• I migranti rispediti in Italia dalla Svizzera: “Legati e picchiati, volevano toglierci la bimba”

    Non hanno nessuna intenzione di dimenticare, né paura di denunciare. E allora eccoli qui #Joelson e #Tatiana, mano nella mano, la piccola #Leora in braccio, nel centro di accoglienza di Napoli gestito dalla Ong Laici Terzo Mondo, a raccontare il loro ritorno in Italia da «dublinanti», l’agghiacciante brutalità con la quale sono stati rispediti in Italia dalla Svizzera, il Paese con il quale proprio ieri, in visita presso il centro federale d’asilo di Chiasso, il ...


    https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2019/06/21/news/_legati_e_picchiati_volevano_anche_toglierci_la_bimba_-229346010
    #dublinés #Italie #Suisse #asile #migrations #réfugiés #violence #Dublin #règlement_dublin #renvois_Dublin
    #paywall

    • Famiglia del Camerun denuncia il trattamento della polizia

      Manette e catene. Cappuccio e casco. Il ricordo di quei momenti ancora li terrorizza. Joelson e Tatiana, 25 anni lui originario del Camerun, 23 lei originaria della Costa d’Avorio, non dimenticheranno mai quelle ore di qualche mese, quando sono stati prelevati dal loro appartamento di #Albinen e, via Zurigo, riportati in Italia, a Napoli. L’hanno raccontato alla Repubblica, che li ha incontrati nel centro di accoglienza di Napoli durante una serie di servizi sui migranti che da Berlino vengono rimandati in Italia. «Ci hanno messo le manette alle mani e le catene ai piedi». E lo ripete al Caffè la responsabile del centro di accoglienza di Napoli gestito da una Ong, Renata Molino, che più volte ha sentito la loro testimonianza. «Sapevano di non poter restare in Svizzera, sapevano del regolamento di Dublino, avevano già firmato le carte per il trasferimento. Erano pronti, insomma. Perché quindi tanta violenza, continuano a chiedersi». Una violenza che coglie di sorpresa la polizia vallesana: «Non ci risulta un rimpatrio da Albinen a Zurigo di una famiglia di origine africana - dice al Caffè il portavoce Markus Rieder -. Questo è un piccolissimo villaggio. Solitamente bisogna prendere queste dichiarazioni con le pinze. Approfondiremo comunque il caso e nei prossimi giorni daremo maggiori dettagli sulla vicenda. Vogliamo anche noi capire come sono andati i fatti».
      Fatti che, stando alle parole di Joelson e Tatiana, fanno rabbrividire. E che riaccendono le polemiche attorno ai rimpatri forzati. «Sono qui da noi da qualche mese e sin dal primo giorno hanno raccontato questa storia, le stesse parole ogni volta - sottolinea Renata Molino -. Abbiamo un mediatore culturale che viene dal Camerun, il Paese del marito, quindi è difficile che le loro parole siano state distorte». Resta il dubbio che, forse, non si tratti di Albinen, ma di un altro paese, magari lì vicino, sempre nella Svizzera francese, vista la loro origine e la lingua comune. Ma poco importa.
      E Tatiana racconta: «Quel giorno ero casa da sola con la piccola Leora, nata in Svizzera, all’epoca aveva pochi mesi. Mio marito era fuori. Suona il campanello, sono dei poliziotti mi dicono che c’è un aereo pronto per noi. Cerco di andare verso mia figlia. Me lo impediscono, mi afferrano per le braccia, mi ammanettano e mi incatenano. E mi picchiano, perché grido».
      Ad un certo punto le avrebbero chiesto di spogliarsi per una perquisizione corporale. «Mi strappano gli abiti, mi toccano ovunque». Nel frattempo rientra Joelson. «Picchiano e strattonano anche lui. Ma lo saprò solo dopo, quando ci rivedremo all’aeroporto. Senza nostra figlia, che non sappiamo dov’è». Tatiana si ribella. La situazione precipita. «Mi mettono - ha raccontato la donna - un casco nero sul cappuccio, un nastro sulla bocca, poi ci fanno salire sull’aereo e ci legano al sedile». Poi la piccola arriva in braccio a una poliziotta. «Li supplico di darmela. ‘No è nata in Svizzera e qui resta’, dicono le guardie». Si scatena l’inferno. Marito e moglie si rivoltano, gridano, protestano. Sino a quando il pilota esce dalla cabina e dice che così non parte. La piccola, sempre nella versione dei profughi, viene portata a bordo e messa in fondo all’aereo, dove resterà sino alla fine del viaggio. A Napoli la coppia viene slegata, la bimba riconsegnata. «Mai avremmo pensato di subire tanta violenza anche in Europa, già l’abbiamo patita nei nostri Paesi».

      http://www.caffe.ch/stories/Attualit%C3%A0/63300_ci_hanno_rimpatriati_legati_e_bendati
      #Naples

    • "Schiacciata nel casco cercavo la mia Leora"

      «Proprio così! Sì, come su questa foto. Ci hanno legati al sedile dell’aereo e poi ci hanno messo in testa quello, sì, una specie di casco. Tanto che mi è rimasta la bocca aperta e non riuscivo più a chiuderla, le mie guance erano completamente schiacciate dentro». Non cambia versione neanche di una virgola Tatiana, rispetto a quanto abbiamo pubblicato la scorsa domenica. Anzi. Via WhatsApp, con un audio in francese, in settimana ha risposto al cronista del Caffè che le ha fatto avere le immagini sulle modalità di un rinvio forzato, fasce, ferma braccia e casco da pugile. E ribadisce, immagine dopo immagine, la violenza con cui, dice, è avvenuto il loro rimpatrio.
      Tatiana, 23 anni, originaria della Costa d’Avorio, il marito Joelson, 25 anni, del Camerun, e la piccola Leora, nata in Svizzera, qualche mese fa sono stati prelevati dall’appartamento dove vivevano da circa un anno e portati all’aeroporto. «Ci hanno rispediti legati e bendati da Zurigo a Napoli», aveva raccontato la coppia a Repubblica, che per prima ha pubblicato la loro storia, e le loro parole le aveva confermate al Caffè Renata Molino, la responsabile del centro profughi di Napoli, dove sono tuttora ospitati, e che sin dal primo giorno ha ascoltato la drammatica testimonianza della loro partenza.
      La famiglia di profughi viveva ad #Arwangen, non ad Albinen, come erroneamente scritto. Nel piccolo comune del canton Berna, nella regione dell’Emmental-Alta Argovia, esiste infatti un centro migranti gestito dall’Esercito della Salvezza. «Probabilmente si sono confusi, oppure non si sono capiti con il mediatore culturale che sin dal primo giorno ha raccolto le loro voci», spiega Renata Molino. Ma tutto ciò, ovviamente, che siano stati prelevati da Albinen o da Aarwangen, non cambia la sostanza del loro racconto.
      Joelson e Tatiana hanno raccontato di essere stati portati via dal loro alloggio di Arwangen in manette e catene. «Non era necessario perché sapevamo di non poter restare in Svizzera, ci avevano spiegato del regolamento di Dublino, avevamo già firmato anche le carte per il trasferimento», ha più volte ripetuto Tatiana che ancora oggi si continua a chiedere il motivo di tanta violenza. «Ad un certo punto ci hanno messo in testa una specie di casco - riprende nel suo audio WhatsApp -. Improvvisamente mi sono trovata il viso schiacciato, riuscivo a vedere solo da un buco. Ero molto spaventata». A contribuire alla disperazione, la figlia che continuava a piangeva in fondo all’aereo, dove è stata lasciata per tutto il viaggio. Mentre Tatiana si ribellava, voleva andare da lei". Ad un certo punto la donna inizia a dimenarsi, vuole sua figlia, è preoccupata perché non riesce a vederla. «Sbattevo i piedi per terra e muovevo la testa. Allora mi hanno bloccato con la forza, mi tenevano il collo e mi tiravano i capelli. Ma cosa potevo fare? Ero fissata con le fasce al sedile e non potevo quasi muovermi».

      http://caffe.ch/stories/cronaca/63308_schiacciata_nel_casco_cercavo_la_mia_leora

    • "Ci hanno rimpatriati...legati e bendati"

      Manette e catene. Cappuccio e casco. Il ricordo di quei momenti ancora li terrorizza. Joelson e Tatiana, 25 anni lui originario del Camerun, 23 lei originaria della Costa d’Avorio, non dimenticheranno mai quelle ore di qualche mese, quando sono stati prelevati dal loro appartamento di Albinen e, via Zurigo, riportati in Italia, a Napoli. L’hanno raccontato alla Repubblica, che li ha incontrati nel centro di accoglienza di Napoli durante una serie di servizi sui migranti che da Berlino vengono rimandati in Italia. «Ci hanno messo le manette alle mani e le catene ai piedi». E lo ripete al Caffè la responsabile del centro di accoglienza di Napoli gestito da una Ong, Renata Molino, che più volte ha sentito la loro testimonianza. «Sapevano di non poter restare in Svizzera, sapevano del regolamento di Dublino, avevano già firmato le carte per il trasferimento. Erano pronti, insomma. Perché quindi tanta violenza, continuano a chiedersi». Una violenza che coglie di sorpresa la polizia vallesana: «Non ci risulta un rimpatrio da Albinen a Zurigo di una famiglia di origine africana - dice al Caffè il portavoce Markus Rieder -. Questo è un piccolissimo villaggio. Solitamente bisogna prendere queste dichiarazioni con le pinze. Approfondiremo comunque il caso e nei prossimi giorni daremo maggiori dettagli sulla vicenda. Vogliamo anche noi capire come sono andati i fatti».
      Fatti che, stando alle parole di Joelson e Tatiana, fanno rabbrividire. E che riaccendono le polemiche attorno ai rimpatri forzati. «Sono qui da noi da qualche mese e sin dal primo giorno hanno raccontato questa storia, le stesse parole ogni volta - sottolinea Renata Molino -. Abbiamo un mediatore culturale che viene dal Camerun, il Paese del marito, quindi è difficile che le loro parole siano state distorte». Resta il dubbio che, forse, non si tratti di Albinen, ma di un altro paese, magari lì vicino, sempre nella Svizzera francese, vista la loro origine e la lingua comune. Ma poco importa.
      E Tatiana racconta: «Quel giorno ero casa da sola con la piccola Leora, nata in Svizzera, all’epoca aveva pochi mesi. Mio marito era fuori. Suona il campanello, sono dei poliziotti mi dicono che c’è un aereo pronto per noi. Cerco di andare verso mia figlia. Me lo impediscono, mi afferrano per le braccia, mi ammanettano e mi incatenano. E mi picchiano, perché grido».
      Ad un certo punto le avrebbero chiesto di spogliarsi per una perquisizione corporale. «Mi strappano gli abiti, mi toccano ovunque». Nel frattempo rientra Joelson. «Picchiano e strattonano anche lui. Ma lo saprò solo dopo, quando ci rivedremo all’aeroporto. Senza nostra figlia, che non sappiamo dov’è». Tatiana si ribella. La situazione precipita. «Mi mettono - ha raccontato la donna - un casco nero sul cappuccio, un nastro sulla bocca, poi ci fanno salire sull’aereo e ci legano al sedile». Poi la piccola arriva in braccio a una poliziotta. «Li supplico di darmela. ‘No è nata in Svizzera e qui resta’, dicono le guardie». Si scatena l’inferno. Marito e moglie si rivoltano, gridano, protestano. Sino a quando il pilota esce dalla cabina e dice che così non parte. La piccola, sempre nella versione dei profughi, viene portata a bordo e messa in fondo all’aereo, dove resterà sino alla fine del viaggio. A Napoli la coppia viene slegata, la bimba riconsegnata. «Mai avremmo pensato di subire tanta violenza anche in Europa, già l’abbiamo patita nei nostri Paesi».

      http://www.caffe.ch/stories/cronaca/63300_ci_hanno_rimpatriati_legati_e_bendati