des personnalités politiques de premier rang, à droite et à l’extrême droite, appellent désormais à combattre les « dérives intellectuelles idéologiques » et dresse des listes de « coupables ».

      Peut-être est-il temps maintenant, pour elles et eux, de prendre conscience de leur responsabilité historique dans le mouvement de rétraction des libertés académiques en cours, à défaut d’avoir accepté de prendre la moindre position critique, lors des débats sur la loi de programmation de la recherche, sur la pénalisation des universités à laquelle ils et elles ont directement contribué par leurs propos et leurs actions.

      Il est surtout temps que l’ensemble des collègues prennent la juste mesure du danger. Il est temps que nous prenions, collectivement et clairement, position sur ce que défendre l’université veut dire.

      https://academia.hypotheses.org/29291

    • Antiracisme : la guerre des facs n’aura pas lieu

      Depuis la fin de l’automne 2018, par poussées de fièvre belliqueuse, surgissent périodiquement les tribunes, appels, articles qui mettent en garde contre un nouvel ennemi de la République : les « décoloniaux », qui « mènent la guerre des facs », écrit par exemple Étienne Girard dans Marianne, le 12 avril 2019. Des dizaines d’autres intellectuels, journalistes, personnalités publiques, ont pris la plume pour dénoncer « les obsédés de la race à la Sorbonne » (Charlie Hebdo 23 janvier 2019), les « énervés de la race » qui « martèlent leurs fameuses théories sur la race » (Le Canard Enchaîné, 24 juin 2020). Ils mettent en accusation la « stratégie hégémonique » du « décolonialisme » (Le Point, 28 novembre 2018) qui se lance « à l’assaut de l’université » (Le Nouvel Obs, 30 novembre 2018), qui « menace la liberté académique » (Le Monde, 12 avril 2019) et qui, « nouveau terrorisme intellectuel », « infiltre les universités » (La Revue des deux Mondes, 18 avril 2019) par une « grande offensive médiatique et institutionnelle » (L’Express, 26 décembre 2019), traduisant « une stratégie décoloniale de radicalité » (Le Monde, blog, 06 juillet 2020) en même temps qu’une « quête de respectabilité académique » (L’Express, 26 décembre 2019).

      La rhétorique est guerrière – et l’ennemi, puissant, organisé, déterminé, mobilisant des méthodes de guérilla, voire de « terrorisme », est déjà en passe de l’emporter, au point qu’il faut « appeler les autorités publiques, les responsables d’institutions culturelles, universitaires, scientifiques et de recherche, mais aussi la magistrature, au ressaisissement » (Le Point, 28 novembre 2018) et « sanctionner la promotion de l’idéologie coloniale » (Marianne, 26 juin 2020).

      Mais de quoi parle-t-on exactement ? Comme cela a déjà été souligné, si stratégie hégémonique il y a, elle est remarquablement peu efficace : aucun poste ni aucune chaire, dans aucun domaine de sciences humaines et sociales, n’a jamais été profilé « études postcoloniales ou décoloniales » à l’université ; pas de revue spécialisée, pas de maison d’édition ni même de collection de presses universitaires dans le domaine. Une analyse sociologique fine menée en termes de « correspondances multiples » sur plusieurs années et croisant plusieurs variables (publications, visibilité, lieux institutionnels, etc.) démontre que

      « les travaux sur la question minoritaire, la racialisation ou le postcolonial demeurent des domaines de niche […] bénéficiant d’une faible audience dans le champ académique comme dans l’espace public »
      — Inès Bouzelmat, « Le sous-champ de la question raciale dans les sciences sociales », Mouvements, 12 février 2019.

      Si guerre il y a, les deux camps en présence témoignent d’un « rapport de forces inégal » où la puissance, sinon l’hégémonie, est bien du côté du savoir contesté par « la mouvance post ou décoloniale » (L’Obs, 11 janvier 2020), qui fait figure de David contre le Goliath de l’universalisme républicain.

      De plus, il est remarquable que les combats de l’université, comme récemment contre la Loi de Programmation Pluriannuelle de la Recherche, dont le projet a été rendu public le 7 juin et qui est sur le point d’être adoptée en dépit de l’opposition explicite, massive et continue de la communauté universitaire, troublent généralement bien peu les penseurs institutionnels et les personnalités publiques. On compte sur les doigts d’une main les journalistes qui ont relayé les inquiétudes des universitaires : la vraie guerre est ailleurs. Pour les gardiens du temple, les « décoloniaux » menacent bien davantage l’université que la remise en cause des statuts des enseignants-chercheurs, la précarisation des personnels, la diminution accrue de financement récurrent et la mise en concurrence généralisée des institutions, des laboratoires et des individus. Ce n’est pas la disparition programmée du service public qui doit appeler « à la plus grande mobilisation » de la communauté universitaire (Marianne, 26 juin 2020), c’est la diffusion de « l’idéologie décoloniale ».

      C’est que cette guerre-là ne touche pas seulement l’université – sinon, qui s’en soucierait ? Comme l’a affirmé Emmanuel Macron dans des propos rapportés le 10 juin 2020 dans Le Monde, « le monde universitaire a été coupable », « il a encouragé l’ethnicisation de la question sociale en pensant que c’était un bon filon » et une telle stratégie « revient à casser la République en deux ». Voilà le véritable enjeu : les décoloniaux, par opportunisme et sens du « postcolonial business » (L’Express, 26 dec. 2019) ou par désir de promouvoir la haine et la division de la communauté politique, ou peut-être enfin par incompréhension et ignorance des vraies fractures sociales – par cynisme, par gauchisme ou par bêtise -, sont accusés de chercher à provoquer une « guerre des races » qui brisera la République. Ils sont ceux qui guident « les jeunes » dans les manifestations contre le racisme et les violences policières, ceux qui suscitent le déboulonnage des statues et les changements de noms des rues et places qui rendent hommage aux héros du colonialisme, ceux qui plaident pour l’introduction de statistiques ethniques afin de visibiliser les phénomènes de discrimination… C’est pourquoi, dans ces lignes de front qui se tracent, c’est bien eux qu’on prend à partie via ce « vous » populaire qu’ils incarnent comme une avant-garde : « J’exige de vous le respect. Sinon ce sera la guerre » (Marianne, 9 juillet 2020).
      Cette déclaration de guerre repose sur une confusion, un renversement et un double mensonge.

      La confusion est évidente : sont rassemblés sous une étiquette mal taillée des chercheurs et chercheuses aux positions épistémologiques précises et parfois en désaccord, qui travaillent depuis des années sur des objets dont l’importance n’est pas encore vraiment reconnue. Leur recherche, selon les règles d’usage de la discussion académique, exige de se confronter lors de séminaires, colloques et conférences où entrent en conversation les tenants de positions différentes avec les outils académiques de l’argumentation logique, de la distinction conceptuelle et de l’érudition textuelle. La « mouvance post ou décoloniale » n’existe pas. Et pour cause : les études décoloniales sont d’abord menées par des chercheuses et chercheurs latino-américains, parfois caribéens, qui diffèrent des courants postcoloniaux indiens ou, surtout, étasuniens, selon trois critères désormais bien établis : géopolitique, disciplinaire et généalogique1. Décoloniaux et postcoloniaux ne partagent ni les mêmes influences intellectuelles ni les mêmes contextes socio-économiques et culturels ; ils et elles mobilisent des outils méthodologiques différents pour poser des problèmes théoriques ou normatifs différents. Les désaccords scientifiques traversent aussi les disciplines, y compris entre celles et ceux qui sont persuadés de l’importance de s’intéresser au passé colonial pour comprendre le présent : historiens de l’esclavage et de la colonisation s’affrontent sur les aires géographiques pertinentes, sur les méthodologies de l’histoire globale ou locale, sur les sources archivistiques ou leur absence, etc. Bien loin de mettre en place des stratégies hégémoniques de domination académique, les universitaires échangent du savoir, de la connaissance, du raisonnement, avec humilité, rigueur et ténacité. Ils et elles travaillent et soumettent leurs hypothèses au test de l’évaluation par les pairs : ils font leur métier.

      Le renversement de perspective est tout aussi massif. Tout se passe comme si s’efforcer de mettre au jour les effets de domination historiquement fondés sur des rapports de race traduits dans l’organisation coloniale du monde, puis hérités de cet ordre sans être réellement déconstruits, revenait à créer ces effets de domination. Lorsque les chercheuses et chercheurs parlent de racialisation ou racisation, on leur oppose que le mot est « épouvantable » (Jean-Michel Blanquer, dans Libération, 21 novembre 2017). C’est un néologisme qui, selon la critique, ne permet pas de révéler une réalité sociale, mais qui produit, dans un geste performatif, la réalité qu’il prétend désigner.

      Or parler de groupe racisé consiste bien à nommer une réalité sociale : la catégorisation et la hiérarchisation de groupes sociaux, dans des contextes précis, en raison de facteurs visuels ou généalogiques réels ou fantasmés2. Il s’agit de chercher à expliquer, et non pas excuser, la construction, les mécanismes, les processus de reproduction de cette réalité. Parler de racialisation permet précisément de souligner que la race n’existe pas en tant que réalité biologique, de l’historiciser, la désessentialiser et la dénaturaliser. Il s’agit de produire de nouvelles ressources épistémiques pour dénoncer la hiérarchisation et l’inégalité raciales tout en évitant de reproduire les interprétations obsolètes et racistes du monde social.

      Sous la plume de ceux qui veulent « sanctionner » « l’idéologie coloniale », « supprimer les références racialistes », effacer la « nuée de concepts » qui traitent de la question raciale — non seulement dans la législation et la Constitution, mais aussi à l’université — une telle mise sous silence permettrait de supprimer le mal. Ces mots « réactivent l’idée de race » et « détournent des valeurs de liberté, égalité, fraternité qui fondent notre démocratie », affirment-ils (Le Point, 28 novembre 2018) : cessons d’utiliser ces mots abominables, et la « question sociale » sera enfin désethnicisée, la République réparée. Ils estiment sans doute qu’en France régnait l’égalité réelle jusqu’à ce que certains se mettent à dénoncer la domination raciale dont ils font l’expérience, et d’autres parviennent à admettre le privilège racial dont ils bénéficient.

      C’est là nier le travail des chercheuses et chercheurs qui, décrivant et évaluant les dominations raciales, s’efforçant de poser un diagnostic clair sur la nature et l’ampleur des inégalités qui traversent notre société, non seulement ne les créent pas, mais espèrent même contribuer à les faire disparaître. Vouloir les faire taire, c’est contribuer au racisme ordinaire en lui permettant d’avancer sous la « cape d’invisibilité » que procure l’étendard du républicanisme bafoué.

      Enfin le mensonge est double : d’une part, il consiste à faire semblant de croire qu’une poignée d’universitaires peut entraîner à elle seule les mouvements sociaux d’ampleur inédite qui ont vu le jour après le confinement pour dénoncer le racisme institutionnel et réclamer justice. C’est trop d’honneur. Trop de mépris, aussi, pour le travail de terrain des mouvements antiracistes et les associations de défense des droits qui mènent la lutte au quotidien auprès des victimes de stigmatisation et discrimination raciales. C’est enfin, surtout, être aveugle à la lame de fond qui nous emporte, à la transformation sociale massive que vit notre vieux modèle. Car d’autre part, le mensonge réside dans l’accusation selon laquelle les manifestant·es qui protestent contre le racisme et les discriminations, et réclament une participation égale et un statut paritaire dans le récit national, veulent « casse[r] la République en deux ». Or cela a été amplement souligné : les hommes et femmes, jeunes et moins jeunes, racisé·es ou non, qui défilaient pour condamner les violences policières racistes en juin dernier3 chantaient ensemble La Marseillaise ; celles et ceux qui proposent de déplacer les statues des héros de la colonisation pour les muséifier le font au nom d’un hommage que la république pourrait rendre, sur ses places publiques, à d’autres héroïnes et d’autres héros français oubliés ou trop longtemps traités en objets et non en sujets politiques. La république peut être inclusive et réparée ; l’universel peut être visé — un universel concret, construit à partir des particularités et non pas en négation de celles-ci. Ce sont les fondations d’un nouvel universalisme possible qui sont en train d’être posées. Le mensonge consiste à prétendre que Cassandre veut la guerre.
      Et si ce n’était pas une guerre, mais une révolution ?

      Ce à quoi on assiste, et qui provoque la panique morale des puissants, peut se comprendre, c’est l’hypothèse faite ici, à la fois comme une révolution scientifique et comme une révolution politique, parce que les deux sont indissociables dans les sciences humaines et sociales. C’est à la fois un tournant copernicien ou changement de paradigme4, une nouvelle manière de façonner les problèmes et les solutions dans un processus discontinu de production du savoir, et le mouvement du « passage de l’idée dans l’expérience historique », la « tentative pour modeler l’acte sur une idée, pour façonner le monde dans un cadre théorique »5.

      L’ancien modèle théorique s’essouffle : les énigmes se multiplient, les exceptions ou anomalies ne confirment plus la règle mais s’accumulent pour miner l’autorité du vieux cadre interprétatif colorblind de notre monde social. Trop d’injustices sociales débordent le modèle de la lutte des classes, les inégalités socio-économiques à elles seules n’expliquent pas toutes les différences de trajectoire collective ou individuelle, les différences culturelles se naturalisent, l’écart se creuse et se visibilise entre les idéaux de la république et la réalité sociologique de leur mise en œuvre – y compris institutionnelle. L’épaisseur de l’histoire esclavagiste et coloniale pèse sur le mythe du contrat social républicain établi entre des partenaires égaux consentant librement à « faire peuple », ensemble. Ce qui est requis, ce n’est donc pas simplement une nouvelle grille de lecture à appliquer sur des données par ailleurs bien connues : c’est la manière même de voir le monde qui change, ce sont de nouveaux positionnements, de nouvelles perspectives, de nouvelles perceptions, la mise au jour de nouvelles archives, les témoignages de nouvelles voix, qui produisent des données jusque là méconnues ou ignorées, et qui entraînent l’exigence de renouveler le paradigme.

      La résistance de la vieille garde est d’autant plus désespérée que les sujets producteurs de ces nouvelles connaissances sont aussi des agents usuellement dominés et discrédités dans les circonstances « normales » du discours public. Ce sont des agents dont les idées, les ressources théoriques, les productions cognitives, souffrent d’un déficit de crédibilité dû soit à des biais ou stéréotypes négatifs qui conduisent à mettre en doute leur capacité à produire un discours valide, rationnel et raisonnable, sur leurs expériences singulières, soit à un excès de crédibilité accordé à d’autres agents dissonants, au témoignage ou à l’analyse desquels on a tendance à accorder une confiance supérieure. Racialisation, discrimination systémique, privilège blanc, stigmatisation raciale, parmi d’autres, sont des concepts et des ressources épistémiques précieuses pour décrire des expériences sociales, les partager, les interpréter, les évaluer, et peut-être transformer le monde où elles ont cours. Le monde universitaire n’est pas une armée de terroristes qui infiltre les lieux de savoir et casse la République en deux : le monde universitaire est l’espace institutionnel inclusif où ces agents producteurs de connaissance inédits et inaudibles peuvent participer à la production de savoirs qui nous concernent tous parce que tous, nous sommes la république. La guerre des facs n’aura pas lieu, parce que le monde d’après est déjà là : les monstres, et leurs derniers gémissements, disparaissent avec le clair-obscur.

      https://academia.hypotheses.org/29341

    • Academic Freedom Under Attack in France

      For many years, in what now seems the distant past, France was known as the nation that welcomed refugees from authoritarian countries; revolutionary activists, artists, exiled politicians, dissident students, could find sustenance and support in the land of liberty, equality, and fraternity. It is also the country whose philosophers gave us many of the tools of critical thinking, including perhaps the very word critique. In recent years—at least since the bicentennial of the French Revolution in 1989—that image has been replaced by a more disturbing one: a nation unable to decently cope (and increasingly at war) with people of color from its former colonies (black, Arab, Muslim) as well as Roma; a nation whose leaders are condemning critical studies of racial discrimination and charges of “Islamophobia” in the name of “the values of the Republic.”

      The years since the bicentennial have seen a dramatic increase in discrimination against a number of groups, but Arab/Muslims, many of them citizens (according to the settlement that ended the Algerian War) have been singled out. The charge against them has been that they practice their religion publicly, in violation of laïcité, the French version of secularism, the separation of church and state. Enshrined in a 1905 law, laïcité calls for state neutrality in matters of religion and protects individual rights of private religious conscience. Although the state is extremely supportive of Catholic religious practices (state funds support churches as a matter of preserving the national heritage, and religious schools, the majority of them Catholic, in the name of freedom of educational choice; the former president, Nicolas Sarkozy has insisted that Catholicism is an integral aspect of laïcité), Islam has been deemed a threat to the “values” upon which national unity is based.

      National unity is a peculiar concept in France, at least from an American perspective. The nation “one and indivisible” is imagined as culturally homogeneous. Anything that suggests division is scrupulously avoided. Thus there is no exact calculation of the numbers of Muslims in the French population because no official statistics are kept on racial, ethnic, or religious difference. To make those very real differences visible is thought to introduce unacceptable divisions in the representation of the unity of the national body.

      The presence of an estimated 6 to 10 million Muslims (in a country of some 67 million) has become a potent political weapon. Initially claimed by the far Right National Front party (now renamed the Rally for the Republic), the “Muslim problem” has become a concern of parties across the spectrum (in differing degrees from Right to Left). In 2003, in the face of increasing electoral success on the far Right, the conservative government of Jacques Chirac commissioned a report that redefined laïcité for the twenty-first century’s “clash of civilizations.” Titled “The New Laïcité, “ it extended the demand for neutrality from the state to its individual citizens, forbidding any display of religious affiliation in public space. Although said to be universally applicable, everyone understood this to be a policy aimed at Muslims. Thus the hijab (the Islamic headscarf) is prohibited in public schools; women are fined for wearing the niqab (the full face covering) on the streets of their towns; veiled women are prevented from serving as witnesses at weddings conducted in city halls; burkini clad women were forced to undress on some beaches in the summer of 2016….the list goes on. Women were the target of these rules and regulations (for reasons I have analyzed in my The Politics of the Veil (2007), but men, too, experience economic and social discrimination, as well as violent police surveillance in their homes and on the streets.

      In the wake of a number of horrific terrorist attacks in the name of Islam in French cities—the assassinations of the Charlie Hebdo journalists and the murders at the Bataclan theater in 2015, and most recently, in 2020, the beheading of a school teacher, Samuel Paty—all Muslims are increasingly defined as a threat to the security of the nation. The Interior Minister, Gérald Darmanin, has effectively declared war, defining not religion but Islamist ideology as “an enemy within.” Despite this careful distinction, a wartime, ethno-nationalist mentality has identified Muslims as a dangerous class. Antipathy to Muslims has become evidence of patriotism; those who argue that not all Muslims are terrorists and that discrimination against them might contribute to their radicalization, have been met with denunciations and vehement attacks. University professors are among these groups, and they have faced particularly nasty accusations of treason. The campaigns being mounted against them don’t just target individuals; in their insistence that teaching cannot deviate from “the values of the Republic,” the charges amount to a sustained attack on academic freedom.

      The call to rally around the Republic has come not only from the expected quarters—politicians and publicists on the Right—but also from the current (neo-) liberal administration and from within the academy itself. Historians, sociologists, and anthropologists who work on the history of colonialism, on issues of ethnic and racial discrimination, and who seek to account, within the problematics of their disciplines, for the inequalities evident in French society, have been labelled “islamo-gauchistes” for their presumed support for or identification with Muslims. The term is used as an insult, and it is employed regularly by intellectuals such as the philosopher Elisabeth Badinter and the feminist writer Caroline Fourest, neither of whom are considered to be on the Right. In 2018, following a conference at the University of Paris, 7, on “Racism and racial discrimination in the university,” some 80 intellectuals signed a letter condemning as “ideological” the increasing number of “racialist” university events and they called upon “the authorities” to put an end to their “use against the Republic.”

      The “authorities” have responded. In 2020, the Minister of Education, Jean-Michel Blanquer declared that anti-racist intellectuals were “complicit” in Samuel Paty’s murder. He accused “islamo-gauchistes” of “wreaking havoc” in the university. Those employing ideas of “intersectionality,” he denounced as “intellectual accomplices of terrorism.” He deemed intersectionality a pernicious import from multicultural America that “essentializes communities and identities, the antithesis of our model of the Republic.” If Muslims were “separatists,” these intellectuals were too. President Emmanuel Macron charged that “The academy is guilty. It has encouraged the ethnicization of the social question, thinking it’s a good subject to study. But, the outcome can only be secessionist. It will rebound to split the Republic in two.” In October, a bill was proposed in the Senate stating that “academic freedom must respect the values of the Republic.” And Frédérique Vidal, the Minister of Higher Education and Research, whose portfolio most directly pertains to the academy, asserted that “the values of laïcité, of the Republic, are not open for debate.”

      Although no one has yet been fired from a university position, the warning signs are clear. If the nation is at war with Islam, those who struggle to find alternatives to this divisiveness are, ironically, accused of dividing the nation. When professor of sociology (University of Paris 8) Eric Fassin was threatened on Twitter with decapitation for his “islamo-gauchiste views” by a right-wing extremist, his university president offered support (as did academic collectives from Turkey to Brazil), but there was no comment from those higher up in the education ministries. [Fassin sued and won a ruling against the man, but the court treated him not as member of a domestic, neo-Nazi, terrorist network (which he is), but as a lone aberrant individual.] Calls to rein in teachers who address racism and discrimination are widespread, and the threats of disciplinary action are particularly severe against the still relatively rare academics of color, many of whom hold junior, therefore vulnerable positions. State surveillance of research can make it difficult for those studying discrimination, as well as aspects of Islamic culture, to get access to the archives and repositories of data that they need. And then there is the self-policing that inevitably accompanies state surveillance and disapproval.

      But the resistance is impressive. There is no national organization equivalent to the AAUP in France, yet faculty have nonetheless mobilized. Courses continue to be taught, books and articles published, and conferences held on race and discrimination, and these are rightly justified as realizing the values of the Republic—those that stand for liberty and equality above all. There is a site, Université Ouverte where information on protests and other activities can be found, as well as the blog Academia with in-depth critical analyses. In response to a denunciation of their work by 100 intellectuals as “racializing” (racialiste) because it allegedly taught students to “hate whites and France,” more than 2000 academics replied this way in Le Monde: “To call the approach that examines, among other things, the impact of social, sexist, and racist oppression, ‘racialist,’ is despicable. [Racialist] signifies racist thought and regimes based on a supposed hierarchy of race….[But our] sociological and critical approach to racial questions, as the intersectional approaches so often attacked, do the opposite by exposing oppression in order to combat it.” An international letter of support for these efforts was circulated in November, 2020. It makes the case very clear: an increasingly ethno-nationalist politics is posing a dire threat to French academic freedom.

      As I write this in early 2021, the old slogan from May ’68 in France sums up the state of things: La lutte continue (the struggle goes on).

      https://academeblog.org/2021/01/05/academic-freedom-under-attack-in-france
      #Joan_Scott

    • Comment les militants décoloniaux prennent le pouvoir dans les universités
      https://seenthis.net/messages/900839

      ... où on parle notamment de ce nouveau site web :
      L’#Observatoire_du_décolonialisme_et_des_idéologies_identitaires :

      Ce site propose un regard critique, tantôt profond et parfois humoristique, sur l’émergence d’une nouvelle tendance de l’Université et de la Recherche visant à « décoloniser » les sciences qui s’enseignent. Il dénonce la déconstruction revendiquée visant à présenter des Institutions (la langue, l’école, la République, la laïcité) comme les entraves des individus. Le lecteur trouvera outre une série d’analyses et de critiques, une base de données de textes décoloniaux interrogeable en ligne, un générateur de titre de thèses automatique à partir de formes de titres, des liens d’actualités et des données sur la question et un lexique humoristique des notions-clés.

      Cet observatoire n’a pas pour but de militer, ni de prendre des positions politiques. Il a pour but d’observer et d’aider à comprendre, à lire la production littéraire, scientifique et éditoriale des études en sciences humaines ou prétendument scientifiques orientées vers le décolonialisme. Il veut surtout aider à comprendre la limite entre science et propagande.

      L’équipe :


      http://decolonialisme.fr

    • La France contaminée par les idées venues des campus américains

      Entre l’Élysée et la presse outre-Atlantique, la controverse ne s’arrête plus : « Les idées américaines menacent-elles la cohésion française ?? » s’interroge le New York Times. Le prestigieux quotidien américain revient sur une série d’observations et de déclarations entendues en France à la suite du discours d’Emmanuel Macron contre les séparatismes le 2 octobre.

      Ce jour-là, le président français avait mis en garde les universités contre « certaines théories en sciences sociales totalement importées des États-Unis d’Amérique ». L’Hexagone, affirme le New York Times, se sentirait menacé par « les idées progressistes américaines - notamment sur la race, le genre, le post-colonialisme ». Certains « politiciens, d’éminents intellectuels et nombre de journalistes français » craignent qu’elles soient « en train de saper leur société ».

      Il y a eu les déclarations de Jean-Michel Blanquer, ministre de l’Éducation nationale, qui avait parlé d’un « combat à mener contre une #matrice_intellectuelle venue des universités américaines », et aussi le livre de deux éminents spécialistes des sciences sociales françaises, #Stéphane_Beaud et #Gérard_Noiriel, critiquant le principe d’#études_raciales. La virulence des réactions antiaméricaines étonne le NYT. Il note cependant :

      D’une certaine manière, c’est un combat par procuration autour de questions qui sont parmi les plus brûlantes au sein de la société française, celles notamment de l’#identité_nationale et du #partage_du_pouvoir."

      Car si, dans les universités françaises, la jeune génération de chercheurs n’est plus sur la même ligne que la précédente, la contestation de certains volets du #modèle_français est arrivée dans la société. Le journaliste américain cite plusieurs exemples, à commencer par les manifestations contre les violences policières suscitées par l’assassinat de George Floyd de juin 2020.

      [Celles-ci] remettaient en cause la non-reconnaissance institutionnelle de la race et le racisme systémique. Une génération #MeToo de féministes s’est dressée à la fois contre le pouvoir masculin et contre les féministes plus âgées. La répression qui a suivi une série d’attaques islamistes a soulevé des interrogations sur le modèle français de laïcité et l’intégration des immigrés des anciennes colonies de la France."

      Il se peut bien, estime le NYT en citant le chercheur français Éric Fassin, que derrière les attaques du gouvernement contre les universités américaines « se cachent les tensions d’une société où le pouvoir établi est bousculé ».

      https://www.courrierinternational.com/article/vu-des-etats-unis-la-france-contaminee-par-les-idees-venues-d

    • Will American Ideas Tear France Apart? Some of Its Leaders Think So

      Politicians and prominent intellectuals say social theories from the United States on race, gender and post-colonialism are a threat to French identity and the French republic.

      The threat is said to be existential. It fuels secessionism. Gnaws at national unity. Abets Islamism. Attacks France’s intellectual and cultural heritage.

      The threat? “Certain social science theories entirely imported from the United States,’’ said President Emmanuel Macron.

      French politicians, high-profile intellectuals and journalists are warning that progressive American ideas — specifically on race, gender, post-colonialism — are undermining their society. “There’s a battle to wage against an intellectual matrix from American universities,’’ warned Mr. Macron’s education minister.

      Emboldened by these comments, prominent intellectuals have banded together against what they regard as contamination by the out-of-control woke leftism of American campuses and its attendant cancel culture.

      Pitted against them is a younger, more diverse guard that considers these theories as tools to understanding the willful blind spots of an increasingly diverse nation that still recoils at the mention of race, has yet to come to terms with its colonial past and often waves away the concerns of minorities as identity politics.

      Disputes that would have otherwise attracted little attention are now blown up in the news and social media. The new director of the Paris Opera, who said on Monday he wants to diversify its staff and ban blackface, has been attacked by the far-right leader, Marine Le Pen, but also in Le Monde because, though German, he had worked in Toronto and had “soaked up American culture for 10 years.”

      The publication this month of a book critical of racial studies by two veteran social scientists, Stéphane Beaud and Gérard Noiriel, fueled criticism from younger scholars — and has received extensive news coverage. Mr. Noiriel has said that race had become a “bulldozer’’ crushing other subjects, adding, in an email, that its academic research in France was questionable because race is not recognized by the government and merely “subjective data.’’

      The fierce French debate over a handful of academic disciplines on U.S. campuses may surprise those who have witnessed the gradual decline of American influence in many corners of the world. In some ways, it is a proxy fight over some of the most combustible issues in French society, including national identity and the sharing of power. In a nation where intellectuals still hold sway, the stakes are high.

      With its echoes of the American culture wars, the battle began inside French universities but is being played out increasingly in the media. Politicians have been weighing in more and more, especially following a turbulent year during which a series of events called into question tenets of French society.

      Mass protests in France against police violence, inspired by the killing of George Floyd, challenged the official dismissal of race and systemic racism. A #MeToo generation of feminists confronted both male power and older feminists. A widespread crackdown following a series of Islamist attacks raised questions about France’s model of secularism and the integration of immigrants from its former colonies.

      Some saw the reach of American identity politics and social science theories. Some center-right lawmakers pressed for a parliamentary investigation into “ideological excesses’’ at universities and singled out “guilty’’ scholars on Twitter.

      Mr. Macron — who had shown little interest in these matters in the past but has been courting the right ahead of elections next year — jumped in last June, when he blamed universities for encouraging the “ethnicization of the social question’’ — amounting to “breaking the republic in two.’’

      “I was pleasantly astonished,’’ said Nathalie Heinich, a sociologist who last month helped create an organization against “decolonialism and identity politics.’’ Made up of established figures, many retired, the group has issued warnings about American-inspired social theories in major publications like Le Point and Le Figaro.

      For Ms. Heinich, last year’s developments came on top of activism that brought foreign disputes over cultural appropriation and blackface to French universities. At the Sorbonne, activists prevented the staging of a play by Aeschylus to protest the wearing of masks and dark makeup by white actors; elsewhere, some well-known speakers were disinvited following student pressure.

      “It was a series of incidents that was extremely traumatic to our community and that all fell under what is called cancel culture,’’ Ms. Heinich said.

      To others, the lashing out at perceived American influence revealed something else: a French establishment incapable of confronting a world in flux, especially at a time when the government’s mishandling of the coronavirus pandemic has deepened the sense of ineluctable decline of a once-great power.

      “It’s the sign of a small, frightened republic, declining, provincializing, but which in the past and to this day believes in its universal mission and which thus seeks those responsible for its decline,’’ said François Cusset, an expert on American civilization at Paris Nanterre University.

      France has long laid claim to a national identity, based on a common culture, fundamental rights and core values like equality and liberty, rejecting diversity and multiculturalism. The French often see the United States as a fractious society at war with itself.

      But far from being American, many of the leading thinkers behind theories on gender, race, post-colonialism and queer theory came from France — as well as the rest of Europe, South America, Africa and India, said Anne Garréta, a French writer who teaches literature at universities in France and at Duke.

      “It’s an entire global world of ideas that circulates,’’ she said. “It just happens that campuses that are the most cosmopolitan and most globalized at this point in history are the American ones.’’

      The French state does not compile racial statistics, which is illegal, describing it as part of its commitment to universalism and treating all citizens equally under the law. To many scholars on race, however, the reluctance is part of a long history of denying racism in France and the country’s slave-trading and colonial past.

      “What’s more French than the racial question in a country that was built around those questions?’’ said Mame-Fatou Niang, who divides her time between France and the United States, where she teaches French studies at Carnegie Mellon University.

      Ms. Niang has led a campaign to remove a fresco at France’s National Assembly, which shows two Black figures with fat red lips and bulging eyes. Her public views on race have made her a frequent target on social media, including of one of the lawmakers who pressed for an investigation into “ideological excesses’’ at universities.

      Pap Ndiaye, a historian who led efforts to establish Black studies in France, said it was no coincidence that the current wave of anti-American rhetoric began growing just as the first protests against racism and police violence took place last June.

      “There was the idea that we’re talking too much about racial questions in France,’’ he said. “That’s enough.’’

      Three Islamist attacks last fall served as a reminder that terrorism remains a threat in France. They also focused attention on another hot-button field of research: Islamophobia, which examines how hostility toward Islam in France, rooted in its colonial experience in the Muslim world, continues to shape the lives of French Muslims.

      Abdellali Hajjat, an expert on Islamophobia, said that it became increasingly difficult to focus on his subject after 2015, when devastating terror attacks hit Paris. Government funding for research dried up. Researchers on the subject were accused of being apologists for Islamists and even terrorists.

      Finding the atmosphere oppressive, Mr. Hajjat left two years ago to teach at the Free University of Brussels, in Belgium, where he said he found greater academic freedom.

      “On the question of Islamophobia, it’s only in France where there is such violent talk in rejecting the term,’’ he said.

      Mr. Macron’s education minister, Jean-Michel Blanquer, accused universities, under American influence, of being complicit with terrorists by providing the intellectual justification behind their acts.

      A group of 100 prominent scholars wrote an open letter supporting the minister and decrying theories “transferred from North American campuses” in Le Monde.

      A signatory, Gilles Kepel, an expert on Islam, said that American influence had led to “a sort of prohibition in universities to think about the phenomenon of political Islam in the name of a leftist ideology that considers it the religion of the underprivileged.’’

      Along with Islamophobia, it was through the “totally artificial importation’’ in France of the “American-style Black question” that some were trying to draw a false picture of a France guilty of “systemic racism’’ and “white privilege,’’ said Pierre-André Taguieff, a historian and a leading critic of the American influence.

      Mr. Taguieff said in an email that researchers of race, Islamophobia and post-colonialism were motivated by a “hatred of the West, as a white civilization.’’

      “The common agenda of these enemies of European civilization can be summed up in three words: decolonize, demasculate, de-Europeanize,’’ Mr. Taguieff said. “Straight white male — that’s the culprit to condemn and the enemy to eliminate.”

      Behind the attacks on American universities — led by aging white male intellectuals — lie the tensions in a society where power appears to be up for grabs, said Éric Fassin, a sociologist who was one of the first scholars to focus on race and racism in France, about 15 years ago.

      Back then, scholars on race tended to be white men like himself, he said. He said he has often been called a traitor and faced threats, most recently from a right-wing extremist who was given a four-month suspended prison sentence for threatening to decapitate him.

      But the emergence of young intellectuals — some Black or Muslim — has fueled the assault on what Mr. Fassin calls the “American boogeyman.’’

      “That’s what has turned things upside down,’’ he said. “They’re not just the objects we speak of, but they’re also the subjects who are talking.’’

      https://www.nytimes.com/2021/02/09/world/europe/france-threat-american-universities.html?searchResultPosition=5

    • Le manifeste des 100 repris par la tribune des généraux qui appellent Macron à défendre le #patriotisme...

      Qui sont donc les ennemis que ces militaires appellent à combattre pour sauver « la Patrie » ? Qui sont les agents du « délitement de la France » ? Le premier ennemi désigné reprend mot pour mot les termes de l’appel des universitaires publié le 1 novembre 2020 sous le titre de « Manifeste des 100 » : « un certain antiracisme » qui veut « la guerre raciale » au travers du « racialisme », « l’indigénisme » et les « théories décoloniales ». Le second ennemi est « l’islamisme et les hordes de banlieue » qui veulent soumettre des territoires « à des dogmes contraires à notre constitution ». Le troisième ennemi est constitué par « ces individus infiltrés et encagoulés saccagent des commerces et menacent ces mêmes forces de l’ordre » dont ils veulent faire des « boucs émissaires ».

      https://seenthis.net/messages/912643
      Et plus précisément : https://seenthis.net/messages/912643#message913950

    • « Islamo-gauchisme » à l’université : la ministre Frédérique Vidal accusée d’abus de pouvoir devant le Conseil d’Etat

      Six enseignants-chercheurs ont déposé en avril un #recours devant le #Conseil_d’Etat. La ministre de l’enseignement supérieur va devoir justifier sa décision d’ouvrir une enquête sur l’« islamo-gauchisme à l’université ».

      Qu’est devenue l’enquête sur l’ « islamo-gauchisme à l’université » voulue par la ministre de l’enseignement supérieur ? Le 14 février, Frédérique Vidal annonçait sur CNews qu’elle allait demander, « notamment au CNRS », de mener une enquête portant sur « l’ensemble des courants de recherche » en lien avec « l’islamo-gauchisme » à l’université. Deux jours plus tard, à l’Assemblée nationale, elle confirmait la mise en place d’ « un bilande l’ensemble des recherches » en vue de « distinguer ce qui relève de la recherche académique et ce qui relève du militantisme et de l’opinion .

      Quatre mois ont passé et c’est le silence complet. Sollicité par Le Monde à de multiples reprises, l’entourage de la ministre refuse d’indiquer si une enquête a été lancée et, le cas échéant, à qui a été confié le soin de la mener, le CNRS ayant décliné la demande.

      C’est désormais sur le terrain juridique que se joue l’affaire, six enseignants-chercheurs attaquant la ministre pour #abus_de_pouvoir. Une procédure de référé et un recours en annulation ont été introduits le 13 avril devant le Conseil d’Etat par les avocats William Bourdon et Vincent Brengarth. Les requérants demandent à Frédérique Vidal de renoncer officiellement et définitivement à cette enquête « qui bafoue les libertés académiques et menace de soumettre à un contrôle politique, au-delà des seules sciences sociales, la recherche dans son ensemble .

      Le 7 mai, le Conseil d’Etat qui a rejeté le référé a transmis la requête en annulation au ministère pour l’interroger sur sa position. « La ministre de l’enseignement supérieur dispose désormais de deux mois pour démontrer que sa décision ne constitue pas un détournement des pouvoirs et des attributions qui lui sont confiés », indiquent MM. Bourdon et Brengarth. « Info ou intox ? Les masques vont tomber. Quand on a suscité un tel émoi, il est essentiel que la ministre assume soit la décision, soit le rétropédalage », ajoute William Bourdon.

      « Police de la pensée »

      Si le Conseil d’Etat s’est déclaré incompétent, il demande au ministère des explications, souligne Fabien Jobard, l’un des requérants, chercheur au CNRS, spécialiste des questions pénales. « Il agit comme une commission d’accès aux documents administratifs en demandant à Mme Vidal de nous dire ce qu’il en est. Soit oui, une commission existe avec tel et tel membre, soit non c’est le plus probable , il n’y a pas de commission d’enquête », projette-t-il.

      Pour la requérante Fanny Gallot, maîtresse de conférences en histoire à l’université Paris-Est-Créteil, « ce recours marque le fait que les bornes ont été largement dépassées. Aujourd’hui, l’offensive est très forte et elle est autorisée par Frédérique Vidal . Ainsi, « mener des recherches sur les discriminations ethnoraciales quand on est soi-même racisé est d’emblée considéré comme se faire le porte-parole des minorités. Mener des recherches quand on est féministe, comme moi, peut être utilisé par certains pour remettre en question la scientificité de mes recherches », illustre-t-elle.

      Des étudiants de deuxième année de master qui voulaient s’inscrire en thèse hésitent à travailler sur certains sujets, notamment liés à l’intersectionnalité (qui consiste à croiser divers mécanismes de domination, liés au genre, à l’âge ou encore à la couleur de peau). « C’est une #intimidation, même s’il n’y a pas eu véritablement de commission d’enquête. Pour pouvoir assumer de parler de certains sujets, il faut être un enseignant en poste, sinon c’est trop risqué », confirme Caroline Ibos, maîtresse de conférences en science politique à l’université Rennes-II.

      Les effets sont donc « très concrets » et vont « dans le sens d’une #police_de_la_pensée », alors que sont en question des savoirs déjà marginalisés en France. « Il y a peu d’endroits où l’on peut se former en études de genre et un seul Paris-VIII qui décerne des doctorats en études de genre en France, décrit la chercheuse. Il n’y a pas de section au CNRS, ni au CNU [Conseil national des universités], c’est un champ particulièrement sous-financé et aujourd’hui le gouvernement décide de le livrer à la vindicte populaire ? »

      Fanny Gallot décrit « un climat d’angoisse » depuis les déclarations de la ministre. « Il y a des moments d’échanges académiques qui sont empêchés », comme lors d’une table ronde au mois de mars consacrée à l’intersectionnalité qui s’est déroulée dans une ambiance « électrique », rapporte-t-elle. « Je pense que je n’ai pas dit exactement ce que j’aurais dit si nous n’avions pas été trois semaines après les propos de Frédérique Vidal. Nous nous autocensurons dans une certaine mesure parce que nous avons #peur. Dans des conférences Zoom où on ne sait pas toujours qui est présent, on redoute des trolls. On ne sait plus ce que l’on peut dire en classe ou dans les séminaires », confie Fanny Gallot.

      Une #suspicion constante

      « Nous souhaitions mettre la ministre face à ses responsabilités, explique Nacira Guénif, professeure de sociologie à Paris-VIII, également requérante. On ne peut pas faire n’importe quelle déclaration sans que cela ait des implications. » Née en France de parents algériens, Nacira Guénif « travaille depuis longtemps dans ces conditions de suspicion.

      « J’ai eu un procès en imposture avant même d’avoir mon poste à l’université », narre-t-elle. Dans les années 1990, auprès de la direction des populations et des migrations, qui finançait une recherche obtenue par la jeune chercheuse après un appel d’offres, elle fait face à une « curée générale . « Je ne collais pas aux stéréotypes de la beurette, qui était précisément le sujet de ma thèse. On me reprochait de ne pas dire ce qu’on attendait de moi et cela s’est transformé en déloyauté de ma part », poursuit Nacira Guénif.

      Depuis, la suspicion de militance est constante, les promesses non tenues d’invitations dans des colloques se poursuivent et les prises à partie également. Dans la volonté de la ministre, Fabien Jobard voit « au mieux un doublon inutile et au pire, une volonté du gouvernement de substituer ou d’ajouter aux procédures scientifiques habituelles une procédure dérogatoire .

      Car, pour faire des enquêtes, il existe des commissions dans chacun des établissements, tel le comité national au CNRS, chargé d’évaluer les collègues et de recruter les nouveaux chercheurs. « C’est le principe de l’évaluation de l’action scientifique par les pairs, rappelle-t-il. Si un collègue au CNRS présente un projet visant à nous dire que le prolétariat nouveau est constitué d’islamistes et exige que le politique mette genou à terre devant lui, alors je suis suffisamment grand pour émettre un avis d’alerte sur ce collègue », illustre celui qui a siégé au comité national dans la section science politique entre 2004 et 2008.

      Lui aussi témoin d’effets concrets après l’annonce de Mme Vidal, Fabien Jobard cite le cas d’une collègue chargée de suivre plusieurs sujets pour le compte du gouvernement. « Dans le cadre de ses missions, elle travaille avec des militaires et, alors qu’elle voulait organiser un colloque, l’un d’eux s’est opposé à ce qu’il se tienne à La Sorbonne, "à cause des problèmes d’islamo-gauchisme" », relate Fabien Jobard, qui s’inquiète du discrédit jeté sur les travaux de recherche. « J’essaye de maintenir une crédibilité, mais si mes interlocuteurs habituels que sont les procureurs, les policiers et les gendarmes s’effraient de mon travail, ma relation en sera-t-elle grillée ? Vont-ils travailler uniquement avec des universités et organismes qui feront le voeu de ne pas être islamo-gauchistes ? »

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2021/06/10/islamo-gauchisme-a-l-universite-la-ministre-frederique-vidal-accusee-d-abus-

    • Ces attaques répétées contre le monde universitaire sont un chiffon rouge agité devant une opinion surchauffée par le #confusionnisme d’extrême droite qui se nourrit des frustrations sociales en les exacerbant « en même temps » avec des fantasmes identitaires et une volonté de renouer avec une certaine « grandeur » tout aussi fantasmée, lesquels fantasmes ont malheureusement contaminé une partie de la gauche nostalgique de « l’esprit des lumières » et d’une vision biaisée de la #laïcité. C’est une logique hégémonique de #reconquista pour conforter les « valeurs » mortifères héritées de l’occident gréco-romain puis chrétien. Cette logique hégémonique procède des mêmes intentions que le nazisme avec l’antisémitisme et le fantasme « judéo-bolchevique ». Quelques années après le deuxième conflit mondial, on a pu voir outre-atlantique se développer un anti-communisme propulsé par le sénateur Joseph McCarthy et plus récemment, cette logique était également à la manœuvre pendant le mandat de Trump avec pour conséquence la résurgence des mouvances issues du #suprémacisme_blanc.

      Make the Christian Occident great again ! ...

      #propagande_d'état

      (Mon propos est certainement synthétique mais c’est pourtant cela qu’évoquent les analyses d’ #Éric_Fassin)

    • #Caroline_Fourest sur LCP, 02.07.2021 :

      Journaliste : La société se racialise. A ce point-là ?
      Caroline Fourest : « En France, je peux vous dire, dans nos universités, à commencer par nos universités... regardez la façon dont les chercheurs ont réagi à une interpellation, certes peut-être trop directe et pas tout à fait bien choisie de la ministre de l’enseignement supérieur, mais il y a un corporatisme violent qui est en train de protéger le déni. D’abord, aujourd’hui quand on parle de questions qui fâchent ceux qui vous attaquent le plus violemment ce sont des chercheurs du CNRS. C’est un problème que l’alerte soit interdite. Que le fait de penser soit interdit de la part de gens qui sont des chercheurs du CNRS. Et puis il y a une très forte attraction du modèle américain qui passe évidemment par toutes les plateformes culturelles de ce modèle-là et aussi qui attire à l’université qui manque de moyen. »
      Journaliste : « Donc il y a vraiment une perméabilité »
      Caroline Fourest : « Tout le monde s’identitarise. »
      Journaliste : « Les combats idéologiques sont toujours menés par des minorités, mais est-ce que c’est toute la société ? »
      Caroline Fourest : « Toute la société s’identitarise. Version d’extrême droite évidemment ça peut donner des jeunes blancs déclassés qui vont désormais dire blancs au lieu de se dire pauvres et de se mettre ne mouvement pour essayer de lutter contre les inégalités. ça va donner des jeunes qu’au lieu de se dire ’On va lutter contre les inégalités’ se mettent à lutter par identité à l’extrême gauche »

      https://twitter.com/LCP/status/1411024030296064004

    • Un article d’avril 2021 :

      #Stéphane_Troussel : ’La République ne sait que faire des différences physiques ou des couleurs de peau multiples’

      Refusant l’affrontement qu’imposent la droite et l’extrême droite sur les réunions non mixtes, le président (PS) du conseil départemental de Seine-Saint-Denis appelle, dans une tribune au « Monde », la gauche à s’extraire d’une polémique stérile et dangereuse pour lutter véritablement contre les discriminations qui fracturent la société.

      La polémique est repartie, le brouhaha médiatique ne retombe pas. Après les outrances et les manipulations de la droite et de l’extrême droite, c’est maintenant au Sénat de surenchérir en adoptant un amendement à l’exposé des motifs caricatural au projet de loi dit « contre les #séparatismes » [celui-ci permettrait de dissoudre les associations qui organisent des réunions non mixtes racisées]. A en croire certains, sommant tous les autres de choisir leur camp, la République pourrait bien vaciller.

      Au fond, de quoi s’agit-il ? Des personnes se rassemblent pour échanger sur leurs expériences sociales douloureuses, les #discriminations vécues à partir d’un critère physique, d’une #orientation personnelle... Caractéristiques qui leur sont régulièrement renvoyées en pleine face comme une insulte : #sexisme, #racisme, #homophobie, etc. Il s’agit de paroles de victimes de racisme, de discrimination, d’inégalités. Il faut les prendre comme telles et, bien évidemment, je refuse que cela enferme les personnes concernées dans une « #victimisation » et que cela devienne une #parole_politique autrement que par son intégration unifiée contre toutes les formes de discrimination.

      Mais peu importe pour celles et ceux (Jean-Michel Blanquer, des députés et sénateurs LR, l’extrême droite...) qui ont lancé, puis alimenté la polémique. Toutes celles et tous ceux qui expriment, même avec nuance ou avec des réserves, une quelconque approbation de ces démarches, de ces expérimentations militantes, souvent transitoires, consistant à permettre de libérer la parole, sont accusés de « #dérive_séparatiste », « racialisante ».

      Artifices antiracistes

      Les gros mots sont de sortie. Les voilà lancés, jetés à une foule de commentateurs qui les voient comme un affront fait à une République censée être aveugle à la #couleur_de_peau, à la religion réelle ou supposée, au sexe... L’affrontement est en place, les camps bien délimités, chacun est sommé de choisir le sien et de laisser les nuances au vestiaire : les #racialistes d’une part, les #universalistes de l’autre. « Il faut choisir son camp, crient les repus de la haine », écrivait Albert Camus, dans son Pour une trêve civile, en 1956, en pleine guerre d’Algérie, condamnant à égalité les massacres de civils du FLN et les massacres répressifs de l’armée française.

      Cela semble ne poser de problème à personne que cette #polémique permette, à un an de la présidentielle, à la chef de l’extrême droite de se parer d’artifices antiracistes et de tenter de cohabiter, avec d’autres, dans le camp universaliste. Ici se situerait donc le débat politique de notre temps, la nouvelle #fracture : je m’y refuse. Je m’y refuse, parce que, si nous en sommes là, c’est que la gauche est tombée dans le piège tendu par la droite la plus réactionnaire et l’extrême droite qui, désormais, fixent les termes du débat et l’agenda politiques de notre pays.

      Je m’y refuse parce que, justement, la bonne question, celle qui devrait animer unanimement une gauche solidaire, droite dans ses bottes, fière de ses valeurs, cette question-là, la gauche française n’a pas su, ou pas suffisamment su, quelle réponse y apporter. Pourquoi, en France, les dispositifs républicains de lutte concrète contre les discriminations et les inégalités qui fracturent notre société piétinent ou ne s’imposent qu’au forceps (#loi_SRU [Solidarité et renouvellement urbain], #testing, #CV_anonyme, récépissé de contrôle d’identité, #droit_de_vote des étrangers aux élections locales, conventions ZEP-Sciences Po, mariage pour tous, droits des femmes...) ? Celles et ceux qui, à droite et à l’extrême droite, hurlent avec les loups ont combattu chacune de ces avancées.

      Pourtant, il n’y a qu’à se baisser pour constater le chemin qu’il reste à parcourir dans la lutte contre les #inégalités_femmes-hommes, le racisme, l’homophobie ou le #passé_colonial et ses conséquences pour les descendants des ex-pays colonisés.

      Il faudrait interdire les organisations qui reprendraient à leur compte des solutions avancées par la gauche libérale américaine, fondée sur le multiculturalisme et la valorisation des identités plurielles ? Ou bien faut-il se demander pourquoi n’opposer qu’un discours « il faut réduisons les inégalités socio-économiques pour que tout le monde ait sa chance » - ou qu’un slogan « la République, rien que la République » ? qui sonne de plus en plus creux aux oreilles de celles et ceux qui restent au bord du chemin, alors que les inégalités sociales et territoriales explosent dans notre société.

      L’#égalité_réelle

      Voilà mon explication. Oui, sans aucun doute, la République a un problème avec le #corps des individus, elle ne sait que faire de ces #différences_physiques, de ces #couleurs multiples, de ces orientations diverses, parce qu’elle a affirmé que pour traiter chacun et chacune également, elle devait être #aveugle.

      Mais, sans aucun doute également, d’autres dans la République ont détourné cette promesse d’une #égalité_républicaine, politique et donc sociale, pour exclure. Exclure les #femmes d’abord, les #pauvres ensuite, les #ouvriers, ces « classes laborieuses donc classes dangereuses », puis les #étrangers, la « #racaille » et ses « #sauvageons », venus d’ailleurs, emmenant leurs religions, leurs mémoires et leurs histoires. Et la gauche ne verrait pas cela. Elle passerait à côté de ce détournement, voire y inscrirait ses pas, au lieu de saisir le problème à bras-le-corps.

      Au lieu d’affirmer que dans ce pays, où a été défendue la République, puis la République sociale, il faut maintenant défendre la #République_citoyenne_et_universelle, la #République_métissée, la #République_de_l'égalité_réelle, en tentant de comprendre son passé, ses erreurs et ses oublis, pour regarder ensemble, tous et toutes ensemble, plus sereinement son avenir.

      Note(s) :

      Stéphane Troussel est président du conseil départemental de la Seine-Saint-Denis.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/04/07/stephane-troussel-la-republique-a-un-probleme-avec-le-corps-des-individus-el

      #non-mixité

    • En 2004, dans Vivre Ensemble, on parlait déjà de ORS...
      Abri PC du #Jaun Pass :

      La logique de la dissuasion

      Le régime d’aide d’urgence imposé aux personnes frappées de non-entrée en matière (NEM) vise à déshumaniser l’individu. Tout est fait pour leur rendre le séjour invivable et les pousser à disparaître dans la clandestinité, comme le montrent les exemples ci-dessous relevés en Suisse allemande, où les personnes frappées de NEM et les requérants déboutés de la procédure d’asile sont placés dans des « centres d’urgence » ou « centres minimaux » (Minimalzentren). Petit tour des lieux dans les cantons de Berne et Soleure.

      Le canton de Berne, pionnier en la matière, avait déjà concrétisé le principe d’assignation à un territoire (art. 13e LSEE) bien avant l’entrée en vigueur de la loi au 1er janvier 2007, en ouvrant deux centres d’urgence, l’un sur le col du Jaun en juin 2004 et l’autre qui lui a succédé en 2005, sur l’alpage du Stafelalp : « Si notre choix s’est porté sur le Col du Jaun », expliquait la Cheffe de l’Office de la population lors d’une conférence de presse le 7 juin 2004, c’est notamment parce que cette solution « (…) n’incite pas à s’attarder en Suisse. » Et que : « D’autres personnes vont l’utiliser également. Il s’agit de personnes qui ont activement empêché leur renvoi ou qui dissimulent leur identité et qui n’ont pas encore fait l’objet d’une décision de refus d’entrer en matière… ».

      L’abri PC du Jaun

      Un des journalistes présents le décrit ainsi dans le Journal du Jura du 8 juin 2004 :

      « A l’extérieur, des grillages ont été installés afin que le lieu soit un peu isolé, et pour protéger les requérants d’éventuels importuns. (…) Les gens sont répartis dans des chambres de quatre à douze personnes (…) les requérants ne touchent pas d’argent liquide, mais des prestations en nature. Ce sont des bons qu’ils peuvent échanger contre de la marchandise au kiosque tenu par l’ORS (Organisation pour mandats spéciaux et en régie SA) qui gère le centre (…) ».

      Très peu de requérants s’y rendirent ; d’autres s’enfuirent, telle une mère avec une petite fille de deux ans qui vint chercher de l’aide à… Soleure ! Une jeune femme fut hospitalisée, suite à une grève de la faim.

      Sur l’alpage

      A l’abri de protection civile du col du Jaun fermé en novembre 2004, succéda le centre d’urgence du Stafelalp. En 2005, les NEM et d’autres personnes désignées comme des « NIKOS », abréviation de « Nichtkooperativ », ont été logés dans une ancienne colonie de vacances isolée, située sur l’alpage de Stafelalp. Dans ce centre, comme auparavant dans celui du Jaun, les requérants ont été cantonnés dans un périmètre de 2 km autour du centre, avec interdiction formelle de franchir ces « frontières ». Le centre de Stafelalp plus fréquenté que celui du Jaun était considéré comme « trop attractif » pour les autorités, et la durée moyenne de séjour des NEM (52 jours) trop longue. Il fallait trouver autre chose.

      En janvier 2006, le centre fut fermé et les NEM ont été réintégrés dans un centre de transit. Ils ne touchent pas d’argent mais ont droit à trois repas par jour. Ils s’y déplacent plus librement, du moins à pied. Mais le fait qu’ils ne disposent d’aucun pécule pour payer les transports publics restreint leur liberté de mouvement aux alentours et dans la commune de Lyss où est situé le centre.

      Soleure ne fait pas mieux

      Depuis mai 2006 (auparavant ils bénéficiaient d’aide en espèce et aucun hébergement n’avait été mis à leur disposition), les « NEM » soleurois sont logés dans le centre d’accueil pour requérants d’asile situé sur la montagne du Balmberg, mais ils n’y sont pas nourris. Ils y touchent 8 fr. par jour pour leur entretien, versés sur place tous les jeudis par le responsable du centre. Le contrôle de présence est journalier et ceux qui s’absentent perdent leur pécule pour les jours d’absence, voire leur droit à l’hébergement en cas de récidive. Les occupants n’ont pas le droit d’y accueillir des amis pour la nuit. Le visiteur externe doit demander une autorisation au responsable (qui lui est parfois refusée sous divers prétexte) pour y entrer.

      Là-haut sur la montagne !

      Le lieu est isolé. On y trouve trois téléskis et un restaurant, mais aucun magasin, si bien que les requérants frappés de NEM sont obligés d’utiliser l’autobus circulant de Soleure au Balmberg (prix du billet aller et retour : 11 fr.!) pour faire leurs achats et se procurer le nécessaire. Si les requérants d’asile encore en procédure, également logés dans ce centre, bénéficient de tickets de bus gratuits, ce n’est pas le cas des personnes frappées d’une NEM. Ils n’ont le droit de consulter un médecin qu’en cas d’urgence et c’est un des responsables du centre, sans formation médicale, qui prend la décision. Depuis quelques mois, les NEM doivent débourser quelques centimes pour des comprimés : antidouleurs, aspirine etc. (obtenus gratuitement auparavant) distribués sur place par le préposé à la pharmacie.

      Une stratégie efficace

      Le régime drastique, l’isolement et le nombre de descentes de police qui les terrorisent fait qu’au bout de quelques semaines, les NEM soleurois « disparaissent » dans la clandestinité. La méthode, il faut le reconnaître, est efficace et la stratégie de découragement sur laquelle l’Office des réfugiés (actuellement l’Office fédéral des migrations) avait misé dans un rapport de mars 2000 pour se débarrasser des indésirables, a l’air de se réaliser. Les six NEM qui sont encore au Balmberg ne pèsent pas lourd, en regard des centaines de ces « disparus volontaires », soumis dans les centres d’urgence « à une pression psychique insupportable » au point qu’ils ont préféré la clandestinité. Beau résultat pour un pays qui se vante d’être un Etat de droit.

      https://asile.ch/2007/02/05/suisse-allemandecentres-d%e2%80%99urgence-pour-nemla-logique-de-la-dissuasion

    • RTS | Des voix s’élèvent contre la prise en charge des migrants par des entreprises privées

      Amnesty International dénonce la situation dans le centre de migrants de Traiskirchen en #Autriche. L’organisation pointe du doigt la surpopulation et les conditions d’hygiène déplorables qui y règnent. Or ce centre est géré par la filiale autrichienne de l’entreprise privée zurichoise ORS. Une nouvelle qui relance le débat sur l’encadrement des requérants par des privés.

      https://seenthis.net/messages/402089

    • The Corporate Greed of Strangers
      –-> ORS Service AG in Austria and Switzerland

      Other international players like the Swiss company ORS Service AG are also expanding into Germany. ORS in 2015 had five reception centres in Munich.

      ORS Service is based in Zurich in Switzerland and was set up as a private company to work with the Swiss federal government from 1991 to house asylum seekers. For twenty years, through to 2011, although the contract should have been retendered every five years the Swiss government did not put the contract out to tender.

      In 2011 ORS Service outbid European Homecare for the federal contract in Austria for reception centres under the responsibility of the ministry of interior. By the end of 2014, they were providing twelve reception centres including tent camps in Salzburg and Linz and being paid around 22 million euros by the federal government. ORS runs Austria’s main initial reception centre in the town of Traiskirchen, near Vienna, which was designed for around 1700 refugees. By the summer of 2015 over 3,000 refugees were living there, Amnesty International called the ORS camp ‘shameful’, with 1,500 people forced to sleep outside on lawns and nearby roads.

      On its home territory ORS Service works in partnership with the Swiss Securitas private security company in delivering a very controversial reception and accommodation policy which has included remote locations and housing asylum seekers underground in wartime military bunkers. Reception and detention policies have been influenced by Swiss politics which over the past few years have been dominated by the anti-immigrant Swiss People’s Party (UDC) which has become the largest party at the federal level. Currently refugees arriving in Switzerland have to turn over to the state any assets worth more than 1,000 Swiss francs (£690) to help pay for their upkeep, a practice that has drawn sharp rebukes for Denmark.

      https://seenthis.net/messages/465487

    • Quand l’accueil des personnes en exil devient un bizness

      A l’origine, il s’agit d’une agence d’intérim lausannoise créée en 1977 nommée ORS Services SA. En 1992, la société devient ORS Service AG et déménage à Zurich. En 2005, le fondateur de l’entreprise la revend à #Argos_Soditic qui la revend à #Invision en 2009, qui finalement la revend à #Equistone en 2013. Equistone Partners Europe est un fond d’investissement international avec des antennes dans 4 pays européens. ORS déclare un chiffre d’affaires de 65 millions de francs suisses pour 2014, essentiellement en provenance de fonds publics. Selon plusieurs médias, celui-ci atteint 85 millions en 2015 mais son bénéfice n’a jamais été divulgué. Alors quand Claude Gumy, directeur opérationnel à Fribourg dit dans le journal Le Temps « Notre but n’est pas de gagner de l’argent pour le compte d’investisseurs. Nous nous occupons avant tout d’êtres humains », de qui se moque-t-il ? Pour faire des économies l’État suisse délègue la gestion de « l’accueil » a des investisseurs qui après avoir spéculé sur les marchandises et dépouillé les pays pauvres spéculent sur les flux migratoires qu’ils ont ainsi engendrés. Leur entreprise est d’ailleurs réputée pour sa collaboration inconditionnelle avec les services étatique et la police dont les pratiques répressives ne font aucun doute.

      https://seenthis.net/messages/573420

    • Gestion de l’asile | ORS Fribourg : Quand l’État fait la sourde oreille. Business is Business ?

      Pour faire la lumière sur les agissements d’ORS, le mouvement solidaritéS et le collectif Droit de rester ont rédigé un rapport d’une trentaine de pages. Il recense les témoignages de quelques dizaines de personnes : usagèr.e.s d’ORS, bénévoles et travailleurs/euse sociaux/ales. Le groupe s’est confronté à la réticence de certain.e.s témoins potentiels. ORS interdit à ses employé.e.s de parler de l’entreprise à des personnes externes, sous peine de sanctions, même après la fin du contrat.

      https://seenthis.net/messages/786789
      #rapport

    • ODAE-romand | L’envers du décor dans les centres fédéraux

      Une demandeuse d’asile a passé près de six mois dans les CFA de #Zurich, #Boudry et de #Giffers. Dans le bulletin d’Augenauf de novembre 2020, elle raconte les #conditions_de_vie, les #brimades, #vexations et #violences quotidiennes qu’elle y a vécues. L’ODAE romand en publie quelques extraits.

      https://seenthis.net/messages/893672

      Texte original publié par Augenauf (en allemand) :
      https://www.augenauf.ch/images/BulletinProv/Bulletin_106_Nov2020.pdf

    • Lettre ouverte au SEM - Droits humains gravement violés au Centre Fédéral d’Asile de #Boudry : peut-on encore parler d’un centre “d’asile” ?

      Chères et chers journalistes et sympathisant·es,

      Vous trouverez ci-dessous une lettre ouverte que nous avons adressée ce jour au Secrétariat d’Etat aux Migrations, à travers Messieurs Mario Gattiker, Secrétaire d’Etat, et Pierre-Alain Ruffieux, responsable asile pour la Suisse romande. Elle a également été envoyée à Monsieur Jean-Nathanaël Karakash, conseiller d’Etat neuchâtelois en charge du Département de l’Economie et de l’Action Sociale.
      Droits humains gravement violés au Centre Fédéral d’Asile de Boudry : peut-on encore parler d’un centre “d’asile” ?

      –---

      Nous dénonçons depuis longtemps des situations inhumaines au Centre Fédéral d’Asile (CFA) de Boudry (NE)[1], mais les cas de réfugié·es subissant de #mauvais_traitements - le mot est faible - s’accroît de façon préoccupante. Ce qui se passe depuis plusieurs mois maintenant est intolérable et ne peut rester sans réaction de notre part.

      Selon nos informations et observations, nous ne sommes pas face à des cas isolés, mais devant un véritable #système_punitif, qui va au-delà de tout ce qu’on peut imaginer. #Abus_de_pouvoir de certain·es agent·es de sécurité de l’entreprise #Protectas, #mépris et #comportements_racistes qui créent un climat de #peur et poussent à bout certain·es habitant·es du Centre. Visites impromptues du personnel de sécurité dans les chambres, sans frapper, ni dire bonjour, gestion catastrophique des #conflits, sans souci de calmer le jeu, ni d’écouter. "Ils ne savent pas parler, ils répriment”, raconte un habitant du Centre. Des requérant·es jugé·es arbitrairement et hâtivement comme récalcitrant·es sont enfermé·es pendant des heures dans des containers insalubres et sous-chauffés. Plusieurs témoignages attestent d’une salle sans aucun mobilier, avec des taches de sang et des odeurs de vomi et d’urine. Beaucoup en ressortent traumatisés. Une personne s’est récemment retrouvée en état d’#hypothermie [2].

      Les témoignages vont tous dans le même sens : peur de porter #plainte par #crainte des conséquences pour sa procédure d’asile ou par crainte de recroiser les mêmes agent·es de sécurité. Mais les faits sont là : utilisation abusive du #spray_au_poivre, #plaquages_au_sol, #insultes_homophobes, #harcèlement envers des personnes vulnérables et #hospitalisations suite à l’#enfermement dans des cellules. Plusieurs #tentatives_de_suicide sont attestées et il y a eu #mort d’homme : le 23 décembre, un requérant d’asile est décédé aux abords du Centre de Boudry. Il s’agissait d’une personne vulnérable, suivie en psychiatrie et qui avait déjà tenté de se suicider. Alors que cette personne avait besoin d’aide, à plusieurs reprises, le personnel de sécurité de Protectas lui a refusé l’accès au Centre, du fait de son état d’ivresse.

      A Boudry, la #violence est banalisée. Au lieu d’apaiser les conflits, les agent·es de Protectas les attisent. Des membres du personnel de sécurité abusent de leur pouvoir en faisant régner leurs propres lois. Ainsi, alors que les #cellules_d’isolement ne sont prévues que pour protéger les requérant·es d’asile et le personnel du CFA de personnes ayant un comportement violent et pour une durée n’excédant pas deux heures[3], on constate que la réalité est tout autre. Le moindre dérangement est réprimé par un #enfermement_abusif et qui dépasse souvent le temps réglementaire, allant jusqu’à un #isolement d’une nuit entière. Nous avons eu connaissance d’un mineur qui a été enfermé alors que le règlement l’interdit. De telles #privations_de_liberté sont illégales. Pour échapper à ces mauvais traitements, beaucoup quittent la procédure d’asile en cours de route.

      Les droits humains sont violés dans les CFA, en toute impunité, dans un #silence de plomb que nous voulons briser. Ce qui se passe à Boudry se passe aussi ailleurs[4] et c’est la conséquence d’une logique de camps. C’est tout un système que nous dénonçons et non pas des dysfonctionnements ponctuels.

      ***

      Face à cette gestion désastreuse et les drames humains qu’elle entraîne, nous demandons qu’une enquête indépendante soit ouverte établissant les faits en toute objectivité. En accord avec les personnes qui ont pris contact avec Droit de Rester, nous sommes prêt·es à témoigner.

      Nous demandons que des mesures concrètes soient prises pour mettre fin à ce système défaillant, qui transforme les CFA en prisons. Il n’est pas normal que le budget alloué à l’encadrement sécuritaire par le SEM soit plus important que celui consacré à l’encadrement social et sanitaire dans les CFA. Il est nécessaire de renverser la vapeur en engageant des professionnel·les du travail social et de la santé en nombre suffisant et ayant pour mission de soutenir, d’écouter, de soigner et de répondre aux besoins spécifiques des requérant·es d’asile. Ceci dans l’optique de créer un climat de bienveillance, réparateur des traumatismes vécus sur la route de l’exil par les personnes dont ils-elles ont la charge. Actuellement, les agent·es de sécurité ont des prérogatives immenses qui ne devraient absolument pas leur être confiées en raison d’un manque de formation flagrant.

      Nous demandons la suppression immédiate de ces cellules-containers et la refonte complète du régime de sanctions.

      Nous exigeons la fin de la privatisation du domaine de l’asile ; l’arrêt de toute collaboration avec des entreprises de sécurité ou d’encadrement privées de surcroit cotées en bourse (telles que Protectas, Securitas ou ORS) dans le cadre des CFA et autres lieux d’hébergement. L’asile n’est pas un business. L’argent attribué à ces tâches par l’Etat doit revenir à des structures sociales et de soins publiques.

      Nous exigeons transparence et respect du droit suisse et international. Actuellement les CFA sont des boîtes noires : les règlements internes sont inaccessibles, les requérant·es d’asile n’obtiennent pas les rapports des sanctions prononcées à leur encontre, rapports rédigés par Protectas dont le contenu varie à leur guise afin de justifier les sanctions aux yeux du SEM. Toute sanction devrait être prononcée par du personnel cadre du SEM.

      Nous demandons l’introduction d’un organe de médiation indépendant de gestion des plaintes vers qui les requérant·es d’asile lésé·es pourraient se tourner. Finalement, il est nécessaire d’ouvrir les portes des CFA aux organisations et personnes de la société civile – comme c’est notamment le cas en Hollande, pays dont la Suisse s’est inspirée pour mettre en œuvre le système actuel – afin de rompre l’isolement et de cesser avec ces zones de non-droit.

      Nous demandons aussi la fermeture du Centre spécifique des Verrières, restreignant la liberté de mouvement de ses occupants de par son emplacement-même et conçu comme un centre punitif. C’est de soutien psychologique et de soins dont les requérant·es d’asile, y compris celles et ceux qui sont jugés récalcitrant·es, ont besoin à leur arrivée. L’équité des soins par rapport à ceux offerts à la population résidente doit être effective. Ce sont l’isolement, l’exclusion, la promiscuité et l’armada d’interdits qui accentuent les traumatismes, les addictions, le stress et les tensions. Stop à la logique de camp !

      C’est une alerte que nous lançons. Nous espérons qu’elle sera entendue et attendons qu’elle soit suivie d’effets dans les meilleurs délais.

      Contact médias :
      Denise Graf, 076 523 59 36
      Louise Wehrli, 076 616 10 85
      Caterina Cascio, 077 928 81 82

      [1] Voir par exemple ici : https://rester.ch/wp-content/uploads/2020/05/2020.05.28_Communiqu%C3%A9_de_presse_camp_nous_d%C3%A9non%C3%A7ons-1.pdf ou là : https://www.canalalpha.ch/play/minimag/episode/3819/risque-de-suicide-quel-soutien-psy-pour-les-migrants-a-boudry

      [2] Le 17 février, la radio RTN révèle un cas d’hypothermie survenue au centre de Boudry 2 jours plus tôt : https://www.rtn.ch/rtn/Actualite/Region/20210215-Etat-d-hypothermie-au-Centre-de-Perreux.html

      [3] Voir à ce sujet les p. 51-52 du Plan d’exploitation Hébergement : https://www.plattform-ziab.ch/wp-content/uploads/2020/10/SEM_PLEX_2020.pdf

      [4] A ce sujet, sur les violences au Centre de Giffers : https://asile.ch/2020/06/23/le-courrier-violences-a-chevrilles, sur celles au centre de Bâle : https://3rgg.ch/securitas-gewalt-im-lager-basel , témoignages récoltés par Migrant Solidarity Network (1 et 2), ici le rapport de la Commission Nationale de Prévention de la Torture : https://asile.ch/wp-content/uploads/2021/01/CNPT_CFA_DEC_2020-fr-1.pdf et là le communiqué de humanrights.ch : https://www.humanrights.ch/fr/qui-sommes-nous/commentaire-violences-cfa

      Lettre reçu via la mailing-list Droit de rester, le 12.03.2021

    • Les conséquences de l’asile au rabais

      Le Secrétariat d’Etat aux migrations (SEM) est enfin sorti de son mutisme. Mercredi, sous pression, après d’énième révélations sur des cas de mauvais traitements dans les centres d’asile, il a annoncé qu’il mandatait une enquête indépendante concernant plusieurs cas de recours excessif à la force.

      C’est une avancée car, jusqu’ici, l’institution n’avait jamais reconnu de dysfonctionnements. Alors que quatre plaintes avaient été déposées contre la société de sécurité #Protectas en juin dernier par des demandeurs d’asile blessés au centre de #Chevrilles, il n’avait pas bronché, déléguant d’éventuelles sanctions à la société privée. Plus d’un an après, justice n’a toujours pas été rendue. Certains plaignants ont été expulsés…

      Le SEM affirme avoir aussi suspendu 14 membres du personnel de sécurité impliqués dans différentes affaires, notamment pour un recours abusif à des « #salles_de_réflexion », que certain·es nomment « salles de torture ». Berne a été sommé de réagir suite à un enregistrement clandestin qui prouve que les agent·es n’hésitent pas à falsifier des rapports dans le but de justifier le recours à la violence. Le SEM a annoncé qu’il allait réexaminer les modalités de recrutement du personnel de sécurité et leur formation.

      C’est un premier pas, mais insuffisant. Quatorze suspensions pour combien d’incidents impunis ? « J’ai vu des gens se faire tabasser sous mes yeux… la plupart ne portent jamais plainte. Si tu te plains, tu peux être sûr que les sévices doubleront », nous confiait hier un homme qui a résidé au centre de #Boudry et de Chevrilles.

      Les associations actives dans le domaine de la migration dénoncent depuis des années le processus de #privatisation de l’asile. La Confédération recoure à des sociétés privées pour assurer la sécurité et l’encadrement dans ses centres. Or, ces entreprises ont pour objectif de faire du profit. Il n’est pas étonnant qu’elles lésinent sur les moyens. Recrutements à la va-vite, formations inexistantes et contrats précaires engendrent des situations explosives où le personnel est démuni face à une population au parcours extrêmement difficile.

      La Suisse doit faire mieux, elle en a les moyens. Alors que des personnes cherchent ici protection, elles rencontrent violence et mépris. Il est inacceptable que nos impôts continuent à financer un système arbitraire perpétuant une terreur que les personnes migrantes ont fuit au péril de leur vie.

      https://lecourrier.ch/2021/05/06/les-consequences-de-lasile-au-rabais

    • Documentation | Violences dans les centres fédéraux d’asile

      Depuis plusieurs mois en Suisse des cas de violences perpétrées dans et autour des centres fédéraux d’asile (CFA) ont été dénoncés. Sans changements significatifs opérés, d’autres sont à craindre. Pour que les personnes réfugiées ne soient pas à nouveau des victimes isolées, il est important d’apporter un regard externe sur ce qui se passe au sein des CFA. Ces questions touchent à la cohésion sociale. Le 5 mai 2021, les résultats d’une enquête de médias associés ont été présentés au public (https://www.rts.ch/info/suisse/12175381-bavures-et-rapports-trafiques-la-securite-derape-dans-les-centres-feder), révélant à nouveau des exactions commises par les employé.es des sociétés de sécurité envers des résident.es. Le Secrétariat d’État à la migration (SEM) a réagit par voie de presse (https://www.sem.admin.ch/sem/fr/home/sem/medien/mm.msg-id-83389.html) en annonçant l’amorce d’une enquête indépendante. Les médias et la société civile jouent un rôle essentiel pour faire la lumière sur des questions de sécurité publique et de respect des droits humains.

      Le 5 mai dernier les résultats d’une enquête de la RTS (https://www.rts.ch/info/suisse/12175381-bavures-et-rapports-trafiques-la-securite-derape-dans-les-centres-feder), SRF et la WOZ a été rendue publique. En s’appuyant sur des enregistrements et témoignages, elle documente plusieurs exactions commises par les personnes en charge de la sécurité dans différents centres fédéraux d’asile. “Des rapports sont parfois truqués par les agents de sécurité pour se couvrir. En réaction à ces révélations, le Secrétariat d’État aux migrations a fait suspendre 14 de ces employés de sociétés privées et lance une enquête externe” (RTS). Le téléjournal de midi, de 19h30 et l’émission Forum en ont parlé. Le matin même, le SEM a publié un communiqué annonçant avoir été informé du recours à des “mesures coercitives disproportionnées” de la part d’agent.es de sécurité. Demandé depuis plusieurs années par la société civile, il annonce avoir chargé l’ancien juge Niklaus Oberholzer d’une enquête indépendante et vouloir réfléchir au recrutement et à la formation de ces personnes . Le quotidien Le Courrier (https://lecourrier.ch/2021/05/05/quatorze-agent%c2%b7es-de-securite-suspendu%c2%b7es) est allé à la rencontre du collectif Droit des rester Neuchâtel qui doute de ces dernières mesures : « Nous demandons que ce soit des entités publiques à but non lucratif qui gèrent l’encadrement. Celles-ci doivent engager des professionnel·les de la médiation, du travail social, de l’interculturalité et de la santé. »

      Avant cela, le 28 avril 2021 le Secrétariat d’État à la migration (SEM) avait publié un communiqué (https://www.sem.admin.ch/sem/fr/home/sem/medien/mm.msg-id-83251.html) déplorant l’augmentation des menaces envers les centres d’asile fédéraux (CFA). Il y est fait état de déprédations faites aux bâtiments, mais également de menaces et de mises en danger d’employé.es du SEM. Dans le viseur, des « groupes de gauche radicale » qui feraient appel via leur site à des actes de vandalisme, ou même appel à la violence envers des employé⸱es. Les associations de défense du droit d’asile ont condamné de tels procédés. La Plateforme Société civile dans les centres fédéraux s’est positionnée (https://mailchi.mp/d2895a50615c/neuigkeiten-baz-nouveauts-cfa) en rejetant toute forme de violence. Le collectif bâlois 3RGG -auteur d’un rapport répertoriant les actes violents envers les personnes requérantes d’asile au sein du centre fédéral d’asile du canton de Bâle (BässlerGut) – se distancie également de ces méthodes (https://asile.ch/2021/04/30/3rgg-communique-violences-dans-les-camps-federaux-dasile) qui ne sont pas les leurs. Ses auteurs regrettent que leurs appels à se mobiliser contre les violences impunies du personnel de sécurité envers des résident⸱es isolé⸱es n’ait connu que peu d’échos dans les médias et dans la vie des centres en conséquent.
      Jusqu’ici ce sont d’autres types de dénonciations de violence en lien avec les CFA qui ont été exprimées. En 2021, au CFA de Boudry (NE) c’est un cas d’hypothermie (https://lecourrier.ch/2021/02/17/hypothermies-au-centre-dasile) pour une personne placée en « cellule de dégrisement » qui a servit de révélateur à ce que Droit de rester Neuchâtel décrit comme un « réel système punitif ». En 2020, dans le centre de renvoi de Giffers, quatre #plaintes (https://asile.ch/2020/09/22/solidarite-tattes-giffers-visite-aux-requerants-qui-ont-denonce-des-violences) ont été déposées contre la société de sécurité Protectas pour des exactions envers des résident.es. A BässlerGut, le travail d’enquête (https://asile.ch/2020/07/30/enquete-violences-au-centre-federal-de-bale-quand-le-systeme-deraille) poussé qu’avait publié le collectif 3 RGG faisait état de violences graves perpétrées par des personnes en charge de la sécurité envers les personnes résidentes, avec des processus de dénonciation inefficient à l’interne. La commission nationale de prévention de la torture (CNPT) après une visite au sein de plusieurs CFA en janvier 2021 suggérait elle aussi des améliorations (https://asile.ch/2021/01/20/cnpt-rapport-dobservation-des-centres-federaux-dasile-la-violence-pointee-du-d) concernant la gestion des conflits, la prévention de la violence et la gestion des plaintes. Une des réponses offerte par le SEM est celle de la réouverture du centre spécifique des Verrières pour accueillir les personnes qui « représentent une menace pour elles-mêmes ou pour autrui ». L’OSAR s’inquiète (https://www.osar.ch/communique-de-presse/centre-des-verrieres-les-requerants-dasile-doivent-beneficier-dune-representati) de cette mise à l’écart pour des personnes généralement fragilisées. Selon l’organisation, il vaudrait bien mieux miser sur la prévention de la violence et renforcer l’encadrement.

      Liées à des conditions structurelles, ces dénonciations de part et d’autres ne s’arrêteront probablement pas là. Dans ce jeu du chat et de la souris, les médias et la société civile jouent un rôle important pour faire la lumière sur des dynamiques en présence. L’éditorial du dernier numéro de la revue Vivre Ensemble le rappelait : ” […] les centres fédéraux réunissent les deux ingrédients de la violence institutionnelle : fermés d’accès au regard public, ils donnent au personnel un pouvoir énorme sur une catégorie de personnes. Or, les véritables garde-fous à l’impunité et à l’arbitraire se situent du côté de la transparence. Et la société civile est bien là, du côté des victimes, et ne manque pas de le lui rappeler. “

      https://asile.ch/2021/05/07/documentation-violences-dans-les-centres-federaux-dasile

    • Centres fédéraux | À l’écoute des victimes

      Le #déni des autorités intenable face à la médiatisation des violences

      Le mois de mai aura vu la question des violences dans les CFA tenir une belle place dans l’actualité. D’abord avec les enquêtes de la RTS, de la SRF et de la Wochenzeitung, puis avec le rapport d’Amnesty International qui relate des cas de maltraitances à l’égard de requérant·es d’asile qui pourraient s’assimiler à de la torture [1]. Des témoignages de victimes, mais également d’ancien·es employé·es des centres ont été recueillis et des enregistrements, effectués à l’insu du personnel de sécurité, ont permis d’établir que leurs rapports de sanction à destination du SEM sont truqués.

      Ces enregistrements proviennent du téléphone d’une femme enfermée dans un container-cellule. Le mobile lui avait été confisqué par le personnel de sécurité et a capté deux heures de leurs conversations. Cela se passe donc dans la loge des agent·es de sécurité de Protectas, il y a quelques mois au CFA de Boudry dans le canton de Neuchâtel. On y entend les agent·es discuter du contenu du rapport qu’ils doivent faire parvenir au SEM pour justifier leur mise en cellule. Une agente qui n’a pas assisté aux événements est chargée de le taper. Les cellules, ce sont donc ces containers sans aucuns meubles, dotés seulement d’une petite fenêtre, à l’odeur de vomi, d’urine et tâchés de sang au sol. Les requérant·es d’asile y sont enfermé·es, parfois pendant deux heures, parfois plus. Une caméra permet de les filmer.

      Ces pratiques, éminemment choquantes ne sont pas étonnantes. Elles sont davantage la conséquence d’un système, plutôt que le fait d’individus. Car les événements qui ont eu lieu dans différents CFA, à différentes dates, se ressemblent de façon troublante. À l’origine de ces actes de violence, il y a le plus souvent des événements que l’on pourrait qualifier d’incidents. Un téléphone volé, un masque sous le nez ou une perte de patience dans la longue file d’attente pour le repas. Et plutôt que d’apaiser les conflits de façon non violente et bienveillante, le personnel de sécurité les amplifie en usant de sa force physique et verbale, de ses gros bras et de son uniforme imposant. À cela s’ajoutent des mesures radicales comme ces mises en cellule appliquées de façon arbitraire et non conforme au règlement du SEM. Comme on l’a entendu, il suffit d’enjoliver le rapport pour le SEM pour maquiller ces imperfections. Le SEM doit d’ailleurs en être conscient, mais en déléguant ces tâches à des prestataires privés, il peut allégrement fermer les yeux. La responsabilité est dissoute dans la chaîne hiérarchique. Alors que légalement le SEM est pleinement responsable.

      Les dénonciations de nombreux collectifs dans différents CFA depuis plus d’une année et à de nombreuses reprises ont longtemps été traitées avec mépris par le SEM, qui a toujours nié ou prétendu avoir pris des mesures. Il aura fallu ces preuves irréfutables et un dégât d’image important pour le faire plier, un tout petit peu.

      Il a annoncé la suspension de 14 agent·es de sécurité, un audit interne, une enquête externe à Boudry par un ancien juge fédéral, la suppression des containers et une réflexion sur la mise en place d’un bureau externe chargé de recueillir les plaintes des requérant·es d’asile. On peut se réjouir de ce dernier point. Mais reste encore à voir quelle sera la mise en œuvre concrète. Pour le reste, ne nous méprenons pas. Il ne s’agit pas là d’une révolution, mais bien d’une communication bien rôdée.

      Car évidemment il ne suffira pas que les containers insalubres soient remplacés par de jolies salles de « réflexion » aux couleurs apaisantes. Parce que sales ou propres, cela restera des cellules. Il n’est pas suffisant non plus que les agent·es de sécurité impliqué·es dans les quelques affaires récemment médiatisées soient remplacé·es par d’autres. Tant que le cadre de travail sera le même, les mêmes violences se reproduiront. Il suffit de lire le rapport d’Amnesty et les témoignages d’anciens agents de sécurité ou d’assistants sociaux pour comprendre combien celles-ci font partie de la culture d’entreprise. On ne peut que redouter qu’un nouveau lieu à haut potentiel de violence systémique sorte de terre à Genève, dans le cadre du projet de construction d’un centre fédéral au Grand-Saconnex (lire ici).

      Tant que les requérant·es d’asile continueront à être considéré·es comme une catégorie de la population à part, rien ne changera. Il faudra continuer de dénoncer ce qui se passe derrière les portes de ces centres. Et d’écouter, sans mettre en doute, la parole des réfugié·es qui se seraient bien passé de subir de nouvelles violences, après avoir fui celles de leur pays et en avoir subi sur la route de leur exil. On peut ici souligner le rôle des médias qui ont, à travers leurs investigations, contribué à amener sur la place publique des pratiques dénoncées depuis de nombreuses années par des organisations de la société civile. Et contraint les autorités d’asile à sortir du bois.

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      INÉDIT | Immersion dans la loge des agent·es de sécurité du CFA de Boudry

      L’enregistreur vocal du smartphone était enclenché. Confisqué par des agent·es de sécurité du Centre fédéral de Boudry, le téléphone d’une requérante d’asile a enregistré par inadvertance durant près de deux heures les conversations qui se sont tenues dans leur loge. Nous publions la retranscription complète et inédite de cette capture audio, anonymisée.

      Discussions entre membres du personnel, interactions avec des requérant·es d’asile : les échanges sont révélateurs d’un climat latent d’irrespect et de violence ordinaire induite par le rapport de force et le choix de confier l’encadrement des résident·es des Centres fédéraux d’asile à des agents de sécurité démunis d’outils de médiation. La gestion uniquement sécuritaire des tensions, inévitables dans des lieux de vie collectifs, l’absence de prise en compte par le personnel d’une réalité évidente, celle que les personnes logées là sont dans une angoisse existentielle liée à leur demande de protection, l’impunité renforcée par des mécanismes visant à tout régler « à l’interne », ressortent de leurs propos. Dans la dernière édition de la revue « Vivre Ensemble », nous avons publié un extrait de cet enregistrement : celui-ci montre comment les agent·es trafiquent un rapport justifiant la mise en cellule d’isolement d’une femme, en accusant celle-ci d’acte de violence. La retranscription complète de l’enregistrement montre que celle-ci était venue solliciter l’aide de la sécurité pour que celle-ci aide un enfant (en pleurs) à récupérer un téléphone portable qu’il s’était fait voler par un homme hébergé au centre, et que face au refus de l’agent, elle avait voulu en référer à la direction du centre. La suite permet de s’immerger dans un huis clos quasi fictionnel.

      https://asile.ch/2021/08/23/centres-federaux-a-lecoute-des-victimes
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      Transcription d’un enregistrement audio réalisé au Centre fédéral d’asile de Perreux (Boudry)

      Date: mercredi 20 janvier 2021, en fin de journée

      Légende

      A : femme requérante d’asile, dont le téléphone a capté cet enregistrement
      AS 1 : agent de sécurité impliqué dans la scène de démarrage du conflit
      AS 2 : agent de sécurité qui vient rapidement en renfort du 1er. Il semble qu’il y ait deux personnes derrière AS 2. Les voix sont difficiles à identifier
      AS 3 : agente de sécurité avec une fonction qui semble supérieur à AS 1 et 2
      AS 4 : agente de sécurité avec une fonction dirigeante, ou en tout cas davantage administrative car elle rédige les rapports
      + autres agent·es non-distingués les un·es des autres
      Le téléphone d’un enfant vient d’être volé dans le centre par un requérant d’asile à qui il l’avait confié. « A » interpelle alors un agent de sécurité pour lui demander d’agir et de retrouver le téléphone. L’agent de sécurité pense que l’enfant est son fils, mais ce n’est pas le cas. A enclenche alors le mode enregistrement sur son téléphone.

      A : You’re the security and you should to take a look
      Agent de sécurité 1 : No, no security for look the child, look your phone there
      A : I’ll complain, I’ll complain about that interacting
      AS 1 : No, what what, the time where you put your phone here, no security must look, it’s your mission.
      A : You’ll not try to search, not at all ?
      AS 1 : No, no, no, that your responsability.
      A : But you’re security
      AS 1 : That your responsability. Look, your children, madame, your children, they go up. The time when something happens to up, you come see security ?
      A : But normally you’re accessing the doors without permission ?
      AS 1 : I ask you, you no see your children you (mot incompréhensible)
      A : I’ll complain about that. What is your name or number of the working ? Because you’re just not searching for this telling stuff but discussing about me
      AS 1 : Yes
      A : You don’t do that. So what is your name because I need to complain.
      AS 1 : For me ?
      A : Yes or number of working.
      AS 1 : My number ?
      A : Yes
      AS 1 : For what ?
      A : For working. Because you’re working here and you have the number. I’ll complain, believe me, you don’t do your work
      AS 1 : No. Madame, I’m telling you something, ok ? I know place you’re coming from, ok ?
      A : Poland
      AS 1 : Ok in Switzer… I don’t know.
      A : We’re complainig pretty much and we’ll complain, not to the SEM, but your boss I’ll complain, Protectas, and to the SEM, to the SEM, to the government and to the everyone.
      AS 1 : If you don’t take your responsability… (en s’adressant à un autre requérant d’asile) Brother, brother, come in please. Tell this woman, ok, « if you come here… »
      A : (également à l’autre requérant d’asile) He doesn’t want to check the stealing stuff but they’re accessing the doors and checking the people. But he can’t check the stealing stuff.
      AS 1 : Can you leave me talk with him ?

      Brouhaha car A et AS 1 parlent en même temps avec beaucoup de bruits en arrière-fond et notamment l’enfant qui s’est fait voler son téléphone qui pleure. On entend plusieurs autres requérants d’asile parler de ce qui s’est passé. AS1 finit par proposer à A de se rendre à la loge des agent.es de sécurité pour discuter de l’affaire.

      AS 1 : Can you go to the security office ?
      A : (A l’enfant qui pleure) Yes, we’ll look for you phone. (à AS 1) You still didn’t tell me your number !

      Echanges entre différents requérants d’asile avec l’agent de sécurité. A redemande le numéro de l’agent et insiste.

      AS 1 : Take my picture
      A : No, I don’t want to take your picture
      AS 1 : Take my picture
      A : Ok no problem

      A le prend en photo. On entend ensuite du bruit et on imagine que l’AS1 essaie de lui retirer son téléphone et user de la force. A commence à gémir « ahouaoua, ahouaha » (« aïe » à de multiples reprises).

      https://asile.ch/2021/06/30/inedit-immersion-dans-la-loge-des-agent%c2%b7es-de-securite-du-cfa-de-boudry

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      Violences | un arrière-goût de déjà-vu

      Une enquête est en cours pour déterminer si des mesures coercitives disproportionnées ont été utilisées à l’encontre de requérants d’asile dans certains centres fédéraux. Il s’agirait, selon certains, de dérives individuelles. Selon d’autres, l’autorité a tort de sous-traiter une tâche régalienne à des sociétés privées.

      En fait, le problème se pose depuis belle lurette. En 1993 déjà, l’aumônerie genevoise auprès des requérants d’asile (AGORA) relevait, dans une lettre à l’Office fédéral des réfugiés (ODR), le SEM d’alors, que le personnel mis en place dans le Centre d’enregistrement de La Praille, inauguré l’année précédente, « n’était ni assez nombreux ni suffisamment formé pour remplir sa tâche. » L’aumônerie ajoutait que ce personnel n’assurait pas « un minimum d’écoute permettant de désamorcer les tensions ».

      La gestion de ce centre avait été confiée à l’ORS Service SA et à Securitas. Le CHERANE (Conseil pour l’hébergement des requérants non-enregistrés) qui, avec le soutien d’associations et du canton, assurait depuis deux ans l’accueil des candidats à l’asile, avait été écarté. Le M. Réfugiés de l’époque, Peter Arbenz, avait déclaré « ne pas avoir besoin d’assistants sociaux avec une mentalité tiers-mondiste ». Le Conseil d’État genevois avait boycotté l’inauguration, expliquant le refus de l’offre du CHERANE par « la crainte d’introduire le loup des œuvres d’entraide dans la bergerie fédérale ». « Les locaux de la discorde », avait titré la Tribune de Genève (18.04.1992).

      L’aumônerie, qui pouvait, avec de strictes limitations, pénétrer dans le Centre d’enregistrement, a dénoncé maintes fois, au cours des années suivantes, ce qu’elle considérait comme des abus. Certes, des membres du personnel faisait preuve d’empathie envers les requérants, mais, dans l’ensemble, le système policier établi manifestait bien plus une méfiance, voire un rejet qu’un accueil de personnes en quête de protection.

      À mes yeux, cette attitude reflétait le regard de peur, ou même d’hostilité porté par une partie de la population et des autorités sur des requérants d’asile dont beaucoup venaient de subir moult épreuves et souffrances. J’ai peur qu’il en soit toujours de même.

      https://asile.ch/2021/08/23/violences-un-arriere-gout-de-deja-vu

      #violence #torture #maltraitance #Protectas #SEM #Boudry #responsabilité

  • Rapport 2019 sur les #incidents_racistes recensés par les #centres_de_conseil

    La plupart des incidents racistes recensés par les centres de conseil en 2019 sont survenus dans l’#espace_public et sur le #lieu_de_travail, le plus souvent sous la forme d’#inégalités_de_traitement ou d’#insultes. Pour ce qui est des motifs de #discrimination, la #xénophobie vient en tête, suivie par le #racisme_anti-Noirs et l’#hostilité à l’égard des personnes musulmanes. Le rapport révèle aussi une augmentation des incidents relevant de l’#extrémisme_de_droite.

    La plupart des #discriminations signalées en 2019 se sont produites dans l’espace public (62 cas). Les incidents sur le lieu de travail arrivent en deuxième position (50 cas), en diminution par rapport à 2018. Les cas de #discrimination_raciale étaient aussi très fréquents dans le #voisinage, dans le domaine de la #formation et dans les contacts avec l’#administration et la #police.

    Pour ce qui est des motifs de discrimination, la xénophobie en général arrive en tête (145 cas), suivie par le racisme anti-Noirs (132 incidents) et l’hostilité à l’égard des personnes musulmanes (55 cas). Enfin, le rapport fait état d’une augmentation significative des cas relevant de l’extrémisme de droite (36 cas). À cet égard, il mentionne notamment l’exemple d’un centre de conseil confronté dans une commune à différents incidents extrémistes commis par des élèves : diffusion de symboles d’extrême droite, gestes comme le #salut_hitlérien et même #agressions_verbales et physiques d’un jeune Noir. Le centre de conseil est intervenu en prenant différentes mesures. Grâce à ce travail de sensibilisation, il a réussi à calmer la situation.

    En 2019, les centres de conseil ont également traité différents cas de #profilage_racial (23 cas). Ainsi, une femme a notamment dénoncé un incident survenu à l’#aéroport alors qu’elle revenait d’un voyage professionnel : à la suite d’un contrôle effectué par la #police_aéroportuaire et les #gardes-frontières, cette femme a été la seule passagère à être prise à part. Alors même que tous ses documents étaient en ordre et sans aucune explication supplémentaire, elle a été emmenée dans une pièce séparée où elle a subi un interrogatoire musclé. Sa valise a également été fouillée et elle a dû se déshabiller. Le rapport revient plus en détail sur cet exemple – parmi d’autres – en lien avec un entretien avec la coordinatrice du Centre d’écoute contre le racisme de Genève.

    Au total, le rapport 2019 dénombre 352 cas de discrimination raciale recensés dans toute la Suisse par les 22 centres de conseil membres du réseau. Cette publication n’a pas la prétention de recenser et d’analyser la totalité des cas de #discrimination_raciale. Elle vise plutôt à donner un aperçu des expériences vécues par les victimes de racisme et à mettre en lumière la qualité et la diversité du travail des centres de conseil. Ceux-ci fournissent en effet des informations générales et des conseils juridiques, offrent un soutien psychosocial aux victimes et apportent une précieuse contribution à la résolution des conflits.

    https://www.admin.ch/gov/fr/accueil/documentation/communiques.msg-id-78901.html

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    Pour télécharger le rapport :


    http://network-racism.ch/cms/upload/200421_Rassismusbericht_19_F.pdf

    #rapport #racisme #Suisse #statistiques #chiffres #2019
    #islamophobie #extrême_droite

    ping @cede

  • affordance.info : C’est désormais certain : Frédérique Vidal est vraiment une immonde connasse.
    https://www.affordance.info/mon_weblog/2020/01/frederique-vidal-est-vraiment-une-immonde-connasse.html

    « bonjour, vous êtes un étudiant rencontrant des graves difficultés, un télé-conseiller va prendre votre appel et vous renseignera sur le soutien ou les aides qui peuvent vous être apportés. »

    Il fallait bien un numéro de téléphone avec ce message enregistré pour que dans la 6ème puissance mondiale au 21ème siècle des étudiants arrêtent de s’immoler par le feu pour dénoncer la précarité qu’ils vivent au quotidien.

    Première surprise : ce numéro de lutte contre la précarité est ouvert ... du Lundi au Vendredi et de 9h à 17h.

    Deuxième surprise. Ce numéro de téléphone n’est même pas un foutu de numéro vert gratuit.

  • #Amy_Dyess : Le mot « TERF » est une appellation haineuse et il est temps de s’en débarrasser.
    https://tradfem.wordpress.com/2019/07/28/%e2%80%89terf%e2%80%89-est-une-appellation-haineuse-et-il-est-tem

    Pour la plupart, les médias grand public et les soi-disant organisations LGBT ont choisi d’ignorer une catégorie démographique particulière du mouvement #MeToo. « TERF » est une insulte utilisée pour harceler sexuellement, menacer et faire taire les lesbiennes. Au lieu de défendre les homosexuelles, les organisations et les médias « LGBT » persécutent les lesbiennes et déguisent cette haine en justice sociale. L’actuel gaslighting (enfumage) est plus subtil, mais la majorité des gens commence à s’éveiller à cette injustice. Ça suffit !

    TERF a débuté comme un acronyme qui signifiait « féministe radicale excluant les personnes trans » (Trans-Exclusionary Radical Feminist), mais cette expression a toujours été utilisée pour empêcher les femmes de lutter pour leurs droits. Depuis un an et demi, le mot TERF est largement utilisé comme propos haineux homophobe visant TOUTES les lesbiennes. Oui… TOUTES les lesbiennes.

    Il n’est pas nécessaire d’être une féministe radicale pour être qualifiée de TERF. Une lesbienne peut dire clairement qu’elle croit que les personnes transsexuelles méritent les droits humains et le respect, mais elle reste une « TERF » parce que son orientation sexuelle comprend une frontière innée. Cette frontière est l’attraction du même sexe anatomique pour d’autres femmes femelles adultes. Les lesbiennes sont la seule orientation sexuelle à exclure le pénis, ce qui fait de noues l’adversaire le plus dangereux du patriarcat.

    Traduction : #Typhaine_Olivier
    Version originale : https://medium.com/@amydyess83/terf-is-hate-speech-and-its-time-to-condemn-it-6efc897ce407
    #transphobie #féminisme #identité_de_genre #gay #lesbienne #insulte

    • Migrants : le « Sea-Watch 3 » force le blocus italien vers Lampedusa

      Bloqué depuis 14 jours au large de l’île de Lampedusa avec 42 migrants à son bord, le navire humanitaire Sea-Watch 3 a décidé ce mercredi 26 juin de forcer le blocus des eaux territoriales italiennes.

      Le Sea-Watch 3 était bloqué depuis deux semaines devant l’île italienne après une nouvelle opération de secours au large de la Libye. Sur les sites de trafic maritime, les relevés du navire humanitaire battant pavillon néerlandais montrent clairement qu’après avoir navigué le long de la ligne des eaux italiennes pendant une dizaine de jours, il l’a franchie à la mi-journée en direction du port de Lampedusa.

      « J’ai décidé d’entrer dans le port de Lampedusa. Je sais ce que je risque, mais les 42 naufragés à bord sont épuisés. Je les emmène en lieu sûr », a annoncé ce mercredi sur Twitter la jeune capitaine allemande du Sea-Watch 3, Carola Rackete.

      « Nous ferons usage de tous les moyens démocratiquement permis pour bloquer cette insulte au droit et aux lois », a réagi Matteo Salvini, le ministre italien de l’Intérieur, dans une vidéo sur Facebook, dénonçant le « petit jeu politique sordide » de l’ONG, mais aussi l’indifférence affichée par les Pays-Bas, dont le Sea-Watch 3 bat le pavillon, et l’Allemagne, le pays de l’ONG. Les gouvernements de Berlin et La Haye « en répondront », a menacé M. Salvini.

      Conformément au récent « décret sécurité » adopté par le gouvernement italien, la capitaine du navire humanitaire et les responsables de Sea Watch risquent désormais des poursuites pour aide à l’immigration clandestine, la saisie du bateau et une amende de 50000 euros.

      Mardi, la Cour européenne des droits de l’homme, saisie par l’ONG allemande, avait refusé d’intervenir en urgence. Elle avait cependant demandé à l’Italie de « continuer de fournir toute assistance nécessaire » aux personnes vulnérables se trouvant à bord. Sur les 53 migrants que le Sea-Watch 3 avait secourus le 12 juin au large de la Libye, Rome a déjà accepté le débarquement de onze personnes vulnérables. Des dizaines de villes allemandes se sont dites prêtes à accueillir les migrants. L’évêque de Turin, Cesare Nosiglia, a annoncé lundi que son diocèse proposait de les prendre en charge.

      Le recours déposé à la CEDH était la seule solution qui nous restait avant de devoir entrer dans les eaux italiennes. Mais la CEDH a déclaré que la responsabilité italienne ne pouvait pas être engagée tant que notre bateau se trouvait dans les eaux internationales. Nous n’avions donc qu’une option : entrer dans le territoire italien.

      En janvier dernier déjà, 32 migrants secourus par le Sea-Watch étaient restés bloqués 18 jours à bord, avant de pouvoir débarquer à Malte grâce à accord de répartition entre plusieurs pays européens.

      L’odyssée du Sea Watch 3

      L’odyssée du Sea Watch 3 débute le 12 juin dernier, au large de la Libye. Alerté par une patrouille aérienne, le navire se porte au secours de 53 personnes en perdition sur un Zodiac dans les eaux internationales. Dans la journée, il reçoit l’ordre du gouvernement italien de faire route vers Tripoli, opportunément déclaré « port sûr » par les gardes-côtes libyens après l’opération de secours. Mais l’équipage refuse.

      Trois jours plus tard, une inspection sanitaire mène au débarquement de trois familles, 10 personnes en tout, dont une femme enceinte et des enfants. Mais entre-temps, le ministre italien de l’Intérieur Matteo Salvini a signé un décret inédit, un décret interdisant au Sea Watch 3 de débarquer en Italie. L’ONG fait appel de cette décision, mais en vain.

      À partir de cette date, c’est le blocage. Avec 42 personnes à bord, le Sea Watch 3 longe sans issue les eaux territoriales italiennes au large de Lampedusa, dans une chaleur étouffante. Et finalement c’est donc mardi que la Cour de justice européenne, saisie par l’équipage et les passagers, se déclare incompétente pour contraindre le gouvernement italien à changer de position. La capitaine Carola Rackete a alors publié sa décision sur Twitter : « Les 42 naufragés à bord sont épuisés, dit-elle. Je les emmène en lieu sûr ».

      https://twitter.com/seawatch_intl/status/1143859524559941632?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E11
      http://www.rfi.fr/europe/20190626-migrants-sea-watch-blocus-lampedusa

    • I portuali di Genova pronti ad accogliere la Sea Watch

      «Possiamo bloccare i porti ma anche aprirli»

      «Per quanto ci riguarda, la Sea Watch 3 può fare rotta verso il nostro porto, per noi saranno i benvenuti. Possiamo bloccare i porti, ma anche aprirli». Così il collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova in un post pubblicato questa notte su facebook, poche ore prima che la nave battente bandiera olandese con a bordo 42 migranti forzasse il blocco al largo di Lampedusa. La nave, scrivono i portuali, «dovrà trovare una solidarietà concreta e attiva e tutta la forza di cui i lavoratori e gli antirazzisti saranno capaci. Noi non siamo degli eroi, nè dei politici. Qualcuno ci ha definito ’piantagrane’. Siamo semplici lavoratori del porto di Genova ma proprio perchè lavoratori, non possiamo che riconoscerci nei valori fondanti del movimento operaio: la fratellanza tra esseri umani, la solidarietà internazionale».
      I ’camalli’ ricordano che «nelle ultime settimane abbiamo bloccato, non da soli certamente, per due volte il carico di una compagnia specializzata in traffico di armamenti, così come siamo stati in piazza per spiegare ai fascisti e a chi li proteggeva che nella nostra città non hanno alcuna speranza.
      Mentre si avvicina il 30 giugno e Salvini pensa di fare un’altra visita a Genova, noi non possiamo che ricordare a tutti, e innanzi tutto a noi stessi, che un altro caposaldo della tradizione operaia è la lotta. Sappiamo come bloccare i porti, possiamo farlo ancora».
      Intanto, questa sera sotto la prefettura di Genova, vari gruppi pacifisti hanno organizzato un presidio dalle 19 a mezzanotte di solidarietà dal titolo evocativo «e noi dormiamo sotto la prefettura», per unirsi alla protesta del parroco di Lampedusa che da giorni dorme sul sagrato della sua chiesa per chiedere lo sbarco dei migranti. Anche la Cgil ha annunciato la propria adesione.

      https://genova.repubblica.it/cronaca/2019/06/26/news/i_portuali_di_genova_pronti_ad_accogliere_la_sea_watch-229702593

      #Genova #Gênes

    • Sea Watch, #Orlando annuncia la cittadinanza onoraria allo staff della ong

      Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha deciso di voler consegnare la cittadinanza onoraria alla ciurma della Sea Watch 3, bloccata davanti al porto di Lampedusa con una quarantina di migranti a bordo. Il Ministro Salvini non ha autorizzato lo sbarco dei migranti e, difficilmente, accoglierà la richiesta della comandante che ieri sera ha deciso di puntare verso il porto sicuro di Lampedusa.

      Ora Orlando, da sempre impegnato nella sua campagna pro-migranti e volta all’accoglienza, decide di fare dello staff della Sea Watch dei palermitani onorari “per l’impegno mostrato – dice il primo cittadino – di fronte al drammatico ed inarrestabile flusso migratorio, contribuendo in modo determinante al salvataggio di vite umane.

      “Per rendere omaggio a cittadini e cittadine che negli ultimi mesi sono protagonisti di una operazione di umanità e professionalità; un atto di amore e coraggio che giorno dopo giorno ha salvato e salva vite umane, ridato speranze e costruito un ponte di solidarietà nel mare Mediterraneo, anche contro logiche, politiche e leggi che poco hanno di umano e civile.” Con queste parole, il Sindaco Leoluca Orlando ha annunciato di voler concedere all’equipaggio e allo staff della nave Sea-Watch la cittadinanza onoraria della città di Palermo, dopo quella concessa, con analoga motivazione, alla Guardia Costiera (ottobre 2015) e a Medici senza Frontiere (settembre 2015).

      http://www.mondopalermo.it/news/sea-watch-orlando-annuncia-la-cittadinanza-onoraria-allo-staff-della-on
      #Palerme #Palermo

    • La capitaine du Sea-Watch arrêtée après avoir accosté de force à Lampedusa

      Le Sea-Watch a accosté de force dans la nuit dans le port de Lampedusa, et sa jeune capitaine Carola Rackete a été arrêtée, avant que ne débarquent 40 migrants bloqués à bord depuis 17 jours.

      « Nous attendons encore et toujours une solution qui ne se dessine malheureusement pas. C’est pourquoi j’ai maintenant moi-même décidé d’accoster dans le port », a-t-elle déclaré dans une vidéo relayée par Sea-Watch sur les réseaux sociaux.

      Mercredi, cette Allemande de 31 ans, aux commandes du navire battant pavillon néerlandais, avait forcé le blocus des eaux territoriales italiennes imposé par le ministre de l’Intérieur, Matteo Salvini (extrême droite). Mais le navire avait dû s’arrêter à un mille en face du petit port de Lampedusa et restait bloqué là depuis.

      Carola Rackete a finalement choisi de forcer le passage au beau milieu de la nuit, malgré la vedette de police chargée de l’en empêcher. « Nous nous sommes mis devant pour l’empêcher d’entrer dans le port mais rien (...). Si on était restés sur le chemin, (le Sea-Watch) aurait détruit la vedette », a commenté devant des caméras un policier qui se trouvait à bord.

      Un peu avant 3H00 (1H00 GMT), la police est montée à bord pour arrêter la jeune femme pour résistance ou violence envers un navire de guerre. La capitaine, qui risque jusqu’à 10 ans de prison selon les médias italiens, est descendue du navire encadré par des agents, sans menottes, avant d’être emmenée en voiture.

      Sur le quai, des habitants et militants sont venus acclamer l’arrivée du navire, tandis que d’autres ont applaudi l’arrestation aux cris de « Les menottes ! », « Honte ! », « Va-t’en ! »

      Si les pêcheurs et les habitants de Lampedusa ont été en première ligne de l’accueil des migrants depuis près de 30 ans, la Ligue de Matteo Salvini a obtenu 45% des voix aux élections européennes de mai sur l’île.

      « Nous sommes fiers de notre capitaine », a écrit sur les réseaux sociaux le président de l’ONG allemande, Johannes Bayer. « Elle a exactement fait ce qu’il fallait, elle a insisté sur le droit de la mer et a mis les gens en sécurité ».

      – Cinq pays d’accueil -

      Le parquet d’Agrigente (Sicile) avait ouvert une enquête jeudi contre Carola Rackete pour aide à l’immigration clandestine et non-respect de l’ordre d’un navire militaire italien de ne pas pénétrer dans les eaux territoriales italiennes.

      Les migrants ont pu débarquer peu après 5H30 (3H30 GMT), certains tout sourire, d’autres en larmes, alors que le jour se levait, pour être conduits dans le centre d’accueil de l’île.

      Malgré la fermeté affichée par M. Salvini, ce centre n’est jamais vide : Lampedusa a vu débarquer plus de 200 migrants pendant les deux semaines où le Sea-Watch est resté bloqué au large de l’île. Et plusieurs embarcations de fortune ont été signalées dans la nuit au large.

      Juste après, le Sea-Watch, conduit par les garde-côtes, est reparti pour s’ancrer au large.

      Les migrants du Sea-Watch avaient été secourus dans les eaux internationales au large de la Libye. Au fur et à mesure, 13 d’entre eux avaient été évacués vers Lampedusa, essentiellement pour des raisons médicales. Pour les 40 restants, c’était encore l’incertitude.

      Vendredi après-midi, le ministre italien des Affaires étrangères, Enzo Moavero, avait annoncé que cinq pays européens (France, Allemagne, Portugal, Luxembourg et Finlande) étaient disposés à les accueillir.

      La Commission européenne exigeait que les migrants soient à terre avant d’organiser la répartition, tandis que M. Salvini refusait de les laisser descendre avant d’avoir l’assurance qu’ils seront immédiatement transférés aux Pays-Bas, en Allemagne ou dans d’autres pays européens.

      Dans le même temps, le navire de l’ONG espagnole Proactiva Open Arms patrouillait au large de la Libye, malgré la menace d’une amende de 200.000 à 900.000 euros brandie par les autorités espagnoles.

      « Si je dois payer par la prison ou par une amende le fait de sauver les vies de quelques personnes, je le ferai », a assuré Oscar Camps, fondateur de l’ONG.

      https://information.tv5monde.com/info/la-capitaine-du-sea-watch-arretee-apres-avoir-accoste-de-force

    • Sea Watch, migranti sbarcati a Lampedusa. Arrestata la comandante

      Sono sbarcati a Lampedusa i 40 migrati a bordo della Sea Watch, che era ferma da tre giorni al largo di Lampedusa. Prima di sbarcare dalla nave i migranti hanno salutato e abbracciato i volontari della ong che in queste due settimane li hanno assistiti. Gli uomini della Guardia di Finanza e della Polizia che stanno ponendo sotto sequestro l’imbarcazione.

      La capitana della nave Sea Watch, Carola Rackete, è ora in stato di arresto per violazione dell’Articolo 1100 del codice della navigazione: resistenza o violenza contro nave da guerra, un reato che prevede una pena dai tre ai 10 anni di reclusione.

      «Comportamento criminale della comandante della Sea Watch, che ha messo a rischio la vita degli agenti della Guardia di Finanza. Ha fatto tutto questo con dei parlamentari a bordo tra cui l’ex ministro dei trasporti: incredibile», ha commentato il ministro dell’Interno Matteo Salvini.

      Carola Rackete andrà agli arresti domiciliari. E’ stato deciso dalla Procura di Agrigento che la accusa di resistenza e violenza a nave da guerra e tentato naufragio. La comandante della Sea Watch, arrestata all’alba dopo aver violato l’alt della Guardia di Finanza, è entrata nel porto di Lampedusa speronando una motovedetta delle Fiamme Gialle nel tentativo di arrivare in banchina.

      Il comandante della tenenza di Lampedusa delle Fiamme Gialle, luogotenente Antonino Gianno, ha prelevato personalmente la comandante a bordo della Sea Watch con l’ausilio di altri 4 finanzieri, notificandole in caserma il verbale di arresto. La comandante della Sea Watch potrebbe adesso essere trasferita nel carcere di Agrigento in attesa delle decisioni della Procura di Agrigento che coordina l’inchiesta.

      https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/06/28/sea-watch-indagata-la-capitana.-nuovo-affondo-di-salvini-contro-lolanda-comport

    • Carola arrestata sulla banchina di Lampedusa sembra essere il contentino per un ministro che gridava « non scenderanno neanche a Natale » che ha dovuto consumare la sua becera vendetta nelle forme plateali dello spettacolo della violenza.

      4 paesi che accoglieranno 40 persone dopo settimane di trattative (e la chiamano solidarietà)

      In queste ore, in queste settimane, si é consumata l’ennesima pagina vergognosa della storia di questo paese, del diritto e della dignità umana.


      https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10219241344492453&set=a.1478670974789&type=3&theater

    • Sea Watch, la capitana Rackete andrà ai domiciliari: rischia fino a 10 anni di carcere – Il video dell’arresto

      La nave non aveva ricevuto l’autorizzazione ad attraccare. Durante le manovre, una motovedetta della gdf è rimasta schiacciata tra l’imbarcazione e la banchina. La capitana è accusata di resistenza e violenza a nave da guerra e tentato naufragio

      https://www.open.online/2019/06/29/la-sea-watch-e-entrata-nel-porto-di-lampedusa-il-video

    • Carola Rackete, « l’emmerdeuse » qui veut sauver les migrants

      Héroïne pour les défenseurs des migrants, « emmerdeuse » pour le ministre italien Matteo Salvini, Carola Rackete, jeune capitaine venue du froid, a bravé mercredi l’interdit et la prison pour faire débarquer les 42 migrants qu’elle avait secourus il y a deux semaines.


      https://www.levif.be/actualite/europe/carola-rackete-l-emmerdeuse-qui-veut-sauver-les-migrants/article-normal-1159337.html?cookie_check=1561628580

    • E vi segnalo che per poter arrestare #CarolaRackete hanno dovuto rispolverare un articolo del Codice della Navigazione promulgato nel 1942 (o nel XX come piaceva e ancora piace ad alcuni...) dal «Re d’Italia e d’Albania e Imperatore d’Etiopia».

      https://twitter.com/kkvignarca/status/1144858140032339968?s=19

      Il s’agit de l’article 1100:
      Art. 1100 Codice Navigazione - Resistenza o violenza contro nave da guerra

      Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un terzo alla metà.

      http://trovalegge.it/codice-navigazione/art-1100-codice-navigazione-resistenza-o-violenza-contro-nave-da-guerra

    • Carola Rackete, la capitaine du Sea-Watch arrêtée, reçoit des milliers de dons | Le Huffington Post
      https://www.huffingtonpost.fr/entry/carola-rackete-la-capitaine-du-sea-watch-recoit-des-milliers-de-dons-

      Cette semaine des milliers de dons ont afflué pour la soutenir au point de faire sauter le site de Sea-Watch mercredi et une cagnotte sur Facebook lancée il y a quatre jours pour payer les frais de justice de l’ONG et de “Capitaine Carola” a déjà récolté près de 370.000 euros. Un record pour l’ONG allemande qui vient au secours des migrants en mer.

    • Pas de la « violence », mais de la « désobéissance », dit la capitaine du Sea-Watch | Europe
      https://www.lapresse.ca/international/europe/201906/30/01-5232194-pas-de-la-violence-mais-de-la-desobeissance-dit-la-capitaine-du-

      « Je n’avais pas le droit d’obéir, on me demandait de les ramener (les migrants) en Libye. Mais du point de vue de la loi, ce sont des personnes qui fuient un pays en guerre, la loi interdit qu’on puisse les ramener là-bas ».

    • Lampedusa, la contestazione a Carola: «Resistenza contro una nave da guerra». Cosa rischia

      De Falco, l’ex comandante della Guardia Costiera, solleva il caso: «Contestazione sbagliata». Quindici anni fa, un caso simile, concluso poi con un’assoluzione.

      Alla comandante Carola Rackete, arrestata in flagranza e adesso agli arresti domiciliari, viene contestato di aver violato l’articolo 1100 del codice della navigazione: «Resistenza o violenza contro una nave da guerra». Così recita: «Il comandante o l’ufficiale della nave, che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.La pena per coloro che sono concorsi nel reato è ridotta da un terzo alla metà».

      Una contestazione che ha già aperto un dibattito. Per Gregorio De Falco, ex comandante della Guardia Costiera e attualmente senatore del Gruppo Misto, è un’accusa che non regge: «L’arresto di Carola Rackete è stato fatto per non essersi fermata all’alt impartito da una nave da guerra, ma la nave da guerra è altra cosa, è una nave militare che mostra i segni della nave militare e che è comandata da un ufficiale di Marina, cosa che non è il personale della Guardia di finanza. Non ci sono gli estremi». Per De Falco, «la Sea Watch è un’ambulanza, non è tenuta a fermarsi, è un natante con a bordo un’emergenza. La nave militare avrebbe dovuto anzi scortarla a terra».

      La comandante era già indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per un altro reato previsto dal codice della navigazione: il 1099, «Rifiuto di obbedienza a nave da guerra». Questa la contestazione: «Il comandante della nave, che nei casi previsti nell’articolo 200 non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale, è punito con la reclusione fino a due anni». Un ulteriore riferimento a una «nave da guerra».

      C’è poi un’altra questione giuridica. «Si può applicare una norma del nostro codice della navigazione a una nave straniera in assenza di espressa indicazione?», si chiede l’avvocato Giorgio Bisagna. Il legale, impegnato sul fronte della tutela dei migranti, dice: «Quando una norma si può applicare a una nave straniera, viene espressamente detto. E in questo caso, non ci sono specificazioni in tal senso».

      Bisagna ricorda un caso di quindici anni fa. La nave Cap Anamur forzò il blocco navale imposto dal governo Berlusconi, per impedire lo sbarco a Porto Empedocle dei naufraghi salvati. Ci furono 15 giorni di stallo in acque internazionali. Poi, il comandante e il presidente della Ong Cap Anamur furono arrestati e la nave sequestrata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Dopo 5 anni - dice l’avvocato Bisagna - il tribunale di Agrigento ha assolto gli imputati per aver agito in presenza di una causa di giustificazione: avevano adempiuto un dovere, quello di salvare delle persone in mare».


      https://palermo.repubblica.it/cronaca/2019/06/29/news/lampedusa_a_carola_contestano_la_resistenza_contro_una_nave_da_gu

    • Captain defends her decision to force rescue boat into Italian port

      Carola Rackete says act of ‘disobedience’ in Lampedusa was necessary to avert tragedy.

      An NGO rescue boat captain who has risked jail time after forcing her way into Lampedusa port in Italy with 40 migrants onboard has defended her act of “disobedience”, saying it was necessary to avert a tragedy.

      “It wasn’t an act of violence, but only one of disobedience,” the Sea-Watch 3 skipper, Carola Rackete, told the Italian daily Corriere della Sera in an interview published on Sunday, as donations poured in for her legal defence.

      Rackete, 31, from Germany, is accused of putting a military speedboat and the safety of its occupants at risk in the incident on Saturday.
      Rescue ship captain arrested for breaking Italian blockade
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      “The situation was desperate,” she said. “My goal was only to bring exhausted and desperate people to shore. My intention was not to put anyone in danger. I already apologised, and I reiterate my apology.”

      The Sea-Watch 3 had rescued the migrants off the coast of Libya 17 days earlier. They were finally allowed to disembark at Lampedusa and taken to a reception centre as they prepared to travel to either France, whose interior ministry said it would take in 10 of them, or to Germany, Finland, Luxembourg or Portugal.

      The Italian coastguard seized the rescue boat, anchoring it just off the coast.

      Rackete, who was placed under house arrest, is expected to appear before a judge early this week in the Sicilian town of Agrigento to answer charges of abetting illegal immigration and forcing her way past a military vessel that tried to block the Sea-Watch 3. The latter crime is punishable by three to 10 years in jail.

      Her arrest prompted a fundraising appeal launched by two prominent German TV stars, which had raised more than €350,000 (£314,000) by midday on Sunday.

      The comedian Jan Böhmermann, who launched the campaign with the TV presenter Klaas Heufer-Umlauf, said in a video posted on YouTube: “We are convinced that someone who saves lives is not a criminal. Anyone who thinks otherwise is simply wrong.”

      Rackete has become a leftwing hero in Italy for challenging the “closed-ports” policy of the far-right interior minister, Matteo Salvini.

      “I didn’t have the right to obey,” Rackete said. “They were asking me to take them back to Libya. From a legal standpoint, these were people fleeing a country at war [and] the law bars you from taking them back there.”

      The head of the NGO that operates the ship, Johannes Bayer, said Sea-Watch was “proud of our captain”.

      Böhmermann accused Salvini of “abusing rescuers at the Mediterranean Sea in order to turn the mood against refugees, against EU, and for an inhumane politics”.

      Salvini welcomed Rackete’s arrest. “Mission accomplished,” he tweeted. “Law-breaking captain arrested. Pirate ship seized, maximum fine for foreign NGO.”

      https://www.theguardian.com/world/2019/jun/30/italy-refugee-rescue-boat-captain-carola-rackete-defends-decision

    • Sea Watch, #De_Falco ex comandante della Guardia Costiera e attualmente senatore: «Carola Rackete dovrà essere liberata, non era tenuta a fermarsi»

      Sull’arresto della comandante della Sea Watch interviene #Gregorio_De_Falco, ex comandante della Guardia Costiera e attualmente senatore del Gruppo Misto.

      «L’arresto di Carola Rackete è stato fatto per non essersi fermata all’alt impartito da una nave da guerra ma la nave da guerra è altra cosa, è una nave militare che mostra i segni della nave militare e che è comandata da un ufficiale di Marina, cosa che non è il personale della Guardia di Finanza. Non ci sono gli estremi. La Sea Watch è un’ambulanza, non è tenuta a fermarsi, è un natante con a bordo un’emergenza. La nave militare avrebbe dovuto anzi scortarla a terra».

      «Sea Watch non avrebbe potuto andare in altri porti, il più vicino è Lampedusa e non aveva alcun titolo a chiedere ad altri, sebbene lo abbia fatto. Ha atteso tutto quello che poteva attendere - continua De Falco - finché non sono arrivati allo stremo; a quel punto il comandante ha detto basta ed è entrata per senso di responsabilità. È perverso un ordinamento che metta un uomo, o una donna in questo caso, di fronte a un dramma di questo tipo. Quella nave aveva un’emergenza e aspettava da troppo».

      https://www.diritti-umani.org/2019/06/sea-watch-de-falco-ex-comandante-della.html

    • La vergogna sul molo di Lampedusa

      Da dove vengono (e quale scelta ci impongono) le minacce sessiste urlate alla capitana Carola dai contestatori che l’hanno insultata mentre scendeva a terra.

      GLI INSULTI urlati sulla banchina a Lampedusa a Carola Rackete sono rimbalzati contro il suo volto sereno, non hanno scalfito quella compostezza data dalla consapevolezza di aver messo il proprio corpo a disposizione della propria responsabilità, cosa non scontata. Non scontata, in un Paese in cui il ministro dell’Interno, spaventato da un’eventuale condanna, si è sottratto al processo per sequestro di persona nel caso Diciotti facendosi salvare dalla sua maggioranza.

      Ma torniamo agli insulti. Sono stati abbastanza prevedibili. Nella parte non censurata di video che è stata postata, leghisti e grillini lampedusani urlano contro Carola: «Spero che ti violentino ’sti negri, a quattro a quattro te lo devono infilare». E ancora: «Ti piace il cazzo negro». La dinamica è tipica: da un lato il sesso visto come aberrazione, insulto, porcheria, vizio, e dall’altro il senso di inferiorità che qualcuno ha in questo campo verso l’africano.

      Per quanto possa sbalordire, uno dei motivi principali del razzismo verso gli immigrati africani è proprio la minaccia sessuale: è stato così negli Stati Uniti ed è così in Europa. Tutta la retorica razzista di Salvini sugli immigrati furbi invasori perché arrivano con corpi atletici e non sono scheletri affamati, nasconde un evidente complesso di inferiorità. Il «ti devono violentare» viene dalla bocca degli stessi che blaterano di violenza carnale ogni volta che discutono di immigrazione ciarlando con crassa ignoranza di mafia nigeriana, della quale non sanno nulla.

      Nel video spunta a un certo punto una voce tenue che dice: «Piccio’, non parlate accussì». È una donna, e si sta vergognando. È interessante capire come il leader di questi balordi abbia intenzione di commentare l’accaduto e che provvedimenti intenda prendere nei loro confronti. Chissà se questi miserabili sono coscienti che i leghisti del Nord usavano gli stessi insulti contro le persone che cercavano di difendere i meridionali. La cantilena allora era: «Li difendi perché ti piace scopare con i terroni». Che rabbia deve generare in un leghista una donna giovane in grado di fare una scelta così forte, in grado di gestire una tale situazione con nervi saldi e con dichiarazioni piene di responsabilità, una donna in grado di vivere la propria vita con autonomia, che non viene definita in quanto fidanzata di, moglie di, amante di. Ecco, una donna così per i leghisti deve essere insopportabile anche solo da immaginare. Ed è naturale che insultare una donna attraverso il sesso sia la cosa più scontata e facile per vomitare la propria frustrazione.

      Ma c’è una seconda parte degli insulti che raccontano bene il Paese. A urlare «le manette» e «venduta» è l’Italia forcaiola che conosco benissimo; l’Italia che sputa su Enzo Tortora perché se non puoi essere Enzo Tortora è un bene che lui cada e ti faccia sentire meno mediocre; l’Italia che lancia le monetine su Craxi avendolo temuto e blandito fino a un minuto prima (poco importa in queste dinamiche l’innocenza o la colpevolezza, ma conta il grado di frustrazione e di meschinità); che parteggia a favore o contro Raffaele Sollecito e Amanda Knox; che esulta per ogni arresto, per ogni avviso di garanzia, come se facesse sentire meno tollerabile la propria sofferenza.

      Se la giustizia che pretende, tempo, pacatezza e responsabilità è impossibile, allora meglio tifare per le disgrazie altrui, cosa che non mitigherà le proprie ma almeno servirà a sfogarsi. Io sono cresciuto in un Sud Italia in cui, quando veniva arrestato un boss, la gente applaudiva il criminale e insultava i carabinieri. Guardate su YouTube il video di Antonino Monteleone che ha ripreso l’arresto del boss Giovanni Tegano a Reggio Calabria: c’era una fitta folla fuori dalla questura ad inneggiarlo. Non solo parenti ma anche semplici concittadini grati per la sua strategia contraria agli atti sanguinari. Quando venne arrestato Cosimo di Lauro a Secondigliano, centinaia di persone lo applaudirono e difesero. In fondo è così, è il prezzo del sopravvivere: piegarsi al potente, temere la sua vendetta, blandirlo, sperare in una sua parola per poter cambiare la propria vita. Al contrario, è facile colpire Carola, non ti succede niente se lo fai, stai sputando addosso a una donna che ha solo il suo corpo e la sua dignità come simbolo e difesa. Non ti toglierà il lavoro, non verrà a minacciarti, non c’è nessun favore che potrai chiederle.

      Carola non poteva che agire in questo modo: sbarcare a Malta, in Grecia o in Spagna significava compiere un atto fuorilegge, perché Lampedusa era molto più vicina e ciò rispondeva all’esigenza di mettere in sicurezza l’equipaggio. Se avesse deciso di andare verso altri porti, avrebbe messo in pericolo le persone salvate in mare violando la legge del mare. Urlano «venduta», ma Carola ha scelto di impegnarsi mettendo le sue competenze al servizio di un “ambulanza del mare” ed è una donna che prende onestamente il suo stipendio, più vicino a un rimborso spese che a un lauto guadagno.

      È incredibile che tutto questo venga detto da un partito come la Lega, che non ha mai spiegato perché è andata a trattare con un’impresa di Stato russa per farsi finanziare la campagna elettorale; in un Paese dove il ministro dell’Interno finanziava post razzisti su Facebook con 5000 euro (500 quelli in cui annuncia i suoi comizi). In un Paese così, si dà addosso a una persona che salva con il proprio impegno dei disperati dall’agonia e si difende, invece, chi non mostra la minima trasparenza e chi ha alleanze torbide e partner politici criminali.

      Il meccanismo è sempre lo stesso: se sei un bandito non puoi convincere gli altri che tu non lo sia, puoi però cercare di far credere che tutti gli altri siano peggio di te. Ecco il gioco sporco di Matteo Salvini e dei leghisti con Carola. Ascoltate quegli insulti perché lì c’è tutto il cuore marcio del nostro Paese. Bisogna capire da che parte stare. Con chi volete stare? Con chi chiede manette per chi ha salvato vite? Con chi augura a una donna una violenza carnale? Da che parte volete stare? Con questi insultatori o con chi considera la libertà e la solidarietà l’unica dimensione in cui vale la pena di vivere?

      https://www.repubblica.it/cronaca/2019/06/30/news/la_vergogna_sul_molo_di_lampedusa-229957468
      #insultes #sexisme

    • The White Man’s Burden, „wir schaffen das“ and Carola Rackete

      ‘The White Man’s Burden’ is a poem from 1899 by Rudyard Kipling about the Philippine-American War of the colonial occupation of these islands. In this poem, it is portrayed what the task of the white man is. It gives green light for colonialism and at the same time puts the other non-white only in the weak rank that needs protection and needs to be led to light.

      This happened many years ago, but what is happening now? We all remember what happened in 2015 and the famous saying ‘wir schaffen das.’

      What we can? We can save them, we can give them to eat and drink and so on …

      But who are we? We are the European German society in particular!

      Both, in the example story from 1899 and 2015 the white person is the one in the position to safe the ‘non -white one.’

      But at end, there will stay one hero only, ‘the white one.’ The non-white people have to be happy to have that nice victim position in the story of 1899 to be a slave or in 2015 be the victim that needs help. And even if s*he puts himself in danger to come to the EU, the hero is the one who helps him, and he needs to be integrated in the society then maybe he will get chance to be in the media as the perfect example of integration. That’s what the white one needs!

      How many migrants say in front of the sea when they get on the boat with others migrants ‘wir schaffen das’? I’m shure many of them, and some of them do it and they are here in Europe. But the only famous one is the ‘wir schaffen das’ by white Angela Merkel .

      With full respect of what Carola Rackete has done, I’m asking structures like media and political groups around the topic of migrants: Do we really need white hero again?

      And why are we reducing the right of the people to freedom of Movement to ‘Saving live is not a crime.’

      Why we are playing with the system of the colonial game? Why do we try to victimize the migrants and only give them the chance to have a new white hero that would save them and do not talk about all the migrants who die trying to reach the EU? Why are we not talking abut the people who die in the sea and were the reason why Carola Rackete went there?!

      Solidarity is important but not for the cost of victimization of migrants and creating new colonial image of the ‘white hero’!

      Let us not forget abut the thousands of people who die there and say loud: the problem is the system and the politicians!

      Instead of ‘Saving live is not crime’ we need to say loud: politicians who let people die in the sea are criminals!

      Instead of saying ‘free Carola’ let’s speak out the names and tell the story of the people who died in the sea. They are the topic here!

      Don’t make a new white hero again, but remember why Carola went to the sea.

      Adam Baher

      https://ffm-online.org/the-white-mans-burden-wir-schaffen-das-and-carola-rackete

    • Méditerranée : face à la guerre aux migrant·es, la solidarité ne cèdera pas !

      Après 17 jours d’attente en mer, des attaques outrageantes et répétées dans les médias de la part du ministre de l’Intérieur italien Matteo Salvini et le silence assourdissant des États européens, Carola Rackete, capitaine du Sea-Watch 3, a décidé, dans la nuit du 28 juin 2019, de braver l’interdiction d’accoster dans le port de l’île de Lampedusa afin de sauver la vie de 40 personnes. En entrant dans le port samedi, elle a dû manœuvrer pour éviter un navire de la marine italienne qui lui barrait la route. A leur arrivée, les personnes exilées ont été débarquées et placées dans le hotspot de l’île. La capitaine, arrêtée puis assignée à résidence, risque d’être inculpée pour « aide à l’entrée irrégulière » et « résistance ou violence contre navire de guerre ». Elle encourt jusqu’à 15 ans de réclusion et 50 000 euros d’amende.

      La théâtralisation et la dramatisation de cette opération de sauvetage, orchestrées par Matteo Salvini, lui permettent d’entériner en pratique son décret-loi « sécurité bis », entré en vigueur le 15 juin 2019 avant même son passage devant le parlement italien. Ce décret vise à renforcer la criminalisation de la migration et des solidarités qui a été croissante depuis 2016, en sanctionnant lourdement les capitaines de bateau et les armateurs qui contreviennent à l’interdiction d’entrée dans les eaux territoriales italiennes. Cette interdiction est contraire aux conventions internationales ratifiées par l’Italie, qui prévoient l’obligation de débarquement en lieu sûr des personnes secourues en mer.

      Face à cette situation honteuse, quelle réponse de l’Europe ? Un silence assourdissant pendant plusieurs jours, puis l’engagement de la France, l’Allemagne, le Portugal, le Luxembourg et la Finlande de se répartir les personnes débarquées. Alors que l’UE compte 500 millions d’habitant·es, il faut aujourd’hui « d’intenses échanges diplomatiques » pour accueillir 40 personnes !

      Parce que les États européens refusent de prendre leurs responsabilités, le taux de mortalité en Méditerranée augmente et les violences s’accroissent contre les personnes bloquées de l’autre côté de la Méditerranée, dans les pays auxquels l’UE sous-traite sa politique migratoire, dont la Libye en guerre. Si les ONG opérant le secours en mer sont aujourd’hui la cible de telles attaques, c’est aussi parce qu’elles sont un regard citoyen aux frontières de l’Europe qui contrarie cette politique d’externalisation.

      Aujourd’hui, ce sont des citoyennes et des citoyens qui se mobilisent pour dire non à ces politiques mortifères et venir en soutien aux personnes tout au long des parcours migratoires. La violence des politiques menées depuis plus de 30 ans en Europe nourrit les idées racistes et sexistes, comme en témoigne le déchainement d’insultes à caractère sexuel lancées contre la capitaine Rackete par des responsables politiques et une partie de la population.

      La riposte s’organise à Lampedusa, à Rome et au-delà : des député·es de l’opposition sont resté·es à bord du Sea-Watch 3 jusqu’à ce que tout le monde ait pu débarquer, des habitant·es de Lampedusa ont dormi plus d’une semaine sur le parvis de l’église aux côtés de son prêtre en demandant que les exilé·es soient débarqué·es, des appels à mobilisations ont été lancés dans plusieurs villes italiennes. Ces mobilisations ne s’arrêtent pas à l’Italie, c’est du monde entier que vient le soutien !

      De 17 pays du Moyen Orient, d’Afrique et d’Europe, le réseau Migreurop affirme sa solidarité avec les personnes exilées débarquées, avec l’ensemble de l’équipage du Sea-Watch 3, ainsi qu’avec toutes les autres personnes qui ont été criminalisées pour leurs gestes de solidarité ces dernières années, qu’elles soient des membres d’ONG ou des pêcheurs des rives sud de la Méditerranée. Nous savons que si la solidarité est violemment attaquée aujourd’hui, c’est parce qu’elle s’érige en dernier rempart face à la guerre aux migrant·es que mènent les États. Le courage de Carola Rackete et tant d’autres acteurs moins médiatisés montre que la solidarité n’est pas prête d’être étouffée.

      Liberté de circulation pour toutes et tous !

      http://www.migreurop.org/article2929.html

    • Accostage du « Sea Watch III » à Lampedusa : Carola Rackete, arrêtée mais célébrée

      La capitaine du « Sea Watch III », navire transportant une quarantaine de migrants, a été arrêtée samedi après avoir accosté de force à Lampedusa. Elle risque jusqu’à dix ans de prison.

      Quelques jours avant d’accoster à Lampedusa, elle avait dit au Spiegel : « Si nous ne sommes pas acquittés par un tribunal, nous le serons dans les livres d’histoire. » La capitaine allemande du Sea Watch III, navire affrété par l’ONG Sea Watch qui vient en aide aux migrants en Méditerranée, Carola Rackete, a été arrêtée dans la nuit de vendredi à samedi. Les autorités italiennes lui reprochent notamment d’avoir tenté une manœuvre dangereuse contre la vedette des douanes qui voulait l’empêcher d’accoster. Elle risque jusqu’à dix ans de prison pour « résistance ou violence envers un navire de guerre ». « Ce n’était pas un acte de violence, seulement de désobéissance, a expliqué Carola Rackete dimanche au Corriere della Sera. Mon objectif était seulement d’amener à terre des personnes épuisées et désespérées. J’avais peur. » « Après dix-sept jours en mer et soixante heures en face du port, tout le monde était épuisé, explique à Libération Chris Grodotzki de Sea Watch. L’équipage se relayait vingt-quatre heures sur vingt-quatre afin de surveiller les passagers pour les empêcher de se suicider. »

      Carola Rackete a débarqué sur l’île italienne sous un mélange d’applaudissements et d’éructations haineuses : « Les menottes ! », « Honte ! », « J’espère que tu vas te faire violer par ces nègres ». Le ministre de l’Intérieur italien, Matteo Salvini, s’est réjoui de l’arrestation. « Prison pour ceux qui ont risqué de tuer des militaires italiens, mise sous séquestre du navire pirate, maxi-amende aux ONG, éloignement de tous les immigrés à bord, désolé pour les "complices" de gauche. Justice est faite, on ne fera pas marche arrière ! »

      Si l’extrême droite italienne la qualifie de « criminelle », Carola Rackete suscite l’admiration en Allemagne. Celle que le Tagespiegel surnomme « l’Antigone de Kiel » est née tout près de ce port en bordure de la mer Baltique il y a 31 ans. « J’ai la peau blanche, j’ai grandi dans un pays riche, j’ai le bon passeport, j’ai pu faire trois universités différentes et j’ai fini mes études à 23 ans. Je vois comme une obligation morale d’aider les gens qui n’ont pas bénéficié des mêmes conditions que moi », avait-elle expliqué à La Repubblica. Avant de rejoindre Sea Watch il y a quatre ans, elle a participé à des expéditions pour l’Institut Alfred-Wegener pour la recherche polaire et marine, et pour Greenpeace. Elle effectue des sauvetages en mer depuis 2016.
      « Dans toute l’Europe elle est devenue un symbole »

      Ses proches la décrivent comme une femme calme et opiniâtre. « Carola […] sait toujours ce qu’elle fait et c’est une femme forte », a dit son père, Ekkehart Rackete, au Corriere della Sera. Chris Grodotzki de Sea Watch dépeint une personne « directe et pragmatique ». Dans une vidéo diffusée par l’ONG vendredi, à la question « Matteo Salvini a fait de vous sa principale ennemie, que répondez-vous ? » elle rétorque, impériale : « Pour être honnête, je n’ai pas eu le temps de lire les commentaires. Il y a 42 personnes à bord qui ont besoin qu’on s’occupe d’elles. » Car si les médias ont volontiers mis en scène le duel entre « la capitaine » et « Il Capitano » – surnom de Salvini en Italie –, elle ne souhaite pas incarner seule la résistance au ministre de l’Intérieur italien.

      De Rome à Berlin, elle reçoit un large soutien de l’opinion. « Dans toute l’Europe elle est devenue un symbole. Nous n’avons jamais reçu autant de dons », dit Chris Grodotzki, indiquant qu’en Italie une cagnotte avait recueilli dimanche près de 400 000 euros. En Allemagne, deux stars de la télévision, Jan Böhmermann et Klaas Heufer-Umlauf, ont également lancé une cagnotte samedi, avec ces mots : « Soutenons ensemble la capitaine emprisonnée Carola Rackete […] avec ce que nous avons par-dessus tout en Allemagne, l’argent. » 500 000 euros ont été récoltés en moins de vingt-quatre heures. Du président de l’Église évangélique, Heinrich Bedford-Strohm, au PDG de Siemens, Joe Kaeser, de nombreuses voix se sont élevées dans le week-end pour prendre sa défense.
      Des politiques allemands timorés

      Les politiques allemands ont donc fini par réagir. Samedi, le ministre SPD des Affaires étrangères, Heiko Maas, déclarait : « Sauver des vies est un devoir humanitaire. Le sauvetage en mer ne devrait pas être criminalisé. La justice italienne doit désormais clarifier rapidement ces accusations ». « Une phrase typique de diplomate allemand timoré, commente Chris Grodotzki de Sea Watch. Nous avons demandé un millier de fois à Heiko Maas de prendre position sur le sauvetage en mer, sans succès jusqu’ici. » Dimanche, le président allemand, Frank-Walter Steinmeier, affirmait dans une interview télévisée : « Celui qui sauve des vies ne peut pas être un criminel. »

      Les 40 migrants du Sea Watch III ont donc fini par débarquer à Lampedusa. Ils devraient être répartis entre cinq pays : la France, l’Allemagne, le Portugal, le Luxembourg et la Finlande. Ceux-là ne seront pas morts en Méditerranée, où 17 900 personnes ont péri entre 2014 et 2018 selon un récent rapport de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), et où demeurent toujours engloutis les restes de 12 000 personnes.

      https://www.liberation.fr/planete/2019/06/30/accostage-du-sea-watch-iii-a-lampedusa-carola-rackete-arretee-mais-celebr

    • L’ONORE DI DISOBBEDIRE – di Gad Lerner

      Di fronte a sé, stavolta, Salvini si ritrova un osso duro: Carola Rackete
      Vien da chiedersi: ma cosa penserà di Salvini la madre di Salvini? Quando, di fronte a quello che, comunque la si pensi, rimane un dramma umano, il suo Matteo scrive: «Non sbarca nessuno, mi sono rotto le palle. Lo sappia quella sbruffoncella». Esibendo l’ennesimo riferimento genitale viriloide in sfregio alla Capitana della Sea-Watch 3, Carola Rackete, lei sì disposta a rischiare per davvero, una giovane donna che lo ridimensiona a Capitano piccolo piccolo. Sbruffoncella? Non abbiamo piuttosto a che fare con un ministro sbruffone da osteria?
      Come nei videogiochi con cui egli si diletta nel cuore della notte, il responsabile dell’ordine pubblico scimmiotta la parodia della difesa dei confini nazionali bloccando un’imbarcazione di 50 metri con 42 naufraghi a bordo. E poi minaccia di erigere barriere fisiche (galleggianti?) a imitazione dei suoi modelli Orbán e Trump, o al contrario (sarebbe già meglio) di smettere l’identificazione e la registrazione degli sbarcati, di modo che possano proseguire il loro viaggio in direzione Nord Europa, da dove, così facendo, non potrebbero più essere rispediti a forza in Italia. Riposto nel taschino il rosario d’ordinanza, Salvini chiede «rispetto ai preti» e sfotte l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, colpevole di aver offerto l’ospitalità ai 42 naufraghi; mandandogli a dire che usi le sue risorse per 42 poveri italiani perché tanto quelli lì non sbarcheranno neanche a Natale. Sì, viene da chiedersi, senza volerle mancare di rispetto, cosa pensi in cuor suo la madre di Salvini di questo figlio che si compiace nell’esibizione pubblica dello scherno e della cattiveria addosso a persone che soffrono. Convinto, il ministro della propaganda, sbagliando, che chi plaude sghignazzando alle sue bravate sui social, rappresenti il comune sentire della nazione. Fa male i suoi conti.
      Anche ammettendo che i 9 milioni di voti leghisti — e sommateci pure quelli di Fratelli d’Italia e una quota dei berlusconiani — vivano come una liberazione l’indifferenza nei confronti di quei reduci dai campi di prigionia libici, ugualmente si tratta solo della minoranza arrabbiata di un Paese di 60 milioni di abitanti che resta assai migliore della raffigurazione che Salvini ne fornisce ogni sera dagli schermi televisivi. Dovrà fare i conti con un’Italia, certo, intimidita, ammutolita dall’accanimento con cui vengono liquidate le figure di riferimento che predicano l’umanitarismo e la solidarietà, un’Italia che vive con crescente disagio la spirale del turpiloquio e dell’ostentazione di cinismo.
      La fandonia secondo cui coloro che praticano il salvataggio in mare sarebbero «complici dei trafficanti di esseri umani», è un veleno sparso da anni senza una sola prova a carico delle Ong. Complici dei trafficanti di esseri umani sono i politici di ogni colore che — a partire dalla legge Bossi-Fini con cui fu interdetta ogni forma di immigrazione legale — hanno concesso alle organizzazioni criminali il monopolio sulle rotte.
      Complici dei trafficanti di esseri umani sono i governanti che hanno revocato il pattugliamento delle acque internazionali da parte della nostra Marina. Complici specialmente odiosi, quando fingono di averlo fatto per il bene dei migranti che muoiono sempre più numerosi di sete e di fame, anziché annegati, scaricati lungo le piste del Sahel e del Sahara, o schiavizzati nei campi di concentramento a custodia dei quali agiscono gli stessi trafficanti.
      Di fronte a sé, stavolta, Salvini si ritrova un osso duro: Carola Rackete. Durerà fatica a millantare che la comandante della Sea-Watch 3 sia l’ingranaggio della finanza mondialista nemica del popolo italiano, o magari un’avventuriera bolscevica. La disobbedienza civile con cui la Capitana ha deciso di sfidare il Capitano piccolo piccolo e il suo Decreto Sicurezza bis che criminalizza il soccorso in mare, è la più classica forma di omaggio alla legalità sostanziale, fondata sul rispetto delle norme internazionali sancite dal diritto del mare.
      Salvini finge di non saperlo, ma per settimane di fronte al porto tunisino di Zarzis è rimasto bloccato dalle autorità locali il rimorchiatore Maridive 61 con 75 migranti a bordo, prima che ne fosse autorizzato lo sbarco. Altro che Tunisia approdo sicuro. Davvero qualcuno crede che il problema dei migranti si risolverà rispedendoli in Africa?
      Certo, è vero che il governo gialloverde ha gioco facile a ricordare le colpevoli inadempienze degli altri paesi dell’Ue, ma da quando le inadempienze altrui possono giustificare le nostre?
      Carola Rackete è una cittadina europea che tenta coraggiosamente, a suo rischio e pericolo, di riscattare il disonore dei governanti dell’Unione. Di tutti noi. Lo ricordino i dirigenti del Pd che oggi si precipitano a Lampedusa, ma il cui ultimo governo inaugurò quell’opera di denigrazione delle Ong che ha prodotto i guasti da cui oggi muove la loro ripulsa morale. Ci sono valori inderogabili ai quali è dovuta venire a richiamarci, lì in mezzo al mare, una giovane donna capace di ascoltare la voce di chi soffre.

      http://www.bocchescucite.org/lonore-di-disobbedire-di-gad-lerner

    • Antonello Nicosia, Direttore dell’Osservatorio Internazionale dei Diritti Umani, scrive alla Gip #Alessandra_Vella e Carola Rakete

      “Due donne colte, coraggiose, determinate, sicure di sé – scrive il Dott. Nicosia – sedute l’una difronte all’altra hanno saputo dimostrare quanto la forza del buon senso abbia avuto un’ energia superiore a qualsiasi auspicato “perbenismo sociale” rivolto al rispetto di supposte leggi. Lo chiamerei, più che altro, mera e futile ipocrisia. “Una nave che soccorre migranti non può essere giudicata offensiva per la sicurezza nazionale”, queste sono le parole utilizzate dal Gip, Alessandra Vella. Già lo stesso verbo, “soccorrere”, è perspicuo, illumina sul grado di civiltà di una determinata società. L’ atto del soccorrere è intriso di buon senso, consapevolezza, buon vivere civile. Sanzionare un tal gesto a che pro? Quale messaggio viene veicolato alle nuove generazioni così facendo?

      Xenofobia, xenofobia “claustrofobica”, che soffoca l’uomo, che marcisce ed esplode nel chiuso di una mente, la cui veduta non apre orizzonti, ma li sbarra.

      Questa brutta vicenda – prosegue il Direttore dell’Osservatorio Internazionale dei Diritti Umani – mi riporta alla memoria l’azione del presidente statunitense Woodrow Wilson, il quale, alla fine della prima guerra mondiale, redige il suo programma di pace in 14 punti. Tra questi ultimi emerge e si staglia con fermezza la libertà di navigazione. Libertà intesa come agevolazione dei commerci, la cui base doveva essere la riduzione delle barriere doganali, precedentemente imposte.

      Il mare che unisce, il mare che crea libero scambio, il mare che apre un orizzonte pronto per essere solcato.

      Voglio continuare ad insegnare questa storia alle generazioni future, voglio parlare di menti grandi ed eccelse. Di uomini, donne con un coraggio così forte e grande da annullare qualsivoglia remore o paura.

      Voglio raccontare la storia di due donne, il cui valore comune di sicurezza dell’essere umano ebbe dato l’input per andare oltre una politica votata agli utilizzi di escamotage.

      Desidero una società la cui umanità emerga da ogni crepa – conclude Nicosia – avendo sempre ben fisso un unico scopo, un comune obiettivo: il rispetto dei diritti umani.”

      http://www.lavalledeitempli.net/2019/07/03/antonello-nicosia-direttore-dellosservatorio-internazionale-dei-di

  • « Ils m’ont #insultée, #humiliée, #frappée, j’ai eu le droit à la #rangers sur le visage écrasé »
    https://www.revolutionpermanente.fr/Ils-m-ont-insultee-humiliee-frappee-j-ai-eu-le-droit-a-la-range
    #acte_XVIII
    #violences_policieres

    Arrivée au #commissariat dans le 5 ème pendant plus de 2 h, ils ont cherché les clés sans avoir lu mes droits ou signé ma GAV. Avec 2 policiers nous avons fait le tour du 5 ème jusqu’au Sénat voir leur collègue gendarme s’ils avaient les clés..... La blague.... Cette personne nous apprend que c’était impossible d’avoir ces clés vu que les menottes n’étaient #pas_conformes, que leur collègue avait dû perdre ses #menottes et en acheter d’autres sans les déclarer... Vous pensez bien qu’au bout de plus d’une heure tout le monde perdait patience !!! Arrivée de retour au commissariat du 5 ème ils ont décidé de me les couper photo et vidéo à la suite.. Mise en GAV dans une cellule avec 4 autres filles où 2 n’avaient fait que sortir du métro sans aller à une manifestation

  • #Violences_policières : « On est dans le #mensonge_d’Etat »

    Pour #David_Dufresne (@davduf), spécialiste de la question du #maintien_de_l’ordre, la #répression menée contre les « #gilets_jaunes » « laissera des traces dans toute une génération ».

    Hémorragie cérébrale d’un homme de 47 ans à Bordeaux, traumatisme facial d’un manifestant à Toulouse, fracture au front d’un lycéen à Orléans… L’écrivain et documentariste David Dufresne, auteur de l’enquête Maintien de l’ordre (Fayard, 2013), recense et signale les bavures policières observées lors des manifestations des « gilets jaunes ». Il dénonce le « déni politique et médiatique » de ces violences, selon lui profondément « antirépublicain ».

    Quelle est la particularité de la gestion du maintien de l’ordre en #France ?

    David Dufresne : Pendant longtemps, la France a été considérée comme la championne du maintien de l’ordre, pour une raison simple : face à des manifestations particulièrement nombreuses dans le pays, la police est entraînée. Sauf que c’est aujourd’hui un #mythe, qui s’est écroulé sous nos yeux. Le maintien de l’ordre est devenu depuis une dizaine d’années extrêmement offensif, brutal, avec des policiers qui vont au contact. Jusqu’ici, la clé était de montrer sa #force pour ne pas s’en servir.

    En Allemagne, en Angleterre, les forces de maintien de l’ordre ont mis en place tout un processus de dialogue avec les manifestants, et de #désescalade. La France a fait le choix inverse, dont découlent ces drames : environ 2 000 manifestants blessés depuis le début du mouvement des « gilets jaunes », à la mi-novembre.

    La France utilise par exemple des #armes proscrites ailleurs en Europe pour ce type d’interventions, et considérées par certains fabricants comme des armes de guerre : les# lanceurs_de_balles_de_défense [les « #Flash-Ball » font partie de cette famille, mais ne sont plus utilisés que par certains policiers municipaux], les grenades #GLI-F4, qui contiennent une petite dose de #TNT et arrachent des mains. Celles-ci sont d’autant plus dangereuses qu’elles ne sont pas létales et donc utilisées de manière massive par des policiers qui pensent, de bonne foi, qu’ils ne vont pas tuer. Mais l’on assiste à des #mutilations en série, qui font le déshonneur du maintien de l’ordre à la française. Le mythe, sur lequel les politiques continuent de surfer, ne résiste pas aux faits.

    Vous effectuez un comptage des #blessés, quel est votre objectif ?

    Ce #recensement est parti d’un effet de sidération devant les violences policières exercées et devant le #silence politique et médiatique. C’est une démarche de documentariste, d’observateur de la police et de lanceur d’alerte. J’essaie de contextualiser au mieux les images que je repère. De plus en plus, les victimes ou leur famille m’envoient directement des informations. Je signale au ministère de l’intérieur les #violences, mais aussi les manquements à la #déontologie_policière. Tous ceux qui sont blessés au visage peuvent porter #plainte, car, comme l’expliquent les manuels de maintien de l’ordre, il est interdit de viser la tête.

    Sur les 300 signalements recensés [sur son compte Twitter], je compte au moins 100 #blessés_graves, dont une quinzaine de personnes éborgnées et plusieurs mains arrachées, mais aussi des #insultes et #menaces lancées par des policiers ou encore des destructions de téléphones portables. Les émeutes de 2005 se sont déroulées tous les jours, toutes les nuits, trois semaines durant, et elles ont engendré moins de débordements que lors des manifestations hebdomadaires des « gilets jaunes ».

    Que retenez-vous de ce silence autour des violences policières ?

    Aujourd’hui, ce n’est plus du silence, c’est du #déni. M. #Castaner lui-même [le ministre de l’intérieur], lundi soir, nous explique qu’il ne connaît « aucun policier qui ait attaqué un “gilet jaune” » : on est dans le mensonge d’Etat. Il y a bien des violences policières, elles sont gravissimes. Il faut remonter à octobre 1961 pour arriver à un tel déchaînement – sans comparer la situation actuelle avec les morts de la répression au métro Charonne et les Algériens jetés dans la Seine.

    La police républicaine ne peut pas tirer sur la foule sans avoir de comptes à rendre. Mais j’ai reçu quelques procès-verbaux d’audition à l’#IGPN [inspection générale de la police nationale] : elle va faire son travail d’étouffoir. Pourtant, 78 plaintes sont instruites, beaucoup plus que lors des manifestations contre la loi travail ou les émeutes de 2005, ce qui montre l’étendue des dégâts. Il y a une gêne de la police.

    Le silence médiatique fait aussi partie de la violence exercée, c’est ce qui remonte des témoignages que j’ai reçus. La police s’autorise aussi ces coups parce qu’il n’y a pas de répercussion médiatique. Ce déni politique et médiatique est antirépublicain.

    Quel est le lien entre politique et maintien de l’ordre ?

    Ce lien s’explique par l’histoire. La France est un pays de contestation. La fête nationale, c’est la prise de la Bastille, une émeute. Pour le maintien de l’ordre, la police agit sur ordre politique. Les préfets, donc l’Etat, et non pas les commissaires, décident du déploiement des forces. Ceux-ci prennent leurs ordres auprès du ministère de l’intérieur, qui les prend à l’Elysée.

    Répondre massivement aux manifestations des « gilets jaunes » est donc un #choix_politique. L’Etat fait appel à des policiers qui ne sont pas formés au maintien de l’ordre : de la #BAC [#brigade_anticriminalité], de la #BRI [#brigades_de_recherche_et_d’intervention], des #gardiens_de_la_paix… Ils ont l’habitude d’être face à des délinquants, pas des manifestants. Pour eux, la #foule est délinquante. C’est un point clé pour comprendre la centaine de blessés graves.

    Comment la doctrine a-t-elle évolué avec la crise des « gilets jaunes » ?

    J’observe que les forces de l’ordre visent de plus en plus les journalistes, empêchent les secouristes volontaires d’agir, et cassent volontiers des #téléphones_portables de personnes qui filment, comme dans une volonté d’empêcher toute #documentation des événements.

    C’est une doctrine qui va vers l’#affrontement, et donc extrêmement dangereuse. Elle laissera des traces dans toute une génération. Tous ceux qui manifestent aujourd’hui se souviendront de cette #répression_policière, qui est terrifiante.

    L’appel à des policiers non formés, le recours à des armes dangereuses, des crispations et une fatigue des forces de l’ordre, des discours martiaux du politique et un déni par Castaner de ce qui se passe – c’est un cocktail explosif. On a complètement changé d’échelle : le nombre d’interpellations, de gardes à vue, de tirs, de policiers mobilisés…

    La sortie se fera par le politique, pas par la répression, c’est évident. Tous les samedis, des gens partent manifester en sachant qu’ils peuvent perdre un œil. Tout est fait pour les dissuader de venir, ils viennent quand même.


    https://www.lemonde.fr/societe/article/2019/01/16/violences-policieres-on-est-dans-le-mensonge-d-etat_5409824_3224.html
    #bavures_policières #déni_politique #déni_médiatique

  • La semaine dernière, mon ministre #Blanquer nous enjoignait par courriel à « tenir » nos élèves de #lycée et leur rappeler le « danger grave » qu’ils et elles courent en allant manifester contre sa #réforme.
    Cette semaine, c’est le rectorat qui me propose de devenir prof d’informatique en seulement 4 jours de formation !!! #foutage_de_gueule #insulte aux métier de prof et aux élèves

    À compter de la prochaine rentrée scolaire, de nouveaux enseignements liés au numérique verront le jour. Pour accompagner les enseignants, des actions de formation seront mises en place prochainement.
    Enseignement Sciences numériques et technologie en 2de :
    Une formation en présentiel de 4 jours est envisagée en mai-juin, sur une dizaine de regroupements géographiques dans l’académie. Une formation en ligne ouverte à tous (MOOC) sera par ailleurs accessible à partir du printemps 2019.
    Tout professeur ayant une maitrise suffisante des contenus du programme de cet enseignement, ou qui peut l’acquérir en suivant la formation, peut être susceptible de dispenser cet enseignement, quelle que soit sa discipline de recrutement.

  • En #Bosnie, Ajnas se bat pour les #enfants de la #honte

    En #Bosnie-Herzégovine, on les appelle les « #enfants_invisibles ». Ce sont les bébés nés de viols commis pendant la guerre de Yougoslavie – par des soldats ennemis, mais aussi par des Casques bleus. Ajna Jusic est l’un de ces enfants de la honte, qui seraient entre 2 000 et 4 000 dans le pays...

    La jeune femme, à qui la mère a longtemps caché sa véritable histoire, lutte aujourd’hui pour faire reconnaître ces personnes, discriminées par la société, comme victimes de guerre officielles.

    https://www.arte.tv/fr/videos/079474-003-A/arte-regards
    #guerre #histoire #ex-Yougoslavie #viols #viols_de_guerre #femmes #invisibilité #discriminations #égalité_de_traitement #victimes_de_guerre #préjugés #rejet #insultes #adoption #exclusion #traumatisme #culpabilisation #stigmatisation #santé_mentale #reportage #documentaire #film

    Les mots très forts de Ajna Jusic :

    « Les dégâts causés par la guerre n’ont pas de nationalité, ni d’ethnie. Le viol n’a rien à voir avec la nationalité, c’est une expérience traumatisante et c’est comme tel qu’il faut le traiter »

    #nationalisme

  • Bonjour à tout·es.

    Craignant qu’un jour, peut-être, qui sait, on ne sait jamais dans la vie, mes commentaires au post de @ninachani vont disparaître car elle décide d’effacer son message... J’ai décidé, aujourd’hui, de copier-coller ici tous les message (yes, je suis folle !) et d’alimenter donc un post qui est le mien et que je peux donc mieux « contrôler ».
    Cela ouvre évidemment le débat (qui probablement est déjà en cours) sur l’archivage et le stockage, les sauvegardes possibles des informations qui circulent sur @seenthis.

    Il s’agit de la longue compilation sur #Briançon et les #réfugiés, que pas mal de seenthisiens suivent.

    J’alimenterais désormais cet argument à partir de ce post.
    A bon entendeur... pour celles et ceux qui aimerait continuer à suivre la situation de cette portion de la #frontière_sud-alpine.

    • « Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige » - Libération

      De 1 500 à 2 000 migrants arrivés d’Italie ont tenté une dangereuse traversée des Alpes depuis trois mois. Traqués par les autorités, ils voient les villageois s’organiser pour leur venir en aide.
      Col de Montgenèvre, à 1 850 mètres d’altitude sur la frontière franco-italienne, samedi soir. Le thermomètre affiche -8 degrés sous abri, il y a près de 80 centimètres de neige fraîche. Joël (1), accompagnateur en montagne, court aux quatre coins de la station de ski située sur le côté français du col. Il croise deux migrants, des jeunes Africains égarés dans une rue, les met au chaud dans son minibus, puis repart. Dans la nuit, un hélicoptère tourne sans discontinuer au-dessus du col : la police de l’air et des frontières ? Depuis des mois, les forces de l’ordre sont à cran sur les cols des Hautes-Alpes. Elles tentent d’intercepter les migrants afin de les reconduire à la frontière où, majeurs ou non, ils sont déposés sur le bord de la route quelles que soient les conditions climatiques.
      Joël trouve trois autres migrants planqués dans la neige, apeurés, grelottant, baskets légères et jeans trempés raidis par le gel, puis sept autres encore, dont plusieurs frigorifiés. La « maraude » du montagnard lui aura permis ce soir de récupérer onze jeunes Africains. Peu loquaces, hébétés, ils disent avoir marché plusieurs heures depuis l’Italie pour contourner le poste frontière de Montgenèvre. Ils arrivent du Sénégal, du Cameroun ou du Mali, tous sont passés par la Libye et ont traversé la Méditerranée.

      Miraculé.
      Joël les descend dans la vallée, à Briançon, sous-préfecture située à 10 kilomètres de là. Ils sont pris en charge par les bénévoles du centre d’hébergement d’urgence géré par l’association Collectif refuge solidarité : bains d’eau chaude pour les pieds, vêtements secs, soupe fumante… Autour de ce refuge, où se succèdent jour après jour des dizaines de migrants, gravitent une centaine de bénévoles, citoyens de la vallée, qui se relaient auprès de ces jeunes hommes, africains dans leur immense majorité. Ces trois derniers mois, ils sont sans doute de 1 500 à 2 000 à avoir transité par Briançon, tous arrivés par la montagne, estime Marie Dorléans, du collectif local Tous migrants.

      Si ce samedi soir tout s’est passé sans drame au col de Montgenèvre (qui reste ouvert tout l’hiver), ce n’est pas le cas dimanche matin du côté du col frontalier de l’Echelle, à quelques kilomètres de là (fermé tout l’hiver en raison de la neige). D’autres maraudeurs, membres comme Joël, du même réseau informel d’une quarantaine de montagnards professionnels et amateurs, découvrent sous le col un jeune Africain originaire de Guinée-Conakry, Moussa. Il est à bout de forces, affalé dans la neige à près de 1 700 mètres d’altitude. Il a perdu ses chaussures : ses pieds sont insensibles, gelés. Il a quitté l’Italie avant l’aube. C’est un miraculé. Les maraudeurs appellent le secours en montagne qui l’héliporte très vite vers l’hôpital de Briançon. Anne Moutte, l’une des accompagnatrices du réseau, multiplie les maraudes depuis un an : « Les soirs où nous ne sortons pas, nous ne dormons pas bien. Peut-être qu’au printemps, on retrouvera des corps sous la neige. Ces jeunes n’ont aucune idée des risques de la montagne, des effets du froid. Ils ne font pas demi-tour. »

      Cache-cache.
      A Névache, le premier village au pied du col de l’Echelle, il y a des mois que l’on vit au rythme de l’arrivée des migrants. Lucie (1) fait partie d’un groupe d’une trentaine de villageois qui se sont organisés spontanément pour les accueillir, en toute discrétion et avec une efficacité remarquable. D’une voix décidée, elle explique : « Ils arrivent en pleine nuit au village, affamés, frigorifiés, épuisés, blessés parfois. On ne va pas les laisser repartir dans la nuit et le froid à travers la montagne ! On les nourrit, on les réchauffe, on leur donne un lit. C’est du simple bon sens, ça coule de source. Notre seul but, c’est qu’il n’y ait pas de morts ni de gelés près de chez nous. »

      Les migrants redoutent les gendarmes qui les reconduisent en Italie. Alors, Lucie et le réseau névachais les gardent le temps qu’ils se retapent et les aident ensuite à gagner la vallée. A pied, en voiture, un cache-cache stressant avec les gendarmes, avec lesquels les rapports sont très tendus. A Névache comme à Briançon, les fouilles de véhicules sont devenues ces derniers mois la règle et les bénévoles surpris avec des migrants à bord de leur voiture sont convoqués pour des auditions, sous la charge « d’aide à la circulation de personnes en situation irrégulière ». Anne Moutte, l’accompagnatrice maraudeuse, s’emporte : « C’est l’Etat, le préfet et les forces de l’ordre qui se rendent coupables de non-assistance à personne en danger ! »

      A lire aussi Migrants : de plus en plus dur

      « Cimetière ».
      Ce week-end, le collectif Tous migrants organisait à Briancon des « états généraux des migrants ». Des débats, des échanges avec le journaliste Edwy Plenel, l’agriculteur activiste de la Roya Cédric Herrou, des chercheurs, des élus, des militants. Marie Dorléans, présidente de Tous migrants, résume : « Nous voulons nourrir le débat sur notre devoir d’hospitalité, sur une autre politique migratoire, mais nous avons aussi un devoir face à une urgence humanitaire. Nous avons tous peur d’un drame sur nos cols. La militarisation massive de la frontière conduit les migrants à des prises de risques inconsidérées. » Ce sont les professionnels de la montagne, accompagnateurs, guides, pisteurs, moniteurs qui ont porté ce dernier message.

      Constitués en un collectif « SOS Alpes solidaires », ils ont regroupé 300 personnes symboliquement encordées sur les pentes du col de l’Echelle dimanche pour lancer un appel solennel : « La Méditerranée ne stoppe pas des personnes qui fuient leur pays. La montagne ne les stoppera pas non plus, surtout qu’ils en ignorent les dangers. Nous refusons que les Alpes deviennent leur cimetière. » Stéphanie Besson, l’un des piliers de l’appel, enfonce le clou : « Nous demandons à l’Etat de nous laisser faire notre devoir de citoyens. Qu’il cesse de nous empêcher de venir au secours de personnes en danger. Que nos cols soient démilitarisés si l’on ne veut pas y laisser mourir ou geler les migrants. » Quelques minutes plus tard, l’hélicoptère du secours en montagne survole la manifestation avec à son bord le jeune Moussa miraculé du jour. Sauvé par des montagnards solidaires et déterminés.

      (1) Les prénoms ont été changés.

      https://www.liberation.fr/france/2017/12/17/peut-etre-qu-au-printemps-on-retrouvera-des-corps-sous-la-neige_1617327/?redirected=1