«Proprio così! Sì, come su questa foto. Ci hanno legati al sedile dell’aereo e poi ci hanno messo in testa quello, sì, una specie di casco. Tanto che mi è rimasta la bocca aperta e non riuscivo più a chiuderla, le mie guance erano completamente schiacciate dentro». Non cambia versione neanche di una virgola Tatiana, rispetto a quanto abbiamo pubblicato la scorsa domenica. Anzi. Via WhatsApp, con un audio in francese, in settimana ha risposto al cronista del Caffè che le ha fatto avere le immagini sulle modalità di un rinvio forzato, fasce, ferma braccia e casco da pugile. E ribadisce, immagine dopo immagine, la violenza con cui, dice, è avvenuto il loro rimpatrio.
Tatiana, 23 anni, originaria della Costa d’Avorio, il marito Joelson, 25 anni, del Camerun, e la piccola Leora, nata in Svizzera, qualche mese fa sono stati prelevati dall’appartamento dove vivevano da circa un anno e portati all’aeroporto. «Ci hanno rispediti legati e bendati da Zurigo a Napoli», aveva raccontato la coppia a Repubblica, che per prima ha pubblicato la loro storia, e le loro parole le aveva confermate al Caffè Renata Molino, la responsabile del centro profughi di Napoli, dove sono tuttora ospitati, e che sin dal primo giorno ha ascoltato la drammatica testimonianza della loro partenza.
La famiglia di profughi viveva ad #Arwangen, non ad Albinen, come erroneamente scritto. Nel piccolo comune del canton Berna, nella regione dell’Emmental-Alta Argovia, esiste infatti un centro migranti gestito dall’Esercito della Salvezza. «Probabilmente si sono confusi, oppure non si sono capiti con il mediatore culturale che sin dal primo giorno ha raccolto le loro voci», spiega Renata Molino. Ma tutto ciò, ovviamente, che siano stati prelevati da Albinen o da Aarwangen, non cambia la sostanza del loro racconto.
Joelson e Tatiana hanno raccontato di essere stati portati via dal loro alloggio di Arwangen in manette e catene. «Non era necessario perché sapevamo di non poter restare in Svizzera, ci avevano spiegato del regolamento di Dublino, avevamo già firmato anche le carte per il trasferimento», ha più volte ripetuto Tatiana che ancora oggi si continua a chiedere il motivo di tanta violenza. «Ad un certo punto ci hanno messo in testa una specie di casco - riprende nel suo audio WhatsApp -. Improvvisamente mi sono trovata il viso schiacciato, riuscivo a vedere solo da un buco. Ero molto spaventata». A contribuire alla disperazione, la figlia che continuava a piangeva in fondo all’aereo, dove è stata lasciata per tutto il viaggio. Mentre Tatiana si ribellava, voleva andare da lei". Ad un certo punto la donna inizia a dimenarsi, vuole sua figlia, è preoccupata perché non riesce a vederla. «Sbattevo i piedi per terra e muovevo la testa. Allora mi hanno bloccato con la forza, mi tenevano il collo e mi tiravano i capelli. Ma cosa potevo fare? Ero fissata con le fasce al sedile e non potevo quasi muovermi».