• Cassazione, dare i migranti ai guardiacoste di Tripoli è reato

    La consegna di migranti alla guardia costiera libica è reato perché la Libia «non è porto sicuro».

    E’ quanto sancisce una sentenza della Corte di Cassazione che ha reso definitiva la condanna del comandante del rimorchiatore #Asso_28 che il 30 luglio del 2018 soccorse 101 persone nel Mediterraneo centrale e li riportò in Libia consegnandoli alla Guardia costiera di Tripoli. Della sentenza scrive Repubblica.

    Per i supremi giudici favorire le intercettazioni dei guardiacoste di Tripoli rientra nella fattispecie illecita «dell’abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Nella sentenza viene sostanzialmente sancito che l’episodio del 2018 fu un respingimento collettivo verso un Paese non ritenuto sicuro vietato dalla Convenzione europea per i diritti umani.

    Casarini, dopo Cassazione su migranti pronti a #class_action

    "Con la sentenza della Corte di Cassazione, che ha chiarito in maniera definitiva che la cosiddetta «guardia costiera libica» non può «coordinare» nessun soccorso, perché non è in grado di garantire il rispetto dei diritti umani dei naufraghi, diventa un reato grave anche ordinarci di farlo, come succede adesso. Ora metteremo a punto non solo i ricorsi contro il decreto Piantedosi, che blocca per questo le navi del soccorso civile, ma anche una grande class action contro il governo e il ministro dell’Interno e il memorandum Italia-Libia". E’ quanto afferma Luca Casarini della ong Mediterranea Saving Humans.

    "Dovranno rispondere in tribunale delle loro azioni di finanziamento e complicità nelle catture e deportazioni che avvengono in mare ad opera di una «sedicente» guardia costiera - aggiunge Casarini -, che altro non è che una formazione militare che ha come compito quello di catturare e deportare, non di «mettere in salvo» le donne, gli uomini e i bambini che cercano aiuto. La suprema corte definisce giustamente una gravissima violazione della Convenzione di Ginevra, la deportazione in Libia di migranti e profughi che sono in mare per tentare di fuggire da quell’inferno". Casarini ricorda, inoltre, che di recente la nave Mare Jonio di Mediterranea "di recente è stata colpita dal fermo amministrativo del governo per non aver chiesto alla Libia il porto sicuro. Proporremo a migliaia di cittadini italiani, ad associazioni e ong, di sottoscrivere la «class action», e chiederemo ad un tribunale della Repubblica di portare in giudizio i responsabili politici di questi gravi crimini. Stiamo parlando di decine di migliaia di esseri umani catturati in mare e deportati in Libia, ogni anno, coordinati di fatto da Roma e dall’agenzia europea Frontex.

    E il ministro Piantedosi, proprio ieri, l’ha rivendicato testimoniando al processo a Palermo contro l’allora ministro Salvini. Lui si è costruito un alibi, con la distinzione tra centri di detenzione legali e illegali in Libia, dichiarando che «l’Italia si coordina con le istituzioni libiche che gestiscono campi di detenzione legalmente. Finalmente questo alibi, che è servito fino ad ora a coprire i crimini, è crollato grazie al pronunciamento della Cassazione. Adesso questo ministro deve essere messo sotto processo, perché ha ammesso di avere sistematicamente commesso un reato, gravissimo, che ha causato morte e sofferenze a migliaia di innocenti».

    https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/02/17/cassazione-dare-i-migranti-a-guardiacoste-di-tripoli-e-reato_cfcb3461-c654-4f3c

    #justice #migrations #asile #réfugiés #frontières #gardes-côtes_libyens #Libye #jurisprudence #condamnation #externalisation #pull-backs #refoulements #push-backs #cour_de_cassation #cassation #port_sûr

    • Sentenza Cassazione: Consegnare gli immigranti alla guardia costiera libica è reato

      La Libia è un paese canaglia: bocciati Minniti, Conte e Meloni. Dice la sentenza della Cassazione, è noto che in Libia i migranti subiscono vessazioni, violenze e tortura. Quindi è un reato violare la legge internazionale e il codice di navigazione che impongono di portare i naufraghi in un porto sicuro

      Il governo italiano (sia questo in carica sia quelli di centrosinistra che avevano Marco Minniti come ministro dell’interno) potrebbe addirittura finire sotto processo sulla base di una sentenza emessa dalla Corte di Cassazione.

      Dice questa sentenza che la Libia non è un porto sicuro, e che dunque non si possono consegnare alla Libia (o favorire la cattura da parte delle motovedette libiche) le persone salvate da un naufragio.

      Dice la sentenza, è noto che in Libia i migranti subiscono vessazioni, violenze e tortura. Quindi è un reato violare la legge internazionale e il codice di navigazione che impongono di portare i naufraghi in un porto sicuro.

      Che la Libia non fosse un porto sicuro era stranoto. Bastava non leggere i giornali italiani per saperlo. La novità è che questa evidente verità viene ora formalmente affermata con una sentenza della Cassazione che fa giurisprudenza. E che, come è del tutto evidente, mette in discussione gli accordi con la Libia firmati dai governi di centrosinistra e poi confermati dai governi Conte e infine dai governi di centrodestra.

      Accordi che si basarono persino sul finanziamento italiano e sulla consegna di motovedette – realizzate a spese del governo italiano – alle autorità di Tripoli. Ora quegli accordi devono essere immediatamente cancellati e in linea di principio si potrebbe persino ipotizzare l’apertura di processi (se non è scattata la prescrizione) ai responsabili di quegli accordi.

      I reati per i quali la Cassazione con questa sentenza ha confermato la condanna al comandante di una nave che nel luglio del 2018 (governo gialloverde, Salvini ministro dell’Interno) consegnò alla guardia costiera libica 101 naufraghi salvati in mezzo al Mediterraneo sono “abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, e di sbarco e abbandono arbitrario di persone”. La Cassazione ha dichiarato formalmente che la Libia non è un porto sicuro.

      Tutta la politica dei respingimenti a questo punto, se dio vuole, salta in aria. La Cassazione ha stabilito che bisogna tornare allo Stato di diritto, a scapito della propaganda politica. E saltano in aria anche i provvedimenti recentemente adottati dalle autorità italiane sulla base del decreto Spazza-naufraghi varato circa un anno fa dal governo Meloni.

      Ancora in queste ore c’è una nave della Ocean Viking che è sotto fermo amministrativo perché accusata di non aver seguito le direttive impartite dalle autorità libiche. Ovviamente dovrà immediatamente essere dissequestrata e forse c’è anche il rischio che chi ha deciso il sequestro finisca sotto processo. Inoltre bisognerà restituire la multa e probabilmente risarcire il danno.

      E quello della Ocean Viking è solo uno di numerosissimi casi. Certo, perché ciò avvenga sarebbe necessaria una assunzione di responsabilità sia da parte del Parlamento sia da parte della magistratura. E le due cose non sono probabilissime.

      https://www.osservatoriorepressione.info/sentenza-cassazione-consegnare-gli-immigranti-alla-guardia

    • Italy’s top court: Handing over migrants to Libyan coast guards is illegal

      Italy’s highest court, the Cassation Court, has ruled that handing over migrants to Libyan coast guards is unlawful because Libya does not represent a safe port. The sentence could have major repercussions.

      Handing over migrants rescued in the Central Mediterranean to Tripoli’s coast guards is unlawful because Libya is not a safe port and it is conduct which goes against the navigation code, the Cassation Court ruled on February 17. The decision upheld the conviction of the captain of the Italian private vessel Asso 28, which, on July 30, 2018, rescued 101 individuals in the central Mediterranean and then handed them over to the Libyan coast guards to be returned to Libya.

      The supreme court judges ruled in sentence number 4557 that facilitating the interception of migrants and refugees by the Libyan coast guards falls under the crime of “abandonment in a state of danger of minors or incapacitated people and arbitrary disembarkation and abandonment of people.” This ruling effectively characterizes the 2018 incident as collective refoulement to a country not considered safe, contravening the European Convention on Human Rights.

      NGOs announce class action lawsuit

      Beyond its political implications, the Cassation’s decision could significantly impact ongoing legal proceedings, including administrative actions. NGOs have announced a class action lawsuit against the government, the interior minister, and the Italy-Libya memorandum.

      The case, which was first examined by the tribunal of Naples, focuses on the intervention of a trawler, a support ship for a platform, to rescue 101 migrants who were on a boat that had departed from Africa’s coast.

      According to investigators, the ship’s commander was asked by personnel on the rig to take on board a Libyan citizen, described as a “Libyan customs official”, who suggested sailing to Libya and disembarking the rescued migrants.

      The supreme court judges said the defendant “omitted to immediately communicate, before starting rescue operations and after completing them, to the centres of coordination and rescue services of Tripoli and to the IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Centre) of Rome, in the absence of a reply by the first,” that the migrants had been rescued and were under his charge.

      The Cassation ruled that, by operating in this way, the commander violated “procedures provided for by the International Convention for the Safety of Life at Sea (SOLAS) and by the directives of the International Maritime Organization,” thus carrying out a “collective refoulement to a port deemed unsafe like Libya.”

      Furthermore, the Cassation emphasized the commander’s obligation to ascertain whether the migrants wanted to apply for asylum and conduct necessary checks on accompanying minors.
      ’Cassation should not be interpreted ideologically on Libya’, Piantedosi

      “Italy has never coordinated and handed over to Libya migrants rescued in operations coordinated or directly carried out by Italy,” Interior Minister Matteo Piantedosi said on February 19, when asked to comment the Cassation’s ruling. “That sentence must be read well — sentences should never be interpreted in a political or ideological manner,” he said.

      Piantedosi contextualized the ruling within the circumstances prevailing in Libya at the time, citing efforts to assist Libya with EU cooperation. He highlighted the government’s adherence to principles governing repatriation activities and concluded by saying “there can be no spontaneity” and that “coordination” is essential.

      https://twitter.com/InfoMigrants/status/1759901204501438649?t=ZlLRzR3-jQ0e6-y0Q2GPJA

  • Licenciement : la preuve déloyale devient recevable
    https://www.lemonde.fr/emploi/article/2024/01/17/licenciement-la-preuve-deloyale-devient-recevable_6211261_1698637.html

    Carnet de bureau. Lorsque le marché de l’emploi se tend, des dossiers de #licenciement reviennent sur le bureau des DRH. Deux arrêts de la #Cour_de_cassation pris fin 2023 risquent de faciliter la tâche des employeurs aux dépens des salariés. « La Cour de cassation admet que des #moyens_de_preuve déloyaux peuvent être présentés au juge dès lors qu’ils sont indispensables à l’exercice des droits du justiciable », indique le communiqué de la haute juridiction publié le 22 décembre. « Toutefois, la prise en compte de ces preuves ne doit pas porter une atteinte disproportionnée aux droits fondamentaux de la partie adverse (vie privée, égalité des armes, etc.) », précise-t-elle. Autrement dit, la preuve obtenue de façon déloyale est désormais valable, mais à certaines conditions.
    Les deux affaires jugées concernaient, d’une part, un responsable commercial de la société Abaque Bâtiment Services licencié pour #faute_grave le 16 octobre 2016 sur la base des enregistrements de deux entretiens à l’insu du collaborateur ; et, d’autre part, un salarié de la société Rexel Développement licencié le 9 décembre 2015, également pour faute grave, en raison des propos insultants tenus à l’encontre de son supérieur hiérarchique et de son remplaçant lors d’un échange électronique sur sa messagerie privée, hébergée sur son ordinateur professionnel.
    Durant son congé, son remplaçant a consulté son compte Facebook, qui n’avait pas été déconnecté, a lu le message qui sous-entendait que ledit remplaçant avait obtenu son poste grâce à son orientation sexuelle et l’a transféré à la hiérarchie.

    Au juge de trancher

    Depuis 2011 et jusqu’alors, des #enregistrements_clandestins ou autres stratagèmes de l’#employeur pour justifier un licenciement étaient automatiquement irrecevables devant les #prud’hommes. La reconnaissance pour preuve de documents obtenus de manière déloyale, même sous conditions, marque ainsi un revirement certain du traitement des dossiers de #salariés. Les deux licenciés, qui contestaient la façon déloyale dont les preuves avaient été obtenues, ont été déboutés.
    Pourquoi ce revirement de #jurisprudence ? Dans la première affaire, pour « ne pas priver un justiciable [l’employeur] de la possibilité de faire la preuve de ses droits, lorsque la seule preuve disponible pour lui suppose, pour son obtention, une atteinte aux droits de la partie adverse », répond la Cour de cassation. Et dans la seconde, parce que la loyauté de la preuve n’était pas le sujet. Une conversation privée ne peut motiver un licenciement que si elle constitue « un manquement du salarié aux obligations découlant du contrat de travail », précise la Cour.

    Faut-il craindre pour autant un engouement des employeurs pour les pratiques déloyales ? Pas forcément, dans la mesure où la recevabilité de la preuve déloyale n’est pas automatique. Ce sera au juge de trancher, mais l’approche a changé.

    #travail #droit_du_travail

  • « Le Conseil constitutionnel n’a jamais défendu les droits des étrangers », Danièle Lochak [Gisti]

    Que peut-on attendre de la saisine actuelle du Conseil constitutionnel à propos de la loi immigration ?

    Danièle Lochak : Il y a trois éléments à prendre en compte. D’abord un élément de contexte général : on ne peut pas attendre grand-chose du Conseil constitutionnel lorsqu’il s’agit des droits des étrangers. Historiquement, à quelques nuances et réserves d’interprétation près, il a toujours validé l’ensemble des mesures votées par le législateur et accompagné sans ciller toutes les évolutions restrictives en la matière.

    Ainsi en matière d’enfermement – ce qu’on appelle aujourd’hui la rétention – le Conseil constitutionnel a d’abord dit en 1980 que sa durée devait être brève et placée sous le contrôle du juge judiciaire, garant de la liberté individuelle. Mais la durée maximale de rétention a été progressivement étendue : de sept jours, elle est passée à dix en 1993, puis douze en 1998, puis 32 en 2003, puis 45 jours en 2011, et enfin, 90 jours en 2018 , sans que le Conseil constitutionnel y trouve à redire.

    Il a affirmé que la lutte contre l’immigration irrégulière participait de la sauvegarde de l’ordre public, dont il a fait un objectif à valeur constitutionnelle. On voit mal, dans ces conditions, comment des mesures qui ont pour objectif proclamé de lutter contre l’immigration irrégulière pourraient être arrêtées par le contrôle de constitutionnalité…

    Autre exemple : en 1993, lors de l’examen de la loi Pasqua, le Conseil constitutionnel a affirmé que les étrangers en situation régulière bénéficient du droit de mener une vie familiale normale. Mais une fois ce principe posé, il n’a censuré aucune mesure restreignant le droit au regroupement familial. Ainsi, même lorsqu’il a rappelé des principes et reconnu que les étrangers devaient bénéficier des garanties constitutionnelles, il a toujours trouvé des aménagements qui ont permis de valider les dispositions législatives restrictives.

    Le président du Conseil constitutionnel Laurent Fabius a tancé le gouvernement, et rappelé que l’institution n’était pas « une chambre d’appel des choix du Parlement ». Le Conseil ne va-t-il pas se montrer plus sévère qu’à l’accoutumée ?

    D. L. : En effet, le deuxième élément qui change la donne est le contexte politique, avec un gouvernement qui annonce d’emblée que certaines dispositions sont contraires à la #Constitution et charge le Conseil constitutionnel de « nettoyer » la loi. C’est bien entendu grotesque : en élaborant la loi, les responsables politiques sont censés respecter la Constitution.

    Surtout, le Rassemblement national (#RN) s’est targué d’une « victoire idéologique ». C’est très habile de sa part. En réalité, voilà quarante ans que l’ombre portée du Front national (RN maintenant) pèse sur la politique d’immigration française. Depuis 1983 et l’élection partielle de Dreux où le #FN, allié à la droite, l’a emporté sur la liste de gauche menée par Françoise Gaspard, la droite court après l’extrême droite, et la gauche, de crainte de paraître laxiste, court après la droite sur les questions d’immigration.

    Hormis quelques lois, dont la loi de 1981 adoptée après l’arrivée de la gauche au pouvoir et celle de 1984 sur la carte de résident, ou encore la loi Joxe de 1989, la politique de la gauche n’a été qu’une suite de renoncements, maintenant l’objectif de « maîtrise des flux migratoires » et de lutte contre l’immigration irrégulière. Il n’y a que sur la nationalité qu’elle n’a jamais cédé.

    Cela étant, la revendication de victoire de la part du RN va probablement inciter le Conseil constitutionnel à invalider un plus grand nombre de dispositions de la loi que d’habitude, même si on ignore lesquelles.

    Dans la saisine du Conseil constitutionnel sont invoqués beaucoup de « cavaliers législatifs », des dispositions qui n’ont pas de rapport avec l’objet du texte. Le garant de la constitutionnalité de la loi va-t-il trouver là des arguments faciles pour censurer certaines dispositions ?

    D. L. : Oui, et c’est le troisième élément à prendre en considération dans les pronostics que l’on peut faire. La présence de nombreux cavaliers législatifs va faciliter la tâche du Conseil constitutionnel, car invalider une disposition pour des raisons procédurales est évidemment plus confortable que de se prononcer sur le fond. Le projet initial portait sur l’entrée, le séjour et l’éloignement des étrangers. Or le texte final, « enrichi » d’une multitude d’amendements, est loin de se limiter à ces questions.

    Le Conseil constitutionnel peut très bien estimer que les dispositions sur la #nationalité, pour ne prendre que cet exemple, qui relèvent du Code civil, sont sans rapport avec l’objet du texte, et les invalider. Alors même qu’en 1993, il avait validé le retour à la manifestation de volonté pour acquérir la nationalité française à partir de 16 ans pour les enfants d’étrangers nés en France, mesure phare de la loi Pasqua1.

    Il peut aussi invoquer « l’incompétence négative », qui désigne le fait pour le Parlement de n’avoir pas précisé suffisamment les termes de certaines dispositions et laissé trop de latitude au gouvernement pour les mettre en œuvre, sans compter les dispositions qui sont manifestement inapplicables tellement elles sont mal conçues.

    Mais si les dispositions sont invalidées sur ce fondement, rien n’empêchera leur retour dans un prochain texte puisque le Conseil constitutionnel aura fait une critique sur la forme et ne se sera pas prononcé sur le fond. Et puis il faut être conscient que, même s’il invalide un plus grand nombre de dispositions que d’habitude, il restera encore suffisamment de mesures iniques qui rendront la vie impossible aux étrangers résidant en France, fût-ce en situation régulière et depuis de très longues années.

    Le Conseil constitutionnel a tout de même consacré le principe de fraternité en 2018, et mis fin – au moins partiellement – au #délit_de_solidarité_ qui punit le fait d’aider les exilés dans un but humanitaire.

    D. L. : Oui, c’est un exemple qu’on met souvent en avant. Le « délit de solidarité » – ce sont les militants qui l’ont nommé ainsi, bien sûr – punit l’aide à l’entrée, au séjour et à la circulation des étrangers en situation irrégulière sur le territoire français. A l’époque, les avocats du militant Cédric Herrou avaient posé une question prioritaire de constitutionnalité (#QPC) au Conseil constitutionnel en invoquant le principe de fraternité, qui figure dans la devise républicaine.

    Le Conseil constitutionnel a en effet consacré la valeur constitutionnelle du principe de fraternité, et son corollaire, la liberté d’aider autrui dans un but humanitaire sans considération de la régularité de son séjour. Mais il a restreint la portée de cette liberté en n’y incluant pas l’aide à l’entrée sur le territoire, alors qu’à la frontière franco-italienne, par exemple, l’aide humanitaire est indispensable.

    Vous dressez un constat pessimiste. Cela vaut-il la peine que les associations continuent à contester les politiques migratoires devant les juges ?

    D. L. : Il faut distinguer les modes d’action. La saisine du Conseil constitutionnel après le vote de la loi est le fait de parlementaires et/ou du gouvernement, ou du président de la République.

    Les membres de la « société civile » (associations, avocats, professeurs de droit…) peuvent déposer des contributions extérieures, qu’on appelle aussi « portes étroites » . Celles-ci n’ont aucune valeur officielle, et le Conseil constitutionnel, même s’il les publie désormais sur son site, n’est obligé ni de les lire, ni de répondre aux arguments qui y sont développés.

    Les saisines officielles ont été accompagnées, cette fois, de très nombreuses portes étroites. Le #Gisti, une association de défense des droits des étrangers créée en 1972 et dont j’ai été la présidente entre 1985 et 2000, a décidé de ne pas s’y associer cette fois-ci, alors qu’il lui était arrivé par le passé d’en rédiger.

    Outre que le Gisti ne fait guère confiance au Conseil constitutionnel pour protéger les droits des étrangers, pour les raisons que j’ai rappelées, l’association a estimé que la seule position politiquement défendable était le rejet de la loi dans sa globalité sans se limiter aux dispositions potentiellement inconstitutionnelles. Elle ne souhaitait pas non plus prêter main-forte à la manœuvre du gouvernement visant à instrumentaliser le contrôle de constitutionnalité à des fins de tactique politicienne.

    Cela ne nous empêchera pas, ultérieurement, d’engager des contentieux contre les #décrets_d’application ou de soutenir les étrangers victimes des mesures prises sur le fondement de cette loi.

    Les associations obtiennent-elles plus de résultats devant le Conseil d’Etat et la Cour de Cassation ?

    D. L. : Les recours devant le Conseil d’Etat ont été historiquement la marque du Gisti. Il a obtenu quelques beaux succès qui lui ont valu de laisser son nom à des « grands arrêts de la jurisprudence administrative ». Mais ces succès ne doivent pas être l’arbre qui cache la forêt car, dans l’ensemble, ni le #juge_administratif – le plus sollicité – ni le #juge_judiciaire n’ont empêché la dérive constante du droit des étrangers depuis une quarantaine d’années.

    Ils n’ont du reste pas vraiment cherché à le faire. Les juges sont très sensibles aux idées dominantes et, depuis cinquante ans, la nécessité de maîtriser les flux migratoires en fait partie. Dans l’ensemble, le Conseil d’Etat et la Cour de Cassation (mais le rôle de celle-ci est moindre dans des affaires qui mettent essentiellement en jeu l’administration) ont quand même laissé passer moins de dispositions attentatoires aux droits des étrangers que le Conseil constitutionnel et ont parfois refréné les ardeurs du pouvoir.

    Il est vrai qu’il est plus facile pour le juge administratif d’annuler une décision du gouvernement (un décret d’application, une #circulaire), ou une mesure administrative individuelle que pour le juge constitutionnel d’invalider une loi votée par le parlement.

    Les considérations politiques jouent assurément dans le contentieux administratif – on l’a vu avec l’attitude subtilement équilibrée du Conseil d’Etat face aux dissolutions d’associations ou aux interdictions de manifestations : il a validé la #dissolution du CCIF (Collectif contre l’islamophobie en France) et de la (Coordination contre le racisme et l’islamophobie), mais il a annulé celle des Soulèvements de la Terre.

    Ces considérations jouent de façon plus frontale dans le contentieux constitutionnel, devant une instance qui au demeurant, par sa composition, n’a de juridiction que la fonction et craint d’être accusée de chercher à imposer « un gouvernement des juges » qui fait fi de la souveraineté du peuple incarnée par le Parlement.

    En s’en remettant au Conseil constitutionnel et en lui laissant le soin de corriger les dispositions qu’il n’aurait jamais dû laisser adopter, le gouvernement a fait assurément le jeu de la droite et de l’extrême droite qui vont évidemment crier au gouvernement des juges.

    Quelles seront les solutions pour continuer à mener la bataille une fois la loi adoptée ?

    D. L. : Les mêmes que d’habitude ! Le Conseil constitutionnel n’examine pas la conformité des lois au regard des conventions internationales, estimant que ce contrôle appartient à la Cour de cassation et au Conseil d’Etat. On pourra alors déférer à ce dernier les décrets d’application de la loi.

    Même si ces textes sont conformes aux dispositions législatives qu’ils mettent en œuvre, on pourra tenter de démontrer qu’ils sont en contradiction avec la législation de l’Union européenne, avec des dispositions de la Convention européenne telles qu’elles sont interprétées par la Cour de Strasbourg ou encore de la convention sur les droits de l’enfant.

    Ultérieurement, on pourrait envisager de demander à la Cour européenne des droits de l’homme la condamnation de la France. Mais on ne peut le faire qu’à l’occasion d’une affaire individuelle, après « épuisement » de tous les recours internes. Donc dans très longtemps.

    https://www.alternatives-economiques.fr/daniele-lochak-conseil-constitutionnel-na-jamais-defendu-droi/00109322

    (sauf pour les questions et la mention D.L., le graissage m’est dû)

    #loi_Immigration #xénophobie_d'État #étrangers #droit_du_séjour #lutte_contre_l’immigration_irrégulière #regroupement_familial #carte_de_résident #droit_du_sol #acquisition_de_la_nationalité #rétention #droit_des_étrangers #contentieux_administratif #Conseil_constitutionnel #Conseil_d'État #jurisprudence #jurisprudence_administrative #Cour_de_cassation #CEDH #conventions_internationales #Convention_européenne #convention_sur_les_droits_de_l’enfant

    • Loi « immigration » : 200 personnalités appellent à manifester le 21 janvier contre la promulgation

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/07/deux-cents-personnalites-appellent-a-manifester-contre-la-loi-immigration_62

      Les signataires demandent au président de ne pas promulguer le texte rédigé, selon eux « sous la dictée des marchands de haine qui rêvent d’imposer à la France leur projet de “préférence nationale” ».

      [...]

      Ce texte, qui a provoqué une crise ouverte au sein de la majorité présidentielle, a été voté par le Rassemblement national qui y a vu une consécration de « la priorité nationale » qu’il défend. Voté le 19 décembre 2023, il comporte, selon l’exécutif lui-même, plusieurs mesures susceptibles d’être censurées par le Conseil constitutionnel. Saisis par le président de la République, mais aussi par l’opposition de gauche, les neuf juges constitutionnels doivent se prononcer d’ici à la fin du mois de janvier sur sa conformité.

    • L’Appel :

      Marchons pour la Liberté, l’égalité, la fraternité

      Dans notre diversité d’idées, d’engagements, de professions, nous exprimons notre grande inquiétude après le vote de la loi dite « asile-immigration ». C’est un tournant dangereux dans l’histoire de notre République.

      D’abord parce que cette loi ne répond pas aux causes de l’exil forcé d’hommes, de femmes, d’enfants fuyant les guerres ou le réchauffement climatique, ni aux défis de l’accueil dans la dignité, ni au défi de la définition d’une politique digne et humaine d’intégration.

      Ensuite, parce qu’elle a été rédigée sous la dictée des marchands de haine qui rêvent d’imposer à la France leur projet de « préférence nationale ». Elle torpille les piliers porteurs de notre pacte républicain, hérité du Conseil national de la Résistance. Elle s’attaque ainsi au droit du sol autant qu’aux droits fondamentaux proclamés par la Constitution : au travail, à l’éducation, au logement, à la santé… Ce faisant, tous et toutes, Français autant qu’étrangers, nous nous trouvons menacés.

      Victor Hugo écrivait : « Étouffez toutes les haines, éloignez tous les ressentiments, soyez unis, vous serez invincibles. »

      Soucieux de rassemblement et de solidarité plutôt que de division sans fin de notre société, nous demandons au Président de la République de ne pas promulguer cette loi.

      Le dimanche 21 janvier nous appelons à manifester dans notre diversité notre attachement à la devise de la République : « Liberté, égalité, fraternité. »

    • Loi « immigration » : quand le président du Conseil constitutionnel, Laurent Fabius, tance Emmanuel Macron sur l’Etat de droit

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/08/loi-immigration-quand-le-president-du-conseil-constitutionnel-laurent-fabius

      Lors de ses vœux (à huis clos) au président de la République, le président du Conseil constitutionnel a notamment rappelé que celui-ci « n’était ni une chambre d’écho des tendances de l’opinion, ni une chambre d’appel des choix du Parlement », en allusion notamment au texte de loi sur l’immigration.

      [...]

      Apparemment, M. Fabius partage cet avis. « Monsieur le président, je soulignais au début de mon propos que le Conseil constitutionnel n’était ni une chambre d’écho des tendances de l’opinion, ni une chambre d’appel des choix du Parlement, mais le juge de la constitutionnalité des lois, et j’ajoutais que cette définition simple n’était probablement pas ou pas encore intégrée par tous, a ainsi lancé l’ancien chef du gouvernement. Deux mille vingt-trois nous a en effet frappés, mes collègues et moi, par une certaine confusion chez certains entre le droit et la politique. On peut avoir des opinions diverses sur la pertinence d’une loi déférée, on peut l’estimer plus ou moins opportune, plus ou moins justifiée, mais tel n’est pas le rôle du Conseil constitutionnel. La tâche du Conseil est, quel que soit le texte dont il est saisi, de se prononcer en droit. » Et de citer son « prédécesseur et ami Robert Badinter », autre socialiste qui présida le Conseil constitutionnel (1986-1995) : « Une loi inconstitutionnelle est nécessairement mauvaise, mais une loi mauvaise n’est pas nécessairement inconstitutionnelle. »

      « Pacte faustien »

      Une fois ce rappel fait, M. Fabius ne s’est pas arrêté là. « Sauf à prendre le risque d’exposer notre démocratie à de grands périls, ayons à l’esprit que, dans un régime démocratique avancé comme le nôtre, on peut toujours modifier l’Etat du droit mais que, pour ce faire, il faut toujours veiller à respecter l’Etat de droit, qui se définit par un ensemble de principes cardinaux comme la séparation des pouvoirs, le principe de légalité et l’indépendance des juges, a encore insisté M. Fabius. Il y a bientôt cinquante ans que la jurisprudence du Conseil constitutionnel l’affirme en ces termes : c’est dans le respect de la Constitution que la loi exprime la volonté générale. » En clair, le président du Conseil constitutionnel rappelle les bases d’un « Etat de droit » au chef de l’Etat, notamment cette règle : on ne peut pas voter une loi dont on sait que certaines dispositions sont contraires à la loi fondamentale.

      Plus largement, M. Fabius a longuement développé la notion d’Etat de droit aussi bien au niveau national qu’au niveau européen, alors que la liste menée par Jordan Bardella (Rassemblement national) est donnée favorite aux élections européennes de juin. Et il lance un avertissement, cette fois à une partie de la droite et à l’extrême droite, qui dénoncent de concert « le gouvernement des juges », plaident pour le recours systématique au référendum, et pour sortir également de ce qu’ils appellent le « carcan européen ». « Un sophisme se fait entendre selon lequel il faudrait se libérer de l’Etat de droit, soit au plan national, soit au plan européen, soit les deux, pour accomplir la volonté générale », note ainsi M. Fabius, qui évoque même un « pacte faustien ». Et de dénoncer « la “martingale des refus” – refus de la légitimité des juges, refus de plusieurs de nos engagements européens, refus de l’Etat de droit » qui, selon lui, « nous ferait rompre avec l’Europe et mettrait en cause notre démocratie elle-même ».

    • La leçon de François Sureau sur la justice : « Mettons que je n’aie rien dit »

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/09/la-lecon-de-francois-sureau-sur-la-justice-mettons-que-je-n-aie-rien-dit_620

      François Sureau, ancien conseiller d’Etat, puis avocat aux Conseils, écrivain, membre de l’Académie française, a prononcé, lundi 8 janvier, un discours assez vif sur la justice devant l’Académie des sciences morales et politiques, dont « Le Monde » publie ici l’intégralité.

      L’avocat, écrivain et académicien et, par ailleurs, ami du président de la République, François Sureau, a regretté, lundi 8 janvier devant l’Académie des sciences morales et politiques, la multiplication des entorses aux libertés individuelles. Ces critiques s’ajoutent aux reproches formulés le même jour par Laurent Fabius, président du Conseil constitutionnel, après le vote de la « loi immigration ». Voici l’intégralité du discours de François Sureau.

  • Manon Garcia, philosophe : « Croire qu’il suffit de définir le viol par le non-consentement pour y mettre fin est illusoire »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/12/manon-garcia-philosophe-croire-qu-il-suffit-de-definir-le-viol-par-le-non-co

    Si on définissait le viol par le non-consentement, on considérerait que c’est le comportement de la victime qui fait le viol et non celui de l’agresseur, estime l’autrice de « La Conversation des sexes » dans une tribune au « Monde », alors que le droit pénal français actuel met en avant la responsabilité première de celui qui commet le crime.

    C’est une erreur – et une erreur sexiste ! – que de définir le viol par le non-consentement. Certains pays l’ont fait parce que leur définition du viol reposait jusque-là uniquement sur la violence et c’est un indéniable progrès, mais la législation française n’a pas ce problème. C’est en raison de l’importance que j’accorde à la lutte contre les violences sexuelles, et sur la base des années de recherche que j’ai consacrées au viol et au consentement sexuel, que je pense que la définition française du viol ne devrait pas être modifiée et que la solution pour une meilleure lutte contre les violations sexuelles est ailleurs.

    Il ne fait aucun doute que la notion de consentement est cruciale pour penser le bon sexe et qu’il faudrait que nos vies sexuelles ne soient faites que de rapports consentis. Pourtant, nombre de travaux féministes ont montré que cette notion est traversée par des représentations hétérosexistes : on pense que le consentement est l’affaire des femmes, qui doivent choisir d’accepter ou de refuser les assauts sexuels des hommes.

    On pense, en somme, que les hommes veulent sans cesse du sexe, qu’ils ne peuvent pas s’en empêcher, et qu’il revient aux femmes – que l’on présume vouloir de l’amour plutôt que du sexe – de les arrêter ou de les laisser faire. L’homme propose, la femme dispose. Dans ce modèle, les hommes ne peuvent pas être violés, les femmes ne peuvent pas être à l’origine de rapport sexuel, et seul le comportement des femmes – leur refus ou leur accord – distingue le sexe du viol. Au mieux, pour eux, elles cèdent. Au pire, elles empêchent.

    Loin d’empêcher les hommes de violer, ces représentations les exonèrent : on considère que pour eux le sexe et le viol ne sont pas tellement différents, que c’est quelque chose qu’ils font à leur partenaire et que l’avis de celle-ci ou de celui-ci ne compte que comme obstacle possible. On accrédite une représentation fausse et nuisible de la sexualité masculine.

    Conséquences pratiques claires

    Contrairement à l’hypothèse que certains mis en cause défendent dans les prétoires, il n’y a pas de malentendu entre les hommes et leurs victimes, ce n’est pas qu’ils ne comprennent pas que l’autre ne voulait pas. Des études en laboratoire montrent qu’hommes et femmes mis devant les mêmes scénarios de consentement et de non-consentement interprètent les situations de la même façon, sans que les hommes échouent à comprendre les refus.
    Les violences sexuelles ne résultent pas de malentendus ni de problèmes de communication du consentement, mais du fait que des hommes considèrent qu’ils ont ou devraient avoir le droit d’imposer des rapports sexuels. Croire qu’il suffit de définir le viol par le non-consentement pour y mettre fin est illusoire. Le viol n’est pas du sexe sans consentement, c’est une violation infligée par un criminel sur une victime qui n’a que peu à voir avec un « rapport » sexuel : activité jointe et partagée par des partenaires.
    Les conséquences pratiques sont claires : si l’on définit légalement le viol par le non-consentement, on considère que c’est le comportement de la victime qui fait le viol et non celui du violeur. On expose donc la victime à être scrutée – comment pourrait-elle prétendre n’avoir pas été consentante avec une jupe aussi courte ? – et donc malmenée par le processus judiciaire au lieu de se concentrer sur le comportement du mis en cause.

    L’article 222-23 du #code_pénal, en définissant le viol comme « tout acte de pénétration sexuelle, de quelque nature qu’il soit, ou tout acte bucco-génital commis sur la personne d’autrui ou sur la personne de l’auteur par violence, contrainte, menace ou surprise est un viol », met en avant la responsabilité sur le violeur et ne qualifie pas le désir de la victime.

    Bien sûr, on peut voir en filigrane dans cette liste de comportements du violeur le non-consentement de la victime – il y a non-consentement lorsque la victime fait l’objet de violence, de contrainte, de menace ou de surprise –, mais la responsabilité n’est pas la sienne. Il y a viol en raison de l’intention du violeur.

    Mécanismes de culpabilisation

    Pour autant, il y a un sérieux problème : un nombre important de procédures de viol achoppent sur cette question de l’intention. Il ne suffit pas de prétendre avoir cru que la personne consentait pour être innocenté, les tribunaux établissent l’intention de manière objective, en fonction des indices présents et de la façon raisonnable de les interpréter.
    Mais les tribunaux considèrent qu’il peut être raisonnable de déduire le consentement à partir d’une situation dans laquelle la victime n’a donné aucun signe positif de son consentement. Dans les faits, il arrive trop souvent que des agresseurs soient relaxés alors même qu’ils avaient obtenu un rapport sexuel d’une victime qui jamais n’avait manifesté la moindre envie et le moindre enthousiasme.
    Les tribunaux échouent à prendre en compte la façon dont les normes de genre empêchent les femmes d’exprimer leurs désirs et autorisent les hommes à ne pas s’en préoccuper, voire à sciemment les ignorer. Mais ce n’est pas là un problème légal, c’est un problème judiciaire. Ce qui est en jeu n’est pas le texte de la #loi, mais les représentations sexistes des juges et des jurés, et leur conception extrêmement restreinte de la menace et de la contrainte.

    Les hommes obtiennent du sexe par nombre de mécanismes de culpabilisation, de contraintes psychologiques qui devraient être considérées comme de la menace ou de la contrainte et ne le sont pas. Mais changer la #loi n’aura pas d’effet direct sur les représentations.
    Il faudrait surtout un changement de #jurisprudence de la Cour de cassation, qui inviterait à une compréhension plus large de la contrainte. On pourrait même imaginer inscrire dans le droit que tout rapport sexuel dans lequel on pourrait raisonnablement avoir un doute sur le consentement de son partenaire est interdit. Faire du #viol la conséquence de la menace, de la contrainte, de la violence ou de la surprise exercées par le violeur est probablement le meilleur moyen de défendre le droit à l’autodétermination sexuelle sans exonérer les agresseurs.

    • Violences sexuelles : « Il est urgent de redéfinir pénalement le viol, dont la définition, en France, présuppose un consentement implicite »
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/12/violences-sexuelles-il-est-urgent-de-redefinir-penalement-le-viol-dont-la-de

      Personne ne devrait être jugé a priori consentante ou consentant à des relations sexuelles, dénonce dans une tribune au « Monde », un collectif d’avocates, d’autrices et de magistrats, qui réclame une modification du cadre pénal du viol.

      Pour nombre de professionnelles et professionnels confrontés chaque jour aux situations des victimes de violences sexuelles, comme pour la plupart de nos concitoyennes et concitoyens, il est plus qu’urgent de redéfinir pénalement le viol en France.
      Comment pourrait-il en être autrement face au caractère massif des classements sans suite (74 % des plaintes), des ordonnances de non-lieu, des correctionnalisations et des relaxes prononcées, non pas « dans des dossiers vides », mais dans des dossiers où il existe des éléments qui devraient entraîner poursuites et condamnations pénales ?
      Les statistiques sont connues. Seule une victime de viol sur dix porte plainte. Mais pourquoi iraient-elles déposer plainte et s’exposer aux représailles, y compris judiciaires, de l’agresseur ? Subir un traitement judiciaire qui de facto permet trop souvent l’impunité des mis en cause ?

      Contrairement à ce que certains affirment, ces défaillances ne sont pas seulement dues à une « mauvaise application » du droit pénal, mais bien au droit lui-même. Jugez-en : le fait d’être non consentante ou non consentant à une activité sexuelle ne suffit pas à caractériser le viol, et une juge d’instruction peut écrire par exemple que : « Le défaut de consentement de la partie civile ne suffit pas à caractériser le viol. »

      Prendre en compte la sidération de la victime

      On nous dit qu’il ne faudrait pas changer la définition actuelle du viol, car prendre en compte différemment le consentement dans notre code pénal pénaliserait les victimes, sur lesquelles reposerait alors « une charge de la preuve » (c’est-à-dire démontrer qu’elles n’ont pas consenti). C’est ignorer que la définition actuelle présuppose un consentement implicite à tout acte sexuel, et qu’elle véhicule des stéréotypes tenaces. Le texte nous dit en effet que seuls les actes commis par « violence, contrainte, menace, ou surprise » sont des viols.
      Cet argument ignore aussi que pour établir ces éléments matériels, la justice examine essentiellement le comportement des victimes : « Comment étiez-vous habillée ? » « Pourquoi lui avez-vous parlé ? » « Pourquoi êtes-vous restée ? » Ainsi que leurs réactions : « Pourquoi n’avez-vous pas crié, résisté, porté plainte immédiatement… ? »

      Or, dans la majorité des situations, l’agresseur est connu de la victime : c’est un copain, un ex, un cousin, un collègue, un voisin, un élu, un médecin, un professeur, un ministre… Pour agresser, il s’appuiera plus souvent sur la sidération de la victime, sur sa vulnérabilité, sur sa précarité, sur des rapports de domination ou sur une contrainte morale… Mais notre droit n’oblige pas les magistrats à tirer les conséquences juridiques de ces éléments qui attestent de l’impossibilité d’une volonté libre de la victime.

      Le texte actuel aboutit également à infantiliser les auteurs : on postule qu’ils « n’ont pas compris » un silence, une fausse excuse, un refus poli. Si le comportement de la victime s’écarte du stéréotype attendu (résister vigoureusement, ne pas prendre de risque, etc.), l’agresseur échappera à une poursuite pour défaut d’intentionnalité, et « céder » sera alors interprété comme « consentir ». On postulera que « Monsieur a pu légitimement se méprendre », qu’il a pu croire que ce n’était pas un « vrai non ».

      Eduquer les agresseurs

      Nous devons modifier notre texte pénal. Ce ne sont pas les victimes que notre société doit éduquer, mais les agresseurs, et personne ne devrait être jugé a priori consentant ou consentante. Nous ne pouvons plus permettre que des centaines de milliers de vies soient faites de peurs, de silence et d’efforts surhumains pour se reconstruire.

      Nous pouvons pour cela nous appuyer sur la convention du Conseil de l’Europe dite « d’Istanbul », qui impose aux Etats parties (art. 36.2) que le consentement soit « donné volontairement comme résultat de la volonté libre de la personne considérée dans le contexte des circonstances environnantes ».

      L’Union européenne s’apprête par ailleurs à adopter un projet de directive enjoignant aux Etats membres de trouver un socle commun de définition et de traitement des violences sexuelles. La France s’oppose à ce que le viol soit visé dans cette directive. Il n’y a aucune raison juridique, morale, historique à cela et nous demandons que cette obstruction cesse.
      Nous savons que la rédaction du nouveau texte sera une œuvre difficile. Mais cela ne doit pas justifier le statu quo. Consultons la société civile, écoutons les différents experts et expertes, prenons le temps d’une réflexion approfondie, obtenons les moyens de le faire et agissons.
      Nous n’avons plus le choix.

      Rédactrices : Anaïs Defosse, avocate ; Milena Dostanic, avocate ; Carine Durrieu Diebolt, avocate ; Mylène Hadji, avocate ; Yasmina Le Ber, avocate ; Catherine Le Magueresse, doctoresse en droit ; Frédérique Pollet-Rouyer, avocate ; Elodie Tuaillon-Hibon, avocate ; Claude Vincent, avocate.
      Signataires : Françoise Brié, Fédération nationale solidarité femmes ; Maria Cornaz Bassoli, avocate ; l’association Choisir la cause des femmes ; Audrey Darsonville, professeure en droit privé et en droit criminel à Paris Nanterre ; Giulia Foïs, journaliste et autrice ; GiedRé, autrice, compositrice et interprète ; Dora Bel Hadj, administratrice de l’AVFT Libres et égales ; Fadela Houari, avocate ; Laure Ignace, juriste, association Prendre le droit ; Magali Lafourcade, juriste et spécialiste des droits humains ; François Lavallière, magistrat et enseignant ; Violaine Lucas, présidente de Choisir la cause des femmes ; Marie Rabatel, Association francophone de femmes autistes ; Zoë Royaux, avocate ; Sophie Soubiran, avocate ; Victoire Tuaillon, journaliste et autrice ; Najat Vallaud-Belkacem, ancienne ministre des droits des femmes (2012-2014) ; Marjolaine Vignola, avocate.

      #consentement

  • « Il est faux et anachronique de considérer le Coran comme antisémite », Meir M. Bar-Asher

    Si le Coran contient des passages polémiques sur les juifs, d’autres donnent une vision plus positive des « enfants d’Israël ». Cette ambivalence rend impossible une lecture univoque du texte sacré de l’islam, explique l’islamologue de confession juive Meir M. Bar-Asher, dans un entretien au « Monde ».
    Propos recueillis par Raphaël Buisson-Rozensztrauch


    A l’intérieur de la mosquée Al-Aqsa, sur le complexe connu par les musulmans comme Al-Haram Al-Sharif et par les juifs comme le mont du Temple, dans la vieille ville de Jérusalem, en 2017. AMMAR AWAD / REUTERS

    « La lutte du Hamas contre Israël a un aspect national et un aspect religieux, ce dernier étant le plus substantiel », assure l’islamologue et philosophe Meir M. Bar-Asher. Le mouvement islamiste palestinien, comme d’autres à travers le monde, puise dans certains textes fondamentaux de l’#islam, à commencer par le #Coran, pour alimenter sa haine anti-Israël, voire antijuifs. Néanmoins, selon ce professeur en études islamiques à l’Université hébraïque de Jérusalem – auteur, entre autres, de Les Juifs dans le Coran (Albin Michel, 2019) –, si le livre sacré de l’islam contient effectivement de nombreux passages ambigus à l’égard des #juifs, il recèle aussi plusieurs clés pour les dépasser.

    Comment avez-vous vécu personnellement les attaques terroristes du Hamas le 7 octobre contre Israël ?

    Le 7 octobre 2023, lorsque les événements se sont produits, j’étais à Paris. J’ai suivi les nouvelles de là-bas, et suis retourné en #Israël quelques jours plus tard. Comme tout le monde dans le pays, j’ai été terriblement choqué par l’atrocité des crimes du Hamas et je dois avouer que, bien que leur idéologie me soit très connue, je n’imaginais pas leurs membres susceptibles de commettre ce genre d’actes.

    On observe, depuis les attentats du 7 octobre et le début de la riposte israélienne à Gaza, une recrudescence des actes antisémites dans le monde entier, en France notamment. Y a-t-il une dimension religieuse à ce conflit ?

    Oui, absolument. La lutte du Hamas contre Israël a un aspect national et un aspect religieux, ce dernier étant le plus substantiel. Le Hamas considère que personne d’autre que les #musulmans n’a le droit de dominer la #Terre_sainte (« al-ard al-muqaddasa »). La terre leur a été donnée à la fois par #Dieu et par l’acte de #conquête sur les chrétiens, c’est-à-dire l’Empire byzantin, au début du VIIe siècle, peu après la mort de Muhammad [Mahomet]. Par le fait même de sa conquête, la terre est devenue un waqf, c’est-à-dire un territoire sacré.

    Les juifs, qui y ont vécu dans un passé très lointain, à l’époque biblique et jusqu’à la destruction du second temple (en l’an 70 de l’ère chrétienne), ont perdu le droit d’y revenir puisqu’ils ont rompu, selon le Coran, l’alliance que Dieu avait conclue avec eux. Ils ne peuvent vivre dans le pays qu’en tant que minorité « protégée » sous la domination de l’islam.

    Que dit le Coran concernant la relation des juifs à la Judée antique ?

    Cette terre a été promise aux juifs, comme précise le Coran : « Ô mon peuple, entrez dans la Terre sainte que Dieu vous assigne » (sourate 5 [La Table], 21). Mais Dieu les a abandonnés à cause de leurs péchés et a élu les #Arabes à leur place : « Vous êtes [les musulmans] la meilleure #communauté qui ait jamais été donnée comme exemple aux hommes » (sourate 3 [la Famille d’Imran], 110).

    Pourquoi la place des juifs dans le Coran constitue-t-elle un sujet toujours brûlant, selon vous ?

    Tout d’abord parce que ce sujet traite de deux #religions, chacune portée par un peuple, qui existent toujours. Ces deux peuples que sont les Arabes et les Juifs se sont combattus à divers niveaux, dans plusieurs moments de leurs histoires respectives. Les problématiques évoquées en 2019 dans mon ouvrage Les Juifs dans le Coran sont, pour certaines, cristallisées dans le #conflit_israélo-palestinien.

    Bien que ce conflit ne soit pas nécessairement d’ordre religieux, dans plusieurs périodes de leur histoire, des penseurs des deux côtés ont tenté de lui donner une dimension essentiellement religieuse ; ces penseurs ont dépeint la situation d’opposition entre Juifs et Arabes en utilisant une terminologie et une conceptualisation religieuses. C’est de cela qu’on hérite aujourd’hui, et qui rend la question si complexe.$

    Comment les juifs sont-ils nommés dans le Coran ?

    Divers termes sont employés, et chacune de ces dénominations se réfère à un aspect particulier des juifs. L’un des termes abondamment utilisé dans le Coran pour nommer les juifs est celui de Banû Israʼîl, que l’on peut traduire par « fils d’Israël » : il désigne les anciens Israélites, cités dans la Bible.

    Lorsque le Coran raconte des événements se rapportant au récit biblique, c’est presque toujours ce terme qui est utilisé pour désigner les ancêtres des juifs. C’est lui que l’on retrouve dans ce verset : « O fils d’Israël, n’oubliez pas la grâce dont je vous ai comblés en vous choisissant parmi toutes les nations. »

    Un autre terme, yahûd, désigne les juifs dans un sens plutôt péjoratif : ce terme est très répandu dans les #sourates_médinoises, donc les plus tardives du Coran, qui sont les plus hostiles aux juifs et aux chrétiens.

    Un troisième terme présent à plusieurs reprises est celui d’ahl-al-Kitâb, « peuple du Livre », qui désigne par moments juifs et chrétiens. Ce terme est tantôt positif, tantôt négatif : il évoque parfois le don de la Torah aux juifs, mais rappelle aussi « l’âne chargé de livres » qu’est le peuple juif ayant reçu le don de la révélation, tout en étant incapable de le porter convenablement.

    Quelles étaient les relations entre Juifs et Arabes dans l’Arabie préislamique ?

    Avant Muhammad [Mahomet], les juifs étaient établis dans la péninsule Arabique, principalement au sud – les juifs yéménites en seraient les descendants –, et dans le Hijaz, c’est-à-dire au nord-ouest de la péninsule où l’islam est né. On peut estimer que les juifs dominaient une grande partie de l’Arabie : ils s’appuyaient sur le royaume juif d’Himyar, établi dans l’actuel Yémen. Les rapports culturels et commerciaux entre Juifs et Arabes étaient intenses jusqu’à l’hégire [l’exil de Mahomet de La Mecque vers #Médine, en 622].

    Ces éléments sont importants, car ils constituent l’arrière-plan culturel auquel Muhammad est confronté en Arabie. Quelques chercheurs diraient même la chose suivante : Muhammad a choisi d’émigrer à Médine, une région fortement peuplée de juifs, car il comptait sur ces derniers pour le rejoindre autour d’une conception nouvelle du #monothéisme. Muhammad a sans doute estimé qu’il serait accepté par les juifs du Hijaz.

    On constate également la pensée politique fine du prophète de l’islam lorsqu’il envoie, vers l’an 616 de notre ère, un groupe de ses adeptes à destination du royaume chrétien d’Ethiopie, pour les mêmes raisons. La forte présence de juifs et de chrétiens en Arabie à l’époque de Muhammad explique l’omniprésence d’éléments bibliques, juifs ou chrétiens, dans plusieurs sourates du Coran.

    L’islam a-t-il hérité de pratiques issues du judaïsme ?

    Du point de vue philologique et historique, c’est certain. Au-delà des éléments bibliques, on peut déjà dire que l’islam, au même titre que le judaïsme, est une religion « légale », centrée sur la #loi et les #commandements, à l’inverse du christianisme. La #jurisprudence, le rôle de la Halakha (la loi et la jurisprudence juives) ou de la charia (la loi islamique) sont fondamentales dans ces deux religions, et des ressemblances s’ensuivent – mais ces dernières ont leur limite.

    Au début de la prédication de Muhammad, on perçoit chez lui un désir de se rapprocher des pratiques juives. Cependant, une fois passé le moment où la majorité des juifs refusent de le suivre, s’exprime un désir d’émancipation de l’islam par rapport au judaïsme et au christianisme. Ce qui est naturel : toute religion doit finir par affirmer son indépendance vis-à-vis des traditions passées dont elle hérite.
    Pour donner un exemple : au départ, la direction de la prière pour les musulmans est Jérusalem ; une fois consommé le divorce entre les juifs et les premiers musulmans, La Mecque devient la nouvelle direction pour la prière. Deux étapes apparaissent clairement : ressemblance, puis différenciation.

    Le Coran est-il « antisémite » ?

    Il est faux et anachronique de considérer le Coran ainsi, et certains le font dans un but de propagande contre l’islam. Tout d’abord, le terme « antisémitisme » fait référence à un phénomène bien ultérieur [le terme est apparu en Allemagne au XIXe siècle, il s’attaque aux juifs en tant que peuple et non en tant que pratiquants d’une religion].
    On peut considérer que, dans le Coran, certains versets peuvent servir à nourrir une pensée antisémite, à l’instar des « versets de la guerre » de la #sourate_9 [incitant au combat à mort contre les juifs, les chrétiens, les polythéistes et tous les « #mécréants » en général]. Mais dire explicitement que le Coran est un texte antisémite, c’est faux.

    Je vis d’ailleurs mal cette conception, même en tant que juif. Je lis le Coran depuis mon adolescence avec beaucoup d’intérêt, je l’ai appris avec des Arabes, je l’enseigne à l’université hébraïque de Jérusalem et dans d’autres endroits du monde depuis plus de trente ans… J’ai beaucoup de respect pour ce texte, qui m’a énormément appris et contient des passages extraordinaires.

    Il y a bien des extraits qui me gênent en tant que juif, mais comme ils gêneraient un chrétien, ou tout simplement un être humain ! On peut toutefois dire exactement la même chose de certains versets bibliques, qui sont violents et inacceptables, sans remettre en cause l’intérêt de ces Ecritures.

    Le Coran semble néanmoins donner une image paradoxale des juifs. Comment en sortir ?

    Lors d’un séminaire sur ce thème, un étudiant musulman chiite m’a dit la chose suivante : « Je pense que cela vaut la peine que les sages musulmans adaptent ou suppriment la sourate 9 du Coran [plus tardive, et donc polémique vis-à-vis des juifs et des chrétiens], pour aider à construire une autre image du judaïsme et faciliter la rencontre. Qu’en pensez-vous ? »

    Je lui ai répondu que je suis opposé à toute altération d’un texte canonisé. Des millions de personnes croient en la sainteté du Coran et en sa nature miraculeuse, on ne doit donc rien y changer. Ce qu’on peut changer, en revanche, c’est notre attitude face au texte.

    Le fait qu’il y ait une ambivalence du texte coranique sur ce sujet est, à mes yeux, une clé vers la solution. Le Coran s’exprime de diverses manières sur les juifs, les #chrétiens, et sur bien d’autres sujets aussi. Pour comprendre ces apparentes contradictions, il faut les ramener à leur contexte initial : les polémiques contre les juifs sont à replacer dans le contexte de la prédication de Muhammad dans une région donnée, durant une époque donnée, et ne doivent pas être considérées comme une généralisation sur les juifs. Le fait que le Coran semble paradoxal et contradictoire constitue, en vérité, un remède au littéralisme.

    Quels arguments peut-on opposer, à partir du Coran, à la haine antijuive et à la justification de violences contre les juifs ?

    Tous les stéréotypes et accusations que le Coran adresse aux juifs sont continuellement invoqués pour délégitimer les juifs et leur religion : l’accusation qu’ils ont tué des prophètes, qu’ils ont rompu l’alliance que Dieu avait conclue avec eux, qu’ils ont falsifié les Ecritures divines qui leur ont été révélées, et bien d’autres accusations. Pour autant, dans certains versets du Coran, Dieu répand aussi ses louanges sur les enfants d’Israël.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Meir Bar-Asher : « Quelques versets du Coran peuvent créer une ambiance pacifique et d’autres un climat terrible »

    Ces louanges se répartissent en trois catégories :

    – la vision des enfants d’Israël comme peuple élu ;

    – la sortie d’Egypte et l’arrivée en Terre promise ;

    – l’Alliance et le don de la Torah, vue comme une source qui confirme l’islam.

    L’idée de l’élection d’Israël revient souvent dans le Coran. Tantôt cela concerne le peuple tout entier, tantôt seulement quelques personnalités ou quelques familles comme celle d’Abraham, de ‘Imrân (c’est-à-dire ‘Amram, père d’Aaron, de Moïse et de Myriam dans la Bible) ou encore certains prophètes.

    Dans certains versets coraniques, l’idée d’élection se dégage par elle-même de la grâce de Dieu envers Israël et des nombreux bienfaits que Dieu répand sur eux : « Nous avons donné aux fils d’Israël le Livre (al-kitâb), la Sagesse (al-hukm) et la Prophétie (al-nubuwwa). Nous les avons pourvus d’excellentes nourritures. Nous les avons élevés au-dessus des mondes » (45, 16). Ou encore dans un autre verset : « O mon peuple ! Souvenez-vous de la grâce de Dieu à votre égard, quand il a suscité parmi vous des prophètes ; quand il a suscité pour vous des rois ! Il vous a accordé ce qu’il n’avait donné à nul autre parmi les mondes » (5, 20).

    Aucun texte, a fortiori un texte religieux souvent difficile comme le Coran, ne se donne à lire de manière absolue, et le sens qu’on en retire dépend beaucoup du contexte que l’on prête à ces versets.

    Certaines phrases à fort potentiel polémique lorsqu’elles sont prises isolément se voient ainsi « neutralisées » quand elles sont ramenées à un contexte historique précis ; à l’inverse, des versets dont l’interprétation traditionnelle a toujours cherché à éclaircir le contexte deviennent « explosifs » quand ils sont sciemment décontextualisés pour être brandis contre les juifs et les chrétiens d’aujourd’hui.

    Raphaël Buisson-Rozensztrauch
    https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2023/11/26/pourquoi-il-est-faux-et-anachronique-de-considerer-le-coran-comme-antisemite

  • Face à la folie du monde
    https://reporterre.net/Face-a-la-folie-du-monde

    Cela m’avait échappé, j’ai appris à l’occasion de cette audience que la représentante du ministère de l’Intérieur avait indiqué que les 155 000 signataires se revendiquant des Soulèvements de la Terre entraient de facto dans le scope des renseignements territoriaux . Les implications d’une éventuelle dissolution sont vertigineuses, tant du point de vue de la jurisprudence, que des effets en termes de surveillance et du champ encore élargi de la répression. Où se situent les limites, que deviennent les libertés publiques, si le fait de signer un appel autorise le gouvernement à vous mettre sur écoute ?

  • Proposition de loi visant à interdire l’usage de l’#écriture_inclusive
    Rapport n° 67 (2023-2024), déposé le 25 octobre 2023

    AVANT-PROPOS

    I. ÉCRITURE « INCLUSIVE » OU NOVLANGUE EXCLUANTE ?
    A. DES PRATIQUES QUI SE DÉVELOPPENT RAPIDEMENT
    1. Qu’est-ce que l’écriture dite « inclusive » ?
    2. Un phénomène loin d’être marginal
    B. UNE DÉMARCHE QUI SOULÈVE DE NOMBREUSES DIFFICULTÉS
    1. Une écriture non neutre
    2. Une contrainte importante sur une langue déjà menacée
    3. Une menace pour l’intelligibilité et l’accessibilité des textes
    II. UNE PROPOSITION DE LOI NÉCESSAIRE POUR DISSIPER DES INCERTITUDES JURIDIQUES
    A. DES INCERTITUDES JURIDIQUES
    1. Quelques grands principes et deux circulaires
    2. Une jurisprudence hésitante
    B. UNE PROPOSITION DE LOI POUR CLARIFIER LE DROIT
    C. LA POSITION DE LA COMMISSION

    EXAMEN DES ARTICLES

    Article 1er

    Interdiction de l’usage de l’écriture dite inclusive dès lors que le droit exige l’utilisation du français
    Article 2

    Conditions d’application et d’entrée en vigueur de la loi
    Intitulé de la proposition de loi

    EXAMEN EN COMMISSION
    LISTE DES PERSONNES ENTENDUES
    RÈGLES RELATIVES À L’APPLICATION DE L’ARTICLE 45
    DE LA CONSTITUTION ET DE L’ARTICLE 44 BIS
    DU RÈGLEMENT DU SÉNAT (« CAVALIERS »)
    LA LOI EN CONSTRUCTION
    https://www.senat.fr/rap

    /l23-067/l23-067.html
    #France #interdiction #loi #novlangue #langue #menace #intelligibilité #accessibilité #incertitudes_juridiques #jurisprudence #circulaires #proposition_de_loi

    • 中性语言 - 维基百科,自由的百科全书
      https://zh.m.wikipedia.org/wiki/%E4%B8%AD%E6%80%A7%E8%AF%AD%E8%A8%80

      Trop compliqué:e pour moi. Désormais je contournerai le problème en ne m"exprimant plus qu’en chinois, qui ne connait pas le problème de no lamgues.

      Le chinois est une langue super simple qui ne connais ni genre, ni temps ni conjugaison ou déclinaison. Il n’y a mėme pas de singulier ou pluriel. Tu dis simplemen « il y en a plusieurs » avec un seul « mot » (们) qui établit son contexte par sa position. Si tu veux dire expressément qu’il n’y a qu’un seul spécimen de quelque chose ( 一个 x ) tu le dis simplement. S’il est important de savoir s’il s’agit de quelque chose de féminin (女)ou masculin (男), tu fais pareil. Tu ne mentionne expressément que les qualités exceptionnelles, tout le reste est contexte.

      Les juristes ont raison sur un point : il est très difficile voire impossible de formuler des textes de droit en chinois qui ne comportent pas ambiguité. On est confronté en chinois à un nombre d’éléments de grammaire très réduit au profit de la syntaxe. Chaque idéogramme correspond à un nombre élevé de significations différents et parfois contradictoires. Cette particularité fait que le chinois ancient dépasse en complexité le grec antique.

      On peut sans doute affirmer que nos grammaires ont une grande influence sur notre logique, notre manière de penser. Nos batailles liguistiques n’existeraient pas, si nous avions appris à parler et penser d’une manière plus libre, peut-être plus chinoise ;-)

      Voici ce que dit wikipedia en chinois à propos de l’écriture inclusive.

      Un langage neutre signifie éviter l’utilisation d’un langage qui est préjugé contre un sexe ou un genre particulier. En anglais, certaines personnes préconisent d’utiliser des noms non sexistes pour désigner des personnes ou des professions [1] et d’arrêter d’utiliser des mots à connotation masculine. Par exemple, le mot hôtesse de l’air est un titre de poste spécifique au sexe, et le mot neutre correspondant devrait être agent de bord. En chinois , certains caractères chinois à connotation positive et négative auront le mot « 女 » comme radical .Un langage neutre signifie éviter l’utilisation d’un langage qui est préjugé contre un sexe ou un genre particulier. En anglais, certaines personnes préconisent d’utiliser des noms non sexistes pour désigner des personnes ou des professions et d’arrêter d’utiliser des mots à connotation masculine. Par exemple, le mot hôtesse de l’air est un titre de poste spécifique au sexe, et le mot neutre correspondant devrait être agent de bord . En chinois , certains caractères chinois à connotation positive et négative auront le mot « 女 » comme radical .

      Attention, traduction Google

    • Suggérer l’utilisation du kotava comme langue de communication dans l’administration :

      Les substantifs et les pronoms sont invariables ; il n’existe aucun système de déclinaison. Il n’y a pas non plus de genre. Si l’on souhaite insister sur le sexe d’une personne ou d’un animal il est possible d’utiliser les suffixes dérivationnels -ye (pour les êtres vivants de sexe masculin) et -ya (pour les êtres vivant de sexe féminin).

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Kotava

    • Guerre d’usure contre l’écriture inclusive… et l’#égaconditionnalité

      Les #conservateurs, en mal de notoriété, épuisent les féministes avec un énième texte contre l’écriture inclusive. Ce texte veut interdire cette écriture à celles et ceux qui reçoivent des fonds publics. #Anti-égaconditionnalité !

      Quelques jours après l’échec du Rassemblement National (RN), Les Républicains (LR) réussissent à imposer un #débat_parlementaire pour interdire l’écriture inclusive ! Le 12 octobre dernier, le RN avait inscrit un texte dans sa « niche » parlementaire à l’#Assemblée_nationale. Mais il avait fini par le retirer avant de se voir opposer un rejet. Des députés LR qui s’étaient alliés à lui, puis rétractés, réservaient sans doute leurs forces pour soutenir leurs collègues du Sénat.
      Car mercredi 25 octobre, les sénateur.trice.s de la Commission de la culture, de l’éducation et de la communication du Sénat ont adopté une proposition de loi voulant « protéger la langue française  » de ses « #dérives  ». Une proposition qui sera examinée le 30 octobre.

      Le bruit des conservateurs, la fatigue des féministes

      Une #grosse_fatigue a alors gagné le mouvement féministe sur les réseaux sociaux. Impossible de compter le nombre de proposition de lois, de circulaires, de textes outragés, de déclarations solennelles s’attaquant à l’#égalité dans le #langage. Vouloir restaurer la #domination_masculine dans la #langue_française permet aux conservateurs de se faire mousser à bon compte auprès de leur électorat. Et pendant qu’ils occupent le devant de la scène sous les ors de la République, les féministes s’épuisent à démontrer la #justesse de leur combat avec beaucoup moins de moyens pour se faire entendre.

      Le #rouleau_compresseur est en marche. La proposition de la commission sénatoriale, qui avait été déposée par « Le sénateur » -c’est ainsi qu’elle se présente- LR #Pascale_Gruny en janvier 2022, a peu de chance d’aboutir dans sa totalité à une loi tant elle est excessive. Mais elle permet une nouvelle fois de sédimenter le discours conservateur dans l’opinion. Un discours attaché à ce que « le masculin l’emporte ».

      Pascale Gruny a eu les honneurs de l’émission « Les grandes gueules » sur RMC . Elle a pu nier le poids du #symbole : « Que le masculin l’emporte sur le féminin, c’est simplement une règle de grammaire, cela ne veut pas dire que les hommes sont supérieurs aux femmes, c’est ridicule » a-t-elle asséné. « Le but c’est de l’interdire dans les contrats, les publications de la vie privée pour que cela ne s’utilise plus. Et je veux aussi que cela disparaisse de l’#université comme à Sciences-po où c’est obligatoire je crois. »

      Le texte proposé veut très largement bannir l’écriture inclusive « dans tous les cas où le législateur exige un document en français », comme les modes d’emploi, les contrats de travail ou autres règlements intérieurs d’entreprises, mais aussi les actes juridiques. « Tous ces documents seraient alors considérés comme irrecevables ou nuls » s’ils utilisent l’écriture inclusive, dite aussi #écriture_épicène.
      Ces conservateurs ne se sont toujours pas remis de l’approbation, par le Tribunal de Paris en mars dernier, d’inscrire l’écriture inclusive dans le marbre de plaques commémoratives (lire ici).

      Pas de #subvention si le masculin ne l’emporte pas

      Le texte de Pascale Gruny fait même de l’anti-égaconditionnalité en interdisant l’écriture inclusive aux « publications, revues et communications diffusées en France et qui émanent d’une personne morale de droit public, d’une personne privée exerçant une mission de service public ou d’une personne privée bénéficiant d’une subvention publique ». Les journaux qui reçoivent des subventions publiques devraient être concernés ?…

      Rappelons que l’égaconditionnalité des finances publiques revendiquée par les féministes consiste à s’assurer que les #fonds_publics distribués ne servent pas à financer des activités qui creusent les inégalités entre femmes et hommes… Ici on parlerait de patriarcatconditionnalité…

      C’est aussi un combat qui épuise les féministes.

      https://www.lesnouvellesnews.fr/guerre-dusure-contre-lecriture-inclusive-et-legaconditionnalite

      #épuisement #féminisme

    • Pour une fois je me permets d’avoir une opinion alors que d’habitude j’essaie de me tenir aux choses que je sais et de me taire ou de poser de questions par rapports aux autres sujets.

      Ne perdons pas trop de temps avec des discussions inutiles. Si le langage et l’écriture appelés inclusifs deviennent assez populaires parce qu’ils correspondent à une pratique partagée par assez de monde, si cette relative nouveauté est plus qu’un dada des intellectuels, si le peuple adopte ces formes d’expression, aucun décret n’arrêtera leur avancée.

      Je suis content d’avoir été en mesure d’apprendre un français approximatif, assez bon pour me faire comprendre et je ne verrai plus le jour du triomphe ou de la défaite de telle ou telle forme de français. Ces processus durent longtemps.

      Alors je préfère investir un peu de mon temps pour améliorer mes compétences en chinois. Cette langue me promet la même chose qui m’a fait prendre la décision d’apprendre le français. Avec l’apprentissage d’une nouvelle langue on découvre le monde sous d’autres angles, on adopte de nouvelles façons de raisonner et d’agir, on développe une personnalité supplémentaire, on n’est plus jamais seul. Parfois je me demande, ce que ferait mon caractère chinois à ma place quand ma personnalité allemande, française ou états-unienne me fait prendre une décision.

      Ma pratique des langues que je maîtrise changera au rythme auquel je les utiliserai. Je continuerai alors de le mentionner quand le sexe d’une personne a une importance et une signification, si c’est nécessaire pour dire ce que j’ai à dire. Pour le reste je me tiens aux règles qu’on m’a enseignées et aux habitudes que j’ai prises.

      Je comprends la peur de l’invisibilité et le besoin de la combattre parce que je passe une grande partie de ma vie à donner une voix aux personnes qui sont comme moi rendus invisibles par le pouvoir en place, par les mécanismes inscrits dans nos sociétés et par la méchanceté et le dédain des imbéciles. Chaque langue connaît des manières de s’attaquer à ce défi.

      Je suis curieux comment l’écriture et le langage inclusif cohabiteront ou pas avec cette multitude de formes d’expression chères à celles et ceux qui en sont maîtresses et maîtres et les considèrent comme les leurs.

      #écriture_inclusive #français #chinois #dialectes #patois #allemand

    • #mecsplications sur l’inclusivité et détournement de ce qui est préoccupant dans ce post.

      Les langues sont vivantes et tout gouvernement/état qui cherche à imposer aux populations de contrôler leurs expressions du langage tend au totalitarisme. #police_du_langage

      A contrario, l’écriture inclusive est un signe qui déplait aux conservateurs et aux fascistes parce qu’elle est manifestation politique du vivre ensemble, du soin à marquer que les inégalités de genre ne sont plus acceptables et de la résistance vivante à une langue moribonde, celle du patriarcat. Une petite révolution à la barbe des tenants du pouvoir et tout cela uniquement par le langage cela appelle des lois et de la répression.

      Quelle mauvais blague.

      Les rétrogrades de Toulouse ne s’y sont pas trompés, ils ont carrément interdit l’usage de l’écriture inclusive. 23/06/2021
      https://www.ladepeche.fr/2021/06/22/toulouse-pas-decriture-inclusive-au-capitole-9624088.php

      #féminisme #écriture_inclusive

    • #militantisme #langues_vivantes #langue_écrite #langue_parlée

      Et justement : les passions tristes des forces réactionnaires :

      «  Il existe d’autres moyens d’inclure le féminin dans la langue française  », expose la conseillère municipale d’opposition qui juge «  intéressant de réfléchir à ces questions sans passion.  »

      Qu’iels aillent bien tou·tes se faire cuire le cul, ces administrateurs·rices du cheptel humain :-))

    • Mais la française est vraiment horrible, il faut absolument la interdire avant qu’elle ne se diffuse partout, elle va nous falloir rapidement accepter l’écriture inclusive ou toute la morale patriarcale de notre chère Jeanne Jack Rousselle va se retrouver à la ruisselle. Pensez donc à cette genre de traduction

      « Toute l’éducation des hommes doit être relative à les femmes. Leur plaire, leur être utiles, se faire aimer et honorer d’elles, les élever jeunes, les soigner grandes, les conseiller, les consoler, leur rendre la vie agréable et douce : voilà les devoirs des hommes dans toutes les temps, et ce qu’on doit leur apprendre dès l’enfance. »

    • La Monde ne sait pas ce qu’est la pointe médiane, et utilise des pointes de ponctuation (et en les doublant) pour dénoncer la usage qu’elle méconnait. C’est quand même savoureuse.

      sénateur.rice.s

      c’est pourtant simple la pointe médiane c’est à la milieu, comme ça

      sénatrice·s

      la texte législative de ces andouilles qui n’ont rien à asticoter dans leur cervelle a donc été adoptée par la sénate cette nuit

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/10/31/ecriture-inclusive-le-senat-adopte-un-texte-interdisant-la-pratique-dans-tou

      #les_crétins_du_palais_du_luxembourg

    • C’est difficile de suivre cette débat avec la novlangue employée par les député·es ; par exemple j’ai cherché la terme de wokisme dans la dictionnaire et je n’ai rien trouvée. Et sinon pour pointer une contradiction, elle me semble qu’il y a déjà une loi AllGood qui vise à défendre l’immutabilité éternelle de la française — mais que la startup nachioune n’en a pas grand chose à faire.

    • la enjeu est de montrer que la culture française est sage et docile ( Au-delà de Versailles et de St Cloud c’est la jungle ) et que grâce à macron et toutes celleux accrocs à ses jolies mollettes de roitelet la langue française constitue une socle immuable. (ici j’adore l’aspect sable mouvant de la langue, tu crois que tu la maitrises qu’elle t’appartient enfermé dans les dogmes coloniaux des institutions et hop, nique ta novlangue)

      Iels ont donc si peur que la langue française soit vivante et évolue, je trouve ça juste extraordinaire d’en arriver à légiférer pour un point médian. Enchainez ce point médian tout de suite et jetez le au cachot ! Oui maitre·sse.

    • Le « François » dans tous ses états ...
      #château-Macron (du gros qui fait tache)
      https://seenthis.net/messages/1023508#message1023947

      #tataouinage (?) #québecois
      https://fr.wiktionary.org/wiki/tataouiner
      (Et donc rien à voir avec Tataouine, ville de Tunisie passée dans le langage populaire pour évoquer un endroit perdu au bout du monde)
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Tataouine
      En arabe,
      تطاوين
      se prononce un peu comme Tatooine qui est une planète-désert de l’univers de fiction Star Wars.
      Il n’y a pas de hasard, enfin, si, peut-être, un peu quand même ...

  • Exemple de cette idéologie dominante, embarquée dans un processus de décomposition fasciste, procédant par amalgame, stigmatisation et dissociation : un article bien pourri du JDD, stigmatisant ici la Cimade. L’association humaniste est, non seulement, tenue comme portant une responsabilité dans l’assassinat du professeur Dominique Bernard mais on l’accable de négationnisme (équivalent Faurisson, Soral, etc.), sous prétexte qu’elle qualifie la politique d’Israël d’apartheid.

    Le propos est tellement ordurier, qu’il m’est impossible de rendre compte de son existence (surtout, ne pas le relayer) autrement que par son URL :

    https://www.lejdd.fr/societe/la-cimade-une-association-militante-qui-partage-les-combats-de-lextreme-gauche

    • Pas le courage de lire cet article du JDD mais ailleurs ce n’est guère mieux et depuis le 7/10/2023 le marasme médiatique français a pris une accélération fulgurante. A croire qu’il y a un concours ouvert entre les déclarations toutes plus ignominieuses les unes que les autres et le nombre de victimes du conflit qui ne cesse de grandir de jour en jour. Pour échapper aux images commentées par des militaires ou anciens militaires (trop présent à la télé). La réflexion des sempiternels politologue médiatique est bien souvent dans la ligne éditoriale de ce journal d’extrême droite.

      Conflit israélo-palestinien : calomnies médiatiques contre LFI ou « La Formation infréquentable »
      https://www.acrimed.org/Conflit-israelo-palestinien-calomnies-mediatiques

      Depuis le 7 octobre, la couverture médiatique des événements en Israël et en Palestine est massive. Nous l’avons étudiée dans un premier article au prisme de « l’information internationale ». Mais en parallèle, le journalisme politique s’est largement focalisé sur des controverses politico-médiatiques. Les médias dominants, qui relaient complaisamment les campagnes menées par ceux qui dominent le champ politique, sont passés tel un rouleau-compresseur sur La France insoumise, contre laquelle tout semble désormais permis. Ses positions, « résumées », déformées, conspuées, lui ont valu une double condamnation, pour complicité de barbarie et antisémitisme nazi.

      Caroline Fourest sur France 5 (11/10)

      « Comme Marine Le Pen est impeccable, on n’a pas prise, nous, journalistes, pour parler de cette extrême droite antisémite. Alors que comme Mélenchon dérape et que Mathilde Panot bredouille, on a plus de facilité à parler de l’extrême gauche antisémite. Mais encore une fois, les deux se rejoignent sur les juifs. »

    • on me dit que par prudence bon nombre d’assos et collectifs de soutien aux immigrés, réfugiés, étrangers ont, au lendemain de l’assassinat du professeur d’histoire Dominique Bernard à Arras, annulé par prudence 15 jours de rendez-vous publics des plus ordinaires.

      la baisse des financements publics de diverses assos (du Planning familial à la Cimade) est en cours et des Ciotti JDD insistent, dans le cas de la Cimade et d’autres structures d’appui aux étrangers, pour qu’elles soient plus drastiques, voire totales.

      ce n’est pas pour son humanisme que la Cimade est visée mais bien en raison des pratiques qu’elle met en oeuvre : une défense des droits des étrangers qui fait effectivement obstacle à des expulsions, facilite l’obtention de droits (asile, séjour, régularisation) et contribue à une forme d’accueil.

      par ailleurs, aujourd’hui, dans une fac de Lille, ce sont les vigiles qui ont appelé la police (et non la présidence qui en théorie en a seule le droit, lorsque le préfet ne prend pas l’initiative : on en a fini avec des siècles de « franchise universitaire ») contre une table de presse de l’Unef en solidarité avec les palestiniens.

      edit Borne a aussi livré ce jour les perpectives du régime suite aux émeutes de l’été : une série de graves dispositions sécuritaires

    • J’ai eu confirmation aujourd’hui que la Cimade continue ses permanences. à Paris.

      Si j’évoquais le caractère « humaniste » de la Cimade c’était une manière de dire qu’il s’agit d’une asso caritative bien établie depuis des lustres et reconnue par les institutions parmi les principales références de « défense des Droits de l’Homme », au même titre que la LDH ou Amnesty. Ce n’est pas du tout une organisation révolutionnaire (contrairement à ce qu’on pourrait croire en lisant le JDD).
      De ce que j’en connais (je connais très bien une personne qui en est membre), ce sont des bénévoles qui font tourner les lieux d’accueil (il y a quelques salariéEs mais iels ne sont pas à l’accueil). Je pense qu’avec ce gouvernement, les membres de la Cimade vont rencontrer de graves difficultés pratiques et psychologiques pour obtenir la régularisation des personnes qu’iels reçoivent.
      Les actions de la Cimade, pour l’essentiel, ne consistent qu’à faire de l’accompagnement individuel. Cela se résume à essayer d’aider les personnes à débroussailler le maquis administratif et réglementaire. Tout ceci demande du temps, les procédures sont longues et c’est parfois compliqué. Souvent, l’issue de la démarche est totalement tributaire du bon vouloir de la préfecture. Aujourd’hui, autant dire que le refus est désormais la règle. Rien à voir avec les régularisations politiques de salariéEs comme on a eu sur les chantiers des JO récemment, suite à une lutte syndicale collective (grève) organisée par la CNT-SO et la CGT.
      Les bénévoles de la Cimade se tapent en réalité le (sale) boulot que devrait faire l’administration, sachant que tout est fait pour que la procédure de régularisation ne fonctionne pas, à commencer par l’impossibilité de prendre un RDV en préfecture. De fait, beaucoup d’étrangers considèrent les membres de la Cimade comme faisant partie de la chaîne administrative pour obtenir leurs papiers. L’administration en abuse. C’est parfois compliqué pour ces bénévoles d’établir une relation claire, distanciée et équilibrée avec les personnes qu’iels reçoivent. Le fait qu’il s’agisse d’une asso d’origine religieuse n’arrange pas les choses. Bref, ce n’est pas du tout mon truc mais je leur tire mon chapeau parce que ça devient de plus en plus dur.

      Voilà pourquoi je trouve que c’est vraiment dégueux de cibler la Cimade, tel que le fait ce journal raciste et haineux.

    • je parlais des rendez dans l’espace public, pas des permanences d’accueil. cette suspension de 15 jours a été une décision prise au niveau national (par crainte d’attaques racistes ?), appliquée partout.
      l’accueil est effectivement tributaire de cet aspect para-officiel mais aussi du paternalisme humanitaire de nombreux bénévoles. malgré cela, il va bien au-dela de ce que feraient des services d’État puisqu’il s’agit de conseiller des non citoyens sur la manière de faire valoir des droits face à une administration qui s’y oppose. de plus, la Cimade se porte partie en justice contre les préfectures ou l’État. on a tendance à dédaigner les « cas » au prétexte qu’ils seraient individuels, mais c’est aussi depuis des cas qui sont au croisement du cours des vies et de la jurisprudence formelle et réelle que l’on a prise.

      c’est à une attaque généralisée contre toute forme de contre pouvoir que cet organe de presse contribue, et avec lui bien d’autres acteurs.

    • De ce que j’en sais, il y a des permanences de standard téléphonique assurées, à tour de rôle par les bénévoles à leur domicile (à partir d’un service de téléphonie en ligne). De là, on prend les infos pour débroussailler et, le cas échéant, orienter vers les permanence physiques (une sorte de pré-rendez-vous). Ce sont les mêmes personnes qui font l’accueil et l’accompagnement au cas par cas et, à ma connaissance, sur Paris, rien n’a changé sur les permanences physiques mais il est vrai que beaucoup de personnes manifestent leur inquiétude à cause du climat actuel particulièrement malsain.

      Concernant ce que j’ai indiqué plus haut, à propos du caractère de « prétraitement administratif » dans l’activité de ces associations d’aide aux clandestins, je tiens à préciser que ce n’est que mon interprétation et que cela ne correspond absolument pas à la position de la Cimade, qui, au contraire, revendique haut et fort qu’elle ne doit pas suppléer aux insuffisances de l’État. Mon propos, évidemment, n’est nullement dédaigneux mais il vise à souligner les contradictions auxquelles peuvent être exposées, avec les meilleures intentions du monde, les personnes de ces associations. C’est le cas, aussi, des syndicalistes qui peuvent être conduitEs à traiter des situations identiques, au cas par cas, en s’appuyant pour l’essentiel, tels des avocats, sur des moyens juridiques.

      Précisément, à propos de la différence entre « accompagnement de cas individuel » et « lutte sociales collectives », je suis d’accord avec toi, @colporteur qu’il ne faut pas l’opposer systématiquement et que le contact personnel avec des individus en difficulté n’est que la résultante d’une pratique réelle de solidarité sociale. Ceci doit être rappelé, d’autant plus que les syndicats cités, font, eux-aussi, de l’accompagnement juridique de cas individuels de sans-papiers (avec leur recettes « spéciales », pour obtenir des résultats qui semblent inaccessibles à d’autres, mais ça c’est une autre affaire).

      Je voulais juste indiquer, qu’au-delà du cas des régularisations de sans-papiers, la lutte juridique peut s’avérer totalement inadaptée, surtout quand on s’engage dans la voie autoritaire que nous connaissons actuellement, avec ce gouvernement qui impose, avec le soutien parlementaire d’une droite dure, des lois de plus en plus nazes. L’accompagnement individuel juridique est indispensable mais, dans la pratique syndicale, en tous cas, il s’avère particulièrement chronophage et peut décourager les volontés les plus endurcies car les résultats sont plus qu’aléatoires.

    • je ne prends pas le temps de rassembler mes idées et de développer, pardon, mais cette tension individuel (chronophage et dépolitisant)/collectif (jamais assuré de son existence et/ou soumis à de terribles exigences surmoïques) est un classique des pratiques de lutte, et spécialement de celles qui ont lieu hors de l’emploi (sans papiers, chômeurs et précaires).

      quoi qu’il en soit des intentions (révolutionnaires ou pas, par exemple), sans conflictualité y compris sur le terrain juridique, il n’y a pas de production de jurisprudence, où plutôt celle-ci est laissé à l’initiative adverse (et là le pouvoir législatif, exécutif, les pratiques de guichet triomphent), je renvoie faute de temps et par paresse à ces quelques lignes
      Court éloge de la jurisprudence, Laurent de Sutter
      https://www.cairn.info/qu-est-ce-que-la-pop-philosophie--9782130816348-page-51.htm

      ou à celles-ci

      « La jurisprudence est la philosophie du droit, et procède par singularités, prolongement de singularités », disait Gilles Deleuze (1925-1995). La philosophie sait penser la loi. Mais le droit ne se laisse pas réduire aussi facilement. Ce prodigieux meccano impose son jeu à la pensée et s’offre ainsi comme un modèle possible, inventif et foisonnant, rigoureux pourtant, souverainement indifférent au jugement

      https://liseuse.michalon.fr/978-2-84186-482-9

      et enfin, faute de temps et à défaut de contacter une amie qui cimade afin de fournir des exemples spécifiques, à un vieil exemple de « montée en généralité » depuis le cas concret (sachant que Deleuze distingue à raison ce qui relève de la jurisprudence formelle, comme c’est le cas d’un arrêt de la Cour de cassation, et de la jurisprudence réelle, au plus près des usages concrets)
      Jurisprudence, Pôle Emploi condamné pour insuffisance d’information
      https://www.cip-idf.org/spip.php?article6073

      #droit #jurisprudence

  • Une nouvelle jurisprudence pour les salariés en arrêt maladie
    https://www.francetvinfo.fr/replay-radio/c-est-mon-boulot/une-nouvelle-jurisprudence-pour-les-salaries-en-arret-maladie_6051998.h

    C’est un changement de taille pour les salariés en arrêts de travail. Désormais, ils acquièrent des droits à congés payés pendant leur absence, sans limitation de durée, et quel que soit le motif de la maladie.

    Sur cette question des droits à congés pendant un arrêt maladie, une nouvelle jurisprudence met fin à un différend ancien entre les entreprises et les salariés ?

    Sarah Lemoine : Ce revirement, on le doit à la chambre sociale de la Cour de cassation. La semaine dernière, elle a mis fin à un vieux litige autour des droits à congés pendant un arrêt maladie. La plus haute juridiction de l’ordre judiciaire français juge que les dispositions du Code du travail sur le sujet sont illégales. Elle dit que c’est le droit européen qui prime désormais, et que les entreprises doivent s’y conformer.

    Qu’est-ce ça change concrètement ?

    D’abord, tous les salariés acquièrent des jours de congés payés, pendant leur arrêt de travail, quel que soit le motif de la maladie. Ce n’est pas rien, car dans le Code du travail, ce droit est réservé uniquement aux salariés victimes d’un accident du travail ou d’une maladie professionnelle. Ensuite, l’acquisition des congés payés n’est pas limitée dans le temps. Exemple, si un salarié est arrêté pendant deux ans, il a droit à 10 semaines de vacances à son retour.

    Enfin, la décision de la cour de cassation est rétroactive, selon l’avocate Audrey Tomaszewski, du cabinet Eversheds. Elle s’applique aux arrêts maladie en cours, mais aussi passés. Un salarié qui a perdu des jours de congés payés peut les réclamer à l’employeur, même s’il a quitté l’entreprise.

    Mais est-ce que les patrons vont respecter cette nouvelle jurisprudence tant que le Code du travail n’est pas réécrit ?

    Les conséquences financières sont importantes pour les entreprises, surtout celles qui ont beaucoup de salariés en arrêt maladie. Mais celles qui traînent la patte prennent un risque conséquent, souligne l’avocat Bruno Malvaud du cabinet Capestan. Celui d’être condamné par un conseil des prud’hommes ou une cour d’appel, en cas de contentieux avec l’employé.

    La grande question, c’est donc de savoir quand le Code du travail sera modifié ?

    Oui, car pour réécrire l’article incriminé, cela nécessite un projet de loi. Et pour le moment, le gouvernement ne s’y est pas formellement engagé. Le ministère du Travail a juste pris acte de la décision de la Cour de cassation, et dit réfléchir à plusieurs options.

    #jurisprudence #travail #droit_du_travail #arrêt_de_travail #congès_payés

    • Jusqu’à ce qu’une nouvelle jurisprudence fasse basculer le balancier dans l’autre sens, sachant que la dynamique globale du machin ne va vraiment pas dans le sens des intérêts des salariés. Quant aux prudhommes, depuis la loi travail, ils s’apparentent à la ficelle du string qu’il reste à la classe ouvrière pour se couvrir des mauvais coup portés par leurs ennemis de classe, quand le string lui-même représente l’ensemble des moyens juridiques permettant de défendre ses droits.

  • #Justice_pesticides

    Un outil d’information et de coopération des victimes des pesticides grâce à une base de données juridiques permettant d’agir.

    L’association Justice Pesticides regroupe des personnalités venues de tous les continents qui ont été à divers titres confrontés aux conséquences des pesticides sur la santé, les ressources naturelles, leurs activités. Elles ont, pour certaines d’entre elles, été directement opposées aux multinationales qui produisent ces molécules. L’objectif de l’association est de permettre au mieux dans le monde entier la #défense des personnes #victimes de pesticides, quels que soient leur nationalité ou leur statut (voisins, agriculteurs, collectivités locales, scientifiques etc…)

    Pour y parvenir, elle met à la disposition de tous, l’ensemble des cas #contentieux concernant les pesticides dans le monde. L’objectif est la mise en place d’un grand #réseau physique et virtuel collaboratif pour mutualiser toutes les actions dans le monde qui mettent en cause les pesticides afin d’établir une base juridique et scientifique internationale qui permettra de renforcer les #actions_en_justice.

    Elle a également pour objet de contribuer la réflexion sur une stratégie globale contre les pesticides afin d’obtenir la #réparation des dommages causés par ces produits toxiques aux humains, à la faune, à la flore et aux ressources naturelles.

    Elle a pour objectif final l’interdiction des pesticides qui mettent en péril la santé humaine et l’environnement.

    https://justicepesticides.org
    #justice #jurisprudence #base_de_données #base_de_données_juridiques #résistance #mutualisation

  • Comment la #France verrouille son #passé_colonial

    La polémique en France sur la notion de #crime_contre_l'humanité du temps de la #colonisation rappelle les vifs débats causés dans ce même pays il y a plus de dix ans par l’adoption de la loi du 23 février 2005 qui ne retenait que le « rôle positif de la présence française outre-mer ». L’« #affaire_Macron » met en exergue le profond malaise lié au passé colonial de la France, souligne la professeure de droit Sévane Garibian.

    Quoi que l’on pense des propos récents d’#Emmanuel_Macron sur la #colonisation_française, il est utile d’observer leurs effets en recourant à une temporalité plus longue, dépassant le court terme médiatico-politique. La #polémique née il y a quelques jours en France rappelle, en symétrie inversée, les vifs débats causés dans ce même pays il y a plus de dix ans par l’adoption de la loi du 23 février 2005 qui ne retenait que le « #rôle_positif de la présence française outre-mer ». La disposition litigieuse (finalement abrogée par décret en 2006), tout comme les rebondissements et double discours dans ladite « affaire Macron », auront eu pour mérite de mettre en acte le profond #malaise lié au passé colonial de la France.

    Ce trouble s’est régulièrement nourri de résistances dont nous trouvons de multiples traces dans le champ du #droit, grand absent des commentaires de ces derniers jours. Abordons donc cette polémique de biais : par ce qu’elle ne dit pas, par ce qu’elle occulte. Rappelons ainsi que la Cour de cassation française eut l’occasion de produire une jurisprudence relative aux #crimes commis en #Algérie (#affaires_Lakhdar-Toumi_et_Yacoub, 1988) ainsi qu’en #Indochine (#affaire_Boudarel, 1993). Une #jurisprudence méconnue, ou tombée dans l’oubli, qui soulevait pourtant directement la question de la qualification ou non de crime contre l’humanité pour ces actes.

    Les précédents

    Plusieurs historiens ont pu souligner dernièrement la distinction entre les usages juridiques, historiques et moraux du concept de crime contre l’humanité, tout en rappelant que ce dernier ne peut se trouver, aujourd’hui en France, au cœur de #poursuites_pénales visant les #crimes_coloniaux. Quelle est donc l’histoire du droit menant à un tel constat ? Afin de mieux comprendre ce dont il s’agit, il est possible d’ajouter deux distinctions à la première.

    D’abord, une distinction entre le problème de la #qualification de crime contre l’humanité (qui renvoie à la question complexe de la #définition de ce crime en #droit_français), et celui de l’#amnistie prévue, pour les crimes visés, par des lois de 1966 et 1968. Ces deux points fondent les justifications discutables du refus de poursuivre par la #Cour_de_cassation dans les affaires précitées ; mais seul le premier constituait déjà le réel enjeu. En l’état du droit, et contrairement à ce qu’affirmaient alors les juges de cassation, la qualification de crime contre l’humanité aurait en effet pu permettre, au-delà du symbole, de constater une #imprescriptibilité (inexistante en France pour les crimes de guerre) défiant l’amnistie.

    Plus tard, la Cour de cassation admettra d’ailleurs en creux le caractère « inamnistiable » des crimes contre l’humanité, non reconnus en l’espèce, dans l’affaire de la manifestation du 17 octobre 1961, en 2000, puis dans l’#affaire_Aussaresses en 2003 – toutes deux en relation avec les « évènements d’Algérie ». Entre les deux, elle confirmera dans l’#affaire_Ely_Ould_Dah (2002) la poursuite, en France, d’un officier de l’armée mauritanienne pour des faits de #torture et des actes de #barbarie amnistiés dans son propre pays : il semble manifestement plus aisé d’adopter une attitude claire et exigeante à l’encontre de lois d’amnistie étrangères.

    Volonté de verrouillage

    En outre, et c’est là que se niche la seconde distinction, une analyse plus poussée du raisonnement de la Cour dans les affaires Lakhdar-Toumi, Yacoub et Boudarel met en lumière une volonté des juges de verrouiller toute possibilité de traitement des crimes coloniaux. Il importe donc de distinguer ici les questions de droit et les politiques juridiques qui sont à l’œuvre. L’historienne Sylvie Thénault écrivait récemment que « toute #définition_juridique est le résultat d’une construction par des juristes et d’une évolution de la jurisprudence » (Le Monde du 16 février). Or il n’existait à l’époque des affaires précitées que des définitions jurisprudentielles, plus (#affaire_Barbie) ou moins (#affaire_Touvier) larges du crime contre l’humanité en France, lequel ne fera son apparition dans le Code pénal qu’en 1994.

    A y regarder de plus près, on comprend que les juges de cassation rejettent la qualification de crime contre l’humanité pour les crimes coloniaux à plusieurs reprises, en choisissant de s’appuyer exclusivement sur la #jurisprudence_Touvier. Celle-ci limite, à l’inverse de la #jurisprudence_Barbie, la définition du crime contre l’humanité aux crimes nazis commis « pour le compte d’un pays européen de l’Axe ». Si la jurisprudence Touvier permit en son temps d’esquiver habilement le problème de la #responsabilité de la France de Vichy, elle bloquera aussi, par ricochet, toute possibilité de répression des crimes perpétrés par des Français pour le compte de la France, jusqu’en 1994.

    Le verrouillage est efficace. Et le #refoulement créé par cette configuration juridique, souvent ignorée, est à la mesure du trouble que suscitent encore aujourd’hui les faits historiques survenus dans le contexte de la #décolonisation. Plus généralement, l’ensemble illustre les multiples formes d’usages politiques de l’histoire, comme du droit.

    https://www.letemps.ch/opinions/france-verrouille-passe-colonial

    ping @cede @karine4

  • Harcèlement moral : ce que change le verdict du procès France Télécom
    https://theconversation.com/harcelement-moral-ce-que-change-le-verdict-du-proces-france-telecom

    Par ailleurs, selon une source syndicale, les honoraires des avocats des prévenus se seraient élevés à près de 20 millions d’euros, entièrement pris en charge par les « assurances dirigeants ». Par contraste, l’arrêt ne prévoit pas, pour les parties civiles syndicales, le remboursement des honoraires de leurs avocats à la hauteur des dépenses engagées. Une telle décision fragilise la capacité des organisations syndicales à défendre les salariés par la mobilisation du droit devant les juridictions. L’égalité des armes entre les protagonistes des procès reste à réaliser.

    Et les criminels vont encore dépenser l’argent des autres pour se pourvoir en cassation.

  • Une ex-salariée de l’hôpital perdue dans un dédale administratif depuis quatre ans - Dan Israel | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/economie/030921/une-ex-salariee-de-l-hopital-perdue-dans-un-dedale-administratif-depuis-qu

    Bien qu’elle collectionne les victoires judiciaires contre Pôle emploi et contre son ancien employeur, le centre hospitalier de Rumilly (Haute-Savoie), Maria Mota n’a toujours pas vu sa situation régularisée.

    Depuis quatre ans et demi, Maria Mota se débat face à la surdité et à l’absurdité administratives. Elle n’a jamais triché, elle a remporté quatre victoires judiciaires, mais sa situation n’est toujours pas réglée.

    Elle est actuellement sans ressources et vit avec l’angoisse de devoir débourser 5 469 euros. Pour une erreur commise par d’autres et en raison de la mauvaise volonté affichée de son ancien employeur. « Je ne supporte plus cette situation, je vis avec un stress permanent, confie-t-elle. J’ai toujours tout fait comme il faut, je fais très attention à suivre les règles. Et pourtant, l’angoisse dure. »

    Mediapart avait raconté sa situation il y a neuf mois. Depuis, deux tribunaux lui ont à nouveau donné raison. Sans pouvoir lever son angoisse, parce que rien ne s’est débloqué et que le risque n’est toujours pas écarté.

    Du 1er mai 2013 au 30 avril 2016, Maria Mota a été employée à la buanderie du centre hospitalier de Rumilly (Haute-Savoie), effectuant plusieurs contrats à durée déterminée. Au printemps 2016, la responsable des ressources humaines de l’hôpital lui annonce qu’elle ne sera pas titularisée, et elle choisit de ne plus y travailler.

    Après une courte mission d’intérim dans une entreprise privée, la travailleuse ne trouve plus d’emploi et s’inscrit donc auprès de Pôle emploi. Elle détaille ses emplois précédents et touche des allocations pendant quatre mois sans incident. Puis Pôle emploi cesse de lui verser la somme mensuelle et lui réclame l’argent déjà versé, 5 469,53 euros.

    En effet, l’organisme public tique, en retard, sur son emploi à l’hôpital : cet employeur public ne verse pas de cotisations chômage et assure lui-même ses agents contre le risque du chômage. C’est donc à lui de les indemniser, estime Pôle emploi. Cette situation, peu connue, vaut par exemple également pour la Poste – qui porte elle aussi son lot de dysfonctionnements, comme Mediapart l’a déjà détaillé.

    En droit, l’analyse de Pôle emploi n’est pas fautive mais brutale. Chaque année, des dizaines de milliers de personnes se voient réclamer des « trop-perçus » indûment touchés, selon le pourvoyeur des allocations.

    Mais dans le cas de Maria Mota, à cette brutalité s’ajoute la (très) mauvaise volonté du centre hospitalier qui l’employait. Ce dernier refuse de lui verser les allocations chômage auxquelles elle aurait droit, et qui lui permettraient par ailleurs de rembourser Pôle emploi.

    Sur les deux fronts, l’ex-salariée avait gagné une première fois. Le 2 décembre 2019, le tribunal d’instance d’Annecy avait annulé la contrainte à payer lancée par Pôle emploi, au motif qu’elle était mal formulée. Six mois plus tôt, c’était le tribunal administratif d’Annecy qui avait donné tort à l’hôpital, annulant la décision par laquelle il refusait de lui verser son allocation chômage.

    L’argument utilisé par l’ex-employeur de Maria Mota était, il est vrai, farfelu et sans base légale : il avait estimé que son refus de continuer à travailler en CDD équivalait à une démission, ce qui ne lui ouvrait pas de droit au chômage.

    L’absurdité de la situation a depuis été soulignée deux fois de plus par la justice. Le 11 juin dernier, le tribunal judiciaire d’Annecy a constaté que la demande de remboursement de Pôle emploi devait être annulée, car elle est prescrite. Le dernier paiement d’allocation chômage effectué par Pôle emploi date en effet du 4 avril 2017 et le remboursement a été exigé pour la première fois dans la foulée.

    Or, ces demandes sont prescrites au bout de trois ans. Pôle emploi prétend pouvoir passer outre, car ce délai est porté à dix ans, « en cas de fraude ou de fausse déclaration ». Mais le tribunal judiciaire a estimé qu’aucune fraude ne pouvait être imputée à Maria Mota, car rien n’indique « que l’intéressée aurait omis de mentionner l’existence de son emploi public ».

    Et ce d’autant plus que « Pôle emploi n’a pas souhaité verser aux débats le dossier d’inscription numérique déposé par Mme Mota, qui est la seule pièce susceptible de démontrer que celle-ci aurait manqué à ses obligations ». Une pièce justement demandée à de multiples reprises par l’ex-salariée et par son avocat, Thierry Billet.

    Malgré cette deuxième défaite judiciaire, Pôle emploi a fait appel de cette décision. « La justice leur a donné tort deux fois, mais ils continuent, il y a une forme d’acharnement », dénonce l’avocat, critiquant « un système qui est tourné contre les salariés ».

    L’ex-salariée est à nouveau sans ressources

    La situation est largement aggravée par le fait que Maria Mota est à nouveau sans emploi et que Pôle emploi refuse toujours de lui verser la moindre indemnisation. Aujourd’hui, le salaire très modeste de son mari est la seule source de revenu du couple.

    « Je ne comprends pas, je viens de travailler plus de trois ans pour accompagner des personnes handicapées, je devrais toucher le chômage, souligne la travailleuse. Ma situation d’aujourd’hui ne devrait rien avoir à faire avec le conflit concernant mon poste à l’hôpital. »

    Les nuages ne se dissipent pas non plus du côté de l’hôpital. Là aussi, la justice a donné une deuxième fois raison à l’ex-salariée. Le 6 juillet, le tribunal administratif d’Annecy a annulé le deuxième refus de l’employeur public de verser une indemnisation à Maria Mota. Après avoir prétendu qu’il était face à une démission, le centre hospitalier a cette fois prétexté que Maria Mota n’aurait pas démontré qu’elle avait recherché activement un emploi.

    Cet argument n’est lui non plus en rien fondé juridiquement, comme le rappelle le tribunal administratif. « Si l’existence d’actes positifs et répétés accomplis en vue de retrouver un emploi est une condition mise […] au maintien de l’allocation d’aide au retour à l’emploi, elle ne saurait conditionner l’ouverture du droit à cette allocation », signale le jugement.

    La justice a enjoint à l’hôpital de réexaminer la situation de son ancienne salariée dans les tout prochains jours. Cela fait plus de quatre ans qu’il aurait dû le faire, et la traiter comme la loi l’exige.

    Quand l’employeur public est son propre assureur et ne délègue pas la gestion du #droitauchômage à l’Unédic, c’est une pratique illégale courante des employeurs publics (qui sont parmi les premiers employeurs de @précaires) que de ne pas appliquer le droit aux allocs (les conventions Unedic) pour des salariés qui refusent un renouvellement de CDD en considérant abusivement ce refus comme une démission, qui n’ouvre pas droit aux allocs. Vu la rareté et le peu de succès effectif des procédures contentieux engagées par les ayants droits, cet exemple du distinguo nécessaire entre jurisprudence formelle (ne pas prendre un cdd n’interdît que dans de rares cas, liés aux verrous de l’"offre raisonnable d’emploi" de toucher une alloc) et jurisprudence réelle, ça justifierait dune enquête en grandeur réelle que les rares collectifs de chômeurs qui subissent n’ont de fait plus les moyens d’alimenter.

    #chômage #droits_sociaux #jurisprudence

  • Me Nicolas De Sa-Pallix : « Tous les afghans sont en danger ! » - Actu-Juridique
    https://www.actu-juridique.fr/etrangers/me-nicolas-de-sa-pallix-tous-les-afghans-sont-en-danger

    La situation actuelle en Afghanistan mobilise les avocats français. Mardi 17 août le Conseil national des barreaux a déclaré dans un communiqué https://www.cnb.avocat.fr/fr/actualites/afghanistan-les-avocats-mobilises-pour-un-droit-dasile-immediat-et-entier : « Le consensus international, qui considère que le peuple afghan est aujourd’hui en danger, doit entrainer en France l’application la plus absolue du principe de l’#asile, qui est constitutif de notre État de droit ». Et pour cause ! Dans deux décisions prononcées en novembre 2020, la Cour nationale du droit d’asile (CNDA) a durci les conditions d’attribution du #droit_d’asile aux afghans. Nicolas De Sa-Pallix , avocat au barreau de Paris, nous explique les enjeux attachés à cette jurisprudence.

    Actu-Juridique : De très nombreux afghans tentent de fuir leur pays depuis que les talibans sont entrés dans Kaboul. Comment la France traite-elle habituellement les demandeurs d’asile en provenance d’Afghanistan ?

    Nicolas De Sa-Pallix : Jusqu’au mois de novembre dernier, la CNDA appliquait ce que dans notre jargon de spécialiste nous appelons la « #Jurisprudence Kaboul », un régime qui était relativement favorable à ces demandeurs d’asile. Il faut savoir qu’il existe deux protections différentes, soit le statut de #réfugié défini par la Convention de Genève qui est attribué aux personnes qui invoquent un risque personnel de persécution en raison de leur race ou ethnie, leur nationalité, leur religion ou encore leur appartenance à un groupe social. Soit une #protection_subsidiaire attribuée dans trois cas : risque de peine de mort ou d’une exécution, risque de tortures ou de peines ou de traitement inhumain ou dégradant, et, pour un civil, une menace grave et individuelle contre sa vie ou sa personne en raison d’une violence qui peut s’étendre à des personnes sans considération de leur situation personnelle et résultant d’une situation de conflit armé interne ou international. L’Afghanistan entrait dans cette troisième catégorie, elle-même graduée en fonction du niveau de violence. Ce pays était au niveau trois : violence aveugle d’une intensité exceptionnelle. En pratique cela signifie que les ressortissants de ce pays n’avaient qu’à prouver leur nationalité sans invoquer de risque spécifique les concernant pour obtenir une protection. En particulier parce que Kaboul était le seul aéroport international, donc le passage obligé pour tous les afghans revenant dans leur pays, et que la ville était considérée comme particulièrement risquée. L’#OFPRA (Office français de protection des réfugiés et apatrides) discutait parfois cette contrainte en invoquant l’existence d’autres aéroports, mais on obtenait gain de cause devant la #CNDA. Tout a changé en novembre dernier, ce qui inquiète les spécialistes du droit des étrangers et du droit d’asile sur le traitement susceptible d’être réservé aux futurs réfugiés.

    Actu-Juridique : Que s’est-il passé qui soit susceptible de remettre en cause la protection offerte aux réfugiés afghans ?

    NDSP : La CNDA a rendu au mois de novembre 2020 deux décisions en grande formation, l’équivalent de l’assemblée plénière devant la Cour de cassation, sur le cas de deux afghans qui demandaient une protection. La Cour, rompant avec la « jurisprudence Kaboul » a rejeté leurs demandes en invoquant le fait que toutes les provinces n’étaient pas sujettes au même niveau de violence et qu’on observait par ailleurs à Kaboul une diminution en 2019 de 16% du nombre de morts et de blessés par rapport à 2018. On parle quand même de 261 morts et 1302 blessés ! Elle précise même que la ville est devenue un refuge. En réalité, elle est surtout l’endroit où s’installent tous ceux qui ne savent plus où aller. Donc la Cour ne considère plus l’Afghanistan comme un pays où le seul fait de séjourner expose à un risque, mais raisonne désormais par région, et ne considère plus que le simple fait d’être présent à Kaboul constitue un risque justifiant l’octroi d’une protection subsidiaire.

  • Droit du travail : un chauffeur Uber requalifié en « salarié »
    http://www.bonnes-nouvelles.be/site/index.php?iddet=2849&id_surf=&idcat=305&quellePage=999&surf_lang=fr

    Je me sens comme un esclave : je travaille de longues heures chaque jour, sous les ordres d’une application, mais je n’ai pas de quoi me payer un salaire à la fin du mois. » Guillaume* est chauffeur indépendant, ou « limousine » comme on dit chez Bruxelles Mobilité, où il a obtenu sa licence il y a un peu plus de deux ans. Depuis novembre 2018, il « collabore » avec Uber, qui organise le transport rémunéré de citadins dans la capitale et un peu partout dans le monde. À ce stade, il n’a « plus rien à (...)

    #Uber #procès #législation #conducteur·trice·s #GigEconomy #travail

    • Je me sens comme un esclave : je travaille de longues heures chaque jour, sous les ordres d’une application, mais je n’ai pas de quoi me payer un salaire à la fin du mois. »

      Guillaume* est chauffeur indépendant, ou « limousine » comme on dit chez Bruxelles Mobilité, où il a obtenu sa licence il y a un peu plus de deux ans. Depuis novembre 2018, il « collabore » avec Uber, qui organise le transport rémunéré de citadins dans la capitale et un peu partout dans le monde. À ce stade, il n’a « plus rien à perdre », nous explique-t-il. « Mais peut-être, quelque chose à gagner ». À savoir : devenir salarié de la multinationale.

      Début juillet, Guillaume a introduit une demande de qualification de sa relation avec la plateforme d’origine américaine auprès de la Commission administrative de règlement de la relation de travail (CRT). Quand la nature de votre relation avec votre donneur d’ordre ou votre employeur vous apparaît comme suspecte, cet organe est là pour analyser votre cas et décider, si au regard de la législation locale, vous êtes salarié ou indépendant.

      « Je ne gagne pas ma vie décemment »

      Guillaume, sur papier, appartient à la seconde catégorie de travailleurs (les deux seules existant en droit du travail belge). Il a enregistré une société en personne physique, son véhicule lui appartient, il a obtenu seul les autorisations nécessaires pour exercer son métier. « Avec Uber, je ne connais que les inconvénients de ce statut, en aucun cas les avantages. Je ne gagne de toute façon pas ma vie décemment, donc j’ai décidé d’aller jusqu’au bout », poursuit le trentenaire.

      Une démarche concluante puisque Le Soir a appris que la CRT lui avait donné raison à travers une décision longue de 12 pages rendue le 26 octobre dernier : Uber est bien, selon la Commission qui dépend du SPF Sécurité sociale, l’employeur de Guillaume. Précisément, la CRT conclut après un examen approfondi que « les modalités d’exécution de la relation de travail sont incompatibles avec la qualification de #travail_indépendant ».

      Pour aboutir à cette conclusion – la question est épineuse et fait débat dans bon nombre de pays européens ainsi qu’aux États-Unis (lire ci-contre) –, plusieurs éléments contractuels ont été analysés. Notamment ceux qui concernent la #liberté_d’organisation_du_travail et d’organisation du #temps_de_travail de Guillaume, deux démarches inhérentes au #statut_d’indépendant. Deux leitmotivs aussi utilisés par Uber depuis son lancement : l’entreprise estime, en effet, que la #flexibilité de ses chauffeurs ainsi que leur #liberté de prester quand ils le souhaitent et pour qui ils le souhaitent est à la base de sa « philosophie ».

      « Je ne peux pas refuser une course »

      « La réalité est bien différente », détaille Guillaume. « Uber capte quasi tout le marché à Bruxelles et, si je suis connecté à l’#application, je n’ai pas le #droit_de_refuser une course. Si je le fais, Uber abaisse ma “#cotation”. Si je le fais trois fois de suite, Uber me vire », détaille Guillaume. Qui précise qu’il lui est également impossible de jongler entre plusieurs plateformes. « Si je suis sur deux applications et que j’accepte une course pour un autre opérateur et qu’Uber me demande d’être disponible, je suis obligé de refuser la course. Au final, comme expliqué, cela me porte préjudice. »

      Guillaume, en outre, ne connaît pas son itinéraire avant d’accepter de prendre en charge un client. « On peut m’envoyer à 10 kilomètres. Soit un long trajet non rémunéré pour un trajet payé de 1.500 mètres. » S’il choisit de dévier du chemin imposé par la plateforme, par bon sens ou à la demande d’un client pressé, le chauffeur se dit également régulièrement pénalisé. Chez Uber, le client est roi. Quand ce dernier commande une course, l’application lui précise une fourchette de #prix. « Évidemment, si je prends le ring pour aller jusqu’à l’aéroport, le prix de la course augmente car le trajet est plus long, mais le client peut très facilement réclamer à Uber la différence tarifaire. Même s’il m’a demandé d’aller au plus vite. » Dans ce cas de figure, la différence en euros est immédiatement déduite de la #rémunération de Guillaume.

      La CRT estime que le chauffeur ne peut pas influer sur la manière dont Uber organise un #trajet, qu’il « n’a aucune marge de manœuvre quant à la façon dont la prestation est exercée. (…) En cas de non-respect de l’#itinéraire, si le prix de la course ne correspond pas à l’estimation, il peut être ajusté a posteriori par Uber, le passager peut alors obtenir un remboursement mais le chauffeur ne sera payé que sur base du prix annoncé à ce dernier. (…) A aucun moment, un dialogue direct entre le chauffeur et le passager n’est possible. (…) De telles modalités obligent le chauffeur à fournir une prestation totalement standardisée. »

      Un chantier dans le « pipe » du gouvernement

      Guillaume n’est pas naïf, ses représentants qui l’ont accompagné dans la démarche administrative – le syndicat CSC via sa branche dédiée aux indépendants #United_Freelancers et le collectif du secteur des taxis – ne le sont pas non plus. Il sait que l’avis de la CRT est « non contraignant » pour Uber mais qu’elle a de lourdes implications pour son cas personnel. À moins d’être requalifié comme « salarié » par l’entreprise elle-même (un recommandé a été envoyé à ce titre aux différentes filiales impliquées en Belgique), il ne peut désormais plus travailler pour Uber.

      De son côté, Uber explique qu’il « n’a pas encore pas encore reçu le point de la vue de la CRT » mais qu’il « estime que la justice bruxelloise a déjà tranché en 2019 le fait que ses chauffeurs étaient indépendants » (un procès a opposé l’entreprise au secteur des #taxis et lui a donné raison, mais ce dernier a fait appel et le jugement n’a pas encore été rendu). La société américaine pourrait d’ailleurs attaquer la décision en justice. L’anglaise #Deliveroo avait opté pour cette démarche en 2018 après que le même organe a acté en 2018 qu’un de ses #coursiers indépendants était en réalité salarié de la plateforme (l’audience aura lieu en septembre de cette année).

      « Notre priorité est de faire réagir les autorités. Uber, comme d’autres plateformes, doit occuper ses travailleurs selon une qualification conforme à la réalité du travail. Soit les #prestataires sont véritablement indépendants et devraient, dès lors, pouvoir fixer leurs prix, leurs conditions d’intervention, choisir leurs clients, organiser leur service comme ils l’entendent… Soit Uber continue à organiser le service, à fixer les prix et les règles, à surveiller et contrôler les chauffeurs, et ceux-ci sont alors des travailleurs salariés », cadrent Martin Willems, qui dirige United Freelancers et Lorenzo Marredda, secrétaire exécutif de la CSC Transcom.

      Au cabinet du ministre en charge du Travail Pierre-Yves Dermagne (PS), on confirme avoir déjà analysé les conclusions de la CRT et la volonté de débuter rapidement un chantier sur le sujet avec les partenaires sociaux. « Nous allons nous attaquer à la problématique des #faux_indépendants des #plateformes_numériques, comme décidé dans l’accord de gouvernement. L’idée est bien d’adapter la loi de 2006 sur la nature des #relations_de_travail. Cela pourrait passer par une évaluation des critères nécessaires à l’exercice d’une #activité_indépendante, par un renforcement des critères également. Mais il s’agit évidemment d’une matière qui doit être concertée », précise Nicolas Gillard, porte-parole.

      * Le prénom est d’emprunt, les décisions de la CRT sont anonymisées quand elles sont publiées.

      Des pratiques désormais similaires chez les taxis

      A.C.

      Selon le collectif des Travailleurs du taxi et la #CSC-Transcom, les problèmes constatés chez Uber sont actuellement également une réalité chez d’autres acteurs du secteur, en l’occurrence les #centrales_de_taxis. « Les taxis indépendants sont très dépendants des centrales. Et depuis leur #numérisation, il y a vraiment un glissement des pratiques. Les chauffeurs de taxi indépendants ne savent pas non plus où on les envoie avant d’accepter une course », explique Michaël Zylberberg, président du collectif. « La dernière version de l’application #Taxis_Verts est un clone de celle d’Uber. Au début, il y a cette idée de #concurrence_déloyale mais, comme le problème n’a pas été réglé, les centrales tendent à copier les mauvaises habitudes des plateformes. Cela est très inquiétant pour les travailleurs, qui perdent progressivement leur #autonomie », ajoute Lorenzo Marredda, secrétaire exécutif de la CSC-Transcom.

      Des décisions dans d’autres pays

      Mis en ligne le 13/01/2021 à 05:00

      Par A.C.

      Lors de son introduction en Bourse en 2019, Uber expliquait collaborer avec 3 millions de chauffeurs indépendants dans le monde. Fatalement, face à une telle masse de main-d’œuvre, qui se plaint souvent de #conditions_de_travail et de #rémunération indécentes, procès et interventions des législateurs ponctuent régulièrement l’actualité de l’entreprise. Ces derniers mois, trois décisions retiennent particulièrement l’attention.

      En #Suisse

      Plusieurs cantons sont en plein bras de fer avec la plateforme américaine. A #Genève et à #Zurich, les chauffeurs Uber sont désormais considérés comme des salariés. Les caisses d’#assurances_sociales réclament des sommes très importantes à l’entreprise, qui refuse jusqu’à présent de payer les #cotisations_sociales employeurs réclamées.

      En #France

      La# Cour_de_cassation a confirmé en mars dernier que le lien entre un conducteur et l’entreprise est bien un « #contrat_de_travail ». Les arguments utilisés se rapprochent de ceux de la CRT : la plus haute juridiction du pays a jugé que « le chauffeur qui a recours à l’application Uber ne se constitue pas sa propre clientèle, ne fixe pas librement ses tarifs et ne détermine pas les conditions d’exécution de sa prestation de transport ». Une #jurisprudence qui permet d’appuyer les demandes de #requalification des chauffeurs indépendants de l’Hexagone.

      En #Californie

      Une loi contraint, depuis le 1er janvier 2020, Uber et #Lyft à salarier ses collaborateurs. Les deux entreprises refusant de s’y plier ont investi environ 200 millions de dollars pour mener un référendum citoyen sur la question qu’ils ont remporté en novembre dernier, avec un texte baptisé « #proposition_22 ». Qui introduit pour les dizaines de milliers de chauffeurs concernés un #revenu_minimum_garanti et une contribution à l’#assurance_santé.

      #néo-esclavage #ordres #Bruxelles_Mobilité #sous-traitance #travailleur_indépendant #salariat #salaire #Commission_administrative_de_règlement_de_la_relation_de_travail (#CRT) #Belgique #droit_du_travail

  • L’empathie des juges
    En Allemagne (mais c’est certainement pareil partout), un harceleur qui tue une femme risque la perpétuité, car c’est possiblement un meurtre avec préméditation. Un conjoint ou ex-conjoint non, car l’assassinat sera probablement qualifié de meurtre.
    Deux pétitions exigent qu’on juge autrement les « meurtres de séparation » (Trennungstötungen), l’une disant : « La prétendue possession des femmes ne doit pas être légitimée par la jurisprudence allemande en ayant un effet atténuant sur la sanction. »

    Meldungen aus den ersten beiden Januarwochen wie „Schwangere in S-Bahn mit Messer attackiert“, „Mann sticht 23-jähriger Frau mit Messer ins Gesicht“ oder „Tod im Keller: Nachbarschaft trauert um Viktoria L. (20)“ gab es in Deutschland auch vor der Coronakrise, die nach ersten Studien zu einem Anstieg der Gewalt gegen Frauen und Kinder geführt hat. Letzteres vor allem, wenn Paare oder Familien unter Quarantäne gestellt worden waren oder finanzielle Sorgen hatten.

    Zurückweisung als Motiv
    Tötungsdelikte oder potentiell tödliche Angriffe auf Frauen stehen oft Zusammenhang mit Trennungen oder - wie nach ersten Ermittlungen im Fall von Viktoria L. aus Hamburg - dem einseitigen Wunsch des Täters nach einer Beziehung.

    Die abschließende Statistik des Bundeskriminalamts (BKA) zur Partnerschaftsgewalt im „Coronajahr“ 2020 wird wohl erst im zweiten Halbjahr 2021 vorliegen - üblicherweise gibt die Behörde die Vorjahreszahlen im November heraus. In den letzten Jahren hat im Durchschnitt rund drei Mal pro Woche ein Mann in Deutschland „seine“ Frau oder Exfrau, Partnerin oder Expartnerin getötet. Hinzu kamen etwa doppelt so viele Versuche, dies zu tun. Die Zahl der Gewalttaten innerhalb von Paarbeziehungen insgesamt steigt seit 2015 - im Berichtsjahr 2019 um 0,74 Prozent.

    Tötet ein Stalker eine Frau, mit der er nie eine Beziehung geführt hat, kann er nach deutscher Rechtsprechung leichter wegen Mordes verurteilt werden als ein Ex- oder Noch-Ehemann oder ein ehemaliger Partner, der die Trennung nicht akzeptieren will. Dessen Chancen, nur wegen Totschlags verurteilt zu werden und so an einer lebenslangen Haftstrafe vorbeizukommen, wären deutlich höher.

    In zwei zur Zeit laufenden Petitionen werden Bundeskanzlerin Angela Merkel (CDU) beziehungsweise Justizministerin Christine Lambrecht und Familienministerin Franziska Giffey (beide SPD) aufgefordert, gesetzgeberisch einzugreifen. „Die vermeintlichen Besitzansprüche an Frauen dürfen nicht durch die deutsche Rechtsprechung legitimiert werden, indem sie sich strafmildernd auswirken“, heißt es in der von Charlotte Schmitz gestarteten Online-Petition „Femizide in Deutschland stoppen“ der Kampagnen-Organisation Campact, die bislang mehr als 116.000 Menschen unterzeichnet haben.

    [...]

    https://www.heise.de/tp/features/Richterliche-Empathie-5025878.html

    #féminicide #législation #jurisprudence #Allemagne

  • Rapport thématique – Durcissements à l’encontre des Érythréen·ne·s : actualisation 2020

    Deux ans après une première publication sur la question (https://odae-romand.ch/rapport/rapport-thematique-durcissements-a-lencontre-des-erythreen%c2%b7ne%c2%b7), l’ODAE romand sort un second rapport. Celui-ci offre une synthèse des constats présentés en 2018, accompagnée d’une actualisation de la situation.

    Depuis 2018, l’ODAE romand suit de près la situation des requérant·e·s d’asile érythréen∙ne∙s en Suisse. Beaucoup de ces personnes se retrouvent avec une décision de renvoi, après que le #Tribunal_administratif_fédéral (#TAF) a confirmé la pratique du #Secrétariat_d’État_aux_Migrations (#SEM) amorcée en 2016, et que les autorités ont annoncé, en 2018, le réexamen des #admissions_provisoires de quelque 3’200 personnes.

    En 2020, le SEM et le TAF continuent à appliquer un #durcissement, alors que la situation des droits humains en #Érythrée ne s’est pas améliorée. Depuis près de quatre ans, les décisions de renvoi tombent. De 2016 à à la fin octobre 2020, 3’355 Érythréen·ne·s avaient reçu une décision de renvoi suite à leur demande d’asile.

    Un grand nombre de requérant·e·s d’asile se retrouvent ainsi débouté·e·s.

    Beaucoup des personnes concernées, souvent jeunes, restent durablement en Suisse, parce que très peu retournent en Érythrée sur une base volontaire, de peur d’y être persécutées, et qu’il n’y a pas d’accord de réadmission avec l’Érythrée. Au moment de la décision fatidique, elles perdent leur droit d’exercer leur métier ou de se former et se retrouvent à l’#aide_d’urgence. C’est donc à la constitution d’un groupe toujours plus important de jeunes personnes, exclues mais non renvoyables, que l’on assiste.

    C’est surtout en cédant aux pressions politiques appelant à durcir la pratique – des pressions renforcées par un gonflement des statistiques du nombre de demandes d’asile – que la Suisse a appréhendé toujours plus strictement la situation juridique des requérant∙e∙s d’asile provenant d’Érythrée. Sur le terrain, l’ODAE romand constate que ces durcissements se traduisent également par une appréciation extrêmement restrictive des motifs d’asile invoqués par les personnes. D’autres obstacles limitent aussi l’accès à un examen de fond sur les motifs d’asile. Au-delà de la question érythréenne, l’ODAE romand s’inquiète pour le droit d’asile au sens large. L’exemple de ce groupe montre en effet que l’application de ce droit est extrêmement perméable aux incitations venues du monde politique et peut être remaniée sans raison manifeste.

    https://odae-romand.ch/rapport/rapport-thematique-durcissements-a-lencontre-des-erythreen%c2%b7ne%c2%b7

    Pour télécharger le rapport :
    https://odae-romand.ch/wp/wp-content/uploads/2020/12/RT_erythree_2020-web.pdf

    #rapport #ODAE_romand #Erythrée #Suisse #asile #migrations #réfugiés #réfugiés_érythréens #droit_d'asile #protection #déboutés #permis_F #COI #crimes_contre_l'humanité #service_militaire #travail_forcé #torture #viol #détention_arbitraire #violences_sexuelles #accord_de_réadmission #réadmission #déboutés #jurisprudence #désertion #Lex_Eritrea #sortie_illégale #TAF #justice #audition #vraisemblance #interprètes #stress_post-traumatique #traumatisme #trauma #suspicion #méfiance #procédure_d'asile #arbitraire #preuve #fardeau_de_la_preuve #admission_provisoire #permis_F #réexamen #santé_mentale #aide_d'urgence #sans-papiers #clandestinisation #violence_généralisée

    ping @isskein @karine4

  • La participation à une manifestation permettant l’expression de ses convictions est un motif de sortie autorisée par le décret n° 2020-1310 du 29 octobre 2020, et il faut voir comment, Base de #jurisprudence, Decision n° 446629, Conseil d’État
    https://www.conseil-etat.fr/fr/arianeweb/CE/decision/2020-11-21/446629

    ... des instructions ont été données aux préfets pour que les personnes souhaitant participer à une manifestation sur la voie publique puissent se rendre sur le lieu de la manifestation sans que puisse leur être opposée l’interdiction prévue à l’article 4 du décret. Ces personnes pourront invoquer un motif « déplacement professionnel » si la manifestation porte sur des revendications professionnelles ou un motif « familial impérieux » ou « d’intérêt général » si la manifestation présente un autre motif. Ils devront uniquement indiquer l’heure et le lieu de la manifestation ou son itinéraire pour permettre aux forces de sécurité intérieure d’apprécier la plausibilité du motif invoqué.

    13. Dans ces conditions, en l’état de l’instruction, les requérants ne sont pas fondés à soutenir que le décret litigieux porterait une atteinte grave et manifestement illégale à la liberté de manifester.

    #droit_de_manifestation #attestation #Conseil_d'État

  • #Traducteurs_afghans. Une #trahison française

    Abandonnés par la France, l’histoire des tarjuman (traducteur, en langue dari) vient réveiller un sentiment amer, en écho avec tous les supplétifs laissés sans protection dans l’histoire des guerres de notre pays.

    En effet, la France a employé en Afghanistan quelques huit cents traducteurs, chauffeurs, physionomistes, manutentionnaires et logisticiens pour les épauler dans leurs missions. Colonne vertébrale de la stratégie visant à gagner les cœurs et les esprits, ils se sont mués en véritables soldats, engagés aux côtés de nos troupes par conviction, dans l’espoir d’un autre avenir pour leur pays. Mais, suite au retrait de nos forces à compter de 2012, la France a refusé d’accorder un visa à la majorité d’entre eux...

    Tous deux intimement marqués par les précédentes « trahisons » françaises, deux journalistes, Brice Andlauer et Quentin Müller, ont décidé d’aller enquêter sur le terrain. Ils en sont revenus avec un livre dénonciateur, « Tarjuman, enquête sur une trahison française » (éditions Bayard).

    Avec cette bande dessinée, ils veulent donner corps à trois des tarjuman qu’ils ont rencontrés et mettre en scène leur chemin de vie pour mieux dénoncer le refus qui a été initialement opposé à leur demande de protection.

    https://www.la-boite-a-bulles.com/work/306

    #BD #livre
    #Afghanistan #traducteurs #armée_française #Enduring_freedom #réinstallation #exil #migrations #jurisprudence #asile #justice #protection_fonctionnelle #Caroline_Decroix #interprètes #association_des_interprètes_afghans_de_l'armée_française

    –---

    voir aussi ce fil de discussion :
    https://seenthis.net/messages/359104

    ping @isskein

  • TF | Renvois objectivement impossible en raison du Covid-19
    https://asile.ch/2020/10/22/tf-levee-de-detention-pour-insoumission-en-raison-de-periode-de-covid-19

    Frappé d’un renvoi en 2019 ordonné par l’Office des migrations du canton de Zurich suite à une non-entrée en matière de demande d’asile, un homme d’origine malienne avait été placé en détention en vue de son retour. Une détention pour insoumission avait également été ordonnée et prolongée plusieurs fois. Le recours formulé par l’homme avait, […]

    • Una riflessione sul rapporto tra migrazione e sicurezza a partire dalla questione della iscrizione anagrafica

      Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne e di ossa, fibre e umori, e si può persino dire che possegga un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? (…) Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quello che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me”.
      (R.W. Ellison, L’uomo invisibile - 1952 - Einaudi Torino 2009, p. 3).
      1.

      In questi ultimi giorni si è tornato a parlare molto dei c.d. Decreti sicurezza e di una loro possibile revisione. A riaprire il dibattito, da ultimo, la pronuncia della Corte costituzionale dello scorso 9 luglio con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 comma 1, lett. a) n. 2 del primo “decreto sicurezza” (Decreto Legge 4 ottobre 2018 n. 113) per violazione dell’art. 3 della Costituzione.

      Prima di dare conto del contenuto della decisione della Corte costituzionale, è opportuno ripercorrere, seppur brevemente, le tappe del percorso che ha portato i giudici della Consulta a intervenire. Per chiarire i termini precisi della discussione che è scaturita in questi anni e il senso della decisione finale assunta il 9 luglio, occorre inquadrare la questione in primo luogo da un punto di vista giuridico.

      Questa importante pronuncia ha riguardato appunto la legittimità costituzionale del primo Decreto Sicurezza approvato nel 2018 che doveva servire a impedire, almeno nelle intenzioni del legislatore, l’iscrizione dei richiedenti asilo, sulla base del titolo di soggiorno provvisorio loro rilasciato, nei registri anagrafici dei Comuni. Una modifica normativa volta a rendere ancor più precario lo status giuridico dei richiedenti asilo presenti nel nostro Paese, negando a costoro anche un legame fittizio con il territorio che avrebbe dovuto accoglierli. Una restrizione dal forte valore simbolico e di carattere tutto politico, frutto dei tempi.

      La nuova previsione normativa introdotta dall’art. 13 cit. ha animato, anche per questo, un forte dibattito e numerose sono state le prese di posizione da parte sia dei commentatori politici che dei tecnici del diritto. Un dibattito che purtroppo si è fermato alle problematiche più strettamente giuridiche sollevate dalla nuova normativa, tralasciando invece la questione della ratio ispiratrice della nuova disciplina. Una ratio che imporrebbe una riflessione più generale sulle problematiche legate ai fenomeni migratori e, nello specifico, sul tema dell’asilo e del rispetto dei diritti umani.

      Il tema della iscrizione anagrafica, infatti, ci consente non solo una riflessione sul contesto normativo che è stato oggetto di modificazione, ma anche sul significato profondo che assume il concetto di “asilo” nel nostro Paese.
      2.

      Negli anni il diritto d’asilo è stato più volte ridefinito generando anche confusione. Un diritto che affonda le sue radici nella storia antica, lo conoscevano bene i greci che riconoscevano al fuggiasco una sorta di inviolabilità per il solo fatto di trovarsi in un determinato luogo. “Veniva chiamata asilia l’inviolabilità a cui quel luogo dava diritto” [1].

      Un diritto che nel corso del tempo ha subito non pochi cambiamenti e che oggi è diventato uno strumento nelle mani dello Stato che ne dispone a proprio piacimento.
      Viene da pensare a quanto scrive la professoressa Donatella Di Cesare proprio a proposito del diritto d’asilo. Nel chiedersi se si tratti di un diritto del singolo che lo chiede o dello Stato che lo concede, la Di Cesare evidenzia come l’asilo sia divenuto “un dispositivo di cui gli Stati si servono per esercitare, anche in concreto, il loro potere sui migranti” [2]. Accade così che si assiste ad una duplice deriva che porta lo Stato a moltiplicare le barriere giuridiche e poliziesche e ad aumentare le restrizioni burocratiche e procedurali, con il fine dichiarato (non celato) di scoraggiare le richieste di asilo politico.

      Questo dibattito, direttamente connesso alla questione della iscrizione anagrafica “negata” ai richiedenti asilo, è stato purtroppo poco presente ed è stato messo in secondo piano rispetto invece alle questioni, non meno importanti, della discriminazione in essere nella normativa introdotta dal Decreto Legge n. 113 del 2018.

      Una precisa “discriminazione” nei confronti di una determinata categoria di soggetti, appunto i richiedenti asilo, rispetto ai quali, secondo i primi commenti, diveniva impossibile procedere all’inserimento nelle liste anagrafiche dei Comuni di residenza.

      Una norma, peraltro che, come osservato da autorevoli commentatori, si poneva in netto contrasto con la logica stessa dell’istituto dell’iscrizione anagrafica e con l’articolo 6 comma 7 del Testo Unico Immigrazione.
      3.

      Le discussioni che sono scaturite e lo scontro tra numerosi Sindaci, da una parte, e il Ministro dell’Interno dell’epoca, dall’altra, con i primi disposti anche a disapplicare la norma sui loro territori, sono state di fatto mitigate dagli interventi dei Tribunali italiani chiamati a decidere sui ricorsi d’urgenza presentati dai richiedenti asilo che si sono visti negato il diritto di procedere all’iscrizione presso i registri suddetti.
      Infatti, nella pratica, la modifica prevista dall’art. 13 del Decreto 113 del 2018 è stata immediatamente disinnescata dagli interventi dei giudici di merito chiamati a pronunciarsi sui ricorsi proposti. Numerose pronunce hanno riconosciuto il diritto del richiedente asilo alla iscrizione anagrafica addivenendo a una interpretazione della norma secondo la quale l’affermazione contenuta nell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2 avrebbe avuto soltanto l’effetto di far venire meno il “regime speciale” introdotto dall’art. 8 D.L. 17.2.17 n. 13 conv. in L. 13.4.17 n. 46 (secondo il quale i richiedenti asilo venivano iscritti all’anagrafe sulla base della dichiarazione del titolare della struttura ospitante) per riportare il richiedente asilo nell’alveo del regime ordinario (quello cioè della verifica della dimora abituale, come previsto anche per il cittadino italiano, al quale lo straniero regolarmente soggiornante è parificato ai sensi dell’art. 6, comma 7 TU immigrazione). Solamente in tre procedimenti i Tribunali di Trento e Torino hanno optato per una interpretazione diversa della norma optando per un divieto di iscrizione.
      4.

      Per rendere più chiara la comprensione dell’operazione compiuta dalla giurisprudenza di merito, proviamo a ricostruire, brevemente, uno dei tanti casi portati all’attenzione dei giudici italiani, nello specifico il caso di un cittadino di nazionalità somala che ha proposto ricorso d’urgenza dinanzi al Tribunale di Firenze contro il diniego all’iscrizione nei registri anagrafici opposto dal Comune di Scandicci. Nel ricorso proposto dal richiedente asilo si evidenziava come il requisito del regolare soggiorno nel territorio dello Stato potesse essere accertato mediante documenti alternativi al permesso di soggiorno rilasciati ai soggetti che hanno presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, quali, ad esempio, il modello C3 di richiesta asilo presentato in Questura, oppure la ricevuta rilasciata da quest’ultima per attestare il deposito della richiesta di soggiorno o la scheda di identificazione redatta dalla Questura. Il Tribunale di Firenze ha ritenuto di poter accogliere il ricorso esprimendosi in favore del ricorrente.

      Nel motivare la propria decisione, il Tribunale, analizzando il contenuto letterale del nuovo comma 1-bis citato, sottolinea come esso si riferisca al permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale quale titolo per l’iscrizione anagrafica e che, tuttavia, il sistema normativo di riferimento dalla stessa disposizione richiamato (il DPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), non richieda alcun “titolo” per l’iscrizione anagrafica, ma solo una determinata condizione soggettiva, i.e. quella di essere regolarmente soggiornante nello Stato. Inoltre, riconoscendo che l’iscrizione anagrafica ha natura di attività amministrativa a carattere vincolato, in relazione alla quale il privato ha una posizione di diritto soggettivo, evidenzia come «l’iscrizione anagrafica registra la volontà delle persone che, avendo una dimora, hanno fissato in un determinato comune la residenza oppure, non avendo una dimora, hanno stabilito nello stesso comune il proprio domicilio», sulla base non di titoli, ma delle dichiarazioni egli interessati o degli accertamenti ai sensi degli artt. 13, 15, 18-bis e 19 del citato DPR n. 223/1989. Pertanto, non essendo intervenuta alcuna modificazione dell’art. 6, comma 7, del T.U.I., sulla base del quale «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione, ritiene il Tribunale che il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 D.lgs. n. 142/2015 non possa essere interpretato nel senso di aver introdotto un divieto, neppure implicito, di iscrizione anagrafica per i soggetti che abbiano presentato richiesta di protezione internazionale.

      In conclusione, secondo la giurisprudenza di merito richiamata, se il legislatore avesse voluto introdurre un divieto, avrebbe dovuto modificare il già citato art. 6, comma 7 T.U.I., anche nella parte in cui considera dimora abituale di uno straniero il centro di accoglienza ove sia ospitato da più di tre mesi.
      5.

      Nonostante l’interpretazione prevalente della nuova normativa, la questione è stata portata all’attenzione della Corte costituzionale dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno che hanno comunque ritenuto fondata la questione di illegittimità costituzionale per violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e per violazione del principio di eguaglianza.

      In data 9 luglio 2020 la Corte costituzionale ha così dato l’ultimo colpo alla normativa di cui all’art. 13 sancendone la illegittimità per violazione dell’art. 3 della Costituzione. In effetti, nel comunicato stampa diramato dalla stessa Consulta, in attesa di leggere le motivazioni complete della decisione, è scritto che “la disposizione censurata non è stata ritenuta dalla Corte in contrasto con l’articolo 77 della Costituzione sui requisiti di necessità e di urgenza dei decreti legge. Tuttavia, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti”.

      I giudici costituzionali sono stati perentori nell’affermare che la norma censurata si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione sotto molteplici profili e “sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei requisiti di razionalità e ragionevolezza, alla disciplina dell’art. 6, comma 7, del D.lgs. n. 286 del 1998” [3].

      In particolare il legislatore si troverebbe a contraddire la ratio complessiva del decreto-legge n. 113 del 2018 al cui interno si colloca la disposizione portata all’attenzione della Corte costituzionale. Infatti, “a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in questione, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano” [4].

      In conclusione, finanche l’obiettivo primario perseguito dal legislatore verrebbe contraddetto dalla disposizione in esame che proprio per questa ragione sarebbe paradossalmente in contrasto persino con le esigenze dichiarate di maggiore controllo e sicurezza del fenomeno migratorio.

      Un vero paradosso se pensiamo che l’esclusione dalla registrazione anagrafica di persone che invece risiedono sul territorio comunale accresce anziché ridurre i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo.
      6.

      È sulla base di queste ultime osservazioni che è possibile articolare una breve riflessione complementare sulla giustapposizione ideologica e strumentale di “migrazione” e “sicurezza” e considerare la necessità/possibilità di ripensare, ancora rimandando tra gli altri ai lavori di Di Cesare, le modalità di coabitazione e di residenza in un territorio.

      In effetti oggi l’asilo e la “protezione internazionale” sono divenuti strumenti di gestione statale della migrazione (in senso generale) e dei corpi delle persone migranti (in senso più concreto), in un crescendo di categorizzazioni che hanno progressivamente ridotto il numero degli “aventi diritto”: da una parte attraverso processi di “vulnerabilizzazione” che hanno estremizzato le logiche selettive a detrimento del diritto di altri individui a presentare una richiesta di protezione. Non stiamo dicendo che i vulnerabili non vadano protetti, ma che non è possibile escludere gli altri dalla procedura perché non lo sono abbastanza.

      D’altra parte, attraverso un’evoluzione intimamente legata ai processi di esternalizzazione dei controlli e della gestione della migrazione da parte dell’UE, si sono fatti saltare i “fondamentali” del diritto d’asilo come diritto individuale, riducendo la questione a un’economia geopolitica che seleziona e distingue sempre più esplicitamente su base nazionale, a partire da assunti quali i “paesi terzi sicuri”, come l’Afghanistan, o i porti sicuri, come la Libia.

      Lo smantellamento e la limitazione dell’asilo come diritto fondamentale individuale, e il ridimensionamento delle prerogative e dei diritti dei richiedenti asilo che vanno inevitabilmente a minare le loro condizioni di vita e i loro percorsi di integrazione come nel caso dei decreti Salvini, rappresentano tra l’altro soltanto una parte, molto importante anche per la sua valenza simbolica, ma non preponderante di una degenerazione complessiva delle politiche in materia di migrazione in UE. Perché al peggioramento delle condizioni di vita dei richiedenti asilo corrispondono purtroppo anche un progressivo aumento dei dinieghi, e una sempre maggiore “esclusione” dei potenziali aventi diritto (e chiunque dovrebbe averlo) dalla procedura, a causa di pratiche espeditive di espulsione, a causa dei ritardi di compilazione della documentazione necessaria (C3), ecc. Volendo essere espliciti, chi accede alla procedura d’asilo rappresenta, oggi, alla fine, il “resto”, la rimanenza dell’insieme delle persone in migrazione che il dispositivo di controllo e di gestione globale (IOM, UE, Stati europei e paesi vicini collaborativi) non è riuscito a bloccare, nei paesi di partenza, di transito, nel Mediterraneo, negli hotspot, ecc...

      Rileggendo il deterioramento del sistema di asilo in questi anni, sia in termini di rispetto dei diritti fondamentali che in termini materiali di accoglienza, divenuta sempre meno una politica etica e sempre più un business e un terreno di confronto elettorale, non possiamo che constatare che il dispositivo di asilo (ideologico e pratico) si riduce sempre più, come conferma Di Cesare, ad uno strumento di gestione della migrazione, allo stesso modo che i regolamenti interni di gestione (Dublino), la gestione emergenziale dell’accoglienza, i dispositivi di gestione della frontiera (Frontex, Eunavformed) i processi di esternalizzazione, ecc. In questo senso, il deterioramento del sistema d’asilo rappresenta l’ultimo anello, il livello finale di una progressiva e generale “lotta alla migrazione”, dissimulata dietro retoriche di approcci globali e pratiche di politiche di esternalizzazione sempre più feroci (si veda il riferimento di Di Maio alla condizionalità negativa migrazione/sviluppo come forma istituzionalizzata di ricatto alla Tunisia) : lotta alla migrazione che ha visto estendersi progressivamente le categorie (e il numero) di indesiderabili, ridotti genericamente a “migranti economici” provenienti da paesi “’sicuri” o comunque “bloccati” dal dispositivo di controllo e gestione della mobilità imposto ai paesi terzi. L’erosione del diritto d’asilo va dunque letta anche all’interno di una più generale dinamica generale di riduzione dei diritti alla mobilità e all’installazione nei confronti di una certa tipologia di persone straniere da parte dei paesi dell’UE.
      7.

      Il presupposto problematico è che questi “diritti” destinati a persone straniere vengono sempre definiti e manovrati da coloro i quali sono nelle condizioni di doverli applicare, e le norme internazionali vengono ignorate, trascurate, aggirate invocando situazioni di “urgenza” e di sicurezza, che evidentemente si sono amplificate in questa stagione pandemica, e che si accompagnano all’armamentario ideologico dei nuovi sovranisti. Questo è vero per quanto riguarda le situazioni di frontiera, ontologicamente più fosche e meno trasparenti, all’interno delle quali norme meno restrittive (Cuttitta etc) si associano a pratiche in esplicita violazione dei diritti fondamentali, ma è vero anche per quanto riguarda l’articolazione dei dispositivi di accoglienza e più in generale la gestione della presenza sul territorio di persone straniere con status amministrativi differenti, e condizioni di marginalità (e sfruttamento) differenti. La difesa della patria, il “prima gli italiani” che si declina a livello regionale, provinciale e iperlocale in un ripiegamento identitario in abisso, rappresentano il corrispettivo ideologico delle politiche di esclusione e di “chiusura” che i paesi dell’UE hanno integrato trasversalmente, con qualche sfumatura più o meno xenofoba. E purtroppo la retorica xenofoba, che mixa ignoranza e paura, paura di invasione e di contagio, si abbatte sulla popolazione con la forza di media conniventi e ripetizione ad oltranza di notizie false, fuorvianti, imprecise, volte ad alimentare diffidenza e timore: “insicurezza”.

      In questo senso, sarebbe utile come accennavamo sopra, provvedere ad una genealogia della convergenza di “immigrazione” e “sicurezza”, al di là dell’assunto antropologico “atavico” che il pericolo arrivi da fuori, da ciò che non si conosce: ma è già possibile, attraverso la vicenda dell’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo legata all’applicazione dei decreti salviniani, osservare che la “geografia” di questi decreti immigrazione e sicurezza è a geometria variabile.

      Come ha parzialmente evidenziato la mappa prodotta dalla geografa Cristina del Biaggio e pubblicata su VisionCarto, che ha recensito le reazioni dei vari sindaci e dei differenti comuni alla stretta di Salvini sull’iscrizione anagrafica dei RA, la logica securitaria “sovranista” a livello nazionale, ossessionata dalla difesa delle patrie frontiere, con toni nazionalisti postfascisti e modi - come prova la vicenda di Open Arms - spesso al limite o oltre la legalità, è sfasata rispetto ad una nozione di “sicurezza” ad un livello territoriale più circoscritto, di comunità urbana e di amministrazione locale. Perché inevitabilmente tanti amministratori locali, di fronte ad un’operazione che ha concretamente destabilizzato la gestione locale dell’accoglienza e dell’integrazione buttando letteralmente per strada o comunque esponendo a situazioni di marginalità estrema un numero estremamente rilevante di persone (il rapporto «La sicurezza dell’esclusione - Centri d’Italia 2019» realizzato da ActionAid e Openpolis parlava di 80.000 persone toccate nei primi mesi di applicazione, con stime di 750.000 persone “irregolarizzate” entro gennaio 2021), hanno reagito sottolineando, a diverso titolo e con toni diversi, che gli effetti reali dei decreti sul territorio avrebbero inevitabilmente prodotto insicurezza e difficoltà (correlando più o meno direttamente una situazione amministrativa marginale/irregolare e l’aumento possibile di situazioni di criminalità, extralegalità, sfruttamento, ecc.).

      Dunque possiamo dedurre che la lettura della relazione tra sicurezza ed immigrazione non è la stessa a livello nazionale e a livello locale, dove, in ragione da una parte della ricaduta concreta e dell’applicazione pratica di normative e politiche che regolano la presenza di cittadini stranieri (a diverso titolo) sul territorio (permessi di soggiorno ecc.), e dall’altra dell’evoluzione delle dinamiche quotidiane di accoglienza/convivenza/integrazione, la presenza di persone migranti (richiedenti asilo etc.) rappresenta un elemento reale, contingente, relazionale e non semplicemente una nozione teorica, astratta, amministrativa. In questo senso, tutte le politiche legate alla migrazione, più o meno inclusive o esclusive, più o meno ammantate di un argomentario ideologico nazionalista/identitario, devono poi fare i conti con le condizioni concrete di coabitazione, con le possibilità e gli strumenti di integrazioni in possesso o da fornire alle persone “in arrivo” e con la volontà, la possibilità e la capacità di una comunità locale di interagire con le persone “straniere”, e più in generale “esterne” ad essa, nel modo più vantaggioso e utile, positivo e ragionevole possibile.
      8.

      Se il pericolo arriva da fuori, da cioè che non si conosce, le alterative sono due: chiudersi a riccio e difendersi a priori da qualsiasi cosa venga a perturbare il nostro quotidiano, la nostra “tradizione”, la nostra “identità”, o conoscere quello che c’è fuori, quello che arriva da fuori: accettando che questa dinamica di apertura e di incontro è stato il fondamento dell’evoluzione delle comunità umane.

      Alla presa di posizione dei sindaci, che osteggiano i decreti Salvini nel nome di una prospettiva accogliente o nel nome di un realismo politico e di organizzazione della vita sociale della comunità distinto dall’ottica di “gestione dell’ordine” dell’ex ministro degli interni e di tante prefetture (basta ricordare che Salvini ha invocato, nel marzo 2019 anche la possibilità di attribuire più poteri straordinari ai prefetti riducendo quelli dei sindaci), corrisponde anche una reazione “accogliente” dal basso, una capacità di adattamento della collettività (autonoma, indotta dall’amministrazione o in antitesi a posizioni di chiusura delle municipalità) : al di là dei comuni impegnati in politiche locali di accoglienza attraverso i dispositivi SPRAR, o di reti come RECOSOL, non sono poche le collettività che sono passate dal “rifiuto” e alla reticenza, legati agli spettri mediatici e politici, alle retoriche di invasione o alle presenze imposte in via straordinaria a livello prefetturale senza consultazione dell’amministrazione - e che hanno creato, quasi fosse una finalità connessa una pressione su comunità locali “impreparate” -, a modalità di apertura, graduali, mediate, progressive che si sono risolte spesso (a livello urbano come rurale) constatando che una presenza accettata, accolta, “accompagnata”, tutelata, sostenuta non è affatto “nociva” per la comunità che accoglie, ma anzi rappresenta un valore aggiunto, arricchisce e offre opportunità, in una logica di reciprocità che si affranca dalle pratiche assistenziali che annullano i potenziali di azione e partecipazione delle persone accolte.

      Il diritto internazionale relativo all’asilo, per ovvie ragioni storiche e geopolitiche, si appoggia alle strutture nazionali e “inevitabilmente” si confronta con le dimensioni dell’appartenenza come la cittadinanza e la “nazionalità”; tuttavia, la discussione è focalizzata sempre essenzialmente sul potenziale beneficiario/destinatario di questo diritto, dell’asilo o della “protezione internazionale”, come più in generale, eticamente, dell’accoglienza/ospitalità. Mentre rimane sempre implicita, troppo spesso data per scontata la soggettività collettiva che accorda questo diritto, che lo elargisce, che lo offre.

      Se il diritto internazionale tende ad inquadrarlo, a concederlo/garantirlo è di solito una comunità politica, un paese che concede asilo ad un cittadino straniero proveniente da un altro paese sulla base di principi “universali” e attraverso strumenti come, per l’Italia, la carta costituzionale.

      Ora, se appare evidente che l’accanimento xenofobo di un Salvini sia strumento elettoralista e strumentale che passa per una lettura quantomeno originale della stessa Costituzione, andando a “scegliersi” qualche articolo conveniente (come quelli che invocano la patria) ma snobbando completamente altri che si riferiscono a diritti fondamentali ( e dunque più “ampi” di quelli legati all’appartenenza nazionale), possiamo anche considerare che nel corso degli ultimi anni la questione “asilo” e più generalmente accoglienza in Italia è rimasta questione tecnica di specialisti nella sua dimensione normativa giuridica (avvocati, Commissioni territoriali ecc.), mentre dal punto di vista etico-politico (la questione) è rimasta sempre secondaria rispetto ad un discorso politico e mediatico focalizzato ossessivamente (come del resto avviene in tutta Europa) sulla difesa delle frontiere e sul controllo della migrazione: la presenza di persone straniere sul territorio diventa visibile solo quando appare “deviante” o “problematica”, mentre le “buone prassi” di integrazione e partecipazione rimangono escluse dalla narrazione quotidiana.

      In sostanza il “popolo” italiano, che attraverso la Costituzione garantisce a individui stranieri la possibilità di ricevere sostegno e protezione sul territorio nazionale, viene chiamato in causa e sollecitato (politicamente e mediaticamente) in concreto quasi esclusivamente in quanto corpo sociale minacciato (economicamente, culturalmente, socialmente, ecc.) dalla migrazione, dalla presenza di stranieri, e praticamente mai in quanto attore implicato in percorsi di accoglienza, impegnato in un percorso di evoluzione sociale e culturale che implica obbligatoriamente un confronto con la migrazione, come con tutti gli altri temi essenziali della convivenza politica.

      La “gestione” tecnica dell’accoglienza rimane invece questione tecnica, esposta a mistificazioni e speculazioni, e “astratta” fino a quando non si materializza sul territorio, spesso “precipitata” dall’alto, come è accaduto dal 2011 attraverso la gestione emergenziale, e inscritta come gestione dell’ordine pubblico piuttosto che all’interno delle politiche sociali: da un punti di vista “sovranista” e più in generale di depotenziamento dei livelli di partecipazione e implicazione critica della collettività, la comunità locale rimane “spettatrice” di processi di gestione che sono finalizzati sempre più solo al controllo delle persone e sempre meno alla loro integrazione (e che va di pari passo con una deresponsabilizzazione generale della popolazione a tutti i livelli).

      Ora, se la teoria costituzionale dell’asilo in Italia ha radici storiche determinate, le pratiche di accoglienza sono quasi sempre locali, territorializzate, e implicano l’investimento più o mendo diretto e esplicito della collettività: un investimento che, attraverso l’implicazione delle amministrazioni locali e percorsi partecipativi riporta la questione dell’accoglienza dell’altro, e la sua potenziale integrazione, nell’alveo di una realtà politica concreta, quotidiana, locale; diventa quindi interessante interrogarsi sulla consapevolezza di questa potenzialità da parte delle comunità locali (come in altri ambiti diversi) di autodeterminarsi politicamente, di impattare in modo significativo su una serie di questioni che le riguardano direttamente, puntualmente o sul lungo periodo.

      Se il diritto d’asilo va tutelato a livello internazionale e nazionale, e iscritto in quadri normativi che possano garantire un accesso inalienabili ai diritti fondamentali, diventa importante sottolineare la capacità delle comunità locali di rivendicare il dovere/diritto di andare oltre, e di integrare questo quadro giuridico con pratiche di accoglienza e partecipazione che, concertate collettivamente, possono rappresentare percorsi di evoluzione comuni, non solamente eticamente gratificanti ma anche vantaggiosi tanto per chi è accolto che per chi accoglie.

      Indipendentemente quindi anche dal parere della Corte Costituzionale che ha contestato una serie di elementi del decreti sicurezza tecnicamente difformi dal mandato costituzionale stesso, diventa estremamente rilevante l’espressione pubblica e politica di comunità locali, di andare oltre e di rivendicare il diritto di garantire l’iscrizione anagrafica - e con essa l’accesso ad un insieme di altri diritti in grado di migliorare sensibilmente le condizioni di esistenza delle persone sul territorio e all’interno della comunità, e di favorire dinamiche di interazione e cooperazione indipendenti da distinzioni legate alla provenienza e alla nazionalità.

      È in questo senso che evolve in questi ultimi anni la configurazione politica delle città rifugio (città accoglienti, città dell’asilo, città santuario, …), che si fonda precisamente sulla volontà e la capacità delle amministrazioni e delle comunità locali di pensare forme di accoglienza che superino le forme di gestione/ricezione legate ad una nozione di asilo sempre più sacrificate all’altare della geopolitica internazionale e delle politiche di esternalizzazione della UE.

      Se da un lato dunque occorre difendere il diritto d’asilo, e anzi incentivarlo ed aggiornarlo rispetto ad un orizzonte globalizzato, dall’altra è necessario resistere alla gestione differenziale della mobilità umana da una parte, rivendicando per tutti il diritto di movimento e di installazione, da combinare all’invenzione di nuove forme di coabitazione e accoglienza legate alla residenza e alla presenza sul territorio più che a origini nazionali e rivendicazioni identitarie.

      https://www.meltingpot.org/Una-riflessione-sul-rapporto-tra-migrazione-e-sicurezza-a.html
      #droit_d'asile #asile #justice #Scandicci #Testo_Unico_Immigrazione #jurisprudence #sécurité #prima_i_nostri #frontières #externalisation #peur #accueil #résistance #citoyenneté #nationalité #menace #droits #villes-refuge #liberté_de_mouvement #liberté_de_circulation

  • « Augmentation des frais d’inscription des étudiants étrangers : c’est l’avenir de notre modèle social qui est en jeu »

    La décision prochaine du Conseil d’Etat sur l’augmentation des droits d’inscription pour les non-Européens est cruciale, estiment les économistes David Flacher et Hugo Harari-Kermadec dans une tribune au « Monde », car elle marquera la poursuite ou l’arrêt d’une politique de « marchandisation délétère ».

    L’enseignement supérieur global est en crise. En Australie, le pays le plus inséré dans le marché international de l’enseignement supérieur, les universités prévoient de perdre jusqu’à la moitié de leurs recettes. A l’échelle nationale, la perte de tout ou partie des 25 milliards d’euros qui rentraient en Australie grâce à l’accueil d’étudiants étrangers (le troisième secteur à l’export) pourrait déstabiliser toute l’économie du pays.

    Aux Etats-Unis, les pertes de recettes en 2020-2021 pourraient représenter 20 milliards d’euros, selon l’American Council on Education (une association de l’enseignement supérieur). Au Royaume-Uni, les pertes envisagées sont de l’ordre de 2,8 milliards d’euros. Cambridge a récemment annoncé que ses programmes de licence seront intégralement enseignés à distance, mais cette mise en ligne est coûteuse et ne pourra être assumée que par une petite minorité d’établissements.
    Fort endettement étudiant

    Si la pandémie a frappé une économie mondiale déjà bien mal en point, l’enseignement supérieur « payant » est particulièrement touché : les échanges internationaux d’étudiants – les plus profitables – sont en berne et la fermeture des campus réduit fortement l’attractivité de diplômes hors de prix. Expérience étudiante sur le campus et contenus pédagogiques ne peuvent plus justifier (si tant est qu’ils l’aient pu) des droits de scolarité pouvant atteindre 70 000 dollars (62 000 euros) par an. Les procès se multiplient aux Etats-Unis, intentés par des étudiants cherchant à récupérer une partie des sommes versées pour cette année. Plus proche de nous, les écoles de commerce françaises ont été obligées de recourir au chômage partiel pour encaisser le choc.

    Perspectives d’emploi catastrophiques

    On aurait tort de reprocher aux étudiants de négocier leurs frais d’inscription : les perspectives d’emploi sont catastrophiques, le taux de chômage atteignant des niveaux inédits outre-Atlantique. L’endettement étudiant, qui se monte en moyenne à 32 000 euros aux Etats-unis et 60 000 euros en Angleterre, assombrit un futur professionnel déjà peu amène, et pèse sur les revenus des diplômés pendant vingt ans en moyenne. A l’échelle macroéconomique, l’endettement étudiant total dépasse 1 300 milliards d’euros aux Etats-Unis, 133 milliards d’euros au Royaume-Uni.

    Le
    modèle des universités payantes fait donc
    les frais d’une politique délétère en période
    « normale », et carrément mortifère en ces
    temps agités. C’est pourtant ce modèle que
    le gouvernement français et ses conseillers
    essayent de promouvoir depuis 2018.
    En France, les prochaines semaines seront
    déterminantes pour l’avenir de notre modèle
    social. La décision attendue du Conseil
    d’Etat [qui examine depuis vendredi 12 juin
    le recours des organisations contre l’augmentation
    des droits d’inscription pour les
    étrangers extraeuropéens]
    représentera un
    soulagement doublé d’une révolution ou,
    au contraire, la porte ouverte à une descente
    progressive aux enfers pour de nombreuses
    familles.

    De quoi s’agitil
     ? Alors que le plan Bienvenue
    en France (annoncé le 19 avril 2019) prévoyait
    une forte augmentation des droits de
    scolarité pour les étudiants extraeuropéens
    (2 770 euros en licence et 3 770 euros
    en master, contre 170 et 243 euros), un ensemble
    d’organisations a obtenu que le Conseil
    constitutionnel soit saisi. Ce dernier a
    rendu une décision le 11 octobre 2019 selon
    laquelle « l’exigence constitutionnelle de gratuité
    s’applique à l’enseignement supérieur
    public » tout en considérant que « cette exigence
    [de gratuité] ne fait pas obstacle, pour
    ce degré d’enseignement, à ce que des droits
    d’inscription modiques soient perçus en tenant
    compte, le cas échéant, des capacités financières
    des étudiants ».

    Basculer du bon côté, celui de la gratuité

    Le Conseil d’Etat doit désormais interpréter
    cette décision en précisant ce que « modique
     » signifie. Si cette notion a vraisemblablement
    été introduite pour préserver les
    droits d’inscription habituels (170 et
    243 euros), certains comptent bien s’engouffrer
    dans la brèche. Les enjeux sont
    d’une ampleur inédite : pourraton
    discriminer
    les populations étrangères en leur
    faisant payer des tarifs plus élevés au motif
    qu’elles ne seraient pas contribuables fiscaux
    de leur pays d’accueil ? Le Conseil
    d’Etat pourra garder à l’esprit que ces étudiants
    nous arrivent formés aux frais de
    leur pays d’origine, et qu’ils rapportent, par
    les taxes qu’ils payent, bien plus qu’ils ne
    coûtent (le solde est positif de 1,65 milliard
    d’euros). Seratil
    mis un terme aux velléités
    d’élargissement des droits d’inscription à
    tous les étudiants et à des niveaux de tarification
    toujours plus élevés ? La note d’un
    conseiller du candidat Emmanuel Macron,
    annonçait l’objectif : 4 000 euros en licence,
    8 000 euros en master, jusqu’à 20 000 euros
    par an dans certaines formations.

    Pour basculer du côté de la gratuité de l’enseignement
    supérieur, plutôt que de celui
    de sa délétère marchandisation, il faudrait
    que le Conseil d’Etat retienne une notion de
    modicité cohérente avec la jurisprudence :
    le juriste Yann Bisiou indique ainsi qu’une
    « somme modique est une somme d’un montant
    très faible, qui n’a pas d’incidence sur
    la situation économique du débiteur ; elle est
    anecdotique. Pour les personnes physiques,
    elle est de l’ordre de quelques dizaines
    d’euros, rarement plus d’une centaine, jamais
    plusieurs milliers ». Le Conseil d’Etat
    préféreratil
    les arguments fallacieux de
    ceux qui tremblent dans l’attente de cette
    décision car ils ont augmenté leurs droits
    de scolarité au point d’en dépendre furieusement
     : Sciences Po (14 500 euros par an
    pour le master), Dauphine (6 500 euros en
    master), Polytechnique (15 500 euros pour le
    bachelor), etc.
    Si le Conseil d’Etat venait à respecter le cadre
    fixé par le Conseil constitutionnel, c’est
    l’ensemble de leur modèle qui serait remis
    en cause et c’est un retour à un véritable service
    public de l’éducation auquel nous assisterions.
    Une révolution indéniablement salutaire,
    qui appellerait des assises de l’enseignement
    supérieur. Après un Ségur de la
    santé, c’est à un « Descartes de l’enseignement
    supérieur » qu’il faudrait s’attendre,
    celui d’une refondation autour d’un accès
    gratuit à l’éducation de toutes et tous, sans
    discrimination.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/06/18/augmentation-des-frais-d-inscription-des-etudiants-etrangers-c-est-l-avenir-

    #rebelote
    #taxes_universitaires #France #éducation #université #études_supérieures #frais_d'inscription

    voir aussi cette métaliste :
    https://seenthis.net/messages/739889

    • #Rebelote pour le projet d’#augmentation des #frais_d'inscription à l’#université en #France (arrrghhh).

      Ici une vidéo d’explication d’un avocat du SAF (syndicat des avocat·es de France) :

      #Juan_Prosper : le combat contre « #Bienvenue_en_France » continue !

      « A partir du moment où les digues tombent, où on explique que 2770 euros c’est parfait pour un·e étudiant·e étrangèr·es, on pourra très certainement revenir plus tard en nous disant que si c’est parfait pour un·e étrangèr·es, on peut aussi l’appliquer pour un·e étudiant·e français·e, alors même que le principe du financement d’un service public, du financement de l’enseignement supérieur, repose sur l’impôt. »

      « Si on considère qu’il y a un principe de gratuité, que c’est un service public, ce n’est pas pas à l’usagèr·es de financer le fonctionnement du service public. »

      https://www.youtube.com/watch?v=lsfdzYkSgkc&feature=youtu.be

    • La bombe de la dette étudiante a-t-elle explosé ?

      Tribune de David Flacher et Hugo Harari-Kermadec parue dans Le Monde du 18 juin 2020 sous le titre « Augmentation des frais d’inscription des étudiants étrangers : c’est l’avenir de notre modèle social qui est en jeu » (https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/06/18/augmentation-des-frais-d-inscription-des-etudiants-etrangers-c-est-l-avenir-)

      La décision prochaine du Conseil d’Etat sur l’augmentation des #droits_d’inscription pour les non-Européens est cruciale, estiment les économistes David Flacher et Hugo Harari-Kermadec dans une tribune au « Monde », car elle marquera la poursuite ou l’arrêt d’une politique de « #marchandisation délétère ».

      L’enseignement supérieur global est en crise. En Australie, le pays le plus inséré dans le marché international de l’enseignement supérieur, les universités prévoient de perdre jusqu’à la moitié de leurs recettes. A l’échelle nationale, la perte de tout ou partie des 25 milliards d’euros qui rentraient en Australie grâce à l’accueil d’étudiants étrangers (le 3e secteur à l’export) pourrait déstabiliser toute l’économie du pays. Aux États-Unis, les pertes de recettes en 2020-2021 pourraient représenter 20 milliards d’euros selon l’American council on education. Au Royaume-Uni, les pertes envisagées sont de l’ordre de 2,8 milliards d’euros. Si Cambridge a récemment annoncé que ses programmes de licence seront intégralement enseignés à distance, cette mise en ligne est coûteuse et ne pourra être assumée que par une petite minorité d’établissements.

      Si la pandémie a frappé une économie mondiale déjà bien mal en point, l’enseignement supérieur « payant » est particulièrement touché : les échanges internationaux d’étudiant-es – les plus profitables – sont en berne, en même temps que la fermeture des campus réduit fortement l’#attractivité de diplômes hors de prix. L’expérience étudiante sur le campus et le contenu pédagogique ne peuvent plus justifier – si tant est qu’ils l’aient pu – jusque 70 000 dollars de #frais_de_scolarité par an. Les #procès se multiplient aux États-Unis, les étudiants cherchant à récupérer une partie des sommes versées pour cette année. Plus proche de nous, les #écoles_de_commerce françaises ont été obligées de recourir au #chômage_partiel pour encaisser le choc.

      On aurait tort de reprocher aux étudiants de négocier leurs #frais_d’inscription : les perspectives d’emploi sont catastrophiques. Le chômage atteignant des niveaux inédits outre atlantique. L’#endettement étudiant, qui atteint en moyenne 32 000 € aux Etats-unis et 60 000 € en Angleterre, assombrit un futur professionnel déjà peu amène, et pèse sur les revenus des diplômés pendant 20 ans en moyenne. A l’échelle macroéconomique, l’#endettement_étudiant total dépasse 1 300 milliards d’euros aux Etats-Unis, 133 milliards d’euros au Royaume-Uni.

      Le modèle des universités payantes fait donc les frais d’une politique délétère en période « normale » et carrément mortifère en ces temps agités. C’est pourtant ce modèle que le gouvernement français et ses conseillers essayent de promouvoir depuis 2018.

      En France, les prochains jours seront déterminants pour l’avenir de notre modèle social. La décision attendue de la part du Conseil d’État représentera un soulagement doublé d’une révolution ou, au contraire, la porte ouverte à une descente progressive aux enfers pour de nombreuses familles.

      De quoi s’agit-il ? Alors que le plan « Bienvenue en France » (annoncé le 19 avril 2019) prévoyait une forte augmentation des droits de scolarité pour les étudiants extra-européens (2770 euros en licence et 3770 euros en master, contre respectivement 170 et 243 euros), un ensemble d’organisations a obtenu la saisie du #Conseil_constitutionnel. Ce dernier a rendu une décision le 11 octobre 2019 selon laquelle « l’exigence constitutionnelle de #gratuité s’applique à l’#enseignement_supérieur_public » tout en considérant que « Cette exigence [de gratuité] ne fait pas obstacle, pour ce degré d’enseignement, à ce que des droits d’inscription modiques soient perçus en tenant compte, le cas échéant, des capacités financières des étudiants. ».

      Le dernier round a eu lieu le 12 juin : le Conseil d’État doit désormais interpréter cette décision en précisant ce que « #modique » signifie. Si cette notion a vraisemblablement été introduite pour préserver les droits d’inscription usuels (170 et 243 euros), certains comptent bien s’engouffrer dans la brèche.

      Les enjeux sont d’une ampleur inédite : pourra-t-on discriminer les populations étrangères en leur faisant payer des tarifs plus élevés au motif qu’ils ne seraient pas contribuables fiscaux de leur pays d’accueil ? Le Conseil d’État pourra garder à l’esprit que ces étudiants nous arrivent, formé aux frais de leurs pays d’origine, et qu’ils rapportent, par les taxes qu’ils payent, bien plus qu’ils ne coûtent (le solde est positif de 1,65 milliards). Sera-t-il mis un terme aux velléités d’élargissement des frais d’inscription à tous les étudiants et à des niveaux de tarification toujours plus élevé ? La note d’un conseiller du candidat Emmanuel Macron annonce l’objectif : 4000 euros en licence, 8000 euros en master et jusqu’à 20000 euros par an dans certaines formations. Pour basculer du bon côté, celui de la gratuité de l’enseignement supérieur, plutôt que de celui de sa délétère marchandisation, il faudrait que le Conseil d’État retienne une notion de modicité cohérente avec la #jurisprudence : le juriste Yann Bisiou indique ainsi qu’une : « somme modique est une somme d’un montant très faible, qui n’a pas d’incidence sur la situation économique du débiteur ; elle est anecdotique. Pour les personnes physiques, elle est de l’ordre de quelques dizaines d’euros, rarement plus d’une centaine, jamais plusieurs milliers ». Le Conseil d’État préfèrera-t-il des arguments fallacieux de ceux qui tremblent dans l’attente de cette décision pour avoir augmenté leur frais de scolarité au point d’en dépendre furieusement : Sciences Po (14 500 € par an), Dauphine (6500 € en master), CentraleSupélec (3500 €), Polytechnique (15 500 € pour la Bachelor), etc. Si le #Conseil_d’État venait à respecter le cadre fixé par le Conseil constitutionnel, c’est l’ensemble de leur modèle qui serait remis en cause et c’est un retour à un véritable #service_public de l’éducation auquel nous assisterions. Une révolution en somme, indéniablement salutaire, qui appellerait des assises de l’enseignement supérieur. Après un Grenelle de l’environnement, un Ségur de la santé, c’est à un « Descartes de l’enseignement supérieur » qu’il faudrait s’attendre, celui d’une refondation autour d’un accès gratuit à l’éducation de toutes et tous, sans discrimination.

      https://acides.hypotheses.org/2446

  • La Cour de cassation dénonce [sic] la prolongation des détentions provisoires sans juge
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/05/26/la-cour-de-cassation-denonce-la-prolongation-des-detentions-provisoires-sans

    La haute juridiction saisit le Conseil constitutionnel des dispositions en vigueur pendant l’état d’urgence sanitaire et fait en sorte que les détenus concernés ne soient pas tous libérés d’office.

    La décision de la plus haute juridiction du pays était attendue par tous les magistrats des tribunaux et cours d’appel et les avocats qui se sont déchirés depuis deux mois au sujet de la prolongation des détentions provisoires pendant l’état d’urgence sanitaire. Et par la ministre de la justice, Nicole Belloubet, qui a défendu bec et ongles ces dispositions très contestées.

    Par deux arrêts rendus mardi 26 mai, la #Cour_de_cassation juge que l’article 16 de l’ordonnance du 25 mars, prise par le gouvernement dans le cadre de l’habilitation donnée par la loi du 23 mars instaurant l’#état_d’urgence_sanitaire, n’est pas conforme à l’article 5 de la Convention européenne des droits de l’homme. Elle transmet, par ailleurs, au Conseil constitutionnel deux questions prioritaires de constitutionnalité (#QPC) sur ces dispositions. Un sérieux revers pour la garde des sceaux.

    Cet article 16 a été écrit dans l’urgence pour éviter que des prévenus soient libérés pour des raisons de procédure, parce que des juridictions auraient été empêchées par le confinement de statuer dans les délais légaux sur leur maintien en détention. Il prévoyait la prolongation de plein droit des délais maximums de détention provisoire pour des durées de deux à six mois selon les cas.

    Manque de clarté

    Le ministère de la justice avait précisé dans une circulaire que cette disposition dérogatoire au droit commun s’appliquait de façon automatique et sans débat devant le juge des libertés et de la détention (#JLD) à tous les titres de détention arrivant à échéance pendant la durée de l’état d’urgence sanitaire.

    Mais les JLD et les chambres de l’instruction des cours d’appel avaient eu des interprétations divergentes de l’ordonnance du 25 mars. Certains ont estimé qu’elle ne privait pas les détenus d’un débat contradictoire devant un juge avant prolongation de son incarcération au cours d’une information judiciaire ou en attendant un procès.
    La Cour de cassation reconnaît que l’article 16 manquait de clarté et « soulevait une difficulté majeure d’interprétation, suscitant des divergences d’analyse par les différentes juridictions » , mais elle tranche aujourd’hui ce débat. « L’article 16 s’interprète comme prolongeant, sans intervention judiciaire, pour les durées qu’il prévoit, tout titre de détention venant à expiration, mais à une seule reprise au cours de chaque procédure » , écrivent les hauts magistrats.
    Néanmoins, la Cour casse les deux arrêts des cours d’appel de Paris et de Grenoble qui lui étaient soumis. L’avocate Claire Waquet avait dénoncé à l’audience du 19 mai « un abandon de pouvoir très grave » , dans le fait que ces juridictions s’étaient réunies… pour décider de ne pas statuer. La juridiction suprême leur rétorque qu’il leur appartenait de statuer sur la nécessité du maintien en détention de ces personnes qui sollicitaient leur mise en liberté.

    Ce n’est pas la fin de la discussion, pour autant. Loin s’en faut ! L’institution du quai de l’Horloge juge que cette disposition telle qu’elle est interprétée pose un problème de conformité à la Constitution. En tout cas, elle décide de transmettre au Conseil constitutionnel les deux QPC sur la loi d’habilitation et sur l’ordonnance, soulevées à l’audience du 19 mai, en les reformulant ainsi : « Une prolongation de plein droit de toute détention sans intervention du juge, est-[elle] contraire à l’article 66 de la Constitution ? » Selon cet article de la Loi fondamentale, « nul ne peut être arbitrairement détenu. L’autorité judiciaire, gardienne de la liberté individuelle, assure le respect de ce principe dans les conditions prévues par la loi. »

    Hélène Farge, l’autre avocate ayant plaidé les pourvois, estime ces arrêts « extrêmement intéressants sur le plan institutionnel dans la mesure où les juges judiciaires réinvestissent pleinement leur terrain de la protection de la liberté individuelle » . Mais elle regrette néanmoins l’interprétation faite de l’article 16. « Dès lors qu’il était flou, la Cour devait l’interpréter de façon conforme à la Constitution plutôt que d’en retenir une lecture différente puis questionner sa constitutionnalité. »

    « Garantie contre l’arbitraire »

    La Cour de cassation va plus loin. Sans attendre la réponse du Conseil constitutionnel, elle prend soin de réaffirmer qu’il résulte de l’article 5 de la Convention européenne des droits de l’homme que « lorsque la loi prévoit, au-delà de la durée initiale qu’elle détermine pour chaque titre concerné, la prolongation d’une mesure de détention provisoire, l’intervention du juge judiciaire est nécessaire comme garantie contre l’arbitraire » . La Cour estime ainsi que les dispositions prises par le gouvernement sur les prolongations des détentions provisoires violent les textes, à moins qu’un juge n’examine rapidement la situation des détenus concernés.

    En interprétant la loi, la haute juridiction fait le droit. Elle précise ainsi que les personnes en détention provisoire dans des dossiers criminels devront voir leur situation examinée avant trois mois par un juge des libertés. Un délai ramené à un mois en matière délictuelle. « A défaut d’un tel contrôle exercé selon les modalités et dans le délai précisés ci-dessus, l’intéressé doit être immédiatement remis en liberté » , ajoute la Cour de cassation.

    Ces délais de réexamen ont été introduits par le Parlement dans la loi prorogeant l’état d’urgence sanitaire du 11 mai. Des dispositions qui permettaient de valider après coup par une clause de revoyure les détentions prolongées sans juge pendant les deux mois du confinement. Mais, là aussi, le juge judiciaire marque son territoire en ne faisant pas de référence rétroactive à cette nouvelle loi. La Cour de cassation énonce ses propres réserves d’interprétation.

    Par cette décision très technique et subtile, la chambre criminelle fait ainsi en sorte que toutes les personnes dont la détention provisoire dans une affaire criminelle a été prolongée sans débat entre le 25 mars et le 11 mai ne soient pas libérées d’office du jour au lendemain. Il suffit qu’un juge statue sur leur cas dans les trois mois.

    En revanche, pour les détentions provisoires dans des affaires correctionnelles, le délai d’un mois est extrêmement court. Un nombre significatif de détenus devraient sans doute bénéficier dans les prochains jours d’une mise en liberté d’office. Le ministère de la justice n’est pas en mesure pour le moment d’estimer le nombre de personnes concernées. Certains juges d’instruction se montraient mardi soir inquiets pour les informations judiciaires en cours.

    #justice #prison #détention_provisoire #principe_du_contradictoire #jurisprudence

  • RSA contre bénévolat semi-obligatoire : épilogue jurisprudentiel
    https://blog.landot-avocats.net/2020/04/17/rsa-contre-benevolat-semi-obligatoire-epilogue-jurisprudentiel
    https://i1.wp.com/blog.landot-avocats.net/wp-content/uploads/2020/04/Capture-d_écran-2018-12-29-à-09.23.32.png?fit=816%2C462&ssl=1

    Non sans quelques conditions, il est possible d’imposer (mais contractuellement, et au cas par cas) un brin de #bénévolat en échange du #RSA, et ce pour toutes les catégories d’allocataires, a estimé, en juin 2018, le Conseil d’Etat, revenant sur les positions du TA de Strasbourg, mais aussi sur celles de la CAA de Nancy.

    Par une décision du 28 décembre 2018, le TA de Grenoble a affiné encore un peu le propos.

    Puis par une autre décision, la CAA de Nancy a rendu une ultime décision, le 8 avril 2020, permettant une délibération cadre du conseil départemental, glissant vers le caractère obligatoire de ce bénévolat, tant que la définition au cas par cas relève d’autres décisions avec ensuite les nuances imposées par le Conseil d’Etat, ce qui est à tout le moins tolérant pour les collectivités.

    Le droit semble donc enfin clair à ce sujet.

    #jurisprudence #bénévolat_obligatoire #conseil_départemental