• Un asterisco sul genere

    È ormai divenuto molto alto il numero dei quesiti pervenutici su temi legati al genere: uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; genere grammaticale da utilizzare per transessuale e legittimità stessa di questa parola. Cercheremo in questo intervento di affrontare le diverse questioni.

    Risposta

    Premessa
    Le domande che ci sono state poste sono tante e toccano argomenti abbastanza diversi tra loro. Abbiamo preferito raccoglierle tutte insieme perché c’è un tema di fondo che le accomuna: la questione della distinzione di genere, anche al di là della tradizionale opposizione tra maschile e femminile. Anzitutto, due precisazioni: 1) tratteremo esclusivamente delle questioni poste dalle varie domande che ci sono pervenute, senza tener conto dei numerosissimi interventi sul tema, che ormai da vari mesi alimenta discussioni e polemiche anche molto accese sulla stampa e soprattutto in rete; 2) la nostra risposta investe il piano strettamente linguistico, con riferimento all’italiano (non potrebbe essere che così, del resto, visto che le domande sono rivolte all’Accademia della Crusca, ma ci pare opportuno esplicitarlo). Ci sembra doveroso premettere ancora una cosa: la maggior parte di coloro che ci hanno scritto – anche chi esprime la propria contrarietà all’uso di asterischi o di altri segni estranei alla tradizionale ortografia italiana – si mostra non solo contraria al sessismo linguistico e rispettosa nei confronti delle persone che si definiscono non binarie, ma anche sensibile alle loro esigenze. E questo è senz’altro un dato confortante, che va messo in rilievo.

    Genere naturale e genere grammaticale
    Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale. Lo rilevavano nel 1984, a proposito del francese, Georges Dumézil et Claude Lévi-Strauss, incaricati dall’Académie Française di predisporre un testo su “La féminisation des noms de métiers, fonctions, grades ou titres” (‘la femminilizzazione dei nomi di mestieri, funzioni, gradi o titoli’). Non entriamo qui nella tematica della distinzione tra sesso biologico e identità di genere, su cui torneremo, almeno marginalmente, più oltre; ci limitiamo a ricordare che negli studi di psicologia e di sociologia il genere indica l’“appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali” (questa la definizione del GRADIT); tale accezione del termine, relativamente recente, è calcata su uno dei significati del corrispondente inglese gender, quello che indica appunto l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico (gli studi di genere o gender studies sono nati negli Stati Uniti negli anni Settanta, su impulso dei movimenti femministi).

    Che il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale si può dimostrare facilmente: è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno; può inoltre prevedere, nei nomi, una differenziazione in classi che in certi casi non sfrutta e in altri va ben oltre la distinzione tra maschile e femminile propria dell’italiano (dove riguarda anche articoli, aggettivi, pronomi e participi passati) perché, oltre al neutro (citato in molte domande pervenuteci, evidentemente sulla base della conoscenza del latino), esistono, in altre lingue, vari altri generi grammaticali, determinati da criteri ora formali ora semantici; infine, come avviene in inglese, può limitarsi ai pronomi, senza comportare quell’alto grado di accordo grammaticale che l’italiano prevede.

    Neppure in italiano si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne. Arlecchino è una maschera, come Colombina (anche se Carlo Goldoni nelle Donne gelose gli fa usare il maschile màscaro e nei Rusteghi le donne in scena parlano di màscara omo per riferirsi al conte Riccardo e si rivolgono con siora màscara dona a Filippetto, entrato a casa di Lunardo in abiti femminili), mentre Mirandolina è un personaggio, come il Cavaliere di Ripafratta, che di lei si innamora. Vero è che nel parlato spostamenti di genere nell’àmbito dei nomi in rapporto al sesso del referente ci sono stati: da modello si è avuto modella (cfr. Anna M. Thornton, La datazione di modella, in “Lingua nostra”, LXXVI, 2015, pp. 25-27); si parla di un tipo ‘un tale’ ma anche di una tipa (Miriam Voghera, Da nome tassonomico a segnale discorsivo: una mappa delle costruzioni di tipo in italiano contemporaneo, in “Studi di Grammatica Italiana”, XXIII, 2014, pp. 197-221); accanto a membro si sta diffondendo membra (Anna M. Thornton, risposta nr. 7, in “La Crusca per voi”, 49, 2014, pp. 14-15); dall’altra parte, dal femminile figura deriva il maschile figuro (ma con una connotazione negativa). Abbiamo poi i cosiddetti nomi “di genere comune”, che non cambiano forma col cambio di genere, perché la distinzione è affidata agli articoli nei casi di cantante, preside, custode, consorte, coniuge (con cui molti di noi hanno familiarizzato attraverso la denuncia dei redditi, che parla ellitticamente di dichiarante e di coniuge dichiarante senza precisare i rispettivi sessi). Passando al mondo animale, distinguiamo, è vero, il montone o ariete e la pecora (ma il plurale le pecore si riferisce spesso al gregge e comprende quindi anche i montoni), il gatto e la gatta, il gallo e la gallina, il leone e la leonessa, ma nella maggior parte dei casi il nome, maschile o femminile che sia, indica tanto il maschio quanto la femmina (la lince, il leopardo, la iena, la volpe, il pappagallo, la gazza, il gambero, la medusa, ecc., nomi che la tradizione grammaticale indica come “epiceni”; lasciamo da parte l’esistenza di formazioni occasionali come il tartarugo e il ricorso non alla flessione, ma alla tecnica analitica, come in la tartaruga maschio, che è sicuramente possibile, ma marginale all’interno del sistema). Quanto alle cose inanimate, è evidente che il genere femminile di sedia, siepe, crisi e radio e il maschile di armadio, fiore, problema e brindisi non si possano legare in alcun modo al sesso, che le cose naturalmente non hanno.

    Il neutro
    Chi, tra coloro che ci hanno scritto, propone di far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone che si definiscono non binarie, citando il latino, non tiene presente da un lato che l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile, dall’altro che in latino (e in greco) il neutro non si riferisce se non eccezionalmente a esseri umani (accade con alcuni diminutivi di nomi propri) e neppure agli dei: venus, -eris ‘bellezza, fascino’ (da cui venustas), che era neutro come genus, -eris, diventò femminile come nome proprio di Venere, la dea della bellezza. D’altra parte, per venire all’attualità, anche in inglese il rifiuto dei pronomi he (maschile) e she (femminile) da parte delle persone non binarie non ha comportato l’adozione del pronome neutro it, presente in quella lingua ma evidentemente inutilizzabile con riferimento ad esseri umani, bensì l’uso del “singular they”, cioè del pronome plurale ambigenere they (e delle forme them, their, theirs e themself/themselves), come pronome singolare non marcato. Anche l’introduzione in svedese nel 2012, accanto al pronome maschile han e al femminile hon, del pronome hen, usato per esseri umani in cui il sesso non è definito o non è rilevante, si inserisce senza difficoltà nel sistema di quella lingua, in cui un genere “comune” (o “utro”), che non distingue tra maschile e femminile, si contrappone al genere neutro e l’opposizione tra maschile e femminile si ha solo nei pronomi personali di terza persona singolare.

    Il maschile plurale come genere grammaticale non marcato
    Un altro dato da ricordare è che nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi” o “mamma e papà sono usciti”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”), a meno che non aggiunga “maschi” (cfr. l’intervento di Anna M. Thornton sul Magazine Treccani). Se in passato poteva capitare (oggi mi risulta che avvenga più di rado) che a un alunno indisciplinato si richiedesse di tornare a scuola il giorno dopo “accompagnato da uno dei genitori”, poteva essere sia il papà sia la mamma a farlo (e lo stesso valeva nel caso della dicitura al singolare, “da un genitore”, sebbene questo termine abbia anche il femminile genitrice, di uso peraltro assai più raro rispetto al maschile).

    Lingue naturali, processi di standardizzazione e dirigismo linguistico
    C’è poi un’altra questione di carattere generale che va tenuta presente: ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema “costruito a tavolino” come sono le lingue artificiali (un esempio ne è l’esperanto), è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti: è vero che molte lingue hanno subìto un processo di standardizzazione per cui, tra forme coesistenti in un certo arco temporale, alcune sono state selezionate, considerate corrette e destinate allo scritto e all’uso formale e altre censurate e giudicate erronee, o ammesse solo nel parlato o in registri informali e colloquiali; ma in questo processo la scelta (che può anche cambiare nel corso del tempo) avviene sempre nell’àmbito delle possibilità offerte dal sistema. Soltanto nel caso della scrittura (che infatti non si apprende naturalmente, ma va insegnata) è possibile imporre norme ortografiche che si discostino dalla pronuncia reale: per questo la stampa e la scuola hanno avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nella costituzione della norma standard scritta. Non c’è dunque da meravigliarsi se alcune proposte di soluzione del problema della distinzione di genere abbiano riguardato, almeno in prima istanza, la grafia, più suscettibile di cambiamenti. Ma ormai da tempo l’ortografia italiana è da considerarsi stabilizzata, il rapporto tra grafia e pronuncia non presenta particolari difficoltà (basta prendere a confronto l’inglese e il francese) e i dubbi si concentrano quasi esclusivamente sull’uso dei segni paragrafematici (accenti, apostrofi, ecc.). Questo non esclude che, almeno in àmbiti molto precisi come la scrittura in rete e quella dei messaggini telefonici, si possano diffondere usi grafici particolari, spesso peraltro transitori; ma il legame sistematico tra grafia e pronuncia, così tipico dell’italiano, non dovrebbe essere spezzato. In ogni caso, la storia ci ha offerto non di rado, anche di recente (in altri Paesi), esempi di riforme ortografiche dovute a interventi dell’autorità pubblica. Ogni tanto, specie nei regimi totalitari, la politica è intervenuta anche ad altri livelli della lingua, ma quasi mai è andata a violare il sistema. E poi il “dirigismo linguistico” (di cui, secondo alcuni, anche il “politicamente corretto” raccomandato alla pubblica amministrazione costituirebbe una manifestazione) assai di rado ha avuto effetti duraturi. Al riguardo possiamo citare un caso che entra, se pure lateralmente, proprio nella questione che stiamo trattando: quello degli allocutivi.

    Gli allocutivi (tu, voi, lei) e la tematica del genere
    Il latino conosceva un unico pronome per rivolgersi a un singolo destinatario, maschio o femmina che fosse: tu (al nominativo e al vocativo; tui, al genitivo; tibi, al dativo; te, all’accusativo e ablativo) e l’uso si è conservato, praticamente senza soluzione di continuità, a Roma, nel Lazio e lungo la corrispondente dorsale appenninica. In età imperiale cominciò a diffondersi il vos come forma di rispetto, da cui il voi dell’italiano antico, vivo tuttora in area meridionale. In età rinascimentale, sull’onda della diffusione (per influsso dello spagnolo) di titoli come vostra eccellenza, vostra signoria, vostra maestà, ci fu un altro cambiamento e si iniziò a usare, come forma di cortesia, anche il lei (ella, per la verità, almeno all’inizio, come soggetto e nell’uso allocutivo), che prima affiancò (a un livello di maggiore formalità) il voi e poi, in età contemporanea, ha finito col sostituirlo. Il fascismo cercò invano di bandire l’uso del lei (considerato uno “stranierismo” proprio della “borghesia”) e di imporre l’“autoctono” voi. Col crollo del regime, il voi è restato, come si è detto, solo nell’uso meridionale (dove il lei aveva avuto minore diffusione) ed è piuttosto l’espansione del tu generalizzato a contrastare il lei di cortesia, che peraltro resiste benissimo in situazioni anche solo mediamente formali.

    Proprio il lei di cortesia ci documenta un’altra mancata corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. Lei è un pronome femminile, ma lo si dà anche a uomini (lei è un po’ pigro, signore!. come lei è un po’ pigra, signora!); non solo, ma quando si usano le corrispondenti forme atone la e le l’accordo al femminile investe spesso anche il participio o l’aggettivo. Se è normale, rivolgendosi a un docente di sesso maschile, dire professore, oggi vedo che è molto occupato, si dice però comunemente professore, l’ho vista ieri (e non l’ho visto ieri) entrare in biblioteca. Insomma, anche l’allocutivo di cortesia dello standard è un esempio di come il maschile e il femminile grammaticali non corrispondano sempre, neppure in italiano, ai generi naturali.

    La lingua tra norma, sistema e scelte individuali
    Chi si rivolge all’Accademia della Crusca (la quale peraltro non ha alcun potere di indirizzo politico, diversamente dall’Académie Française e dalla Real Academia Española, che hanno un ruolo ben diverso sul piano istituzionale) pensa alla lingua considerando la “norma” in senso prescrittivo (in molti quesiti ricorrono infatti parole come corretto e correttezza, propri della grammatica normativa e scolastica) oppure facendo riferimento agli usi istituzionali dell’italiano, non all’uso individuale di singoli o di gruppi ristretti. Ma neppure in questo secondo caso le scelte sono completamente libere, perché chi parla o scrive deve comunque far riferimento a un sistema di regole condiviso, in modo da farsi capire e accettare da chi ascolta o legge. Si può segnalare, per dimostrare la libertà che è concessa alle scelte individuali (specie nel caso della lingua letteraria), un passo di Luigi Pirandello che gioca sul genere grammaticale di una coppia di parole come moglie e marito (e non importa ora il suo possibile inserimento in una tradizione letteraria misogina ben nota). Il brano è citato in un importante studio della compianta accademica Maria Luisa Altieri Biagi (La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 173), una dei “maestri” della linguistica italiana (usiamo intenzionalmente il maschile plurale, che in questi casi, a nostro parere, è quasi una scelta obbligata per indicare un’eccellenza femminile in un ambiente a maggioranza maschile):

    Il protagonista di Acqua amara ha le sue idee, in fatto di morfologia. Se toccasse a lui modificarla, la adeguerebbe a una sua sofferta esperienza di vita:

    Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile? Nossignore. La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte [...] Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatica ragionata, come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito. (Nov., I, p. 274).

    La mozione
    La norma dell’italiano contempla un’ampia gamma di possibilità nel caso della mozione, cioè del cambiamento di genere grammaticale di un nome in rapporto al sesso. È un tema che sulle pagine del sito della nostra Consulenza è stato spesso affrontato perché moltissime sono le domande che sono arrivate e che continuano ad arrivare a proposito dei femminili di professioni e cariche espresse al maschile dato che in passato erano riservate solo a uomini. La scelta per il femminile, che l’Accademia ha più volte caldeggiato, non viene sempre accolta dalle stesse donne, tra cui non mancano quelle che preferiscono definirsi architetto, avvocato, sindaco, ministro, assessore, professore ordinario, il e non la presidente, ecc. D’altra parte, se storicamente è indubitabile che molti nomi femminili di questo tipo siano derivati da preesistenti nomi maschili (ciò vale pure per signora rispetto a signore), abbiamo anche casi di nomi maschili come divo nel mondo dello spettacolo, prostituto, casalingo, che sono documentati dopo i corrispondenti femminili, di cui vanno considerati derivati (per un’esemplare trattazione del fenomeno rinvio ad Anna M. Thornton, Mozione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 218-227).

    Transessuale, transgenere e transizionante
    L’unico problema relativo alla scelta del genere di un nome che ci è stato sottoposto è quello di transessuale per indicare “chi ha assunto mediante interventi chirurgici i caratteri somatici del sesso opposto” (anche questa definizione è del GRADIT). Qui, in effetti, si assiste tuttora a un’oscillazione tra maschile e femminile (a partire dall’articolo che precede il nome). A nostro parere, sarebbe corretta (e rispettosa) una scelta conforme al genere sessuale “d’arrivo” e dunque una transessuale se si tratta di un maschio diventato femmina, un transessuale, se di una femmina diventata maschio, posto che proprio si debba sottolineare l’avvenuta “trasformazione”. Qualcuno ci ha fatto notare che sarebbe opportuno sostituire transessuale con transgenere, che non è propriamente l’equivalente dell’inglese transgender, perché ha implicazioni diverse sul piano medico e giuridico. È senz’altro così e pensiamo anche noi che questo termine (da usare tanto al maschile quanto al femminile con le avvertenze appena indicate per transessuale) sia più appropriato, ma sta di fatto che al momento risulta meno diffuso: stenta a trovare accoglienza anche nella lessicografia e comunque, nelle poche occasioni in cui è registrato, viene spiegato come un’italianizzazione della voce inglese, che, come capita spesso, viene ad esso preferita ed è infatti presente in molti più dizionari. Alcuni di essi registrano anche cisgender, nel senso di ‘individuo nel quale sesso biologico e identità di genere coincidono’, il cui corrispondente italiano, cisgenere, ha invece, al momento, soltanto attestazioni in rete.

    Ci è inoltre pervenuta una richiesta di sostituire gli aggettivi omosessuale, eterosessuale, bisessuale, pansessuale e transessuale con omoaffettivo, eteroaffettivo, biaffettivo, panaffettivo e transizionante e al riguardo, dopo aver fatto rilevare al richiedente che nessuna parola entra nei vocabolari per decisione di una istituzione, seppur prestigiosa come l’Accademia della Crusca, ma deve prima entrare nell’uso della comunità dei parlanti (non di un singolo parlante) e mettervi radici, segnaliamo che omoaffettivo è già presente nella lessicografia italiana (il GRADIT lo registra e lo data al 2004), come pure il verbo transizionare (documentato dal 1999), nel senso di «compiere un percorso di cambiamento del sesso attraverso terapie ormonali, forme di supporto psicologico, interventi di chirurgia estetica e di riassegnazione chirurgica del sesso» (ancora GRADIT).

    Quale pronome per chi si considera gender fluid?
    Tornando al genere grammaticale, diverso è il caso di chi si considera gender fluid, cioè, per usare la definizione dello Zingarelli 2022 (che include questa locuzione aggettivale s.v. gender, molto ampliata rispetto allo Zingarelli 2021), “di persona che rifiuta di identificarsi stabilmente con il genere maschile e femminile (comp. con fluid ‘mutevole’)”. Il problema che ci è stato sottoposto per queste persone riguarda prevalentemente il genere del pronome da utilizzare per riferirsi ad esse.

    Ebbene, di fronte a domande come la seguente: “Come dovrei rivolgermi nella lingua italiana a coloro che si identificano come non binari? Usando la terza persona plurale o rivolgendomi col sesso biologico della persona però non rispettando il modo di essere della persona?”, la nostra risposta è questa: l’italiano – anche se non ha un pronome “neutro” e non consente neppure l’uso di loro in corrispondenza di they/them dell’inglese (lingua in cui l’accordo ha un peso molto meno rilevante rispetto all’italiano e dove comunque l’uso di they al singolare per persone di cui si ignora il sesso costituiva una possibilità già prevista dal sistema, in quanto documentata da secoli) – offre tuttavia il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando. L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc., scelta che peraltro (come ben sanno coloro che hanno affrontato la tematica del sessismo linguistico) è certamente onerosa. In ogni caso, tanto il pronome io quanto l’allocutivo tu (e, come si è visto sopra, anche gli allocutivi di cortesia lei e voi) non specificano nessun genere. Analogamente, i pronomi di terza persona lui e lei in funzione di soggetto possono essere omessi (in italiano non è obbligatoria la loro espressione, a differenza dell’inglese e del francese) oppure sostituiti da nomi e cognomi, tanto più che oggi sono in uso accorciamenti ipocoristici ambigeneri come Fede (Federico o Federica), Vale (Valerio o Valeria), ecc., e che (anche sul modello dell’inglese e proprio in un’ottica non sessista) si tende a non premettere l’articolo femminile a cognomi che indicano donne (Bonino e non la Bonino). Si potrebbe aggiungere che il clitico gli, maschile singolare nello standard, nel parlato non formale si usa anche al posto del femminile le e che l’opposizione è neutralizzata per combinazioni di clitici come glielo, gliela, gliene; anche l’elisione, nel parlato più frequente che non nello scritto, ci consente spesso di eliminare la distinzione tra lo e la. Insomma, il sistema della lingua può sempre offrire alternative perfettamente grammaticali a chi intende evitare l’uso di determinate forme ed è disposto a qualche dispendio lessicale o a usare qualche astratto in più pur di rispettare le aspettative di persone che si considerano non binarie. Certamente l’accordo del participio passato costituisce un problema; ma non c’è, al momento, una soluzione pronta: sarà piuttosto l’uso dei parlanti, nel tempo, a trovarla.

    Ancora sul maschile plurale come genere grammaticale non marcato
    Diverso è il caso dei plurali: qui, come, si è detto all’inizio, il maschile non marcato, proprio della grammatica italiana, potrebbe risolvere tutti i problemi, comprendendo anche le persone non binarie. A nostro parere, mentre è giusto che, per esempio, nei bandi di concorso, non compaia, al singolare, “il candidato” ma si scriva “il candidato o la candidata”, oppure “la candidata e il candidato” (per abbreviare si ricorre spesso anche alla barra, che tuttavia non raccomanderemmo: “il/la candidato/a”), il plurale “i candidati” è accettabile perché, sul piano della langue, non esclude affatto le donne. Niente tuttavia impedisce di optare anche al plurale per “i candidati e le candidate” o viceversa (oppure, anche in questo caso, “i/le candidati/e”); vero è che da queste formulazioni potrebbero sentirsi escluse le persone non binarie. Aggiungiamo, rispondendo così ad alcuni specifici quesiti, che la scelta del plurale maschile nello standard non dipende dalla numerosità dei maschi rispetto alle femmine all’interno di un gruppo: basta una sola presenza maschile a determinarlo, ma non si tratterebbe di una scelta sessista (come viene invece considerata da molte donne), bensì dell’opzione per una forma “non marcata” sul piano del genere grammaticale. Capita peraltro abbastanza spesso, come ha notato qualcuno, che “nel caso di infermiere e maestre d’asilo” (o di altri gruppi professionali in cui la presenza femminile è preponderante) “si dirà ‘salve a tutte!’ e i pochi maschi se ne fa[ra]nno una ragione”. E questo, a nostro parere, “ci sta”, anche se, di fatto, spesso i maschi presenti protestano. Da richiamare è anche il fatto che, soprattutto nel parlato, l’accordo del participio o dell’aggettivo può riferirsi al genere grammaticale del nome ad essi più vicino: quindi “le mamme e i papà sono pregati di aspettare i figli fuori” (e non “sono pregate”), ma “i papà e le mamme sono pregati”, ma anche “sono pregate”.

    La presenza del femminile plurale
    Affiancare al maschile il femminile è senz’altro lecito e anzi, in certi contesti, sembra l’opzione preferibile (per esempio quando si indicano categorie professionali in cui la mozione al femminile ha stentato a imporsi). Nelle forme allocutive, in particolare, rappresenta indubbiamente, specie se a parlare o a scrivere è un maschio, un segnale di attenzione per le donne: bene dunque, per formule come care amiche e cari amici, cari colleghi e care colleghe, cari soci e care socie, carissime e carissimi, ecc. Anche nella tradizione dello spettacolo, del resto, chi presenta si rivolge al pubblico con signore e signori e i politici, specie in vista delle elezioni, parlano di elettori ed elettrici, cittadini e cittadine, ecc. Si ha poi il caso di nomi “esclusivamente” maschili come fratelli, a cui – visto che l’italiano non dispone di un termine corrispondente all’inglese sibling – è sempre opportuno affiancare sorelle (lo ha fatto del resto di recente anche la Chiesa, nella liturgia). Lasciamo da parte, per non dilungarci ulteriormente, il caso di uomini, già ampiamente trattato negli studi, a cui, in una prospettiva non sessista, si preferisce persone (altro nome femminile che può indicare anche un maschio pure al singolare).

    Dall’asterisco...
    L’accostamento del femminile al maschile finisce spesso con l’allungare e appesantire il testo. Forse anche per evitare questo, ormai da vari anni, soprattutto da quando si è diffusa la scrittura al computer, ha gradualmente preso piede, in particolari àmbiti (tra cui la posta elettronica), l’uso dell’asterisco, che è andato progressivamente a sostituire la barra (già citata per candidati/e), il cui uso sembra ormai confinato ai testi burocratici.

    L’asterisco (dal gr. asterískos ‘stelletta’, dim. di astḗr ‘stella’) – che nel titolo di questa risposta abbiamo usato invece nel senso di ‘nota’, ‘stelloncino’, significato che è, o era, diffuso nel linguaggio giornalistico – è un «segno tipografico a forma di stelletta a cinque o più punte» (Zingarelli 2022) usato, sempre in esponente (“apice”, nella terminologia della videoscrittura), con varie funzioni. Anzitutto, serve a mettere in evidenza qualcosa, per esempio un nome o un termine in un elenco, contrassegnandolo così rispetto agli altri. L’asterisco può anche segnalare una nota (soprattutto se isolata) o ancora (per lo più ripetuto due o tre volte) indicare un’omissione volontaria da parte dell’autore, specialmente di un nome proprio: si incontra non di rado, per esempio, nei Promessi Sposi perché Alessandro Manzoni usa tre asterischi per non esplicitare il nome del paese dove vivono Renzo e Lucia, il casato dell’Innominato, ecc. Un uso per certi versi analogo si ha nei fumetti e in rete, dove gli asterischi o altri segni (chiocciola, cancelletto, punto) sostituiscono le lettere interne delle parolacce, che vengono così censurate. In linguistica, infine, l’asterisco contrassegna forme non attestate o agrammaticali.

    Nell’àmbito di cui ci stiamo occupando l’asterisco, in fine di parola, sostituisce spesso la terminazione di nomi e aggettivi per “neutralizzare” (o meglio “opacizzare”; in questo forse si può intravedere un sia pur tenue legame con la penultima funzione prima indicata) il genere grammaticale: abbiamo così forme come car* collegh* e, particolarmente frequente, car* tutt*, probabile calco su dear all (che invece non ha bisogno di asterischi perché l’inglese non ha genere grammaticale né accordo su articoli e aggettivi). L’asterisco negli ultimi anni ha conquistato anche i sostenitori del cosiddetto linguaggio gender neutral e non c’è dubbio che anche sotto questo aspetto possa avere una sua funzionalità. Tuttavia coloro che ci hanno scritto, pur se disponibili alle innovazioni, si dichiarano per lo più ostili all’asterisco: c’è chi parla di “insulto” alla nostra lingua, chi di «storpiatura», chi lo ritiene “sgradevole”, chi addirittura “un’opzione terribile”.

    Di certo l’uso dell’asterisco è legato all’informatica, ma non ne rispetta i principi. È interessante, al riguardo, leggere quanto afferma un nostro lettore, docente appunto di informatica, che tratta della forma asteriscata (di cui, a suo parere si abusa), che è stata «presumibilmente mutuata dalle convenzioni dei linguaggi di comando dei sistemi operativi (Unix, ma anche DOS/Windows) per i quali la notazione indica una sequenza di zero o più caratteri qualunque [...]. Pertanto, nella sua semantica originaria “car tutt*” ha la valenza (anche) di “carini tuttologi” o di “carramba tuttora” oltre ai significati ricercati dai “gender-neutral” che, tuttavia, costituiscono una infima parte di quelli possibili».

    In effetti è così: in informatica l’asterisco segnala una qualunque sequenza di caratteri, mentre al posto di un solo carattere si usa il punto interrogativo, che (a parte gli altri problemi che comporterebbe) potrebbe andare bene per tutt? ma non per amic?, dove invece funzionerebbe meglio l’asterisco amic* perché nel femminile la -e è graficamente preceduta dall’h. Ma nessuno dei due simboli potrebbe essere usato in casi (che ci sono stati segnalati) come sostenitor* (o sostenitor?), che non include il femminile sostenitrici accanto al maschile sostenitori. E non è necessario né opportuno ricorrere all’asterisco (o al punto interrogativo) neppure per i plurali di nomi e aggettivi in cui la terminazione in -i vale per entrambi i generi (nomi citati sopra come cantanti, aggettivi plurali come forti, grandi, importanti, ecc.).

    Comunque sia, pur con tutti questi distinguo, se consideriamo che l’uso grafico dell’asterisco si concentra in comunicazioni scritte o trasmesse che sono destinate unicamente alla lettura silenziosa e che hanno carattere privato, professionale o sindacale all’interno di gruppi omogenei (spesso anche sul piano ideologico), in tali àmbiti (in cui sono presenti abbreviazioni convenzionali come sg., pagg., f.to, estranee all’uso comune) può essere considerato una semplice alternativa alla sbarretta sopra ricordata, rispetto alla quale presenterebbe il vantaggio di includere anche le persone non binarie. L’asterisco non è invece utilizzabile, a nostro parere, in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche, dove potrebbe causare sconcerto e incomprensione in molte fasce di utenti, né, tanto meno, in testi che prevedono una lettura ad alta voce.

    Resta, infatti, il problema dell’impossibilità della resa dell’asterisco sul piano fonetico: possiamo scrivere car* tutt*, ma parlando, se vogliamo salutare un gruppo formato da maschi e femmine senza usare il maschile inclusivo, dobbiamo rassegnarci a dire ciao a tutti e a tutte. Qualcuno ha proposto espressioni come caru tuttu, che a nostro parere costituiscono una delle inopportune (e inutili) forzature al sistema linguistico di cui si diceva all’inizio. Teniamo anche presente che nell’italiano tradizionale non esistono parole terminanti in -u atona (a parte cognomi sardi o friulani, come Lussu e Frau, il nome proprio Turiddu, diminutivo siciliano di Turi, ipocoristico di Salvatore, entrato anche in italiano grazie alla popolarità della Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e comunque ormai desueto, onomatopee come bau, sigle come ONU e IMU, forestierismi entrati di recente, come tofu o sudoku).

    ... allo #schwa
    In alternativa all’asterisco, specie con riferimento alle persone non binarie, è stato recentemente proposto di adottare lo schwa (o scevà), cioè il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (#IPA) che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue e di vari dialetti italiani, in particolare quelli dell’area altomeridionale (il termine, grammaticalmente maschile, è di origine ebraica). Questa proposta, che sarebbe da preferire all’asterisco perché offrirebbe anche una soluzione sul piano della lingua parlata, ha già trovato vari sostenitori (sembra che l’abbiano adottata, almeno in parte, una casa editrice e un comune dell’Emilia-Romagna). A nostro parere, invece, si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, anche lasciando da parte le ulteriori difficoltà di lettura che creerebbe nei casi di dislessia.

    Intanto, sul piano grafico va detto che mentre l’asterisco ha una pur limitata tradizione all’interno della scrittura, il segno per rappresentare lo schwa (la e rovesciata: ə, in corsivo ə, forse non di facilissima realizzazione nella scrittura corsiva a mano) è proprio, come si è detto, dell’IPA, ma non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico. Non a caso, a parte linguisti e dialettologi, coloro che scrivono in uno dei dialetti italiani che hanno lo schwa nell’inventario dei loro foni lo rendono spesso con e (talvolta con ë) o, impropriamente, con l’apostrofo. Se guardiamo al napoletano, che nella sua lunga tradizione di scrittura per le vocali atone finali si è allineato all’italiano, vediamo che oggi nelle scritte murali in dialetto della città la vocale atona finale viene sistematicamente omessa.

    L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco: per esempio, sarebbero incongrue grafie come sostenitorə e come fortə, di cui pure ci è stato segnalato l’uso anche al singolare. C’è poi il problema, rilevato acutamente da qualche lettore, che del simbolo dello schwa non esiste il corrispondente maiuscolo e invece scrivere intere parole in caratteri maiuscoli può essere a volte necessario nella comunicazione scritta. C’è chi usa lo stesso segno, ingrandito, ma la differenza tra maiuscole e minuscole non è di corpo, ma di carattere e quindi accostare una E maiuscola all’inizio o nel corpo di una parola tutta scritta in maiuscolo a una ə alla fine della stessa non mi pare produca un bell’effetto. In alternativa, si potrebbe procedere per analogia e “rovesciare” la E, ma si tratterebbe di un ulteriore artificio, privo di riscontri – se non nella logica matematica, in cui il segno Ǝ significa ‘esiste’ (cosa che peraltro creerebbe, come nel caso dell’asterisco, un’altra “collisione” sul piano del significato) – e, presumibilmente, tutt’altro che chiaro per i lettori.

    Quanto al parlato, non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo o per accordare la preferenza a tuttə rispetto al tuttu che è stato sopra citato. Anche il riferimento ai sistemi dialettali ci sembra fallace perché nei dialetti spesso la presenza dello schwa limita, ma non esclude affatto la distinzione di genere grammaticale, che viene affidata alla vocale tonica, come risulta da coppie come, in napoletano, buόnə (maschile: ‘buono’ ma anche ‘buoni’) e bònə (femminile: ‘buona’ o ‘buone’), russə (‘rosso’ o ‘rossi’) e rόssə (‘rossa’ o ‘rosse’). Lo schwa opacizza invece spesso la differenza di numero, tanto che tra chi ne sostiene l’uso c’è stato chi ha proposto di servirsi di ə per il singolare e di ricorrere a un altro simbolo IPA, ɜ, come “schwa plurale” (altra scelta a nostro avviso discutibile, anche per la possibile confusione con la cifra 3).

    Conclusioni
    È giunto il momento di chiudere il discorso. È verissimo, come diceva Nanni Moretti in un suo film, che “le parole sono importanti” (ma lo sono anche la grafia, la fonetica, la morfologia, la sintassi) e denunciano spesso atteggiamenti sessisti o discriminatori, sia sul piano storico (per come le lingue si sono andate costituendo), sia sul piano individuale. Come abbiamo detto all’inizio, la quantità di richieste che abbiamo avuto, che ci hanno espresso dubbi e incertezze a proposito del genere e della distinzione di genere, ci rasserena, perché, soprattutto per come sono stati formulati i quesiti, documenta una larga diffusione di atteggiamenti di civiltà, di comprensione, di disponibilità. È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti.

    https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/un-asterisco-sul-genere/4018
    #écriture_inclusive #Italie #italien #astérisque #langue #langue_italienne #accademia_della_crusca #schwa

  • The fortified gates of the Balkans. How non-EU member states are incorporated into fortress Europe.

    Marko Gašperlin, a Slovenian police officer, began his first mandate as chair of the Management Board of Frontex in spring 2016. Less than two months earlier, then Slovenian Prime Minister Miro Cerar had gone to North Macedonia to convey the message from the EU that the migration route through the Balkans — the so-called Balkan route — was about to close.

    “North Macedonia was the first country ready to cooperate [with Frontex] to stop the stampede we had in 2015 across the Western Balkans,” Gašperlin told K2.0 during an interview conducted at the police headquarters in Ljubljana in September 2020.

    “Stampede” refers to over 1 million people who entered the European Union in 2015 and early 2016 in search of asylum, the majority traveling along the Balkan route. Most of them were from Syria, but also some other countries of the global South where human rights are a vague concept.

    According to Gašperlin, the European Border and Coast Guard Agency’s primary interest at the EU’s external borders is controlling the movement of people who he describes as “illegals.”

    Given numerous allegations by human rights organizations, Frontex could itself be part of illegal activity as part of the push-back chain removing people from EU territory before they have had the opportunity to assert their right to claim asylum.

    In March 2016, the EU made a deal with Turkey to stop the flow of people toward Europe, and Frontex became even more active in the Aegean Sea. Only four years later, at the end of 2020, Gašperlin established a Frontex working group to look into allegations of human rights violations by its officers. So far, no misconduct has been acknowledged. The final internal Frontex report is due at the end of February.

    After allegations were made public during the summer and fall of 2020, some members of the European Parliament called for Frontex director Fabrice Leggeri to step down, while the European Ombudsman also announced an inquiry into the effectiveness of the Agency’s complaints mechanism as well as its management.

    A European Parliament Frontex Scrutiny Working Group was also established to conduct its own inquiry, looking into “compliance and respect for fundamental rights” as well as internal management, and transparency and accountability. It formally began work this week (February 23) with its fact-finding investigation expected to last four months.

    2021 started with more allegations and revelations.

    In January 2021 the EU anti-fraud office, OLAF, confirmed it is leading an investigation over allegations of harassment and misconduct inside Frontex, and push-backs conducted at the EU’s borders.

    Similar accusations of human rights violations related to Frontex have been accumulating for years. In 2011, Human Rights Watch issued a report titled “The EU’s Dirty Hands” that documented the ill-treatment of migrant detainees in Greece.

    Various human rights organizations and media have also long reported about Frontex helping the Libyan Coast Guard to locate and pull back people trying to escape toward Europe. After being pulled back, people are held in notorious detention camps, which operate with the support of the EU.

    Nonetheless, EU leaders are not giving up on the idea of expanding the Frontex mission, making deals with governments of non-member states in the Balkans to participate in their efforts to stop migration.

    Currently, the Frontex plan is to deploy up to 10,000 border guards at the EU external borders by 2027.

    Policing Europe

    Frontex, with its headquarters in Poland, was established in 2004, but it remained relatively low key for the first decade of its existence. This changed in 2015 when, in order to better control Europe’s visa-free Schengen area, the European Commission (EC) extended the Agency’s mandate as it aimed to turn Frontex into a fully-fledged European Border and Coastguard Agency. Officially, they began operating in this role in October 2016, at the Bulgarian border with Turkey.

    In recent years, the territory they cover has been expanding, framed as cooperation with neighboring countries, with the main goal “to ensure implementation of the European integrated border management.”

    The budget allocated for their work has also grown massively, from about 6 million euros in 2005, to 460 million euros in 2020. According to existing plans, the Agency is set to grow still further and by 2027 up to 5.6 billion euros is expected to have been spent on Frontex.

    As one of the main migration routes into Europe the Balkans has become the key region for Frontex. Close cooperation with authorities in the region has been growing since 2016, particularly through the “Regional Support to Protection-Sensitive Migration Management in the Western Balkans and Turkey” project: https://frontex.europa.eu/assets/Partners/Third_countries/IPA_II_Phase_II.pdf.

    In order to increase its powers in the field, Frontex has promoted “status agreements” with the countries in the region, while the EC, through its Instrument for Pre-Accession (IPA) fund, has dedicated 3.4 million euros over the two-year 2019-21 period for strengthening borders.

    The first Balkan state to upgrade its cooperation agreement with Frontex to a status agreement was Albania in 2018; joint police operations at its southern border with Greece began in spring 2019. According to the agreement, Frontex is allowed to conduct full border police duties on the non-EU territory.

    Frontex’s status agreement with Albania was followed by a similar agreement with Montenegro that has been in force since July 2020.

    The signing of a status agreement with North Macedonia was blocked by Bulgaria in October 2020, while the agreement with Bosnia and Herzegovina requires further approvals and the one with Serbia is awaiting ratification by the parliament in Belgrade.

    “The current legal framework is the consequence of the situation in the years from 2014 to 2016,” Gašperlin said.

    He added that he regretted that the possibility to cooperate with non-EU states in returns of “illegals” had subsequently been dropped from the Frontex mandate after an intervention by EU parliamentarians. In 2019, a number of changes were made to how Frontex functions including removing the power to “launch return interventions in third countries” due to the fact that many of these countries have a poor record when it comes to rule of law and respect of human rights.

    “This means, if we are concrete, that the illegals who are in BiH — the EU can pay for their accommodation, Frontex can help only a little with the current tools it has, while when it comes to returns, Frontex cannot do anything,” Gašperlin said.

    Fortification of the borders

    The steady introduction of status agreements is intended to replace and upgrade existing police cooperation deals that are already in place with non-EU states.

    Over the years, EU member states have established various bilateral agreements with countries around the world, including some in the Balkan region. Further agreements have been negotiated by the EU itself, with Frontex listing 20 “working arrangements” with different non-member states on its website.

    Based on existing Frontex working arrangements, exchange of information and “consultancy” visits by Frontex officials — which also include work at border crossings — are already practiced widely across the Balkan-EU borders.

    The new status agreements allow Frontex officers to guard the borders and perform police tasks on the territory of the country with which the agreement is signed, while this country’s national courts do not have jurisdiction over the Frontex personnel.

    Comparing bilateral agreements to status agreements, Marko Gašperlin explained that, with Frontex taking over certain duties, individual EU states will be able to avoid the administrative and financial burdens of “bilateral solidarity.”

    Radoš Đurović, director of the NGO Asylum Protection Centre (APC) which works with migrants in Serbia, questions whether Frontex’s presence in the region will bring better control over violations and fears that if past acts of alleged violence are used it could make matters worse.

    “The EU’s aim is to increase border control and reduce the number of people who legally or illegally cross,” Đurović says in a phone interview for K2.0. “We know that violence does not stop the crossings. It only increases the violence people experience.”

    Similarly, Jasmin Redžepi from the Skopje-based NGO Legis, argues that the current EU focus on policing its borders only entraps people in the region.

    “This causes more problems, suffering and death,” he says. “People are forced to turn to criminals in search of help. The current police actions are empowering criminals and organized crime.”

    Redžepi believes the region is currently acting as some kind of human filter for the EU.

    “From the security standpoint this is solidarity with local authorities. But in the field, it prevents greater numbers of refugees from moving toward central Europe,” Redžepi says.

    “They get temporarily stuck. The EU calls it regulation but they only postpone their arrival in the EU and increase the violations of human rights, European law and international law. In the end people cross, just more simply die along the way.”

    EU accused of externalizing issues

    For the EU, it was a shifting pattern of migratory journeys that signified the moment to start increasing its border security around the region by strengthening its cooperation with individual states.

    The overland Balkan route toward Western Europe has always been used by people on the move. But it has become even more frequented in recent years as changing approaches to border policing and rescue restrictions in the Central Mediterranean have made crossings by sea even more deadly.

    For the regional countries, each at a different stage of a still distant promise of EU membership, partnering with Frontex comes with the obvious incentive of demonstrating their commitment to the bloc.

    “When regional authorities work to stop people crossing towards the EU, they hope to get extra benefits elsewhere,” says APC Serbia’s Radoš Đurovic.

    There are also other potential perks. Jasmin Redžepi from Legis explains that police from EU states often leave behind equipment for under-equipped local forces.

    But there has also been significant criticism of the EU’s approach in both the Balkans and elsewhere, with many accusing it of attempting to externalize its borders and avoid accountability by pushing difficult issues elsewhere.

    According to research by Violeta Moreno-Lax and Martin Lemberg-Pedersen, who have analyzed the consequences of the EU’s approach to border management, the bloc’s actions amount to a “dispersion of legal duties” that is not “ethically and legally tenable under international law.”

    One of the results, the researchers found, is that “repressive forces” in third countries gain standing as valid interlocutors for cooperation and democratic and human rights credentials become “secondary, if at all relevant.”

    APC’s Radoš Đurović agrees, suggesting that we are entering a situation where the power of the law and international norms that prevent illegal use of force are, in effect, limited.

    “Europe may not have enough power to influence the situations in places further away that push migration, but it can influence its border regions,” he says. “The changes we see forced onto the states are problematic — from push-backs to violence.”

    Playing by whose rules?

    One of the particular anomalies seen with the status agreements is that Albanian police are now being accompanied by Frontex forces to better control their southern border at the same time as many of Albania’s own citizens are themselves attempting to reach the EU in irregular ways.

    Asked about this apparent paradox, Marko Gašperlin said he did “not remember any Albanians among the illegals.”

    However, Frontex’s risk analysis for 2020, puts Albania in the top four countries for whose citizens return orders were issued in the preceding two years and second in terms of returns effectively carried out. Eurostat data for 2018 and 2019 also puts Albania in 11th place among countries from which first time asylum seekers come, before Somalia and Bangladesh and well ahead of Morocco and Algeria.

    While many of these Albanian citizens may have entered EU countries via regular means before being subject to return orders for reasons such as breaching visa conditions, people on the move from Albania are often encountered along the Balkan route, according to activists working in the field.

    Meanwhile, other migrants have complained of being subjected to illegal push-backs at Albania’s border with Greece, though there is a lack of monitoring in this area and these claims remain unverified.

    In Serbia, the KlikAktiv Center for Development of Social Policies has analyzed Belgrade’s pending status agreement for Frontex operations.

    It warns that increasing the presence of armed police, from a Frontex force that has allegedly been involved in violence and abuses of power, is a recipe for disaster, especially when they will have immunity from local criminal and civil jurisdiction.

    It also flags that changes in legislation will enable the integration of data systems and rapid deportations without proper safeguards in place.

    Police activities to secure borders greatly depend on — and supply data to — EU information technology systems. But EU law provides fewer protections for data processing of foreign nationals than for that of EU citizens, effectively creating segregation in terms of data protection.

    The EU Fundamental Rights Agency has warned that the establishment of a more invasive system for non-EU nationals could potentially lead to increased discrimination and skew data that could further “fuel existing misperceptions that there is a link between asylum-seekers, migration and crime.”

    A question of standards

    Frontex emphasizes that there are codified safeguards and existing internal appeal mechanisms.

    According to the status agreements, violations of fundamental rights such as data protection rules or the principle of non-refoulement — which prohibits the forcible return of individuals to countries where they face danger through push-backs or other means — are all reasons for either party to suspend or terminate their cooperation.

    In January, Frontex itself suspended its mission in Hungary after the EU member state failed to abide by an EU Court of Justice decision. In December 2020, the court found that Hungarian border enforcement was in violation of EU law by restricting access to its asylum system and for carrying out illegal push-backs into Serbia.

    Marko Gašperlin claimed that Frontex’s presence improved professional police standards wherever it operated.

    However, claims of raising standards have been questioned by human rights researchers and activists.

    Jasmin Redžepi recounts that the first complaint against a foreign police officer that his NGO Legis filed with North Macedonian authorities and international organizations was against a Slovenian police officer posted through bilateral agreement; the complaint related to allegations of unprofessional conduct toward migrants.

    “Presently, people cross illegally and the police push them back illegally,” Redžepi says. “They should be able to ask for asylum but cannot as police push people across borders.”

    Gašperlin told K2.0 that it is natural that there will be a variation of standards between police from different countries.

    In its recruitment efforts, Frontex has sought to enlist police officers or people with a customs or army background. According to Gašperlin, recruits have been disproportionately from Romania and Italy, while fewer have been police officers from northern member states “where standards and wages are better.”

    “It would be illusory to expect that all of the EU would rise up to the level of respect for human rights and to the high standards of Sweden,” he said. “There also has not been a case of the EU throwing a member out, although there have been examples of human rights violations, of different kinds.”

    ‘Monitoring from the air’

    One of the EU member states whose own police have been accused of serious human rights violations against refugees and migrants, including torture, is Croatia.

    Despite the allegations, in January 2020, Croatia’s Ministry of the Interior Police Academy was chosen to lead the first Frontex-financed training session for attendees from police forces across the Balkan route region.

    Frontex currently has a presence in Croatia, at the EU border area with Bosnia and Herzegovina, amongst other places.

    Asked about the numerous reports from international NGOs and collectives, as well as from the national Ombudsman Lora Vidović and the Council of Europe, of mass human rights violations at the Croatian borders, Gašperlin declined to engage.

    “Frontex helps Croatia with monitoring from the air,” he said. “That is all.”

    Gašperlin said that the role of his agency is only to notify Croatia when people are detected approaching the border from Bosnia. Asked if Frontex also monitors what happens to people once Croatian police find them, given continuously worsening allegations, he said: “From the air this might be difficult. I do not know if a plane from the air can monitor that.”

    Pressed further, he declined to comment.

    To claim ignorance is, however, becoming increasingly difficult. A recent statement on the state of the EU’s borders by UNHCR’s Assistant High Commissioner for Protection, Gillian Triggs, notes: “The pushbacks [at Europe’s borders] are carried out in a violent and apparently systematic way.”

    Radoš Đurović from APC Serbia pointed out that Frontex must know about the alleged violations.

    “The question is: Do they want to investigate and prevent them?” he says. “All those present in the field know about the violence and who perpetrates it.”

    Warnings that strict and violent EU border policies are increasing the sophistication and brutality of smugglers, while technological “solutions” and militarization come with vested interests and more potential human rights violations, do not seem to worry the head of Frontex’s Management Board.

    “If passage from Turkey to Germany is too expensive, people will not decide to go,” said Gašperlin, describing the job done by Frontex:

    “We do the work we do. So people cannot simply come here, sit and say — here I am, now take me to Germany, as some might want. Or — here I am, I’m asking for asylum, now take me to Postojna or Ljubljana, where I will get fed, cared for, and then I’ll sit on the bus and ride to Munich where I’ll again ask for asylum. This would be a minimal price.”

    Human rights advocates in the region such as Jasmin Redžepi have no illusions that what they face on the ground reflects the needs and aims of the EU.

    “We are only a bridge,” Redžepi says. “The least the EU should do is take care that its policies do not turn the region into a cradle for criminals and organized crime. We need legal, regular passages and procedures for people to apply for asylum, not illegal, violent push-backs.

    “If we talk about security we cannot talk exclusively about the security of borders. We have to talk about the security of people as well.”

    https://kosovotwopointzero.com/en/the-fortified-gates-of-the-balkans

    #Balkans #route_des_Balkans #frontières #asile #migrations #réfugiés #externalisation #frontex #Macédoine_du_Nord #contrôles_frontaliers #militarisation_des_frontières #push-backs #refoulements #refoulements_en_chaîne #frontières_extérieures #Regional_Support_to_Protection-Sensitive_Migration_Management_in_the_Western_Balkans_and_Turkey #Instrument_for_Pre-Accession (#IPA) #budget #Albanie #Monténégro #Serbie #Bosnie-Herzégovine #accords_bilatéraux

    –—

    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749
    Et plus particulièrement ici :
    https://seenthis.net/messages/731749#message782649

    ping @isskein @karine4

  • Why Tech’s Great Powers Are Warring
    https://onezero.medium.com/apple-v-facebook-c53efb4c0ad4

    The feud between Apple and Facebook enters a new era An adage of international relations holds that great powers have no permanent friends or allies, only permanent interests. (The original quote, from a 19th-century English statesman known as Lord Palmerston, is a bit less pithy.) It accounts for how the United States and Russia were allies in World War II, then bitter enemies soon after ; or how Japan fought with the Allies in World War I but joined the Axis in World War II. Today, the (...)

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    ##interopérabilité ##publicité ##Android
    https://miro.medium.com/max/679/0*KBi5U7GpAN2M1qek

  • Amazon and Apple ’not playing their part’ in tackling electronic waste
    https://www.theguardian.com/technology/2020/nov/26/amazon-and-apple-not-playing-their-part-in-tackling-electronic-waste

    Global retailers should help collect, recycle and repair tech products, say MPs Global giants such as Amazon and Apple should be made responsible for helping to collect, recycle and repair their products to cut the 155,000 tonnes of electronic waste being thrown away each year in the UK, MPs say. An investigation by the environmental audit committee found the UK is lagging behind other countries and failing to create a circular economy in electronic waste. The UK creates the second (...)

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  • Apple accuses Facebook of ’disregard for user privacy’
    https://www.theguardian.com/technology/2020/nov/20/apple-accuses-facebook-of-disregard-for-user-privacy

    Criticism made as Apple pushes ahead with transparency feature disliked by advertisers Apple has criticised Facebook for trying to “collect as much data as possible” from users, saying it will push ahead with its planned launch of a new privacy feature despite objections from the advertising industry. The company’s director of global privacy, Jane Horvath, made the criticism in a letter to a coalition of privacy groups, reassuring them that the feature, which will require users to actively (...)

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  • "˜Big Brother’ ? No, It’s Parents
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    When her children were ready to have laptops of their own, Jill Ross bought software that would keep an eye on where they went online. One day it offered her a real surprise. She discovered that her 16-year-old daughter had set up her own video channel. Using the camera on her laptop, sometimes in her bedroom, she and a friend were recording mundane teenage banter and broadcasting it on YouTube for the whole world to see. For Ms. Ross, who lives outside Denver, it was a window into her (...)

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    ##UKnowKids

  • Apple bloque une mise à jour de Facebook visant à informer les utilisateurs de la « taxe Apple »
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2020/08/28/apple-bloque-une-mise-a-jour-de-facebook-visant-a-informer-les-utilisateurs-

    L’entreprise de Cupertino, qui impose depuis des années une taxe de 30 % sur tous les achats réalisés au sein des applications iOS, fait face à une gronde grandissante depuis plusieurs semaines. Epic n’est plus seul dans sa guerre contre la « taxe Apple ». En faisant bannir d’iOS son jeu-phare Fortnite, pour avoir tenté de détourner le système selon lequel Apple perçoit 30 % des revenus sur les achats réalisés dans les applications pour iPhone et iPad, l’éditeur de jeux vidéo a réveillé les frustrations (...)

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    ##lutte

  • LinkedIn sued over allegation it secretly reads Apple users’ clipboard content
    https://www.reuters.com/article/us-microsoft-linkedin-lawsuit/linkedin-sued-over-allegation-it-secretly-reads-apple-users-clipboard-conte

    Microsoft Corp’s (MSFT.O) LinkedIn was sued by a New York-based iPhone user on Friday for allegedly reading and diverting users’ sensitive content from Apple Inc’s (AAPL.O) Universal Clipboard application. According to Apple’s website, Universal Clipboard allows users to copy text, images, photos, and videos on one Apple device and then paste the content onto another Apple device. According to the lawsuit filed in San Francisco federal court by Adam Bauer, LinkedIn reads the Clipboard (...)

    #Apple #Microsoft #LinkedIn #iPad #iPhone #smartphone #iOS #données #BigData #écoutes

    https://s2.reutersmedia.net/resources/r

  • Vie privée : pourquoi Apple met encore en colère le marché de la publicité avec iOS 14
    https://www.numerama.com/tech/634889-pourquoi-apple-met-encore-en-colere-le-marche-de-la-publicite-avec-

    Les publicitaires ne veulent pas qu’Apple force les applications mobiles à vous demander votre consentement pour le pistage marketing. Ces changements, prévus avec iOS 14, ont conduit le secteur à écrire une lettre ouverte à Tim Cook, le PDG de l’entreprise américaine. On l’a vu avec Criteo en 2017, lorsque son cours boursier s’était effondré : quand Apple se décide à réguler plus fermement le pistage des internautes, le marché de la publicité le sent passer. Et justement, les professionnels du marketing (...)

    #Apple #iOS #géolocalisation #consentement #marketing #publicité #iPad #iPhone

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  • Demain, l’humain connecté : que préparent vraiment les GAFAM ?
    https://www.franceculture.fr/numerique/demain-lhumain-connecte-que-preparent-vraiment-les-gafam

    Piloter un ordinateur directement depuis son cerveau ! De premiers tests sur des humains devraient avoir lieu cette année au service d’une société d’Elon Musk. Et Facebook a racheté une jeune entreprise capable de décrypter nos intentions via un bracelet connecté. Jusqu’où ira l’hyperconnexion ? Les échos de la Silicon Valley provoquent parfois des frissons. L’un des derniers exemples en date : le rachat de Control Labs par Facebook le 25 septembre dernier pour un montant compris entre 500 millions et (...)

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    ##technologisme

  • How to Sell Your #ipad Online With The Best Offers And Quick Cash
    https://hackernoon.com/how-to-sell-your-ipad-online-with-the-best-offers-and-quick-cash-22efee5

    The modern world tends to buy products, and use them to the point of satisfaction of their wants, then sell them if it they’re in a reusable condition. iPads and other Apple products are pretty expensive, and hence these are often the best products for resale. Used Apple products also have good demand, because some people can’t afford the firsthand products. Through the domain of iGotOffer, you can sell your iPad and get the right amount of money out of it.Process of SaleThere are three simple steps to sell your iPad quickly. These steps are explained below.● Find an Offer for Your Product: This is the first step and is a hassle-free process. You can get great prices for your iPad from the domain of iGotOffer. It will help you have a peace of mind that you have an offer in hand before you (...)

    #ipad-online #sell-your-ipad #quick-cash #selling

  • Google will stop peddling a data collector through Apple’s back door
    https://techcrunch.com/2019/01/30/googles-also-peddling-a-data-collector-through-apples-back-door

    It looks like Facebook was not the only one abusing Apple’s system for distributing employee-only apps to sidestep the App Store and collect extensive data on users. Google has been running an app called Screenwise Meter, which bears a strong resemblance to the app distributed by Facebook Research that has now been barred by Apple, TechCrunch has learned. In its app, Google invites users aged 18 and up (or 13 if part of a family group) to download the app by way of a special code and (...)

    #Apple #Google #Facebook #smartphone #iPad #iPhone #Screenwise #VPN #iOS #BigData #marketing (...)

    ##profiling

  • Comme Facebook, Google récompense des internautes pour espionner leur smartphone
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2019/01/31/a-l-instar-de-facebook-google-recompense-des-internautes-pour-epier-leur-sma

    L’entreprise propose aux internautes d’installer un programme permettant de suivre toutes leurs activités en ligne en échange de cartes cadeaux. Mais, contrairement à Facebook, les mineurs ne sont pas directement visés. Le site d’information TechCrunch a révélé, mardi 29 janvier, que Facebook offrait une vingtaine de dollars à des internautes, notamment des mineurs, afin d’installer un programme collectant leurs faits et gestes sur leur smartphone. Ceci dans le cadre d’un projet de « recherche » lancé (...)

    #Apple #Google #Facebook #smartphone #tablette #iPad #iPhone #Screenwise #iOS #TV #BigData #marketing (...)

    ##profiling

  • Apple : plus de 56 millions d’iPhone, iPad et Mac vendus, pour plus de 53 milliards de dollars
    https://www.nextinpact.com/brief/apple---plus-de-56-millions-d-iphone--ipad-et-mac-vendus--pour-plus-de-5

    Le fabricant sort lui aussi l’artillerie lourde avec 53,3 milliards de dollars de revenus sur son troisième trimestre fiscal de 2018, en hausse de 17 % sur un an, mais en baisse de 13 % sur trois mois. Le revenu net s’établit pour sa part à 11,5 milliards de dollars, contre 8,7 milliards au deuxième trimestre. Luca Maestri, responsable financier d’Apple, affirme que la société a mis sous séquestre 4,5 milliards d’euros supplémentaires concernant son amende de 13 milliards d’euros liée à des aides (...)

    #Apple #smartphone #tablette #iPad #iPhone #bénéfices

  • En Australie, Apple condamné à 5,8 millions d’amende pour sa politique de réparation d’iPhone
    https://www.numerama.com/business/387526-en-australie-apple-condamne-a-58-millions-damende-pour-sa-politique

    En Australie, le droit des consommateurs a eu raison d’Apple. La firme a été sanctionnée d’une belle amende pour son refus de remettre en état des produits réparés par un tiers. 9 millions de dollars australiens (soit environ 5,8 millions d’euros) : c’est le montant de l’amende reçue par Apple, ce mardi 19 juin. La Cour fédérale d’Australie a sanctionné la multinationale pour avoir refusé de réparer des iPhones et iPads précédemment réparés par l’intervention d’un tiers. Ce refus se trouvait effectivement (...)

    #Apple #iPad #iPhone #domination #procès #ACCC

  • iSad : an #upgrade or ’hang on’ dilemma
    https://hackernoon.com/isad-an-upgrade-or-hang-on-dilemma-5be394651f20?source=rss----3a8144eabf

    iSad: an upgrade or ‘hang on’ dilemmaSitting on the fence for two years till #apple gave me a gentle pushI first felt the need to upgrade my #ipad on Sep 13, 2016, the day iOS 10 launched. That was when I finally accepted that Apple wasn’t going to give any more OS upgrades for my iPad 3. However, there wasn’t anything really serious lacking in my iPad to justify upgrading to an expensive new iPad. Besides, my iPad and I have been together for six years now. So I’m pretty attached to it, and didn’t really feel good about breaking up with it. So I decided to hang on to it, till I got a good deal on the latest iPad model.But this turned out to be a neverending cycle. The more I waited for a price drop, the closer I got to the launch of the newer iPad model, and the more I felt like waiting a bit (...)

    #obsolescence #battery

  • #ipaas will be the iPaaS for Customer Experience
    https://hackernoon.com/ipaas-will-be-the-ipaas-for-customer-experience-da7040ad89b5?source=rss-

    Marketing acts like a giant pendulum.What worked a year ago may not work today. What’s working today may no longer work a year from now. In the era of #saas and digital products, opportunities get saturated, best practices become overused, everything suddenly becomes highly measurable, more predictable, and over optimized. Things that we relied on become less effective over time and its efficiency fades out.Everything in marketing is doomed by this rule.In my last post, I outlined the process that we’ve been witnessing over the last 5 to 7 years, essentially a deep decentralization of the marketing stack. We started to think that marketing would be better served by an archipelago of different vertical, loosely coupled highly specialized products, rather than the traditional monolithic (...)

    #abstraction-layer #cx #customer-experience

  • Groupe HUKO, iPads et iPocrisie, 2014
    https://sniadecki.wordpress.com/2017/09/14/huko-ipocrisie

    Comment envisager, avec sérieux et rigueur éthique, de promouvoir l’humanisme en se servant d’outils qui incarnent la négation même de cet humanisme ? Cet humanisme qu’évoquent les plus hauts responsables du système scolaire français implique au minimum le respect des autres êtres humains, et bannit l’idée de les exploiter au profit d’une poignée de privilégiés : nos propres enfants. La contradiction est flagrante entre la fin et les moyens. Ce dilemme philosophique, certes classique si on le résume en ces termes, revêt de nos jours une ampleur et une acuité inconnues auparavant. Car c’est le gouvernement lui-même qui organise le cynisme en collant de force, dans les mains des professeurs et des jeunes, du matériel fabriqué par des néo-esclaves. Le parallèle avec les modes de décervelage dictatoriaux de la jeunesse dans la première moitié du XXe siècle n’est pas anecdotique : lorsque le capitalisme se trouve dans une phase critique, ce qui est le cas depuis 2007 11, la tentation est grande, chez une partie de l’élite, de s’en remettre à des formes dictatoriales de pouvoir. C’est cela et rien d’autre qui se joue aujourd’hui ; l’introduction des iPads à l’école ou la montée des droites extrêmes dans la quasi-totalité des pays européens en sont des indices certains.

    Ne confondons pas le « libre choix » de chacun, y compris d’acheter des produits non éthiques, avec l’imposition, par l’État lui-même, d’un matériel issu de l’esclavage moderne. Surtout lorsque ce matériel, comme les iPads, est destiné à un secteur tout à fait particulier : les enfants, les jeunes et leur éducation. Tout se passe comme si les générations adultes, sur le déclin, montraient l’exemple le pire aux générations montantes : un monde dans lequel, en dernière analyse, chacun peut écraser son prochain sans état d’âme. Ce n’est pas une sorte de prétendue pureté de l’enfance qu’il faudrait conserver – pieux mensonge réactionnaire. Mais, comme l’expliquait Hannah Arendt dans La crise de l’éducation 12, si les nouvelles générations doivent être protégées par le monde des adultes car elles en représentent l’avenir, ce monde des adultes doit aussi se protéger des nouvelles générations.

    #numérique #iPad #tablettes #école #éducation #esclavage #Foxconn #critique_techno

  • Le genre urbain

    Derrière la modernité des modes de vie urbains dans les pays occidentaux, l’on serait tenté de penser que la présence des #femmes dans la ville et leurs pratiques spatiales ne diffèrent finalement pas ou peu de celles des hommes ou du moins qu’elles ont accès, si elles le souhaitent, aux différentes ressources de la vie urbaine. Or de nombreuses recherches révèlent que l’on a tendance à occulter les différences de sexe dans l’espace urbain et dans l’expérience que les femmes et les hommes en font. Ainsi, cette indifférenciation n’est qu’apparente et conduit le plus souvent à reproduire les représentations dominantes et des formes de hiérarchisation. Enfin, l’approche par le genre de l’urbain ne se limite pas – loin s’en faut – à la seule question des femmes dans l’espace public, comme en témoigne la diversité des thématiques abordées dans ce dossier.
    Ce numéro des Annales de la recherche urbaine vise donc à analyser les interrelations entre le genre et l’espace urbain, prises dans leurs différentes dimensions. Un premier résultat s’impose à la lecture de ce dossier : ces interrelations sont complexes et invitent à des lectures multicausales et fines des rapports sociaux dans l’espace urbain. Qu’il s’agisse des usages de l’espace, de sa perception ou de son mode de production, l’analyse des espaces urbains au prisme du genre revêt un intérêt (heuristique et pratique) indéniable. Ceci étant, les articles dévoilent comment le genre se combine avec de multiples autres variables (classe sociale, origine ethno-raciale, type d’espace urbain, capital social et culturel, etc.), rendant vaine toute lecture univoque ou simpliste. Aussi, il s’agit d’analyser et de comprendre les rapports sociaux de sexe tels qu’ils se déploient dans l’espace urbain, mais aussi de montrer en quoi l’espace urbain participe – ou pas – à la production et à la reproduction des rapports sociaux de sexe et des normes de genre. Au-delà de la seule description des inégalités, il est question de mettre en lumière les principes et les implications idéologiques, politiques et épistémologiques de cette catégorisation. Afin de rendre compte des logiques complexes qui articulent le genre et la ville, sont analysées une multiplicité de situations et de territoires, centraux ou périphériques, en France et ailleurs (Algérie, Brésil, Colombie, Japon).

    Interroger la vulnérabilité des femmes dans l’espace urbain

    À partir d’une ethnographie visuelle conduite à Medellín, Camilo León-Quijano décrit les contraintes et les formes de contrôle formels et informels (regards, sifflements, harcèlement de rue) qui se mettent en place pour orienter et contrôler les pratiques sociospatiales des femmes dans certains lieux de la ville, notamment les espaces verts ou les transports en commun. La photographie constitue un outil efficace pour rendre compte d’une expérience qui n’est pas toujours objectivée en tant que telle et pour comprendre le rapport genré des acteurs à l’espace. Marie Gilow et Pierre Lannoy, quant à eux, montrent comment les peurs féminines prennent corps dans certains lieux de passage, comment ce sentiment d’insécurité est amplifié par certaines caractéristiques situationnelles et configurations spatiales, qui peuvent susciter des angoisses du fait des impressions sensorielles qu’elles génèrent. Selon eux, outre les agressions sexistes, réelles ou redoutées, l’interprétation que les usagères opèrent de leur environnement tant physique que social révèle aussi les représentations que les femmes ont d’elles-mêmes, et l’intériorisation de l’idée d’une vulnérabilité spécifiquement féminine. Certaines politiques de rénovation urbaine peuvent donc avoir des effets significatifs sur le sentiment de sécurité et sur les usages de l’espace. Même si l’usage féminin des espaces publics urbains reste surtout utilitaire et fonctionnel, alors que les hommes l’utilisent pour y flâner, se rencontrer entre amis et discuter, l’organisation de festivités nocturnes et le réaménagement des parcs et jardins dans plusieurs quartiers de Batna en Algérie décrits par Farida Naceur permettent une (ré)appropriation progressive de ces espaces par les femmes et le développement de nouvelles pratiques urbaines émancipatrices. Pour sa part, Marine Maurin analyse comment les femmes sans abri limitent leur insécurité la nuit en développant des ressources et des stratégies qui vont au-delà du recours aux dispositifs d’assistance. Certaines de ces tactiques dites de « la débrouille » sont communes aux hommes dans la même situation, quand d’autres relèvent d’une adaptation aux contraintes et aux dispositions auxquelles leur sexe les assigne.
    L’introduction du genre dans les études urbaines ne dispense pas d’une réflexion sur la production des catégorisations et de normes de genre et de sexualité. Comme le rappelle l’article de synthèse de Marianne Blidon, le genre n’est pas synonyme de femmes et inclut des catégories comme les gays, les lesbiennes, les queers ou les personnes trans qui troublent la congruence entre sexe, genre et sexualité et questionnent les fondements de l’hétéronormativité des espaces urbains. L’expérience de l’insulte vécue par des lesbiennes interrogées par Sarah Nicaise met en évidence la manière dont sont mobilisés dans l’espace public les principes qui structurent l’ordre du genre et des sexualités quand des femmes ont une présentation de soi qui s’écarte de la norme. Entre gestion du stigmate, évitement et résistance, elle montre quelles sont les conditions sociales d’une opposition aux harcèlements sexué et sexuel qui s’exercent dans les villes. Deux facteurs semblent déterminants : d’une part les ressources détenues et mobilisables par ces femmes homosexuelles, et d’autre part la socialisation et l’appartenance à un collectif contestataire qui met à distance la violence du stigmate et aide à se prémunir de l’infériorisation qu’il génère.
    Ces différents articles nous invitent à réfléchir au sens et aux formes de la vulnérabilité sans la penser comme allant de soi. Ils invitent aussi à déplacer le regard de celles qui subissent le harcèlement de rue, ainsi que des politiques publiques.

    Produire du genre par la socialisation à la mobilité et la conception de dispositifs spatiaux

    À partir de l’exemple de la pratique du vélo, David Sayagh met en lumière des mécanismes comme l’évitement des prises de risque physique ou la possession d’un matériel garantissant une pratique apaisée. Ils conduisent en effet à des différenciations fortes entre les adolescents et les adolescentes et surtout, ils induisent des effets dans le rapport à l’espace et à la mobilité urbaine. Cette approche par les capabilités place les processus d’incorporation de dispositions sexuées au centre de l’analyse.
    Pour autant, si la socialisation à la mobilité joue un rôle dans la différenciation des pratiques urbaines et l’appropriation de l’espace public, ce n’est pas la seule dimension. Julian Devaux et Nicolas Oppenchaim montrent ainsi, à partir d’une comparaison entre commune rurale et commune de zone urbaine sensible, le poids des appartenances sociales et l’effet du lieu de résidence chez les adolescent.es. Les ressources sociales familiales, les stratégies éducatives parentales et la trajectoire scolaire sont déterminantes chez les ruraux, quel que soit leur sexe. Les effets de la stigmatisation et l’appartenance au groupe pèsent plus fortement chez les adolescents de milieu populaire vivant en Zus, de même que la réputation s’avère plus déterminante pour les adolescentes de ces quartiers. C’est d’ailleurs souvent le cas : l’argument du genre masque des enjeux de classe.
    Marion Tillous analyse les arguments qui ont prévalu pour justifier la mise à disposition de wagons de transport dédiés aux femmes à Tokyo et à São Paulo. Dans le premier cas, au début du XXe siècle, il s’agissait d’une demande bien accueillie des classes dominantes qui souhaitaient échapper à la proximité sociale. Dans le second, au début du XXIe siècle, la demande, moins audible et plus controversée, est exprimée par des femmes issues des classes laborieuses qui subissent mobilité contrainte, exploitation économique et harcèlement récurrent. Leur voix ne porte cependant pas et les organisations représentatives sont mises à l’écart des espaces de prise de décision. Or, faire entendre sa voix est déterminant pour favoriser la mise en œuvre de dispositifs de séparation ou inversement pour refuser des formes de mise à l’écart et de ségrégation.
    À partir de l’exemple de l’organisation de la prostitution à Campinas, Diana Helene montre le rôle des économies morales et des processus de catégorisation des identités féminines dans la structuration de l’espace urbain. Ici, la concentration et la relégation en périphérie de la ville des activités prostitutionnelles visent à préserver les femmes dites respectables et les familles du stigmate de « putain ». Des femmes plus âgées contestent toutefois cette mise à l’écart et revendiquent un droit à la centralité, au prix d’une certaine discrétion et d’une défense collective de leurs droits.

    Les politiques publiques à l’épreuve du genre

    On serait tenté là aussi de penser que les politiques publiques ont évolué et donnent une place comparable aux hommes et aux femmes dans la conception des projets, leur nature et leur destination. En effet, face aux injonctions internationales, le gender mainstreaming tend à s’imposer dans la production et la gouvernance urbaines sous différentes formes. En témoignent la signature de la Charte européenne des femmes dans la cité (1990) ou celle de l’Égalité entre les femmes et les hommes dans les politiques locales (2006), la mise en place d’observatoires de l’Égalité femmes/hommes, la parité dans les instances décisionnelles, l’attention en faveur de l’emploi de noms de femmes pour l’appellation des rues, la production de statistiques sexuées, mais aussi le développement de budgets sexués afin de vérifier qui bénéficie des investissements publics, ou encore le soutien de la collectivité à des associations de femmes. Comme l’analyse l’article de Lucile Biarrotte, ces politiques publiques dédiées à l’émancipation des femmes sont le fruit d’intenses échanges d’idées et de pratiques à toutes les échelles. Leur diffusion internationale se réalise souvent à partir d’initiatives locales présentées comme exemplaires. En ébaucher une vue d’ensemble et les mettre en écho permet de mesurer le chemin qu’il reste à parcourir notamment quand ces politiques se réduisent à quelques aménagements – ouverture de crèches, amélioration de l’éclairage public, élargissement des trottoirs pour permettre le passage des poussettes, réfection des trottoirs pour faciliter la marche avec des talons, réservation de places de parking repeintes en rose pour l’occasion dans des zones commerciales… –, qui une fois réalisés permettent de considérer que la case femme étant cochée, l’on est quitte des politiques d’égalité.
    En effet, rares sont les villes qui proposent une approche intégrée de ces questions, à l’image de la ville de Vienne, qui apparaît comme précurseur et fait figure de modèle. Claire Hancock et Marylène Lieber rappellent que cette intégration repose sur cinq fondements : l’utilisation d’une terminologie et d’un langage non sexistes, la collecte et le traitement de données sexuées, la valorisation de l’égal accès aux services municipaux, l’encouragement à une participation paritaire concernant les prises de décision, et la prise en compte d’un égal traitement comme base des politiques publiques. Plusieurs auteures s’accordent pour montrer qu’un des biais de ce rattrapage est parfois de considérer le genre comme une catégorie descriptive. Elles lui reprochent aussi de le réduire à la seule catégorie « femme », catégorie qui est souvent pensée au singulier et appréhendée de manière homogène, voire réifiée ou essentialisée. Pour ces raisons, le bilan de ces politiques n’est pas toujours à la hauteur des attentes en termes d’égalité.
    Si la mixité sociale figure parmi les credo maintes fois répétés sinon explicités des politiques urbaines, la mixité entre les hommes et les femmes demeure un impensé dans bien des cas, comme le soulignent nombre de chercheurs. Dans ces conditions, on peut s’interroger sur la manière dont l’organisation spatiale telle qu’elle est produite par les politiques d’aménagement prend en compte la question du genre, et en particulier les discriminations liées au sexe ou, au contraire, contribue à « assigner » des places à chacun, sans y prendre garde. À ce propos, Élise Vinet, Cynthia Cadel et Arnaud Beal questionnent les vertus de la mixité sociale, telle qu’elle est valorisée et développée actuellement dans nombre de quartiers d’habitat social français, et ses effets en termes de rapport sociaux de sexe. Bien souvent, cela se traduit par le régime de la coprésence, ce qui ne suffit pas à la réalisation d’objectifs souvent ambitieux en matière d’interactions sociales. Il convient donc, selon eux, de ne pas jouer la carte d’une catégorie d’habitants – les femmes des milieux populaires ou les classes moyennes – au détriment d’une autre – les hommes des milieux populaires ou plus largement les classes populaires –, mais de reconnaître la légitimité de tou.te.s les habitant.e.s à occuper l’espace résidentiel. Légitimité qui inclut également les jeunes hommes perçus comme « indésirables », ou plus largement pensés comme les « causes » des problèmes (sécuritaires, égalitaires, sociaux, etc.) relatifs à l’espace public, alors même qu’ils en sont les « révélateurs ».
    L’étude ethnographique conduite sur les plages urbaines de la zone sud de Rio par Claire Brisson va dans le même sens. Elle analyse ainsi les exemples de concordance entre masculinité racialisée prescrite dans et par les médias et masculinité de protestation de certains jeunes hommes noirs issus de milieux populaires. Elle montre que ces performances de la masculinité doivent être situées – inscrites dans un lieu –, car les masculinités sont ancrées physiquement et socialement dans l’espace. Les usages urbains de la plage révèlent donc une multiplicité d’identités qui ne s’accordent pas nécessairement les unes aux autres et qui imposent de ne pas réifier des catégorisations pouvant s’avérer stigmatisantes.
    Au final, le genre est un système de bicatégorisation hiérarchisée entre les sexes (hommes/femmes) et entre les valeurs et les représentations qui leur sont associées (masculin/féminin). Le genre est donc à la fois une construction sociale, un processus relationnel et un rapport de pouvoir qui s’intrique avec d’autres. Dans ces conditions, produire une analyse au prisme du genre ne doit pas s’accompagner d’une cécité à d’autres rapports de domination enfermant ainsi dans un faux dilemme entre antiracisme et antisexisme, pour reprendre le titre de l’article de Claire Hancock et Marylène Lieber. Ce dossier nous invite par conséquent à considérer les femmes – et les hommes – dans leur diversité, sans leur assigner de rôle a priori, mais également à s’assurer qu’elles – et ils – ne sont pas instrumentalisées à l’encontre d’autres publics. Dans cette perspective, la prise en compte du genre et son intégration aux politiques publiques devient un levier d’action qui peut rendre effectif le droit à la ville.

    Virginie Bathellier, Marianne Blidon,
    Marie-Flore Mattei, Bertrand Vallet
    Sommaire

    Marianne Blidon : Genre et ville, une réflexion à poursuivre

    Claire Hancock, Marylène Lieber : Refuser le faux dilemme entre antisexisme et antiracisme
    Penser la #ville_inclusive

    Lucile Biarrotte : Féminismes et aménagement : influences et ambiguïtés
    La diffusion internationale d’initiatives d’urbanisme dédiées à l’#émancipation
    des femmes

    Marie Gilow et Pierre Lannoy : L’#anxiété urbaine et ses espaces
    Expériences de femmes bruxelloises

    Julian Devaux et Nicolas Oppenchaim : La socialisation à la #mobilité n’est-elle qu’une question de genre ?
    L’exemple des adolescents de catégories populaires du rural et de zones urbaines sensibles

    Élise Vinet, Cynthia Cadel et Arnaud Beal : Ressentis stigmatiques et résistances de certains jeunes #hommes « indésirables »

    Sarah Nicaise : #Stigmatisation et pratiques urbaines
    Une expérience partagée par des femmes homosexuelles dans les espaces publics

    Marion Tillous : Des #voitures de #métro pour les femmes
    De #Tokyo à #São_Paulo, enjeux et controverses d’un #espace_réservé

    Claire Brisson : Masculinité(s) noire(s)
    Géographies d’un stigmate sur la #plage d’#Ipanema

    Farida Naceur : Des femmes dans l’#espace_public
    #Places et #jardins à #Batna

    Camilo León-Quijano : Une ethnographie visuelle du genre à #Medellín
    #Photographie et #pratiques_urbaines

    David Sayagh : Construction sociospatiale de capabilités sexuées aux pratiques urbaines du #vélo

    Marine Maurin : Femmes #sans-abri : vivre la ville la #nuit
    Représentations et pratiques

    Diana Helene : L’invention du #Jardim_Itatinga et la #ségrégation urbaine de la #prostitution


    http://www.annalesdelarechercheurbaine.fr/le-genre-urbain-r91.html
    #revue #genre #villes #urban_matter #aménagement_du_territoire #urbanisme #homosexualité #LGBT #féminisme

  • Comment relancer l’économie de l’informatique par l’école
    Allons, z’enfants du numérique !

    http://cqfd-journal.org/Allons-z-enfants-du-numerique

    paru dans CQFD n°142 (avril 2016),
    par Ferdinand Cazalis, illustré par Etienne Savoye

    Comment réformer l’école de la République ? En formant mieux les enseignants ? En limitant le nombre d’élèves par classe ? En accompagnant les enfants vers la liberté, l’égalité et la fraternité ? Pas du tout. Pour le gouvernement, un seul plan de bataille : le tout numérique !

    « Nous avons besoin d’un plan ambitieux dans le domaine du numérique. Il n’est pas dans l’habitude de la France de passer à côté des révolutions. Nous ne raterons pas celle-ci. »

    Najat Vallaud-Belkacem. Salon international du numérique éducatif, 21 janvier 2016.

    On était prévenus : en manque d’idées pour l’éducation, François Hollande avait – dès 2009 – tout misé sur l’innovation technique. Après avoir distribué des ordinateurs portables, il prit la décision d’équiper collèges et lycées de sa région de Corrèze en tablettes numériques. Sitôt pensé, sitôt acheté, une commande de 13 000 iPads fut passée en 2010 pour 1,5 million d’euros aux frais du contribuable. À défaut de changer quoi que ce soit aux conditions de travail des enseignants et faute de donner de la consistance aux enseignements, une telle action avait au moins le mérite de relancer l’économie et de se la jouer moderne. Un an après les effets d’annonce, une enquête de l’Inspection générale de l’éducation nationale faisait le tour des classes de Corrèze pour constater les dégâts : « 
    Il est clair que la grande majorité des enseignants, d’une part ne recourt que rarement aux ordinateurs portables, affirmant préférer se servir des postes fixes, plus fiables, et d’autre part n’utilise presque pas la tablette numérique, voire, pour certains, la rejettent.
    [1] »

    Créer un marché du numérique éducatif

    Peu importe, dès son arrivée aux manettes suprêmes en 2012, le moi-président annonça son plan pour l’éducation : le passage au numérique pour toutes et tous. On allait débourser un milliard d’euros et équiper tous les bahuts en WiFi, avec des cours de code informatique, des tablettes, des ordis, des tableaux blancs interactifs. Deux ans après, en 2014, seuls quelques dizaines d’établissements en avaient bénéficié, et 5% des enseignants utilisaient le numérique dans leurs cours. Mais qui n’avance pas recule : Hollande annonça donc un « grand » plan numérique. Il s’agissait de créer « un marché du numérique éducatif », disait-on alors au ministère de l’Éducation [2]. C’est donc surtout à Bercy qu’on sabra le champagne : imaginez les 12 millions d’élèves français transformés en clients subventionnés pour relancer les ventes en gadgets électroniques...

  • Derrière l’écran de ton iPhone, l’usine ultra-monitorée de Pegatron
    http://bigbrowser.blog.lemonde.fr/2016/04/27/derriere-lecran-de-liphone-lusine-ultra-monitoree-de-pegatron/#xtor=RSS-32280322

    Un journaliste de Bloomberg a pu visiter une des usines où sont fabriqués les iPhone, celle, « très mystérieuse », gérée par le sous-traitant d’Apple Pegatron dans la banlieue de Shanghai. Son article dessine un environnement de travail ultra-connecté, presque totalitaire dans la façon dont les ouvriers chargés d’assembler les téléphones (dont les ventes viennent de connaître une baisse historique) sont gérés, surveillés et (...)

    #Apple #Pegatron #smartphone #travail #surveillance #Foxconn #iPad #iPhone

  • La #reconnaissance_faciale s’invite dans les solutions de pointage
    http://etraces.constantvzw.org/informations/la-reconnaissance-faciale-s-invite

    Les technologies biométriques éveillent de plus en plus la curiosité des éditeurs RH. Il y a quelques semaines, la société #Gextra_Time a créé la surprise en dévoilant une solution de pointage basée sur la reconnaissance faciale. Particulièrement innovant, l’outil permet aux salariés de « badger » en présentant leur visage à un #iPad fixé au mur.

    #iPad, #biométrie, #surveillance_des_salariés, #reconnaissance_faciale

  • breaking the grid — M le magazine du Monde : papier vs iPad, le jeu des 7 différences

    http://lmdefr-design.tumblr.com/post/122761887059/m-le-magazine-du-monde-papier-vs-ipad-le-jeu

    M Le magazine du Monde sort en kiosque chaque week-end. M Le magazine du Monde sort en kiosque chaque week-end. Voyez-vous la différence ? Ces deux phrases semblent dire la même chose et pourtant… d’un côté il y a un magazine imprimé distribué dans un kiosque à journaux, et de l’autre un magazine numérique disponible dans le kiosque de l’Apple Store. Un contenu identique, mais deux mises en formes différentes, et ce sur plusieurs points.

    #graphisme #design_graphique #presse #médias #iPad

  • Pourquoi Steve Jobs et Cie ont gardé leurs enfants éloignés des iPads

    http://www.express.be/business/fr/technology/pourquoi-steve-jobs-et-cie-ont-garde-leurs-enfants-eloigns-des-ipads/207897.htm

    Les dirigeants de la Silicon Valley transforment le monde en un environnement totalement technologique, mais se montrent comme parents particulièrement réticents à l’égard de ces applications innovantes, écrit Nick Bilton, journaliste spécialiste de la technologie auprès du journal américain The New York Times. Bilton a en effet constaté que l’élite de la Silicon Valley contrôle de manière stricte l’utilisation de la technologie par leurs enfants.

    https://www.youtube.com/watch?v=NvMNf0Po1wY

    http://www.informaction.info/image-science-technologie-etude-de-linserm-sur-limpact-de-la-televisi

    #enfants #écrans #ipads

  • #Monument_Valley / Making the #iPad Game of the Year
    http://stories.maker.me/monument-valley-an-apple-design-award-winning-game

    Monument Valley tells the story of Ida, a silent princess on a quest for forgiveness, who is guided through a land of mysterious monuments. Named Apple’s Best iPad Game of the Year and winner of the Apple Design Award in 2014, Monument Valley has impressed both gamers and art enthusiasts alike. It was first released in April of 2014, and quickly gained attention for its elegant balance of interaction, beauty, and storytelling. Making of

    #jeux_vidéo