• I dati sull’accoglienza in Italia, tra programmazione mancata e un “sistema unico” mai nato

    Ad agosto in Italia sono “accolte” quasi 133mila persone, per la maggioranza nei centri prefettizi. Il sistema diffuso, e sulla carta ordinario, pesa ancora poco. Un confronto con gli anni scorsi smonta l’emergenza e mostra i nodi veri: dalla non programmazione al definanziamento, fino allo squilibrio provinciale tra #Cas e #Sai.

    Al 15 agosto di quest’anno le persone in accoglienza in Italia sono 132.796: 95.436 nei Centri di accoglienza straordinaria che fanno capo alle prefetture, 34.761 nei centri diffusi del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) e 2.599 negli hotspot. Tanti? Pochi? Spia di un’emergenza imprevedibile? Un confronto con gli anni scorsi può aiutare a orientarsi, tenendo sempre la stessa fonte, cioè il ministero dell’Interno, lo stesso che per conto del governo lamenta una situazione “scoppiata” tra le mani, impossibile da programmare e quindi non gestibile per le vie ordinarie, tanto da dichiarare lo stato di emergenza.

    Facciamo un salto indietro alla fine del 2016, quando gli sbarchi furono oltre 180mila. Le persone in accoglienza in Italia allora erano 176.257, il 32,7% in più di oggi. La stragrande maggioranza, proprio come oggi, era nelle strutture temporanee emergenziali (137mila), seguita a distanza dall’accoglienza diffusa e teoricamente strutturale dell’allora Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) con 23mila posti, dai centri di prima accoglienza (15mila circa) e dagli hotspot (un migliaio). A fine agosto 2017, anno in cui gli sbarchi alla fine sfiorarono quota 120mila, erano 173.783, di cui nei soli Cas 158.207. Un terzo in più di oggi.

    Un anno dopo, il 31 agosto 2018, erano scesi a 155.619. Attenzione: quell’anno, anche a seguito degli accordi del 2017 tra Italia e Libia e delle forniture garantite a Tripoli per intercettare e respingere i naufraghi con missioni bilaterali di supporto (farina Minniti-Gentiloni), gli sbarchi crolleranno a 23.370.
    Ed è proprio in quell’anno che per decreto (il cosiddetto “Decreto Salvini”, 113/2018) il Governo Conte I smonta il già gracile e incompiuto sistema di accoglienza, pubblicando schemi di capitolato dei Cas che premiano le strutture di grandi dimensioni, riducendo gli standard di accoglienza e mortificando l’operato del Terzo settore. Per non parlare del forte impulso, già in atto da qualche tempo, alla prassi “svuota centri” rappresentata dalle revoche delle misure di accoglienza da parte delle prefetture. È bene infatti ricordare che tra 2016 e 2019, come ricostruito da un’inchiesta di Altreconomia, almeno 100mila tra richiedenti asilo e beneficiari di protezione si sono visti cancellare le condizioni materiali di accoglienza, finendo espulsi dai centri, a discrezione delle singole prefetture e senza che venisse tenuto in minima considerazione alcun principio di gradualità.

    L’anno che ha fatto registrare il dato più basso di sbarchi dell’ultima decade è il 2019: 11.471. A metà agosto di quattro anni fa le persone in accoglienza erano 102.402, di cui 77.128 nei Cas e 25.132 nell’ormai ex Sprar, svuotato della sua natura originaria e rinominato in Siproimi. “Perché immaginare di costruire un sistema di accoglienza per soggetti ritenuti non graditi dalle istituzioni?”, è il ragionamento non detto.

    Ecco perché al 15 agosto 2020, anno di leggera ripresa degli sbarchi (34.200 circa), le persone nei Cas, nel Siproimi e negli hotspot non superano quota 85mila. La metà rispetto al 2016. Crollano i posti nei centri prefettizi (da 77mila del 2019 a 60mila del 2020) così come quelli nel Siproimi (da 25mila a 23mila).

    Ma si è riusciti a far di peggio, riducendo il sistema al lumicino dei 76.902 “immigrati in accoglienza sul territorio”, come li indica il Viminale, del 15 agosto 2021 (anno che registrerà 67.477 sbarchi). Nei centri prefettizi vengono infatti dichiarate 51.128 persone presenti, quasi un terzo di quante erano accolte nel dicembre 2017. Nel circuito del Siproimi c’è una flebile ripresa che però non oltrepassa quota 25mila posti.

    È una sorta di “età di mezzo” (siamo a cavallo dei Governi Conte II e Draghi). Nonostante il positivo intervento della legge 173/2020 che ripristina la logica dello Sprar, denominandolo Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), i due esecutivi che precedono l’attuale non riescono a (o non vogliono) frenare la diminuzione dei posti. Si fa finta di non vedere che il sistema di accoglienza è nei fatti sottostimato e che da un momento all’altro può dunque implodere rispetto alle necessità. I capitolati dei Cas vengono di poco corretti ma non in maniera adeguata, e continua a non essere elaborato e tanto meno attuato alcun piano di progressivo assorbimento e riconversione dei Cas (emergenza) nel Sai (ordinario). Il Sistema di accoglienza e integrazione torna debolmente a crescere ma in modo modesto. Perché non è lì che si punta: a occupare l’agenda sono ancora gli accordi con la Libia, che vengono infatti rinnovati, e la direzione politica non cambia rispetto a quella precedente, è solo meno “urlata”.

    È in questo quadro che arriviamo all’anno scorso, quello dei 105mila sbarchi, con le persone in accoglienza che a metà agosto 2022 sono 95.893, di cui 64.117 nei Cas e 31mila circa nei centri Sai.

    Pian piano quella quota è cresciuta fino ai citati 132.796 “accolti” del 15 agosto 2023. Non si tratta, come visto, di un inedito picco ma di un già vissuto trascinarsi di difetti strutturali. Uno su tutti: il Sai, la fase di accoglienza concepita come ordinaria, non riesce ad andare oltre il 30% del numero complessivo dei posti disponibili.

    “Se immaginiamo che tra il 20 e il 30% della popolazione presente nei centri rapidamente li abbandona e lascia l’Italia per andare in altri Paesi dell’Unione europea, l’impatto generale degli arrivi e delle presenze è quanto mai modesto -osserva Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste e tra i più esperti conoscitori del sistema di accoglienza del nostro Paese. Nulla giustifica l’ordinario e diffuso allarmismo”. “La popolazione italiana nel solo 2022 è diminuita di 179mila unità, un numero pari a più di tre anni di arrivi (2022, 2021, 2020) -fa notare ancora Schiavone-. Ma di che cosa stiamo parlando?”.

    A questa lettura se ne aggiunge un’altra che riguarda la disomogeneità territoriale dell’accoglienza su scala provinciale. Il ministero dell’Interno rende infatti pubblici ogni 15 giorni i dati aggiornati sulle “presenze di migranti in accoglienza” distinguendoli però solo su base regionale. Così gli squilibri del sistema non emergono nel dettaglio.

    Altreconomia ha ottenuto dal Viminale i dati suddivisi per Provincia al 30 giugno 2023, appena prima che scoppiasse l’ultima “emergenza accoglienza”, quando le persone in accoglienza erano 118.883 di cui 3.682 negli hotspot (Lampedusa su tutti), 80.126 nei Cas e 35.075 nei centri Sai. Il carattere che emerge è la sproporzione. Vale tanto per la distribuzione dei posti del Sai quanto per il “collegamento” tra il sistema emergenziale Cas e l’accoglienza diffusa.

    Schiavone fa qualche esempio pratico. “In alcune Regioni e province le presenze nel Sai sono bassissime, specie se rapportate alla popolazione residente. Veneto, Toscana, la stessa Lombardia. Il divario Nord-Sud è critico. La peggiore si conferma in ogni caso il Friuli-Venezia Giulia, dove peraltro il ministero segnala 63 posti in provincia di Udine senza tenere conto che il progetto Sai che fa capo al Comune di Udine ha chiuso a fine dicembre del 2022. È palese la carenza forte di posti al Nord dove ci sarebbero le maggiori possibilità di integrazione socio-lavorativa”.

    Di fronte a questi dati sorge un interrogativo che il presidente dell’Ics di Trieste riassume così: “A che cosa serve un Sistema di accoglienza integrazione, che ora con la legge 50/2023 è destinato ai soli beneficiari di protezione, così squilibrato, sia per aree geografiche sia in relazione al sistema dei Cas? Trasferiamo i richiedenti asilo appena diventano rifugiati da Nord a Sud per trovare lavoro? Appare evidente che il sistema come è oggi configurato, se si intende mantenere l’irrazionale scelta di avervi sottratto l’accoglienza dei richiedenti asilo, non ha alcun senso e andrebbe interamente riconfigurato con drastiche chiusure di progetti Sai nelle aree interne, specie al Sud, che erano importantissimi in una logica normativa che prevede l’accoglienza diffusa dei richiedenti asilo ma che perdono senso in un nuovo sistema che attribuisce al Sai la sola funzione di sostenere l’integrazione socio-economica dei rifugiati”.

    A riprova del fatto che la vera emergenza in Italia non sono i numeri quanto la non programmazione ministeriale sull’accoglienza, c’è anche la risposta che il capo della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo (Francesco Zito) diede al nostro Luca Rondi a inizio gennaio 2023. Alla richiesta di aver copia del “Piano nazionale di accoglienza elaborato dal Ministero dell’Interno”, il Viminale glissò sostenendo che “i trasferimenti dei migranti avvengono in base a quote di volta in volta stabilite tra le diverse province, anche in base ai posti che si rendono disponibili sul territorio”. Come dire: il piano è non avere un piano.

    Chiude il cerchio la cesura netta che c’è tra i posti emergenziali nei Cas e il Sai. “Facciamo l’esempio di Piacenza -riflette Schiavone-. A fine giugno c’erano 505 posti Cas e 34 posti Sai. Se ad esempio ogni anno devo trasferire 200 ex richiedenti asilo divenuti beneficiari di protezione dai Cas di Piacenza al Sai di quella provincia, come si fa? È evidente che le persone verranno trasferite da una delle province a maggior dinamicità economica magari ad Avellino o Cosenza dove ci sono rispettivamente 900 e 1.100 posti SAI. Questo non-sistema produce nello stesso tempo sradicamento delle persone dai percorsi di primo inserimento sociale e totale sperpero di denaro pubblico. A guardare fino in fondo il non-sistema non produce neppure alcuna integrazione sociale, magari con grande lentezza e spreco di energie”.

    La progressiva riduzione dei Cas a parcheggi dove non verrà insegnato neppure l’italiano -come prevede la legge 50/2023 che ha eliminato anche l’orientamento legale e il supporto psicologico- farà il resto. “Il processo è in atto da tempo ma tende ad accelerare sempre di più -dice Schiavone allargando le braccia-. In questo modo anche i sei mesi di accoglienza Sai rischiano di rivelarsi pressoché inutili se non sono un completamento di un percorso di integrazione già avviato. Ma in questo non-sistema il beneficiario di protezione che accede al Sai parte da quasi zero”. Verso una nuova, prevedibile, “emergenza”.

    https://altreconomia.it/i-dati-sullaccoglienza-in-italia-tra-programmazione-mancata-e-un-sistem
    #données #statistiques #chiffres #asile #migrations #réfugiés #Italie #accueil #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #hotspot #2023 #Siproimi #urgence #2022 #2019 #2020 #arrivées #cartographie #Italie_du_Sud #Italie_du_Nord

  • Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di #Mezzogiorno

    Il rovescio della nazione aggiorna gli strumenti oggi a disposizione per leggere la questione meridionale, liberandola dal recinto di irrisolvibile «problema» locale. Le voci d’archivio del Risorgimento e della guerra ai briganti mostrano che l’idea di un #Meridione barbaro e arretrato ha le sue radici nella storia del colonialismo europeo e nel suo repertorio di rappresentazioni. In questo intreccio pieno di sfumature troviamo un antidoto alle torsioni identitarie che segnano i nostri giorni a ogni latitudine, e impariamo a scorgere la possibilità che sia il sud stesso a narrare la propria storia.

    «La negazione dell’altro interno, meridionale, nel processo di unificazione (...) ha notevolmente contribuito all’identificazione tra italianità e ’bianchezza’».

    https://tamuedizioni.com/?libro=il-rovescio-della-nazione
    #colonialisme #nationalisme #Italie_du_Sud #blanchité #italianité #unification #Italie_du_Sud #Italie #décolonial
    #livre #Carmine_Conelli

  • Difficult Heritage

    The Royal Institute of Art in Stockholm and the University of Basel are collaborating in the organization of the international summer program Difficult Heritage. Coordinated by the Decolonizing Architecture Course from Sweden and the Critical Urbanism course from Switzerland, the program takes place at #Borgo_Rizza (Syracuse, Italy) from 30 August to 7 September 2021, in coordination with Carlentini Municipality, as well as the local university and associations.
    The program is constituted by a series of lectures, seminars, workshop, readings and site visits centered around the rural town of Borgo Rizza, build in 1940 by the ‘#Ente_della_colonizzazione’ established by the fascist regime to colonize the south of Italy perceived as backward and underdeveloped.
    The town seems a perfect place for participants to analyze, reflect and intervene in the debate regarding the architectural heritage associated to painful and violent memories and more broadly to problematize the colonial relation with the countryside, especially after the renew attention due the pandemic.
    The summer program takes place inside the former ‘entity of colonization’ and constitutes the first intensive study period for the Decolonizing Architecture Advanced Course 2020/21 participants.

    https://www.youtube.com/watch?v=x0jY9q1VR3E

    #mémoire #héritage #Italie #Sicile #colonialisme #Italie_du_Sud #fascisme #histoire #architecture #Libye #Borgo_Bonsignore #rénovation #monuments #esthétique #idéologie #tabula_rasa #modernisation #stazione_sperimentale_di_granicoltura #blé #agriculture #battaglia_del_grano #nationalisme #grains #productivité #propagande #auto-suffisance #alimentation #Borgo_Cascino #abandon #ghost-town #villaggio_fantasma #ghost_town #traces #conservation #spirale #décolonisation #défascistisation #Emilio_Distretti

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    • Architectural Demodernization as Critical Pedagogy: Pathways for Undoing Colonial Fascist Architectural Legacies in Sicily

      The Southern question

      In 1952, #Danilo_Dolci, a young architect living and working in industrial Milan, decided to leave the North – along with its dreams for Italy’s economic boom and rapid modernization – behind, and move to Sicily. When he arrived, as he describes in his book Banditi a Partinico (The Outlaws of Partinico, 1956), he found vast swathes of rural land brutally scarred by the war, trapped in a systematic spiral of poverty, malnutrition and anomie. After twenty years of authoritarian rule, Italy’s newly created democratic republic preserved the ‘civilising’ ethos established by the fascist regime, to develop and modernize Sicily. The effect of these plans was not to bridge the gap with the richer North, but rather, to usher in a slow and prolonged repression of the marginalised poor in the South. In his book, as well as in many other accounts, Dolci collected the testimonies of people in Partinico and Borgo di Trappeto near Trapani, western Sicily.1, Palermo: Sellerio Editore, 2009.] Living on the margins of society, they were rural labourers, unemployed fishermen, convicted criminals, prostitutes, widows and orphans – those who, in the aftermath of fascism, found themselves crushed by state violence and corruption, by the exploitation of local notables and landowners, and the growing power of the Mafia.

      Dolci’s activism, which consisted of campaigns and struggles with local communities and popular committees aimed at returning dignity to their villages, often resulted in confrontations with the state apparatus. Modernization, in this context, relied on a carceral approach of criminalisation, policing and imprisonment, as a form of domestication of the underprivileged. On the one hand, the South was urged to become like the North, yet on the other, the region was thrown further into social decay, which only accelerated its isolation from the rest of the country.

      The radical economic and social divide between Italy’s North and South has deep roots in national history and in the colonial/modern paradigm. From 1922, Antonio Gramsci branded this divide as evidence of how fascism exploited the subaltern classes via the Italian northern elites and their capital. Identifying a connection with Italy’s colonisation abroad, Gramsci read the exploitation of poverty and migrant labour in the colonial enterprise as one of ‘the wealthy North extracting maximum economic advantage out of the impoverished South’.2 Since the beginning of the colonisation of Libya in 1911, Italian nationalist movements had been selling the dream of a settler colonial/modern project that would benefit the underprivileged masses of southern rural laborers.

      The South of Italy was already considered an internal colony in need of modernization. This set the premise of what Gramsci called Italy’s ‘Southern question’, with the southern subalterns being excluded from the wider class struggle and pushed to migrate towards the colonies and elsewhere.3 By deprovincialising ‘the Southern question’ and connecting it to the colonial question, Gramsci showed that the struggle against racialised and class-based segregation meant thinking beyond colonially imposed geographies and the divide between North and South, cities and countryside, urban labourers and peasants.

      Gramsci’s gaze from the South can help us to visualise and spatialise the global question of colonial conquest and exploitation, and its legacy of an archipelago of colonies scattered across the North/South divide. Written in the early 1920s but left incomplete, Gramsci’s The Southern Question anticipated the colonizzazione interna (internal colonization) of fascism, motivated by a capital-driven campaign for reclaiming arable land that mainly effected Italy’s rural South. Through a synthesis of monumentalism, technological development and industrial planning, the fascist regime planned designs for urban and non-urban reclamation, in order to inaugurate a new style of living and to celebrate the fascist settler. This programme was launched in continuation of Italy’s settler colonial ventures in Africa.

      Two paths meet under the roof of the same project – that of modernization.

      Architectural colonial modernism

      Architecture has always played a crucial role in representing the rationality of modernity, with all its hierarchies and fascist ramifications. In the Italian context, this meant a polymorphous and dispersed architecture of occupation – new settlements, redrawn agricultural plots and coerced migration – which was arranged and constructed according to modern zoning principles and a belief in the existence of a tabula rasa. As was the case with architectural modernism on a wider scale, this was implemented through segregation and erasure, under the principle that those deemed as non-modern should be modernized or upgraded to reach higher stages of civilisation. The separation in the African colonies of white settler enclaves from Indigenous inhabitants was mirrored in the separation between urban and rural laborers in the Italian South. These were yet another manifestation of the European colonial/modern project, which for centuries has divided the world into different races, classes and nations, constructing its identity in opposition to ‘other’ ways of life, considered ‘traditional’, or worse, ‘backwards’. This relation, as unpacked by decolonial theories and practices, is at the core of the European modernity complex – a construct of differentiations from other cultures, which depends upon colonial hegemony.

      Taking the decolonial question to the shores of Europe today means recognising all those segregations that also continue to be perpetuated across the Northern Hemisphere, and that are the product of the unfinished modern and modernist project. Foregrounding the impact of the decolonial question in Europe calls for us to read it within the wider question of the ‘de-modern’, beyond colonially imposed geographical divides between North and South. We define ‘demodernization’ as a condition that wants to undo the rationality of zoning and compartmentalisation enforced by colonial modern architecture, territorialisation and urbanism. Bearing in mind what we have learned from Dolci and Gramsci, we will explain demodernization through architectural heritage; specifically, from the context of Sicily – the internal ‘civilisational’ front of the Italian fascist project.

      Sicily’s fascist colonial settlements

      In 1940, the Italian fascist regime founded the Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano (ECLS, Entity for the Colonization of the Sicilian Latifondo),4 following the model of the Ente di Colonizzazione della Libia and of colonial urban planning in Eritrea and Ethiopia. The entity was created to reform the latifondo, the predominant agricultural system in southern Italy for centuries. This consisted of large estates and agricultural plots owned by noble, mostly absentee, landlords. Living far from their holdings, these landowners used local middlemen and hired thugs to sublet to local peasants and farmers who needed plots of land for self-sustenance.5 Fascism sought to transform this unproductive, outdated and exploitative system, forcing a wave of modernization. From 1940 to 1943, the Ente built more than 2,000 homesteads and completed eight settlements in Sicily. These replicated the structures and planimetries that were built throughout the 1930s in the earlier bonifica integrale (land reclamation) of the Pontine Marshes near Rome, in Libya and in the Horn of Africa; the same mix of piazzas, schools, churches, villas, leisure centres, monuments, and a Casa del Fascio (fascist party headquarters). In the name of imperial geographical unity, from the ‘centre’ to the ‘periphery’, many of the villages built in Sicily were named after fascist ‘martyrs’, soldiers and settlers who had died in the overseas colonies. For example, Borgo Bonsignore was named after a carabinieri (military officer) who died in the Battle of Gunu Gadu in 1936, and Borgo Fazio and Borgo Giuliano after Italian settlers killed by freedom fighters in occupied Ethiopia.

      The reform of the latifondo also sought to implement a larger strategy of oppression of political dissent in Italy. The construction of homesteads in the Sicilian countryside and the development of the land was accompanied by the state-driven migration of northern labourers, which also served the fascist regime as a form of social surveillance. The fascists wanted to displace and transform thousands of rural laborers from the North – who could otherwise potentially form a stronghold of dissent against the regime – into compliant settlers.6 Simultaneously, and to complete the colonizing circle, many southern agricultural workers were sent to coastal Libya and the Horn of Africa to themselves become new settlers, at the expense of Indigenous populations.

      All the Sicilian settlements were designed following rationalist principles to express the same political and social imperatives. Closed communities like the Pontine settlements were ‘geometrically closed in the urban layout and administratively closed to farmers, workmen, and outside visitors as well’.7 With the vision of turning waged agrarian laborers into small landowners, these borghi were typologically designed as similar to medieval city enclaves, which excluded those from the lower orders.

      These patterns of spatial separation and social exclusion were, unsurprisingly, followed by the racialisation of the Italian southerners. Referring to a bestiary, the propaganda journal Civiltà Fascista (Fascist Civilisation) described the Pontine Marshes as similar to ‘certain zones of Africa and America’, ‘a totally wild region’ whose inhabitants were ‘desperate creatures living as wild animals’.8 Mussolini’s regime explicitly presented this model of modernization, cultivation and drainage to the Italian public as a form of warfare. The promise of arable land and reclaimed marshes shaped an epic narrative which depicted swamps and the ‘unutilised’ countryside as the battlefield where bare nature – and its ‘backward inhabitants’ – was the enemy to be tamed and transformed.

      However, despite the fanfare of the regime, both the projects of settler colonialism in Africa and the plans for social engineering and modernization in the South of Italy were short-lived. As the war ended, Italy ‘lost’ its colonies and the many Ente were gradually reformed or shut down.9 While most of the New Towns in the Pontine region developed into urban centres, most of the fascist villages built in rural Sicily were meanwhile abandoned to a slow decay.

      Although that populationist model of modernization failed, the Sicilian countryside stayed at the centre of the Italian demographic question for decades to come. Since the 1960s, these territories have experienced a completely different kind of migration to that envisaged by the fascist regime. Local youth have fled unemployment in huge numbers, migrating to the North of Italy and abroad. With the end of the Second World War and the colonies’ return to independence, it was an era of reversed postcolonial migration: no longer white European settlers moving southwards/eastwards, but rather a circulatory movement of people flowing in other directions, with those now freed from colonial oppression taking up the possibility to move globally. Since then, a large part of Sicily’s agrarian sector has relied heavily on seasonal migrant labour from the Southern Hemisphere and, more recently, from Eastern Europe. Too often trapped in the exploitative and racist system of the Italian labour market, most migrants working in areas of intensive agriculture – in various Sicilian provinces near the towns of Cassibile, Vittoria, Campobello di Mazara, Caltanissetta and Paternò – have been forced out of cities and public life. They live isolated from the local population, socially segregated in tent cities or rural slums, and without basic services such as access to water and sanitation.

      As such, rural Sicily – as well as vast swathes of southern Italy – remain stigmatised as ‘insalubrious’ spaces, conceived of in the public imagination as ‘other’, ‘dangerous’ and ‘backward’. From the time of the fascist new settlements to the informal rural slums populated by migrants in the present, much of the Sicilian countryside epitomises a very modern trope: that the South is considered to be in dire need of modernization. The rural world is seen to constitute an empty space as the urban centres are unable to deal with the social, economic, political and racial conflicts and inequalities that have been (and continue to be) produced through the North/South divides. This was the case at the time of fascist state-driven internal migration and overseas settler colonial projects. And it still holds true for the treatment of migrants from the ex-colonies, and their attempted resettlement on Italian land today.

      Since 2007, Sicily’s right-wing regional and municipal governments have tried repeatedly to attain public funding for the restoration of the fascist settlements. While this program has been promoted as a nostalgic celebration of the fascist past, in the last decade, some municipalities have also secured EU funding for architectural restoration under the guise of creating ‘hubs’ for unhoused and stranded migrants and refugees. None of these projects have ever materialised, although EU money has financed the restoration of what now look like clean, empty buildings. These plans for renovation and rehousing echo Italy’s deepest populationist anxieties, which are concerned with managing and resettling ‘other’ people considered ‘in excess’. While the ECLS was originally designed to implement agrarian reforms and enable a flow of migration from the north of the country, this time, the Sicilian villages were seen as instrumental to govern unwanted migrants, via forced settlement and (an illusion of) hospitality. This reinforces a typical modern hierarchical relationship between North and South, and with that, exploitative metropolitan presumptions over the rural world.

      The Entity of Decolonization

      To imagine a counter-narrative about Sicily’s, and Italy’s, fascist heritage, we presented an installation for the 2020 Quadriennale d’arte – FUORI, as a Decolonizing Architecture Art Research (DAAR) project. This was held at the Palazzo delle Esposizioni in Rome, the venue of the Prima mostra internazionale d’arte coloniale (First International Exhibition of Colonial Art, 1931), as well as other propaganda exhibitions curated by the fascist regime. The installation aims to critically rethink the rural towns built by the ECLS. It marks the beginning of a longer-term collaborative project, the Ente di Decolonizzazione or Entity of Decolonization, which is conceived as a transformative process in history-telling. The installation builds on a photographic dossier of documentation produced by Luca Capuano, which reactivates a network of built heritage that is at risk of decay, abandonment and being forgotten. With the will to find new perspectives from which to consider and deconstruct the legacies of colonialism and fascism, the installation thinks beyond the perimeters of the fascist-built settlements to the different forms of segregations and division they represent. It moves from these contested spaces towards a process of reconstitution of the social, cultural and intimate fabrics that have been broken by modern splits and bifurcations. The project is about letting certain stories and subjectivities be reborn and reaffirmed, in line with Walter D. Mignolo’s statement that ‘re-existing means using the imaginary of modernity rather than being used by it. Being used by modernity means that coloniality operates upon you, controls you, forms your emotions, your subjectivity, your desires. Delinking entails a shift towards using instead of being used.’10 The Entity of Decolonization is a fluid and permanent process, that seeks perpetual manifestations in architectural heritage, art practice and critical pedagogy. The Entity exists to actively question and contest the modernist structures under which we continue to live.

      In Borgo Rizza, one of the eight villages built by the Ente, we launched the Difficult Heritage Summer School – a space for critical pedagogy and discussions around practices of reappropriation and re-narrativisation of the spaces and symbols of colonialism and fascism.11 Given that the villages were built to symbolise fascist ideology, how far is it possible to subvert their founding principles? How to reuse these villages, built to celebrate fascist martyrs and settlers in the colonial wars in Africa? How to transform them into antidotes to fascism?

      Borgo Rizza was built in 1940 by the architect Pietro Gramignani on a piece of land previously expropriated by the ECLS from the Caficis, a local family of landowners. It exhibits a mixed architectural style of rationalism and neoclassical monumentalism. The settlement is formed out of a perimeter of buildings around a central protected and secured piazza that was also the main access to the village. The main edifices representing temporal power (the fascist party, the ECLS, the military and the school) and spiritual power (the church) surround the centre of the piazza. To display the undisputed authority of the regime, the Casa del Fascio took centre stage. The village is surrounded on all sides by eucalyptus trees planted by the ECLS and the settlers. The planting of eucalyptus, often to the detriment of indigenous trees, was a hallmark of settler colonialism in Libya and the Horn of Africa, dubiously justified because their extensive roots dry out swamps and so were said to reduce risks of malaria.

      With the end of the Second World War, Borgo Rizza, along with all the other Sicilian settlements, went through rapid decay and decline. It first became a military outpost, before being temporarily abandoned in the war’s aftermath. In 1975, the ownership and management of the cluster of buildings comprising the village was officially transferred to the municipality of Carlentini, which has since made several attempts to revive it. In 2006, the edifices of the Ente di Colonizzazione and the post office were rehabilitated with the intent of creating a garden centre amid the lush vegetation. However, the garden centre was never realised, while the buildings and the rest of the settlement remain empty.

      Yet despite the village’s depopulation, over the years the wider community of Carlentini have found an informal way to reuse the settlement’s spaces. The void of the piazza, left empty since the fall of fascism, became a natural spot for socialising. The piazza was originally designed by the ECLS for party gatherings and to convey order and hierarchy to the local population. But many locals remember a time, in the early 1980s, before the advent of air-conditioned malls that offered new leisure spaces to those living in peri-urban and rural areas, when people would gather in the piazza for fresh air amid summer heatwaves. The summer school builds on these memories, to return the piazza to its full public function and reinvent it as a place for both hospitality and critical pedagogy.

      Let’s not forget that the village was first used as a pedagogical tool in the hands of the regime. The school building was built by the ECLS and was the key institution to reflect the principles of neo-idealism promoted by the fascist and neo-Hegelian philosophers Giovanni Gentile and Giuseppe Lombardo Radice. Radice was a pedagogue and theoretician who contributed significantly to the fascist reforms of the Italian school system in the 1930s. Under the influence of Gentile, his pedagogy celebrated the modern principle of a transcendental knowledge that is never individual but rather embodied by society, its culture, the party, the state and the nation. In the fascist ideal, the classroom was designed to be the space where students would strive to transcend themselves through acquired knowledge. A fascist education was meant to make pupils merge with the ‘universal’ embodied by the teacher, de facto the carrier of fascist national values. In relation to the countryside context, the role of pedagogy was to glorify the value of rurality as opposed to the decadence wrought by liberal bourgeois cultures and urban lifestyles. The social order of fascism revolved around this opposition, grounded in the alienation of the subaltern from social and political life, via the splitting of the urban and rural working class, the celebration of masculinity and patriarchy, and the traditionalist nuclear family of settlers.

      Against this historical background, our summer school wants to inspire a spatial, architectural and political divorce from this past. We want to engage with decolonial pedagogies and encourage others to do the same, towards an epistemic reorganisation of the building’s architecture. In this, we share the assertion of Danilo Dolci, given in relation to the example of elementary schools built in the fascist era, of the necessity for a liberation from the physical and mental cages erected by fascism:

      These seemed designed (and to a large extent their principles and legacies are still felt today) to let young individuals get lost from an early age. So that they would lose the sense of their own existence, by feeling the heavy weight of the institution that dominates them. These buildings were specifically made to prevent children from looking out, to make them feel like grains of sand, dispersed in these grey, empty, boundless spaces.12

      This is the mode of demodernization we seek in this project: to come to terms with, confront, and deactivate the tools and symbols of modern fascist colonization and authoritarian ideologies, pedagogy and urbanism. It is an attempt to fix the social fabric that fascism broke, to heal the histories of spatial, social and political isolation in which the village originates. Further, it is an attempt to heal pedagogy itself, from within a space first created as the pedagogical hammer in the hands of the regime’s propagandists.

      This means that when we look at the forms of this rationalist architecture, we do not feel any aesthetic pleasure in or satisfaction with the original version. This suggests the need to imagine forms of public preservation outside of the idea of saving the village via restoration, which would limit the intervention to returning the buildings to their ‘authentic’ rationalist design. Instead, the school wants to introduce the public to alternative modes of heritage-making.

      Architectural demodernization

      In the epoch in which we write and speak from the southern shores of Europe, the entanglement of demodernization with decolonization is not a given, and certainly does not imply an equation. While decolonization originates in – and is only genealogically possible as the outcome of – anti-colonialist struggles and liberation movements from imperial theft and yoke, demodernization does not relate to anti-modernism, which was an expression of reactionary, anti-technological and nationalist sentiment, stirred at the verge of Europe’s liberal collapse in the interwar period. As Dolci explained for the Italian and Sicilian context, there is no shelter to be found in any anachronistic escape to the (unreal and fictional) splendours of the past. Or, following Gramsci’s refusal to believe that the Italian South would find the solutions to its problems through meridionalism, a form of southern identitarian and essentialist regionalism, which further detaches ‘the Southern question’ from possible alliances with the North.

      Demodernization does not mean eschewing electricity and wiring, mortar and beams, or technology and infrastructure, nor the consequent welfare that they provide, channel and distribute. By opposing modernity’s aggressive universalism, demodernization is a means of opening up societal, collective and communal advancement, change and transformation. Precisely as Dolci explains, the question it is not about the negation of progress but about choosing which progress you want.13

      In the context in which we exist and work, imagining the possibility of an architectural demodernization is an attempt to redraw the contours of colonial architectural heritage, and specifically, to raise questions of access, ownership and critical reuse. We want to think of demodernization as a method of epistemic desegregation, which applies to both discourse and praxis: to reorient and liberate historical narratives on fascist architectural heritage from the inherited whiteness and ideas of civilisation instilled by colonial modernity, and to invent forms of architectural reappropriation and reuse. We hold one final aim in mind: that the remaking of (post)colonial geographies of knowledge and relations means turning such fascist designs against themselves.

      https://www.internationaleonline.org/research/decolonising_practices/208_architectural_demodernization_as_critical_pedagogy_pathway

      #Partinico #Borgo_di_Trappeto #Italie_du_Sud #Italie_meridionale #Southern_question #colonizzazione_interna #colonisation_interne #Ente_di_Colonizzazione_de_Latifondo_Siciliano (#ECLS) #Ente_di_Colonizzazione_della_Libia #modernisation #bonifica_integrale #Pontine_Marshes #Borgo_Bonsignore #Borgo_Fazio #Borgo_Giuliano #latifondo #Pietro_Gramignani #Caficis

  • #Alberi_sonori

    Des graines sont plantées dans une terre vibrante,

    les racines se nourrissent lorsque le chant des cigales résonne.

    La voix est profonde, nouvelle et puissante.

    Ces graines ont grandi, ce sont des Arbres maintenant.

    Leurs fruits transmettent de l’énergie

    et leurs branches regardent au-delà de l’horizon.

    C’est l’âme d’une musique vivante.

    https://www.alberisonori.com

    canal youtube :
    https://www.youtube.com/channel/UCVigWLM8IkL5BFkQfFLlifg

    https://www.youtube.com/watch?v=5e_SDCVSwmM

    https://www.youtube.com/watch?v=jjU3nOemBDE

    https://www.youtube.com/watch?v=6cn32Y3ToG0

    #musique #chant #musique #musique_populaire #chants_populaires #Italie #Italie_du_sud #pizzica #tarantella

  • Rapporti di monitoraggio

    Sin dal 2016 il progetto ha pubblicato report di approfondimento giuridico sulle situazioni di violazione riscontrate presso le diverse frontiere oggetto delle attività di monitoraggio. Ciascun report affronta questioni ed aspetti contingenti e particolarmente interessanti al fine di sviluppare azioni di contenzioso strategico.

    Elenco dei rapporti pubblicati in ordine cronologico:

    “Le riammissioni di cittadini stranieri a Ventimiglia (giugno 2015): profili di illegittimità“

    Il report è stato redatto nel giugno del 2015 è costituisce una prima analisi delle principali criticità riscontrabili alla frontiera italo-francese verosimilmente sulla base dell’Accordo bilaterale fra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica francese sulla cooperazione transfrontaliera in materia di polizia e dogana (Accordo di Chambery)
    #Vintimille #Ventimiglia #frontière_sud-alpine #Alpes #Menton #accord_bilatéral #Accord_de_Chambéry #réadmissions

    Ajouté à la #métaliste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...
    https://seenthis.net/messages/736091
    Et plus précisément ici:
    https://seenthis.net/messages/736091#message887941

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    “Le riammissioni di cittadini stranieri alla frontiera di Chiasso: profili di illegittimità”

    Il report è stato redatto nell’estate del 2016 per evidenziare la situazione critica che si era venuta a creare in seguito al massiccio afflusso di cittadini stranieri in Italia attraverso la rotta balcanica scatenata dalla crisi siriana. La frontiera italo-svizzera è stata particolarmente interessata da numerosi tentativi di attraversamento del confine nei pressi di Como e il presente documento fornisce una analisi giuridica delle criticità riscontrate.

    Ajouté à la #métaliste de liens autour d’#accords_de_réadmission entre pays européens...
    https://seenthis.net/messages/736091
    Et plus précisément ici:
    https://seenthis.net/messages/736091#message887940

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    “Lungo la rotta del Brennero”

    Il report, redatto con la collaborazione della associazione Antenne Migranti e il contributo della fondazione Alex Langer nel 2017, analizza le dinamiche della frontiera altoatesina e sviluppa una parte di approfondimento sulle violazioni relative al diritto all’accoglienza per richiedenti asilo e minori, alle violazioni all’accesso alla procedura di asilo e ad una analisi delle modalità di attuazione delle riammissioni alla frontiera.

    #Brenner #Autriche

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    “Attività di monitoraggio ai confini interni italiani – Periodo giugno 2018 – giugno 2019”

    Report analitico che riporta i dati raccolti e le prassi di interesse alle frontiere italo-francesi, italo-svizzere, italo-austriache e italo slovene. Contiene inoltre un approfondimento sui trasferimenti di cittadini di paesi terzi dalle zone di frontiera indicate all’#hotspot di #Taranto e centri di accoglienza del sud Italia.

    #Italie_du_Sud

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    “Report interno sopralluogo Bosnia 27-31 ottobre 2019”

    Report descrittivo a seguito del sopralluogo effettuato da soci coinvolti nel progetto Medea dal 27 al 31 ottobre sulla condizione delle persone in transito in Bosnia. Il rapporto si concentra sulla descrizione delle strutture di accoglienza presenti nel paese, sull’accesso alla procedura di protezione internazionale e sulle strategie di intervento future.

    #Bosnie #Bosnie-Herzégovine

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    “Report attività frontiere interne terrestri, porti adriatici e Bosnia”

    Rapporto di analisi dettagliata sulle progettualità sviluppate nel corso del periodo luglio 2019 – luglio 2020 sulle diverse frontiere coinvolte (in particolare la frontiera italo-francese, italo-slovena, la frontiera adriatica e le frontiere coinvolte nella rotta balcanica). Le novità progettuali più interessanti riguardano proprio l’espansione delle progettualità rivolte ai paesi della rotta balcanica e alla Grecia coinvolta nelle riammissioni dall’Italia. Nel periodo ad oggetto del rapporto il lavoro ha avuto un focus principale legato ad iniziative di monitoraggio, costituzione della rete ed azioni di advocacy.

    #Slovénie #mer_Adriatique #Adriatique

    https://medea.asgi.it/rapporti

    #rapport #monitoring #medea #ASGI
    #asile #migrations #réfugiés #frontières
    #frontières_internes #frontières_intérieures #Balkans #route_des_balkans

    ping @isskein @karine4

  • #Eugenio_Bennato - #questione_meridionale

    Noi, che ci hanno detto che le note sono sette
    Noi, che ci hanno vietato le altre note maledette
    Noi, che arriviamo da formule di streghe,
    Teoremi di Pitagora, principi di Archimede.
    Noi, con quella musica che nasce da una terra
    Che in tutta la sua storia non ha fatto mai la guerra
    Noi con i «fratelli» scesi giù dal settentrione
    Che ci hanno «liberato» per formare una «Nazione».
    Noi sotto lo stesso tricolore, dalle Alpi fino al mare
    Ma se diventiamo una questione?
    La Questione è Meridionale.
    Centocinquanta la gallina canta,
    Làssila cantè ca se vole maritè.
    Centocinquanta la gallina canta,
    Lasciala cantare ca si vuole maritare.
    Noi, con i sentimenti di un esercito allo sbando
    Noi, con i trafficanti di canzoni di contrabbando
    Noi, per raccontare, con la scusa di una festa,
    Le storie e le leggende di una terra di conquista
    Noi, in questa Italia, dove le città son piene
    Di piazze Cavour e corsi Vittorio Emanuele.
    Noi, che conosciamo a memoria la canzone
    «Perché cambiar la storia?» Ma restiamo meridione.
    Noi sotto lo stesso tricolore dalle Alpi fino al mare
    Ma se diventiamo una questione.
    La Questione è Meridionale.
    Centocinquanta la gallina canta,
    Làssila cantè ca se vole maritè.
    Centocinquanta la gallina canta,
    Lasciala cantare ca si vuole maritare.
    Noi, con la bugia di una storia scritta male
    Noi in fondo alla teoria della questione Meridionale
    Noi per ricordare che son 150 anni
    Che il Sud va per il mondo insieme a tutti i suoi emigranti
    Noi con la canzone dei briganti
    Che la storia ha fatto fuori,
    Ma se questa musica va avanti
    è perché i briganti siamo noi.

    https://www.youtube.com/watch?v=X6zkImKJEjs


    #chanson #Italie #Italie_du_Sud #unité_d'Italie #brigands

    ... avec un peu de #toponymie_politique :

    Noi, in questa Italia, dove le città son piene
    Di piazze Cavour e corsi Vittorio Emanuele.

  • La Terra Nuova - Inchiesta di Nicola Adelfi (1952)

    Documentario che illustra i progressi economici nel Mezzogiorno avvenuti nei primi anni del secondo dopoguerra.


    https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL3000052960/1/la-terra-nuova-inchiesta-nicola-adelfi.html?startPage=0&jso{%22jsonVal%22:{%22query%22:[%22emigranti%20clandestini%22],%22fieldDate%22:%22dataNormal%22,%22_perPage%22:20}}

    #archive #histoire #Italie #Italie_du_Sud #modernisation #agriculture #misère #progrès #investissements #routes #infrastructure_routière #puits #machines_agricoles #villages_ruraux #film #vidéo #Gaudiano #bonification #paysage
    On parle de «#marche_vers_le_sud»
    #colonisation

  • Lu menestre Colombe

    Paroles de la chanson :

    E lu menstre Colombe
    ha fatte nu progette
    ha fatte nu progette pe’
    pe’ li disoccupate

    E stetev’attente
    e voi d’la poblazione
    impareteve a legge a scrive pe’
    defendeve da li padrune

    Tutti i disoccupeti da
    mugghieri l’ha separeti
    e glie ha fette nu bullettine a
    confino l’heve mannete

    E stetev’attente...

    Tutti i disoccupeti da
    mugghieri l’ha separeti
    e glie ha fette nu bullettine a
    Germania l’heve mannete

    E stetev’attente...

    Explications de #Terracanto, qui l’interprète dans son nouveau spectacle (conférence chantée sur l’émigration italienne) : « Voix d’Italie, voix migrantes » (https://www.terracanto.org/fr/voix-ditalie-voix-migrantes)

    Paroles de Giuseppe Miriello écrites dans les années Cinquante sur un ancien air de troubadours. Miriello, conteur et militant communiste de la #Basilicate.

    Selon le récit de Giovanna Marini, qui enregistra le chant pendant ses recherches en Basilicate, Giuseppe Miriello aimait à chanter devant l’église de son village pour mettre en garde le peuple contre toutes les malversations politiques et autre formes d’exploitation.
    Il commençait ses chansons par une sorte d’imprécation au Ministre #Colombo, élu de Basilicate qui avait fait carrière et était devenu Ministre du gouvernement de #Démocratie_Chrétienne.
    Pour cette raison, le ministre Colombo était dans l’imaginaire populaire responsable de chaque décision funeste et devint ainsi le bouc-émissaire de Miriello.
    Bien que l’on parle dans la chanson de “Germania”, c’est à dire de l’Allemagne, le chant dénonce l’accord avec la #Belgique, acté par le gouvernement de Démocratie Chrétienne en 1946 même si à l’époque, Colombo n’était pas encore ministre. Pour une personne qui savait à peine lire et écrire, avec une connaissance approximative de la géographie européenne, l’Allemagne représentait tout ce qui se trouvait au nord de l’Italie.

    Alors que dans cet immédiat après-guerre, l’Italie croule sous les dettes, le taux de chômage est très éléve et les matières premières manquent cruellement, la Belgique en revanche possède des sous-sols riches en charbon mais personne pour les exploiter. Les deux États signent donc un accord qui permettra l’envoie hebdomadaire de 2000 #travailleurs_italiens (soit 50.000 en tout) contre des tonnes de #charbon.

    Sur le papier, les #contrats sont alléchants :
    transports gratuits, salaire très digne, logement garanti avec la possibilité future d’un rapprochement familial. On annonce que les travailleurs seront sélectionnés par les bourses du travail, bref tout semble parfait !
    En réalité pourtant, les travailleurs seront triés par les paroisses qui choisissent des hommes dociles, non syndiqués en provenance de l’#Italie_du_Sud, analphabètes pour la plupart : de futurs #mineurs incapables de lire les conditions de leur contrat.
    De fait, le voyage sera une dette que l’ouvrier contracte et qu’il devra rembourser à la sueur de son front, la paye est misérable pour un travail harrassant, les ouvriers s’entassent dans des taudis et personne jamais ne pourra faire venir sa famille. Et la clause la plus honteuse, celles qui les rend littéralement esclaves : il n’est pas possible de laisser le travail avant la première année sous peine de prison.
    C’est dans ces conditions d’absence totale de droits (et donc de garanties) que mûrissent les conditions d’une des plus graves tragédies minières : la catastrophe de #Marcinelle le 8 août 1956 pendant laquelle 262 personnes perdront la vie, dont 136 immigrants italiens. Sur la peau de ces esclaves oubliés se fonde la grande reconstruction des pays européens.
    C’est une véritable #déportation que Miriello dénonce sur un air simple avec des paroles ultra efficaces. Il synthétise le ressenti collectif par l’efficacité propre à la poésie populaire. Le refrain qu’il répète sans cesse sonne comme un puissant et nécessaire #avertissement : “apprenez à lire et à écrire, gens du peuple, pour vous défendre des patrons !”

    https://www.terracanto.org/fr/chants/lu-menestre-colombe

    –---

    Interprétation de #Giovanna_Marini :
    https://www.youtube.com/watch?v=AWB7tCXDAVI

    #chanson #musique #chants_populaires #Italie #musique_et_politique #émigration #éducation #migrations #analphabétisme #illettrisme #mines #extractivisme #histoire #esclavage

    ping @sinehebdo

  • Coronavirus, i medici del Sud invadono stazioni e aeroporti della Lombardia: è l’esodo della solidarietà

    Zaino in spalla, trolley in mano. E mascherine a coprire bocca e naso. Le stazioni dei treni della Lombardia e gli aeroporti, giovedì sera (26 marzo), brulicavano di persone. E non perché fosse in corso l’ennesima grande fuga da una regione piegata e stremata dal Coronavirus. Quelle persone che l’altra sera sera hanno calpestato il suolo lombardo sono medici, infermieri, operatori socio sanitari che arrivano dal Sud. Sono persone che hanno risposto alla ‘chiamata alle armi’, alle disperate richieste di aiuto e di rinforzo lanciate dai medici del Nord e dal Governo. Un esodo all’incontrario. Un esodo della solidarietà, che il ministro per gli Affari regionali e Autonomie Francesco Boccia ha voluto esaltare con un post su Facebook.

    I primi 21 medici volontari sono arrivati a Bergamo, la provincia più martoriata della Lombardia. Dove i morti si fa fatica a contarli. Dove a volte le persone spirano nelle proprie case perché non s’è fatto in tempo a fare neanche il tampone. Dove i camion dell’Esercito sfilano di notte per la città trasferendo in altri comuni i corpi di chi non ce l’ha fatta affinché essi vengano cremati. Questi medici volontari che si stringono al dolore della Lombardia arrivano quasi tutti dal Sud, arrivano da regioni e da città dove i casi di contagio sono ancora contenuti, rispetto agli impressionanti e drammatici numeri della Lombardia.

    «I primi medici arrivati in Lombardia provengono da Roma, Latina, Bari, Firenze, Cosenza, Potenza, Napoli, Vasto, Messina, Udine, Caserta e Perugia», ha scritto il ministro Francesco Boccia. Proprio lui ha accolto alcuni di questi medici in aeroporto: con lui il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, il Vice Presidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala, Maurizio Martina ed Elena Carnevali.

    Sette dei primi 21 medici volontari sono dislocati a Piacenza, dove il Coronavirus sta piegando la città. Come accaduto a Bergamo. «I medici in parallelo saranno affiancati dai 500 infermieri che stiamo arruolando proprio in queste ore con lo stesso metodo come task force protezione civile nazionale», ha spiegato Boccia.
    L’esodo della solidarietà proseguirà anche nei prossimi giorni. Sono già arrivate 3500 domande da parte degli infermieri. E, come sottolinea il ministro, stanno arrivando in «particolare dal centro-sud».

    E’ l’Italia che si unisce e si abbraccia in un momento di dolore che non può lasciare indifferenti. E’ l’Italia che, forse, riuscirà a gettare un ponte in grado di azzerare i pregiudizi, che talvolta si declinano in razzismo, che parte del Nord ha sempre nutrito nei confronti del Sud.

    https://www.giustizianews24.it/2020/03/28/coronavirus-i-medici-del-sud-invadono-stazioni-e-aeroporti-della-lom
    #médecins #solidarité #Italie_du_Sud #Italie_du_Nord #Italie

    ping @albertocampiphoto @wizo

  • #TAMMURRIATA - #Bella_Figliola

    La Tammurriata «Bella figliola» (in questo video eseguita dalla Paranza dell’Agro), così come tutte le altre, è una forma di espressione orale che varia da paese a paese e (contrariamente a quanto pensano in tanti) assolutamente non improvvisata nel testo tranne che per la scelta della sequenza delle strofe.

    Qui riporto le due strofe di «Bella Figliola», forse una delle Tammurriate più note:

    Bella figliola comme ve chiammate
    ca bella annanze a mme v’appresentate
    Vuie tenite ‘nu bello surriso
    ‘ca te fa ‘nnammura’ senza n’avviso
    Vuie tenite ‘nu bello surriso
    ‘ca te fa ‘nnammura’ senza n’avviso

    Bella figliola ca te chiamme Rosa
    che bellu nomme mammeta t’ha miso,
    t’ha miso lu nomme de li rose,
    lu meglio sciore ca sta ’mparaviso....

    https://www.youtube.com/watch?v=X3_a52gS5s8


    #pizzica #musique #chants_populaires #chansons_populaires #Italie #Italie_du_Sud

  • Quando tornai al mio paese del Sud

    Quando tornai al mio paese nel Sud,
    dove ogni cosa, ogni attimo del passato
    somiglia a quei terribili polsi di morti
    che ogni volta rispuntano dalle zolle
    e stancano le pale eternamente implacati,
    compresi allora perché ti dovevo perdere:
    qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
    e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

    Quando tornai al mio paese del Sud,
    io mi sentivo morire.

    In: Tutte le poesie (Controluce, 2015)

    https://internopoesia.com/tag/quando-tornai-al-mio-paese-del-sud

    #retour #poésie #migrations #Italie #Italie_du_Sud #Sud #retour_au_pays

    ping @wizo @albertocampiphoto

  • From (urban) commons to commoning: political practices and horizons in the Mediterranean context

    Dai Commons al Commoning (urbano): Pratiche e Orizzonti Politici Nel Contesto Mediterraneo. Introduzione al numero speciale
    Cesare Di Feliciantonio, Silvia Aru
    258-268

    Lottare Per La Casa Nel Quartiere Che Cambia Volto. Il Potenziale Politico Dei Commons Urbani
    Nico Bazzoli
    269-291
    #quartiers #communs_urbains

    Cultura bene comune? Strategie di resistenza e riappropriazione dal basso in una città mediterranea
    Luca Ruggiero, Teresa Graziano
    292-324
    #culture #Méditerranée

    Undoing Commons. Diritto Alla Città, Attivismo Culturale e Pratiche di (Un-)Commoning nel Sud d’Italia
    Chiara Giubilaro
    325-347
    #droit_à_la_ville #Italie #Italie_du_Sud

    Spazi comuni nell’Atene della crisi: il commoning urbano come processo creativo
    Marco Volpini, Emanuele Frixa
    348-375
    #Athènes #création #créativité

    The Newcomers’ Right to the Common Space: The case of Athens during the refugee crisis
    Charalampos Tsavdaroglou
    376-401
    #réfugiés #migrations #asile

    Da vuoto urbano a verde pubblico: un caso di commoning a #Partinico (Palermo)
    Giulia de Spuches, Marco Picone, Noemi Granà
    402-426
    #Palerme #Sicile

    “Essere Nel Giusto”: Orizzonti Di Lotta E Pratiche Di Commoning In Due Esperienze Di Occupazione A Cagliari
    Silvia Aru
    427-453
    #Cagliari #Sardaigne

    L’amore alla guida degli spazi di messa in comune?
    Cesare Di Feliciantonio
    454-479

    Estrattivismo contro il comune. Venezia e l’economia turistica
    Giacomo-Maria Salerno
    480-505
    #extractivisme #Venise #tourisme

    Tessere il Comune. Autogestione del lavoro e pratiche socio-spaziali nelle economie popolari urbane a #Buenos_Aires
    Alioscia Castronovo

    #autogestion #économie_populaire


    https://www.acme-journal.org/index.php/acme/issue/view/109
    #commons #les_communs #communs #urban_matter #villes #géographie_urbaine #revue

  • Migranti, 2016: hanno cercato fortuna all’estero 285mila italiani. Più degli stranieri sbarcati sulla Penisola

    Le anticipazioni del Dossier 2017 del centro studi Idos. Se ne sono andati diplomati, laureati e dottori di ricerca nel cui percorso di studi lo Stato aveva investito quasi 9 miliardi, e la stima è per difetto. Due su tre non ritornano. Il danno è in parte compensato dai flussi d’ingresso degli immigrati: sono sempre di più quelli con alti livelli di istruzione.

    https://dirittiumani1.blogspot.ch/2017/07/migranti-2016-hanno-cercato-fortuna.html
    #Italie #solde_migratoire #migrations #émigration #immigration #statistiques #chiffres #2016

    • Lavoro, dal 2008 al 2015 mezzo milione di italiani fuggiti all’estero. E ora se ne vanno anche gli immigrati dell’Est Europa

      Partono soprattutto i giovani laureati, ma anche stranieri che non trovano più economicamente attraente il nostro Paese. Lo conferma il rapporto «Il lavoro dove c’è» dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro

      http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/21/lavoro-dal-2008-al-2015-mezzo-milione-di-italiani-fuggiti-allestero-e-ora-se-ne-vanno-anche-gli-immigrati-dellest-europa/3676861
      #2015

    • Se ne vanno giovani e laureati: la nostra vita di genitori nell’Italia dei figli lontani

      Nel 2015 sono partiti più di 100 mila, la metà hanno meno di 40 anni. Un terzo sono laureati. Ammaniti: il senso di colpa dei genitori.


      http://www.corriere.it/scuola/studiare-e-lavorare-all-estero/notizie/se-ne-vanno-giovani-laureati-nostra-vita-genitori-nell-italia-figli-lontani

    • Petit commentaire sur le #vocabulaire #terminologie...

      Pour les jeunes Tunisiens qui font la même chose que les jeunes Italiens, on parle de #émigration_clandestine :
      En Tunisie, le mal-être des jeunes se traduit par un pic d’émigration clandestine

      Hafedh a « vu la mort en face » en tentant d’émigrer clandestinement vers l’Europe, mais ce Tunisien de 26 ans n’a toujours qu’une idée en tête : reprendre la mer. En septembre, les départs ont connu un pic, reflétant un mal-être persistant chez les jeunes.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/en-tunisie-le-mal-etre-des-jeunes-se-traduit-par-un-pic-demig
      #mots

    • Fuga dall’Italia, è emorragia di talenti: nel 2016 via 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni

      Secondo il rapporto della fondazione Migrantes sono 5 milioni i connazionali residenti all’estero, +3,3% in un anno. Aumentano le partenze ’di famiglia’ e quelle degli under 35. Tra le mete più ricercate il Regno Unito e gli Emirati Arabi

      http://www.repubblica.it/cronaca/2017/10/17/news/emigrati_italiani_nel_mondo_rapporto_migrantes_record_fuga_all_estero-178
      #2016

    • L’Europa dei nuovi emigranti. In 18 milioni cambiano Stato

      Nicola Gatta ha iniziato il 2018 come aveva finito il 2017: mantenendo lo stipendio a zero per se stesso e tutti i suoi assessori. I risparmi servono per far salire il numero dei residenti del suo Comune dai 2.802 attuali, o almeno a evitare nuovi cali. Il sindaco offre duemila euro l’anno — sconti su tassa per i rifiuti, mensa scolastica o asilo nido dei figli — a qualunque famiglia europea decida di stabilirsi a Candela. La condizione è di non provenire da villaggi piccoli come Candela stessa: Gatta non vorrebbe mai spopolarli come è accaduto al suo Comune quando, in questi anni, centinaia di giovani se ne sono andati in Italia del Nord, Germania o Regno Unito.

      in Europa milioni di persone si stanno spostando sempre di più dai territori poveri di reddito e di opportunità — svuotandoli — verso le aree a densità sempre più alta di lavoro, conoscenze e reti sociali.

      In Europa invece la Grande recessione ha innescato una trasformazione del costume che prosegue con la ripresa: secondo Eurostat, nel 2016 vivevano in un altro Stato dell’Unione almeno 18 milioni di europei, il 12,5% più di due anni prima.

      Nel 2015 (ultimo anno registrato da Eurostat) si sono trasferite da un Paese europeo a un altro 1,46 milioni di persone, il 13% più di due anni prima. Gli espatriati europei, oltre il 3% della popolazione, sono la quarta o quinta nazione dell’area euro e a questi ritmi raddoppieranno in dieci anni.

      http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2018/01/02/11/leuropa-dei-nuovi-emigranti-in-18-milioni-cambiano-stato_U43420152120325xhH

      #démographie #Italie #europe #dépopulation #migrations #politique_migratoire #attractivité #migrations_en_europe #inégalités #centre #périphérie #géographie_du_vide #géographie_du_plein #exode_rural #émigration #Italie #Bulgarie #Grèce #Roumanie #statistiques #chiffres #Allemagne

    • Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra

      Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una di queste situazioni: oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti erano nell’immediato dopoguerra. In numero, oltre 250.000 l’anno. Corsi e ricorsi della storia, appunto.

      Prima il calo poi la crisi del 2008 e l’inversione di tendenza
      L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

      Oltre 114mila persone sono andate all’estero nel 2015
      Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

      La fuga dei cervelli
      A emigrare - sottolinea il report - sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati.

      Germania e Regno Unito le mete preferite
      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      L’investimento (perso) da parte dello Stato
      Ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

      I flussi effettivi sono ancora più elevati
      A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato da questo dossier è un’uteriore considerazione: i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via).

      Il centro studi: i dati Istat vanno aumentati di 2,5 volte
      Il centro studi spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, si legge ancora nel dossier statistico, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000).

      L’Ocse: Italia ottava in classifica
      Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Viet Nam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a 171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

      http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-09405

    • Il Sud Italia si sta svuotando. Questa è la migrazione che dovrebbe terrorizzarti.

      È piuttosto evidente che il pallino di questa era all’insegna del “cambiamento” siano gli immigrati e tutto ciò che li concerne. La gente è stanca, bisogna fermare l’invasione, c’è un complotto per sterminare la razza europea attraverso sbarchi di africani fannulloni, ladri e stupratori. Si arriva al punto di usare 177 persone come materiale di scambio per gare tra poteri forti e di arrestare a scopi di propaganda gli unici fautori di modelli virtuosi per un’idea di accoglienza e integrazione che non si basi né sullo sfruttamento né su una qualche forma di reclusione temporanea. In tutto ciò, sembra che le conversazioni da bar su quanto questi neri ci stiano rubando lavoro e identità – quelle stesse chiacchiere che portano il partito di Salvini al 33,5% – raramente tengano conto di un dato sull’emigrazione che invece sì, sta incidendo negativamente sul futuro dell’Italia. E non è l’emigrazione dal Continente nero su barconi carichi di delinquenti, ma quella fatta da ragazzi e ragazze con un regolarissimo biglietto Ryanair e una chat di gruppo su Whatsapp con i nuovi coinquilini.

      Il Sud dell’Italia si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione di un’intera area del nostro Paese. Nei 7 anni della crisi, dal 2008 al 2015, il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati, con le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. E se l’idea di trovarsi in un inferno terrestre dove gli africani ci sostituiscono definitivamente con le loro barbarie viene visto come un pericolo in atto, non vedo come questa previsione non possa suscitare altrettanto sgomento, considerando anche che il piano Kalergi è un’invenzione, mentre lo spopolamento del Mezzogiorno, purtroppo, no.

      Che una migrazione interna all’Italia sia sempre esistita lo sappiamo tutti: trovare qualcuno al Sud che abbia almeno un parente che negli anni ’60 è andato a lavorare alla Fiat è piuttosto semplice, così come al Nord abbondano i cognomi meridionali e le estati “dai parenti di giù”. Ma allora era un fenomeno diverso, si trattava quasi sempre di poveri che cercavano lavoro nelle zone industrializzate d’Italia, e molto spesso anche all’estero. Capita ancora oggi di incontrare in spiagge del Sud intere famiglie dall’aspetto decisamente poco nord-europeo che alternano dialetto stretto a tedesco, francese o addirittura fiammingo, creando un cortocircuito sorprendente. Ma la questione dell’immigrazione al Nord oggi è diversa, perché non coinvolge più operai e contadini ma neo-diplomati in procinto di cominciare l’università o comunque giovani specializzati. È un campione sociale diverso da quello di sessant’anni fa e il rischio che ne consegue è inquietante: mentre prima anche chi rimaneva al Sud continuava comunque a fare figli, oggi il tasso di natalità è molto più basso. In pratica, c’è molta più gente che muore di quanta decida di mettere al mondo nuovi esseri umani. I giovani piuttosto che rimanere a studiare a casa propria preferiscono andare in una città dove il livello universitario è ritenuto più alto e soprattutto dove una volta laureati avranno un’effettiva prospettiva di lavoro, o quantomeno la speranza di una prospettiva, compresa quella di mettere su una famiglia. Nel frattempo, nelle regioni da cui se ne sono andati non c’è un ricambio generazionale sufficiente a garantire che questo fenomeno non implichi una vera e propria desertificazione. Le cavallette magari non arriveranno, ma i paesi fantasma sì.

      La questione non è tanto quella di biasimare la scelta di chi decide di andare a studiare in un’altra città, come a dire che si sta abbandonando la nave. Anzi, è un fenomeno comprensibile: a diciotto o diciannove anni volersi misurare con un posto diverso da casa propria, in un ateneo che offre qualcosa che altrove non c’è è una scelta che non ha nessun motivo per essere disapprovata. Avendo i mezzi familiari che lo consentono e l’entusiasmo della matricola che fa andare oltre alla perenne pila di piatti sporchi nel lavello della nuova casa in affitto, ben venga. Non è nemmeno un problema legato al fatto che si possano preferire delle città e dei modi di vivere diversi da quelli da cui si proviene, o che il paese sperduto tra le montagne dell’Appennino calabro stia stretto. Anche chi decide di rimanere in molti casi può farlo perché dispone di mezzi economici che glielo consentono, mascherando con un velo di sacrificio per la propria terra quello che in realtà è una semplice condizione di privilegio. Se vieni da una famiglia di avvocati ed erediti lo studio dei tuoi genitori, non è che tu stia compiendo chissà quale missione da martire nel restare, ed è normale che se hai già tutto pronto e apparecchiato per il futuro puoi goderti proprio quei vantaggi che ti offre il Meridione, tra sole, mare, costi della vita bassi e grandi abbuffate.

      Piuttosto, la questione riguarda l’idea di partenza che accompagna chi lascia il Meridione per cui è impossibile tornarvi, perché tanto chi lo trova il lavoro in una parte d’Italia in cui la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, in cui già si fa fatica. A perderci, come sempre, sono quei giovani che non hanno abbastanza mezzi in partenza da poter decidere dove stare, che lavoro fare. Ci si trova così davanti a un bivio per cui alla prospettiva di un non-futuro si accetta di vivere lontani dalla propria famiglia, dai propri amici storici che si sparpagliano tra le regioni più promettenti, accontentandosi di quegli incontri programmati per tutti nello stesso momento, e che si concludono sempre con il solito genere di domanda, “E a Pasqua scendi?”. Sì, è vero che c’è chi va via da casa propria anche per scappare da situazioni opprimenti, e trova nella città che lo accoglie una stabilità soddisfacente, una nuova vita molto più adatta alle proprie esigenze, ma – incredibile a dirsi – c’è anche chi vorrebbe fare il lavoro che ha sempre sognato nel posto dove è nato.

      Non si tratta dunque di qualche becero revanscismo neo-borbonico per cui “Viva il Sud, il mare e il sole”, ma semplicemente della realtà di un divario che dagli anni di Franchetti e Sonnino non è ancora stato colmato, un dislivello che priva chi nasce in queste regioni di un banale spazio di manovra esistenziale che dovrebbe essere consentito a chiunque. Che le colpe ricadano su diversi fattori, specialmente quelli interni al Meridione, è noto: sin dall’Ottocento le sue classi dirigenti hanno usato la scusa stessa dell’arretratezza per legittimare un immobilismo sociale, civile ed economico che si è nutrito di voto clientelare e criminalità organizzata. Ma che le conseguenze di questo dislivello si abbattano in particolare sui giovani è invece drammatico.

      Le statistiche Eurostat del 2017 danno un’idea più palpabile di questa situazione: la Calabria ha un tasso di disoccupazione giovanile del 55,6%, la Campania del 54,7%, la Sicilia – in calo rispetto all’anno precedente – del 52,9%. Per capirci meglio, il Nord Est ha un tasso del 20,6%. E così si alimenta quel circolo vizioso per cui meno si lavora, più università si trovano costrette a ridimensionare i costi, più giovani scappano via. I poli decentrati in Sicilia, ad esempio, se in un primo momento sembravano poter dare nuova vita a zone più esposte alla decrescita, adesso cominciano a chiudere per mancanza di fondi e costi troppi elevati, come il caso di Beni culturali e archeologia ad Agrigento, distaccamento dell’Università di Palermo. Quale posto migliore per studiare questo genere di materia se non in uno dei siti archeologici più importanti d’Europa. E invece, niente da fare.

      Tra le altre cose, c’è anche un altro paradosso che si verifica: come rileva un articolo di Limes, anche quando si parla di città in cui le cose funzionano discretamente bene, non si verifica nessun tipo di affluenza da altre zone d’Italia. È una spiegazione concreta alla frustrante sensazione con cui ho sempre avuto a che fare da quando vivo lontano dalla mia città d’origine. Sono nata e cresciuta a Catania, un centro mediamente grande dove nonostante tutti i suoi molteplici difetti si può stare anche molto bene, si può frequentare l’università, si possono prendere ogni giorno voli per qualsiasi aeroporto del mondo. Non è New York, ma non è nemmeno quel buco nero di degrado e tristezza che si è soliti immaginare quando si pensa alle città del Sud: in termini di vivibilità ha diversi vantaggi, dal clima alla varietà sia del patrimonio artistico che naturale, è una di quelle città che si definiscono “a misura d’uomo”, ha una sua economia. Quando sono andata via, l’ho fatto perché volevo misurarmi con qualcosa di diverso della mia cameretta con i poster dell’adolescenza ancora attaccati al muro, ma avrei potuto tranquillamente studiare anche a due passi da casa mia. Eppure, le uniche persone nate da Roma in su che si sono trasferite in questa città che ho conosciuto negli anni sono stranieri rimasti folgorati da qualche visione in stile Italienische Reise. Ma nonostante le eccezioni, è lecito chiedersi perché mai un giovane che ha la possibilità di vivere altrove dovrebbe scegliere di trasferirsi in quella metà di penisola in cui i treni ad alta velocità si trasformano in carri bestiame di fine Ottocento.

      In realtà, i motivi per cui varrebbe la pena tornare o trasferirsi possono esistere: personalmente, ad esempio, penso che grazie a internet e alla possibilità di un tipo di approccio al lavoro diverso che ci consente di intraprendere, l’idea di potersi creare un futuro in posti che non sono famosi per la loro sovrabbondanza di possibilità si fa in certi casi un po’ più concreta. Certo, non penso che il futuro di tutti quei minuscoli centri che si trovano tra una città e un’altra sia dei più rosei, come non credo che sia né saggio né realistico credere di poter arginare un fenomeno inarrestabile come l’afflusso nelle metropoli. Allo stesso tempo però, al di là delle infinite promesse di rinascita del Sud – non ultime quelle della fantasiosa Ministra del Sud Barbara Lezzi – e delle oggettive responsabilità dei suoi abitanti presenti ma soprattutto passati, ci sono dei vuoti professionali che potrebbero essere riempiti proprio da chi è andato a formarsi in zone economicamente più progredite. Ci sarebbero delle risorse gestibili in modo diverso da come è successo finora – come il turismo o l’agricoltura – che magari potrebbero dare spazio proprio a una parte di quei giovani che sono scappati via da una steppa desolata e arida. È una scelta audace, non lo nego, ma potrebbe essere l’unico modo sano per attivare un circolo virtuoso di progresso e crescita. Non so dire se esistano soluzioni davvero efficaci per fare sì che quella distanza atavica tra Nord e Sud si accorci fino a sparire, o se si tratti di un’anatema insanabile che porterà davvero allo svuotamento totale di una porzione enorme d’Italia, ma mi sento in diritto di affermare che il fatto che ancora oggi si vada via da un posto per necessità e non per scelta è inaccettabile, di qualsiasi “Meridione” del mondo si parli.

      Non tutti dunque hanno la fortuna di poter tornare da dove vengono e provare a investire per il proprio futuro, c’è chi una volta andato via non ha altra scelta se non quella di accettare questo compromesso. Quando però mi trovo a parlare con i miei coetanei che sono andati fuori per necessità, molto spesso sento la solita frase: “Io ci tornerei pure giù, ma poi cosa faccio?”. E me lo chiedo spesso pure io quando fantastico su un possibile futuro nella città dove sono nata e che mi piace, “Ma poi cosa faccio?”. Da qualche parte però si deve pur cominciare, e come prima cosa direi che sarebbe il caso di smetterla di lamentarci per chi cerca di migliorare la propria vita andando via dal suo Paese e renderci conto che succede pure a noi, con una forma e delle cause diverse, ma con una sostanza pressoché identica. Lasciare casa propria deve essere una scelta, non un’imposizione, da qualsiasi angolo del mondo si provenga. Quando sulla terra non ci sarà più acqua allora magari avrà senso spostarci tutti sulla luna, ma fino a quando l’acqua c’è e non la si vuole trovare per negligenza allora non c’è nessun motivo di andarsene. Io non credo che il Sud Italia sia ancora completamente a secco, anche se da molti anni ormai abbiamo lasciato i rubinetti aperti.


      https://thevision.com/attualita/sud-migrazione
      #Italie_du_sud

    • 28mila laureati se ne vanno ogni anno. E no, non è retorica: è la prima emergenza dell’Italia

      Sembra un problema da poco, è un disastro. Perché se i cervelli se ne vanno, non ne arrivano. E se non c’è un sistema a misura del talento, nessuno ha più incentivi a diventarlo. E se studiare non serve, non ha senso spendere in istruzione. Rimane solo una domanda: come si torna a crescere?

      Potremmo chiamarla la grande evasione: 28mila laureati hanno lasciato l’Italia nel 2017, il 4% in più rispetto al 2016. Lo dice l’Istat, nel suo report sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, presentato ieri, 14 dicembre 2018. Eccovela, l’Italia dei cervelli in fuga, o dei suoi migranti economici, se preferite. E no, non è solo una retorica antipatica e snob. Al contrario, è il problema dei problemi del nostro Paese, il sintomo primo della nostra crisi senza sbocchi né vie d’uscita, la tessera del domino che cadendo, le fa crollare tutte.

      Lo è, banalmente, perché più cervelli se ne vanno, meno ne arrivano. Lo dice la logica, prima della sociologia: ognuno sta bene in mezzo ai suoi simili, e difficilmente un talento si sentirà attratto da un Paese che fa scappare le sue intelligenze. E infatti in Italia ci sono solo 500mila laureati stranieri, il 7% sul totale, contro il 10% della Francia, l’11% della Germania, il 17% del Regno Unito, tutti Paesi che hanno molti più laureati di noi.

      Lo è, di conseguenza, perché più laureati se ne vanno, meno gente decide di laurearsi. Anche in questo caso, tutto è perfettamente logico: se il mercato del lavoro italiano non assorbe i laureati e se I lavoratori sovraistruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20%, uno ogni cinque, che senso ha laurearsi? Domanda perfettamente legittima. La cui risposta sta nelle 65mila immatricolazioni in meno tra il 2000 e il 2015 e nel dato che ci vede all’ultimo posto come numero di laureati tra i 30 e 34 anni: 23,9% rispetto alla media Ue del 38%.

      Se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere?

      Lo è, al pari, perché meno immatricolazion e meno laureati non risolvono il problema del mancato incrocio tra domanda e offerta di lavoro, semmai lo aggravano. Viva le eccezioni, ma se l’Italia è il Paese della produttività al palo, forse una parte del problema sta anche nel fatto che solo il 25% dei suoi manager d’impresa ha la laurea in tasca, contro una media europea del 54%. E pure nel fatto che nel nostro Paese i ricercatori sono due volte meno che in Francia e Regno Unito, tre volte meno rispetto alla Germania, nove volte meno rispetto al Giappone, tredici volte meno degli Stati Uniti d’America. Date laureati alle imprese, magari dategli pure il timone, e innoveranno le loro strategie, cambieranno strada, riconosceranno il talento e attrarranno i loro simili. Cacciateli fuori, e continuerete per la vostra strada mentre tutto attorno cambia, semplicemente perché non avete gli strumenti per intraprendere la strada nuova.

      Lo è, infine, perché tutto questo è uno spreco enorme di risorse. Perché il nostro petrolio si chiama capitale umano e siamo come una potenza petrolifera che regala il proprio oro nero anziché sfruttarlo per arricchirsi. C’è chi ha fatto i conti ed è arrivato a dire che l’Italia, facendo scappare i suoi cervelli, ha perso sinora 42,8 miliardi di investimenti privati - leggi: famigliari - in capitale umano. Cui si aggiungono circa 15 miliardi ogni anno di investimenti pubblici regalati ai Paesi in cui i nostri giovani cervelli vanno a lavorare. Roba da far venir voglia di smettere di investire nell’istruzione. E infatti, il governo del cambiamento, in legge di bilancio, ha messo sul piatto 7 miliardi per i pensionati, 9 miliardi per i sussidi di disoccupazione e niente per l’istruzione.

      Tutto torna. Peraltro, se il numero dei laureati continua a diminuire, e quei pochi scappano, nessuno ne chiederà mai conto, né in piazza, né nel segreto dell’urna. Rimane un solo dubbio: se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere? Quando avete finito gli alibi, con calma, provate a rispondere.

      https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/15/cervelli-in-fuga-28mila-laureati-via-dall-italia-dati-istat/40449
      #2017

    • Talenti in fuga: come riportarli a casa?

      Nel nostro Paese, resta acceso il dibattito intorno alla migrazione giovanile e puntato il dito contro un mercato del lavoro incapace di rispondere alla domanda di occupazione.

      Ben venga questo dibattito. Ma attenzione ad un dato: le lancette del tempo non sono ritornate al 1876, quando ha avuto avvio quella che la storia ha conosciuto come la più massiccia emigrazione di italiani, conclusasi nel 1976 con 26 milioni di espatri.

      Ed infatti, se nel passato il nostro Paese ha esportato giovane manovalanza, oggi esporta in gran parte giovani cervelli.

      Secondo il rapporto Istat nel 2018, i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016, ammontano a circa 54 mila unità e nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30 per cento è in possesso di un titolo universitario o post-universitario.

      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      Si tratta in larga misura di manager, ricercatori, imprenditori. Secondo i dati della Commissione europea, dal 2005 al 2015, hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare nel Regno Unito 1.632 architetti.

      Cosa significa tutto questo? Le risposte sono due.

      La prima che il nostro Paese è popolato da giovani altamente talentuosi, in grado di diventare – malgrado gli ostacoli del caso – brillanti professionisti. La seconda che il nostro mercato del lavoro non è in grado di offrire a tutti i “cervelli” occupazioni in linea con le competenze acquisite.

      Un dramma per alcuni versi, un’andatura fisiologica per altri. Un mercato del lavoro infatti, per funzionare, ha bisogno di “cervelli” ma anche di risorse dotate di professionalità tecniche. Come artigiani, tecnici, piu in generale esperti nei mestieri, e cosi via dicendo.

      A conforto di questa tesi militano almeno tre dati. In primo luogo, in Italia, secondo il sistema Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, si registrano quasi 100.000 offerte di lavoro che non trovano candidati e di cui una buona parte riguarda falegnami, panettieri, installatori di infissi, sarti, cuochi, operai metalmeccanici ed elettromeccanici, tecnici informatici e progettisti. In secondo luogo, che – come noto – molte di queste professioni sono occupate dai cittadini stranieri: nel 2016, hanno acquisito la cittadinanza italiana circa 201 mila persone. In terzo luogo, – e si tratta della prova “a contrario” – la Germania registra una bassa disoccupazione dei giovani che, quindi, difficilmente emigrano, perchè, grazie al grosso investimento nella formazione tecnica (Fachoberschule: istituto tecnico, Fachhochschule: tecnico superiore, Berufsfachschule: istituto professionale a tempo pieno), ha una geografia dei lavori ben distribuita tra professioni intellettuali e professioni tecniche.

      Ed allora, bisogna chiedersi: quale possibile soluzione per agevolare l’occupazione di chi ambisce a professioni intellettuali in un mercato del lavoro saturo rispetto ad esse? La risposta potrebbe essere: cavalcare il potere della rivoluzione tecnologica.

      Grazie alla possibilità di lavorare ininterrottamente connessi da remoto al luogo di lavoro per mezzo di sofisticati device, infatti, molte professioni intellettuali potranno essere svolte da un luogo qualsiasi, e dunque anche dal proprio Paese, senza necessità di emigrare verso quello estero che le offre.

      Si immaginino le potenzialità dello smart working che oggi consente di connettersi a distanza con il proprio posto di lavoro. Possono farlo un manager ma anche un imprenditore, ad esempio.

      Oppure, si immaginino le potenzialità del crowd work, il lavoro su piattaforma emblema della gig economy che consente ad un committente da una determinata parte del mondo di commissionare un lavoro, anche di natura intellettuale, ad un lavoratore/professionista dalla parte del mondo opposta. Ad esempio, in alcuni casi, non è difficile commissionare attraverso la piattaforma progetti di studio architettonico o di ricerca.

      Una vera e propria disintermediazione dei territori, dunque, che travalica i confini del mercato del lavoro nazionale, ne disegna uno globale e, di conseguenza, impone la costruzione di un diritto del lavoro di nuova matrice, posto che quello attuale è il riflesso di categorie come il luogo di lavoro, in via di estinzione.

      L’Organizzazione internazionale del lavoro, ad esempio, invita alla creazione di statuti di basilari garanzie in favore dei lavoratori, siano essi subordinati, autonomi, occasionali, su un posto o su un altro posto di lavoro, nel segno di quello che ha definito il decent work.

      In conclusione, deve riempirci di orgoglio essere diventato un Paese patria di molti talenti e ciò deve interrogarci su come creare le migliori condizioni perchè questi talenti possano operare in uno spazio più ampio, sul mercato globale, da uno uno più ristretto, quello domestico.

      L’obiettivo, in altri termini, deve essere quello di rendere il nostro Paese un importante hub dell’economia globale, al pari di Inghilterra, Germania e Stati Uniti, e di offrire ai nostri talenti i relativi posti di comando e non semplicemente quello di riportarli a casa.

      Solo allora, sarà valsa la pena di aver “ricucito” le distanze.

      https://www.agoefilo.info/2019/01/talenti-in-fuga-come-riportarli-a-casa