• Viaggio nelle serre della Fascia trasformata, dove anche i minori sono costretti a lavorare

    Nelle serre del ragusano più di 28mila lavoratori vivono in gravi condizioni di sfruttamento. Tra questi anche i figli dei braccianti, spesso costretti a lavorare già a 10 anni. A Marina di Acate, però, alcune realtà tentano di dare loro la possibilità di costruirsi un futuro diverso. Il nostro reportage.

    Ai bordi della strada provinciale 31 che collega Scoglitti (Ragusa) a Gela (Caltanissetta), il paesaggio si ripete immutato per chilometri: una lunga distesa di serre con bianchi teloni di plastica che ne nascondono l’interno. Tutto sembra fermo, immobile. Solo in pochi casi, dai piccoli squarci nelle coperture, si può intravedere la coltura o qualcuno al lavoro.

    È il paradosso di questa fascia costiera, tutt’altro che ferma, che si estende da Ispica ad Acate per oltre 20 chilometri di larghezza e 80 di lunghezza e vede più di 5.200 aziende agricole attive tutto l’anno con almeno 28mila lavoratori coinvolti. Anche tanti minori. “Questa mattina una ragazza, avrà avuto 13 anni, mi ha guardato dicendomi ‘Io, qui, vedo solo plastica’. In quella frase, c’è un orizzonte che diventa un muro, un confine verso il futuro che non è poroso perché tutto sembra immutabile”, sospira Alessandro Di Benedetto, psicoterapeuta che lavora con Emergency, che incontriamo a fine luglio a Marina di Acate (RG).

    Il centro “Orizzonti a colori” è nato a gennaio 2022 ed è un’oasi felice a Marina di Acate che interrompe bruscamente il ripetersi delle serre nella cosiddetta Fascia trasformata, soprannominata così perché le dune di sabbia sono state sostituite, anno dopo anno, dalla plastica delle serre. Un grande cancello “nasconde” un prato su cui si affaccia una grande struttura di colore giallo con un arcobaleno che taglia a metà la facciata. La struttura, in realtà, è già da dieci anni attiva come presidio stabile nato dalla volontà della Caritas di Ragusa che voleva a tutti i costi creare un punto di riferimento nella zona.

    “Appena arrivati avevamo difficoltà addirittura a far conoscere che era nato un centro in cui poter ricevere assistenza materiale, legale e sanitaria -racconta Vincenzo La Monica, responsabile dell’associazione I tetti colorati, braccio operativo del presidio locale di Caritas italiana-. Le serre sono terreni privati, non potevamo accedervi direttamente, così abbiamo preparato dei volantini in diverse lingue facendone una specie di aeroplanini di carta che lanciavamo oltre i muri delle aziende agricole”.

    Il disperato tentativo di far uscire le persone e farle entrare in contatto con i servizi fotografa efficacemente quello che, quotidianamente, succede lungo tutta la Fascia trasformata. Persone senza documenti che spesso comprano residenze fittizie pagando circa 700 euro per sei mesi in cittadine anche a cento chilometri di distanza. E così le famiglie “spariscono” formalmente da quel territorio. E non solo uomini adulti. “In questa zona per la prima volta è stata data la possibilità ai lavoratori di portare la propria famiglia in loco -spiega Alessia Campo, collega di La Monica-. Così, all’interno di queste serre è cominciato anche ad aumentare anche il numero di donne e soprattutto di minori”. Difficile dire quanti siano.

    L’ultimo rapporto di Save the children “Piccoli schiavi invisibili”, pubblicato a fine luglio e dedicato proprio alla condizione dei figli dei braccianti, evidenzia che “molti rminori sono impiegati nell’azienda di famiglia già a partire dai dieci anni, anche se non tutti i giorni […]; altri invece supponiamo che lavorino quotidianamente nell’azienda di famiglia”.

    Per questo motivo nel centro “Orizzonti a colori” i più giovani sono diventati la priorità individuano nell’accesso alla scuola uno dei pilastri su cui lavorare. “Prima di arrivare all’emersione di un’eventuale condizione di sfruttamento -spiega Valeria Bisignano di Save the children, coordinatrice del progetto ‘Liberi dall’invisibilità’- tentiamo di agganciarli attraverso l’accompagnamento scolastico. Sono ragazzi che devono scegliere tra il lavoro, lo studio, e a volte hanno la responsabilità dei fratelli più piccoli”.

    Così circa 60 ragazzi durante l’anno si recano al Centro per essere accompagnati nel percorso scolastico. Un percorso tortuoso, anche per motivi strettamente “logistici”. Le scuole più vicine a Marina di Acate distano 12 chilometri -ad Acate (RG)- oppure più di 20 dal limitrofo comune di Vittoria (RG). Per Acate il costo è di due euro al giorno per bambino, per Vittoria lo scuolabus esiste ed è gratuito, ma è assicurato solo per elementari e medie, non c’è per le scuole dell’infanzia e per la secondaria di secondo grado. Anche i due euro a viaggio sono spesso troppo per chi per una giornata di lavoro dovrebbe guadagnare circa 60 euro -“Molto meno nella realtà, circa 35/40”, racconta La Monica- e per cui, tra l’altro, l’assenza dell’aiuto del figlio pesa sulla capacità di soddisfare le richieste del datore di lavoro.

    “Per questo motivo, nell’ultimo anno, abbiamo deciso di creare delle borse di studio per chi veniva nel Centro e continuava gli studi. Dovevamo ‘monetizzare’ il loro tempo speso qua”, continua Alessia Campo di Caritas, sottolineando come siano bambini che vivono completamente isolati dalla realtà e che spesso non incontrano nessuno se non la loro famiglia. “Non mi scorderò mai di quando un giorno un ragazzo mi ha chiesto: ‘Come si fa a fare amicizia?’”. Da quella domanda è nato il laboratorio “Prendersi cura” che insegna ai ragazzi a riconoscere le proprie emozioni e a relazionarsi con esse. E anche i laboratori teatrali, un filo rosso che lega gli anni di vita di questo luogo, prima presidio e poi centro “Orizzonti a colori”, aiutano i più giovani a prendersi quella parola e quegli spazi che spesso gli sono negati. “Il primo anno abbiamo organizzato uno spettacolo teatrale con 18 partecipanti che inscenavano una ‘Cenerentola’ rivisitata in cui il principe azzurro portava i ragazzi a scuola”, ricorda La Monica. A giugno, uno spettacolo finale del laboratorio curato da Tetti colorati nell’ambito del progetto di Save the children ha visto oltre 160 spettatori adulti partecipare: circa metà e metà tra italiani e stranieri.

    Già perché nella Fascia trasformata lo sfruttamento non riguarda solamente gli stranieri. “Chi non ha un permesso di soggiorno è sicuramente più vulnerabile e ricattabile -spiega Giorgio Abbate, responsabile del progetto Diagrammi per la Flai-Cgil- ma le terribili condizioni di lavoro riguardano anche le persone italiane”.

    Sedici, diciassette ore di lavoro a circa cinque euro all’ora. E nei giorni in cui la Sicilia brucia e le temperature toccano record mai raggiunti, nelle serre il lavoro non si è fermato. “Siamo riusciti a concordare che si lavorasse solo in fasce orarie più tarde ma, per esempio, chi lavora nei magazzini ha continuato a fare turni di lavoro ‘normali’ con temperature che raggiungevano i 40 gradi all’interno dei capannoni”, spiega Abbate. Mancano i controlli -anche perché c’è un solo ispettore del lavoro per tutta la provincia di Ragusa- e manca soprattutto un sistema economico capace di premiare chi è onesto.

    “Ci sono datori di lavoro che nonostante enormi margini di guadagno continuano a sfruttare i lavoratori, altri sono vittime loro stessi: i prezzi della concorrenza sono troppo bassi per potere garantire salari adeguati, e il costo del lavoro è il primo su cui tagliare per sopravvivere”, osserva Abbate. Un contesto difficile e spesso omertoso: non si sa ancora nulla della morte di Daouda Diane, giovane di origine ivoriana, operatore e mediatore di un Centro di accoglienza di Acate, che è scomparso nel nulla il 2 luglio 2022 nel tragitto tra la sua casa di Acate e la sede del cementificio Sgv Calcestruzzi, dove stava lavorando temporaneamente. Il giorno della sua scomparsa aveva girato due video nel cantiere nei quali denunciava le condizioni di insicurezza in cui lavorava; in uno dice: “Qui si muore”. E il procuratore di Ragusa Fabio D’Anna ha invitato più volte i cittadini di Acate a collaborare mentre cinque appartenenti alla società Sgv Calcestruzzi sono stati iscritti nel registro degli indagati nel fascicolo aperto per omicidio volontario e occultamento di cadavere.

    Non molti “braccianti” sono disposti a denunciare le condizioni di lavoro. Per molti la vita nelle serre è un passaggio. Due, tre anni di lavoro per poi riuscire a trovare un altro impiego. Per chi ha meno strumenti, invece, questa condizione rischia di occupare un tempo di vita molto più lungo. “E questo genera grande sofferenza -spiega Alessandro Di Benedetto di Emergency-. Spesso si generano delle dipendenze, soprattutto di alcol, perché ogni giorno il lavoro nelle serre ricorda il fallimento di un percorso migratorio non concluso come si sperava”.

    Ma la denuncia, spesso, non è una soluzione adeguata per chi ha comunque bisogno di ricevere un salario per sopravvivere o aiutare le famiglie nel Paese d’origine. Sono coperte dal silenzio, spesso, anche le violenze subite dalle donne che vivono una condizione di maggior vulnerabilità. “Abbiamo aperto degli sportelli di ascolto a loro dedicati -spiega La Monica-. Ascoltiamo storie di violenza domestica nella maggior parte dei casi, ma a volte anche da parte dei datori di lavoro. Ci hanno raccontato che i bagni delle serre sono trasparenti e i caporali le osservano mentre vanno ai servizi, piuttosto che mentre lavorano e magari, per il caldo, indossano vestiti scollati”.

    Al centro “Orizzonti a colori” il difficile contesto non scoraggia gli operatori. “Noi continuiamo a fare il nostro, ma non possiamo sostituirci alle istituzioni, che stiamo quindi cercando di coinvolgere”, sottolinea Bisignano di Save the Children. “I lavoratori sono invisibili, ma le serre no. Quello che succede qui è tutto alla luce del sole”, gli fa eco il referente della Cgil Abbate. Così, sono le singole storie a dare un significato al lavoro di tutti i giorni. Come quella di Adina (nome di fantasia), figlia di braccianti, che a inizio agosto ha cominciato uno stage in un importante albergo di Roma dopo aver concluso le scuole superiori. Una storia di riscatto cresciuta nel mare bianco delle serre della Fascia trasformata.

    https://altreconomia.it/viaggio-nella-fascia-trasformata-dove-i-minori-pagano-il-prezzo-piu-alt
    #Ragusa #Sicile #Italie #agriculture #exploitation #travail #conditions_de_travail #Ispica #Acate #mineurs #enfants #Orizzonti_a_colori #Fascia_trasformata #néo-esclavage #esclavage_moderne

  • “L’Italie est un pays effrayant” : Saviano terrorise la télévision publique
    https://actualitte.com/article/112846/droit-justice/l-italie-est-un-pays-effrayant-saviano-terrorise-la-television-publique

    La direction de la #télévision publique italienne (RAI) a annulé le programme du journaliste et auteur du best-seller Gomorra, « Insider, faccia a faccia con il crimine » (Insider. Face à face avec le crime). Quatre épisodes avaient déjà été enregistrés, avec une diffusion prévue pour novembre. Un choix qui ressemble fort à de la #censure_politique et une atteinte claire à la liberté d’expression.

    #Roberto_Saviano #Italie #néo_fascisme

  • Blueberries. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

    La raccolta dei mirtilli, nel distretto della frutta saluzzese, si svolge dalla metà di giugno all’inizio di luglio: pochi giorni durante i quali i datori di lavoro hanno bisogno di tanta manodopera tutta insieme. Tra i filari assolati alle pendici del Monviso i carrettini sono spinti da braccianti maliani, gambiani, ivoriani, burkinabé ma anche cinesi, pakistani, albanesi e qualche giovane italiano. In alcune aziende i raccoglitori sono protetti da ombrelloni da spiaggia, in altre no. In media si lavora nove ore al giorno. La paga è tra i 5.50 e gli 8 euro all’ora, a seconda dell’accordo informale che si è riusciti a strappare con il datore del lavoro, i contratti non contano granché vista la sistematicità del lavoro grigio.
    Gli imprenditori sembrano schiacciati tra le esigenze del mercato globale che impone regole e tempi e la difficoltà di reperire manodopera per un periodo così breve.

    “Mentre nell’area mediterranea la stagionalità del consumo del mirtillo è legata al periodo estivo, esiste un mercato britannico che consuma piccoli frutti tutto l’anno. Li importa in inverno dal Sudamerica e poi dai Paesi europei: prima Spagna, poi Italia e quindi Polonia. Nel contesto nazionale il mirtillo delle Alpi è di norma precoce e viene raccolto e distribuito da metà giugno a tutto luglio.
    … il mirtillo ha spesso sostituito gli appezzamenti di pesche e kiwi, diventando nel tempo un investimento redditizio.
    In provincia si coltivano oltre 500 ettari, di cui più della metà nell’area Saluzzese/Pinerolese, da cui proviene il 25% del prodotto nazionale. Sono sorte sotto il Monviso una quarantina di medie aziende. Vi sono poi, specialmente in collina, una miriade di piccoli e medi produttori (quasi 400) che conferiscono a cooperative e organizzazioni di produttori, che a loro volta sono la cintura di collegamento con la grande distribuzione e i mercati europei.” (La Gazzetta di Saluzzo, 4 giugno 2020).

    “…Un ulteriore problema di difficile risoluzione pare essere quello della manodopera, non per quanto riguarda la questione costi, ma per quanto riguarda la reperibilità: “Il costo della manodopera è sempre lo stesso. Il problema è trovarla” afferma un imprenditore di Revello. “Noi crediamo che questa volta sarà necessario rivolgersi alle cooperative, ma anche in quel caso si tratta di un terno al lotto. Per quanto ci riguarda, con altre colture oltre ai mirtilli riusciamo a mantenere gli operatori per periodi più lunghi di una sola campagna di raccolta. Inoltre, in questo modo si stabilisce un rapporto più stretto con il personale che può durare anche più anni”.
    “Abbiamo una cascina con diverse camere da letto, cucina, bagni. Siamo attrezzati per far alloggiare i dipendenti gratuitamente. Se si trovano bene è più probabile che rimangano. Cerchiamo di parlare sempre con i dipendenti, in questo modo si crea un dialogo diretto e ci si accorda sulla durata, sulle tempistiche e sulle modalità del lavoro”.
    “Abbiamo una decina di dipendenti che dal 2016 lavorano con noi. Credo sia normale aspettarsi un ricambio del personale, per svariati motivi, ma devo dire che la maggior parte rimane con noi”.
    (sito Italian Berry, 11 marzo 2023).

    Dunque: la superficie coltivata a mirtilli è notevolmente aumentata negli ultimi anni, anticipando così l’inizio della stagione della raccolta che durerà fino a novembre inoltrato con le mele cosiddette tardive. Nella grande piantagione a cielo aperto del Saluzzese, costitutivamente orientata all’export (l’80% della merce prodotta è destinata al commercio estero), il mirtillo è un prodotto relativamente recente, inserito nel portfolio produttivo degli agricoltori locali per via dell’elevata domanda e buona redditività sul mercato internazionale.

    Di agroindustria si tratta, un comparto che fa girare milioni di euro e quindi i costi di produzione non possono essere lasciati al caso: tra questi la manodopera è il fattore sul quale più facilmente si può giocare per ottenere profitti più alti. Certamente è noto con anticipo il fabbisogno, ma la maggior parte dei braccianti in questo primo periodo non ha un contratto o viene reclutata “last minute” tramite cooperative, agenzie o altre modalità informali di intermediazione. Rigorosamente a chiamata. Che l’apparente scarsa programmazione delle aziende celi una strategia di compressione dei salari? A pensar male si fa peccato, ma chissà…

    A tal proposito si fa un gran parlare di caporalato, il buco nero del discorso dove ogni altra forma di critica tende a collassare. Senza negare che il fenomeno esista e possa avere tratti particolarmente odiosi e anti-solidali, occorrerebbe un inquadramento della questione radicalmente diverso rispetto a quello ideologico dominante. Per esempio: quando il padrone chiede ad Amadou, che ormai da anni ogni estate lavora per lui e col quale si è instaurato un rapporto di strumentale fiducia, di trovare «tra i suoi contatti africani» braccianti disponibili per i giorni della raccolta, Amadou di fatto sta svolgendo una mansione extra per cui non ci sembra scandaloso possa percepire una retribuzione o qualche privilegio. Del resto, anche le tante regolari agenzie di intermediazione del lavoro non sono propriamente delle ONLUS. Se poi Amadou taglieggia i suoi contatti, allora è una persona spregevole, senza se e senza ma. Altrimenti? Amadou sta davvero compiendo chissà quale crimine? Un crimine più grave delle tante giornate di lavoro sistematicamente non segnate dai datori? Delle condizioni di lavoro indegne e logoranti? Delle paghe sempre inferiori a quelle che dovrebbero essere corrisposte in rapporto alle mansioni svolte?

    Certo, anche le pratiche d’intermediazione informali, questa sorta di ‘caporalato soft’, s’inscrivono in una cornice di reclutamento della forza-lavoro fortemente neoliberista: il caporale è solo un (piccolo) imprenditore in un mondo dominato da (grandi) imprenditori. Ma rivalutare la questione in questi termini, più materialisti e meno moralisti, forse, aiuterebbe a spostare il focus sulle cause e non sugli effetti.

    Parliamo allora di sfruttamento. Sfruttamento non in quanto mero reato, ma come motore del processo di accumulazione di capitale. Per accelerare le operazioni e incentivare la produttività, in molti casi ai lavoratori viene proposto di raccogliere a cottimo, un euro a cassetta per quanto riguarda i mirtilli. Alcuni accettano, «perché comunque conviene: se sei veloce guadagni di più che essere pagato ad ora, e poi nelle campagne del sud siamo abituati a lavorare così…quindi perché no». Comprensibile, certamente, specie sul piano individuale. Ma onestamente problematico dal punto di vista collettivo. La produttività della forza-lavoro è infatti essenziale per incrementare i margini di profitto e il Capitale, impersonificato nella figura degli imprenditori agricoli, grandi o piccole che siano le loro aziende, cura questo aspetto con grande attenzione. Non solo e non tanto con un’organizzazione più efficiente del processo produttivo, ma anche e soprattutto a scapito dell’alienazione e della tenuta fisica dei lavoratori spesso trattati come se fossero dei macchinari e non anzitutto degli esseri umani. Ma non si creda che il lavoro vivo subisca sempre passivamente questo disciplinamento! «Pretendono di usare il telefono mentre lavorano, la sera fanno i loro ‘summit’ tra di loro e impongono alle squadre più veloci di rallentare, e così via…», si lamenta un imprenditore agricolo. «Cerchiamo di non andare troppo veloce, di lavorare in modo tranquillo, per respirare un po’» afferma un bracciante. Lo scontro sul ritmo del lavoro è uno dei principali punti di frizione tra salariati e datori di lavoro, il rallentamento della produttività una possibile linea di forza di questa working class, ancora sconosciuto nella sua forza.

    Ai padroni poco importa quanti chilometri percorrono in bicicletta per presentarsi sul campo o se non hanno un posto dove dormire. L’importante è che le preziose bacche non restino sulle piante e giungano in fretta sui mercati. Anche in questo caso però può succedere che i “mediatori” si offrano per risolvere un problema reale garantendo il trasporto o, meno frequentemente, un posto letto (a carico del lavoratore).

    In questo primo scorcio di stagione, le cosiddette accoglienze, coordinate dalla Prefettura di Cuneo (i containers e la casa del cimitero del comune di Saluzzo per circa 230 posti letto) e gestite da una cooperativa, sono in ampissima misura mantenute chiuse. Può sembrare una scelta paradossale visto che, in assenza di alternative, una quota di lavoratori e aspiranti lavoratori, tra i 25 e i 100, è costretta ad accamparsi nei giardini pubblici del Parco Gullino, da qualche anno diventato luogo di approdo e di socialità, sorvegliato giorno e soprattutto notte dalle forze dell’ordine.

    In realtà dietro questa scelta politica ben precisa una logica c’è, per quanto perversa e cinica essa sia. La motivazione ufficiale, buona da sbandierare sulla stampa locale, è che i Comuni aderenti al progetto di accoglienza, ‘al modello Saluzzo’ (sic!), sono tarati sull’inizio della raccolta delle pesche nella seconda metà di luglio e non sono pronti per aprire prima. Storie. La motivazione reale ha invece a che vedere con il timore delle amministrazioni di creare un fattore di attrazione che susciti un’eccedenza di proletari razzializzati presenti sul territorio, persone non gradite se non in quanto risorse produttive immediatamente impiegate nella fabbrica agricola. Si basa inoltre sulle “prenotazioni” di posti letto da parte di alcuni imprenditori per chi più avanti avrà un contratto per tutta la stagione.
    Va da sé che chi non ha un contratto non può accedere alle accoglienze.

    La fantasia governamentale è di disporre just-in-time, né prima né dopo i periodi delle raccolte, della giusta quota di forza-lavoro, né troppa né troppo poca.

    Ormai non c’è più soluzione di continuità tra mirtilli, albicocche, pesche e mele ma quantità diverse di frutta da raccogliere e quindi diverso numero di braccia da impiegare. Tutto chiaro, gli imprenditori e le organizzazioni che li rappresentano conoscono benissimo le dinamiche del mercato del lavoro bracciantile che attraverseranno l’intera stagione fino all’autunno inoltrato.

    https://www.meltingpot.org/2023/07/blueberries-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

    #Italie #Saluzzo #myrtilles #agriculture #exploitation #petits_fruits #migrations #travail #Pinerolo #main-d'oeuvre #exportation #industrie_agro-alimentaire #caporalato #hébergement #logement #SDF #sans-abris #Parco_Gullino #modello_Saluzzo #modèle_Saluzzo #fruits #récolte #récolte_de_fruits

    • #Golden_Delicious. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      La seconda parte di queste cronache del bracciantato saluzzese è riferita alla raccolta delle mele che è in pieno svolgimento.

      Quando, a Saluzzo e dintorni, si parla di lavoro migrante in agricoltura, in particolare di bracciantato africano, generalmente si finisce per parlare di accoglienza.

      Se, da un lato, viene millantata la bontà del ‘modello Saluzzo’ e delle cosiddette accoglienze diffuse e in azienda, dall’altra parte viene giustamente fatta notare la contraddizione degli insediamenti informali, simboleggiata dalla situazione al Parco Gullino 1. L’impressione, tuttavia, è che la condizione di chi dorme o ha dormito al parco venga generalizzata in modo problematico, prendendo uno specifico spaccato di realtà per il tutto. Senza voler minimizzare l’importanza della questione abitativa, che peraltro è molto più di ampia portata e andrebbe esaminata oltre la dialettica tra insediamenti informali e accoglienze, crediamo sia doveroso parlare anche e soprattutto di lavoro. Perché in fondo le persone a Saluzzo – tutte, dalla prima all’ultima – vengono per lavorare.

      «Quest’anno le mele cuneesi, pur a fronte di un lieve calo produttivo dovuto all’andamento climatico, sono contraddistinte da una qualità estetica e organolettica ovunque buona. E’ quanto evidenzia Coldiretti Cuneo in occasione dell’avvio della campagna di raccolta che si apre con buone prospettive commerciali…

      Le operazioni di raccolta sono iniziate per le mele estive mentre tra fine mese e inizio settembre si passerà alle varietà del gruppo Renetta, dopodiché sarà la volta delle mele a maturazione intermedia dei gruppi varietali Golden Delicious e Red delicious; la campagna di raccolta continuerà fino a dicembre con i gruppi varietali a maturazione tardiva.

      … La Granda, che vanta una produzione di eccellenza a marchio IGP, la Mela Rossa Cuneo, ha conosciuto negli ultimi anni una progressiva espansione degli impianti di melo, con oltre 2000 aziende frutticole coinvolte e una superficie dedicata di quasi 6000 ettari (+ 21% negli ultimi 5 anni), pari all’85% della superficie piemontese coltivata a melo». (Comunicato Stampa Coldiretti, 25 agosto 2023)

      Il problema principale è che la manodopera scarseggia.

      «In provincia di Cuneo, nel 2022, sono state 3232 le aziende assuntrici di manodopera agricola e 13200 i dipendenti in agricoltura , a fronte di 24844 pratiche di assunzione, perché ci sono dei lavoratori che, per via della stagionalità delle operazioni nel settore, hanno lavorato in più aziende…

      L’agricoltura garantisce sempre più occupazione per l’intero anno o una larga parte di questo ma la carenza di manodopera base e specialistica ormai è una realtà; le cause sono diverse ma occorre lavorare per fare diventare più attrattivo il lavoro in agricoltura, specie nei confronti dei giovani. Oggi la manodopera extracomunitaria è sempre più indispensabile ma bisogna semplificare gli iter di rilascio dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato, che a volte sono un ostacolo nel fidelizzare i lavoratori stranieri rispetto ad altri paesi europei. In ultimo il costo del lavoro, che incide in maniera eccessiva sulle aziende agricole…Servono urgentemente interventi decontributivi. – lancia l’allarme Confagricoltura Cuneo – Oggi la difficoltà maggiore per le aziende è reperire manodopera ma i tempi di lavorazione in agricoltura non sono decisi dagli imprenditori bensì dalla natura. Lavoratori italiani non se ne trovano più ma calano anche i lavoratori neocomunitari e per gli extra UE permangono molte incertezze legate al decreto Flussi e ai tempi di rilascio dei visti di ingresso… Per le aziende agricole assumere manodopera sta diventando sempre più una corsa ad ostacoli con più regole, contributi e sanzioni». (Comunicato Confagricoltura Cuneo, luglio 2023)

      Ovviamente nessuno parla delle condizioni di lavoro e di salario. Altro che rendere appetibile il lavoro in agricoltura!

      Qual è dunque la cifra costitutiva del lavoro salariato in agricoltura (e forse non solo in agricoltura) nel Saluzzese (e forse non solo nel Saluzzese)?

      Crediamo di poter rispondere, senza timore di smentita, il surplus extra-legale di sfruttamento della forza-lavoro, ovvero la mancata corresponsione di una significativa porzione di salario. Inutile e controproducente utilizzare mezzi termini: si tratta di un vero e proprio furto, perpetrato con la massima naturalezza e serenità dagli imprenditori agricoli in un clima di generale impunità e accondiscendenza. Tanto più quando il lavoratore è straniero ed è strutturalmente più vulnerabile a causa del ricatto del permesso di soggiorno, tanto più quando non conosce abbastanza la lingua italiana ed è inconsapevole dei suoi diritti, tanto più quando ha a disposizione poche opportunità di impiego alternative.

      Non serve essere dei marxisti ortodossi per condividere che la ricchezza è prodotta dal lavoro degli operai ma appropriata dai possessori dei mezzi di produzione. Oggi, in un’epoca dominata dall’egemonia del pensiero capitalistico, questo pilastro non è forse più così in in evidenza, eppure il meccanismo è sempre quello. A partire dal caso del distretto della frutta del Saluzzese, vogliamo sottolineare come i padroni di oggi, oltre al plusvalore frutto dello sfruttamento legalizzato, si avvalgano di tutta una serie di tecniche extra-legali per garantirsi l’accaparramento di un’eccedenza di ricchezza.

      È sconcertante constatare come agli operai africani impiegati nel distretto della frutta non sia praticamente mai corrisposta la retribuzione che spetterebbe loro da contratto, che è comunque vergognosamente bassa rispetto alle condizioni generali di un lavoro del genere, duro e precario per definizione.

      La stragrande maggioranza dei braccianti dichiara infatti di lavorare circa dieci ore al giorno, durante le fasi intense di raccolta anche la domenica. Secondo il Contratto Collettivo Nazionale degli Operai Agricoli e Florovivaisti, dopo le 6.30 ore di lavoro giornaliere (39 ore settimanali su 5 giorni) le ore svolte sono da considerarsi straordinari, e la maggiorazione per ogni ora di straordinario è pari al 30% e per i festivi pari al 60%. I sindacati coi quali abbiamo interloquito ci hanno detto di non avere quasi mai visto una busta paga contenente degli straordinari, mentre i lavoratori di non avere mai ricevuto ‘fuori busta’ paghe orarie superiori alla retribuzione oraria pattuita. Insomma, sebbene lavorare nei campi roventi d’estate e gelidi d’inverno sia già di per sé un lavoro duro e logorante, semplicemente il lavoro straordinario (che è la norma) non è riconosciuto, come se non esistesse tout court. 50/60 euro a giornata devono bastare.

      Un altro aspetto del furto di salario consiste nell’approvvigionamento del materiale di lavoro. Per legge, grazie ai risultati delle lotte del passato che l’hanno imposto anche sul piano legale, il datore di lavoro è tenuto a fornire al dipendente tutti i dispositivi di sicurezza di cui necessita per svolgere le mansioni richieste da contratto. Bene, è sufficiente farsi un giro alla Caritas, oppure al parco Gulino la domenica, per rendersi immediatamente conto di come ciò non avvenga e i lavoratori debbano procurarsi autonomamente i dispositivi di protezione (scarpe anti-infortunistica, guanti, etc.), altrimenti non vengono assunti.

      Se poi guardiamo oltre i picchi della raccolta stagionale e ci concentriamo sui non pochi operai agricoli africani che riescono ad ottenere contratti più lunghi, che magari si estendono sino a dicembre, anche qui si vedrà come raramente il lavoro è pagato il giusto prezzo. Pur svolgendo mansioni qualificate come ad esempio il diradamento o la potatura, spesso l’inquadramento salariale è quello del raccoglitore, a cui corrisponde ça va sans dire un salario inferiore.

      E si potrebbe andare avanti, e più avanti si va più si possono notare comunanze tra la condizione dei braccianti africani e quella di tanti lavoratori, in altri settori, stranieri ma anche italiani.

      I lavoratori africani nel Saluzzese accettano tutto ciò passivamente?

      No, specialmente oggi che il problema del contesto italiano (almeno nel nord del paese) sembra essere meno l’assenza di impiego e più il lavoro povero. La principale manifestazione di contropotere operaio è infatti l’atteggiamento iper-utilitaristico con cui si affrontano i padroni: “non mi paghi in modo soddisfacente, prendo e me ne vado. Immediatamente. Tanto riesco a trovare altro“. Non è sempre stato così, non è detto che sarà sempre così: in alcuni momenti l’offerta di lavoro era così ridotta che un lavoro, per quanto sfruttato e indegno, bisognava tenerselo stretto, perché serviva per mangiare, perché serviva per i documenti.

      Esistono poi molteplici linee di resistenza spontanea che agiscono sotterraneamente, di cui si viene a conoscenza solo creando un rapporto di fiducia e di ascolto reale con i lavoratori.

      Per esempio, la contrattazione informale sulle giornate di lavoro da segnare effettivamente in busta paga, almeno quel tot per raggiungere la soglia necessaria alla disoccupazione agricola, strumento peculiare per garantire continuità reddittuale nei mesi di inattività forzata. Il lavoro grigio, infatti, molto più che la qualità della frutta prodotta nelle piantagioni, è il vero marchio di fabbrica del distretto della frutta del Saluzzese.

      In zona è perfettamente noto a tutti, organi di controllo compresi, che le giornate di lavoro segnate ai braccianti non coincidono con quelle effettivamente svolte. Sebbene le situazioni varino di azienda in azienda, ipotizziamo che le giornate segnate siano meno della metà di quelle svolte. Un grande, enorme risparmio per le tasche degli imprenditori. Per rendersi conto dell’enorme volume di attività lavorativa non contabilizzato – quindi dei soldi risparmiati – sarebbe sufficiente disporre dei dati relativi alle giornate di lavoro necessarie in rapporto alla superficie di terreno coltivato e incrociarlo con le giornate documentate, ma guarda a caso questi dati non sono disponibili e custoditi gelosamente dagli organi di controllo e di rappresentanza delle aziende. (Dati che peraltro sarebbero estremamente utili anche per la programmazione della gestione abitativa della forza-lavoro stagionale, anziché agitare il solito spettro degli insediamenti informali)

      Sorvoliamo sui contributi non versati e sul conseguente mancato introito nelle casse dello Stato, perché il discorso sulla tassazione è lungo e complesso,ma guardiamo le cose dal punto di vista, anche egoistico se vogliamo, ma maledettamente materiale, del lavoratore che si spacca la schiena in campagna. Perché se il padrone risparmia, risparmia solo lui e l’operaio non ne trae alcun beneficio?

      Purtroppo però le linee di resistenza spontanea individuale faticano a comporsi in una forza collettiva organizzata. L’azione sindacale ha fatto pochi passi in avanti e resta schiacciata sull’azione legale piuttosto che sulla pratica di lotta diretta, con il risultato di non fare mai esperienza di un fronte comune ma di vincere o perdere in solitudine.

      Occorrerebbe infine guardare l’evidente diminuzione degli arrivi di braccianti in cerca di occupazione da un punto di vista diverso, diminuzione che si sovrappone e si sostituisce al ricambio pressoché totale di persone che arrivano a Saluzzo stagionalmente già registrato negli anni passati. Anche questo fenomeno andrebbe considerato infatti come una forma di “resistenza”, confermato dai continui appelli per mancanza di manodopera lanciati dalle organizzazioni datoriali e dal veloce passaggio ad altri settori produttivi di molti lavoratori africani che si sono stabiliti nel saluzzese.

      Sarebbe interessante approfondire che cosa intendono i padroni quando parlano di “fidelizzazione” dei propri dipendenti…

      Siamo perfettamente consapevoli che nella congiuntura attuale molti piccoli imprenditori agricoli stiano faticando, schiacciati dalla concorrenza del mercato internazionale, dal potere della grande distribuzione, dall’interdipendenza della distribuzione logistica.

      Alcune aziende sono a rischio fallimento, altre vengono assorbite dai pesci più grandi… ma è l’agriculutral squeeze, baby! Che altrove ha già comportato un cambio di scala nella dimensione aziendale. D’altro canto, è inaccettabile che l’insostenibilità della produzione agricola contemporanea per il piccolo imprenditore sia scaricata sui lavoratori salariati, non a caso persone razzializzate, che l’auto-sfruttamento dei datori di lavoro sia proiettato sui dipendenti. Già, perché a quanto pare il grado di sfruttamento nelle piccole aziende è ancora maggiore che nelle grandi. Ma se, anziché allearsi con le forze vive del lavoro per cambiare le regole del gioco, i contadini compartecipano al sistema di sfruttamento generalizzato, potendo sopravvivere solo grazie allo sfruttamento dell’ultimo anello della catena, allora la scelta di campo è stata fatta.

      https://www.meltingpot.org/2023/09/golden-delicious-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi
      #pommes

    • L’ultimo kiwi. Cronache dalle piantagioni saluzzesi

      Il lavoro stagionale nel distretto frutticolo di Saluzzo, tradizionalmente, si chiude con la raccolta dei kiwi nella seconda metà di novembre. Sei mesi sono trascorsi da quando i mirtilli, colorandosi di blu, avevano dato avvio alla stagione 2023.

      In realtà la produzione locale è notevolmente diminuita negli ultimi anni a causa della batteriosi e della cosiddetta “morìa” che hanno falcidiato ettari di frutteti, poi sostituiti da mirtilli e mele invernali ma anche in relazione a scelte imprenditoriali che hanno portato alla delocalizzazione delle piantagioni, verso il distretto di Latina in particolare. La raccolta, quindi, si concentra in poche giornate dai ritmi di lavoro massacranti, una corsa contro il tempo per sfruttare le ore di luce giornaliera che vanno diminuendo e anticipare le gelate precoci nella pianura ai piedi del Monviso.

      “L’Italia, con 320 mila tonnellate esportate nel 2021 in cinquanta paesi, per un fatturato di oltre 400 milioni di euro, è il principale produttore europeo di kiwi e il terzo nel mondo dopo Cina e Nuova Zelanda. – informa una accurata inchiesta condotta da IRPI Media pubblicata a marzo di quest’anno – La prima regione del nostro paese dove si coltiva la “bacca verde” è il Lazio. Globalmente, un terzo di tutti i kiwi commerciati nella grande distribuzione viene dalla multinazionale Zespri. Nata in Nuova Zelanda, oggi è leader nel settore e presente in sei paesi. Dalla provincia di Latina, arriva una buona parte della frutta venduta con il marchio Zespri (il 10,5%). Un mercato gigantesco, che solo in Italia conta quasi tremila ettari di campi, centinaia di produttori e migliaia di braccianti.” 4

      Anche sugli scaffali dei supermercati saluzzesi le varietà di kiwi sono vendute quasi tutte con il marchio Zespri: Green Premium, origine Italia confezionato in Lombardia, Sun Gold origine Nuova Zelanda e Hayward origine Grecia confezionati chissà dove.

      Alcune aziende locali producono in provincia di Latina i loro kiwi a polpa gialla (i Sun Gold) di cui Zespri detiene il brevetto e l’esclusiva della commercializzazione.

      Un colosso a livello internazionale è il Gruppo Rivoira che controlla Kiwi Uno S.p.A. con sede a Verzuolo, pochi chilometri da Saluzzo: “Da sempre in stretta relazione con il Cile, oggi grazie all’integrazione tra produzione italiana e cilena, abbiamo modo di essere sui mercati europei e d’oltre mare per dodici mesi all’anno” si legge sul sito dell’azienda. Rivoira controlla, tra le altre, anche un’azienda con sede a Cisterna di Latina, la capitale del kiwi italico, che vanta 110 ettari coltivati a kiwi, varietà hi-tech che hanno conquistato una loro nicchia di mercato.

      Ma restiamo a Saluzzo… Nell’annata in cui i lavoratori delle campagne non hanno più fatto notizia, scomparsi dalle cronache locali e nazionali, non più oggetto di studi eruditi in relazione a presunte emergenze ma sempre ben presenti in carne, ossa e muscoli tra i filari a reggere l’economia di questo angolo benestante di nord-ovest, la stagione del lavoro bracciantile si è chiusa mestamente nell’aula di un tribunale. A Cuneo il 23 novembre scorso, infatti, si è svolta l’udienza preliminare del processo a carico del datore di lavoro di Moussa Dembele, maliano, deceduto a Revello il 10 luglio 2022.

      Moussa lavorava in nero (“senza regolare contratto” secondo la fredda dicitura burocratica) presso un’azienda agricola dedita all’allevamento dei bovini.

      L’allevamento di bovini e suini è l’altro grande business della provincia di Cuneo da cui deriva la coltivazione intensiva del mais che, insieme a frutteti e capannoni di cemento, domina il paesaggio della pianura saluzzese.

      Nel settore zootecnico le condizioni di lavoro riescono ad essere forse persino peggiori che in agricoltura. Così almeno sostengono alcuni ex-lavoratori, i quali, stando a quanto ci dicono, ricordano il mestiere con un certo orrore. «Se lo fai troppo a lungo», ci racconta Ousmane, «diventi un vitello anche tu! È massacrante, fisicamente ma soprattutto mentalmente: lavori tutti i giorni, a orario spezzato, da solo, nell’aria pesante che puzza di animale e di merda. Per una paga nemmeno buona devi completamente rinunciare a farti una tua vita personale, eppure il padrone non è mai, mai contento…» Nell’invisibilità garantita dalle stalle diffuse nel profondo della campagna industrializzata il rapporto di forza tra l’azienda e il dipendente, che spesso lavora individualmente, è tutto a favore della prima.

      Quella domenica Moussa trasportava pesanti vasche di plastica colme di mangime insilato per l’alimentazione delle mucche, riempite di volta in volta al cassone di un inquietante macchinario denominato “desilatore portato”, attrezzatura agricola attaccata alla forza motrice di un trattore. Nella richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Cuneo, tale attrezzatura viene definita “non idonea ai fini della sicurezza”, priva cioè delle necessarie protezioni, modificata per facilitare le operazioni.

      Giunto ormai al termine del lavoro affidatogli, il manovale si è sporto oltre la sponda del cassone per spingere con una scopa i resti dell’insilato verso la coclea, rimanendo incastrato e schiacciato da un componente del macchinario in funzione. Questa la ricostruzione ufficiale. Moussa è deceduto per “arresto cardiorespiratorio a causa di shock midollare e ipovolemico”, in pratica è morto sul colpo con l’osso del collo fracassato nell’impatto.

      La storia di Moussa è simile a quella di tanti lavoratori e lavoratrici delle campagne, che accettano di lavorare in nero perché non sono in regola con il permesso di soggiorno e non hanno alternative oppure per integrare i contratti a chiamata che non garantiscono un salario sufficiente per sé e per poter aiutare le proprie famiglie nei paesi d’origine.

      «Si trovava in Italia dal 2013 e pare che lavorasse nell’azienda da circa sei mesi. Da più di un anno stava aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno… Oltre alla moglie e alle due figlie, Moussa ha lasciato il fratello Makan, di due anni più giovane, che vive a Gambasca e lavora per un’azienda agricola del paese. I due erano arrivati in Italia in momenti diversi. E’ stato lui ad accompagnare la salma in Mali». (L’eco del Chisone, agosto 2023)

      Alla notizia della morte di Moussa un pugno di braccianti aveva manifestato spontaneamente dolore e rabbia per le strade di Saluzzo.

      In generale si dice che a Saluzzo, “a differenza del Sud” – il Sud preso come termine di paragone sempre negativo, il Sud diverso e lontano, il Sud selvaggio e criminale, il Sud che nel Piemonte profondo non ha mai smesso di venire razzializzato – il lavoro nero in agricoltura sia tutto sommato poco diffuso, un’eccezione e non la regola. Come abbiamo scritto qui, la cifra costitutiva degli attuali rapporti lavorativi locali è in effetti il lavoro ‘grigio’, cioè lavoro ‘nero a metà’ per dirla con un grande cantore del Meridione quale Pino Daniele. Tuttavia, a ben vedere, specialmente durante i picchi della raccolta, non sono affatto pochi i raccoglitori non contrattualizzati impiegati anche nel saluzzese.

      Abbiamo persino sentito dire che ci sono datori di lavoro che in quei momenti quando ci si gioca il raccolto di un anno intero, incuranti di un pericolo evidentemente non così temibile, cercano lavoratori disponibili a lavorare in nero, “perché per così pochi giorni, ma che senso ha fare un contratto?” Mera noia burocratica o cosciente risparmio sul costo del lavoro? Chissà, intanto il bracciante ha qualche giorno in meno per il calcolo della disoccupazione agricola e zero tutele dei propri diritti… Agli unici lavoratori che in un certo senso conviene, per il paradossale effetto della violenza strutturale sancita dalla legge Bossi-Fini, sono le persone, come Moussa, sprovviste di regolare permesso di soggiorno a causa delle estenuanti lungaggini burocratiche.

      Per una drammatica coincidenza, ma per chi conosce bene le condizioni di vita dei braccianti non è affatto una sorpresa, poco distante dal luogo del decesso di Moussa, nelle campagne di Revello, grosso comune agricolo dove lavorano centinaia di stagionali e di cui si parla spesso in quanto l’unico del distretto della frutta a non aver aderito al protocollo di accoglienza della Prefettura, nella primavera di quest’anno è morto Dahaba, 40 anni, anche lui maliano. Ma la notizia è passata praticamente sotto silenzio.

      L’uomo ha perso la vita la notte di Pasqua a causa delle esalazioni del monossido di carbonio: per riscaldarsi aveva acceso, nella sua stanza, un braciere ricavato da un secchio di metallo. Ad aprile fa ancora freddo da queste parti, i camini delle cascine fumano e le gelate notturne rischiano di compromettere i raccolti, è questa la preoccupazione maggiore.

      Dahaba era arrivato da Rosarno dove aveva raccolto le arance e si era appena recato in Questura a ritirare il suo permesso di soggiorno per “attesa occupazione”, il documento che viene rilasciato quando il titolare di un permesso per lavoro subordinato ne richiede il rinnovo ma non ha, al momento, un contratto e delle buste paga da esibire. A Revello abitava in un alloggio messo a disposizione dal suo datore di lavoro, a quanto pare non riscaldato adeguatamente. Il martedì seguente il giorno di pasquetta, lo stesso datore di lavoro, non vedendolo arrivare, è andato a cercarlo e ha trovato il cadavere.

      L’uomo era poco conosciuto nella numerosa comunità maliana che vive nel saluzzese.

      L’episodio dovrebbe suscitare una riflessione seria sulle condizioni di vita dei braccianti africani, sul pendolarismo forzato nelle campagne d’Italia alla ricerca di un lavoro, sulla precarietà esistenziale estrema, sulla solitudine di un corpo senza vita rinvenuto solo perché non si è presentato sul posto di lavoro.

      Per non parlare del problema della casa o della tanto invocata accoglienza in azienda, in questi anni considerata la panacea di tutti i mali ma niente affatto sinonimo di dignitosa qualità di vita. L’accoglienza in cascina, anche quando fatta nel migliore dei modi – e non è certo sempre il caso – è infatti problematica sotto molteplici punti di vista: rappresenta un ulteriore ricatto per il lavoratore, il cui datore di lavoro e il padrone di casa sono la stessa persona; è un fattore di isolamento spaziale che ha forti ripercussioni sulla socialità; impedisce una chiara separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro; e molto altro. Nel peggiore dei casi, si può dire che rievochi l’organizzazione sociale totale della piantagione coloniale…

      Moussa e Dakar chiedono di non essere dimenticati, di non essere considerati soltanto le note stonate di una narrazione dei fatti appiattita sul paternalismo padronale, ossessionata dal decoro urbano e dalla qualità delle eccellenze del territorio agricolo circostante. La morte che spesso attende in agguato chi lavora, in campagna e altrove, non è una tragica fatalità ma l’espressione più estrema di una condizione di ‘normale’ sfruttamento, che sistematicamente, a gradi variabili, produce sofferenza e afflizioni, fisiche e mentali.

      https://www.meltingpot.org/2023/12/lultimo-kiwi-cronache-dalle-piantagioni-saluzzesi

      #kiwi #kiwis

  • Les pays méditerranéens jettent les bases d’un fonds commun pour réguler les flux migratoires
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/07/24/migration-a-rome-les-pays-mediterraneens-jettent-les-bases-d-un-fonds-commun

    Les pays méditerranéens jettent les bases d’un fonds commun pour réguler les flux migratoires
    La présidente du conseil italien, Giorgia Meloni, entend promouvoir un nouveau mode de coopération entre pays d’immigration et d’émigration, sur le modèle de l’accord signé par l’Union européenne avec la Tunisie.
    Le Monde avec AFP
    Publié le 24 juillet 2023 à 11h41, modifié le 24 juillet 2023 à 13h07
    Le sommet des dirigeants du pourtour méditerranéen réunis dimanche 23 juillet à Rome par Giorgia Meloni a esquissé les contours d’un fonds pour financer les projets d’investissements et le contrôle aux frontières, avec l’objectif à moyen terme de mieux réguler les flux migratoires. A l’origine de cette conférence rassemblant les dirigeants d’une vingtaine de pays, Mme Meloni entend promouvoir un nouveau mode de coopération entre pays d’immigration et pays d’émigration, sur le modèle de l’accord signé par l’Union européenne (UE) avec la Tunisie dans le but de freiner l’arrivée de migrants en Europe. A l’issue d’une demi-journée de pourparlers, la présidente du conseil italien a annoncé la création d’un fonds qui sera abondé par une première conférence des donateurs dont la date n’a pas été arrêtée, initiative à laquelle les Emirats arabes unis ont déjà apporté 100 millions d’euros. Si aucune autre mesure concrète n’a émergé de la conférence, « c’est le début d’un long travail » avec le lancement du « processus de Rome », dont Mme Meloni a fixé les priorités. « Lutte contre l’immigration illégale, gestion des flux légaux d’immigration, soutien aux réfugiés, et surtout, la chose la plus importante, sinon tout ce que nous ferons sera insuffisant, une large coopération pour soutenir le développement de l’Afrique, et particulièrement des pays de provenance » des migrants, a-t-elle détaillé. Selon la dirigeante d’extrême droite, « les lignes de financement prioritaires doivent avant tout concerner les investissements stratégiques et les infrastructures, car c’est la manière la plus pérenne de faire de la coopération ».Parmi les personnalités présentes, les présidents de la Tunisie, Kaïs Saïed, des Emirats arabes unis, Mohammed Ben Zayed, de la Mauritanie, Mohamed Ould Ghazouani, la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, le président du Conseil européen, Charles Michel, le haut-commissaire des Nations unies pour les réfugiés, Filippo Grandi, et des délégués des grandes institutions financières internationales.
    Pendant la campagne des législatives de 2022 qui l’ont portée au pouvoir, Giorgia Meloni avait promis de « stopper les débarquements » de migrants en Italie. Son gouvernement a depuis mis des bâtons dans les hélices des navires humanitaires, sans pour autant tarir les départs. Selon Rome, quelque 80 000 personnes ont traversé la Méditerranée et sont arrivées sur les côtes de la péninsule depuis le début de l’année, contre 33 000 l’an dernier sur la même période, en majorité au départ du littoral tunisien.
    Face à ce constat, Mme Meloni et la Commission européenne ont intensifié leur « dialogue » avec la Tunisie en promettant des financements si le pays s’engage à combattre l’émigration à partir de son territoire. Bruxelles et Rome ont signé la semaine dernière avec le président tunisien un protocole d’accord qui prévoit notamment une aide européenne de 105 millions d’euros destinée à empêcher les départs de bateaux de migrants et lutter contre les passeurs, ainsi que plus de retours de Tunisiens en situation irrégulière dans l’UE.Un haut responsable européen s’exprimant sous couvert de l’anonymat a confirmé que l’UE souhaitait négocier avec l’Egypte et le Maroc des partenariats similaires. Et selon Mme Meloni, il est d’autant plus important de soutenir les pays africains après la suspension par Moscou de l’accord sur les exportations de céréales ukrainiennes « La Tunisie est un pays en extrême difficulté et l’abandonner à son sort peut avoir des conséquences très graves », a-t-elle averti.
    Les ONG sont en revanche vent debout. Sea-Watch déplore que « l’UE et ses Etats membres continuent de durcir leurs politiques mortelles d’isolement », tandis que Human Rights Watch (HRW) estime que « l’Europe n’a rien appris de sa complicité dans les abus atroces commis à l’encontre des migrants en Libye ». HRW a également pointé « de graves abus », ces derniers mois, chez les forces de sécurité tunisiennes contre les migrants africains, estimant que l’UE devrait « cesser son soutien » à ce pays dans la lutte contre l’immigration irrégulière.A la suite d’affrontements ayant coûté la vie à un Tunisien le 3 juillet, des centaines de migrants africains ont été chassés de Sfax, deuxième ville du pays et principal point de départ en Tunisie pour l’émigration clandestine. Ils ont été conduits par les autorités, selon des ONG, vers des zones inhospitalières près de la Libye à l’est, et l’Algérie à l’ouest.Selon l’ONU, plus de 100 000 migrants sont arrivés en Europe au cours des six premiers mois de 2023 par la mer, depuis les côtes nord-africaines, la Turquie et le Liban. Ils étaient un peu plus de 189 000 en 2022.

    #Covid-19#migrant#migration#UE#italie#ONU#afrique#liban#turquie#libye#migrationirreguliere#politiquemigratoire#ONG#postcovid

  • Des #températures dépassant la #limite_génétique de toutes les espèces méditerranéennes sont prévues dans le sud de l’Europe dès mardi :

    ➡️ 40 à 44°C en #Italie (jusqu’à 45-47+°C en Sardaigne et Sicile)
    ➡️ 40 à 45°C en #Espagne
    ➡️ 40 à 42°C en #France


    Conséquences agricoles :
    ➡️la floraison des légumes « maraîchage » risque d’être fortement perturbée (brulures et pertes de fleurs).
    ➡️l’#olivier risque de voir une partie de ses fruits se dessécher.
    ➡️des brûlures peuvent concerner la #vigne (voire un dessèchement de grappe) dans le cas où la canicule dure plusieurs jours.
    ➡️souffrance extrême des animaux d’élevage.
    L’Italie est le pays qui sera le plus concerné par ses conséquences agricoles. Je tiens à préciser qu’il s’agit ici d’un #stress_thermique. Il ne peut pas être entièrement résolu par l’irrigation (#stress_hydrique).
    Voici un énième exemple des conséquences du changement climatique.

    https://twitter.com/SergeZaka/status/1680522007585214464

    #canicule #agriculture #cartographie #visualisation

  • Spettacolo teatrale: #Reietti. Come creammo i #CPR

    Uno strano detective indaga sulla morte di un ragazzo venuto dalla Nuova Guinea, #Moussa_Balde, avvenuta nel 2021 all’interno del centro di permanenza per il rimpatrio di Torino. Arrivando a sprofondare nelle viscere infernali del più grande buco nero dei diritti in Italia: i CPR.
    Una macchina multicefala che trasforma la detenzione di migranti, che non hanno commesso nessun reato penale, in una enorme merce finanziaria.


    “Dentro di te ci siamo noi tutti. Le nostre paure ti tengono insieme, come una malta refrattaria ad ogni contatto umano.
    Possiamo decidere di rimanere da questa parte della barricata, difendere il nostro status di occidentali allo sbando, che si sentono attaccati.
    Oppure possiamo fare il salto. Toglierci quella corda dal collo, che ci soffoca. Non stare sempre in bilico tra la nostra morte o quella di un nostro simile.
    Possiamo riconoscerci nel diverso da noi.
    E allora quando riusciremo a fare questo tu, complesso magmatico di corpi, tecnologia, mura, manganelli e sangue, tu crollerai.”

    https://www.meltingpot.org/2023/07/spettacolo-teatrale-reietti-come-creammo-i-cpr
    #théâtre #art_et_politique #détention_administrative #rétention #Italie #Oscar_Agostoni

    Fil de discussion sur #Moussa_Balde:
    https://seenthis.net/messages/917091

  • Les violences contre les migrants en Tunisie divisent la diaspora tunisienne
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/07/13/les-violences-contre-les-migrants-en-tunisie-divisent-la-diaspora-tunisienne

    Les violences contre les migrants en Tunisie divisent la diaspora tunisienne
    Par Emma Larbi
    Publié le 13 juillet 2023 à 19h00
    « Quand j’arriverai en Tunisie pour les vacances, je sourirai aux migrants, ce n’est pas grand-chose, mais qu’ils ressentent qu’on n’est pas tous les mêmes », promet Mayssa Ben Abdallah, une étudiante en commerce de 22 ans qui appréhende son prochain voyage dans le pays de son père.
    Depuis la mort, le 3 juillet, d’un Tunisien, lors d’affrontements à Sfax entre habitants et migrants subsahariens, la Tunisie est en proie à des violences racistes, encouragées par les déclarations du président Kaïs Saïed. En février, le chef de l’Etat dénonçait les « hordes de migrants » dont la présence serait le fruit d’un complot « pour changer la composition du paysage démographique en Tunisie ». Depuis, plusieurs centaines de personnes originaires d’Afrique subsaharienne, dont des femmes et des enfants, ont été expulsées de Sfax et conduites aux frontières libyenne et algérienne.
    En France, la diaspora tunisienne, qui comptait 328 200 personnes en 2022 selon l’Institut national de la statistique et des études économiques (Insee), est divisée. Certains condamnent les violences à l’encontre des migrants, d’autres leur présence sur le sol tunisien et soutiennent la politique gouvernementale, voire justifient les brutalités sur les étrangers.Sur le marché de Belleville, à Paris, l’absence d’empathie envers les migrants est criante. « Y en a plus que marre ! », martèle un homme en rangeant ses marchandises. L’homme d’une trentaine d’années, qui n’a pas souhaité donner son nom, estime que le nombre de migrants a augmenté en Tunisie, les viols, les crimes, et même les actes de cruauté sur les animaux ont explosé. « Avant, on leur tendait la main, maintenant, ils violent les femmes et ils tuent », renchérit un passant anonyme. Des dénonciations sans précisions ni éléments de preuves mais qui éclairent sur l’état des relations. « Qu’on les renvoie dans le désert ! », conclut ce dernier.
    Pour l’étudiante Mayssa Ben Abdallah, le rejet des migrants serait une question d’âge : « C’est vrai qu’une partie de la génération plus âgée tient le même discours que tiennent les Français d’extrême droite. » Mohamed Bhar, ex-coordinateur de la Fédération des Tunisiens pour une citoyenneté des deux rives, dans le 19e arrondissement de Paris, condamne sans réserve les violences racistes observées de l’autre côté de la Méditerranée. Le 6 juin, comme chaque été, il est parti à Ksour Essef, à 200 km au sud de Tunis. Quelques jours après son arrivée, dans un supermarché, « quelqu’un s’est mis à lancer que les Subsahariens nous colonisent », témoigne-t-il.
    « J’ai très peur des vacances que je vais passer en Tunisie, des discussions qui vont sans doute nous diviser », anticipe la psychiatre et écrivaine franco-tunisienne Fatma Bouvet de la Maisonneuve. « En France, l’extrême droite s’exprime comme on aurait jamais imaginé il y a quinze ans, ajoute Wafa Dahman, journaliste et enseignante à Lyon. En Tunisie, il se passe exactement la même chose. » Après les violences qui ont suivi la mort de Nahel, tué par un policier le 27 juin, une partie de la classe politique française a fait le lien entre immigration et émeutes. Pour certains immigrés tunisiens, leur pays d’origine répète ce schéma de stigmatisation. « Alors que les Tunisiens peuvent subir cette situation en France, nous, Tunisiens, exerçons la même chose sur nos frères Africains ? », s’indigne Fatma Bouvet de la Maissonneuve. Parmi les personnes interrogées, les difficultés économiques actuelles de la Tunisie sont mises en avant comme première piste d’explication à la dérive raciste. « Avec la pauvreté, certains ne trouvent pas un bout de pain sec pendant trois jours », assure Ali Choubani, 80 ans, installé devant un lait fraise sur la terrasse d’un café de Belleville.
    « Il y a des files d’attente pour acheter du pain et il manque des produits de base comme la semoule ou le café, poursuit Mohammed Bhar. Certains rejettent les migrants à cause de ça, mais ce n’est qu’une justification, une partie de la population est simplement tombée dans le rejet de l’autre. » Pourtant, au sein de la société civile, certains se sont mobilisés. Des vidéos, filmées notamment à Sfax, montrent des habitants distribuer eau et nourriture aux migrants.
    Par-delà la politique et les difficultés du quotidien, l’étudiante en commerce rappelle que la Méditerranée ne fait pas de préférence : « Les Tunisiens vivent la même chose vers l’Europe, ils galèrent et se noient. » Si de janvier à mai 2023, 3 432 Tunisiens, dont 864 mineurs, ont atteint les côtes italiennes, selon le Forum tunisien pour les droits économiques et sociaux, chaque année, des dizaines de jeunes harraga (littéralement des brûleurs de frontières) meurent en mer. Ces violences sont advenues dans un contexte de négociation de « partenariat global » entre la Tunisie et l’Union européenne, qui souhaite que Tunis renforce ses contrôles migratoires.
    L’épisode d’attaques racistes sur les migrants semble passé, mais « personne n’en sortira indemne », s’inquiète Fatma Bouvet de la Maisonneuve. « Ici, j’ai vu des Français pleurer pour les jeunes de banlieue. Nous, on pleure pour ce qu’on fait aux Noirs dans notre pays », raconte la psychiatre, « que deviendra la femme qui a accouché dans le désert ? Son enfant ? Les gamins, assoiffés, qu’on a laissés traîner dans la chaleur ? Tous auront des séquelles, que l’on ne verra pas. »

    #Covid-19#migrant#migration#tunisie#afriquesubsaharienne#migrationirreguliere#racisme#discrimination#violence#UE#controlemigratoire#harraga#italie#frontiere#economie#postcovid

  • Des médecins cubains se portent au secours des hôpitaux de Calabre Valérie Dupont/ami - RTS

    Le manque de médecins est un problème qui concerne toute l’Europe. Mais dans le sud de l’Italie, la situation est gravissime. Pour éviter la fermeture des hôpitaux, la Calabre a passé un accord avec Cuba pour faire venir des médecins, une première en Europe.

    Depuis six mois, l’orthopédiste cubain Raciel Escalona travaille à l’hôpital de la petite ville de Polistena. A son arrivée, il ne parlait pas un mot d’italien. Mais aujourd’hui, il sait même blaguer avec ses patients.


    Le docteur Escalona fait partie du premier contingent arrivé de Cuba pour répondre à l’urgence sanitaire en Calabre, dans le sud de l’Italie.

    « Je peux confirmer, il est excellent », assure dans la salle de consultation l’un de ses patients, un bandage au pied droit. « Sans lui, j’aurais dû attendre huit mois pour faire cette opération », souligne-t-il jeudi dans le 19h30.

    Appel au secours
    Comme tous les autres hôpitaux publics calabrais, l’hôpital de Polistena était à l’agonie : liste d’attente infinie, endettement à hauteur de plus d’un milliard, infiltrations mafieuses… Autant de maux qui ont obligé les autorités régionales à fermer 18 hôpitaux en Calabre. A Polistena, l’été dernier, le service de réanimation avait même dû fermer ses portes par manque de médecins.

    « Cela va vous sembler absurde : j’ai dû faire des tours de garde de plus de 36 heures d’affilée », raconte Francesca Liotta, la directrice du service de réanimation de l’hôpital de Polistena. « L’arrivée des médecins cubains nous a vraiment donné une bouffée d’oxygène. Cela a aussi relancé l’enthousiasme pour notre métier », s’exclame-t-elle.

    Après six mois de pratique à l’hôpital de Polistena l’orthopédiste cubain Raciel Escalona parle désormais l’italien, alors qu’il n’en connaissait pas un mot à son arrivée.

    En Calabre, il manque 2500 médecins. Pour éviter la fermeture des autres hôpitaux, la région a décidé de faire appel à la coopération médicale cubaine, car faire appel à des médecins privés italiens coûte dix fois plus cher.

    Après avoir travaillé en Mauritanie et au Venezuela, Asbel Diaz Fonseca, un chirurgien de 38 ans, n’aurait jamais pensé que la riche Europe aurait aussi besoin de lui. « L’Italie a une population vieillissante, il y a beaucoup de médecins à la retraite et ils manquent de formation », note-t-il.

    Une partie du salaire reversé à Cuba
    A travail égal, salaire égal, quel que soit le passeport : les médecins cubains touchent 4700 euros mensuels. Mais ils reverseraient deux tiers de leur salaire à leur pays.

    « Cuba est une administration socialiste, sans argent ! Nous ne travaillons pas pour l’argent, nous travaillons pour le coeur et c’est plus important », déclare Asbel Diaz Fonseca.

    Cet accord entre la Calabre et Cuba a poussé les Etats-Unis à demander des comptes à l’Italie sur une possible entorse à l’embargo. Michele Tripodi, le maire de Polistena, communiste et admirateur de Che Guevara, balaie ces doutes : « C’est juste de respecter les conventions internationales. Mais une de nos exigences était justement de pouvoir payer ces travailleurs cubains comme si c’étaient des médecins italiens », soutient Michele Tripodi.

    La population satisfaite
    Dans cette bourgade de 10’000 habitants, la population est ravie et tout le monde encense les médecins venus de loin.

    Deux hommes assis à l’ombre d’un arbre d’une place publique ne s’en cachent pas : « S’il n’y a pas de médecin, c’est terrible. Alors qu’il soit Cubain ou Africain, peu importe. Maintenant, on a au moins des médecins », s’enthousiasme le premier. « Et ils disent que leur préparation est excellente », ajoute son compère.

    #médecine #santé #Hôpital #ue #union_européenne #Italie #Cuba les dégâts de la #finance

    Source : https://www.rts.ch/info/monde/14154876-des-medecins-cubains-se-portent-au-secours-des-hopitaux-de-calabre.html

  • Il ministero dell’Interno condannato a risarcire un respinto a catena in Bosnia

    Il Tribunale di Roma ha accertato l’illegittimità delle “riammissioni” al confine orientale, ricostruendo il “nesso causale” tra respingimenti e trattamenti inumani. Il Viminale deve farsi carico del danno inflitto a un cittadino pakistano richiedente asilo. Decisivo il lavoro di rete tra attivisti, Ong e avvocati. Una decisione attualissima

    Il ministero dell’Interno è stato condannato dal Tribunale di Roma a pagare 18.200 euro a titolo di risarcimento nei confronti di A., cittadino originario del Pakistan in fuga dal Paese, per averlo prima fermato a Trieste e poi respinto in Slovenia e a catena verso la Croazia e la Bosnia ed Erzegovina. Nonostante avesse manifestato la volontà di domandare protezione internazionale. Cento euro per ogni giorno trascorso tra la “riammissione” in Slovenia avvenuta a metà ottobre 2020 e il rientro in Italia nell’aprile 2021, come prevede la giurisprudenza comunitaria e nazionale su casi assimilabili.

    La decisione della giudice Damiana Colla del 9 maggio è estremamente rilevante non soltanto perché “accerta e dichiara l’illegittimità” delle riammissioni informali attive da parte italiana ma soprattutto perché inchioda l’”evidente nesso di causalità” tra l’operato della polizia italiana e il “danno subito” da A.. “La lesione del diritto d’asilo e i trattamenti inumani -scrive infatti la giudice- sono stati la diretta conseguenza della riammissione informale del ricorrente in Slovenia da parte delle autorità di frontiera di Trieste”.

    La decisione ottenuta dalle avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla dell’Asgi, commenta la stessa Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, “è stata il frutto di un lavoro di rete che ha visto coinvolti diversi soggetti attivi nel contrasto alle violenze verso le persone in movimento attivi lungo la rotta balcanica, tra i quali la rete RiVolti ai Balcani (in particolare Gianfranco Schiavone e Agostino Zanotti), la giornalista Elisa Oddone, la Ong ‘Lungo la rotta balcanica’, l’associazione Pravni center za varstvo človekovih pravic in okolja – Legal Centre for the Protection of Human Rights and the Environment (Pic, in particolare Ursa Regvar), il progetto Medea dell’Asgi, Ics Ufficio Rifugiati, Linea d’ombra, il Centro per la Pace di Zagabria, Anela Dedic e tutti gli attivisti e attiviste che agiscono per la tutela per i diritti umani in Bosnia ed Erzegovina e lungo le rotte percorse dalla persone in transito”.

    Nuove ombre si allungano su una prassi che i governi europei intendono invece elevare sempre più a norma “guida” della brutale gestione delle frontiere, come dimostra l’accordo al Consiglio europeo Giustizia e Affari interni dello scorso 8 giugno sui regolamenti in tema di gestione dell’asilo e della migrazione e delle procedure.

    Non si tratta di un’ordinanza che guarda a un passato ormai superato o a una pagina triste nel frattempo voltata: se è vero infatti che l’Italia ha condotto i respingimenti verso la Slovenia per tutto il 2020 e li ha sospesi nel 2021, è noto che da fine 2022 il nuovo governo abbia annunciato di volerli riprendere (con “risultati” incerti di cui abbiamo già scritto). Il tutto nonostante il precedente dell’ordinanza cautelare del Tribunale di Roma a firma della giudice Silvia Albano, emessa nel gennaio 2021 a fronte del ricorso promosso sempre dalle avvocate e socie Asgi Caterina Bove e Anna Brambilla (la vicenda è ben raccontata nel film “Trieste è bella di notte” dei registi Andrea Segre, Stefano Collizzolli e Matteo Calore).

    La storia di A. ricostruita nella decisione di Roma è tanto forte quanto emblematica. La sua fuga dal Pakistan inizia nel 2018, quand’è ferito in un attacco del gruppo terroristico Tehrik-i-Taliban Pakistan. Sopravvissuto, e temendo ritorsioni da ambo le parti (estremisti ed esercito cui apparteneva), decide di scappare. Resta per un anno in Turchia e per tre volte prova a entrare in Grecia, nell’Unione europea. Al terzo tentativo riesce, attraversando poi la Macedonia del Nord, la Serbia e arrivando nell’estate 2019 in Bosnia ed Erzegovina.

    Per nove volte è respinto dalle polizie croate e per tre da quelle slovene. Il primo ottobre 2020, a “riammissioni informali attive” ormai a pieno regime da parte italiana, gli riesce il “game” che lo porterà a Trieste nella mattinata del 17 ottobre. Qui però alcuni militari lo fermano quasi subito insieme ad altre quattro persone. Finiscono tutti in una stazione di polizia dove sono visitati e gli vengono fatti firmare fogli non tradotti dal contenuto oscuro. A. riferisce però agli agenti di voler chiedere asilo ma questi lo “affidano” alla polizia slovena. Non ha niente in mano: “informale” vuol dire infatti respinto senza lo straccio di un provvedimento scritto, motivato, impugnabile, cioè senza convalida dell’autorità giudiziaria, senza diritto a un ricorso effettivo. A riprova di quanto sia basso e surreale il dibattito sul garantismo in Italia.

    È così che A., con l’etichetta fasulla di “cittadino extraeuropeo entrato irregolarmente” e non invece di richiedente asilo, si fa una notte in una stazione di polizia slovena e il giorno dopo si vede “consegnato alle autorità croate e da queste respinto in Bosnia con metodi violenti, comprese percosse”, sempre per citare il giudice di Roma.

    Alla fine della catena lo attende la Bosnia ed Erzegovina. Nel caso di A. è l’insediamento informale di Vedro Polje, poco distante da Bihać, nel Nord-Ovest del Paese. Per via delle “degradanti condizioni di vita al campo”, come si legge nell’ordinanza che ha condannato il Viminale, A. decide di riprovarci. Lì non può rimanere. Ce la fa, di nuovo, perché “frontiere chiuse” è uno slogan vuoto, e ad aprile del 2021 torna nell’Italia che lo aveva illegalmente respinto. Tre mesi prima, come detto, la giudice Albano del Tribunale di Roma aveva già sanzionato il ministero dell’Interno per le stesse riammissioni (caso specifico diverso, naturalmente). A., memore del precedente respingimento, abbandona in fretta Trieste e raggiunge Brescia. Il 10 maggio fa quella domanda d’asilo che gli era stata negata dalla polizia italiana qualche mese prima e a tre giorni da Natale si vede riconoscere lo status di rifugiato. Ma non gli suona come un lieto fine quanto lo sprone a chieder giustizia per quel respingimento illegale subìto.

    Il 31 dicembre 2021 fa perciò ricorso. Il ministero dell’Interno si costituisce in giudizio il 27 settembre 2022 sostenendo che no, non si sarebbe trattato di un’espulsione collettiva vietata dal diritto internazionale ed europeo, che l’intera procedura si sarebbe svolta nel rispetto dei diritti umani fondamentali delle persone coinvolte, che la pratica sarebbe stata pienamente legittima e che il danno subito dal ricorrente (cioè A.) non sarebbe stato dimostrato.

    Il Tribunale di Roma dà però torto a Roma e ragione ad A. e alle avvocate Bove e Brambilla, facendo così squagliare la tesi difensiva del Viminale come il sole fa con la neve. “Il trattamento che il ricorrente ha descritto di aver subito da parte delle autorità di frontiera italiane al momento del suo primo ingresso a Trieste […] è stato pienamente provato in giudizio”, scrive la giudice Colla. Dalla manifestazione della volontà di chiedere protezione alla presa in consegna da parte delle autorità slovene. È documentata anche la catena: la detenzione in Slovenia al Centro per stranieri di Veliki Otok, nella Postumia (Carniola interna), e la successiva riammissione in Croazia. Fino alla Bosnia. Nessun alibi quindi per il Viminale, che della mancata prova dell’arrivo in Italia dei respinti ne ha fatto fino a oggi un leitmotiv. Questa volta non gli è riuscito nascondere la mano.

    Nella “jungle” di Vedro Polje, dove si trova a inizio 2021, A. ha per fortuna incontrato la giornalista Elisa Oddone e l’operatore sociale Diego Saccora dell’associazione “Lungo la rotta balcanica” (e tra le anime della rete RiVolti ai Balcani). Oddone, che stava curando un reportage per Al Jazeera ed NPR, raccoglie la testimonianza di A. e fa da primo contatto-ponte con le avvocate Bove e Brambilla. Anche Saccora confermerà in Tribunale più incontri con A.. A Vedro Polje infatti l’operatore sociale e ricercatore sul campo portava assistenza e beni di prima necessità. Non solo: lo accompagna di persona presso uno studio notarile di Bihać “per conferire mandato agli attuali difensori al fine di esperire ricorso avverso la riammissione in Slovenia”. A dimostrazione che il supporto incisivo alle persone in transito calpestate dai governi europei alle frontiere può assumere le forme più svariate, e che l’aiuto più distante dalla solidarietà istituzionalizzata può passare persino dalla ceralacca di un notaio. Quante pagine gravi e paradossali faranno scrivere ancora le politiche europee?

    Oddone e Saccora raccontano per filo e per segno al giudice le condizioni proibitive in cui si trovava all’epoca A. insieme ad altri. Riparati nei boschi, con la temperatura fino a venti gradi sotto zero di un inverno bosniaco, senz’acqua, senza accoglienza per via della chiusura dei due campi locali più grandi, praticamente senza cibo, stretti tra “ronde” di cittadini locali ostili e “possibili furti da parte di altri gruppi di richiedenti asilo, alla ricerca di quanto necessario alla sopravvivenza”.

    Secondo il Tribunale di Roma la riammissione “informale” di A. da parte dell’Italia avrebbe “contraddetto” le “norme di rango primario, costituzionale e sovranazionale, le quali, evidentemente, non possono essere derogate da un accordo bilaterale intergovernativo (del 1996, ndr) non ratificato con legge”.

    “La Direttiva 2008/115/CE non legittima affatto, anzi contrasta con la descritta pratica di riammissione informale posta in essere dal governo italiano -chiarisce la giudice Colla-. Infatti, sebbene tale direttiva (al suo art. 6, par. 3) consenta agli Stati membri di riammettere nello Stato confinante di provenienza senza una specifica decisione di rimpatrio, qualora sussistano accordi bilaterali tra gli Stati interessati già vigenti alla data di entrata in vigore della direttiva stessa (essendo tali accordi invece non più consentiti nella vigenza della stessa), tuttavia, nell’esecuzione dell’accordo, lo Stato italiano è comunque vincolato dalla normativa interna anche costituzionale (art 13 Cost.), nonché dal diritto sovranazionale, alla stregua del quale lo Stato ha il dovere di accertare la situazione concreta nella quale la persona riammessa verrà a trovarsi, con particolare riferimento all’eventualità di una violazione dei suoi diritti fondamentali (che si prospettava nel caso di specie secondo le informazioni largamente disponibili). Soprattutto poi, la riammissione informale non può mai essere applicata nei confronti di una persona che manifesti l’intenzione di chiedere asilo, come nella specie accaduto”.

    Oltre al regolamento 604/2013 (Dublino III), l’Italia, nella foga di respingere, avrebbe persino violato lo stesso accordo bilaterale con la Slovenia. L’articolo due prevede infatti che ciascuna parte, su richiesta dell’altra, “si impegna a riammettere sul proprio territorio il cittadino di uno Stato terzo che non soddisfa le condizioni di ingresso o di soggiorno nel territorio dello Stato richiedente, non potendosi evidentemente considerare in tale situazione chi abbia espresso la volontà di chiedere protezione”. Proprio come A..

    A titolo di aggravante per le autorità italiane, segnala poi il Tribunale elencando corposa bibliografia, c’è anche il fatto che queste erano “perfettamente” a conoscenza -“o almeno trovandosi nella condizione di avere perfetta conoscenza”- “delle violazioni cui i respinti sarebbero stati esposti in Slovenia”, così come in Croazia, per non parlare delle condizioni orribili in Bosnia ed Erzegovina, denunciate anche dalla commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mijatović.

    A maggior ragione dopo le tredici pagine dell’ordinanza del Tribunale di Roma nessuno potrà dire “non sapevo”. Nel buio spicca il “lavoro di rete per contrastare le violazioni”, come lo chiamano le avvocate Bove e Brambilla. “La decisione è un importante risultato non solo perché ribadisce l’illegittimità della condotta posta in essere dalle autorità italiane -concludono- ma perché valorizza, anche attraverso l’assunzione della testimonianza diretta di Saccora e Oddone, l’impegno di tante persone che si impegnano a denunciare e contrastare le violazioni dei diritti delle persone in transito”.

    https://altreconomia.it/il-ministero-dellinterno-condannato-a-risarcire-un-respinto-a-catena-in

    #justice #Italie #frontière_sud-alpine #Slovénie #frontières #migrations #asile #réfugiés #condamnation #refoulements #refoulements_en_chaîne #push-backs #tribunal #réadmissions #Trieste #réadmissions_informelles_actives #Bihać #Bihac #Vedro_Polje #Veliki_Otok #Croatie #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #forêt #hostile_environment #environnement_hostile #accord_bilatéral

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    ajouté à la #Métaliste sur les #refoulements_en_chaîne sur la #route_des_Balkans:
    https://seenthis.net/messages/1009117

  • Respingimenti e ostacoli all’asilo. Ritorno sulla frontiera Italia-Svizzera

    Da gennaio ad aprile 2023 a Como-Ponte Chiasso oltre 1.300 persone migranti sono state “riammesse” indietro dalle autorità elvetiche. È il confine terrestre italiano con i dati più alti. Quattro su 10 sono afghani: la protezione è un miraggio

    Ahmed, diciassettenne afghano, è partito da Kabul nell’autunno del 2021 per non finire tra le fila dell’esercito talebano. A un anno e mezzo dalla partenza, dopo aver percorso una delle diramazioni della rotta balcanica, passa per la stazione di Milano, dove non si ferma neanche una notte: la prossima tappa da raggiungere è Zurigo, l’obiettivo ultimo la Germania. Che cosa lo aspetta al confine italo-svizzero? Seppur poco raccontato, secondo i dati del ministero dell’Interno, su questa frontiera nei primi quattro mesi del 2023 sono state registrate 1.341 riammissioni passive, ovvero le pratiche di polizia a danno di persone straniere considerate irregolari che, a un passo dall’arrivo sul territorio elvetico, vengono costrette a ritornare in Italia.

    A far da contraltare all’approccio di frontiera finalizzato al respingimento, una parte della società civile su entrambi i lati del confine testimonia ormai da anni un’accoglienza possibile ma sempre più difficile nei confronti dei transitanti. La collaborazione tra i due Paesi si rifà all’accordo italo-svizzero del 1998 “sulla riammissione delle persone in situazione irregolare”, mai ratificato dal Parlamento italiano. Il 31 maggio scorso quell’impegno bilaterale è stato ribadito nell’incontro tra il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e la sua omologa svizzera, Elisabeth Baume-Schneider, per contrastare, parole del Viminale, la “criminalità organizzata”, il “terrorismo internazionale” e monitorare i “foreign fighters di rientro dai teatri di guerra”. Il tutto, ha assicurato la consigliera elvetica, garantendo “sempre il rispetto dei diritti umani dei migranti”. Retorica politica che propone un concetto di sicurezza e promette di proteggere tutti, ma poi nella pratica minaccia le stesse persone in cerca di una maggior sicurezza.

    Già nel 2016 l’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (Asgi) aveva evidenziato l’illegittimità delle riammissioni previste dall’accordo bilaterale per diversi motivi: ostacolano la domanda di asilo, implicano controlli sistemici e discriminatori lungo una frontiera Schengen e sono considerabili espulsioni collettive; infine, essendo procedure informali, non permettono di presentare un eventuale ricorso.

    Nonostante le rassicurazioni sul “rispetto dei diritti umani” di Baume-Schneider, le riammissioni, con le annesse criticità sottolineate nel 2016, continuano anche oggi. I dati relativi ai primi mesi dell’anno, comunicati dal Viminale dopo un’istanza di accesso civico di Altreconomia, sono eloquenti. Per quanto riguarda il settore terrestre di Como-Ponte Chiasso, da gennaio ad aprile 2023 sono state registrate 1.341 riammissioni verso l’Italia (numeri alti, basti pensare che per il più conosciuto accordo bilaterale tra Italia e Slovenia erano state 1.240 le persone riammesse nel 2020, anno di picco).

    Quello con la Svizzera si conferma quindi il confine terrestre italiano dove vengono registrate più riammissioni passive (si veda, a questo proposito, l’articolo sui respingimenti ai confini italiani nel numero di febbraio di Altreconomia). Dal gennaio 2022, infatti, in media, 330 persone ogni mese sono costrette dalla polizia svizzera a ritornare sui propri passi. Quattro su dieci sono afghani, proprio come Ahmed. Seguono siriani, turchi, marocchini e poi bengalesi e tunisini.

    Entrare nel merito di ciascun episodio è impossibile, ma si può ipotizzare che in molti casi la riammissione abbia ostacolato l’accesso alla domanda di protezione internazionale per persone provenienti da zone di conflitto. Ciò che permette un così alto numero di riammissioni è l’esteso sistema di controllo elvetico. “Il Ticino ha il più alto numero di poliziotti pro-capite di tutta la Svizzera”, spiega Donato Di Blasi di Casa Astra, centro di prima accoglienza per persone in emergenza abitativa nella Svizzera italiana. Nel territorio, infatti, si conta un agente ogni 305 abitanti, a fronte della media nazionale di uno ogni 466 secondo i dati della Radiotelevisione svizzera. “I pattugliamenti della polizia svizzera si estendono sui treni fino a Lugano, a 30 chilometri dalla stazione di confine di Ponte Chiasso”, continua Di Blasi.

    Spesso i controlli avverrebbero sistematicamente nei confronti di persone con caratteristiche somatiche apparentemente non di origine europea, in violazione delle normative che vietano la profilazione etnica (racial profiling). Un ragazzo egiziano di 16 anni che vive attualmente a Como racconta: “Una volta rientrando da Milano mi sono addormentato sul treno, superando per sbaglio la fermata di Como. Alla stazione di Chiasso mi hanno svegliato i poliziotti, mi hanno perquisito fino a lasciarmi in mutande, poi mi hanno riportato in Italia. Ero l’unico sul treno a cui è successo così”. Il monitoraggio frontaliero delle forze dell’ordine si inoltra anche nelle zone di transito percorribili in auto o a piedi. Per sorvegliare al meglio queste aree, l’ufficio federale dell’armamento (Armasuisse) aveva annunciato già nel 2015 l’acquisto di sei droni di fabbricazione israeliana che entreranno a pieno regime entro la fine del 2024.

    Nonostante la fitta rete di controlli e i numeri delle riammissioni, le realtà comasche che supportano le persone transitanti concordano nel dire che la situazione per le strade di Como non è minimamente paragonabile a quella dell’estate del 2016, quando fino a 500 persone dormivano nei pressi della stazione di San Giovanni in attesa di superare il confine. “Sono sporadici i casi di persone riammesse dalla Svizzera presenti sulle strade di Como”, racconta Anna Merlo di Porta Aperta, sportello di Caritas per i senza dimora. “Dato l’alto numero delle riammissioni, ci chiediamo: dove vanno le persone una volta riportate in Italia?”, si domanda don Giusto Della Valle, parroco di Rebbio, realtà solidale con le persone transitanti e attualmente luogo di accoglienza per decine di minori stranieri non accompagnati in attesa di una sistemazione definitiva. L’impressione è che chi viene riammesso non si fermi in città, provando a continuare il viaggio in altre zone di frontiera, vicine e lontane.

    Ahmed ha avuto fortuna, è riuscito a superare l’ennesimo confine, ma questo non significa la fine degli ostacoli. Infatti, dalle informazioni raccolte, è frequente che le persone transitanti, intercettate dalle forze dell’ordine sul territorio svizzero, dopo aver provato a fare domanda di asilo vengano riportate in Italia alla centrale di polizia di Ponte Chiasso. “Per essere certi che la domanda di asilo venga presa in carico e le persone non vengano respinte, l’unico modo è accompagnarle fisicamente alla questura di Chiasso per contestare un’eventuale riammissione; lo abbiamo fatto più volte in passato -spiega Gabriela Giuria Tasville di Azione posti liberi, fondazione che segue dal punto di vista legale i richiedenti asilo in Ticino-. A peggiorare il quadro, inoltre, è impossibile, per le persone in transito, soggiornare anche temporaneamente in Svizzera, perché dal 2008 è entrata in vigore una legge federale che vieta qualsiasi forma di accoglienza e penalizza chiunque aiuti le persone transitanti in situazione di irregolarità”. Questa legge infatti punisce “con una pena detentiva sino a un anno o con una pena pecuniaria chiunque […] facilita o aiuta a preparare l’entrata, la partenza o il soggiorno illegali di uno straniero” (articolo 116, 1.a). Le autorità, da una parte, non permettono alle persone transitanti di regolarizzare la loro posizione sul territorio e quindi di accedere alle strutture di accoglienza; dall’altra, puniscono chiunque aiuti il soggiorno di una persona che è in una situazione di irregolarità a causa del mancato accesso alla procedura di asilo.

    Questa legge, ormai arrivata al suo quindicesimo anno d’età, ha fatto sì che realtà come Casa Astra, che già nel 2004 accoglieva sans papier provenienti dall’Ecuador, non possano più supportare persone in situazione di emergenza abitativa senza documenti. Ancora più eclatante è il caso del centro sociale autogestito il Molino a Lugano, unica realtà che fino al 2021 accoglieva apertamente le persone transitanti. Nel maggio di due anni fa è stato raso al suolo su provvedimento della polizia cantonale. Al contrario della solida collaborazione tra le autorità di frontiera dei due Paesi, costruire e mantenere una rete solidale a livello locale e transfrontaliero di supporto alle persone in transito, in questo contesto, sembra quasi impossibile.

    https://altreconomia.it/respingimenti-e-ostacoli-allasilo-ritorno-sulla-frontiera-italia-svizze

    #Italie #Suisse #frontières #push-backs #refoulements #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #réadmissions #réadmissions_passives #foreign_fighters #terrorisme #statistiques #chiffres #2023 #2022 #profilage_racial #drones #criminalisation_de_la_solidarité

  • Frontière franco-italienne : une « borderforce » pour aggraver les dangers de la traversée et les violations des droits des personnes exilées ?

    Le gouvernement a annoncé la mise en place d’une « border force » à la #frontière_franco-italienne, à partir du 1er juillet dans les Hautes-Alpes selon le préfet de ce département. Son seul effet risque d’être l’aggravation des dangers et des atteintes aux droits des personnes exilées qui tentent de la franchir, alors qu’une quarantaine y sont mortes ou disparues en moins de 10 ans.

    Nos associations demandent aux autorités de cesser les pratiques illégales à cette frontière et de proposer enfin aux personnes exilées un accueil digne, permettant notamment aux mineur·es isolé·es d’être pris.es en charge et protégé·es et aux personnes venues chercher refuge de déposer leur demande d’asile.

    Depuis 2015, les autorités françaises n’ont cessé de renforcer les contrôles à la frontière franco-italienne. Police aux frontières, CRS, gendarmes mobiles, forces militaires « Sentinelle » : la frontière est sous haute surveillance. Cette nouvelle border force, dont les contours restent flous, devrait conjuguer des moyens de sécurité intérieure, des douanes et des militaires et donc encore augmenter le nombre de forces de l’ordre à la frontière.

    Des violations systématiques des droits des personnes exilées

    Sur ces territoires frontaliers, des personnes exilées sont interpellées chaque jour puis renvoyées vers l’Italie par les autorités françaises depuis des années. Ces refoulements se font au mépris des droits fondamentaux et de la dignité des personnes. Aucune mesure de contrôle, d’interpellation, de privation de liberté et de renvoi ne devrait pouvoir s’affranchir du cadre juridique national, européen et international.

    Or nos associations - présentes sur ces territoires depuis 2017 aux côtés des acteurs locaux - constatent des violations systématiques des droits fondamentaux des personnes exilées tout le long de la frontière franco-italienne : contrôles discriminatoires, absence de respect des procédures à la frontière, impossibilité de demander l’asile, enfermement arbitraire, refoulements de mineur·es isolé·es, etc.
    Refoulements aux frontières

    Lors d’une mission d’observation, à #Modane et #Montgenèvre, au nord de la frontière franco-italienne, nos associations ont constaté une trentaine d’interpellations les 19, 20 et 21 juin derniers et des refoulements vers l’Italie sans respect des procédures. Une famille composée d’un couple et de deux enfants, venant d’Afghanistan, a témoigné avoir expliqué aux policiers, lors de leur interpellation en gare de Modane alors qu’ils arrivaient depuis le sud de l’Italie après avoir traversé la Méditerranée, vouloir demander l’asile en Allemagne pour rejoindre une partie de leur famille. Sans examen de cette demande et donc en violation de leurs droits, ils ont dû signer un “refus d’entrée” et ont été renvoyés en Italie une heure plus tard.

    A #Menton, les personnes sont refoulées de manière expéditive vers #Vintimille, où les demandeur·ses d’asile doivent attendre six mois pour obtenir un premier enregistrement de leur demande et un accès à un hébergement. En attendant, elles doivent survivre dans la rue dans des conditions indignes. En juin 2023, deux hommes exilés à la rue sont décédés à Vintimille, noyés dans l’embouchure de la Roya. En janvier 2023, une personne est morte électrocutée sur le toit d’un train entre Vintimille et Nice. Ces drames se sont ajoutés à la longue liste des plus de 40 personnes exilées mortes et disparues à cette frontière depuis 2015, victimes d’accidents sur l’autoroute, d’électrocution sur les trains ou encore d’hypothermie en montagne.

    A #Briançon, les personnes qui parviennent à franchir la frontière à travers les montagnes sans être refoulées sont abandonnées à la rue par les autorités, laissant toute la responsabilité de l’accueil aux associations solidaires locales. Le #Refuge_Solidaire, qui pallie cette carence de l’Etat, est régulièrement suroccupé, ce qui met les personnes exilées et les associations qui les accompagnent en grande difficulté.

    Après un parcours migratoire souvent éprouvant, les personnes devraient pourtant être accueillies dans le respect de leurs droits au lieu d’être simplement renvoyées en Italie.

    Nos associations alertent les autorités sur ces situations qui causent de graves conséquences pour les personnes exilées et leurs soutiens, et demandent à ce que le droit national, européen et international soit enfin respecté à la frontière franco-italienne. La seule réponse par l’augmentation des effectifs de forces de l’ordre à travers la border force ne permettra pas d’atteindre cet objectif.

    https://www.amnesty.fr/presse/le-gouvernement-a-annonce-la-mise-en-place-dune-

    #frontière_sud-alpine #Alpes #Italie #France #militarisation_des_frontières #borderforce #border_force #Hautes-Alpes #Briançonnais #Briançon

  • I #villani

    2018, dans un monde dominé par l’agriculture et la pêche industrielle, nous allons suivre aux quatre coins de l’Italie, quatre #paysans et deux #pêcheurs qui ont décidé de pratiquer leur métier comme autrefois, dans le respect de la nature. Depuis #Alcamo en #Sicile nord occidentale avec Salvatore, à #Baselice au cœur de la #Campanie avec Modesto, à #Trambileno dans le #Trentin avec Luigina, jusqu’au port du vieux #Tarente avec les frères Galasso, nous découvrons des réalités d’aujourd’hui qui nous sont totalement inconnues. Des paysans libres qui ne suivent pas les règles imposées par l’Union européenne et ses lois liberticides qui assassinent la biodiversité, pour produire leurs fromages, leurs tomates, leurs confitures ou bien leurs moules. Le point commun entre tous ces travailleurs, c’est cette volonté de bien faire, cet amour pour leur métier, ce respect pour la nature dont ils dépendent ainsi que les conditions de vie bien difficiles qui en découlent. Il y a en filigrane la voix off de ce vigneron Lombard, Lino Maga, qui relie les destins croisés de ces survivants dont il faut espérer qu’ils feront des émules.

    « Pour bien manger, il faut respecter un certain rythme : celui de la cuisine, des saisons. Il faut aussi respecter la terre et la mer, tout ce que la modernité en réalité ne fait plus. C’est ainsi que naît cette nouvelle exigence : vivre comme autrefois dans notre temps présent. En quinze ans de travail, à travers mes livres et mes spectacles, j’ai essayé de montrer les liens entre la cuisine et l’art, de dire ce que représentait pour moi la cuisine. Ce qui m’émeut et que je veux partager, c’est l’existence de ces personnes qui sont capables de créer des gestes et de construire autour un savoir vivant. Leur existence est primordiale. Le documentaire est l’instrument qui peut permettre que cette rencontre se réalise : je ne renonce pas à mon point de vue mais celui-ci se fond dans leur réalité. »

    https://festival-villerupt.com/title-item/i-villani

    #film #documentaire #film_documentaire
    #Italie #agriculture #portraits #

  • Au nom du #Duce - Naples-Rome

    À Naples et Rome, la campagne municipale, le dimanche 5 décembre 1993.
    Ces élections se sont terminées par la victoire de la coalition des écologistes et de la gauche unie. Lors de ces élections, le Parti néo-fasciste a fait un score de 45% à Rome et 43% à Naples.
    À Naples, le MSI était conduit par Mademoiselle Alessandra Mussolini, la petite fille du fameux Benito.

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/778_0

    #film #documentaire #film_documentaire
    #Italie #néo-fascisme #Alessandra_Mussolini #Antonio_Bassolini #Naples #MSI #communauté_juive

  • Une vie de militant : Pietro Gori (Suite et fin) - PARTAGE NOIR
    https://www.partage-noir.fr/une-vie-de-militant-pietro-gori-suite-et-fin

    Jusqu’en 1894, les persécutions policières et une suite de procès rendirent l’existence de Gori particulièrement difficile. Après l’attentat de Caserio contre Sadi Carnot, président de la République française, la presse réactionnaire, accusa Gori de complicité et de provocation au meurtre, le représentant comme assoiffé de sang. Le gouvernement français prit contre lui un arrêté d’expulsion avant même qu’il eût franchi la frontière.

    #Pietro_Gori #anarchiste #italie

  • Une vie de militant : #Pietro_Gori
    https://www.partage-noir.fr/une-vie-de-militant-pietro-gori

    Après le Congrès fameux tenu à Gênes en 1892, la rupture entre socialistes-autoritaires et anarchistes devint définitive. Ce Congrès marqua dans l’histoire du parti socialiste italien une date importante et pour le mouvement anarchiste son vrai départ. Deux orateurs se signalèrent dans la défense du point de vue anarchiste : Luigi Galleani et Pietro Gori. Ce dernier — qui avait commencé sa vie militante dans les rangs de l’Internationale, à Livourne et à Pise — prenait depuis quelques (...) #Contre-Courant_n°6_-_Juillet_1952

    / Pietro Gori, #Italie, #Contre_Courant, #Internet_Archive

    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/cc_006.pdf

  • Le navire-ambulance « Ocean-Viking » sauve 86 personnes, dont une majorité de mineurs, en Méditerranée
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/06/28/le-navire-ambulance-ocean-viking-sauve-86-migrants-en-mediterranee_6179529_3

    Le navire-ambulance « Ocean-Viking » sauve 86 personnes, dont une majorité de mineurs, en Méditerranée
    Les autorités italiennes ont désigné Bari comme port sûr pour le débarquement des personnes sauvées au large de la Libye, ce qui représente trois jours de navigation, a regretté l’ONG.
    Le Monde avec AFP
    Publié aujourd’hui à 08h39, modifié à 09h47
    L’Ocean-Viking, navire-ambulance affrété par SOS Méditerranée, a secouru mardi 27 juin 86 personnes en détresse au large de la Libye. Sur une embarcation de fortune, elles tentaient de rejoindre l’Europe, a annoncé dans un communiqué l’ONG humanitaire basée à Marseille. « Les rescapés, pour la plupart originaires de Gambie et du Sénégal, souffrent de déshydratation, d’épuisement et de brûlures de carburant », a tweeté SOS Méditerranée dans la soirée. Ils seraient en grande majorité mineurs et ont tenté cette traversée périlleuse sans être accompagnés par leurs proches.
    Les rescapés ont été pris en charge par les équipes de SOS Méditerranée et de la Fédération internationale de la Croix-Rouge à bord de l’Ocean-Viking. Les autorités italiennes ont désigné Bari comme port sûr pour le débarquement des rescapés, ce qui représente trois jours de navigation, a regretté l’ONG.
    Début janvier, plusieurs ONG internationales engagées dans des opérations de secours aux migrants en Méditerranée avaient dénoncé la volonté du gouvernement italien d’extrême droite « d’entraver l’assistance aux personnes en détresse ». Elles pointaient les effets croisés d’un décret obligeant les navires à se rendre « sans délai » vers un port italien après chaque sauvetage, et l’assignation habituelle de ports très éloignés, réduisant les capacités d’assistance.
    La Méditerranée centrale est la route migratoire la plus dangereuse du monde, selon l’Organisation internationale pour les migrations (OIM). L’agence onusienne estime que depuis début 2023, 1 724 migrants y ont disparu contre 1 417 sur toute l’année 2022. En juin, un naufrage, présenté comme l’un des plus graves impliquant des migrants en Méditerranée, a fait au moins 82 morts, mais en Méditerranée orientale. L’OIM et le Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (UNHCR) estiment qu’entre 400 et 750 passagers se trouvaient sur le chalutier, dont des femmes et des enfants.

    #COvid-19#migrant#migration#italie#mediterranee#routemigratoire#OIM#UNHCR#libye#humanitaire#postcovid

  • Le navire-ambulance « Ocean-Viking » sauve 86 personnes, dont une majorité de mineurs, en Méditerranée
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/06/28/le-navire-ambulance-ocean-viking-sauve-86-migrants-en-mediterranee_6179529_3

    Le navire-ambulance « Ocean-Viking » sauve 86 personnes, dont une majorité de mineurs, en Méditerranée
    Les autorités italiennes ont désigné Bari comme port sûr pour le débarquement des personnes sauvées au large de la Libye, ce qui représente trois jours de navigation, a regretté l’ONG.
    Le Monde avec AFP
    Publié aujourd’hui à 08h39, modifié à 09h47
    L’Ocean-Viking, navire-ambulance affrété par SOS Méditerranée, a secouru mardi 27 juin 86 personnes en détresse au large de la Libye. Sur une embarcation de fortune, elles tentaient de rejoindre l’Europe, a annoncé dans un communiqué l’ONG humanitaire basée à Marseille. « Les rescapés, pour la plupart originaires de Gambie et du Sénégal, souffrent de déshydratation, d’épuisement et de brûlures de carburant », a tweeté SOS Méditerranée dans la soirée. Ils seraient en grande majorité mineurs et ont tenté cette traversée périlleuse sans être accompagnés par leurs proches.
    Les rescapés ont été pris en charge par les équipes de SOS Méditerranée et de la Fédération internationale de la Croix-Rouge à bord de l’Ocean-Viking. Les autorités italiennes ont désigné Bari comme port sûr pour le débarquement des rescapés, ce qui représente trois jours de navigation, a regretté l’ONG.
    Début janvier, plusieurs ONG internationales engagées dans des opérations de secours aux migrants en Méditerranée avaient dénoncé la volonté du gouvernement italien d’extrême droite « d’entraver l’assistance aux personnes en détresse ». Elles pointaient les effets croisés d’un décret obligeant les navires à se rendre « sans délai » vers un port italien après chaque sauvetage, et l’assignation habituelle de ports très éloignés, réduisant les capacités d’assistance.
    La Méditerranée centrale est la route migratoire la plus dangereuse du monde, selon l’Organisation internationale pour les migrations (OIM). L’agence onusienne estime que depuis début 2023, 1 724 migrants y ont disparu contre 1 417 sur toute l’année 2022. En juin, un naufrage, présenté comme l’un des plus graves impliquant des migrants en Méditerranée, a fait au moins 82 morts, mais en Méditerranée orientale. L’OIM et le Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (UNHCR) estiment qu’entre 400 et 750 passagers se trouvaient sur le chalutier, dont des femmes et des enfants.

    #COvid-19#migrant#migration#italie#mediterranee#routemigratoire#OIM#UNHCR#libye#humanitaire#postcovid

  • L’évaporation du #trafic automobile
    http://carfree.fr/index.php/2023/06/28/levaporation-du-trafic-automobile

    C’est arrivé à certains d’entre nous. Vous vouliez créer une rue sans voiture, mais on vous a opposé des prévisions convaincantes d’augmentation du trafic dans les rues avoisinantes. Bien que Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Fin_des_autoroutes #allemagne #angleterre #autoroutes #congestion #Europe #histoire #italie #japon #londres #lyon #new-york #routes #Suisse #usa

  • Commémoration pour deux personnes décédées à la frontière italo-française

    This past Tuesday, 20th June, one person was found dead in the sea next to the Roya estuary in Ventimiglia, on Marina San Giuseppe Beach. Days later, the person remains unidentified. Early June another person was found dead in the same circumstances in the same area. None of this is a coincidence, none of this is an accident.
    In order to pay your respects for the person who died earlier this week, please join us at 17.00 on Sunday 25th of June at the Lower Border Ponte San Ludovico.
    If you need a ride or have space in your car please meet at 16.00 in Upupa (Via Tenda, 50).
    This commemoration is for everyone to mourn and remember his humanity and dignity that were denied to him. Please feel free to bring any symbols or mementos, for example flowers, poems or candles. This will also be a space to share our sadness, despair, rage at the continued killings happening at the French-Italian border & all borders.

    https://www.facebook.com/progetto20k/posts/pfbid04QqxX4HZG6KtrqggLzEQex6TsCNf9RTgEnCBv2J355E5eCCaBCCjxddAZccFLhUkl

    Les cas mentionnés :
    02.06.2023 : https://seenthis.net/messages/1006188
    20.06.2023 : https://seenthis.net/messages/1007018

    #commémoration #asile #migrations #réfugiés #Vintimille #Alpes_Maritimes #frontière_sud-alpine #France #Italie #Ponte_San_Ludovico

  • “Vite abbandonate”, la situazione dei migranti in arrivo dalle rotte balcaniche a #Trieste

    Al confine orientale l’assenza istituzionale lascia per strada migliaia di persone, soccorse solo dalle associazioni umanitarie. L’emergenza invasione è “artificiale”: il numero degli arrivi, infatti, è assolutamente gestibile. Una rete solidale di realtà che operano in città ha curato un rapporto per far luce su inefficienze e omissioni

    Migliaia di persone migranti lasciate a loro stesse, lungaggini anche di 70 giorni per accedere al servizio di prima accoglienza, carenza di strutture dove passare la notte, anche nei mesi più freddi. È una situazione di grave difficoltà, in netto peggioramento, quella fotografata dal rapporto “Vite abbandonate” (https://www.icsufficiorifugiati.org/vite-abbandonate-rapporto-sulla-situazione-e-i-bisogni-dei-migr), risultato di un’analisi dettagliata svolta nel corso del 2022 a Trieste -punto di ingresso nel nostro Paese delle rotte balcaniche- da parte di una rete solidale di associazioni che in città operano nel campo dell’accoglienza, della tutela sanitaria e dell’assistenza umanitaria alle persone migranti. Tra i membri del network, la Comunità di San Martino al Campo, il Consorzio italiano di solidarietà (Ics), la Diaconia valdese (Csd), Donk humanitarian medicine, International rescue committee Italia e Linea d’Ombra.

    A provocare il degrado del sistema di tutela e dei servizi di bassa soglia non è stato un aumento spropositato degli arrivi. Confrontando infatti l’ultimo trimestre del 2021 (683 arrivi totali registrati) e l’ultimo trimestre del 2022 (5.940 arrivi totali registrati), la crescita è evidente ma non è di entità tale da compromettere una gestione efficace dei flussi. “Ci sono dei momenti nel corso dell’anno in cui i numeri sono effettivamente rilevanti, da luglio a novembre ci sono stati dai 1.300 agli oltre 2mila ingressi al mese -spiega Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics e membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)- ma se dividiamo la cifra annuale, 13.127, per 365 giorni, vediamo una media di 35 arrivi al giorno; c’è un clima di allarmismo che vuole imputare la situazione di difficoltà non alla carenza di servizi, ma all’entità dei flussi. Questo per legittimare attività che non dovrebbero essere svolte, come le riammissioni informali, e la creazione di strutture di grandi dimensioni dove rinchiudere le persone”. Da notare, in più, che solo il 32% di coloro che giungono a Trieste dichiara di voler presentare domanda di asilo in Italia; solo un terzo delle persone migranti, quindi, inciderà in maniera continuativa sul sistema pubblico. Eppure l’intero rapporto evidenzia grandi problemi gestionali e umanitari.

    A partire da giugno 2022, nonostante l’aumento delle domande di asilo, il sistema di prima accoglienza (basato su due strutture, l’Ostello di Campo sacro e Casa Malala nella località di Fernetti) si è saturato rapidamente, a causa del rallentamento delle procedure di trasferimento e del ricollocamento dei richiedenti asilo in altre Regioni italiane. Così, le persone -1.535 tra luglio e dicembre 2022- sono rimaste abbandonate in strada, all’addiaccio dai 30 ai 70 giorni prima di poter accedere all’accoglienza prevista per legge. L’Ics, in questo periodo, ha inviato 14 segnalazioni formali via posta certificata alla prefettura di Trieste, per renderla edotta di quanto stava avvenendo. Ma non ha ricevuto risposta.

    Da notare che si tratta, in larga parte, di persone che avrebbero diritto a pieno titolo della protezione internazionale. Il 54% dei migranti vengono dall’Afghanistan, Paese in cui si stima che 28 milioni di abitanti abbiano bisogno di aiuti umanitari e che il 97% dei cittadini sia a rischio povertà. Il 25% delle persone viene poi dal Pakistan, il 6% dal Bangladesh, il 4,3 % dall’India, il 3,9% dal Kurdistan turco, il 2,3% dal Nepal e il 4,5% da altri Paesi. La percentuale di afghani si alza ulteriormente quando si parla di minori stranieri non accompagnati: tra i 1.406 minorenni incontrati e assistiti nel 2022, l’85% era di questa nazionalità.


    Alla presenza di persone in strada, le istituzioni hanno dapprima reagito con un approccio securitario, mandando pattuglie di polizia per fare allontanare coloro che si accampavano in Piazza Libertà (nei pressi della stazione) e comminando multe per bivacco fino a 100 euro per coloro che erano rimasti fuori dal sistema di accoglienza ed erano quindi costretti a vivere all’addiaccio. Da agosto, invece, è stata permessa la riapertura, sostanzialmente a spese delle associazioni della rete curatrice del dossier, del Centro diurno in via Udine della Comunità di San Martino al Campo che, da maggio 2020, non operava più come servizio a bassa soglia verso chiunque avesse bisogno, ma solo verso un numero limitato di persone senza fissa dimora residenti.

    Ulteriori letti sono stati messi a disposizione dal Comune di Trieste dal primo gennaio 2023, portando la capacità totale dei dormitori cittadini a 55 posti, a cui si devono aggiungere altri 25 posti in un’altra struttura per famiglie e situazioni più vulnerabili. L’intervento è stato estremamente utile ma parziale. Nel solo dormitorio gestito dalla Comunità di San Martino al Campo, nell’ultimo quadrimestre del 2022, su un totale di 733 posti letto complessivi, 604 (82%) sono stati assegnati a persone richiedenti asilo in attesa di entrare nel sistema di accoglienza.

    Coloro che arrivano dalle rotte balcaniche non necessitano solo di un letto ma anche di altri tipi di assistenza. Tra agosto e settembre 2022, per esempio, 1.088 persone hanno ricevuto visite mediche approfondite nell’ambulatorio di Donk humanitarian medicine, allestito nel Centro diurno in via Udine. Le patologie riscontrate sono state infestazioni cutanee (quasi sempre scabbia), lesioni cutanee da traumi subiti durante il viaggio, malattie infettive e respiratorie. Le associazioni della rete sono inoltre intervenute per fornire cibo, vestiti e informazioni legali alle persone migranti in Piazza Libertà. L’associazione Linea d’ombra distribuisce una media di 50 pasti al giorno, con un picco di 174 in una sera di agosto. “Le nostre proposte sono semplici -conclude Schiavone-, ovvero ripristinare un sistema di accoglienza che realmente funzioni, che a Trieste vuol dire un buon sistema di trasferimenti verso il territorio nazionale, e strutturare i servizi di bassa soglia tenendo conto che la città, per la sua natura e la sua collocazione geografica, deve essere considerata come un’area metropolitana”.

    https://altreconomia.it/vite-abbandonate-la-situazione-dei-migranti-in-arrivo-dalle-rotte-balca
    #Italie #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #accueil #non-accueil

    • Vite abbandonate: Rapporto sulla situazione e i bisogni dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica a Trieste – anno 2022

      La mattina del 15 giugno, al Circolo della Stampa di Trieste, è stato presentato il “Rapporto sulla situazione e i bisogni dei migranti in arrivo dalla rotta balcanica a Trieste – anno 2022”. Di seguito potete leggere la sintesi dei contenuti, mentre è possibile scaricare integralmente il report cliccando qui: https://www.icsufficiorifugiati.org/wp-content/uploads/2023/06/Report-Piazza-2022-Web_compressed.pdf

      Per la sua posizione geografica Trieste è e rimarrà un luogo di arrivo e di passaggio per un gran numero di persone che fuggono da situazioni drammatiche nei paesi di origine. L’aggravarsi delle crisi umanitarie in alcune zone dell’Asia ha determinato, a partire dall’estate dello scorso anno, un notevole incremento degli arrivi dalla rotta balcanica.

      Il Rapporto, redatto dalla Rete solidale che unisce le organizzazioni attive a Trieste sui temi dell’accoglienza, della tutela legale e dell’assistenza umanitaria alle persone migranti, fotografa nel dettaglio la situazione degli arrivi dalla rotta balcanica nel corso del 2022 e analizza l’impatto che questi hanno avuto sul sistema locale dei servizi, e parzialmente sul sistema dei dormitori per l’inverno 2022/2023, analizzando le principali criticità emerse. Il Rapporto si conclude con raccomandazioni alle istituzioni sugli interventi, finora carenti o assenti, che è urgente realizzare al fine di garantire il rispetto delle normative vigenti e la tutela dei diritti umani fondamentali.

      Le migliaia di persone che annualmente giungono in città, tra le quali molti nuclei familiari e minori non accompagnati, hanno un estremo bisogno di prima assistenza e di informazioni sui loro diritti, di cure sanitarie, della possibilità di lavarsi, cambiarsi gli abiti, sfamarsi, riposarsi in un luogo riparato. Gli enti e le associazioni che hanno redatto questo Rapporto hanno riempito, almeno parzialmente e nei limiti delle proprie possibilità, la mancanza di interventi istituzionali. Con una presenza costante in Piazza Libertà e al Centro Diurno, hanno assicurato il monitoraggio quotidiano degli arrivi e dei bisogni, garantito assistenza materiale attraverso la distribuzione di cibo e vestiario, assistenza medica e infermieristica, informazione e orientamento legale; tutto ciò tramite il lavoro svolto da operatori, medici e infermieri, mediatori linguistico-culturali e volontari, attingendo a risorse proprie o derivanti dalla solidarietà popolare.

      Dal 1° gennaio al 31 dicembre 2022 sono state incontrate e assistite nell’area della Stazione di Trieste un totale di 13.127 persone in arrivo dalla rotta balcanica, per oltre la metà provenienti dall’Afghanistan. Ben 1.406 i minori non accompagnati, l’11% del totale. 172 i nuclei familiari, prevalentemente di origine curda turca, composti da un totale di 825 persone, tra le quali 440 bambini, prevalentemente di età tra i 4 e gli 11 anni. Circa un terzo delle persone dichiara di voler presentare domanda di asilo in Italia, mentre i due terzi sono orientati a raggiungere altri paesi, come Francia, Germania, Portogallo e Svizzera. Il dato conferma come l’Italia non sia, nella maggior parte dei casi, la destinazione finale delle persone migranti e degli afghani in particolare che arrivano in città.

      Nonostante l’aumento delle domande di asilo nel corso del 2022 non sia stato tale da potersi definire un’emergenza, a partire da giugno 2022 il sistema di prima accoglienza imperniato sulle due strutture dell’Ostello di Campo Sacro e di casa Malala a Fernetti si è saturato rapidamente. È esploso, con dimensioni non paragonabili con il passato, il fenomeno dei richiedenti asilo abbandonati in strada a centinaia, lasciati all’addiaccio dai 30 ai 70 giorni prima di poter accedere all’accoglienza come previsto dalla legge. Gli effetti della situazione sul centro cittadino e sull’area della stazione di Trieste sono stati subito evidenti: i gruppi di migranti lasciati in strada si sono moltiplicati, con giacigli improvvisati in ogni spazio disponibile, dalle aiuole alle pensiline degli autobus.

      Solo da agosto 2022 la riapertura del Centro Diurno di via Udine ha permesso di migliorare l’assistenza alle persone in arrivo e limitare in parte il degrado derivante dall’abbandono. Il Comune di Trieste ha disposto nello stesso periodo la copertura economica per l’aumento di 20 posti per l’accoglienza notturna, ma i costi di gestione del Centro Diurno e degli essenziali servizi di assistenza sono stati e rimangono tuttora coperti quasi esclusivamente dalle organizzazioni della Rete che hanno messo a disposizione risorse economiche e supporto logistico.

      L’apertura di ulteriori posti letto finanziata dal Comune di Trieste, avvenuta dal 1° gennaio 2023, ha portato la capacità dei dormitori cittadini a un totale di 55 posti cui va aggiunta, per le famiglie e le situazioni più vulnerabili, un’ulteriore struttura cittadina dalla capienza massima di 25 posti. Questo intervento si è rivelato di grande utilità, anche se ancora insufficiente a coprire il fabbisogno reale della città, tanto più che nella stagione invernale l’abbandono in strada espone le persone a sofferenze indicibili fino al rischio di morte.

      Nell’ultimo quadrimestre del 2022, presso il solo dormitorio di San Martino al Campo, su un totale di 733 posti letto messi a disposizione, ben l’82% (604) sono stati assegnati a richiedenti asilo in attesa di entrare nel sistema di prima accoglienza a loro dedicato. La mancata accoglienza dei richiedenti asilo ha quindi occupato la grande parte dei posti che dovrebbero invece essere destinati a persone del territorio che si trovano in stato di bisogno e a cittadini stranieri il cui percorso migratorio per una pluralità di ragioni non si conclude a Trieste.

      La città di Trieste, snodo di passaggio fondamentale nella rotta balcanica, avrebbe bisogno di una attenta strategia su questo tema e dovrebbe essere dotata di un programma di gestione del fenomeno migratorio di ampio respiro, che assomigli alla programmazione tipica di un’area metropolitana di confine.

      In particolare gli interventi pubblici dovrebbero mirare a perseguire i seguenti tre obiettivi prioritari:

      1. Predisporre un piano pubblico in grado di assicurare un’assistenza umanitaria, uno screening medico e un ricovero temporaneo a elevata turnazione in condizioni di sicurezza per diverse migliaia di persone nel corso dell’anno.

      2. Assicurare l’accesso immediato dei cittadini stranieri che presentano domanda d’asilo a Trieste al sistema di prima accoglienza e ai servizi a loro dedicati.

      3. Favorire una gestione dell’accoglienza che garantisca la libertà delle persone, promuovendo l’inclusione sociale, ed eviti forme di marginalizzazione e ghettizzazione.

      l Rapporto illustra dettagliatamente e per punti le misure che le autorità competenti (Comune di Trieste, Prefettura di Trieste, ASUGI) dovrebbero adottare per raggiungere i suddetti obiettivi.

      Non costituisce invece una risposta sensata l’ipotesi della apertura a Trieste di un hotspot, di fatto una struttura detentiva e non di prima accoglienza. La privazione della libertà all’interno di tali centri ha già sollevato enormi problematiche giuridiche relative alla conformità con la Costituzione e con la normativa dell’Unione Europea, e l’apertura di tali strutture non porterebbe alcun beneficio al buon funzionamento del sistema di prima accoglienza dei richiedenti asilo del territorio.

      https://www.icsufficiorifugiati.org/vite-abbandonate-rapporto-sulla-situazione-e-i-bisogni-dei-migr

  • Perché le misure spropositate e repressive contro gli attivisti per il clima sono una minaccia

    I giovani che mettono in atto proteste nonviolente vengono colpiti da provvedimenti penali e amministrativi, oltre che da sanzioni economiche. Accuse di associazione a delinquere e uso sistematico dei fogli di via sono i segnali più preoccupanti. Per l’avvocato Francesco Romeo l’obiettivo è neutralizzare i movimenti ecologisti.

    “C’è un’attenzione repressiva spropositata nei confronti degli attivisti ambientali, come quelli di #Ultima_generazione. È sorprendente come di fronte a un movimento non violento venga utilizzato questo dispiego di strumenti repressivi di carattere penale, amministrativo ed economico”. L’avvocato Francesco Romeo segue il procedimento penale -attualmente nella fase delle indagini preliminari- partito a seguito dell’azione di protesta che lo scorso 6 maggio è stata compiuta in Piazza Navona a Roma, quando quattro persone hanno versato carbone vegetale diluito in acqua nella fontana dei Quattro Fiumi.

    Romeo è anche tra i firmatari di un appello (https://ilmanifesto.it/no-alla-criminalizzazione-degli-ecoattivisti) lanciato lo scorso maggio che denuncia come nei confronti di “nuove forme di contestazione da parte di nuovi movimenti -dai sindacati di base ai movimenti ambientalisti- le attività delle procure hanno a volte assunto caratteri fortemente repressivi, con contestazioni di reati spropositate”.

    Una preoccupazione espressa anche da Michel Forst, Relatore speciale delle Nazioni unite per i difensori dell’ambiente, ospite di un evento promosso da Amnesty International Italia a Torino il 13 aprile (https://www.amnesty.it/torino-il-13-aprile-la-conferenza-proteggere-la-madre-terra-difendere-i-diri) durante il suo viaggio in Europa proprio per raccogliere informazioni sulle forme di attivismo ambientale e sulla risposta governativa al dissenso. Per Forst la repressione sta diventando la risposta più comune al dissenso, attraverso un uso sproporzionato di strumenti investigativi da parte delle forze dell’ordine e proposte per inasprire leggi che limitano la libertà di manifestare o impongono sanzioni e pene più pesanti a carico dei difensori dell’ambiente. In tutta Italia gli attivisti ambientali sono sottoposti a indagini e coinvolti in diversi processi.

    In questa intervista l’avvocato Romeo spiega perché ha deciso di firmare l’appello e quali rischi e conseguenze corrono in Italia le persone che stanno portando avanti proteste non violente.

    Avvocato, qual è l’obiettivo dell’appello lanciato lo scorso maggio?
    FR Vuole affermare che le attività di protesta non violenta -come quelle di associazioni come Ultima generazione ma non solo- devono essere valutate e pesate per quello che sono. Ossia azioni di disobbedienza civile nonviolente e certo non attività a cui rispondere con accuse di reato gravi come l’associazione a delinquere, come accaduto ad esempio a Padova. Inoltre vogliamo sollecitare una riflessione da parte dell’opinione pubblica poiché ci stiamo rendendo conto che queste persone scontano un’ostilità difficile da comprendere. Vengono dileggiate, osteggiate senza sapere che cosa stanno affrontando, quali rischi si assumono in prima persona e quali conseguenze dovranno affrontare se le cose dovessero andare male nel corso dei processi.

    Oltre all’accusa di associazione a delinquere, a quali altre accuse o provvedimenti devono far fronte gli attivisti?
    FR Il caso più estremo è proprio l’accusa di associazione a delinquere contestata ai ragazzi di Ultima generazione di Padova. Una realtà che non ha nessun livello occulto, si muove alla luce del sole, con documenti e azioni pubbliche volte alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente e non a mettere da parte guadagni illeciti o con la finalità di commettere dei reati a scopo di lucro o stabilire e mantenere il dominio su un territorio. In altre occasioni si contesta agli attivisti di aver deturpato o imbrattato opere d’arte, ma anche in questo caso è tutto da dimostrare visto che non fanno ricorso a sostanze chimiche nocive, spesso usano carbone vegetale liquido, una sostanza naturale. Anche in questo caso mi sembra ci sia una asimmetria tra la gravità dell’accusa e l’azione effettivamente commessa. Bisogna tenere presente poi che accanto alla denuncia penale ci sono le sanzioni amministrative: sia quelle previste a livello nazionale sia quelle locali. Per non parlare poi della misura più subdola, di prevenzione, che viene utilizzata nei confronti di questi giovani.

    Quale?
    FR Il foglio di via, che viene impiegato sistematicamente. Si tratta di provvedimenti che limitano la libertà personale: se una persona residente a Milano partecipa a una protesta a Roma, con il foglio di via le viene impedito di rientrare nella città per un periodo che va da uno a tre anni, per fare un esempio. Anche qui c’è un problema di proporzionalità: il foglio di via è una misura di prevenzione che fa parte del cosiddetto “Codice antimafia”, serve cioè a contrastare la criminalità organizzata o situazioni di pericolo serio. Di fronte ad azioni nonviolente impiegare questo strumento è veramente spropositato. E impiegarlo non una tantum ma sistematicamente, significa riempire questi attivisti di provvedimenti limitativi della loro libertà di movimento. Una misura non secondaria, seppure non abbia carattere penale o amministrativo.

    Quale può essere la finalità di questo eccesso di provvedimenti?
    FR Sono misure che innanzitutto puntano a dissuadere, a neutralizzare, impedire che si possano riproporre azioni di questo tipo. Poi c’è la volontà di intimidire gli attivisti e in ultimo a delegittimare, a “spoliticizzare”, le azioni messe in campo. Queste tre componenti sono molto evidenti nel procedimento simbolo, che è quello per associazione a delinquere in corso come detto a Padova, ma io penso che siano caratteristiche presenti in ogni denuncia portata all’attenzione dell’autorità giudiziaria e amministrativa. È un vero e proprio accanimento. Per me è sorprendente che di fronte a un movimento nonviolento venga utilizzato un dispiego di strumenti repressivi -di carattere penale, amministrativo ed economico- così imponente.

    Nonostante il quadro che ha descritto, sono attualmente in esame congiunto della seconda commissione permanente Giustizia del Parlamento i tre disegni di legge che vogliono inasprire le misure contro il danneggiamento beni culturali e artistici. Testi a firma, rispettivamente, del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dei senatori Claudio Borghi (Lega) e Marco Lisei (Fratelli d’Italia).
    FR Sono misure che intendono aumentare e inasprire le pene e le sanzioni amministrative di vario tipo già esistenti. Sono una sorta di imprinting a firma della destra sulle politiche repressive. Dal punto di vista penale vi sono proposte di aumento di pena, sebbene queste siano già elevate per il tipo di reati che vengono contestati attualmente dalle procure. La proposta del disegno di legge della Lega si caratterizza poi per chiedere di introdurre la misura penale dell’arresto facoltativo in flagranza di reato per questo tipo di azioni. Dal punto di vista amministrativo, quella di Linsei invece chiede una stretta sui divieti di avvicinamento alle opere o ai luoghi d’arte, già introdotti dal cosiddetto decreto Minniti del 2017, e intende allungarne la durata.

    Poco fa ha accennato ai rischi che gli attivisti corrono in prima persona mettendo in atto le azioni di protesta. Può dire quali sono le conseguenze per loro?
    FR Intanto devono essere affrontati una marea di processi e non è una passeggiata. Inoltre, una volta che questi procedimenti sono iscritti, risultano nel casellario giudiziario. Questo è un problema, perché queste persone ovviamente hanno una loro vita, cercheranno di costruirsi un percorso professionale e potrebbero trovarsi in difficoltà nel momento in cui un datore di lavoro, sia pubblico o privato, chieda loro il certificato dei carichi pendenti e del casellario per valutare un’assunzione. Si crea così un danno, un pregiudizio, che parte prima ancora che si celebri il processo, prima ancora che si sappia come va a finire, se ci sarà una condanna o meno, soltanto con il procedimento aperto, anche se in fase di indagini. Questo solo per fare un esempio. Poi c’è il danno economico: tutte le spese per affrontare i processi e le multe che dicevo prima. È un cumulo enorme che potrebbe essere oggetto di valutazione più attenta.

    Gli attivisti sono consapevoli fino in fondo di tutto quello che rischiano?
    FR Sono ben consapevoli. Portano a termine le loro azioni con la convinzione di stare lottando per una causa giustissima. E noi dobbiamo fare un passo in avanti nello sviluppo della comprensione di un fenomeno come questo e non ragionare su un livello di rispetto o non rispetto della legge. Le persone che hanno compiuto l’azione in Piazza Navona a Roma avevano già avuto un foglio di via precedente. Dopo la partecipazione all’azione alla fontana dei Quattro Fiumi sono stati accusati di un altro reato, ovvero la violazione del foglio di via. È tutta una catena che si autoalimenta. Ma bisogna capire che per gli attivisti ci sono leggi che vengono applicate ingiustamente, e per questo per loro è giusto non rispettarle, per questo si assumono il rischio di non rispettarle. In questo consiste la disobbedienza civile. Ma non credo che questo dipinga una situazione di “emergenza da attivisti ecologisti”.

    https://altreconomia.it/perche-le-misure-spropositate-e-repressive-contro-gli-attivisti-per-il-

    #activisme #criminalisation #Italie #désobéissance_civile #écologie #répression

  • 20.06.2023 : Ventimiglia, migrante si butta in mare : morto annegato

    Si è tuffato in mare, ma non è riuscito a nuotare bene nelle acque agitate e a ritornare a riva. Stamane un giovane migrante è morto affogato nello specchio acqueo antistante Ventimiglia.

    Si tratta di uno dei tanti stranieri che nell’attesa di attraversare il confine francese, stazionano sulle spiagge della città di confine.

    La tragedia è avvenuta in località #Marina_San_Giuseppe, sotto gli occhi di altri bagnanti che hanno allertato i soccorsi.

    Inutili i tentativi di rianimare il giovane, riportato a riva dai presenti e da un bagnino.

    Sono intervenuti i sanitari del 118, ma per il migrante non c’era più nulla da fare.

    Le indagini sono state affidate ai militari della Capitaneria di porto, insieme con carabinieri e agenti della Polizia locale, accorsi sul posto.

    https://www.ligurianotizie.it/ventimiglia-migrante-si-butta-in-mare-morto-annegato/2023/06/20/545656

    –-> à voir si il faut le compter comme « mort » en tentant de traverser la frontière...

    #asile #migrations #réfugiés #frontières #frontière_sud-alpine #Alpes_maritimes #Italie #décès #France #Vintimille

    –—

    ajouté à cette métaliste sur les migrants décédés à la frontière italo-française « basse » :
    https://seenthis.net/messages/784767

    • Ventimiglia, cadavere in mare: è un migrante morto annegato

      Tragedia questa mattina a Ventimiglia dove il cadavere di un migrante morto annegato è stato visto in mare in località Marina San Giuseppe.

      Si è tuffato in mare, forse per rinfrescarsi, ma non è riuscito a nuotare nelle acque agitate: ha perso la vita così un uomo straniero, molto probabilmente un migrante, uno dei tanti che nell’attesa di attraversare il confine francese, stazionano sulle spiagge di Ventimiglia.

      I primi avvistamenti del corpo, e le conseguenti chiamate al 112 sono arrivate qualche minuto prima di mezzogiorno. Sul posto la capitaneria di porto, i vigili del fuoco e il 118, ma per il giovane non c’è stato nulla da fare.

      https://www.primocanale.it/cronaca/27527-ventimiglia-cadavere-in-mare-e-un-migrante-morto-annegato.html

    • Bordighera, cadavere in spiaggia: uomo muore annegato

      Il ritrovamento intorno alle 6 del mattino. Sul posto i carabinieri e guardia costiera. La vittima è un uomo adulto di origine straniera

      Il cadavere di un uomo è stato rinvenuto intorno alle ore 6 in spiaggia a Bordighera. Secondo le prime ricostruzioni la morte sarebbe avvenuta per annegamento. Ancora non si conosce l’identità della vittima. Il ritrovamento è avvenuto sul Lungomare Argentina.

      Una volta lanciato l’allarme sul posto immediato l’intervento dei soccorsi. Sul luogo del ritrovamento sono giunti la croce rossa di Bordighera, l’automedica Alfa 3 e gli uomini della capitaneria di porto di Sanremo ma non è stato possibile fare altro che constatare la morte.

      Sul luogo della tragedia anche i carabinieri di Bordighera che hanno avviato le indagini per ricostruire quanto accaduto. In corso infatti tutte le procedure di accertamento del caso.

      La vittima è un uomo adulto di origine straniera con carnagione olivastra. È stato rinvenuto sulla spiaggia con gli indumenti addosso. Non aveva documenti. Da un primo riscontro - come conferma il comando dei carabinieri di Bordighera - il cadavere dell’uomo, non presenta lesioni, questo confermerebbe l’ipotesi dell’annegamento. Non è escluso possa trattarsi di un migrante. Al momento non è stata fatta alcuna denuncia di scomparsa da parte di possibili parenti presenti sul territorio.

      Gli accertamenti avviati dai carabinieri saranno utili anche a capire se si trattato di un incidente o di un atto volontario da parte della vittima.

      https://www.primocanale.it/cronaca/26750-bordighera-cadavere-in-spiaggia-uomo-muore-annegato.html

    • Cadavere in spiaggia a Bordighera, è un migrante somalo di 20 anni

      L’autopsia ha escluso che la morte possa essere stata causata da motivi diversi dall’annegamento

      È un somalo poco più che ventenne il migrante trovato morto, domenica 4 giugno, sulla battigia di una spiaggia del lungomare Argentina, a Bordighera.

      Nazionalità ed età sono certi, il nome no in quanto ha diversi alias. Sul caso sono al lavoro Capitaneria di Porto e carabinieri. Il giovane straniero potrebbe essere caduto in mare a Ventimiglia, dalle parti della foce del fiume Roya, annegando subito dopo. Il corpo sarebbe stato, poi, trasportato dalle correnti verso Bordighera.

      L’autopsia ha escluso che la morte possa essere stata causata da motivi diversi dall’annegamento. Il somalo, che stazionava dalle parti di Roverino, a Ventimiglia, si recava spesso alla Caritas per chiedere cibo e vestiti.

      https://www.primocanale.it/cronaca/27027-cadavere-spiaggia-bordighera-migrante-somalo.html