• Raphaëlle Bacqué, le jeûne et le « je »
    https://larevuedesmedias.ina.fr/raphaelle-bacque-m-le-monde-jeune-naturopathe-celeste-candido-f

    Tout début 2023, Raphaëlle Bacqué, grand reporter au Monde, racontait son expérience du jeûne dans un long récit publié dans le magazine sur papier glacé. Sans le vouloir, la journaliste a relayé des pratiques plébiscitées par les naturopathes, mais potentiellement dangereuses. Malaise ?

  • Perché in Italia i giovani scappano dall’agricoltura

    Un report dell’associazione Terra! racconta il calo degli under 40 nel settore e analizza come le misure nazionali ed europee siano insufficienti ed escludenti. Così gli unici giovani che ce la fanno sono quelli che ereditano l’attività di famiglia. Ci sono però alcune soluzioni: aprire i criteri per l’accesso ai fondi e assegnare terre pubbliche

    In Italia sempre meno giovani scelgono di lavorare nel settore agricolo. È la denuncia contenuta nel report “Gioventù frustrata. Se l’agricoltura italiana perde il treno del ricambio generazionale”, curato dall’associazione Terra! e presentato a Roma il 15 febbraio insieme al Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea).

    Lo studio parte da una domanda: “Il ritorno alla terra dei giovani spesso narrato dai media è reale? Purtroppo, al di là delle singole esperienze positive, i dati più recenti ci dicono che non è così”, spiega Francesco Panié, ricercatore di Terra! Lo ha rilevato l’Istat: tra il 2010 e il 2020 i capi azienda sotto i 40 anni sono calati dall’11,5% al 9,3%, con una flessione più marcata al Sud e nelle isole dove si sono quasi dimezzati. In numeri assoluti parliamo di 104mila persone contro le 186mila del censimento precedente. Oggi gli over 60 che occupano lo stesso ruolo sono sei volte di più. Inoltre, sottolinea il report, il calo è avvenuto nonostante nello stesso periodo di tempo il totale delle aziende attive in Italia è crollato del 30 per cento. “Con questo trend -commenta il ricercatore- le produzioni saranno sempre più estese e standardizzate mentre quella galassia di agricolture contadine che ha sempre contraddistinto l’Italia andrà perduta”. Una galassia che invece verrebbe favorita dal ricambio generazionale: per Terra! sono proprio i giovani la “chiave imprescindibile” per la transizione all’agroecologia.

    In Italia però le condizioni non sono “favorevoli allo sviluppo dell’imprenditoria giovanile in agricoltura”, si legge nel rapporto. Secondo il Crea, la terra costa mediamente il doppio della Germania e il triplo della Francia. L’affitto è il più caro d’Europa. I salari, invece, dal 1990 sono diminuiti e nel 2020 il reddito agricolo è calato tre volte di più rispetto alla media europea. Questo spiega perché la maggior parte dei giovani che entrano in agricoltura ha alle spalle famiglie con attività legate al settore. “Senza risparmi, terreni, macchinari, casali, mezzi di produzione a disposizione, è quasi impossibile avviare un’attività agricola”, sintetizza Panié.

    Il problema, per Terra!, è legato anche alla “inadeguatezza degli strumenti normativi che dovrebbero sostenere il ricambio generazionale e dei fondi connessi”, in particolare delle risorse della Politica agricola comune (Pac), che ammontano a 387 miliardi di euro in sette anni, pari a un terzo del bilancio europeo. Con il nuovo regolamento approvato nel 2021, i pagamenti diretti ai giovani agricoltori dovrebbero passare dal 2% degli anni scorsi ad almeno il 3%, sotto forma di sostegno al reddito, agli investimenti o di aiuti per l’avvio dell’attività. In totale, stimano i ricercatori, tra fondi europei e cofinanziamento nazionale si dovrebbe superare di poco il miliardo di euro.

    Questi fondi andranno, in parte, al sostegno complementare al reddito per i giovani agricoltori. Per l’associazione le cifre stanziate non solo sono insufficienti, ma vengono anche distribuite con criteri non “ideali per rendere il supporto realmente efficace”, facilitando l’erogazione a “chi ha già un terreno, senza favorire l’accesso alla terra”. Lo ha rilevato anche la Corte dei Conti europea nel 2017: “Il sostegno si basa su una logica di intervento poco definita” e “in assenza di una valutazione del fabbisogno è erogato in forma standardizzata (pagamento annuo per ettaro)”. Per Terra! bisognerebbe abbassare a 20 o 30 ettari la soglia massima per poter accedere al sostegno, che oggi è invece fissata a 90 ettari. Il motivo: “È improbabile che un agricoltore entri nel settore con un’azienda molto più grande, a meno che non subentri al proprio genitore o parente”. Non sostengono il ricambio nemmeno i fondi del cosiddetto premio di “primo insediamento”, destinato agli agricoltori under 40: insufficienti per chi deve reperire sia la terra sia i mezzi di produzione ed erogati in ritardo e con criteri escludenti. “Per accedere a questi fondi bisogna presentare un piano aziendale a garanzia di una produzione standard, aprire una partita Iva e iscriversi all’Inps come imprenditore agricolo professionale. Sono stati inseriti per scoraggiare i ‘finti insediamenti’ ma allontanano i giovani senza mezzi di partenza ai quali viene impedito di sperimentarsi part time, in attesa che l’azienda raggiunga la sostenibilità economica”, spiega Panié.

    Infine c’è il capitolo delle misure nazionali, come gli strumenti messi in campo dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare (Ismea) per agevolare l’acquisto delle terre: “Anche in questo caso i dati ci dicono che a comprare è soprattutto chi ha un capitale da investire”, spiega Panié che conclude: “Il potenziale inespresso del settore sono le terre pubbliche”. Anche qui c’è un problema: manca un censimento nazionale. Per questo Terra! ha invitato il governo a finanziarlo: “Potrebbero essere offerte in affitto a canone agevolato ai giovani agricoltori con progetti di agroecologia convincenti”.

    https://altreconomia.it/perche-in-italia-i-giovani-scappano-dallagricoltura
    #Italie #jeunes #jeunesse #agriculture #jeunes_agriculteur

    • "Gioventù frustrata". Il report di Terra! sul mancato ricambio generazionale in agricoltura

      Decine di volte in questi anni abbiamo letto di un ritorno dei giovani alla terra, della loro vocazione alla sostenibilità, del desiderio di recuperare un contatto con la natura che diventa volano di economia per i territori rurali. Storie che accendono una fiammella di speranza, dipingendo un controesodo verso le campagne in costante spopolamento.

      Purtroppo, però, questa è soltanto una favola. La verità è che il ricambio generazionale nel settore agricolo è fermo al palo.

      Cosa impedisce ai giovani di entrare in agricoltura?
      Quali politiche sono state costruite per facilitarli?
      Perché non stanno funzionando?

      A tutte queste domande rispondiamo nel nostro rapporto «Gioventù frustrata», in cui raccogliamo dati e analisi per comprendere davvero il fenomeno del ritorno alla terra, e il rischio che un mancato ricambio generazionale può rappresentare per l’agricoltura italiana e la transizione ecologica dei sistemi alimentari.

      https://www.associazioneterra.it/cosa-facciamo/cambiamenti-climatici/giovani-agricoltori
      #rapport

  • 20 février 1938 : « Léon Sédov, le fils – l’ami – le militant — dédié à la jeunesse prolétarienne » (Léon Trotsky)

    A l’instant où j’écris ces lignes, à côté de la mère de Léon Sédov, des télégrammes me parviennent de divers pays, m’apportant l’expression de condoléances. Et chacun de ces télégrammes suscite la même et insupportable question :

    « Ainsi tous nos amis de France, de Hollande, d’Angleterre, des Etats-Unis et du Canada et d’ici, au Mexique, considèrent comme définitif le fait que Sédov ne soit plus ? »
    Chaque télégramme est une preuve nouvelle de sa mort. Et pourtant, nous ne pouvons encore y croire. Et non pas seulement parce qu’il est notre fils, fidèle, dévoué, aimant. Mais avant tout, parce que plus que quiconque au monde, il est entré dans notre vie, s’y est lié avec ses racines, comme camarade d’idées, comme collaborateur, comme gardien, comme conseiller, comme ami.

    De cette génération aînée, dans les rangs de laquelle nous sommes entrés à la fin du siècle dernier, sur la route de la Révolution, tous, sans exception, ont été balayés de la scène. Ce que n’ont pu faire les bagnes du tsar, la déportation rigoureuse, les besoins des années d’émigration, la guerre civile et les maladies, Staline l’a fait au cours des dernières années, comme le fléau le plus malfaisant de la révolution. Après la génération aînée, a été anéantie la meilleure partie de la génération moyenne, c’est-à-dire celle qu’a suscitée 1917 et qui a reçu sa formation dans les 24 armées du front révolutionnaire. Piétinée sans traces la meilleure partie de la jeunesse, de la génération de Léon. Lui-même n’y a échappé que par miracle : grâce au fait qu’il nous a accompagnés en déportation et ensuite en Turquie. Au cours des années de notre dernière émigration, nous avons acquis de nombreux amis, et quelques-uns d’entre eux sont entrés étroitement dans la vie de notre famille, jusqu’à pouvoir être considérés comme ses membres. Mais tous nous ont approchés pour la première fois seulement dans ces dernières années, quand nous avons atteint le seuil de la vieillesse. Seul Léon nous a connu jeunes, et a participé à notre existence depuis le temps, où il a pris conscience de lui-même. Demeuré jeune, il fut comme de notre génération.

    Il a traversé avec nous notre deuxième émigration : Vienne, Zurich, Paris, Barcelone, New Amherst (le camp de concentration canadien) et, finalement, Pétrograd.

    Encore tout enfant – il allait sur ses douze ans – il avait à sa manière assimilé consciemment le passage de la révolution de février à celle d’octobre. Son adolescence s’est passée sous une haute pression. Il s’est ajouté une année pour entrer plus vite aux Jeunesses Communistes, qui brûlaient alors de toutes les ardeurs d’une jeunesse éveillée. Les jeunes boulangers, au milieu desquels il menait sa propagande, le gratifiaient d’un petit pain frais, et il le rapportait joyeusement sous le pan déchiré de sa veste. Ce furent des années brûlantes et froides, grandioses et affamées.

    De sa propre volonté, Léon quitta le Kremlin pour le logis en commun des étudiants prolétariens, afin de ne pas se distinguer des autres. Il refusait de s’asseoir avec nous dans l’auto, afin de ne pas jouir des privilèges des bureaucrates. En revanche, il prenait jalousement sa part dans tous les « samedis communistes » et autres « mobilisations de travail », il nettoyait la neige dans les rues de Moscou, « liquidait » l’analphabétisme, déchargeait le pain et le bois des wagons, et ensuite, en qualité d’élève polytechnicien, réparait les locomotives. Il ne s’est pas trouvé sur le front des opérations, c’est seulement parce que l’addition de deux et même trois années supplémentaires n’aurait pu l’aider : la guerre civile s’est terminée quand il avait seulement quinze ans. Mais plusieurs fois, il m’avait accompagné sur le front, s’imprégnant d’impressions sévères (rudes), et connaissait fermement le pourquoi de cette lutte sanglante.

    Les derniers télégrammes d’agence ont appris que Sédov vivait à Paris « dans les conditions les plus modestes ». Ajoutons, beaucoup plus modestes que celles des ouvriers qualifiés. Mais à Moscou, dons ces années où son père et sa mère occupaient de hautes fonctions, il ne vivait guère mieux que ces derniers temps à Paris, plutôt moins bien. Etait-ce une règle parmi la jeunesse bureaucratique ? Non, alors déjà, c’était une exception.

    Dans ce garçon, et plus tard dans l’adolescent, et dans le jeune homme, le sentiment du devoir et du sacrifice s’est éveillé de bonne heure.

    En 1923, Léon s’est brusquement et entièrement plongé dans le travail de l’opposition. II serait injuste de voir là seulement l’influence de ses parents. II avait quitté le bel appartement du Kremlin pour le logement en commun, froid, sale et sans pain, non seulement sans intervention de notre part, mais contre notre volonté.

    Son orientation politique a été déterminée par ce même instinct qui l’incitait à préférer les tramways surchargés de monde aux limousines du Kremlin. La plate-forme de l’Opposition a seulement donné une expression politique aux traits organiques de son caractère. Léon rompait inflexiblement avec les étudiants amis, que leurs pères bureaucrates arrachaient à coups de griffes du « trotskysme », et retrouvait le chemin de ses amis boulangers.

    Ainsi, à 17 ans, a commencé sa vie pleinement consciente de révolutionnaire. Il a vite assimilé l’art de la conspiration, des réunions illégales, de la presse secrète et de la diffusion des écrits oppositionnels.

    Le Komsomol a rapidement formé les cadres de ses chefs oppositionnels.

    Léon se distinguait par des qualités remarquables de mathématicien. Il venait infatigablement en aide aux étudiants prolétariens, n’ayant pas fait d’études secondaires. Et, dans ce travail, il mettait toute son ardeur, corrigeait, poussait en avant, grondant les paresseux. II considérait son jeune enseignement comme un service consacré à sa classe. Ses propres études à l’Institut technique supérieur se poursuivaient avec succès. Mais elles ne prenaient qu’une partie de sa journée de travail. La plus grande partie de son temps, il la donnait avec ses forces et son âme, à la cause de la révolution.

    En hiver 1927, quand commença la destruction politique de l’Opposition, Léon achevait sa vingt-deuxième année. Il avait déjà un enfant qu’il venait nous montrer avec fierté au Kremlin. Sons une minute d’hésitation, il s’est arraché à sa jeune famille et à son école, pour partager notre sort en Asie Centrale. II agissait non seulement comme un fils mais, avant tout, comme un camarade d’idées ; il fallait avant tout assurer notre liaison avec Moscou.

    Son travail à Alma-Ata, pendant toute une année, fut, en toute sincérité, incomparable. Nous le nommâmes ministre des Affaires étrangères, ministre de la police, ministre des P.T.T. Et, dans toutes ces fonctions, il fut obligé de s’appuyer sur un appareil illégal. Sur les instructions du Centre Oppositionnel de Moscou, le camarade X..., très dévoué et très sûr, avait acquis une voiture et une troïka de chevaux et travaillait en qualité de cocher indépendant entre Alma-Ata et Frounzé (Pichpek) alors station terminale de la ligne de chemin de fer.

    Le travail qui lui était dévolu était de nous apporter, toutes les deux semaines, le courrier secret de Moscou et de rapporter nos lettres et manuscrits à Frounzé où l’attendait le courrier de Moscou. Parfois, des courriers spéciaux nous arrivaient de Moscou. Les rencontrer n’était pas une chose facile à faire.

    Nous étions logés dans une maison de tous côtés entourée d’organisations de la Guépéou et des appartements de ses agents. Les rapports extérieurs reposaient sur Léon. Il quittait le logis par les nuits profondes, pluvieuses ou neigeuses, ou, trompant la vigilance des espions, il s’échappait dans la journée de la bibliothèque, retrouvant les agents de liaison à l’établissement des bains publics, ou dans les fourrés profonds, aux environs de la ville, ou encore au marché oriental où les Kirghizes grouillaient en foule, avec les chevaux, les ânes et les marchandises.

    Chaque fois, il revenait frémissant et heureux, avec une flamme guerrière dans les yeux et avec des acquisitions précieuses cachées sous le linge. Ainsi, pendant une année, il fut imprenable à l’adversaire.

    Et mieux que cela, il entretenait avec ces ennemis, « camarades » d’hier, les rapports les plus « corrects », presque « amicaux », montrant un self-contrôle et un tact constant et nous protégeant soigneusement de tout conflit avec l’extérieur.

    La vie idéologique de l’opposition était alors à son apogée. C’était l’année du 6º Congrès du Komintern. Dans les colis de Moscou arrivaient des dizaines de lettres, articles, thèses de célébrités et d’inconnus.

    Dans les premiers mois, jusqu’au changement brutal de la politique de la guépéou, de nombreuses lettres arrivaient aussi par la poste officielle des différents lieux de déportation.

    Dans ce matériel varié, il fallait opérer une soigneuse discrimination. Et là, je ne me convainquais qu’avec étonnement comment, d’une manière pour moi imperceptible, cet enfant avait eu le temps de mûrir, comme il savait bien choisir parmi les hommes, il connaissait une quantité beaucoup supérieure d’oppositionnels que moi. Combien sûr était son instinct révolutionnaire, lui permettant de distinguer sans hésitation le vrai du faux, le réel du superficiel. Les yeux de sa mère, qui connaissait davantage son fils, s’illuminaient de fierté à nos entretiens.

    D’avril à octobre, il nous arriva près de 1000 lettres politiques et documents et près de 700 télégrammes. Nous avons expédié, pour la même période, 800 lettres politiques, et, dans cette quantité, une série de travaux considérables comme la critique du programme du Komintern, etc. Sans mon fils, je n’aurais pu accomplir la moitié du travail.

    Une aussi étroite collaboration ne signifiait pas, toutefois, que des frictions ne s’élevaient pas entre nous, et parfois des différents aigus.

    Mes rapports avec Léon, pas plus à ce moment-là que plus tard, dans l’émigration, ne se distinguaient particulièrement – loin de là – par un caractère égal ni dépourvu d’aspérités.

    Je ne m’élevais pas seulement contre ses appréciations catégoriques à l’égard de certains « vieux » de l’opposition par des rectifications et des semonces énergiques, mais encore, je laissais apparaître, dans mes rapports avec lui, l’exigence et le formalisme qui me sont inhérents dans les questions pratiques.

    Ces traits peut-être utiles et même indispensables pour un travail de grande envergure, mais assez insupportables dans les relations privées, ont rendu la tâche difficile aux êtres qui me furent le plus proche. Et comme le plus proche d’entre tous les jeunes était mon fils, il a eu ordinairement plus à supporter que tous les autres. A un oeil superficiel, il pouvait même sembler que nos rapports étaient empreints de sévérité ou d’indifférence. Mais sous cette apparence existait un profond attachement réciproque, fondé sur quelque chose d’incomparablement plus grand que la communauté du sang : la communauté de vues et des jugements, les sympathies et les haines, les joies et les souffrances vécues ensemble, et les mêmes et grandes espérances. Et cet attachement mutuel s’illumina de temps à autre de flammes tellement vives, qu’elles récompensaient nos trois destins de la médiocre usure du quotidien.

    Ainsi nous vécûmes à 4000 Kms de Moscou, à 250 Kms de la voie ferrée, une année difficile et inoubliable, qui est restée toute entière sous le signe de Léon, ou plus exactement de « Lévik » ou de « Levoussetki », comme nous l’appelions.

    En janvier 1929, le bureau politique décréta mon bannissement « au-delà des limites de l’#URSS » et, comme il s’est avéré, en Turquie.

    Aux membres de ma famille fut laissé le droit de m’accompagner. De nouveau sans hésitation, Léon décida de nous suivre en exil, se séparant à jamais de sa femme et de son fils qu’il aimait beaucoup.

    Dans notre vie s’ouvrit un nouveau chapitre, avec une page presque vierge : relations, amitiés, liaisons, il fallut nouer tout cela à nouveau. Et de nouveau notre fils devint pour nous tous l’intermédiaire dans les rapports avec le monde extérieur, le gardien, le collaborateur, le secrétaire, comme à #Alma-Ata, mais sur un plan de beaucoup plus vaste. Les langues étrangères qu’il possédait, étant enfant, mieux que le russe, se trouvèrent presque oubliées dans la fièvre des années révolutionnaires.

    II fallut les étudier à nouveau. On commença un travail littéraire approprié. Les archives et la bibliothèque étaient entièrement dans les mains de Léon. Il connaissait bien les oeuvres de Marx, d’Engels et de #Lénine, il connaissait à merveille mes livres et manuscrits, l’histoire du parti et de la révolution, l’histoire des falsifications thermidoriennes. Dans le chaos même de la bibliothèque publique d’Alma-Ata, il avait étudié les collections de la Pravda des années soviétiques et avait tiré d’elles, avec un esprit d’investigation sans faille, les citations et les extraits indispensables. Sans cette documentation précieuse et sans les recherches ultérieures faites par Léon dans les archives et les bibliothèques, d’abord en #Turquie, ensuite à Berlin, finalement à Paris, pas un des travaux que j’ai écrits au cours de ces dix dernières années n’eut été possible, et en partie L’Histoire de la Révolution Russe. Sa collaboration, incalculable par sa quantité, n’avait pourtant pas qu’un caractère « technique ». Le choix personnel des faits, des citations, des caractéristiques, prédéterminait ma méthode de développement, ainsi que les conclusions. Dans #la_Révolution_Trahie, il y a pas mal de pages écrites par moi sur les données de quelques lignes extraites des lettres de mon fils et des illustrations tirées par lui des journaux soviétiques qui m’étaient inaccessibles. Encore plus de matériaux m’ont été fournis par lui pour la biographie de Lénine. Une telle collaboration était seulement possible parce que notre solidarité idéologique était entrée dans le sang et dons les nerfs. Presque tous mes livres à partir de l’année 1928 devraient en toute justice porter le nom de mon fils à côté du mien.

    A Moscou, il restait à Léon une année et demie jusqu’à l’achèvement de sa formation d’ingénieur. Nous insistions avec sa mère pour qu’il revint à l’étranger aux études abandonnées. Une nouvelle équipe de jeunes collaborateurs de tous les pays avait eu entre temps le loisir de se former à Prinkipo, en étroite collaboration avec mon fils. Léon ne consentit au départ que sous la pression du fait que, en Allemagne, il pouvait rendre d’inappréciables services à l’#Opposition_de_gauche internationale

    Ayant repris à Berlin ses occupations estudiantines (il fallut repartir au commencement), Léon en même temps s’était consacré tout entier au travail révolutionnaire. Bientôt il entra au Secrétariat International en qualité de représentant de la section russe. Ses lettres d’alors à sa mère démontrent avec quelle rapidité il s’était assimilé à l’atmosphère politique de l’Allemagne et de l’Europe Occidentale, comme il savait bien distinguer parmi les hommes et discerner parmi leurs divergences et les nombreux conflits de cette période infantile de notre mouvement. Son instinct révolutionnaire, enrichi déjà d’une sérieuse expérience, l’aidait à trouver la voie juste dans presque tous les cas, d’une manière indépendante. Comme nous nous réjouissions de trouver dans ses lettres fraîchement décachetées, les mêmes raisonnements et conclusions que je recommandais la veille à son attention. Et combien, passionnément et sobrement, se réjouissait-il de telles rencontres dans nos idées. Le recueil des lettres de Léon constituera indubitablement une des sources les plus précieuses pour l’étude de la préhistoire intérieure de la Quatrième Internationale.

    Mais les affaires russes demeuraient au centre de ses préoccupations. Encore à Prinkipo, il devint l’éditeur effectif du Bulletin de l’Opposition russe dès son apparition (mi-1929 et avait complètement pris en charge ce travail dans ses mains depuis son départ à Berlin ( début 1931 ), d’où le Bulletin fut transféré à sa suite à Paris. La dernière lettre de Léon que nous avons reçue, écrite le 4 Février 1938, douze jours avant sa mort, commence par ces mots :

    « Je vous envoie les épreuves du Bulletin, car le prochain bateau ne partira pas de sitôt, et le Bulletin ne sera prêt que demain matin. »
    La sortie de chaque numéro fut un petit événement dans sa vie – petit événement qui coûtait de grands efforts –. La composition du Bulletin, la finition des matériaux bruts, la rédaction des articles, une correction minutieuse, l’expédition, la correspondance avec les amis et les correspondants et ce qui ne vient pas à la dernière place, ce qui n’était pas le moins important la recherche des moyens financiers. En revanche, comme il s’enorgueillissait de chaque numéro « réussi ». Dans les premières années de l’émigration, il entretenait une correspondance considérable avec les oppositionnels en U.R.S.S. Mais en 1932, la Guépéou rompit presque tous nos liens.

    II fallut chercher des informations fraîches par des voies détournées.

    Léon était toujours sur le « qui-vive », cherchant avidement des tuyaux de Russie, s’emparant des touristes revenus d’U.R.S.S., des étudiants soviétiques en mission et des fonctionnaires sympathisants des Représentations à l’étranger. Il parcourait Berlin pendant des heures entières et ensuite Paris, pour semer les agents de la Guépéou à sa poursuite et ne pas compromettre ses informateurs. Pendant toutes ces années, il n’y eut pas un cas où quelqu’un eût à souffrir de son manque de vigilance, de son inattention ou de son manque de discernement.

    Sur les rapports de la #Guépéou, il figurait sous le sobriquet de « fiston », ainsi que nous en informait l’infortuné Reiss ; on a dit plus d’une fois à la Lublianka :

    "Le « Fiston » travaille habilement, le « Vieux » l’aurait dure sans lui."
    C’était la vérité. La tâche n’eût pas été facile sans lui ! Justement pour cette raison, les agents de la Guépéou, pénétrant aussi dans les organisations de l’Opposition, entouraient Léon d’un filet épais d’observations, d’intrigues, de pièges. Dans les procès de Moscou, son nom figurait invariablement à côté du mien. Moscou cherchait le moyen d’en finir à tout prix avec lui.

    Après l’arrivée de Hitler au pouvoir, le Bulletin de l’Opposition fut immédiatement interdit. Léon passa en Allemagne encore quelques semaines, menant un travail illégal et se cachant de la Gestapo dans les appartements étrangers. Nous sonnâmes l’alarme avec sa mère, insistant sur un départ immédiat de l’Allemagne. Au printemps 1933, Léon se décida enfin à abandonner un pays qu’il avait eu le temps de connaître et d’aimer et se logea à Paris où le suivit le Bulletin. Ici, Léon recommença ses études à nouveau : il fallut passer un examen dans une école française d’enseignement secondaire, ensuite, pour la troisième fois, recommencer en Sorbonne, depuis le début, ses études de Physique et de Mathématiques à la Faculté des Sciences. Il vivait à Paris dans des conditions difficiles, dans le besoin, s’occupant par à-coups de ses études universitaires, mais, grâce à des dispositions remarquables, il put mener ses études à bonne fin, c’est-à-dire jusqu’au diplôme.

    Ses principaux efforts, à Paris, étaient consacrés, encore plus qu’à Berlin à la #révolution et à une collaboration littéraire avec moi. Dans les dernières années, Léon commença à écrire lui-même plus systématiquement pour la presse de la Quatrième Internationale. A des signes divers, notamment à la rédaction de ses mémoires, pour mon autobiographie, j’ai commencé à soupçonner en lui, encore à Prinkipo, des dispositions littéraires. Mais il était surchargé par toutes sortes d’autres travaux, et, comme les idées et les thèmes nous étaient communs, il me consacrait toujours son activité d’écrivain.

    En Turquie, il écrivit, à ce qu’il m’en souvient, seulement un article de dimensions plus importantes : « Staline et l’Armée Rouge ou comment on écrit l’histoire », sous la signature de Markine, matelot révolutionnaire, auquel l’unissait, dans ses années d’enfance, une amitié colorée d’une véritable adoration. Ce travail entra dans mon livre « Les crimes de Staline ». Ultérieurement, ses articles ont paru toujours plus fréquemment, dans les pages du Bulletin et autres publications de la Quatrième Internationale, chaque fois sous la pression des nécessités. Léon écrivit seulement quand il avait quelque chose à dire et qu’il savait que nul autre ne pourrait l’exprimer mieux. Dans la période norvégienne de notre vie, je recevais de divers côtés des lettres me demandant d’analyser le mouvement stakhanoviste, qui atteignit, dans une certaine mesure, notre mouvement à l’improviste. Quand il apparut que le prolongement de ma maladie ne pourrait me permettre de faire face à ce problème, Léon me fit parvenir le projet de son article sur le stakhanovisme avec une lettre d’introduction très modeste. Le travail me parut, par son sérieux et par sa pénétration, embrasser la question sous tous ses aspects, plein de concision et de relief dans l’argumentation.

    Je me souviens quelle joie causa mon approbation chaleureuse à Léon. L’article fut imprimé en plusieurs langues et établit immédiatement un point de vue juste sur l’édification socialiste sous le fouet de la bureaucratie. Des dizaines d’articles ultérieurs n’ont rien ajouté de concret à cette analyse.

    Le principal ouvrage littéraire de Léon fut toutefois son livre « Le Procès de Moscou », consacré au procès des seize (Zinoviev, Kamenev et autres) et publié en français et en allemand. Nous nous trouvions alors, avec ma femme, dans la prison norvégienne, pieds et mains liés, sous les coups de la plus monstrueuse des calomnies. A certains degrés de la paralysie, les êtres voient, entendent et comprennent tout, mais sont incapables de remuer le petit doigt pour écarter un danger mortel.

    Le gouvernement « socialiste » norvégien nous contraignit à cette paralysie politique. Dans ces conditions, le livre de Léon fut pour nous un présent inappréciable, première et cinglante réplique aux falsifications du Kremlin. Je me souviens que les premières pages m’en parurent plutôt pâles ; ceci parce qu’elles répétaient une appréciation politique de l’ensemble de la situation en U.R.S.S. déjà faite précédemment.

    Mais à partir du moment où l’auteur a abordé l’analyse personnelle du procès lui-même, je me suis senti tout à fait entraîné. Chaque nouveau chapitre me paraissait meilleur que le précédent. « Bravo, Levoussetka, » nous disions nous avec ma femme. « Nous avons un défenseur ! » Comme ses yeux devaient briller joyeusement en lisant nos louanges chaleureuses !

    Dans certains journaux, et en partie dans l’organe central de la social-démocratie danoise, on émettait la conviction que, malgré les conditions rigoureuses de l’internement, j’avais visiblement trouvé le moyen de prendre part à l’ouvrage paru sous le nom de Sédov. « On sent la main de Trotsky ». Tout cela, inventions ! Dans le livre, il n’y a pas une ligne de moi.

    Beaucoup de camarades qui étaient enclins à considérer Sédov seulement comme le fils de Trotsky – comme en Karl Liebknecht, on n’a vu pendant longtemps que le fils de Wilhelm Liebknecht – ont eu la possibilité de se convaincre, ne fut-ce QUE PAR ce livre, qu’il représentait une personnalité indépendante, mais une personnalité d’envergure.

    Léon écrivait comme il faisait tout le reste, c’est-à-dire consciencieusement : il étudiait, réfléchissait, vérifiait. La gloire littéraire lui était étrangère. Les déclamations de propagande ne le séduisaient guère. En même temps, chaque ligne écrite par lui est illuminée par une flamme vivante dont la source était son rare tempérament révolutionnaire.

    Les événements de sa vie privée et familiale de notre époque, ont formé son caractère et l’ont trempé. En 1905, sa mère attendait sa naissance dans une prison de Pétersbourg.

    Le vent de libéralisme l’en a fait sortir en automne. l’enfant est venu au monde en février de l’année suivante. A ce moment-là, j’étais déjà en prison. Voir mon fils pour la première fois ne me fut possible que treize mois après, lors de l’évasion de Sibérie. Ses toutes premières impressions furent imprégnées du souffle de la première révolution russe, dont la défaite nous jeta en Autriche. La guerre frappa la conscience de ce garçon de huit ans, en nous rejetant en Suisse. Mon expulsion fut la seconde de ses grandes leçons.

    Sur le paquebot, il tenait des conversations révolutionnaires mimées avec le chauffeur catalan. La révolution signifiait pour lui tous les biens et, avant tout, le retour en Russie. Sur la route du retour d’Amérique, à Halifax, Lévik, âgé de douze ans, avait frappé du poing un officier britannique. II savait qui frapper : non les matelots qui m’emportaient du navire, mais l’officier qui commandait. Au Canada, au moment de mon internement au camp de concentration Léon apprit à dissimuler et à jeter furtivement à la boite les lettres non contrôlées par la police. A Pétrograd, il fut brusquement plongé dans une atmosphère de poursuite anti-bolchévique.

    A l’école bourgeoise où il se trouva d’abord, les fils de libéraux et des S.R. le battaient parce que fils de Trotsky.

    Il vint un jour au Syndicat des ouvriers du bois où travaillait sa mère, avec la main ensanglantée ; c’était le résultat d’une explication politique avec les fils des kérenskystes. Il se joignait dans la rue à toutes les manifestations et se cachait dans les portes cochères des forces armées du Front Populaire de l’époque (coalition des cadets, des S.R. et des menchéviks). Après les journées de juillet, amaigri et pâle il me rendait visite dans la prison de Kérenski et de Tséretelli. Dans la famille d’un colonel ami, au cours d’un déjeuner, Léon et Serge se jetèrent armés de couteaux sur un officier qui avait déclaré que les bolchéviks étaient des agents du Kaiser. Ils répondirent d’une manière à peu près analogue à l’ingénieur Sérébrowsky, plus tard membre du C.C. stalinien qui essaya de les persuader que Lénine était un espion allemand.

    Lévik apprit tôt à faire grincer ses jeunes dents à la lecture de la calomnie des journaux. Il passa les journées d’Octobre avec le matelot Markine qui, à ses heures de loisir, lui enseignait l’art du tir, dans la cave.

    Ainsi s’est formé le futur militant. La révolution n’était pas pour lui une abstraction, oh, non ! Elle le pénétrait par les pores de sa peau. C’est pourquoi il agissait sérieusement avec le devoir révolutionnaire commençant par les volontaires des samedis communistes et finissant par les traînards. C’est pourquoi plus tard, il est entré si ardemment dans la lutte contre la bureaucratie. En automne 1927, Léon accomplissait un voyage oppositionnel à travers l’Oural, en compagnie de Mratchkowsky et de Deloborodov. Au retour tous deux parlaient avec un enthousiasme sincère de la conduite de Léon, au cours d’une lutte aiguë et sans espoir, de ses interventions sans compromis aux réunions de la jeunesse, de son courage physique devant les bandes d’apaches suscitées par la bureaucratie, de sa virilité morale, lui permettant de subir la défaite en portant haut sa jeune tête. Quand il revint de l’Oural, devenu homme en six semaines, j’étais déjà exclu. II fallait s’apprêter pour la déportation.

    Il n’y avait en lui aucun manque de discernement, ni aucune forfanterie, loin de là. Mais il savait que le danger était l’essence de la révolution comme de la guerre. Il savait, quand il le fallait, et il le fallait souvent, aller au devant du danger. Sa vie, en France, où la Guépéou a des amis à tous les étages de l’édifice étatique, était une chaîne ininterrompue de dangers. Des assassins professionnels étaient sans relâche à ses trousses. Ils vivaient à côté de son appartement. Ils volaient ses lettres, ses archives et écoutaient ses conversations téléphoniques. Quand après sa maladie, il passa deux semaines sur les bords de la Méditerranée, son seul repos au cours de longues années, les agents du Guépéou prirent pension au même hôtel. Quand il se prépara à partir pour Mulhouse afin de rencontrer l’avocat suisse, à propos de l’affaire des calomnies staliniennes dans la presse, toute une bande de la Guépéou l’attendait à la gare de Mulhouse, celle-là même qui, plus tard assassina Ignace REISS. Léon échappa à une perte certaine, seulement grâce à ce que, tombé malade la veille, il ne pouvait quitter Paris avec une température de 40º. Tous ces faits sont établis par les autorités judiciaires de France et de Suisse. Et combien de secrets restent-ils non encore dévoilés ? Ses amis les plus proches nous écrivaient il y a trois mois, qu’à Paris, il courait un trop grand danger, et insistaient pour son départ pour le Mexique. Léon répondait que le danger était certain à Paris, mais que c’était un poste de combat trop important et que l’abandonner serait criminel. II ne restait qu’à s’incliner devant cette raison.

    Quand, à l’automne de l’année dernière, commença une série de rupture entre les agents soviétiques à l’étranger, le Kremlin et la Guépéou, Léon se trouva au centre de ces événements. Certains amis protestaient contre ses relations avec ces nouveaux alliés non encore « éprouvés » : une provocation était possible. Léon répliquait : le risque est indéniable, mais impossible de développer ce mouvement important en restant à l’écart. Il fallait prendre Léon, cette fois encore, tel que l’avaient fait la nature et les circonstances politiques. Comme un vrai révolutionnaire, il appréciait la vie seulement dans la mesure où elle servait la lutte libératrice du prolétariat.

    Le 16 février, les journaux mexicains du soir imprimèrent un court télégramme annonçant la mort de Léon Sédov à la suite d’une intervention chirurgicale. Pris par un travail urgent, je n’avais pas vu ces journaux. Diégo Rivera contrôla par radio de sa propre initiative et vint m’apporter la terrible nouvelle. Au bout d’une heure, j’ai appris la mort de notre fils à Natalia – dans ce même mois de février où, 32 ans plus tôt, elle m’avait appris en prison sa naissance. Ainsi s’acheva ce 16 février, la journée la plus noire de notre vie privée.

    Nous nous attendions à beaucoup, presque à tout, mais pas à cela. C’est que très peu de temps avant, Léon nous avait fait part de son intention d’entrer comme ouvrier dans une usine. En même temps, il exprimait l’espoir d’écrire, pour un centre d’études, l’histoire de l’opposition russe. II était rempli de projet. Seulement deux jours avant que la nouvelle de sa mort ne nous parvint, nous reçûmes de lui une lettre énergique et pleine de vie, datée du 4 février. Elle est devant moi. « Nous nous préparons au procès en Suisse ; l’affaire concerne la mise en jugement des participants à l’assassinat d’Ignace Reiss, écrivait-il l’atmosphère y est très favorable en ce qui concerne l’opinion publique et aussi l’attitude des autorités. » Il énumérait une série d’autres faits et symptômes favorables. « En somme, nous marquons des points. » La lettre respirait la confiance dans l’avenir. D’où provenait donc ce mal et cette mort fulgurante au bout de 12 jours ?

    Première et essentielle supposition : le poison. Trouver accès auprès de Léon, de ses vêtements, de sa nourriture n’offrait guère de difficultés aux agents de Staline. Est-ce qu’une enquête judiciaire, même libérée des raisons diplomatiques peut, à cet égard, parvenir à la pleine lumière ? En relation avec la guerre, la chimie et l’art de l’empoisonnement ont atteint, ces temps derniers, un développement tout particulier. Les secrets de cet art sont à vrai dire inaccessibles aux simples mortels. Mais aux empoisonneurs de la Guépéou tout est accessible. Il est tout à fait possible d’admettre qu’un tel poison, ne laissant pas de traces après le décès, même à la plus minutieuse des analyses. Et où sont les garanties de la minutie ?

    Ou bien l’ont-ils tué sans le secours de la chimie ? Il a fallu trop supporter à ce jeune être, très sensible et très tendre, dans les profondeurs de sa nature. Une campagne de plusieurs années déjà contre son père et les meilleurs de ses camarades aînés, que Léon s’est habitué dès l’enfance à respecter et à aimer, avait profondément secoué son organisme moral. Une longue suite de capitulations des participants de l’opposition ne lui a pas porté un coup moins rude. Ensuite suivit le suicide à Berlin de Zina, ma fille aînée, que Staline avait traîtreusement, par pure vengeance, arrachée de ses enfants, de sa famille, de son milieu. Léon se trouva sur les bras le cadavre de sa soeur aînée et un enfant de 6 ans. Il résolut d’essayer d’obtenir une communication téléphonique avec son frère cadet, Serge, à Moscou. Est-ce que la Guépéou avait perdu la tête devant le suicide de Zina, ou espérait-elle surprendre quelque secret, le fait est que la communication fut établie, contre toute attente, et Léon réussit à communiquer de vive voix la nouvelle tragique à Moscou. Telle fut l’ultime conversation des deux frères, condamnés déjà, sur le corps encore chaud de leur soeur. Les communications de Léon à Prinkipo sur ce qu’il venait de vivre furent courtes, avares, mesurées. Il nous épargnait trop. Mais sous chaque ligne se sentait l’insupportable tension morale.

    Les difficultés matérielles et les privations, Léon les supportait facilement, comme un vrai prolétaire, en plaisantant mais elles aussi, naturellement, laissèrent leur trace. Infiniment plus destructives furent les épreuves morales ultérieures. Le procès des seize à Moscou, le caractère monstrueux de l’accusation, les dépositions hallucinantes des accusés, et dans ce monde Smirnov et Mratchkowsky, que Léon connaissait bien et aimait, l’internement inattendu de son père et de sa mère en Norvège, quatre mois sans nouvelles, le vol des archives, notre déportation secrète avec ma femme au Mexique, le deuxième procès de Moscou, avec des accusations et des aveux encore plus délirants, la disparition de son frère Serge, sous l’accusation « d’empoisonnement d’ouvriers », les innombrables exécutions d’hommes qui furent autrefois des amis proches ou qui le restèrent jusqu’au bout, les poursuites et lès attentats de la Guépéou en France, l’assassinat de Reiss en Suisse, le mensonge, la bassesse, la trahison et les pièges – non, le « stalinisme » – était pour Léon autre chose qu’un phénomène politique abstrait, mais une série ininterrompue de coups moraux et de défaites psychiques. Fallut-il aux spécialistes moscovites recourir à la chimie afin de parachever leur oeuvre, ou suffisait-il de tout ce qu’ils avaient fomenté auparavant, le résultat demeure le même : ILS L’ONT ASSASSINÉ. Et la nouvelle de sa mort fut marqué comme un grand triomphe au calendrier thermidorien.

    Avant de le tuer, ils firent tout pour calomnier et noircir notre fils aux yeux des contemporains et des générations à venir. Caïn-Djougachvili et ses acolytes essayèrent de transformer Léon en agent du fascisme et en partisan secret d’une restauration capitaliste en URSS, en organisateur de catastrophes de chemin de fer et en assassin d’ouvriers. Grands furent les efforts de ces crapules ! Des tonnes de boue thermidorienne tombent sur sa jeune image sans y laisser une seule tâche. Léon était essentiellement un être humain d’une propreté et d’une honnêteté transparentes. II pouvait raconter sa vie à n’importe quelle assemblée ouvrière, sa vie brève par ses jours comme court est mon récit.

    II n’avait rien à se reprocher, rien à sceller. L’honnêteté morale était le fil conducteur de son caractère. II servait sans fléchir la cause des opprimés et, en cela, il restait fidèle à lui-même. Des mains de la nature et de l’histoire, il est issu homme d’une trempe héroïque. Les grands et terribles événements qui s’approchent de nous auront besoin de tels êtres. Si Léon avait vécu jusqu’à ces événements, il aurait montré sa vraie mesure. Mais il ne les a pas atteints. Notre Léon n’est plus, notre enfant, notre fils et militant héroïque !

    Avec sa mère, qui fut pour lui l’être le plus proche en ce monde, nous vivons ces heures terribles, évoquant son image, trait pour trait, ne pouvant croire qu’il n’est plus, et pleurons car il n’est plus possible de ne pas le croire.

    Comment nous habituer à cette idée qu’est disparu, sur l’étendue terrestre, le lumineux point humain, qui nous fut lié par les fils indestructibles des souvenirs communs, de la compréhension mutuelle et d’un tendre attachement. Personne ne nous connaissait ni ne nous connaît comme lui, avec nos côtés forts et nos côtés faibles. II était une part, la part jeune de nous deux. Pour cent raisons, nos pensées et nos sentiments allaient chaque jour vers lui, à Paris. Avec notre garçon est mort tout ce qui demeurait en nous de jeune.

    Adieu, Léon ! Adieu, cher et incomparable ami ! Nous ne pensions pas, avec ta mère, nous ne nous attendions pas à ce que le sort nous chargeât de cette terrible tâche : écrire ta nécrologie. Nous vivions avec la ferme certitude que longtemps après nous encore, tu serais le continuateur de l’oeuvre commune. Mais nous n’avons pas su te protéger. Adieu Léon ! Nous léguons ta pure mémoire à la jeune génération ouvrière de ce monde. Tu auras droit de cité dans les oeuvres de ceux qui travaillent, souffrent et luttent pour un monde meilleur.

    JEUNESSE RÉVOLUTIONNAIRE DE TOUS LES PAYS, PRENDS NOUS LE SOUVENIR DE NOTRE LÉON, ADOPTE LE, IL LE MÉRITE ET QUE, DÉSORMAIS, IL PARTICIPE INVISIBLE A TES LUTTES, PUISQUE LE SORT LUI A REFUSÉ LE BONHEUR DE PRENDRE PART A LA VICTOIRE FINALE.

    LÉON TROTSKY
    20 février 1938 – COYOACAN (Mexique)

    #Léon_Sédov #Léon_Trotsky #assassinat #Staline #stalinisme #jeunesse_révolutionnaire #révolution _sociale #procès_de_moscou

  • Following a Two-Year Decline, Suicide Rates Rose Again in 2021 - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/02/11/health/suicide-rates-cdc.html?te=1&nl=science-times&emc=edit_sc_20230214

    A two-year decline in yearly suicides ended in 2021, as suicide rates rose among younger Americans and people of color, according to a new report from the Centers for Disease Control and Prevention.

    For decades, suicide rates among Black and Hispanic Americans were comparatively low, around a third the rate recorded among white Americans. But a gradual shift is underway, as suicide rates rise in populations most affected by the pandemic.

    Between 2018 and 2021, the suicide rate among Black people increased by 19.2 percent, from 7.3 to 8.7 per 100,000. The swiftest rise took place among some of the youngest Black people, those ages 10 to 24. The suicide rate in that group rose by 36.6 percent, from 8.2 to 11.2 per 100,000.

    Among people ages 25 to 44, suicide rates rose 5 percent overall, and even more significantly among Black, Hispanic, multiracial and American Indian or Alaska Native people. The suicide rate remained highest among Native American and Alaska Native people, increasing by 26 percent, from 22.3 to 28.1 per 100,000, in that period.

    The only racial group that saw a decrease in suicide rates across age cohorts was non-Hispanic white people. That population saw a decline of 3.9 percent, from 18.1 to 17.4 per 100,000. Suicide deaths in the white population numbered 36,681, more than three-quarters of the total number.

    The study did not examine reasons for the divergence in suicide rates among racial groups, but suicide may be influenced by financial stress, social isolation, substance use, barriers to health care and access to lethal means like firearms, among other factors, said Deborah Stone, lead behavioral scientist at the C.D.C.
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    The number of suicides has been climbing for decades and reached its highest point, 48,344, in 2018. Many expected the pandemic to cause a spike in suicides, but in 2020 the numbers dropped for the second year in a row, to 45,979.

    That dip seemed to come to an end in 2021, with a total of 48,183 suicides.

    Previous pandemics, wars and natural disasters have also seen a temporary drop in suicide rates, as communities mobilize to weather a crisis, said Dr. Christine Moutier, the chief medical officer of the American Foundation for Suicide Prevention.

    Collective emergencies bring a “retrenching, with psychological girding and resilience and working against a common enemy,” Dr. Moutier said. “That will wane, and then you will see rebounding in suicide rates. That is, in fact, what we feared would happen. And it has happened, at least in 2021.”

    One factor in rising suicide rates in younger age groups is the “remarkable weakening of our mental health response system,” which has made it extraordinarily challenging to get care for children and adolescents in crisis, said Mitch Prinstein, the chief science officer of the American Psychological Association.

    He offered the example of a friend, who, alarmed when their child expressed suicidal thoughts, waited 36 hours in an emergency room, was sent home after a ten-minute examination “with no resources whatsoever,” and then waited weeks for admission to an outpatient program.

    “It’s just become completely untenable,” he said. “We shouldn’t be surprised that some kids are experiencing a worsening of their symptoms to the point where suicide is more common.”

    #Suicide #Etats-Unis #Jeunesse #Santé_publique

  • Un jeune sur quatre vit sous le seuil de pauvreté | Mediapart | 10.02.23

    https://www.mediapart.fr/journal/france/100223/un-jeune-sur-quatre-vit-sous-le-seuil-de-pauvrete

    Une étude de la Dress publiée ce vendredi [revisite des données de 2014 et] indique que 26 % des jeunes de 18-24 ans vivent sous le seuil de pauvreté. En mobilisant plusieurs outils de mesure, l’organisme démontre que le taux de pauvreté monétaire grimpe à 40 % pour ceux qui sont étudiants et habitent seuls. Un phénomène jugé « très largement structurel ».

    Dress = Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques

    https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/publications-communique-de-presse/les-dossiers-de-la-drees/mesurer-le-niveau-de-vie-et-la-pauvrete

    Calculer la précarité des jeunes reste un défi, indique la Drees qui a voulu produire une radiographie, plus fine et plus sensible. Pour ce faire, elle a compilé et interprété les données issues de l’« enquête nationale sur les ressources des jeunes » (ENRJ) réalisée en 2014.

    Si les chiffres sont anciens, la Drees propose une nouvelle mesure du niveau de pauvreté des jeunes adultes en embrassant trois dimensions : monétaire, en conditions de vie et subjective. Cela permet de ne pas sous-estimer le nombre de jeunes adultes pauvres et de prendre en compte « l’hétérogénéité » de leurs ressources.
    [...]
    L’autre enseignement intéressant de cette étude concerne la dimension genrée de la pauvreté. Être une femme, pour les jeunes de 18 à 24 ans, n’entraîne pas de risques supérieurs d’être sous le seuil de pauvreté que les hommes du même âge. « L’entrée dans la vie adulte constitue une période d’instabilité économique qui touche les femmes comme les hommes : les écarts de niveau de vie selon le sexe sont encore faibles, une fois contrôlées les trajectoires éducatives, les situations professionnelle et résidentielle. »

    • Iran : face à une dictature obscurantiste, élément de l’ordre impérialiste

      Cercle Léon Trotsky n°170 (#archiveLO, 5 février 2023)

      Le texte : https://www.lutte-ouvriere.org/publications/brochures/iran-face-une-dictature-obscurantiste-element-de-lordre-imperialiste

      Sommaire :

      – Introduction
      – Sous la tutelle impérialiste
      – L’impact de la #révolution_russe
      – De la tutelle britannique à celle des #États-Unis, l’échec de #Mossadegh
      – Le #chah, un dictateur au service de l’#impérialisme américain
      – L’opposition politique au chah
      – La montée révolutionnaire de 1978-79
      – La #république_islamique, une dictature réactionnaire, anti-ouvrière et garante de l’ordre social
      #Nationalisme et #anti-impérialisme exacerbés
      – La république islamique, élément de l’ordre impérialiste au #Moyen-Orient
      – Une puissante économie régionale
      – Les tribulations de l’accord sur le nucléaire
      – Une population éduquée qui s’enfonce dans la crise
      – Une classe dirigeante privilégiée et corrompue
      – De la révolte de 2009 à celle de 2019
      – Une classe ouvrière combative
      – La #révolte actuelle
      – L’attitude de la #classe_ouvrière
      – La politique du régime
      – Quelle direction ? Quelle perspective ?

      Introduction

      La révolte qui secoue l’Iran depuis l’assassinat de Mahsa Amini par la police des mœurs, le 16 septembre dernier, impressionne par la détermination et l’engagement des femmes et des hommes qui l’animent. Elle frappe par le très jeune âge de ceux qui se révoltent.

      Désormais des dizaines de milliers de #femmes sortent sans voile et tiennent tête à ceux qui les agressent. Hier encore, comme chaque vendredi, une nouvelle manifestation a eu lieu à #Zahedan, la capitale du #Baloutchistan. Depuis cinq mois, les manifestations étant dispersées dans la plupart des autres villes, des rassemblements ont été improvisés, des locaux de la police attaqués. Ces actions se terminent par des charges policières meurtrières, des #exécutions en pleine rue et des arrestations massives. Mais des femmes et des hommes recommencent les jours suivants. Les quelque 20 000 arrestations, 500 morts, les dizaines de condamnations à mort pour avoir simplement manifesté, les exécutions publiques de quatre jeunes, tous des travailleurs, tout cela a renforcé la rage contre la république islamique.

      La #jeunesse est en première ligne mais elle est soutenue par tout un peuple : par les #classes_populaires privées de viande, d’oeufs et de tant d’autres produits de base, à cause de l’inflation et de la spéculation ; par les travailleurs, en particulier ceux du pétrole et du gaz, de la métallurgie, des transports ou de l’enseignement qui ont multiplié les grèves ces dernières années pour obtenir #augmentations_de_salaires ou titularisation des précaires ; par la #petite-bourgeoise appauvrie par la crise et privée d’avenir avec l’#embargo_américain ; par les milieux intellectuels, artistiques ou sportifs qui dénoncent aujourd’hui ce régime « tueur d’enfants ». L’enjeu a dépassé la liberté des femmes et même la liberté tout court, c’est le système lui-même qui est contesté.

      Ce mouvement de contestation n’est pas le premier en Iran. Rien que dans les cinq dernières années, deux révoltes ont éclaté contre le pouvoir. Les deux fois, la dictature et ses sbires les ont étouffé en déployant une répression impitoyable. A chaque fois les dirigeants occidentaux l’ont dénoncée du bout des lèvres car ils ne veulent surtout pas que ce régime soit renversé par une révolution populaire.

      La révolte actuelle est plus profonde que les précédentes. Elle l’est par sa durée, parce qu’elle touche toutes les couches sociales du pays et parce que la rupture entre la société et les dirigeants de république islamique semble irrémédiable. Va-t-elle trouver les voies et le courage de rebondir malgré la répression ? Finira-t-elle par faire tomber cette dictature obscurantiste et anti-ouvrière ? Nous ne pouvons évidemment que l’espérer !

      Mais il ne suffit pas aux opprimés de renverser une dictature pour changer leur sort. La population iranienne l’a cruellement expérimenté à ses dépens : le régime des mollahs aujourd’hui haï est arrivé au pouvoir en s’appuyant, en 1978-79, sur la révolte de tout un peuple contre la dictature pro-américaine du chah d’Iran. Né en prétendant défendre les pauvres contre les riches et en exploitant les sentiments anti-impérialistes de la population, ce régime est aujourd’hui le défenseur sanglant des privilégiés iraniens. Il est aussi, de fait, un gardien de l’#ordre_mondial.

      Pour qu’il en soit autrement, la seule voie est que la classe des travailleurs prenne consciemment la tête de la révolte, avec sa propre organisation et ses propres objectifs politiques. Dans cette puissance régionale qu’est l’Iran, avec ses 87 millions d’habitants, sa longue histoire de révoltes sociales, son industrie développée et sa classe ouvrière combative, une telle perspective n’est pas une chimère : c’est un programme !

      #lutte_de_classe #analyse_de_classe #marxisme #histoire

  • Être maire à #Berlin ...

    https://www.berliner-zeitung.de/open-source/berlin-silvester-krawalle-bezirksbuergermeister-martin-hikel-spd-br

    Das Problem von Neukölln sind nicht die Jugendlichen – sondern die Politiker

    Seit Silvester redet Bezirksbürgermeister Martin Hikel von Brennpunktkiezen – für die er seit Jahren verantwortlich ist. Wieso wird geredet statt gehandelt? Ein Gastkommentar.

    Nach der Silvesternacht in Neukölln geben sich Politiker in den Redaktionen reihenweise die Klinke in die Hand. Und alle geben ihre Betroffenheit und gleich noch eine schnelle Lösung zum Besten. Das erstaunt schon deshalb, weil die Auswertungen der Polizei und Feuerwehr noch gar nicht vorliegen.

    So denkt der Bezirksbürgermeister Martin Hikel in einem Gastbeitrag über „Brennpunktkieze“ in Neukölln nach: „Also müssen wir darüber sprechen, was dort zu tun ist.“ Hier fragt man sich, warum Hikel, der seit 2018 Verantwortlicher ebendieser Kieze ist, nicht auf die Expertise seiner Verwaltung hört.

    So stellt das Jugendamt schon länger fest, dass jungen Menschen in Neukölln Rückzugsorte und altersgerechte Angebote fehlen. Erst recht an Feiertagen. Dass die Pandemie hier als Brandbeschleuniger für das Abgehängtsein von Jugendlichen (und Alten) gewirkt hat, darauf hat sein Gesundheitsamt hingewiesen, mittlerweile liegen hierzu viele Studien vor. Schon lange fehlen den Jugendeinrichtungen Personal und Geld. Die Jugendstadträtin fällt seit Monaten krankheitsbedingt aus. Das alles weiß Hikel sicher.

    Noch so eine beliebte Floskel ist: „das Strafmaß ausreizen“. Und die Strafe muss auf dem Fuße folgen, am besten mit einem noch schärferen Strafrecht. Nun wurde ja in ebendiesen Bezirk das Neuköllner Modell entwickelt, um Intensivtätern schneller und damit präventiv zu begegnen.

    Nur gilt für einen demokratischen Staat, dass Ermittlungen von Polizei und Strafanwaltschaft den Gerichten vorgeschaltet sind. Und das ist auch gut so. Dem Neuköllner Modell sind rechtsstaatlich enge Grenzen gesetzt. Das Strafmaß wird von Gerichten individuell festgelegt. Und da spielen Alter, Vorstrafen oder verminderte Schuldfähigkeit eine wesentliche Rolle.

    Gerade bei Jugendlichen ist die Strafverfolgung mit Stigmatisierung verbunden, die sich negativ auf die weitere Sozialisierung niederschlagen und eine Marginalisierung weiter befördern können. Auch hier liegen Evidenzen aus der Forschung vor. Das Strafrecht ist in diesem Bereich aus Sicht von Tobias Singelnstein, Professor für Strafrecht, schon sehr scharf.

    Hikel macht den Eindruck, dass er in dieser Materie weniger bewandert ist. Gut, dafür hat ja Hikel den Posten für das Ordnungsamt der Stadträtin Sarah Nagel von den Linken gegeben. Ausgerechnet Nagel entging gerade knapp einem Abwahlantrag. Der Abwahlantrag beruhte auf der Entscheidung Nagels, die Teilnahme des Ordnungsamts an Verbundeinsätzen, sogenannten Razzias gegen Shishabars zu untersagen.

    Man wird den Eindruck nicht los, dass in Neukölln eine Verantwortungsdiffusion herrscht. Hikel hält sich an Allgemeinplätzen fest und bedient gegenwärtige Betroffenheitsrhetorik. Hinter Hikel stehen mehr als 2400 Mitarbeitende der Bezirksverwaltung mit Expertise, die sich jeden Tag den Herausforderungen Neuköllns stellen. Diese zu nutzen, wäre die eigentliche Aufgabe des Bezirksbürgermeisters.

    Mesut Yavuz ist Prozess- und Organisationsberater. In der Pandemie hat er Berliner Behörden in der Modernisierung und Digitalisierung unterstützt.

    #politique #jeunesse

  • « Penser le 9-3 » : un nouveau podcast veut changer la vision de la Seine-Saint-Denis
    https://www.ouest-france.fr/ile-de-france/seine-saint-denis/penser-le-9-3-un-nouveau-podcast-veut-changer-la-vision-de-la-seine-sai
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAyMzAxM2E4NWIwNTgyZTUzY2Y2YWUwN2Q4YTAxYjkzOTQyMDI?width=1260&he

    Le podcast « Penser le 9-3 » est officiellement sorti mercredi 25 janvier 2023 sur les plateformes de streaming. Créé par le réseau Profession banlieue, le programme ambitionne de changer la vision et les mentalités sur la Seine-Saint-Denis, afin de montrer le département « autrement ».

    Profession banlieue, réseau professionnel sur la politique de la ville, a lancé mercredi 25 janvier 2023 son podcast « Penser le 9-3 ». Avec quatre épisodes d’environ 35 minutes, le programme a pour ambition de « montrer la Seine-Saint-Denis autrement » via le regard de chercheurs et d’habitants.

    Le journaliste Antoine Tricot ira à la découverte d’Aubervilliers, Villetaneuse et Saint-Denis. Le podcast prend comme point de départ les travaux des chercheurs du conseil scientifique de l’association Profession banlieue. Dans le premier épisode, la sociologue Marie-Hélène Bacqué aborde le sujet des nouvelles formes de politisation des jeunes dans les quartiers populaires.

    Apporter un « regard contrasté » sur le département

    Le deuxième épisode est consacré à la rénovation urbaine avec le politiste Renaud Epstein et le troisième épisode porte sur les jardins avec la géographe Flaminia Paddeu. Dans le dernier épisode, la sociologue Christine Bellavoine rencontre le responsable de structure jeunesse Mamadou Soumaré sur le thème des animateurs.

    « La Seine-Saint-Denis est un territoire jeune, extrêmement bouillonnant et créatif. Cette dimension-là est rarement montrée, explique Marie-Hélène Bacqué à propos du département. On est pris entre deux écueils : d’un côté une forme de stigmatisation et de l’autre, quelques fois, un regard un peu naïf. […] La question est de donner à voir ce regard contrasté. »

    Un réseau de réflexion sur la politique urbaine

    Dans les épisodes, les chercheurs sont accompagnés d’habitants et d’associatifs. Le journaliste donne une description imagée des lieux de déambulation tandis que le chercheur rend accessible certains concepts. « On avait cette idée de montrer la Seine-Saint-Denis autrement », résume Vincent Havage, directeur de Profession banlieue, qui espère la production d’autres saisons.

    Créé en 1993, Profession Banlieue est un réseau professionnel des acteurs des quartiers populaires en Seine-Saint-Denis et un centre de ressources cherchant à contribuer à la réflexion nationale sur les questions de politique de la ville. L’association propose régulièrement des séminaires et visites sur les thématiques de transition urbaine, d’égalité ou encore de patrimoine


    (on retrouvera le livre complet à : https://cfeditions.com/jdq)

    #Jeunes_de_quartier #Marie-Hélène_Bacqué #Podcast

  • Les trajectoires scolaires des jeunes des quartiers populaires, entre parcours d’obstacles et aspirations à la réussite | scolarité | Epoch Times
    https://www.epochtimes.fr/les-trajectoires-scolaires-des-jeunes-des-quartiers-populaires-entre-parc

    Quel est le rapport des jeunes de quartiers populaires à l’école ? Comment ces personnes racontent-elles leur orientation scolaire quand les difficultés économiques limitent le champ des possibles ? Que signifie à leurs yeux « réussir », et quel rôle leur scolarité joue-t-elle dans cette trajectoire ? Ce sont des questions que nous avons documentées au cours de la recherche participative Pop-Part (2017-2022), qui portait plus largement sur les pratiques et les représentations des jeunes de quartiers populaires dans dix villes franciliennes.


    (on retrouvera le livre complet à : https://cfeditions.com/jdq)

    #Jeunes_de_Quartier #Jeanne_Demoulin #Leïla_Frouillou

  • Wir sind alle Hippies oder Anzugträger : Was ist nur mit meiner Generation los ?
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/hippies-oder-anzugtraeger-was-ist-nur-mit-meiner-generation-los-li.

    Dans les quartiers huppés de Berlin la jeunesse préfère les verts et les libéraux. Les messages des partis sont généralement acceptés par les enfants de la couche sociale qu’on appelle l’élite de fonction. On y apprécie la liberté et l’écologie mais on n’aime guère les partis désunis.

    18.1.2023 - Dante Gutiérrez Janssen - Der Schüler Dante aus Prenzlauer Berg wundert sich, warum sich sein Freundeskreis in zwei Lager spalten: in FDP- und Grünen-Wähler. Eine Partei liegt vorn. 

    Mein Berliner Freundeskreis ist gespalten in zwei Lager. Sie sind fast deckungsgleich mit zwei Parteien: der FDP und den Grünen. Während sich die einen meiner Freunde vor allem um die Zukunft des Klimas und der Natur sorgen, sind die anderen interessierter an der wirtschaftlichen Zukunft unseres Landes und an der Erhaltung einer „freien Demokratie“. Zwar ist diese Spaltung nicht repräsentativ oder wissenschaftlich abgesichert, aber bei meinen Freunden ist sie dennoch Fakt.

    Und dass dies nicht nur für meinen Bekanntenkreis gilt, sondern möglicherweise für meine ganze Generation, zeigte sich auch bei der letzten Bundestagswahl im Jahr 2021. Da schnitten sowohl die FDP als auch die Grünen bei den Erstwählern mit jeweils 23 Prozent besser ab als alle anderen Parteien. Und viele fragten sich: Ist die Jugend jetzt grün oder liberal?

    Ich persönlich konnte damals die Polarisierung in diese zwei doch sehr gegensätzlichen Lager nicht so gut nachvollziehen. Trotzdem hat mich die Frage nach dem „Warum“ nicht losgelassen. Jetzt, vier Wochen vor der Wiederholung der Berlin-Wahl, wollte ich noch einmal genauer verstehen, was meine Freunde in die eine oder andere Richtung treibt. Ich startete eine Umfrage: Wie würden Menschen im Alter zwischen 14 und 16 Jahren heute wählen und warum? Die Namen meiner Freunde habe ich geändert, aber hier sind einige Zitate:

    Anja, 14, wählt die Grünen: „Weil mir die Umwelt wichtig ist und wir hier auf dem Planeten noch ein bisschen leben wollen.“
    Christian, 15, wählt die FDP: „Ich mag keine Verbote wie bei den Grünen, die FDP lässt die Bürger ihr Leben leben.“
    Xaver, 16, wählt die FDP: „Zu 100 Prozent die FDP, weil die Grünen doof sind.“
    Sally, 15, wählt die Grünen: „Die FDP und vor allem Lindner sind furchtbar.“

    Eine Partei liegt knapp vor der anderen

    Mit einem Vorsprung von genau einer Stimme liegen bei meiner Umfrage die Grünen vor der FDP: 14 zu 13 ist das Endergebnis. Wenn ich das hochrechne, dann ist meine Generation im gleichen Maße besorgt um Wirtschaft und Freiheit wie um die Umwelt. Besteht Deutschland in Zukunft also zur einen Hälfte aus Hippies und zur anderen aus Anzugträgern?

    Ganz so einfach ist es nicht. Zunächst, weil ich in der Umfrage nur die Wahl zwischen zwei Parteien gelassen habe. Bei einer richtigen Wahl gibt es natürlich sehr viel mehr mögliche Ergebnisse. Und zweitens stimmen viele der bekannten Klischees sowieso nicht. Nicht nur die jungen Grünen-Wähler gehen in ihrer Freizeit auf Klimademonstrationen und leben vegan. Einige meiner Freunde, die genau das alles tun, haben mich überrascht, weil sie trotzdem die FDP wählen wollen. Bei ihren Entscheidungen scheinen auch ganz aktuelle Geschehnisse eine Rolle zu spielen.

    Der Wohnort spielt eine Rolle – und wie die Eltern wählen

    Lutz, 14, wählt die FDP: „Die Grünen haben mich mit ihrer Entscheidung bezüglich Lützerath zutiefst enttäuscht und ich will ihnen keine Stimme geben, bis sie diesen innerparteilichen Streit geklärt haben.“

    Pia, 15, wählt die FDP: „Ich würde eher die FDP wählen, da mir eine Partei lieber ist, die sich um den Wohlstand und die soziale Gerechtigkeit kümmert, als eine, die sich nur um ein Thema kümmert, das außer Reichweite liegt.“
    Frida, 16, wählt die Grünen: „Prinzipiell keine von beiden Parteien, aber im Vergleich auf jeden Fall die Grünen, da die FDP in der Regierung nur im Weg steht.“

    Ich persönlich möchte mich momentan auf keine der beiden Parteien festlegen, im Grunde bin ich jedoch eher ein Grünen-Wähler, da meine Eltern auch eher die Grünen als die FDP wählen. Ich merke, dass dies auch auf meine Freunde zutrifft: Wenn die Eltern ihre Stimme einer bestimmten Partei geben, tun es meistens auch ihre Kinder. Und auch der Wohnort meiner Freunde scheint eine Rolle zu spielen. Diejenigen, die in den äußeren Bezirken von Berlin leben, etwa in Grunewald oder Zehlendorf, wählten häufiger die FDP. Und die, die eher im Stadtzentrum wohnen, tendieren zu den Grünen.

    Letztendlich denke ich, dass es in beiden Lagern eine gesunde Mischung aus Vision und Vorsicht gibt. Ich hoffe, dass sich daher alle in meiner Generation weiterhin ihre eigene Meinung bilden können, sich nicht von der Mehrheit unbedacht mitreißen oder sich gar politisch manipulieren lassen. Denn ohne die Möglichkeit, sich eine eigene politische Meinung zu bilden, die früheren Generationen häufig fehlte, besteht die Gefahr, dass unsere Demokratie zugrunde geht.

    Mitarbeit: Ludwig Sohn

    Hinweis: Dante Gutiérrez Janssen absolviert ein Schülerpraktikum im Lokalteil der Berliner Zeitung. Dieser Text ist im Rahmen des Praktikums entstanden.

    #Berlin #Prenzlauer_Berg #jeunesse #politique #jeunesse_dorée

  • La mésinformation scientifique des jeunes à l’heure des réseaux sociaux - Fondation Jean-Jaurès
    https://www.jean-jaures.org/publication/la-mesinformation-scientifique-des-jeunes-a-lheure-des-reseaux-sociaux

    À l’heure où TikTok s’impose comme le réseau social préféré des jeunes français, que sait-on de l’impact de cette plateforme sur ses utilisateurs, qui sont de plus en plus nombreux à l’utiliser pour se divertir, mais aussi pour s’informer ? François Kraus livre son analyse d’une enquête qui fait le point sur le sujet ; elle est suivie des points de vue de Rudy Reichstadt et de Helen Lee Bouygues.

    #EMI #Sciences #ReseauxSociaux #Jeunesse #Information #CDI

  • cool Stages de jeûne : Le Monde ouvre la porte aux dérives – L’Extracteur
    https://www.lextracteur.fr/stages-de-jeune-le-monde-ouvre-la-porte-aux-derives

    Dans son supplément, #Le Monde_Magazine étale sur sept pages une sorte de publicité gé(n)ante pour le #jeûne et la détox, le tout déguisé en un récit exalté par la plume de Raphaëlle Bacqué. Décryptons un peu ça.

    pas cool Un homme, se présentant comme « naturopathe », et son fils mis en examen après plusieurs morts
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/01/13/un-homme-se-presentant-comme-naturopathe-et-son-fils-mis-en-examen-apres-plu

    Selon le parquet de Tours, les stages de jeûne proposés par Eric Gandon consistaient « à ne pas absorber d’aliments solides durant une à plusieurs semaines sans qu’aucun suivi médical ne soit assuré ni prévu ».

    #naturopathie et patatras

    • de l’extracteur :

      Sans le vouloir, cet article illustre parfaitement une mutation que nous tentons souvent d’expliquer. Autrefois nées chez des marginaux, au sein de communautés loin du système, ces croyances et pratiques alternatives sont aujourd’hui devenues chic et tendance. On assiste à une gentrification de ces méthodes. Elles sont à la mode et toute la presse féminine et pseudo-scientifique les vante, mais il faut avoir le temps et les moyens financiers pour pouvoir montrer aux autres que l’on prend soin de soi, de son corps, de sa santé.

    • ah oui #Guy_Claude_Burger...

      gourou de l’instinctothérapie, qui sollicite à l’intention de ses disciples, les thèses freudiennes de l’enfant pervers polymorphe, pour justifier les parents incestueux : « Pourquoi ne laisserions-nous pas nos enfants exprimer les pulsions incestueuses de cette période œdipienne ? Le problème serait fondamentalement résolu ».

      #instinct

    • Le problème, c’est que ce format correspond en tout point à ce que les gens séduits par ces pratiques adorent : des expériences personnelles, à hauteur d’humain, du vécu, raconté avec le cœur. Les désinformateurs de la santé répètent d’ailleurs régulièrement de faire confiance à nos sens. Ils nous lancent souvent par défi : “Faites votre propre expérience de la santé, n’écoutez pas les scientifiques, les médecins ou les médias. Écoutez votre corps.”

    • Les nathuropathes souhaitent une réglementation plus stricte de leur profession
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/01/13/les-nathuropathes-souhaitent-une-reglementation-plus-stricte-de-leur-profess

      Soucieux de faire le tri dans ses rangs entre vrais praticiens et charlatans, le secteur de la naturopathie a, par la voix de son Syndicat des professionnels de la naturopathie (SPN), appelé l’Etat à réglementer la profession, vendredi 13 janvier.
      Le syndicat, qui revendique 3 300 adhérents sur 6 500 naturopathes répertoriés en France, demande à l’Etat d’« agir vite pour faire reconnaître le métier », avec, entre autres mesures, la mise en œuvre de « titres certifiés », selon un communiqué.
      « Il y a du ménage à faire, c’est évident. Nous avons déjà alerté sur des organismes de formation qui ne sont pas assez exemplaires sur l’éthique de notre métier », souligne Alexandra Attalauziti, la présidente du SPN, citée dans le communiqué. « Nous voulons réguler, organiser, écrémer, c’est une urgence. Nous devons travailler de concert avec les autorités compétentes pour que la naturopathie soit reconnue comme une pratique de la prévention, complémentaire à notre médecine », ajoute Mme Attalauziti.

      #naturopathie

    • Si on me demande je te réglemente ça très simplement : interdiction des naturopathes. Mais ils sont malins là, virer les plus dingues d’entre eux pour conserver la manne et apparaître comme respectables... Ça a marché pour l’ostéopathie, pourquoi pas pour eux ?

  • Juin 2022, Les quartiers populaires au prisme de la jeunesse | Radio nomade [podcast autour du livre « Jeunes de quartier »]
    http://www.radionomade.fr/juin-2022-les-quartiers-populaires-au-prisme-de-la-jeunesse

    Invité(e)s : Marie-Hélène Bacqué, sociologue, professeure d’études urbaines à l’Université Paris Nanterre, à l’origine avec Jeanne Demoulin, professeur en sciences de l’éducation, du projet de recherche participative Pop Part. Fanny Salane, maîtresse de conférence en science de l’éducation également à l’Université Paris Nanterre, et participante sur le projet Pop Part, Thibaut Noël, jeune habitant de Pantin, membre du collectif Traces d’aide à l’accueil des populations exilées, Mira Hannachi, jeune habitante de Nanterre, Karim Yazi, responsable du Kygel Théâtre, Guy Lafrance, du Kygel théâtre, metteur en scène du spectacle “Vivaces”, monté à partir de textes tirés du livre et du site “Jeunes de quartier, le pouvoir des mots”, résultat de la recherche participative Pop Part.

    Qu’est-ce qu’être jeune d’un quartier populaire ? À quelle expérience sociale, urbaine, familiale, à quelles visions de sa place dans la société et dans le territoire cela renvoie-t-il ?

    Ces questions ont guidé la recherche participative Pop-Part conduite dans dix villes ou quartiers de l’Île-de-France et associant 120 jeunes, une quinzaine de professionnels de la jeunesse et une quinzaine de chercheur(e)s appartenant à différentes disciplines : sociologie, science de l’éducation, Histoire, géographie, urbanisme… ainsi que certains étudiants de ces mêmes disciplines….

    Pourquoi une telle recherche ? Quelle en est la motivation ? Quels objectifs se donnent-elle ? mais aussi comment cette démarche s’est-elle construite ? Sur quels territoires ? quartiers ? A partir de quels choix ? Voilà quelques unes des premières questions que nous pourrons poser à nos invités.

    Mais finalement y-a-t-il une spécificité du vécu des jeunes des quartiers populaires au regard de la jeunesse en général ? Qu’est-ce que le lien entretenu avec leur quartier spécifique révèle sur des sujets aussi divers que l’engagement, les médias, les filles et les garçons, le changement urbain, la politique, le sport, l’Histoire, les discriminations, la culture… 27 sujets ont ainsi été abordés dans cette recherche, regroupés sous la forme d’un abécédaire. Finalement y-a-t-il un vécu commun à la jeunesse des quartiers populaires tout en partageant dans le même temps les questionnements propres à toute la jeunesse ? Les chercheuses Marie-Hélène Bacqué, et Fanny Salane et les jeunes participant(e)s Thibaut Noël et Mira Hannachi, de cette recherche pourront répondre à nos interrogations.

    Enfin suite à la publication en 2021 de cette recherche sous la forme d’un livre et d’un site intitulés “Jeunes de quartier, le pouvoir des mots”, la compagnie Kygel Théâtre s’est emparée d’un ensemble de textes de cet ouvrage, pour monter le spectacle “Vivaces”, dont les représentations ont commencé en avril 2022. Karim Yazi, responsable du Kygel Théâtre et Guy Lafrance, metteur en scène du spectacle nous raconterons leur travail autour de ces textes et la rencontre du spectacle avec son public.

    #Jeunes_de_quartier #Marie_Hélène_Bacqué #Jeanne_Demoulin

  • ‘Luddite’ Teens Don’t Want Your Likes
    https://www.nytimes.com/2022/12/15/style/teens-social-media.html

    Dec. 15, 2022 - When the only thing better than a flip phone is no phone at all.

    “When I got my flip phone, things instantly changed,” a Luddite Club member said. “I started using my brain.”Credit...Scott Rossi for The New York Times

    On a brisk recent Sunday, a band of teenagers met on the steps of Central Library on Grand Army Plaza in Brooklyn to start the weekly meeting of the Luddite Club, a high school group that promotes a lifestyle of self-liberation from social media and technology. As the dozen teens headed into Prospect Park, they hid away their iPhones — or, in the case of the most devout members, their flip phones, which some had decorated with stickers and nail polish.

    They marched up a hill toward their usual spot, a dirt mound located far from the park’s crowds. Among them was Odille Zexter-Kaiser, a senior at Edward R. Murrow High School in Midwood, who trudged through leaves in Doc Martens and mismatched wool socks.

    “It’s a little frowned on if someone doesn’t show up,” Odille said. “We’re here every Sunday, rain or shine, even snow. We don’t keep in touch with each other, so you have to show up.”

    After the club members gathered logs to form a circle, they sat and withdrew into a bubble of serenity.

    Some drew in sketchbooks. Others painted with a watercolor kit. One of them closed their eyes to listen to the wind. Many read intently — the books in their satchels included Dostoevsky’s “Crime and Punishment,” Art Spiegelman’s “Maus II” and “The Consolation of Philosophy” by Boethius. The club members cite libertine writers like Hunter S. Thompson and Jack Kerouac as heroes, and they have a fondness for works condemning technology, like “Player Piano” by Kurt Vonnegut. Arthur, the bespectacled PBS aardvark, is their mascot.

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    Three teenagers sit in a woodsy portion of Prospect Park with their books. Two of them are reading and one is looking off into the distance.
    Clementine Karlin-Pustilnik, Odille Zexter-Kaiser and Jameson Butler at a recent gathering of the Luddite Club in Prospect Park in Brooklyn.

    “Lots of us have read this book called ‘Into the Wild,’” said Lola Shub, a senior at Essex Street Academy, referring to Jon Krakauer’s 1996 nonfiction book about the nomad Chris McCandless, who died while trying to live off the land in the Alaskan wilderness. “We’ve all got this theory that we’re not just meant to be confined to buildings and work. And that guy was experiencing life. Real life. Social media and phones are not real life.”

    “When I got my flip phone, things instantly changed,” Lola continued. “I started using my brain. It made me observe myself as a person. I’ve been trying to write a book, too. It’s like 12 pages now.”

    Briefly, the club members discussed how the spreading of their Luddite gospel was going. Founded last year by another Murrow High School student, Logan Lane, the club is named after Ned Ludd, the folkloric 18th-century English textile worker who supposedly smashed up a mechanized loom, inspiring others to take up his name and riot against industrialization.

    “I just held the first successful Luddite meeting at Beacon,” said Biruk Watling, a senior at Beacon High School in Manhattan, who uses a green-painted flip phone with a picture of a Fugees-era Lauryn Hill pasted to it.

    “I hear there’s talk of it spreading at Brooklyn Tech,” someone else said.

    A few members took a moment to extol the benefits of going Luddite.

    Jameson Butler, a student in a Black Flag T-shirt who was carving a piece of wood with a pocketknife, explained: “I’ve weeded out who I want to be friends with. Now it takes work for me to maintain friendships. Some reached out when I got off the iPhone and said, ‘I don’t like texting with you anymore because your texts are green.’ That told me a lot.”

    Vee De La Cruz, who had a copy of “The Souls of Black Folk” by W.E.B. Du Bois, said: “You post something on social media, you don’t get enough likes, then you don’t feel good about yourself. That shouldn’t have to happen to anyone. Being in this club reminds me we’re all living on a floating rock and that it’s all going to be OK.”

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    The Luddite Club has been gathering once a week in Prospect Park. “It’s a little frowned on if someone doesn’t show up,” one member said.

    A few days before the gathering, after the 3 p.m. dismissal at Murrow High School, a flood of students emerged from the building onto the street. Many of them were staring at their smartphones, but not Logan, the 17-year-old founder of the Luddite Club.

    Down the block from the school, she sat for an interview at a Chock full o’Nuts coffee shop. She wore a baggy corduroy jacket and quilted jeans that she had stitched herself using a Singer sewing machine.

    “We have trouble recruiting members,” she said, “but we don’t really mind it. All of us have bonded over this unique cause. To be in the Luddite Club, there’s a level of being a misfit to it.” She added: “But I wasn’t always a Luddite, of course.”

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    Logan Lane, the club’s founder, in her room. The movement she started at Murrow High School in Brooklyn has spread to other New York schools.

    It all began during lockdown, she said, when her social media use took a troubling turn.

    “I became completely consumed,” she said. “I couldn’t not post a good picture if I had one. And I had this online personality of, ‘I don’t care,’ but I actually did. I was definitely still watching everything.”

    Eventually, too burned out to scroll past yet one more picture-perfect Instagram selfie, she deleted the app.

    “But that wasn’t enough,” she said. “So I put my phone in a box.”

    For the first time, she experienced life in the city as a teenager without an iPhone. She borrowed novels from the library and read them alone in the park. She started admiring graffiti when she rode the subway, then fell in with some teens who taught her how to spray-paint in a freight train yard in Queens. And she began waking up without an alarm clock at 7 a.m., no longer falling asleep to the glow of her phone at midnight. Once, as she later wrote in a text titled the “Luddite Manifesto,” she fantasized about tossing her iPhone into the Gowanus Canal.

    While Logan’s parents appreciated her metamorphosis, particularly that she was regularly coming home for dinner to recount her wanderings, they grew distressed that they couldn’t check in on their daughter on a Friday night. And after she conveniently lost the smartphone they had asked her to take to Paris for a summer abroad program, they were distraught. Eventually, they insisted that she at least start carrying a flip phone.

    “I still long to have no phone at all,” she said. “My parents are so addicted. My mom got on Twitter, and I’ve seen it tear her apart. But I guess I also like it, because I get to feel a little superior to them.”

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    Odille, Clementine, Jameson, Logan and Max Frackman on the way to their weekly meeting.

    At an all-ages punk show, she met a teen with a flip phone, and they bonded over their worldview. “She was just a freshman, and I couldn’t believe how well read she was,” Logan said. “We walked in the park with apple cider and doughnuts and shared our Luddite experiences. That was the first meeting of the Luddite Club.” This early compatriot, Jameson Butler, remains a member.

    When school was back in session, Logan began preaching her evangel in the fluorescent-lit halls of Murrow. First she convinced Odille to go Luddite. Then Max. Then Clem. She hung homemade posters recounting the tale of Ned Ludd onto corridors and classroom walls.

    At a club fair, her enlistment table remained quiet all day, but little by little the group began to grow. Today, the club has about 25 members, and the Murrow branch convenes at the school each Tuesday. It welcomes students who have yet to give up their iPhones, offering them the challenge of ignoring their devices for the hourlong meeting (lest they draw scowls from the die-hards). At the Sunday park gatherings, Luddites often set up hammocks to read in when the weather is nice.

    As Logan recounted the club’s origin story over an almond croissant at the coffee shop, a new member, Julian, stopped in. Although he hadn’t yet made the switch to a flip phone, he said he was already benefiting from the group’s message. Then he ribbed Logan regarding a criticism one student had made about the club.

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    A poster for the Luddite Club in Logan Lane’s room featuring the club’s slogan “Don’t be a phoney.”

    “One kid said it’s classist,” he said. “I think the club’s nice, because I get a break from my phone, but I get their point. Some of us need technology to be included in society. Some of us need a phone.”

    “We get backlash,” Logan replied. “The argument I’ve heard is we’re a bunch of rich kids and expecting everyone to drop their phones is privileged.”

    After Julian left, Logan admitted that she had wrestled with the matter and that the topic had spurred some heated debate among club members.

    “I was really discouraged when I heard the classist thing and almost ready to say goodbye to the club,” she said. “I talked to my adviser, though, and he told me most revolutions actually start with people from industrious backgrounds, like Che Guevara. We’re not expecting everyone to have a flip phone. We just see a problem with mental health and screen use.”

    Logan needed to get home to meet with a tutor, so she headed to the subway. With the end of her senior year in sight, and the pressures of adulthood looming, she has also pondered what leaving high school might mean for her Luddite ways.

    “If now is the only time I get do this in my life, then I’m going to make it count,” she said. “But I really hope it won’t end.”

    On a leafy street in Cobble Hill, she stepped into her family’s townhouse, where she was greeted by a goldendoodle named Phoebe, and she rushed upstairs to her room. The décor reflected her interests: There were stacks of books, graffitied walls and, in addition to the sewing machine, a manual Royal typewriter and a Sony cassette player.

    In the living room downstairs, her father, Seth Lane, an executive who works in I.T., sat beside a fireplace and offered thoughts on his daughter’s journey.

    “I’m proud of her and what the club represents,” he said. “But there’s also the parent part of it, and we don’t know where our kid is. You follow your kids now. You track them. It’s a little Orwellian, I guess, but we’re the helicopter parent generation. So when she got rid of the iPhone, that presented a problem for us, initially.”

    He’d heard about the Luddite Club’s hand-wringing over questions of privilege.

    “Well, it’s classist to make people need to have smartphones, too, right?” Mr. Lane said. “I think it’s a great conversation they’re having. There’s no right answer.”

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    “To be in the Luddite Club, there’s a level of being a misfit to it,” Logan said .

    A couple days later, as the Sunday meeting of the Luddite Club was coming to an end in Prospect Park, a few of the teens put away their sketchbooks and dog-eared paperbacks while others stomped out a tiny fire they had lit. It was the 17th birthday of Clementine Karlin-Pustilnik and, to celebrate, the club wanted to take her for dinner at a Thai restaurant on Fort Hamilton Parkway.

    Night was falling on the park as the teens walked in the cold and traded high school gossip. But a note of tension seemed to form in the air when the topic of college admissions came up. The club members exchanged updates about the schools they had applied to across the country. Odille reported getting into the State University of New York at Purchase.

    “You could totally start a Luddite Club there, I bet,” said Elena Scherer, a Murrow senior.

    Taking a shortcut, they headed down a lonely path that had no park lamps. Their talk livened when they discussed the poetry of Lewis Carroll, the piano compositions of Ravel and the evils of TikTok. Elena pointed at the night sky.

    “Look,” she said. “That’s a waxing gibbous. That means it’s going to get bigger.”

    As they marched through the dark, the only light glowing on their faces was that of the moon.

    Images by Scott Rossi for The New York Times

    #USA #New_York #jeunesse #culture #techno-scepticisme

  • #Suisse : Hausse sans précédent des troubles mentaux chez les jeunes filles ats/vajo - RTS
    https://www.rts.ch/info/suisse/13620818-hausse-sans-precedent-des-troubles-mentaux-chez-les-jeunes-filles.html

    La santé mentale des jeunes a beaucoup souffert durant les années de pandémie, surtout côté féminin. Entre 2020 et 2021, les hospitalisations des filles et jeunes femmes de 10 à 24 ans pour troubles mentaux et du comportement a bondi de 26%.

    Chez les plus jeunes filles de 10 à 14 ans, la hausse a même atteint 52% entre 2020 et 2021, a annoncé lundi l’Office fédéral de la statistique. La poussée a été plus contenue côté masculin. Chez les hommes âgés entre 10 et 24 ans, elle a atteint 6%.

    Les troubles mentaux constituent pour la première fois la première cause des hospitalisations des 10 à 24 ans, avec 19’532 cas, devant les blessures (19’243 cas), précise l’OFS.

    Troubles dépressifs en forte hausse
    En 2020, lors de la première année de pandémie de Covid-19, les troubles qui ont le plus fortement émergé sont les troubles de l’humeur (dépressions essentiellement) chez les jeunes femmes (+14%) et ceux liés à l’utilisation de substances psychoactives chez les jeunes hommes (+8%).

    En 2021, les jeunes hommes ont à leur tour connu une augmentation importante des troubles de l’humeur (+14%), tandis que les jeunes femmes enregistraient pour le même diagnostic une hausse exceptionnelle de 42%.

    Les cas de troubles névrotiques, survenant en présence d’un facteur de stress, ont surtout augmenté en 2021 (+22% chez les jeunes femmes, +13% chez les jeunes hommes). La catégorie regroupant les autres troubles, comprenant les troubles de la personnalité et ceux de l’alimentation, a crû en 2021 de 24% chez les jeunes femmes.

    Les jeunes femmes davantage concernées
    En 2021, on a enregistré 3124 hospitalisations de jeunes de 10-24 ans dues à des lésions auto-infligées ou tentatives de suicide, ce qui représente une hausse de 26% par rapport à 2020.

    Et 70% de ces hospitalisations sont attribuées à des patientes de sexe féminin. Les jeunes femmes de 15 à 19 ans ont été les plus nombreuses à avoir commis un acte auto-agressif (1240 cas en 2021), mais ce sont les filles de 10 à 14 ans qui ont connu la plus forte augmentation (+60%). Avec 458 cas en 2021, les filles de 10 à 14 ans ont été onze fois plus souvent hospitalisées pour ce motif que les garçons du même âge.

    Record de nouveaux cas
    Les 20’000 hospitalisations pour troubles mentaux recensées en 2021 sont attribuées à 12’923 personnes de 10 à 24 ans, dont 30% ont effectué plus d’un séjour en cours d’année. Parmi ces quelque 13’000 personnes, presque la moitié d’entre elles (6465) n’avaient jamais été hospitalisées auparavant en raison de troubles psychiques.

    Ce nombre de premières hospitalisations est de 29% supérieur à celui enregistré en 2020, soit très en dessus de la progression annuelle moyenne de 6% pour les années 2016 à 2020.

    Une intervention de crise, correspondant à une prise en charge rapide du patient ou de la patiente en proie à une souffrance psychique aiguë, a été nécessaire dans 34% des cas. Les séjours hospitaliers ont duré 27 jours en moyenne.

    Traitements ambulatoires aussi en augmentation
    Le nombre de traitements ambulatoires psychiatriques, prodigués à l’hôpital mais sans hospitalisation, a également connu chez les 10-24 ans une hausse soutenue, de 4% en 2020, puis de 16% en 2021.

    Au total, 55’825 jeunes de 10 à 24 ans ont eu recours auprès d’un hôpital à au moins une prestation ambulatoire en psychiatrie en 2021. Ils ont occasionné 27% de toutes les consultations psychiatriques ambulatoires dans les hôpitaux.

    Dans le domaine ambulatoire comme dans le stationnaire, ce sont parmi la population en général les jeunes femmes de 15 à 19 ans qui ont le plus sollicité de soins psychiatriques en 2021.

    #Jeunes_filles #soins_psychiatriques #psychiatrie #confinement #enfermement #Covid-19, #santé_mentale #hospitalisations #souffrance_psychique #Hôpitaux #suicide

  • La Fin des rois

    « Il n’y a pas de papa ? » Des femmes isolées espèrent un habitat digne pour leurs familles, la mairie les aide comme elle peut. Des footeuses préparent un tournoi à Clairefontaine, temple du football masculin. Des lycéens inventent un spectacle de théâtre autour de l’assassinat de Chilpéric dans la forêt voisine ; ils font des personnages féminins les moteurs de la pièce. Des enfants naissent, les filles et les garçons de demain.
    Portrait de Clichy-sous-Bois en 2019, La Fin des rois raconte l’état et les évolutions du rapport de genres dans une ville de grande banlieue.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/64317_0
    #film #documentaire #film_documentaire
    #Clichy-sous-bois #banlieue #France #jeunes #genre

  • Beschreibung eines Sommers - 1962
    https://www.youtube.com/watch?v=tdiVR1859dM

    C’est la chronique d’un été socialiste d’après le livre du même titre dont 500.000 exemplaires ont été vendu entre 1961 et 2008.

    Beschreibung eines Sommers ist ein deutscher Liebesfilm der DEFA von Ralf Kirsten aus dem Jahr 1962. Er entstand nach dem gleichnamigen Roman von Karl-Heinz Jakobs.

    Produktionsland DDR
    Originalsprache Deutsch
    Erscheinungsjahr 1962
    Länge 80 Minuten
    Stab
    Regie Ralf Kirsten
    Drehbuch Gudrun Deubener
    Produktion DEFA, Künstlerische Arbeitsgruppe „60“
    Musik Wolfgang Lesser
    Kamera Hans Heinrich
    Schnitt Christel Röhl
    Besetzung
    Manfred Krug: Tom Breitsprecher
    Christel Bodenstein: Grit
    Günther Grabbert: Schibulla
    Johanna Clas: Lilo
    Marita Böhme: Regine
    Peter Reusse: Dschick
    Horst Jonischkan: Grell
    Erik Veldre: Kamernnus
    Hans-Peter Reinicke: Tenser
    Ernst Forstreuter: Jugendlicher
    Heinz Lyschik: Jugendlicher
    Liska Merbach: Wirtin
    Helga von Wangenheim-Haeussler: Mädchen in der Bar
    Achim Wenk: Jugendlicher

    https://de.wikipedia.org/wiki/Beschreibung_eines_Sommers

    #DDR #film #jeunesse

  • Recherche Pop-Part - La recherche action participative : une démarche d’éducation populaire ?
    https://www.education-populaire.fr/recherche-pop-part-la-recherche-action-participative-une-demarch

    De 2017 à 2021, la recherche action participative « Les quartiers populaires au prisme de la jeunesse » (surnommé « Pop-Part ») a amené 120 jeunes (15-34 ans) habitants de 10 quartiers populaires d’Île-de-France, une quinzaine de professionnel·les de la jeunesse, et une quinzaine de chercheur·euses de différentes disciplines, à travailler ensemble pour mieux comprendre les réalités derrière l’expression stigmatisante de « jeunes de quartier ».

    En découvrant les multiples productions de cette recherche (ouvrage, site Internet, capsules vidéos, documentaire, pièce de théâtre, podcasts), j’ai été réellement enthousiasmée de sentir comment les jeunes ayant pris part à cette recherche ont été au cœur de la démarche, comment iels n’en ont pas été les objets, mais bien les co-producteur·ices. Il me semble que ces jeunes en tirent réellement quelque chose pour leur vie et leur futur, et pas seulement pour la science. Et cela m’a beaucoup touchée.

    Comme toutes les catégories minorisées ou stigmatisées, les « jeunes de quartier » ont peu de prise sur les représentations qui sont données d’elleux. Iels font l’objet de discours mais n’ont pas le droit à la parole. C’est pourquoi pour faire cette recherche, Jeanne Demoulin et Marie-Hélène Bacqué, les deux chercheuses à l’origine de cette démarche, ont souhaité faire de la recherche autrement.

    C’est ce travail qui a donné lieu à la publication de l’abécédaire « Jeunes de quartier – Le pouvoir des mots ». De « discrimination » à « Engagement », en passant par « Maraudes » ou « Médias », ce sont les jeunes ont elleux-mêmes qui choisi les mots qui leur semblaient significatifs. Et, à la surprise des chercheur·euses, iels ont écarté le mot « inégalités ».

    #Jeunes_de_quartier

  • Lu / Jeunes de quartier : le pouvoir des mots, par le Collectif POP-Part, Marie-Hélène Bacqué et Jeanne Demoulin (eds) : Urbanités
    https://www.revue-urbanites.fr/lu-benit-gbaffou-pop-part

    Ce livre, issu d’une recherche participative entre un groupe de chercheurs pluridisciplinaire (sociologie, histoire, géographie, sciences de l’éducation, urbanisme et architecture), des structures associatives diverses situées dans une dizaine de quartiers populaires de la région parisienne, et d’une centaine de jeunes habitant ces quartiers et fréquentant ces structures, est d’abord un très joli objet. Construit sous la forme d’un abécédaire, qui prend au sérieux les mots du quotidien et fait figurer l’entrée « Kebab » à côté de « Discriminations », fait un sort au « Sport » autant qu’aux « Origines », surgir « Grands/Petits » à côté de la plus classique « Famille », le livre regorge de surprises, ne prenant pas prétexte de la profondeur du propos pour manquer d’humour ou bouder l’accessibilité. Il s’accompagne, réalité augmentée au sens propre1, d’éclairantes et brèves capsules vidéo, réalisées par les jeunes, et qui ancrent les récits, débats et analyses qui font le corps du livre dans l’espace diversifié des quartiers populaires qui en sont l’objet. Cet ouvrage réussit le pari difficile de la polyphonie, où l’écho entre les récits, l’entremêlement des modes d’écriture (témoignages, réflexions, débats, analyses, images, fiction, poésie), le kaléidoscope des regards sur chaque objet (chercheurs, éducateurs et jeunes), et le plaisir de débattre semblent une évidence derrière une construction évidemment très réfléchie – dont l’échafaudage mériterait d’ailleurs un second livre, un making off (j’y reviendrai).

    Je réfléchirai ici aux deux objectifs centraux du livre, et du projet de recherche (l’ANR POP-Part) dont il est un des aboutissements. Le premier, affiché dans l’introduction, est l’ambition de bousculer les idées reçues sur les « jeunes des quartiers », en donnant la parole aux principaux intéressés, pour une fois. Le second, tout à la fois dans l’air du temps de la « science citoyenne et participative » et original dans la production scientifique française, explicite dans le projet et plus implicite dans le contenu et la facture du livre, est pour le chercheur de tenir le défi « d’écrire avec » les groupes sociaux qu’il étudie, sans perdre en chemin l’ambition scientifique du propos.

    #Jeunes_de_quartier #Jeanne_Demoulin #Marie_Hélène_Bacqué

  • VIVACES Jeunes de quartier, le pouvoir des mots Le Nouveau CAP Aulnay-sous-Bois vendredi 2 décembre 2022
    https://www.unidivers.fr/event/le-nouveau-cap-aulnay-sous-bois-2022-12-02t1400000100

    Création théâtrale issue du travail de recherche POP-PART qui met en scène quelques extraits de l’ouvrage collectif « Jeunes de quartier, le pouvoir des mots » coordonnée par Marie-Hélène Bacqué et Jeanne Demoulin (enseignantes – chercheuses), et co-écrit par des jeunes, des professionnels et des chercheurs.
    L’idée étant de donner une représentation « plus juste et plus étoffée du monde » et de dépasser le double écueil auquel sont confrontés les jeunes des quartiers populaires : d’un côté une vision d’en haut, contribuant parfois à la stigmatisation, de l’autre une forme de romantisme naïf.
    + d’infos : https://jeunesdequartier.fr

    Rencontre – débat à l’issue de la représentation en présence de Marie-Hélène Bacqué et Jeanne Demoulin (enseignantes – chercheuses Université de Nanterre)
    Modérateur : Mohammed Ouaddane, Inter-Réseaux Mémoires-Histoires

    #Jeunes_de_quartier #Vivace #Théâtre

  • Un vent de révolte venu d’Iran https://www.lutte-ouvriere.org/editoriaux/un-vent-de-revolte-venu-diran-434404.html (éditorial des bulletins d’entreprises #Lutte_ouvrière #LO

    Depuis le décès de #Mahsa_Amini, torturée et assassinée par la police des mœurs de Téhéran parce qu’une mèche de cheveux dépassait de son voile, la jeunesse fait souffler un vent de révolte sur l’#Iran. Et avec quel courage !

    Des jeunes femmes arrachent et brûlent leur voile ; les rassemblements se multiplient, aux cris de « Femmes, vie, liberté », « Mort au dictateur » ; le portrait du dictateur Khamenei est caillassé ; des mollahs sont bousculés dans la rue, des policiers attaqués et des commissariats brûlés…

    Il n’y a pas une région, une ville, une université qui n’ait été touchée par cette rébellion.

    Les rassemblements sont dispersés ? La police ferme une faculté et écume un quartier ? La contestation se déplace, change de forme, se démultiplie en mille et une démonstrations individuelles. Et cela dure depuis plus de 50 jours, malgré la peur, les tabassages et les tirs à balles réelles contre les manifestants.

    Le régime aurait déjà arrêté plus de 14 000 manifestants et tué plus de 300 personnes, dont beaucoup de très jeunes. Mais rien n’arrête la contestation. Celle-ci trouve, chaque jour, de nouveaux appuis avec des personnalités sportives, des artistes ou des journalistes qui franchissent le Rubicon en se solidarisant avec la révolte. Dans les villes, les fermetures de magasins ou de lieux culturels se sont multipliées. C’est vrai dans toutes les régions, qu’elles soient kurdes, baloutches, arabes, perses, azéries, turkmènes.

    Des #grèves de soutien ont aussi éclaté dans les régions pétrolifères et dans de grandes entreprises où les travailleurs ont des traditions de lutte anciennes. Là, des #travailleurs ont revendiqué, en plus de la liberté, du pain et du travail. Car, si l’inflation, les pénuries, le chômage et les salaires impayés sont le quotidien de millions d’Iraniens depuis des années, ces difficultés sont devenues insupportables.

    Pour des millions de familles, il est impossible de se soigner, de se loger dignement, d’acheter de la viande ou simplement des œufs. Cette situation est en partie causée par l’embargo imposé par l’impérialisme américain, mais elle est aggravée par le parasitisme des dignitaires du régime, religieux et pasdarans, l’armée des ayatollahs. Car, si la population s’enfonce dans la #misère, une minorité continue de s’enrichir et de rouler sur l’or.

    L’Iran est un baril de poudre. Ces dernières années, le régime a fait face à de puissantes vagues de contestation contre la vie chère et la corruption. Sa réponse fut une répression impitoyable. Aujourd’hui, cette politique de la terreur ne fonctionne plus. Alors, la révolte de la #jeunesse se transformera-t-elle en #révolte_sociale ?

    Les dizaines de milliers de manifestants actuels deviendront-ils des millions ? Les travailleurs apporteront-ils à la révolte leur puissance sociale et leur capacité d’organisation ? Sauront-ils proposer une politique pour renverser le régime et mener une nouvelle révolution, où les classes populaires construiraient elles-mêmes leur propre pouvoir ? Tant que la révolte est en marche, tout est possible.

    La jeunesse iranienne a osé engager le combat contre une des pires dictatures de la planète. Le changement n’est venu ni de l’opposition interne au régime, ni des grandes puissances qui gardent depuis deux mois un silence complice et montrent, une fois de plus, qu’elles ne sont jamais du côté des révoltes populaires. Il est venu d’en bas, de celles et ceux qui refusent de se soumettre.

    Cette révolte montre aux opprimés du monde entier qu’ils peuvent prendre leur destin en main en se battant contre ceux qui les dominent.

    Chaque pays a ses particularités, mais le cœur de la jeunesse et des travailleurs de tous les pays bat au même rythme et aux mêmes espoirs : la liberté, l’égalité et la possibilité de s’épanouir dans un monde fraternel.

    Ces aspirations sont entravées par un système de domination : domination des pays riches sur les pays pauvres, celle des riches sur les pauvres. Un tel système doit être renversé et il le sera, parce qu’en même temps qu’il sème les injustices, il produit des révoltés.

    Il est impossible de savoir ce qui peut, dans tel ou tel pays, mettre le feu aux poudres. En Iran, cela a été une mèche de cheveux rebelle. Ailleurs, ce sera peut-être le manque de blé ou une atrocité guerrière. Une chose est certaine, les travailleurs ont un rôle majeur à jouer dans ces révoltes, car ils sont les seuls à être porteurs d’un ordre social débarrassé de l’exploitation de l’homme par l’homme. Et pour ce combat, ils ont besoin du courage incroyable dont la jeunesse iranienne fait preuve aujourd’hui .

  • The Radical Imagination of Mike Davis
    https://jacobin.com/2022/11/mike-davis-southern-california-capitalism-struggle

    When Mike Davis died last month, he was a celebrity, but hardly one drawn to his effervescent fame. City of Quartz, his surprise bestseller, won him an international audience in 1990. Davis later reported himself “utterly shocked” by the book’s success. Thereafter, he might have spent decades on the lecture circuit, but Davis plowed ahead, turning out one volume of Marxist-inflected social criticism after another, often contemplating an amazingly disparate set of apocalyptic challenges: climate change, world hunger, viral pandemics, and the rise of homegrown fascism.

    Je vous propose de lire l’extrait suivant de son introduction dans City of Quartz. On y découvre une comparaison statistique qui en dit long sur l’intensité de la violence à laquelle sont exposés les classes populaires du pays qui se réserve le droit exclusif de faire valoir ses intérêts manu militari .

    Homicide is still the largest single cause of death for children under eighteen in Los Angeles County. Years ago, I used the Sheriff Department’s ‘gang-related homicide’ data to estimate that some 10,000 young people had been killed in the L.A. area’s street wars, from the formation of the first Crips sets in 1973—4 until 1992. This, of course, is a fantastic, horrifying figure, almost three times the death toll of the so-called ‘Troubles’ in Northern Ireland over a roughly similar time span. It is even more harrowing when we consider that most of the homicides have been concentrated in a handful of police divisions. Add to the number of dead the injured and permanently disabled, as well as those incarcerated or on parole for gang-related violations, and you have a measure of how completely Los Angeles – its adult leaderships and elites – has betrayed several generations of its children.

    Cette brève mise en relation nous fait comprendre que ces films dits de suspence comme The Warriors et Assult on Precinct 13 constituent effectivement des reconstitutions dramaturgiques de la réalité vécue par nos amis étatsuniens.

    The Warriors
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/The_Warriors_(film)

    Assault on Precinct 13
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Assault_on_Precinct_13_(1976_film)

    On trouve les oeuvres de Mike Davis chez notre vendeur préféré de livres anglais et dans les bibliothèques clandestines de l’internet. Cet auteur exceptionnel nous indique toujours le chemin vers une compréhension des conditions d’existence sous l’impérialisme

    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Mike_Davis_(scholar)

    Books
    Nonfiction

    Prisoners of the American Dream: Politics and Economy in the History of the U.S. Working Class (1986, 1999, 2018)
    City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles (1990, 2006)
    Ecology of Fear: Los Angeles and the Imagination of Disaster (1998)
    Casino Zombies: True Stories From the Neon West (1999, German only)
    Magical Urbanism: Latinos Reinvent the U.S. Big City (2000)
    Late Victorian Holocausts: El Niño Famines and the Making of the Third World (2001)
    The Grit Beneath the Glitter: Tales from the Real Las Vegas, edited with Hal Rothman (2002)
    Dead Cities, And Other Tales (2003)
    Under the Perfect Sun: The San Diego Tourists Never See, with Jim Miller and Kelly Mayhew (2003)
    The Monster at Our Door: The Global Threat of Avian Flu (2005)
    Planet of Slums: Urban Involution and the Informal Working Class (2006)
    No One Is Illegal: Fighting Racism and State Violence on the U.S.-Mexico Border, with Justin Akers Chacon (2006)
    Buda’s Wagon: A Brief History of the Car Bomb (2007)
    In Praise of Barbarians: Essays against Empire (2007)
    Evil Paradises: Dreamworlds of Neoliberalism, edited with Daniel Bertrand Monk (2007)
    Be Realistic: Demand the Impossible (2012)
    Old Gods, New Enigmas: Marx’s Lost Theory (2018)
    Set the Night on Fire: L.A. in the Sixties, co-authored by Jon Wiener (2020)

    Fiction

    Land of the Lost Mammoths (2003)
    Pirates, Bats, and Dragons (2004)

    #USA #Los_Angeles #violence #jeunesse #marxisme #sciences #guerre

  • We Were Once Kids - Trailer
    https://www.dailymotion.com/video/x8b9ke5

    The cult film ‘Kids’ was a scandalous succes in 1995. But the semi-documentary about young, sex-crazed skaters in New York had big consequences for the cast, who finally speak out 25 years later.

    In 1995, everyone was talking about ‘Kids’. Larry Clarke’s semi-documentary about a group of young skaters in New York was an international scandal and a massive success, nominated for the Palme d’Or at Cannes and causing a furore for its transgressive portrayal of teenage sex, violence and drugs. 25 years later, the cast tell their own version of the story, and it’s not pretty. ‘We Were Once Kids’ is a tale of solidarity, delusion and exploitation. The young people were cast on the street for a film where few in the audience could tell reality from fiction. And once the film hit, it was too late to draw the lines.
    https://cphdox.dk/film/we-were-once-kids

    #larry_clark #heroin_chic #addiction #jeunes #cinema

    • W e Were Once Kids addresses the still tender and painful heart of the 1995 film’s aftermath, the deaths of Pierce and Hunter, who could be understood as best embodying the ethos portrayed in Kids. It conveys the difficulties that both of them, like other cast members, faced after the movie had been released: struggling with addiction and alcoholism while facing the challenge of maintaining authenticity after being made into an image, and navigating what must have felt like a make-believe world.

      https://www.artforum.com/print/202209/lila-lee-morrison-on-kids-and-the-surplus-of-the-image-89462

    • tiens c’est Disney qui a distribué Kids :
      https://www.nytimes.com/1995/05/24/style/IHT-kids-grabs-spotlight-at-cannes.html

      Ce qui a permis à Clark d’assurer que personne ne s’est vraiment drogué sur le tournage, et que tout les kids du film sont plus vieux que ce qu’ils ont l’air à l’écran.

      The director claimed that the kids on screen were older than they looked, and that none were doing drugs.He even got in a pitch for Disney, the distributor.

      J’ai tout de même littéralement adoré Whassup rockers à l’époque. Faudrait que je le revois.

      Ce qui est dingue c’est d’avoir aimé à ce point la vision de Clark sur les gamins. ça me fait beaucoup (re)penser à cette citation de Dworkin :

      « Parce que la plupart des adultes mentent aux enfants la plupart du temps, l’adulte pédophilique semble honnête, quelqu’un qui dit la vérité, le seul adulte justement, prêt à découvrir le monde et à ne pas mentir. »

      Un exemple :

      “Larry doesn’t do kids the way other people do,” said Fitzpatrick. “Larry knew early on that to make a film like this he needed to be on the inside of this sort of counterculture.” So at 50 years old Clark taught himself how to skateboard and hung around Washington Square Park everyday getting to know the kids. In Fitzpatrick’s opinion, that time commitment was absolutely necessary, because “teenagers don’t trust adults”, and it was the only way Clark could convince the skaters to take part in his film. “He knew that to get respect from these kids he would have to give them respect,” said Fitzpatrick. “Larry gave them respect and they trusted him to tell their story.”

      https://www.theguardian.com/film/2015/jun/22/harmony-korine-kids-20th-anniversary

    • Peu ont montré avec autant de réalisme le quotidien d’une certaine jeunesse
      Dans une interview pour le Guardian, Larry Clark a dit que le plus beau compliment qu’il n’ait jamais reçu venait d’un garçon qui a défini Kids en ces termes : ’’Ce n’était pas comme un film. C’était comme dans la vraie vie.’’

    • Tiens ils ont parlé du doc dans el pais :

      https://english.elpais.com/culture/2022-07-14/kids-the-indie-movie-sensation-with-a-darker-side.html

      In 2021, #Hamilton_harris – one of the boys featured in the film – participated in a documentary titled We were once kids, directed by Eddie Martin. Harris pursued this project after becoming alarmed when he discovered that a large part of the movie’s viewership mistakenly believed that they were watching a documentary.

      “My feelings towards the movie started to change after seeing the global reaction it got,” he told Variety. At the same time, he felt that the creators outside the group – Korine and director Larry Clark – failed to capture the strong sense of community that the teenagers had created. While the film reduced the existence of its protagonists to a devastating nihilism, the truth is that those kids – who used skateboarding as an outlet – had formed a family. They were protecting each other, escaping from homes where drug usage and violence were common. Carefree sex was not at the center of their lives: in fact, many of the protagonists were virgins.

      (...)

      The problematic part came with the female roles. When the women in the gang read the script, they refused to participate. It did not reflect the relationship of camaraderie that united them: it was simply a festival of sex and drugs, a film “about rape and misogyny” says Priscilla Forsyth, who ended up participating in a minor role with only one sentence for posterity (“I’ve fucked and I love to fuck”). On the other hand, the boys could be of non-normative beauty, but the girls chosen to star in the film included 15-year-old Rosario Dawson – whom Korine discovered in a social housing project where she lived with her grandmother – and Chlöe Sevigny, a New York club regular who, after being featured in two fashion editorials and a Sonic Youth video, had become the city’s great underground sensation.

      (...)

      The director of We were once kids does not point to a culprit, but hints that many powerful people made a fortune while the protagonists were exposed to the world with their allegedly amoral lifestyle.

    • On parlait de cette divergence, en 2015, dans le guardian :

      https://www.theguardian.com/film/2015/aug/19/kids-film-larry-clark-skateboarding-culture-new-york-east-coast-supreme

      High says the added storyline was a distortion: “The true story [of Kids] is about a bunch of kids who grew up with literally nothing,” she says. “We might have been from different areas and different races but we came from the same income bracket of broke. We learned how to take care of each other at a time that was one of the rougher periods in New York City’s history.

      “The film portrays segregation between girls and guys, which wasn’t reality. The main point [of the film] – the whole virgin-fucking, misogynistic thing – was not necessarily how we lived our lives.”

      (...)

      To Harris, the group was ahead of its time in a country mired in racism and recession. Intuitively post-racial in a colour-conscious society, the crew formed its own world around skateboarding despite being tethered to a socioeconomic bracket that deemed it invisible

      .

      Le sujet du film aurait pu être ça :

      “In the early 90s we were dealing with crack, the Aids epidemic, racism and all kinds of social injustices. We were totally aware of the social dynamic in the world around us. We were constantly trying to change that, and foster that change as an example,” he said

      En terme de révolution, une toute autre paire de manche...

    • (déso je spam un peu)

      Cette #ruse, de faire passer sa vision des choses pour des #preuves.

      https://www.theguardian.com/fashion/fashion-blog/2014/jun/25/larry-clark-t-shirts-dressing-young-teenagers

      Still, he rejects claims that his previous work is either exploitative or luridly voyeuristic: "I would go to these parties and see fucking, gangbanging and drugs. To me it’s historical evidence. I can only shoot what I see.

      “Back then it was a secret world but you know what? Kids was based on reality. That’s what these kids on the street tell me, they say: ’Larry that’s how it is.’ Personally, I feel there’s the argument that if it’s not documented, how would we know it’s going on at all?”

  • LIVING MEMORY
    Lila Lee-Morrison on Kids and the surplus of the image
    https://www.artforum.com/print/202209/lila-lee-morrison-on-kids-and-the-surplus-of-the-image-89462

    But while Clark’s photography falls within the genre of documentary in all these respects, the “truth” his images communicate is personal and deeply subjective. There is a tenderness toward the individuals he captures, no matter how brutal the content of their actions. These images and their aestheticization of the rawness of youth culture became central to the ’90s trend of “heroin chic.” Clark has said that he was addicted to heroin until 1998. As an addict, he was also an enabler of other people’s habits, including those of the teenage skateboarders he befriended and who worked on the film. As is not uncommon in the blur of addiction, he tried to get some individuals clean and sober while being unable to get clean and sober himself. Driven by his long-standing impulse to counteract the socially conservative denial of the experiences of young people, he wound up myopically projecting his concerns with addiction and teenage male sexuality onto the film’s subjects. In doing so, Clark identified with those subjects and, as he did in his photographs, created a world in which adults have no part to play except as voyeurs and adolescents make their own rules. With its polychrome palette, Kids departs dramatically from Clark’s previous black-and-white aesthetic, while the grim ambience of his still photography gives way to urban splendor and emotive close-ups. But the throughline is sustained. Here, as in his earlier work, the self-destructive and violent tendencies of his subjects form a narrative of trauma that is his own.tes her belief that Justin would still be alive if the movie had never been made.

    On the other hand, there is Clark’s focus on teenage boys as vectors of violence, sexual violence in particular. If the film were really honest, it would have been titled Boys. The narrative is driven by the motivation of the protagonist, Telly (played by Fitzpatrick), to “fuck virgins”; he calls himself the “virgin surgeon.” This plot was so ridiculous and contrary to reality that most of us just laughed at it at the time. It so obviously came from the mind of an adult. Every boy I knew was interested in experienced, if not older, sexual partners, not virgins. The “virgin surgeon” plot device underscored a narrative central to Clark’s own artistic vision, namely the destruction of innocence .

    ping @tintin
    #larry_clark #heroin_chic #addiction #jeunes #cinema

    • I DON’T REALLY TALK ABOUT KIDS. I had a very small part in the film, though it absorbed my whole life for a summer and more. I failed the audition for a part that was written for me. It was as one of the girls who makes out with another girl in a pool. Once I was actually standing in front of Harmony, Larry, and the casting director in the production offices in a building on the corner of Broadway and Houston, I felt a dissonance with my role in the script and the way girls’ roles in general were written. My speech, my behavior, my physical presence—my self—was something I couldn’t perform. I forgot all my lines. Afterward, I was awash with a sense of failure. I had failed at being myself. At seventeen, I found that feeling pretty familiar. I felt as awkward simulating a sex act as I did with the real thing. In the end, Carisa Glucksman and Michelle Lockwood played the girls in the pool.

      #chosification #réification #objectification #résistance (à)