• Sainte-Soline : les autorités pistent les manifestants grâce à un produit invisible
    Reporterre | Par Marie Astier 5 avril 2023
    https://reporterre.net/Sainte-Soline-les-autorites-pistent-les-manifestants-grace-a-un-produit-

    Après la manifestation de Sainte-Soline, pour la première fois, deux personnes ont été interpellées sur la base de « produits de marquage codé », invisibles à l’œil nu et persistants sur la peau et les vêtements.

    Une toute petite tache sur la main, révélée par une lampe à UV. C’est ce qui a poussé la gendarmerie à mettre deux personnes dont un journaliste en garde à vue, dimanche 26 mars. Ils étaient présents à la manifestation de la veille, le samedi, contre les mégabassines à Sainte-Soline (Deux-Sèvres) (...)

    #UV #PMC = produit de marquage codé
    #mégabassines #méga-bassines
    #Sainte_Soline #Soulèvements_de_la_Terre #No_Bassaran

  • Nessuno vuole mettere limiti all’attività dell’Agenzia Frontex

    Le istituzioni dell’Ue, ossessionate dal controllo delle frontiere, sembrano ignorare i problemi strutturali denunciati anche dall’Ufficio europeo antifrode. E lavorano per dispiegare le “divise blu” pure nei Paesi “chiave” oltre confine

    “Questa causa fa parte di un mosaico di una più ampia campagna contro Frontex: ogni attacco verso di noi è un attacco all’Unione europea”. Con questi toni gli avvocati dell’Agenzia che sorveglia le frontiere europee si sono difesi di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Il 9 marzo, per la prima volta in oltre 19 anni di attività (ci sono altri due casi pendenti, presentati dalla Ong Front-Lex), le “divise blu” si sono trovate di fronte a un giudice grazie alla tenacia dell’avvocata olandese Lisa-Marie Komp.

    Non è successo, invece, per le scioccanti rivelazioni del rapporto dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf) che ha ricostruito nel dettaglio come l’Agenzia abbia insabbiato centinaia di respingimenti violenti: quell’indagine è “semplicemente” costata la leadership all’allora direttore Fabrice Leggeri, nell’aprile 2022, ma niente di più. “Tutto è rimasto nel campo delle opinioni e nessuno è andato a fondo sui problemi strutturali -spiega Laura Salzano, dottoranda in Diritto europeo dell’immigrazione presso l’Università di Barcellona-. C’erano tutti gli estremi per portare l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia e invece nulla è stato fatto nonostante sia un’istituzione pubblica con un budget esplosivo che lavora con i più vulnerabili”. Non solo l’impunità ma anche la cieca fiducia ribadita più volte da diverse istituzioni europee. Il 28 giugno 2022 il Consiglio europeo, a soli due mesi dalle dimissioni di Leggeri, dà il via libera all’apertura dei negoziati per portare gli agenti di Frontex in Senegal con la proposta di garantire un’immunità totale nel Paese per le loro azioni.

    A ottobre, invece, a pochi giorni dalla divulgazione del rapporto Olaf -tenuto segreto per oltre quattro mesi- la Commissione europea chiarisce che l’Agenzia “si è già assunta piena responsabilità di quanto successo”. Ancora, a febbraio 2023 il Consiglio europeo le assicura nuovamente “pieno supporto”. Un dato preoccupante soprattutto con riferimento all’espansione di Frontex che mira a diventare un attore sempre più presente nei Paesi chiave per la gestione del fenomeno migratorio, a migliaia di chilometri di distanza dal suo quartier generale di Varsavia.

    “I suoi problemi sono strutturali ma le istituzioni europee fanno finta di niente: se già è difficile controllare gli agenti sui ‘nostri’ confini, figuriamoci in Paesi al di fuori dell’Ue”, spiega Yasha Maccanico, membro del centro di ricerca indipendente Statewatch.

    A fine febbraio 2023 l’Agenzia ha festeggiato la conclusione di un progetto che prevede la consegna di attrezzature ai membri dell’Africa-Frontex intelligence community (Afic), finanziata dalla Commissione, che ha permesso dal 2010 in avanti l’apertura di “Cellule di analisi del rischio” (Rac) gestite da analisti locali formati dall’Agenzia con l’obiettivo di “raccogliere e analizzare informazioni strategiche su crimini transfrontalieri” oltre che a “sostenere le autorità nella gestione dei confini”. A partire dal 2021 una potenziata infrastruttura garantisce “comunicazioni sicure e istantanee” tra le Rac e gli agenti nella sede di Varsavia. Questo è il “primo livello” di collaborazione tra Frontex e le autorità di Paesi terzi che oggi vede, come detto, “cellule” attive in Nigeria, Gambia, Niger, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Togo e Mauritania oltre a una ventina di Stati coinvolti nelle attività di formazione degli analisti, pronti ad attivare le Rac in futuro. “Lo scambio di dati sui flussi è pericoloso perché l’obiettivo delle politiche europee non è proteggere i diritti delle persone, ma fermarle nei Paesi più poveri”, continua Maccanico.

    Un gradino al di sopra delle collaborazioni più informali, come nell’Afic, ci sono i cosiddetti working arrangement (accordi di cooperazione) che permettono di collaborare con le autorità di un Paese in modo ufficiale. “Non serve il via libera del Parlamento europeo e di fatto non c’è nessun controllo né prima della sottoscrizione né ex post -riprende Salzano-. Se ci fosse uno scambio di dati e informazioni dovrebbe esserci il via libera del Garante per la protezione dei dati personali, ma a oggi, questo parere, è stato richiesto solo nel caso del Niger”. A marzo 2023 sono invece 18 i Paesi che hanno siglato accordi simili: da Stati Uniti e Canada, passando per Capo Verde fino alla Federazione Russa. “Sappiamo che i contatti con Mosca dovrebbero essere quotidiani. Dall’inizio del conflitto ho chiesto più volte all’Agenzia se queste comunicazioni sono state interrotte: nessuno mi ha mai risposto”, sottolinea Salzano.

    Obiettivo ultimo dell’Agenzia è riuscire a dispiegare agenti e mezzi anche nei Paesi terzi: una delle novità del regolamento del 2019 rispetto al precedente (2016) è proprio la possibilità di lanciare operazioni non solo nei “Paesi vicini” ma in tutto il mondo. Per farlo sono necessari gli status agreement, accordi internazionali che impegnano formalmente anche le istituzioni europee. Sono cinque quelli attivi (Serbia, Albania, Montenegro e Macedonia del Nord, Moldova) ma sono in via di sottoscrizione quelli con Senegal e Mauritania per limitare le partenze (poco più di 15mila nel 2022) verso le isole Canarie, mille chilometri più a Nord: accordi per ora “fermi”, secondo quanto ricostruito dalla parlamentare europea olandese Tineke Strik che a fine febbraio ha visitato i due Stati, ma che danno conto della linea che si vuole seguire. Un quadro noto, i cui dettagli però spesso restano nascosti.

    È quanto emerge dal report “Accesso negato”, pubblicato da Statewatch a metà marzo 2023, che ricostruisce altri due casi di scarsa trasparenza negli accordi, Niger e Marocco, due Paesi chiave nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere. “Con la ‘scusa’ della tutela della riservatezza nelle relazioni internazionali e mettendo la questione migratoria sotto il cappello dell’antiterrorismo l’accesso ai dettagli degli accordi non è consentito”, spiega Maccanico, uno dei curatori dello studio. Non si conoscono, per esempio, i compiti specifici degli agenti, per cui si propone addirittura l’immunità totale. “In alcuni accordi, come in Macedonia del Nord, si è poi ‘ripiegato’ su un’immunità connessa solo ai compiti che rientrano nel mandato dell’Agenzia -osserva Salzano-. Ma il problema non cambia: dove finisce la sua responsabilità e dove inizia quella del Paese membro?”. Una zona grigia funzionale a Frontex, anche quando opera sul territorio europeo.

    Lo sa bene l’avvocata tedesca Lisa-Marie Komp che, come detto, ha portato l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue. Il caso, su cui il giudice si pronuncerà nei prossimi mesi, riguarda il rimpatrio nel 2016 di una famiglia siriana con quattro bambini piccoli che, pochi giorni dopo aver presentato richiesta d’asilo in Grecia, è stata caricata su un aereo e riportata in Turchia: quel volo è stato gestito da Frontex, in collaborazione con le autorità greche. “L’Agenzia cerca di scaricare le responsabilità su di loro ma il suo mandato stabilisce chiaramente che è tenuta a monitorare il rispetto dei diritti fondamentali durante queste operazioni -spiega-. Serve chiarire che tutti devono rispettare la legge, compresa l’Agenzia le cui azioni hanno un grande impatto sulla vita di molte persone”.

    Le illegittimità nell’attività dei rimpatri sono note da tempo e il caso della famiglia siriana non è isolato. “Quando c’è una forte discrepanza nelle decisioni sulle domande d’asilo tra i diversi Paesi europei, l’attività di semplice ‘coordinamento’ e preparazione delle attività di rimpatrio può tradursi nella violazione del principio di non respingimento”, spiega Mariana Gkliati, docente di Migrazione e Asilo all’università olandese di Tilburg. Nonostante questi problemi e un sistema d’asilo sempre più fragile, negli ultimi anni i poteri e le risorse a disposizione per l’Agenzia sui rimpatri sono esplosi: nel 2022 questa specifica voce di bilancio prevedeva quasi 79 milioni di euro (+690% rispetto ai dieci milioni del 2012).

    E la crescita sembra destinata a non fermarsi. Frontex nel 2023 stima di poter rimpatriare 800 persone in Iraq, 316 in Pakistan, 200 in Gambia, 75 in Afghanistan, 57 in Siria, 60 in Russia e 36 in Ucraina come si legge in un bando pubblicato a inizio febbraio 2023 che ha come obiettivo la ricerca di partner in questi Paesi (e in altri, in totale 43) per garantire assistenza di breve e medio periodo (12 mesi) alle persone rimpatriate. Un’altra gara pubblica dà conto della centralità dell’Agenzia nella “strategia dei rimpatri” europea: 120 milioni di euro nel novembre 2022 per l’acquisto di “servizi di viaggio relativi ai rimpatri mediante voli di linea”. Migliaia di biglietti e un nuovo sistema informatico per gestire al meglio le prenotazioni, con un’enorme mole di dati personali delle persone “irregolari” che arriveranno nelle “mani” di Frontex. Mani affidabili, secondo la Commissione europea.

    Ma il 7 ottobre 2022 il Parlamento, nel “bocciare” nuovamente Frontex rispetto al via libera sul bilancio 2020, dava conto del “rammarico per l’assenza di procedimenti disciplinari” nei confronti di Leggeri e della “preoccupazione” per la mancata attivazione dell’articolo 46 (che prevede il ritiro degli agenti quando siano sistematiche le violazioni dei diritti umani) con riferimento alla Grecia, in cui l’Agenzia opera con 518 agenti, 11 navi e 30 mezzi. “I respingimenti e la violenza sui confini continuano sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime così come non si è interrotto il sostegno alle autorità greche”, spiega la ricercatrice indipendente Lena Karamanidou. La “scusa” ufficiale è che la presenza di agenti migliori la situazione ma non è così. “Al confine terrestre di Evros, la violenza è stata documentata per tutto il tempo in cui Frontex è stata presente, fin dal 2010. È difficile immaginare come possa farlo in futuro vista la sistematicità delle violenze su questo confine”. Su quella frontiera si giocherà anche la presunta nuova reputazione dell’Agenzia guidata dal primo marzo dall’olandese Hans Leijtens: un tentativo di “ripulire” l’immagine che è già in corso.

    Frontex nei confronti delle persone in fuga dal conflitto in Ucraina ha tenuto fin dall’inizio un altro registro: i “migranti irregolari” sono diventati “persone che scappano da zone di conflitto”; l’obiettivo di “combattere l’immigrazione irregolare” si è trasformato nella gestione “efficace dell’attraversamento dei confini”. “Gli ultimi mesi hanno mostrato il potenziale di Frontex di evolversi in un attore affidabile della gestione delle frontiere che opera con efficienza, trasparenza e pieno rispetto dei diritti umani”, sottolinea Gkliati nello studio “Frontex assisting in the ukrainian displacement. A welcoming committee at racialised passage?”, pubblicato nel marzo 2023. Una conferma ulteriore, per Salzano, dei limiti strutturali dell’Agenzia: “La legge va rispettata indipendentemente dalla cornice in cui operi: la tutela dei diritti umani prescinde dagli umori della politica”.

    https://altreconomia.it/nessuno-vuole-mettere-limiti-allattivita-dellagenzia-frontex

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    • I rischi della presenza di Frontex in Africa: tanto potere, poca responsabilità

      L’eurodeputata #Tineke_Strik è stata in Senegal e Mauritania a fine febbraio 2023: in un’intervista ad Altreconomia ricostruisce lo stato dell’arte degli accordi che l’Ue vorrebbe concludere con i due Paesi ritenuti “chiave” nel contrasto ai flussi migratori. Denunciando la necessità di una riforma strutturale dell’Agenzia.

      A un anno di distanza dalle dimissioni del suo ex direttore Fabrice Leggeri, le istituzioni europee non vogliono mettere limiti all’attività di Frontex. Come abbiamo ricostruito sul numero di aprile di Altreconomia, infatti, l’Agenzia -che dal primo marzo 2023 è guidata da Hans Leijtens- continua a svolgere un ruolo centrale nelle politiche migratorie dell’Unione europea nonostante le pesanti rivelazioni dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf), che ha ricostruito nel dettaglio il malfunzionamento nelle operazioni delle divise blu lungo i confini europei.

      Ma non solo. Un aspetto particolarmente preoccupante sono le operazioni al di fuori dei Paesi dell’Unione, che rientrano sempre di più tra le priorità di Frontex in un’ottica di esternalizzazione delle frontiere per “fermare” preventivamente i flussi di persone dirette verso l’Europa. Non a caso, a luglio 2022, nonostante i contenuti del rapporto Olaf chiuso solo pochi mesi prima, la Commissione europea ha dato il via libera ai negoziati con Senegal e Mauritania per stringere un cosiddetto working arrangement e permettere così agli “agenti europei” di operare nei due Paesi africani (segnaliamo anche la recente ricerca pubblicata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sul tema).

      Per monitorare lo stato dell’arte di questi accordi l’eurodeputata Tineke Strik, tra le poche a opporsi e a denunciare senza sconti gli effetti delle politiche migratorie europee e il ruolo di Frontex, a fine febbraio 2023 ha svolto una missione di monitoraggio nei due Paesi. Già professoressa di Diritto della cittadinanza e delle migrazioni dell’Università di Radboud di Nimega, in Olanda, è stata eletta al Parlamento europeo nel 2019 nelle fila di GroenLinks (Sinistra verde). L’abbiamo intervistata.

      Onorevole Strik, secondo quanto ricostruito dalla vostra visita (ha partecipato alla missione anche Cornelia Erns, di LeftEu, ndr), a che punto sono i negoziati con il Senegal?
      TS La nostra impressione è che le autorità senegalesi non siano così desiderose di concludere un accordo di status con l’Unione europea sulla presenza di Frontex nel Paese. L’approccio di Bruxelles nei confronti della migrazione come sappiamo è molto incentrato su sicurezza e gestione delle frontiere; i senegalesi, invece, sono più interessati a un intervento sostenibile e incentrato sullo sviluppo, che offra soluzioni e affronti le cause profonde che spingono le persone a partire. Sono molti i cittadini del Senegal emigrano verso l’Europa: idealmente, il governo vuole che rimangano nel Paese, ma capisce meglio di quanto non lo facciano le istituzioni Ue che si può intervenire sulla migrazione solo affrontando le cause alla radice e migliorando la situazione nel contesto di partenza. Allo stesso tempo, le navi europee continuano a pescare lungo le coste del Paese (minacciando la pesca artigianale, ndr), le aziende europee evadono le tasse e il latte sovvenzionato dall’Ue viene scaricato sul mercato senegalese, causando disoccupazione e impedendo lo sviluppo dell’economia locale. Sono soprattutto gli accordi di pesca ad aver alimentato le partenze dal Senegal, dal momento che le comunità di pescatori sono state private della loro principale fonte di reddito. Serve domandarsi se l’Unione sia veramente interessata allo sviluppo e ad affrontare le cause profonde della migrazione. E lo stesso discorso può essere fatto su molti dei Paesi d’origine delle persone che cercano poi protezione in Europa.

      Dakar vede di buon occhio l’intervento dell’Unione europea? Quale tipo di operazioni andrebbero a svolgere gli agenti di Frontex nel Paese?
      TS Abbiamo avuto la sensazione che l’Ue non ascoltasse le richieste delle autorità senegalesi -ad esempio in materia di rilascio di visti d’ingresso- e ci hanno espresso preoccupazioni relative ai diritti fondamentali in merito a qualsiasi potenziale cooperazione con Frontex, data la reputazione dell’Agenzia. È difficile dire che tipo di supporto sia previsto, ma nei negoziati l’Unione sta puntando sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime.

      Che cosa sta avvenendo in Mauritania?
      TS Sebbene questo Paese sembri disposto a concludere un accordo sullo status di Frontex -soprattutto nell’ottica di ottenere un maggiore riconoscimento da parte dell’Europa-, preferisce comunque mantenere l’autonomia nella gestione delle proprie frontiere e quindi non prevede una presenza permanente dei funzionari dell’Agenzia nel Paese. Considerano l’accordo sullo status più come un quadro giuridico, per consentire la presenza di Frontex in caso di aumento della pressione migratoria. Inoltre, come il Senegal, ritengono che l’Europa debba ascoltare e accogliere le loro richieste, che riguardano principalmente i visti e altre aree di cooperazione. Anche in questo caso, Bruxelles chiede il mandato più ampio possibile per gli agenti in divisa blu durante i negoziati per “mantenere aperte le opzioni [più ampie]”, come dicono loro stessi. Ma credo sia chiaro che il loro obiettivo è quello di operare sia alle frontiere marittime sia a quelle terrestri.
      Questo a livello “istituzionale”. Qual è invece la posizione della società civile?
      TS In entrambi i Paesi è molto critica. In parte a causa della cattiva reputazione di Frontex in relazione ai diritti umani, ma anche a causa dell’esperienza che i cittadini senegalesi e mauritani hanno già sperimentato con la Guardia civil spagnola, presente nei due Stati, che ritengono stia intaccando la sovranità per quanto riguarda la gestione delle frontiere. È previsto che il mandato di Frontex sia addirittura esecutivo, a differenza di quello della Guardia civil, che può impegnarsi solo in pattugliamenti congiunti in cui le autorità nazionali sono al comando. Quindi la sovranità di entrambi i Paesi sarebbe ulteriormente minata.

      Perché a suo avviso sarebbe problematica la presenza di agenti di Frontex nei due Paesi?
      TS L’immunità che l’Unione europea vorrebbe per i propri operativi dispiegati in Africa non è solo connessa allo svolgimento delle loro funzioni ma si estende al di fuori di esse, a questo si aggiunge la possibilità di essere armati. Penso sia problematico il rispetto dei diritti fondamentali dei naufraghi intercettati in mare, poiché è difficile ottenere l’accesso all’asilo sia in Senegal sia in Mauritania. In questo Paese, ad esempio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) impiega molto tempo per determinare il loro bisogno di protezione: fanno eccezione i maliani, che riescono a ottenerla in “appena” due anni. E durante l’attesa queste persone non hanno quasi diritti.

      Ma se ottengono la protezione è comunque molto difficile registrarsi presso l’amministrazione, cosa necessaria per avere accesso al mercato del lavoro, alle scuole o all’assistenza sanitaria. E le conseguenze che ne derivano sono le continue retate, i fermi e le deportazioni alla frontiera, per impedire alle persone di partire. A causa delle attuali intercettazioni in mare, le rotte migratorie si stanno spostando sulla terra ferma e puntano verso l’Algeria: l’attraversamento del deserto può essere mortale. Il problema principale è che Frontex deve rispettare il diritto dell’Unione europea anche se opera in un Paese terzo in cui si applicano norme giuridiche diverse, ma l’Agenzia andrà a operare sotto il comando delle guardie di frontiera di un Paese che non è vincolato dalle “regole” europee. Come può Frontex garantire di non essere coinvolta in operazioni che violano le norme fondamentali del diritto comunitario, se determinate azioni non sono illegali in quel Paese? Sulla carta è possibile presentare un reclamo a Frontex, ma poi nella pratica questo strumento in quali termini sarebbe accessibile ed efficace?

      Un anno dopo le dimissioni dell’ex direttore Leggeri ritiene che Frontex si sia pienamente assunta la responsabilità di quanto accaduto? Può davvero, secondo lei, diventare un attore affidabile per l’Ue?
      TS Prima devono accadere molte cose. Non abbiamo ancora visto una riforma fondamentale: c’è ancora un forte bisogno di maggiore trasparenza, di un atteggiamento più fermo nei confronti degli Stati membri ospitanti e di un uso conseguente dell’articolo 46 che prevede la sospensione delle operazioni in caso di violazioni dei diritti umani (abbiamo già raccontato il ruolo dell’Agenzia nei respingimenti tra Grecia e Turchia, ndr). Questi problemi saranno ovviamente esacerbati nella cooperazione con i Paesi terzi, perché la responsabilità sarà ancora più difficile da raggiungere.

      https://altreconomia.it/i-rischi-della-presenza-di-frontex-in-africa-tanto-potere-poca-responsa

    • «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare». La missione di ASGI in Senegal e Mauritania

      Lo scorso 29 marzo è stato pubblicato il rapporto «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare» (https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania), frutto del sopralluogo giuridico effettuato tra il 7 e il 13 maggio 2022 da una delegazione di ASGI composta da Alice Fill, Lorenzo Figoni, Matteo Astuti, Diletta Agresta, Adelaide Massimi (avvocate e avvocati, operatori e operatrici legali, ricercatori e ricercatrici).

      Il sopralluogo aveva l’obiettivo di analizzare lo sviluppo delle politiche di esternalizzazione del controllo della mobilità e di blocco delle frontiere implementate dall’Unione Europea in Mauritania e in Senegal – due paesi a cui, come la Turchia o gli stati balcanici più orientali, gli stati membri hanno delegato la gestione dei flussi migratori concordando politiche sempre più ostacolanti per lo spostamento delle persone.

      Nel corso del sopralluogo sono stati intervistati, tra Mauritania e Senegal, più di 40 interlocutori afferenti a istituzioni, società civile, popolazione migrante e organizzazioni, tra cui OIM, UNHCR, delegazioni dell’UE. Intercettare questi soggetti ha consentito ad ASGI di andare oltre le informazioni vincolate all’ufficialità delle dichiarazioni pubbliche e di approfondire le pratiche illegittime portate avanti su questi territori.

      Il report parte dalle già assodate intenzioni di collaborazione tra l’Unione Europea e le autorità senegalesi e mauritane – una collaborazione che in entrambi i paesi sembra connotata nel senso del controllo e della sorveglianza; per quanto riguarda il Senegal, si fa menzione del ben noto status agreement, proposto nel febbraio 2022 a Dakar dalla Commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson, con il quale si intende estendere il controllo di Frontex in Senegal.

      L’obiettivo di tale accordo era il controllo della cosiddetta rotta delle Canarie, che tra il 2018 e il 2022 è stata sempre più battuta. Sebbene la proposta abbia generato accese discussioni nella società civile senegalese, preoccupata all’idea di cedere parte della sovranità del paese sul controllo delle frontiere esterne, con tale accordo, elaborato con un disegno molto simile a quello che regola le modalità di intervento di Frontex nei Balcani, si legittimerebbe ufficialmente l’attività di controllo dell’agenzia UE in paesi terzi, e in particolare fuori dal continente europeo.

      Per quanto riguarda la Mauritania, si menziona l’Action Plan pubblicato da Frontex il 7 giugno 2022, con il quale si prospetta una possibilità di collaborare operativamente sul territorio mauritano, in particolare per lo sviluppo di governance in materia migratoria.

      Senegal

      Sin dai primi anni Duemila, il dialogo tra istituzioni europee e senegalesi è stato focalizzato sulle politiche di riammissione dei cittadini senegalesi presenti in UE in maniera irregolare e dei cosiddetti ritorni volontari, le politiche di gestione delle frontiere senegalesi e il controllo della costa, la promozione di una legislazione anti-trafficking e anti-smuggling. Tutto questo si è intensificato quando, a partire dal 2018, la rotta delle Canarie è tornata a essere una rotta molto percorsa. L’operatività delle agenzie europee in Senegal per la gestione delle migrazioni si declina principalmente nei seguenti obiettivi:

      1. Monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime. Il memorandum firmato nel 2006 da Senegal e Spagna ha sancito la collaborazione ufficiale tra le forze di polizia europee e quelle senegalesi in operazioni congiunte di pattugliamento; a questo si aggiunge, sempre nello stesso anno, una presenza sempre più intensiva di Frontex al largo delle coste senegalesi.

      2. Lotta alla tratta e al traffico. Su questo fronte dell’operatività congiunta tra forze senegalesi ed europee, la normativa di riferimento è la legge n. 06 del 10 maggio 2005, che offre delle direttive per il contrasto della tratta di persone e del traffico. Tale documento, non distinguendo mai fra “tratta” e “traffico”, di fatto criminalizza la migrazione irregolare tout court, dal momento che viene utilizzato in maniera estensiva (e arbitraria) come strumento di controllo e di repressione della mobilità – fu utilizzato, ad esempio, per accusare di traffico di esseri umani un padre che aveva imbarcato suo figlio su un mezzo che poi naufragato.

      Il sistema di asilo in Senegal

      Il Senegal aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status de rifugiati e del relativo Protocollo del 1967; la valutazione delle domande di asilo fa capo alla Commissione Nazionale di Eleggibilità (CNE), che al deposito della richiesta di asilo emette un permesso di soggiorno della durata di 3 mesi, rinnovabile fino all’esito dell’audizione di fronte alla CNE; l’esito della CNE è ricorribile in primo grado presso la Commissione stessa e, nel caso di ulteriore rifiuto, presso il Presidente della Repubblica. Quando il richiedente asilo depone la propria domanda, subentra l’UNHCR, che nel paese è molto presente e finanzia ONG locali per fornire assistenza.

      Il 5 aprile 2022 l’Assemblea Nazionale senegalese ha approvato una nuova legge sullo status dei rifugiati e degli apolidi, una legge che, stando a diverse associazioni locali, sulla carta estenderebbe i diritti cui i rifugiati hanno accesso; tuttavia, le stesse associazioni temono che a tale miglioramento possa non seguire un’applicazione effettiva della normativa.
      Mauritania

      Data la collocazione geografica del paese, a ridosso dell’Atlantico e delle isole Canarie, in prossimità di paesi ad alto indice di emigrazione (Senegal, Mali, Marocco), la Mauritania rappresenta un territorio strategico per il monitoraggio dei flussi migratori diretti in Europa. Pertanto, analogamente a quanto avvenuto in Senegal, anche in Mauritania la Spagna ha proceduto a rafforzare la cooperazione in tema di politiche migratorie e di gestione del controllo delle frontiere e a incrementare la presenta e l’impegno di attori esterni – in primis di agenzie quali Frontex – per interventi di contenimento dei flussi e di riammissione di cittadini stranieri in Mauritania.

      Relativamente alla Mauritania, l’obiettivo principale delle istituzioni europee sembra essere la prevenzione dell’immigrazione lungo la rotta delle Canarie. La normativa di riferimento è l’Accordo di riammissione bilaterale firmato con la Spagna nel luglio 2003. Con tale accordo, la Spagna può chiedere alla Mauritania di riammettere sul proprio territorio cittadini mauritani e non solo, anche altri cittadini provenienti da paesi terzi che “si presume” siano transitati per la Mauritania prima di entrare irregolarmente in Spagna. Oltre a tali interventi, il report di ASGI menziona l’Operazione Hera di Frontex e vari interventi di cooperazione allo sviluppo promossi dalla Spagna “con finalità tutt’altro che umanitarie”, bensì di gestione della mobilità.

      In tale regione, nella fase degli sbarchi risulta molto dubbio il ruolo giocato da organizzazioni come OIM e UNHCR, poiché non è codificato; interlocutori diversi hanno fornito informazioni contrastanti sulla disponibilità di UNHCR a intervenire in supporto e su segnalazione delle ONG presenti al momento dello sbarco. In ogni caso, se effettivamente UNHCR fosse assente agli sbarchi, ciò determinerebbe una sostanziale impossibilità di accesso alle procedure di protezione internazionale da parte di qualsiasi potenziale richiedente asilo che venga intercettato in mare.

      Anche in questo territorio la costruzione della figura del “trafficante” diventa un dispositivo di criminalizzazione e repressione della mobilità sulla rotta atlantica, strumentale alla soddisfazione di richieste europee.
      La detenzione dei cittadini stranieri

      Tra Nouakchott e Nouadhibou vi sono tre centri di detenzione per persone migranti; uno di questi (il Centro di Detenzione di Nouadhibou 2 (anche detto “El Guantanamito”), venne realizzato grazie a dei fondi di un’agenzia di cooperazione spagnola. Sovraffollamento, precarietà igienico-sanitaria e impossibilità di accesso a cure e assistenza legale hanno caratterizzato tali centri. Quando El Guantanamito fu chiuso, i commissariati di polizia sono diventati i principali luoghi deputati alla detenzione dei cittadini stranieri; in tali centri, vengono detenute non solo le persone intercettate in prossimità delle coste mauritane, ma anche i cittadini stranieri riammessi dalla Spagna, e anche le persone presenti irregolarmente su territorio mauritano. Risulta delicato il tema dell’accesso a tali commissariati, dal momento che il sopralluogo ha rilevato che le ONG non hanno il permesso di entrarvi, mentre le organizzazioni internazionali sì – ciò nonostante, nessuna delle persone precedentemente sottoposte a detenzione con cui la delegazione ASGI ha avuto modo di interloquire ha dichiarato di aver riscontrato la presenza di organizzazioni all’interno di questi centri.

      La detenzione amministrativa risulta essere “un tassello essenziale della politica di contenimento dei flussi di cittadini stranieri in Mauritania”. Il passaggio successivo alla detenzione delle persone migranti è l’allontanamento, che si svolge in forma di veri e propri respingimenti sommari e informali, senza che i migranti siano messi nelle condizioni né di dichiarare la propria nazionalità né di conoscere la procedura di ritorno volontario.
      Il ruolo delle organizzazioni internazionali in Mauritania

      OIM riveste un ruolo centrale nel panorama delle politiche di esternalizzazione e di blocco dei cittadini stranieri in Mauritania, tramite il supporto delle autorità di pubblica sicurezza mauritane nello sviluppo di politiche di contenimento della libertà di movimento – strategie e interventi che suggeriscono una connotazione securitaria della presenza dell’associazione nel paese, a scapito di una umanitaria.

      Nonostante anche la Mauritania sia firmataria della Convenzione di Ginevra, non esiste a oggi una legge nazionale sul diritto di asilo nel paese. UNHCR testimonia come dal 2015 esiste un progetto di legge sull’asilo, ma che questo sia tuttora “in attesa di adozione”.

      Pertanto, le procedure di asilo in Mauritania sono gestite interamente da UNHCR. Tali procedure si differenziano a seconda della pericolosità delle regioni di provenienza delle persone migranti; in particolare, i migranti maliani provenienti dalle regioni considerate più pericolose vengono registrati come rifugiati prima facie, quanto non accade invece per i richiedenti asilo provenienti dalle aree urbane, per loro, l’iter dell’asilo è ben più lungo, e prevede una sorta di “pre-pre-registrazione” presso un ente partner di UNHCR, cui segue una pre-registrazione accordata da UNHCR previo appuntamento, e solo in seguito alla registrazione viene riconosciuto un certificato di richiesta di asilo, valido per sei mesi, in attesa di audizione per la determinazione dello status di rifugiato.

      Le tempistiche per il riconoscimento di protezione, poi, sono differenti a seconda del grado di vulnerabilità del richiedente e in taluni casi potevano condurre ad anni e anni di attesa. Alla complessità della procedura si aggiunge che non tutti i potenziali richiedenti asilo possono accedervi – ad esempio, chi proviene da alcuni stati, come la Sierra Leone, considerati “paesi sicuri” secondo una categorizzazione fornita dall’Unione Africana.
      Conclusioni

      In fase conclusiva, il report si sofferma sul ruolo fondamentale giocato dall’Unione Europea nel forzare le politiche senegalesi e mauritane nel senso della sicurezza e del contenimento, a scapito della tutela delle persone migranti nei loro diritti fondamentali. Le principali preoccupazioni evidenziate sono rappresentate dalla prospettiva della conclusione dello status agreement tra Frontex e i due paesi, perché tale ratifica ufficializzerebbe non solo la presenza, ma un ruolo legittimo e attivo di un’agenzia europea nel controllo di frontiere che si dispiegano ben oltre i confini territoriali comunitari, ben oltre le acque territoriali, spingendo le maglie del controllo dei flussi fin dentro le terre di quegli stati da cui le persone fuggono puntando all’Unione Europea. La delegazione, tuttavia, sottolinea che vi sono aree in cui la società civile senegalese e mauritana risulta particolarmente politicizzata, dunque in grado di esprimere insofferenza o aperta contrarietà nei confronti delle ingerenze europee nei loro paesi. Infine, da interviste, colloqui e incontri con diretti interessati e testimoni, il ruolo di organizzazioni internazionali come le citate OIM e UNHCR appare nella maggior parte dei casi “fluido o sfuggevole”; una prospettiva, questa, che sembra confermare l’ambivalenza delle grandi organizzazioni internazionali, soggetti messi innanzitutto al servizio degli interessi delle istituzioni europee.

      Il report si conclude auspicando una prosecuzione di studio e analisi al fine di continuare a monitorare gli sviluppi politici e legislativi che legano l’Unione Europea e questi territori nella gestione operativa delle migrazioni.

      https://www.meltingpot.org/2023/05/un-laboratorio-di-esternalizzazione-tra-frontiere-di-terra-e-di-mare

    • Pubblicato il rapporto #ASGI della missione in Senegal e Mauritania

      Il Senegal e la Mauritania sono paesi fondamentali lungo la rotta che conduce dall’Africa occidentale alle isole Canarie. Nel 2020, dopo alcuni anni in cui la rotta era stata meno utilizzata, vi è stato un incremento del 900% degli arrivi rispetto all’anno precedente. Il dato ha portato la Spagna e le istituzioni europee a concentrarsi nuovamente sui due paesi. La cosiddetta Rotta Atlantica, che a partire dal 2006 era stata teatro di sperimentazioni di pratiche di contenimento e selezione della mobilità e di delega dei controlli alle frontiere e del diritto di asilo, è tornata all’attenzione internazionale: da febbraio 2022 sono in corso negoziazioni per la firma di un accordo di status con Frontex per permettere il dispiegamento dei suoi agenti in Senegal e Mauritania.

      Al fine di indagare l’attuazione delle politiche di esternalizzazione e i loro effetti, dal 7 al 13 maggio 2022 un gruppo di socз ASGI – avvocatз, operatorз legali e ricercatorз – ha effettuato un sopralluogo giuridico a Nouakchott, Mauritania e a Dakar, Senegal.

      Il report restituisce il quadro ricostruito nel corso del sopralluogo, durante il quale è stato possibile intervistare oltre 45 interlocutori tra istituzioni, organizzazioni internazionali, ONG e persone migranti.

      https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania
      #rapport

    • Au Sénégal, les desseins de Frontex se heurtent aux résistances locales

      Tout semblait devoir aller très vite : début 2022, l’Union européenne propose de déployer sa force anti-migration Frontex sur les côtes sénégalaises, et le président Macky Sall y semble favorable. Mais c’était compter sans l’opposition de la société civile, qui refuse de voir le Sénégal ériger des murs à la place de l’Europe.

      Agents armés, navires, drones et systèmes de sécurité sophistiqués : Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes créée en 2004, a sorti le grand jeu pour dissuader les Africains de prendre la direction des îles Canaries – et donc de l’Europe –, l’une des routes migratoires les plus meurtrières au monde. Cet arsenal, auquel s’ajoutent des programmes de formation de la police aux frontières, est la pierre angulaire de la proposition faite début 2022 par le Conseil de l’Europe au Sénégal. Finalement, Dakar a refusé de la signer sous la pression de la société civile, même si les négociations ne sont pas closes. Dans un climat politique incandescent à l’approche de l’élection présidentielle de 2024, le président sénégalais, Macky Sall, soupçonné de vouloir briguer un troisième mandat, a préféré prendre son temps et a fini par revenir sur sa position initiale, qui semblait ouverte à cette collaboration. Dans le même temps, la Mauritanie voisine, elle, a entamé des négociations avec Bruxelles.

      L’histoire débute le 11 février 2022 : lors d’une conférence de presse à Dakar, la commissaire aux Affaires intérieures du Conseil de l’Europe, Ylva Johansson, officialise la proposition européenne de déployer Frontex sur les côtes sénégalaises. « C’est mon offre et j’espère que le gouvernement sénégalais sera intéressé par cette opportunité unique », indique-t-elle. En cas d’accord, elle annonce que l’agence européenne sera déployée dans le pays au plus tard au cours de l’été 2022. Dans les jours qui ont suivi l’annonce de Mme Johansson, plusieurs associations de la société civile sénégalaise ont organisé des manifestations et des sit-in à Dakar contre la signature de cet accord, jugé contraire aux intérêts nationaux et régionaux.

      Une frontière déplacée vers la côte sénégalaise

      « Il s’agit d’un #dispositif_policier très coûteux qui ne permet pas de résoudre les problèmes d’immigration tant en Afrique qu’en Europe. C’est pourquoi il est impopulaire en Afrique. Frontex participe, avec des moyens militaires, à l’édification de murs chez nous, en déplaçant la frontière européenne vers la côte sénégalaise. C’est inacceptable, dénonce Seydi Gassama, le directeur exécutif d’Amnesty International au Sénégal. L’UE exerce une forte pression sur les États africains. Une grande partie de l’aide européenne au développement est désormais conditionnée à la lutte contre la migration irrégulière. Les États africains doivent pouvoir jouer un rôle actif dans ce jeu, ils ne doivent pas accepter ce qu’on leur impose, c’est-à-dire des politiques contraires aux intérêts de leurs propres communautés. » Le défenseur des droits humains rappelle que les transferts de fonds des migrants pèsent très lourd dans l’économie du pays : selon les chiffres de la Banque mondiale, ils ont atteint 2,66 milliards de dollars (2,47 milliards d’euros) au Sénégal en 2021, soit 9,6 % du PIB (presque le double du total de l’aide internationale au développement allouée au pays, de l’ordre de 1,38 milliard de dollars en 2021). « Aujourd’hui, en visitant la plupart des villages sénégalais, que ce soit dans la région de Fouta, au Sénégal oriental ou en Haute-Casamance, il est clair que tout ce qui fonctionne – hôpitaux, dispensaires, routes, écoles – a été construit grâce aux envois de fonds des émigrés », souligne M. Gassama.

      « Quitter son lieu de naissance pour aller vivre dans un autre pays est un droit humain fondamental, consacré par l’article 13 de la Convention de Genève de 1951, poursuit-il. Les sociétés capitalistes comme celles de l’Union européenne ne peuvent pas dire aux pays africains : “Vous devez accepter la libre circulation des capitaux et des services, alors que nous n’acceptons pas la libre circulation des travailleurs”. » Selon lui, « l’Europe devrait garantir des routes migratoires régulières, quasi inexistantes aujourd’hui, et s’attaquer simultanément aux racines profondes de l’exclusion, de la pauvreté, de la crise démocratique et de l’instabilité dans les pays d’Afrique de l’Ouest afin d’offrir aux jeunes des perspectives alternatives à l’émigration et au recrutement dans les rangs des groupes djihadistes ».

      Depuis le siège du Forum social sénégalais (FSS), à Dakar, Mamadou Mignane Diouf abonde : « L’UE a un comportement inhumain, intellectuellement et diplomatiquement malhonnête. » Le coordinateur du FSS cite le cas récent de l’accueil réservé aux réfugiés ukrainiens ayant fui la guerre, qui contraste avec les naufrages incessants en Méditerranée et dans l’océan Atlantique, et avec la fermeture des ports italiens aux bateaux des ONG internationales engagées dans des opérations de recherche et de sauvetage des migrants. « Quel est ce monde dans lequel les droits de l’homme ne sont accordés qu’à certaines personnes en fonction de leur origine ?, se désole-t-il. À chaque réunion internationale sur la migration, nous répétons aux dirigeants européens que s’ils investissaient un tiers de ce qu’ils allouent à Frontex dans des politiques de développement local transparentes, les jeunes Africains ne seraient plus contraints de partir. » Le budget total alloué à Frontex, en constante augmentation depuis 2016, a dépassé les 754 millions d’euros en 2022, contre 535 millions l’année précédente.
      Une des routes migratoires les plus meurtrières

      Boubacar Seye, directeur de l’ONG Horizon sans Frontières, parle de son côté d’une « gestion catastrophique et inhumaine des frontières et des phénomènes migratoires ». Selon les estimations de l’ONG espagnole Caminando Fronteras, engagée dans la surveillance quotidienne de ce qu’elle appelle la « nécro-frontière ouest-euro-africaine », entre 2018 et 2022, 7 865 personnes originaires de 31 pays différents, dont 1 273 femmes et 383 enfants, auraient trouvé la mort en tentant de rejoindre les côtes espagnoles des Canaries à bord de pirogues en bois et de canots pneumatiques cabossés – soit une moyenne de 6 victimes chaque jour. Il s’agit de l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus meurtrières au monde, avec le triste record, ces cinq dernières années, d’au moins 250 bateaux qui auraient coulé avec leurs passagers à bord. Le dernier naufrage connu a eu lieu le 2 octobre 2022. Selon le récit d’un jeune Ivoirien de 27 ans, seul survivant, le bateau a coulé après neuf jours de mer, emportant avec lui 33 vies.

      Selon les chiffres fournis par le ministère espagnol de l’Intérieur, environ 15 000 personnes sont arrivées aux îles Canaries en 2022 – un chiffre en baisse par rapport à 2021 (21 000) et 2020 (23 000). Et pour cause : la Guardia Civil espagnole a déployé des navires et des hélicoptères sur les côtes du Sénégal et de la Mauritanie, dans le cadre de l’opération « Hera » mise en place dès 2006 (l’année de la « crise des pirogues ») grâce à des accords de coopération militaire avec les deux pays africains, et en coordination avec Frontex.

      « Les frontières de l’Europe sont devenues des lieux de souffrance, des cimetières, au lieu d’être des entrelacs de communication et de partage, dénonce Boubacar Seye, qui a obtenu la nationalité espagnole. L’Europe se barricade derrière des frontières juridiques, politiques et physiques. Aujourd’hui, les frontières sont équipées de moyens de surveillance très avancés. Mais, malgré tout, les naufrages et les massacres d’innocents continuent. Il y a manifestement un problème. » Une question surtout le hante : « Combien d’argent a-t-on injecté dans la lutte contre la migration irrégulière en Afrique au fil des ans ? Il n’y a jamais eu d’évaluation. Demander publiquement un audit transparent, en tant que citoyen européen et chercheur, m’a coûté la prison. » L’activiste a été détenu pendant une vingtaine de jours en janvier 2021 au Sénégal pour avoir osé demander des comptes sur l’utilisation des fonds européens. De la fenêtre de son bureau, à Dakar, il regarde l’océan et s’alarme : « L’ère post-Covid et post-guerre en Ukraine va générer encore plus de tensions géopolitiques liées aux migrations. »
      Un outil policier contesté à gauche

      Bruxelles, novembre 2022. Nous rencontrons des professeurs, des experts des questions migratoires et des militants belges qui dénoncent l’approche néocoloniale des politiques migratoires de l’Union européenne (UE). Il est en revanche plus difficile d’échanger quelques mots avec les députés européens, occupés à courir d’une aile à l’autre du Parlement européen, où l’on n’entre que sur invitation. Quelques heures avant la fin de notre mission, nous parvenons toutefois à rencontrer Amandine Bach, conseillère politique sur les questions migratoires pour le groupe parlementaire de gauche The Left. « Nous sommes le seul parti qui s’oppose systématiquement à Frontex en tant qu’outil policier pour gérer et contenir les flux migratoires vers l’UE », affirme-t-elle.

      Mme Bach souligne la différence entre « statut agreement » (accord sur le statut) et « working arrangement » (arrangement de travail) : « Il ne s’agit pas d’une simple question juridique. Le premier, c’est-à-dire celui initialement proposé au Sénégal, est un accord formel qui permet à Frontex un déploiement pleinement opérationnel. Il est négocié par le Conseil de l’Europe, puis soumis au vote du Parlement européen, qui ne peut que le ratifier ou non, sans possibilité de proposer des amendements. Le second, en revanche, est plus symbolique qu’opérationnel et offre un cadre juridique plus simple. Il n’est pas discuté par le Parlement et n’implique pas le déploiement d’agents et de moyens, mais il réglemente la coopération et l’échange d’informations entre l’agence européenne et les États tiers. » Autre différence substantielle : seul l’accord sur le statut peut donner – en fonction de ce qui a été négocié entre les parties – une immunité partielle ou totale aux agents de Frontex sur le sol non européen. L’agence dispose actuellement de tels accords dans les Balkans, avec des déploiements en Serbie et en Albanie (d’autres accords seront bientôt opérationnels en Macédoine du Nord et peut-être en Bosnie, pays avec lequel des négociations sont en cours).

      Cornelia Ernst (du groupe parlementaire The Left), la rapporteuse de l’accord entre Frontex et le Sénégal nommée en décembre 2022, va droit au but : « Je suis sceptique, j’ai beaucoup de doutes sur ce type d’accord. La Commission européenne ne discute pas seulement avec le Sénégal, mais aussi avec la Mauritanie et d’autres pays africains. Le Sénégal est un pays de transit pour les réfugiés de toute l’Afrique de l’Ouest, et l’UE lui offre donc de l’argent dans l’espoir qu’il accepte d’arrêter les réfugiés. Nous pensons que cela met en danger la liberté de circulation et d’autres droits sociaux fondamentaux des personnes, ainsi que le développement des pays concernés, comme cela s’est déjà produit au Soudan. » Et d’ajouter : « J’ai entendu dire que le Sénégal n’est pas intéressé pour le moment par un “statut agreement”, mais n’est pas fermé à un “working arrangement” avec Frontex, contrairement à la Mauritanie, qui négocie un accord substantiel qui devrait prévoir un déploiement de Frontex. »

      Selon Mme Ernst, la stratégie de Frontex consiste à envoyer des agents, des armes, des véhicules, des drones, des bateaux et des équipements de surveillance sophistiqués, tels que des caméras thermiques, et à fournir une formation aux gardes-frontières locaux. C’est ainsi qu’ils entendent « protéger » l’Europe en empêchant les réfugiés de poursuivre leur voyage. La question est de savoir ce qu’il adviendra de ces réfugiés bloqués au Sénégal ou en Mauritanie en cas d’accord.
      Des rapports accablants

      Principal outil de dissuasion développé par l’UE en réponse à la « crise migratoire » de 2015-2016, Frontex a bénéficié en 2019 d’un renforcement substantiel de son mandat, avec le déploiement de 10 000 gardes-frontières prévu d’ici à 2027 (ils sont environ 1 500 aujourd’hui) et des pouvoirs accrus en matière de coopération avec les pays non européens, y compris ceux qui ne sont pas limitrophes de l’UE. Mais les résultats son maigres. Un rapport de la Cour des comptes européenne d’août 2021 souligne « l’inefficacité de Frontex dans la lutte contre l’immigration irrégulière et la criminalité transfrontalière ». Un autre rapport de l’Office européen de lutte antifraude (Olaf), publié en mars 2022, a quant à lui révélé des responsabilités directes et indirectes dans des « actes de mauvaise conduite » à l’encontre des exilés, allant du harcèlement aux violations des droits fondamentaux en Grèce, en passant par le refoulement illégal de migrants dans le cadre d’opérations de rapatriement en Hongrie.

      Ces rapports pointent du doigt les plus hautes sphères de Frontex, tout comme le Frontex Scrutiny Working Group (FSWG), une commission d’enquête créée en février 2021 par le Parlement européen dans le but de « contrôler en permanence tous les aspects du fonctionnement de Frontex, y compris le renforcement de son rôle et de ses ressources pour la gestion intégrée des frontières et l’application correcte du droit communautaire ». Ces révélations ont conduit, en mars 2021, à la décision du Parlement européen de suspendre temporairement l’extension du budget de Frontex et, en mai 2022, à la démission de Fabrice Leggeri, qui était à la tête de l’agence depuis 2015.
      Un tabou à Dakar

      « Actuellement aucun cadre juridique n’a été défini avec un État africain », affirme Frontex. Si dans un premier temps l’agence nous a indiqué que les discussions avec le Sénégal étaient en cours – « tant que les négociations sur l’accord de statut sont en cours, nous ne pouvons pas les commenter » (19 janvier 2023) –, elle a rétropédalé quelques jours plus tard en précisant que « si les négociations de la Commission européenne avec le Sénégal sur un accord de statut n’ont pas encore commencé, Frontex est au courant des négociations en cours entre la Commission européenne et la Mauritanie » (1er février 2023).

      Interrogé sur les négociations avec le Sénégal, la chargée de communication de Frontex, Paulina Bakula, nous a envoyé par courriel la réponse suivant : « Nous entretenons une relation de coopération étroite avec les autorités sénégalaises chargées de la gestion des frontières et de la lutte contre la criminalité transfrontalière, en particulier avec la Direction générale de la police nationale, mais aussi avec la gendarmerie, l’armée de l’air et la marine. » En effet, la coopération avec le Sénégal a été renforcée avec la mise en place d’un officier de liaison Frontex à Dakar en janvier 2020. « Compte tenu de la pression continue sur la route Canaries-océan Atlantique, poursuit Paulina Bakula, le Sénégal reste l’un des pays prioritaires pour la coopération opérationnelle de Frontex en Afrique de l’Ouest. Cependant, en l’absence d’un cadre juridique pour la coopération avec le Sénégal, l’agence a actuellement des possibilités très limitées de fournir un soutien opérationnel. »

      Interpellée sur la question des droits de l’homme en cas de déploiement opérationnel en Afrique de l’Ouest, Paulina Bakula écrit : « Si l’UE conclut de tels accords avec des partenaires africains à l’avenir, il incombera à Frontex de veiller à ce qu’ils soient mis en œuvre dans le plein respect des droits fondamentaux et que des garanties efficaces soient mises en place pendant les activités opérationnelles. »

      Malgré des demandes d’entretien répétées durant huit mois, formalisées à la fois par courriel et par courrier, aucune autorité sénégalaise n’a accepté de répondre à nos questions. « Le gouvernement est conscient de la sensibilité du sujet pour l’opinion publique nationale et régionale, c’est pourquoi il ne veut pas en parler. Et il ne le fera probablement pas avant les élections présidentielles de 2024 », confie, sous le couvert de l’anonymat, un homme politique sénégalais. Il constate que la question migratoire est devenue, ces dernières années, autant un ciment pour la société civile qu’un tabou pour la classe politique ouest-africaine.

      https://afriquexxi.info/Au-Senegal-les-desseins-de-Frontex-se-heurtent-aux-resistances-locales
      #conditionnalité #conditionnalité_de_l'aide_au_développement #remittances #résistance

    • What is Frontex doing in Senegal? Secret services also participate in their network of “#Risk_Analysis_Cells

      Frontex has been allowed to conclude stationing agreements with third countries since 2016. However, the government in Dakar does not currently want to allow EU border police into the country. Nevertheless, Frontex has been active there since 2006.

      When Frontex was founded in 2004, the EU states wrote into its border agency’s charter that it could only be deployed within the Union. With developments often described as the “refugee crisis,” that changed in the new 2016 regulation, which since then has allowed the EU Commission to negotiate agreements with third countries to send Frontex there. So far, four Balkan states have decided to let the EU migration defense agency into the country – Bosnia and Herzegovina could become the fifth candidate.

      Frontex also wanted to conclude a status agreement with Senegal based on this model (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t). In February 2022, the EU Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, announced that such a treaty would be ready for signing by the summer (https://www.france24.com/en/live-news/20220211-eu-seeks-to-deploy-border-agency-to-senegal). However, this did not happen: Despite high-level visits from the EU (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t), the government in Dakar is apparently not even prepared to sign a so-called working agreement. It would allow authorities in the country to exchange personal data with Frontex.

      Senegal is surrounded by more than 2,600 kilometers of external border; like neighboring Mali, Gambia, Guinea and Guinea-Bissau, the government has joined the Economic Community of West African States (ECOWAS). Similar to the Schengen area, the agreement also regulates the free movement of people and goods in a total of 15 countries. Senegal is considered a safe country of origin by Germany and other EU member states like Luxembourg.

      Even without new agreements, Frontex has been active on migration from Senegal practically since its founding: the border agency’s first (and, with its end in 2019, longest) mission started in 2006 under the name “#Hera” between West Africa and the Canary Islands in the Atlantic (https://www.statewatch.org/media/documents/analyses/no-307-frontex-operation-hera.pdf). Border authorities from Mauritania were also involved. The background to this was the sharp increase in crossings from the countries at the time, which were said to have declined successfully under “Hera.” For this purpose, Frontex received permission from Dakar to enter territorial waters of Senegal with vessels dispatched from member states.

      Senegal has already been a member of the “#Africa-Frontex_Intelligence_Community” (#AFIC) since 2015. This “community”, which has been in existence since 2010, aims to improve Frontex’s risk analysis and involves various security agencies to this end. The aim is to combat cross-border crimes, which include smuggling as well as terrorism. Today, 30 African countries are members of AFIC. Frontex has opened an AFIC office in five of these countries, including Senegal since 2019 (https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-opens-risk-analysis-cell-in-senegal-6nkN3B). The tasks of the Frontex liaison officer stationed there include communicating with the authorities responsible for border management and assisting with deportations from EU member states.

      The personnel of the national “Risk Analysis Cells” are trained by Frontex. Their staff are to collect strategic data on crime and analyze their modus operandi, EU satellite surveillance is also used for this purpose (https://twitter.com/matthimon/status/855425552148295680). Personal data is not processed in the process. From the information gathered, Frontex produces, in addition to various dossiers, an annual situation report, which the agency calls an “#Pre-frontier_information_picture.”

      Officially, only national law enforcement agencies participate in the AFIC network, provided they have received a “mandate for border management” from their governments. In Senegal, these are the National Police and the Air and Border Police, in addition to the “Department for Combating Trafficking in Human Beings and Similar Practices.” According to the German government, the EU civil-military missions in Niger and Libya are also involved in AFIC’s work.

      Information is not exchanged with intelligence services “within the framework of AFIC activities by definition,” explains the EU Commission in its answer to a parliamentary question. However, the word “by definition” does not exclude the possibility that they are nevertheless involved and also contribute strategic information. In addition, in many countries, police authorities also take on intelligence activities – quite differently from how this is regulated in Germany, for example, in the separation requirement for these authorities. However, according to Frontex’s response to a FOIA request, intelligence agencies are also directly involved in AFIC: Morocco and Côte d’Ivoire send their domestic secret services to AFIC meetings, and a “#Center_for_Monitoring_and_Profiling” from Senegal also participates.

      Cooperation with Senegal is paying off for the EU: Since 2021, the total number of arrivals of refugees and migrants from Senegal via the so-called Atlantic route as well as the Western Mediterranean route has decreased significantly. The recognition rate for asylum seekers from the country is currently around ten percent in the EU.

      https://digit.site36.net/2023/08/27/what-is-frontex-doing-in-senegal-secret-services-also-participate-in-t
      #services_de_renseignement #données #services_secrets

  • Gérald Darmanin annonce la création d’une « cellule anti-ZAD »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/04/02/gerald-darmanin-annonce-la-creation-d-une-cellule-anti-zad_6167915_3224.html

    Alors que se multiplient les accusations de violences policières (...), le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, apporte son soutien aux forces de l’ordre, dans un entretien au Journal du dimanche du 2 avril. Il annonce aussi la création d’une cellule « anti-ZAD » (« zone à défendre »).

    (...) « Je refuse de céder au terrorisme intellectuel de l’extrême gauche qui consiste à renverser les valeurs : les casseurs deviendraient les agressés et les policiers les agresseurs », soutient-il encore.
    Selon le ministre de l’intérieur, « depuis le 16 mars, 1 093 policiers, gendarmes et sapeurs-pompiers ont été blessés » dans les manifestations. Il y a eu « 2 579 incendies volontaires et 316 atteintes à des bâtiments publics ».

    (...)« A Sainte-Soline, comme dans certaines manifestations sauvages, ce n’était pas du maintien de l’ordre : c’était de la guérilla », déclare-t-il.

    Estimant que les politiques avaient « manqué de fermeté face à l’extrême gauche, par complaisance intellectuelle ou par lâcheté », M. Darmanin a affirmé que « plus aucune ZAD ne s’installera dans notre pays. Ni à Sainte-Soline ni ailleurs ». Et d’annoncer la création au ministère de l’intérieur d’une « cellule anti-ZAD, avec des juristes spécialisés ». Elle verra le jour le 1er septembre, selon son entourage.

    Interrogé sur la pétition appelant à la dissolution de la brigade de répression de l’action violente motocycliste (la BRAV-M), qui avait recueilli samedi soir plus de 240 000 signatures, M. Darmanin a jugé que c’était « une pétition politisée, relayée par La France insoumise, qui déteste la police ».
    Quant aux inquiétudes manifestées par le rapporteur spécial de l’ONU et le Conseil de l’Europe sur la manière dont est utilisée la force en France, le ministre a répondu : « J’entends les critiques mais j’encourage leurs auteurs, plutôt que de commenter des extraits vidéos depuis New York ou Bruxelles, à venir sur le terrain. »

    La Nupes « prend en otage la gauche républicaine »

    Questionné sur l’ultragauche, il a assuré que les services de renseignement avaient recensé « en France 2 200 “fichés S” » appartenant à cette mouvance. Il a dénoncé « une complaisance très inquiétante des mouvements politiques qui ont leurs entrées à l’Assemblée nationale ».

    Après le lancement de la procédure de dissolution du mouvement Les Soulèvements de la Terre, un des organisateurs de la manifestation de Sainte-Soline, M. Darmanin a annoncé qu’il ferait de même pour Defco (Défense collective), un mouvement de Rennes (Ille-et-Vilaine) qui « appelle au soulèvement » . Sur son site Internet [https://defensecollective.noblogs.org], ce collectif dit avoir « pour but de soutenir les personnes confrontées à la répression policière et judiciaire, mais aussi d’agir en amont par son action dans la rue et par l’expérience tirée de la répression ».

    edit #Rennes comme #zone_autonome, sur cuicui @Defense_Co et @AG_Rennes2
    Face aux ordures qui nous exploitent et nous gouvernent, vive la révolte des poubelles !
    https://seenthis.net/messages/997203

    #blocage #ville #goban #police #justice #renseignement #dissolution

    • „Premier septembre“ ... „plus aucune“ ... ca vous rappelle qc ? Moi si.

      „Seit 5:45 Uhr wird jetzt zurückgeschossen“
      https://www.ardaudiothek.de/episode/archivradio-geschichte-im-original/seit-5-45-uhr-wird-jetzt-zurueckgeschossen-hitler-erklaert-kriegsbeginn-und-pakt-mit-stalin/swr2/66749162

      1.9.1939 | Bei seiner Reichstagsrede zum Kriegsbeginn am 1. September 1939 donnert Adolf Hitler immer wieder frenetischer Applaus entgegen. Er rechtfertigt den Überfall auf Polen mit einem angeblichen polnischen Angriff auf den Sender Gleiwitz in Schlesien. Jetzt schieße man eben „zurück“.

      Drôles de ressemblances. C’est ca le rapprochement franco-allemand?

      M. Darmanin a affirmé que « plus aucune ZAD ne s’installera dans notre pays. Ni à Sainte-Soline ni ailleurs ». Et d’annoncer la création au ministère de l’intérieur d’une « cellule anti-ZAD, avec des juristes spécialisés ». Elle verra le jour le 1er septembre, selon son entourage.

      #wtf

    • Totalement hors-sol et bouché du cerveau, c’est bien un conservateur, ils veulent des chefs, des groupes hiérarchisés, une activité pérennisé, ils se croient au CAC40 de la contestation ? En fait ils ne comprennent rien, n’ont jamais lu, et encore moins Hakim Bey ? #TAZ #ZAT #ZAD
      Le concept des #vivants, du #vivant, leur échappe tellement, qu’il leur faut du matériel, du concret, ficher, trier, arrêter, marquer les corps contestataires par tout moyen, quitte à les éborgner, ou à les tuer.

      Ça rassure leur conception du monde des représentants de commerce de la violence concrète.

      Mais ils ont perdu d’avance, les zombies sont libres, nombreux, impalpables, plus vivants que jamais, et surtout dans la rue et les campagnes, à tout endroit, à tout moment les Camille sont là, dans la lumière.

      #zone_autonomie_temporaire

    • Il y a deux jours :

      Darmanin demande la dissolution de la mouvance Internet : un groupuscule dangereux qui semble s’échanger des données via des réseaux informatiques en dehors de Facebook.

  • [Sur le marquage des manifestants] Desarmons-les ! 🇵🇸 @Desarmons_les
    https://twitter.com/Desarmons_les/status/1641142222652309521

    Nous avons la preuve que l’EMF 100 était bien présent sur le dispositif de la gendarmerie de ce week-end à Sainte-Soline. Il permet de tirer des billes de Produit Marquant Codé (PMC = ADN de synthèse).


    Sur le dessus de l’arme, on identifie le réservoir de billes ainsi qu’un viseur hollographique Eotech attaché de travers sur le canon de l’arme.

    Deux personnes au moins ont été placées en garde-à-vue sur le fondement de la détection (à l’aide de lampes UV) de PMC sur leurs vêtements et leur peau. Petite nouveauté par rapport à sa dernière apparition : l’EMF 100 n’est plus de couleur jaune...

    Nous continuons notre enquête. Toute information de première main nous intéresse. Ecrivez nous sur desarmons-les@riseup.net

    On notera que le tireur porte une caméra sur son casque, ce qui laisse penser que l’identification avec les PMC ne peut fonctionner sans l’adjonction d’images pour caractériser les faits qui sont reprochés aux personnes ciblées.

    La photo est de nos ami-es et allié-es du collectif
    @FlagrantDeni 🖤

    Nom de code : « PMC »... Tout ce qu’il faut savoir sur la nouvelle arme contre la délinquance présentée dans le Var - Var-Matin, 2019
    https://www.varmatin.com/technologie/nom-de-code-pmc-tout-ce-quil-faut-savoir-sur-la-nouvelle-arme-contre-la-de

    Après les empreintes et l’ADN, les traces chimiques. Nom de code : ’PMC’. Deux formateurs du prestigieux Institut de recherches criminelles de la gendarmerie nationale (#IRCGN) de Cergy-Pontoise ont fait escale dans le Var pour sensibiliser des enquêteurs, un magistrat et des commerçants du Golfe de Saint-Tropez, aux vertus des « produits de marquage codés » (PMC), un dispositif innovant de lutte contre la délinquance.

    #EMF_100 #PMC #armes_de_la_police #gendarmerie #marquage_des_manifestants #police #répression #justice

  • Bundesverfassungsgericht zu AfD-Stiftung: Kein Geld ohne Gesetz - taz.de
    https://taz.de/Bundesverfassungsgericht-zu-AfD-Stiftung/!5914331

    22. 2. 2023 von Christian Rath - Bisher hat die AfD-nahe Desiderius-Erasmus-Stiftung kein Geld bekommen. Zu Unrecht, sagt Karlsruhe. Der Grund: Die Finanzierung ist unklar geregelt.

    KARLSRUHE taz | Der Bundestag hat die Rechte der AfD auf Chancengleichheit der Parteien verletzt, weil er der AfD-nahen Desiderius-Erasmus-Stiftung ohne gesetzliche Grundlage im Jahr 2019 Zuschüsse verweigerte. Dies entschied an diesem Mittwoch das Bundesverfassungsgericht und gab damit einer Organklage der AfD statt. Eine Nachzahlung von Geldern ordnete das Gericht nicht an.

    Derzeit bekommen sechs parteinahe Stiftungen Geld aus dem Bundeshaushalt. Im Jahr 2019 waren es insgesamt 660 Millionen Euro. Empfänger sind die Konrad-Adenauer-Stiftung (CDU-nah), die Friedrich-Ebert-Stiftung (SPD-nah), die Heinrich Böll-Stiftung (grün-nah), die Friedrich-Naumann-Stiftung (FDP-nah), die Rosa-Luxemburg-Stiftung (links-nah) und die Hanns-Seidel-Stiftung (CSU-nah).

    Zwei Drittel des Geldes fließt in Auslandsprojekte, insbesondere in die weltweite Förderung von Demokratie, Rechtsstaatlichkeit und Zivilgesellschaft. Knapp ein Viertel der Stiftungsgelder erhalten mehr oder weniger parteinahe Stipendiat:innen. Den Rest, rund 130 Millionen Euro, erhielten die Stiftungen als „Globalzuschüsse“ für politische Bildung, Forschung und Politikberatung.

    Im Karlsruher Verfahren ging es nur um die Globalzuschüsse. Die AfD beantragte ab 2019, dass auch die Desiderius-Erasmus-Stiftung (DES) staatliche Zuschüsse erhalten solle. Die AfD hatte die DES als parteinah anerkannt. Vorsitzende ist Erika Steinbach, die zuvor fast 30 Jahre lang für die CDU im Bundestag saß und seit 2022 AfD-Mitglied ist. Der Bundestag verweigerte der AfD-nahen Stiftung jedoch Jahr für Jahr die Zuschüsse.

    „Eingriff in die Rechte der Partei“

    Anfangs hieß es zur Begründung, dass die AfD erst noch zeigen müsse, dass sie eine dauerhafte Kraft ist. Nach dem zweiten Einzug in den Bundestag 2021 beschlossen die anderen Fraktionen erstmals einen Vermerk zum Bundeshaushalt 2022, wonach parteinahe Stiftungen nur dann finanziert werden, wenn keine Zweifel an ihrer Verfassungstreue bestehen. Wieder ging die DES leer aus.

    Im aktuellen Urteil ging es nur um das Jahr 2019. Für die Jahre 2020 und 2021 hatte die AfD zu spät geklagt. Und für das Jahr 2022 wurde das Verfahren abgetrennt, weil die AfD hier ihren Antrag erst zwei Wochen vor der mündlichen Verhandlung Ende Oktober gestellt hatte. Der Bundestag und die Bundesregierung hätten sich darauf nicht ausreichend vorbereiten können. Um die 2022 erstmals geforderte Verfassungstreue ging es daher im Urteil nur am Rande.

    Der Zweite Senat des Bundesverfassungsgerichts unter Vizepräsidentin Doris König stellte fest, dass die Verweigerung der Finanzierung einer parteinahen Stiftung ein Eingriff in die Rechte der Partei selbst darstellt. Denn die Arbeit der Stiftung nütze ihr im Parteienwettbewerb, auch wenn die Stiftungen personell mit den jeweiligen Parteien nicht identisch sein dürfen und auch keinen Wahlkampf betreiben dürfen. Doch in der politischen Bildung verbreiten die Stiftungen allgemeines Gedankengut der jeweiligen Parteien. Bei der politischen Forschung liefern sie nützliche Erkenntnisse und die Begabtenförderung helfe bei der Gewinnung und Förderung qualifizierten Nachwuchses. Der Nutzen für die jeweilige Partei sei zwar nicht messbar, aber es wäre realitätsfremd, einen Nutzen zu bestreiten, so die Richter:innen.

    Dieser Eingriff in die Chancengleichheit der Parteien ist nur auf gesetzlicher Grundlage möglich – das ist die zentrale Aussage des aktuellen Urteils. Ein Vermerk im Haushaltsgesetz (wie 2022) genüge nicht, da das Haushaltsgesetz keine Außenwirkung habe. Nur weil ein solches Gesetz fehlt, nahmen die Rich­te­r:in­nen eine Verletzung der Rechte der AfD an.

    Falls der Bundestag der AfD-nahen Stiftung weiter Gelder verweigern will, muss er also ein Gesetz beschließen. Hierfür habe das Parlament einen gewissen „Gestaltungsspielraum“, so die Richter:innen. Unbedenklich sei jedenfalls eine Norm, die parteinahen Stiftungen nur dann Anspruch auf Finanzierung gibt, wenn es sich um eine „dauerhafte, ins Gewicht fallende Grundströmung“ handelt. Möglich sei auch, so Karlsruhe, eine parteinahe Stiftung von der Finanzierung auszuschließen, wenn dies „zum Schutz der freiheitlichen demokratischen Grundordnung“, also zum Schutz von menschenwürde, Demokratie und Rechtsstaat „erforderlich“ ist. Details hierzu nannten die Rich­te­r:in­nen nicht.

    Ulrich Vosgerau, der Rechtsvertreter der AfD, forderte eine Nachzahlung von Zuschüssen für das Jahr 2019. Dies hat das Gericht jedoch nicht angeordnet. Es hat nur festgestellt, dass die Verweigerung der Zuschüsse für die DES 2019 verfassungswidrig war. Inzwischen kündigten alle Ampelparteien an, dass sie kurzfristig ein entsprechendes Gesetz erarbeiten wollen. „Kein Geld für Verfassungsfeinde – nach diesem Grundsatz werden wir nun schnell ein Stiftungsgesetz im Deutschen Bundestag erarbeiten und verabschieden“, sagte etwa Johannes Fechner, Justiziar der SPD-Fraktion.

    „Es ist Ausdruck der wehrhaften Demokratie der Bundesrepublik Deutschland, dass der freiheitliche Staat nicht die Feinde der Freiheit alimentieren muss“, betonte der FDP-Innenpolitiker Konstantin Kuhle, „jeder Euro Steuergeld für die AfD-Stiftung wäre ein Euro zu viel“, Für die Grünen wies Konstantin von Notz darauf hin, dass die Fraktion schon in der letzten Wahlperiode einen entsprechenden Gesetzentwurf vorgelegt hatte.

    Mit der Verabschiedung eines Stiftungsgesetzes dürfte die Auseinandersetzung um die AfD-nahe Stiftung aber nicht zu Ende sein. Wenn der Bundestag zu hohe Anforderungen an die Verfassungstreue von Stiftungen stellt, dürfte die AfD gegen­ das Gesetz klagen. Das Bundesverfassungsgericht müsste dann prüfen, ob die Anforderungen unverhältnismäßig sind. Außerdem könnte die Stiftung selbst gegen eine Verweigerung von Geldern klagen, mit dem Argument, sie sei gar nicht so extremistisch wie angenommen. Hierüber würde dann ein Verwaltungsgericht entscheiden.

    Meron Mendel, Direktor der Bildungsstätte Anne Frank, sieht solchen Klagen gelassen entgegen: „In Vorstand und Kuratorium der AfD-nahen Stiftung finden sich neben der Vorsitzenden Erika Steinbach Personen, die in der rechtsextremen Szene aktiv sind und direkte Verbindungen in das rechtsextreme Umfeld der Identitären Bewegung haben.“ Davor warne die Bildungsstätte schon seit Jahren, so Mendel.

    #Allemagne #politique #justice #extrême_droite #AfD

  • Une grenade toute les 2 secondes en 2’40 :
    #Violences_policières aux Méga-Bassines | Bilan provisoire des blessés 2’40
    https://www.youtube.com/watch?v=cXco7G70fhg

    4000 #grenades tiré en 2h. Parce que ce gouvernement voulait faire démonstration de sa force. Protéger leur vision de la République. Ou du côté des forces de l’ordre, pour laver le déshonneur qu’à été la débâcle de l’opération d’évacuation de la zad de Notre-Dame-des-Landes. Pour Darmanin, préparer une candidature au poste de Premier ministre.

    S. est dans le coma depuis samedi après-midi, hospitalisée au CHU de Poitiers. Il aurait reçu une grenade #GM2L au niveau de la tête. (...)

    Si S. meurt, ce gouvernement en portera la responsabilité.

    Contrairement à ce qui a été annoncé par Darmanin et la préfecture, c’est pas 7 blessé.es, mais plus de 200 que bassines non merci recense. Parmi eux, au moins 40 blessé.es graves, une personne risque de perdre son œil, beaucoup de plaies délabrantes aux jambes et au visage (mâchoires arrachées) provoquées par des grenades GM2L et des #LBD. Une dizaine de personnes ont été transférées au CHU, une vingtaine de personnes avec leur pronostic fonctionnel engagé ou mutilées. (...)

    #vidéo #police #Sainte_Soline

  • #Victimes de la #police : le chaos de la #justice | Revue Délibérée
    https://blogs.mediapart.fr/revue-deliberee/blog/280323/victimes-de-la-police-le-chaos-de-la-justice

    Dans l’ordre chronologique de la vie d’une plainte, le premier blocage vient bien souvent du palais de justice, et plus précisément, des bureaux des parquets. Contrairement au policier qui accueille ou bien « shoote »2 les plaignant·es hors des commissariats, le procureur est un maillon souvent invisible des victimes comme des médias. Et pourtant ! En droit comme en pratique, il joue un rôle central dès les premiers jours qui suivent les faits. Premier constat : hors médiatisation de violences filmées, les parquets ne jouent pas leur rôle de « gardiens des libertés publiques » en déclenchant d’office une enquête. C’est pourtant une exigence de la Cour européenne (CEDH) depuis fort longtemps3.

    Ce premier comportement d’abstention joue un rôle déterminant dans la conduite des enquêtes puisque le dépôt de plainte est souvent complexe notamment en raison de la crainte de représailles, voire impossible (refus de plainte), et surtout, long. En l’absence de toute directive du ministère de la Justice visant à traiter les infractions policières de façon prioritaire, les délais d’enregistrement des dossiers par les bureaux d’ordre pénal sont parfois de plusieurs mois en particulier dans un contexte de surcharge des tribunaux. Pendant des mois après le dépôt de plainte, la victime n’a aucune nouvelle et pour cause, sa plainte dort tranquillement sur une pile, attendant d’être lue par un magistrat pour orientation vers un service d’enquête. La CEDH, toujours elle, a déjà eu l’occasion de condamner la France pour non-respect du « délai raisonnable » quand un délai de 8 mois s’était écoulé avant une simple transmission du dossier à l’autorité compétente4.

  • Immoral Code film - Stop Killer Robots
    https://www.stopkillerrobots.org/take-action/immoral-code

    Immoral Code est un documentaire qui s’interroge sur l’impact des robots tueurs dans nos sociétés. Dans un monde où des décisions reposant sur l’intelligence artificielle sont progressivement introduites dans tous les secteurs de la société (soins de santé, #justice pénale, économie, etc.), il importe de questionner cet enjeu. Qu’il s’agisse de préjugés préprogrammés, de protection des données ou de problèmes de confidentialité, ces algorithmes présentent de réelles limites, surtout lorsqu’ils sont appliqués à des systèmes d’armes.

    -- Permalien

    #éthique #robotisation

  • La démission d’un Gendarme

    Nous, policiers et gendarmes, participons à la #criminalisation des #classes_populaires. Les collègues ne cachent pas leur #xénophobie. Je pense toujours qu’il ne faut pas laisser ces métiers à des gens de droite. Mais j’ai envie de rejoindre la lutte face à ce système profondément injuste. Passer de l’autre côté de la barricade, comme diraient certains.

    Aujourd’hui, j’ai décidé de démissionner.

    Je ne le fais pas parce que je n’aime plus mon #métier, pas parce que je trouve qu’il est difficile, que selon certains on ne se fait plus respecter, qu’il n’y a pas de #justice et autres inepties. Non, j’ai décidé d’arrêter car ce métier n’est pas aligné avec mes #valeurs. Des valeurs d’#entraide, de #solidarité, de #justice, d’#écologie, d’#égalité, toute simplement des valeurs Humaines ; Des valeurs profondément ancrées à #Gauche.

    Je me suis engagé avec l’idée de pouvoir améliorer un peu le monde à mon échelle : aider les victimes notamment de violences sexuelles et sexistes, aider la population en général, insuffler des idées humanistes d’entraide et de partage au sein de la #Gendarmerie. La Gendarmerie est un corps militaire où la tradition veut que le #collectif dépasse l’individu, on s’engage pour une cause, pour les autres. Et pourtant même ici l’#individualisme est triomphant, l’#esprit_de_corps n’existe plus. C’est chacun ses petites guéguerres, les égos qui se brisent entre eux mélangé à un #racisme latent. Les collègues qui ne cachent pas leur xénophobie face à ceux qu’ils appellent avec ironie « #les_suédois », bel euphémisme pour parler de ceux qui n’auraient pas la bonne couleur de peau ; qui ne cachent pas non plus leur vote pour Marine Le Pen. Par contre, osez dire, même d’une petite voix, enfoui dans un coin de votre bureau, que vous ne pensez pas comme eux et vous serez mis au ban. On vous expliquera que vous n’êtes pas comme les autres et on hésitera pas à vous rappeler chaque jour que vous êtes différents. Pour eux, vous êtes l’utopiste ou pire, un clown. Il ne leur apparaît même pas vraisemblable que quelqu’un avec une opinion différente puisse s’être engager dans la tanière du loup.

    Je pense toujours qu’il ne faut pas laisser ces métiers à des gens de droite ; mais la question me taraude de plus en plus de savoir si la #Police, sous sa forme actuelle, est réellement utile et devrait exister.

    Je ne me vois pas continuer dans ce métier qui défend un système profondément injuste où les inégalités battent leur plein. Les travailleurs galèrent à acheter de quoi manger et à payer leur facture chaque mois tandis que certains organisent des dîners à presque un SMIC par personne.

    Tandis que certains sont obligés d’utiliser leur voiture thermique chaque jour afin d’aller bosser, faute d’avoir d’autres moyens de locomotion, d’autres utilisent des jets privés afin de faire un Paris-Milan aller/retour pour le simple plaisir de dormir chez soi.

    Tandis que nous, policiers et gendarmes, participons à la criminalisation des classes populaires. Nous sommes le fameux « bras de la justice » face au vol à l’étalage pour se nourrir. Nous sommes aussi les gardiens de l’ordre « Républicain », sensés répondre face aux mouvements sociaux qui troubleraient la République par ces velléités démocratiques.

    Face à l’urgence climatique et sociale, on ne peut pas rester de marbre face à nos concitoyens qui réclament un peu plus de justice, un peu plus de solidarité et d’Humanité.

    Et d’autant plus à l’aune de la réforme des retraites, en plein bafouillement de la démocratie par un énième 49-3 et par un gouvernement à peine légitime, élu encore une fois à défaut d’autre choix démocratique, je ne me vois pas d’autres choix que de partir.

    Quand je vois sur internet diffuser les vidéos de mes collègues, leurs #agissements, leur #violence non-nécessaire et non-proportionné, bien loin de ce qu’on nous avait pris en école, je me demande ce qu’il reste de nos #forces_de_l’ordre. Où sont les fameux #Gardien_de_la_paix, les Gendarmes calmes et bienveillants venus assurer la sécurité de leur concitoyen ? Je n’en vois aucun sur ces vidéos. Où sont tous ces gendarmes et policiers qui s’engagent, non pour protéger l’État et un pouvoir « démocratique », mais pour protéger le peuple ? On s’engage dans ce genre de métier avant tout pour les autres, alors où sont passés ces convictions quand ils frappent sur leurs frères et sœurs ?

    Je suis en #colère et profondément déçu de ce système, de ces injustices qui triomphent encore une fois de plus. Je ne veux plus être derrière lui, je veux être devant. J’ai envie de manifester cette colère, mon #mécontentement. J’ai envie de rejoindre la #lutte face à ce système profondément injuste. Passer de l’autre côté de la barricade, comme diraient certains.

    Aujourd’hui, je démissionne.

    https://blogs.mediapart.fr/gendarmedemissionnaire/blog/240323/la-demission-dun-gendarme
    #gendarme #témoignage #démission #déception

    –—

    ajouté à la métaliste de #témoignages de #forces_de_l'ordre, #CRS, #gardes-frontière, qui témoignent de leur métier. Pour dénoncer ce qu’ils/elles font et leurs collègues font, ou pas :
    https://seenthis.net/messages/723573

  • The Fight Continues - Internet Archive Blogs
    http://blog.archive.org/2023/03/25/the-fight-continues

    Today’s lower court decision in Hachette v. Internet Archive is a blow to all libraries and the communities we serve. This decision impacts libraries across the US who rely on controlled digital lending to connect their patrons with books online. It hurts authors by saying that unfair licensing models are the only way their books can be read online. And it holds back access to information in the digital age, harming all readers, everywhere.

  • ArcelorMittal visé par deux plaintes pour pollutions illégales à Dunkerque et Fos-sur-Mer
    https://disclose.ngo/fr/article/arcelormittal-vise-par-deux-plaintes-pour-pollutions-illegales-a-dunkerque

    Dans la foulée des révélations de Disclose sur les émissions illégales de polluants par ArcelorMittal, l’association France Nature Environnement a déposé plainte, jeudi 23 mars, contre les deux principaux sites français du groupe sidérurgique. Une action en justice qui pointe de nouvelles pollutions des eaux et de l’air. Lire l’article

  • La prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva

    Una ricerca ha esaminato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte. Dal Perù al Guatemala, dall’India al Sudafrica. Non solo duri impatti ma anche nuove pratiche di resistenza

    Nei conflitti contro progetti estrattivi di materie prime, le donne non sono solo vittime ma prendono parte in maniera attiva alle azioni di protesta, opposizione e denuncia delle conseguenze ambientali e sanitarie di questi progetti. Assumendo un ruolo predominante nell’opposizione all’industria estrattiva, le donne stanno rimodellando le pratiche esistenti, creando nuove possibilità di lotta che rifiutano l’imposizione della cultura dominante e di un’unica narrazione del progresso.

    Una recente pubblicazione, apparsa sulla rivista Journal of Political Ecology, ha analizzato 104 conflitti estrattivi registrati nell’Atlante della giustizia ambientale (Environmental Justice Atlas – EJA) con l’obiettivo di identificare nel contesto globale i punti in comune e le differenze della presenza femminile nelle lotte per la giustizia ambientale. Si tratta della prima analisi globale dell’attivismo delle donne contro l’industria estrattiva. I ricercatori hanno incluso nell’analisi progetti di estrazione di materie prime come oro, argento, rame, ferro, alluminio, piombo, metalli rari per la produzione di prodotti tecnologici, petrolio, ma anche diamanti e miniere di carbone. La mappatura dei conflitti comprende zone da tutto il mondo, in tutti e cinque i continenti.

    L’Atlante è il più grande inventario esistente di conflitti socio-ambientali, con oltre 3.800 casi segnalati a marzo 2023. Circa il 23% di questi (896 casi) identifica le donne come attori importanti nelle proteste. È il risultato di un lavoro collaborativo da parte di accademici, singoli attivisti e organizzazioni che contribuiscono con approfondimenti per ciascun caso. Alle informazioni dell’Atlante i ricercatori hanno aggiunto, quando disponibili, quelle contenute in testi accademici pubblicati su riviste specialistiche, rapporti istituzionali e altre pubblicazioni di organizzazioni internazionali e locali coinvolte. I conflitti legati all’attività estrattiva possono verificarsi come conseguenza degli impatti socio-ambientali sulla terra, sull’acqua e sui mezzi di sussistenza, come reazione all’esclusione delle donne ai processi decisionali e quindi come proteste contro gli ostacoli all’autodeterminazione femminile, oppure a causa di compensazioni giudicate insufficienti.

    I risultati dell’analisi mostrano che le attività estrattive producono sulle donne quattro tipi di impatti diversi: sulla loro salute e sul lavoro di cura che svolgono; sulle attività legate al sostentamento e al reddito; producono inoltre maggiore violenza nei loro confronti e influenzano le relazioni sociali all’interno delle comunità locali. Le quattro categorie di impatti non si escludono a vicenda, ma possono intrecciarsi tra loro. Di tutti i casi analizzati, il 67% indica conseguenze negative visibili o potenziali che riguardano specificamente le donne.

    In molte comunità rurali, infatti, i compiti quotidiani delle donne sono determinati dalla divisione di genere del lavoro. Occupandosi della produzione di cibo e della gestione dell’acqua, le donne sono particolarmente consapevoli degli impatti che le industrie estrattive hanno sul territorio e sull’ambiente, e sono spesso le prime a denunciarne le conseguenze negative. Le conseguenze sulla salute si devono principalmente alle fonti d’acqua contaminate con cui entrano in contatto che determinano malattie della pelle, problemi legati alla salute riproduttiva come perdita di fertilità e malformazioni durante la gravidanza, problemi respiratori dovuti all’inquinamento da polveri fino allo sviluppo di cancro. Impatti dello stesso tipo possono manifestarsi anche sulla salute di figli e di altri componenti della famiglia, aumentando così il carico del lavoro di cura svolto esclusivamente dalle donne.

    L’occupazione dei terreni coltivabili da parte delle industrie riduce inoltre l’accesso alle risorse, fonti tradizionali di reddito per loro. In questo modo la sicurezza economica delle donne diminuisce, mentre aumenta la dipendenza economica dal lavoro salariato degli uomini, alcuni dei quali lavorano proprio nei luoghi di estrazione.

    Attraverso questi meccanismi, la presenza delle industrie estrattive rafforza le dinamiche patriarcali esistenti nei territori, accrescendo il privilegio maschile e rafforzando il dominio degli uomini. Una condizione che porta le donne a perdere lo status economico, sociale e culturale e a subire anche diverse forme di violenza. Sono minacciate fisicamente, uccise per la loro opposizione all’attività mineraria o sopravvissute a tentativi di assassinio. È il caso di Nasreen Hug che stava preparando una causa internazionale contro il progetto minerario di Phulbari in Bangladesh quando è stata assassinata. Diodora Hernández e Yolanda Oqueli sono entrambe sopravvissute a tentativi di omicidio per il loro attivismo contro i progetti Marlin e El Tambor in Guatemala. Inoltre, la violenza sessuale è usata sia da chi lavora nelle compagnie estrattive sia dalle forze di sicurezza.

    Eppure, dai dati raccolti dalla pubblicazione, emerge che le donne non subiscono passivamente, ma partecipano attivamente all’organizzazione dell’opposizione alle industrie. Il documento distingue otto diverse modalità di protesta: azioni dirette come blocchi stradali, proteste e scioperi; organizzazione di eventi pubblici, come mostre o esibizioni artistiche; vigilanza del territorio, anche per monitorare gli impatti ambientali; promozione di campagne di sensibilizzazione e informazione; avvio di procedimenti legali contro le aziende responsabili di inquinamento; creazione di spazi per lo svolgimenti di attività sociali e politiche; pressione politica nei confronti delle autorità locali, del governo e delle stesse industrie per sensibilizzare alla loro causa e per garantire norme ambientali più severe; gestione dei bisogni materiali, sanitari ed emotivi della comunità come la preparazione di cibo durante le azioni di protesta.

    La pubblicazione è ricca di esempi di donne che hanno lottato e continuano a lottare per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Alcune attiviste si sono distinte per aver rifiutato di vendere la terra alle aziende e per aver resistito ai tentativi di esproprio, come nel caso dell’opposizione di Maxima Acuña alla compagnia Yanacocha, promotrice del progetto Conga per l’estrazione di oro e rame in Perù. In Guatemala, Estela Reyes ha bloccato da sola l’avanzata di un trattore, scatenando la resistenza alla miniera d’oro di El Tambor. Altre forme di resistenza comprendono le attività portate avanti da Mukta Jhodia, in India, che ha attraversato i villaggi del Kashipur per informare la popolazione dei potenziali effetti negativi che la miniera di Baphlimali avrebbe avuto sui terreni coltivabili, e quelle di Lorraine Kakaza che in Sudafrica ha lanciato una serie di podcast sui costi che l’estrazione del carbone avrebbe avuto sulla vita delle persone nella provincia di Mpumalanga. Alcune attiviste hanno anche deciso di proseguire il loro impegno entrando in politica: Francia Márquez, leader che si opponeva all’estrazione illegale di oro a La Toma, è stata eletta a giugno 2022 vicepresidente della Colombia.

    Le donne svolgono molto più che un semplice ruolo di supporto, ma la loro capacità di impegnarsi nell’opposizione alle attività estrattive è spesso ostacolata. Se devono far fronte a compiti quotidiani che richiedono tempo, come la produzione di cibo, le faccende domestiche e la cura dei figli, hanno meno tempo da dedicare alla protesta. A volte subiscono pressioni da parte di familiari e di componenti della comunità ad abbandonare l’attivismo. L’analisi, infatti, mostra che esistono relazioni patriarcali anche all’interno dei movimenti di resistenza, che contribuiscono a riprodurre la disuguaglianza di genere anche all’interno dei gruppi di protesta. Le donne devono così affrontare sia le compagnie estrattive sia i partner maschili all’interno della comunità che in alcuni casi organizzano azioni di boicottaggio nei confronti dell’attivismo femminile.

    La volontà di affermare la propria voce nei processi decisionali anche all’interno dei movimenti di opposizione, ha spinto molto spesso la formazione di gruppi di protesta formati da sole donne, alleati a livello locale e internazionale con altri movimenti. Per gli autori della pubblicazione, l’attivismo anti-estrattivista delle donne può contribuire a sfidare le tradizionali percezioni di genere all’interno delle comunità e a promuovere cambiamenti collettivi più ampi in alcuni contesti. È il lavoro, per esempio, portato avanti dalle afrocolombiane di La Toma, in Colombia, e dalle boliviane di Huanuni e Corocoro. Il loro attivismo sta recuperando pratiche ancestrali ripensandole attraverso nuove relazioni con il territorio e all’interno delle comunità, affermando la possibilità di una leadership anche femminile.

    https://altreconomia.it/la-prima-analisi-globale-dellattivismo-delle-donne-contro-lindustria-es

    #femmes #résistance #extractivisme #justice_environnementale

  • #Chomsky - #Foucault Debate on Power vs Justice (1971)

    A few clips of Noam Chomsky and Michel Foucault discussing justice, power, and the notion of human nature in their famous #1971 debate. This is a version of an upload from the previous channel. The translation is my own, although I referenced the published text (which by the way was edited by Foucault prior to publication, which is why there are various differences between the published transcript and the actual recording).

    https://www.youtube.com/watch?v=xpVQ3l5P0A4


    #vidéo #pouvoir #justice #Noam_Chomsky #Michel_Foucault #nature_humaine

  • La deuxième partie de la machine à broyer du manifestant se met en place. Le fait est que 300 interpellés qui ne donnent que 9 poursuites en justice, ça se voit. Il faut que ça ne se voit plus : faudrait voir à ce que la justice soutienne l’enthousiasme policier à « faire du chiffre ».

    Réforme des retraites : Éric Dupond-Moretti appelle les procureurs à la fermeté
    https://www.lefigaro.fr/actualite-france/reforme-des-retraites-xavier-dupond-moretti-appelle-les-procureurs-a-la-fer

    Le ministre de la Justice Éric Dupond-Moretti a demandé « une réponse pénale systématique et rapide » à l’encontre des personnes interpellées en marge des rassemblements contre la réforme des retraites pour « troubles graves à l’ordre public », « atteintes aux personnes et aux biens » et « actes d’intimidation et menaces contre les élus ».

    • chalut, et dislocation https://seenthis.net/messages/995203
      pour l’instant le principal souci est en amont de la justice, rafler, ça marche, cogner sans même arrêter, ça va, mais ficeler un minimum les dossiers qui permettraient condamnations fait moins kiffer les condés, ils baclent. ils baclent, eux aussi n’aiment de leur travail que ce qui leur permet de vivre le plus libres possible (on veut bien faire du chiffre, à condition d’éclater de la gauchiasse, du rouge et et du cassos), alors que les alternatives économiques habituelles sont disponibles (par exemple mettre en cause pour rébellion ne serait-ce que 5 à 10% des manifestants qu’on aura préalablement cognés). là aussi la fascisation est à l’oeuvre : ça parie que la crise de régime débouchera sur une politique toujours plus sécuritaire (pestilent promet de nous sauver du chaos), ou, mieux encore, sur une version plus explicitement néofasciste, coalition avec du RN dedans, ou RN et quelques satellisés. Toutes les composantes de la société jouent leurs cartes dans la partie en cours (on a même vu hier la CGT spectacle intervenir en nombre au théâtre de la Ville).

      « J’ai l’impression que mon arrestation est politique » : au tribunal de Paris, une barricade en feu, un dossier vide, une relaxe
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/03/23/j-ai-l-impression-que-mon-arrestation-est-politique-au-tribunal-de-paris-une

      Six prévenus pour 234 interpellés : traduction en chiffres de ce qu’une avocate impliquée dans ces dossiers, pour définir la stratégie des forces de l’ordre les soirs de contestation, a qualifié de « pêche au chalut ».

      A leur demande, ou faute de temps, cinq des six prévenus ont vu leur procès pour « dégradation ou détérioration du bien d’autrui par un moyen dangereux pour les personnes » renvoyé à fin avril, et ont été relâchés, après quarante-huit heures de garde à vue. Seul Clément Q., dans son jogging rouge à bandes blanches, a comparu. Ce Chambérien de 25 ans, qui suit une formation de couvreur, est accusé d’avoir confectionné une barricade à l’aide des déchets qui s’amoncellent sur les trottoirs parisiens en raison de la grève des éboueurs, et d’y avoir mis le feu. Il a été interpellé quelques hectomètres plus loin, place de la Bastille, alors qu’il rentrait chez lui. Le policier qui l’a arrêté affirme l’avoir reconnu grâce à son jogging.

      Voilà les faits exposés par la présidente du tribunal en trente secondes chrono – « Ça va être extrêmement rapide, j’ai dit tout ce que j’avais comme éléments ». Le garçon nie. La présidente, visiblement perplexe devant la maigreur du dossier, n’insiste pas. La procureure évoque avec autant de conviction que possible une fiche d’interpellation « précise » et une infraction « parfaitement caractérisée », puis requiert huit mois avec sursis, « une peine d’avertissement », car « même si c’est pour manifester ses idées, la société ne peut tolérer qu’on mette en danger des personnes » [poubelles].

      « Ici, c’est un tribunal, pas une tribune politique »

      L’avocate du prévenu plaide sur du velours contre un dossier « largement insuffisant » et des éléments à charge « infiniment faibles, voire honteux ». Elle confesse avoir imaginé, en découvrant le jogging rouge vif de son client en garde à vue, que la vidéosurveillance lui serait fatale, puis lit le procès-verbal d’exploitation vidéo : « Constatons la présence de plusieurs individus en train de construire une barricade. Ne constatons pas la présence du mis en cause concernant la présente procédure. » On n’a retrouvé sur le jeune homme ni gant, ni casque, ni cagoule, ni trace de brûlure. Tout juste un briquet. « Monsieur, comme beaucoup de Français, fume », dit l’avocate.
      « Pourquoi deux jours de garde à vue et une comparution pour quelque chose d’aussi fragile ?, demande-t-elle. On a du mal à comprendre. » Son propos devient alors politique, elle dénonce « l’instrumentalisation des interpellations par l’exécutif, qui ne s’en cache pas », appelle le tribunal, « garant des libertés fondamentales », à y « mettre un stop », et cite l’avocat et écrivain François Sureau : « Il ne reste rien de la liberté de manifester si le gouvernement peut choisir ses opposants. »

      « Voulez-vous ajouter quelque chose pour votre défense ?, demande la présidente.
      On continuera à se mobiliser contre cette réforme et contre le gouvernement, malgré la répression, répond, placide, le prévenu.

      Ici, c’est un tribunal correctionnel qui juge des délits, ce n’est pas une tribune politique.
      – J’ai l’impression que mon arrestation est politique, donc je tenais à le préciser. 
       »
      Clément Q. a été relaxé. Il n’existe, a lu la présidente, toujours aussi expéditive, « pas suffisamment d’éléments pour prouver qu’il a mis le feu à la barricade ».

      ben oui, c’est compliqué de prélever ce qui permet d’entrer en voie de condamnation dans une telle masse de comportements politiquement prohibés (cf. Darmanin déclarant faussement que ce serait un délit de participer à une manifestation non déclarée). et puis bon, le continuum des illégalismes est si vaste, si peuplé - de qui marche dans la rue, fuit la police, allume un feu de poubelle peut-on déjà faire un exemple quand des centaines, des dizaines de milliers de personnes se comportent de la sorte ? et comment y arriver lorsque comme hier des ouvriers commettent bien plus de dégâts que des manifestants qui si ils sabotent l’aspect et la réputation de villes entreprises cassent en réalité au mieux quelques dizaines de vitrines ?

      on a tort de dire que de Lallement à Nunez il n’y a pas eu de changement, la doctrine aller au contact reste, mais tactiquement elle est fortement démilitarisée (« On a été entraînés pour la “percussion” » https://seenthis.net/messages/995267), ça a rendu le tri des judiciarisables moins facile. nul doute que la répression doit changer de pied, la prédation policière se renforcer. prévenir, faire peur, terroriser, ça commence par ne plus se priver d’un organe policier vital, la justice. c’est dès aujourd’hui, et plus probablement ce soir, qu’on va découvrir de quels moyens ils se dotent pour ferrer le poisson. on le verra dès demain dans comparutions immédiates des TGI

      #justice #police #maintien_de_l'ordre #fascisation

    • Mathilde Panot @MathildePanot
      https://twitter.com/MathildePanot/status/1638954744159805472

      Cette « dépêche » interne du ministre
      @E_DupondM adressée aux procureurs vise à entraver la liberté de manifester ⤵️

      Manifester est un droit fondamental.

      Je saisis le Conseil d’État.

      (sinon, la police est bien larguée dans plusieurs villes, à la fois brutale et contrainte à la défensive, commissariat et préfecture brulés à Lorient, Paris ingouvernable, etc., et a beaucoup plus utilisé les grandes de désencerclement et LBD)

  • La storia di #Diouf, condannato come scafista anche se non lo era

    Nella sua vicenda ci sono le storture dell’ordinamento giuridico italiano che considera complice chiunque sfiora il timone, o passa una tanica di benzina, quando i veri organizzatori della tratta restano al sicuro sulle coste libiche.

    Sorriso timido e sguardo buono, #Diouf_Alaji sembra molte cose ma tra queste non c’è sicuramente un galeotto o un trafficante di essere umani. Però per lo Stato italiano è entrambi: condannato a otto anni di reclusione per essere lo scafista di un’imbarcazione partita dalla Libia con circa centotrenta persone a bordo, otto delle quali morte per asfissia durante il viaggio.

    Nella storia di Diouf Alaji c’è il paradosso dell’ordinamento giuridico italiano e del sistema messo in atto in questi anni per contrastare il traffico di esseri umani. Sei uno «scafista» se porti l’imbarcazione anche solo per un breve tratto, oppure se aiuti chi lo sta facendo e, nel suo caso, anche se un uomo che viaggiava in un barcone vicino al tuo ti taccia di essere lo scafista, anche se l’accusa non viene confermata dalle persone che viaggiano con te.

    Per raccontare meglio questa storia però dobbiamo fare un passo indietro, al 2005, quando in un piccolo villaggio del Senegal muore un uomo che lascia sua moglie e i suoi figli. La donna fisicamente non è in grado di lavorare e i figli interrompono il percorso scolastico e vanno a lavorare per sostenersi e sostenere tutta la famiglia. Cose che a noi oggi sembrano lontane e difficili da immaginare nel “nostro mondo” ma che accadono ancora in Senegal come in molti altri Paesi.

    Diouf è uno dei figli rimasti orfani di padre e inizia a lavorare come piastrellista, ma i soldi sono pochi e la fame è tanta, così nel 2015 decide che l’Europa è la sua destinazione, perché vuole continuare a fare il piastrellista ma vuole anche vivere e far vivere la sua famiglia dignitosamente. In Senegal pensare di andare via per lavorare e inviare soldi è qualcosa di comune, quasi il dieci per cento del Pil nazionale si basa proprio sulle rimesse di chi si trova in altri Paesi, principalmente nel vecchio continente.

    Mali, Burkina Faso e Niger, le rotte migratorie non sono mai lineari ma disegnano linee impreviste dettate della permeabilità delle frontiere e dai rapporti dei trafficanti con una polizia locale invece che con un’altra. Un chilometro alla volta, una tangente dopo l’altra da pagare a chi controlla quelle zone, Diouf attraversa il deserto e arriva in Libia.

    «Molti di quelli che viaggiavano con me sono rimasti indietro perché non avevano i soldi, io invece ho portato tutti i risparmi della mia famiglia e abbiamo chiesto anche un aiuto ai nostri parenti», racconta mentre passeggiamo per i giardini del quartiere Esquilino di Roma, dove abita in una casa messa a disposizione dell’associazione Baobab Experience.

    Dei centri di detenzione in Libia da anni ormai sappiamo che sono luoghi infernali dove la vita vale poco o nulla, dove le donne sono vittime di abusi e che gli uomini sono torturati ai fini di pagare un riscatto. Diouf spende gli ultimi duemila euro del suo tesoretto per salire su di un barcone alla volta dell’Italia.

    «Eravamo in centotrenta nel barcone, talmente tanti e stretti che non potevamo distendere neanche le gambe», mi racconta mentre gli spunta un sorriso amaro e aggiunge: «Io del mare ho sempre avuto paura. Era vicino a casa mia ma non ci andavo mai».

    Di quella traversata Diouf ricorda il mare mosso, la paura, le tante ore immobili e soprattutto le sette donne e l’uomo che sono morti a bordo per asfissia, prima che arrivasse la Guardia Costiera italiana a soccorrerli.

    Diouf arriva al porto di Taranto insieme ad altre centinaia di persone, soccorse da diversi barconi e trasbordati su di una nave civile. Al momento dello sbarco vengono divisi in base alla barca di provenienza e la Guardia di Finanza inizia a interrogare i migranti per capire chi fossero gli scafisti. Diouf viene indicato come tale da un uomo che aveva perso la sorella durante la navigazione, però l’uomo che lo accusa non si trovava sulla sua stessa barca, dettaglio non irrilevante visto anche l’alto numero di persone a bordo.

    Nessuno di chi viaggiava con Diouf conferma questa tesi, ma lui tutto questo lo saprà tempo dopo, perché non solo non parla italiano ma nemmeno inglese, francese e arabo; parla solo la lingua mandinga e quando viene portato negli uffici della Guardia di Finanza e poi tradotto in carcere dalla Polizia, lui continuerà a non sapere cosa stia accadendo.

    «In carcere quando mi hanno interrogato, io parlavo solo mandinga e non comprendevo le domande che mi venivano rivolte». Dalla sentenza, invece, risulta che lui abbia detto di parlare solo wolof e che le domande dell’interrogatorio gli siano state rivolte in inglese, francese ed arabo. «Può essere un interrogatorio valido?», mi chiede retoricamente e aggiunge: «Se capitasse oggi potrei difendermi perché capisco e parlo italiano».

    La sentenza di primo grado è di dodici anni di reclusione con il rito abbreviato, evidentemente l’avvocato d’ufficio non ha creduto alla sua innocenza o non ha voluto investirci tempo. In Corte d’Appello viene ridotta a otto anni ma la sentenza sembra più una beffa che una conquista: «Gli imputati non sono gli organizzatori del viaggio, questi ultimi rimasti al sicuro sulle coste libiche – recita la sentenza e prosegue – bensì altri disgraziati che hanno accettato tale compito per fuggire anch’essi dalla condizione in cui versavano in patria. Dunque scafisti improvvisati se è vero che essi venivano allenati sulla spiaggia alla conduzione dei gommoni poco prima della partenza».

    Disgraziati, nonostante Diouf Alaji rifiuti anche questa ricostruzione: «Io non l’ho mai portata una barca, io sono un piastrellista e questo so fare», ribadisce spesso interrompendo il suo racconto.

    Oggi è un uomo libero e da poche settimane lavora come piastrellista, ha scontato quasi sette anni di carcere che lo hanno provato molto. «Ho tentato più volte il suicidio, soprattutto quando è morta mia mamma e io ero ancora in prigione. È stata molta dura e ho pensato di usare una corda per impiccarmi». Il racconto si ferma, due sussulti della testa tradiscono un singhiozzo nervoso, seguito dalle lacrime. «Mio fratello mi ha detto che nostra mamma è morta con la mia foto sotto al cuscino, per me è ancora un dolore grandissimo», chiosa mentre reprime il pianto.

    Il Testo unico sulle migrazioni all’articolo 12 prevede la condanna per «chiunque promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato», basta anche solo passare una tanica di benzina per essere tecnicamente condannati, nonostante anche la Corte d’Appello di Lecce nella sentenza escluda il collegamento tra i migranti condannati e i trafficanti, quelli che sulle barche non ci mettono piede e non penserebbero mai di “sacrificare” un proprio uomo, sapendo che finirebbe in carcere.

    Dopo la tragedia di Cutro si è tornato a parlare di scafisti e il decreto governativo ha inasprito le pene per quest’ultimi sapendo benissimo che la rotta turco-calabra ha bisogno di persone esperte nella navigazione perché le imbarcazioni di solito sono a vela e comunque sono grandi e difficili da comandare, ma sanno bene che è anche una rotta marginale: a fronte dei ventimila arrivi in Italia dal 1 gennaio a oggi, solo 689 sono avvenuti su quella rotta mentre dodicimila circa dalla Tunisia e poco più di settemila dalla Libia, in questi ultimi due casi le piccole imbarcazioni utilizzate non sono mai guidate dai trafficanti o da uomini legati a loro.

    «Il caso di Diouf Alaji ci mostra come in Italia si possa verificare una vera e propria sospensione dello stato di diritto ma soprattutto che fin quando non ci sarà la modifica dell’articolo 12 del Testo unico sulle migrazioni, che definisce trafficante qualunque migrante sfiori per un attimo il timone, ci saranno casi come questo», commenta Alice Basiglini portavoce dell’associazione Baobab Experience, che sta sostenendo Diouf insieme all’avvocato Francesco Romeo.

    «Stiamo chiedendo la revisione del processo perché vogliamo dimostrare che lui non è uno scafista, che non ha portato quell’imbarcazione e che non gli è stato garantito il diritto di difesa che la nostra Costituzione definisce inviolabile, Diouf non ha compreso nemmeno di quale reato è stato accusato, per quale delitto è stato processato e poi condannato», conclude l’avvocato.

    https://www.linkiesta.it/2023/03/storia-scafisti-improvvisati-diouf-storture-ordinamento-italiano
    #passeurs #asile #migrations #réfugiés #frontières #criminalisation #justice (well...) #scafista #scafisti #procès

    • La storia di #Alaji_Diouf, accusato di essere uno scafista ed in carcere per 7 anni

      La nostra Laura Bonasera ci porta la storia di Alaji Diouf, un ragazzo senegalese rimasto orfano di padre all’età di 15 anni, che per mantenere la sua numerosissima famiglia inizia a lavorare come piastrellista, ma non basta e così decide di partire per l’Europa. La madre cerca di trattenerlo, invano. Alaji attraversa il deserto, un chilometro alla volta, e paga una mazzetta dopo l’altra tra violenze e digiuni, finché arriva in Libia, dove spende gli ultimi soldi per salire su un barcone, con altre 130 persone e raggiungere l’Italia. Una volta toccata terra, viene buttato in cella con l’accusa di essere uno scafista. Dopo quasi 7 anni di carcere, oggi è un uomo libero e ha deciso di raccontare per la prima volta la sua storia.

      https://www.la7.it/in-altre-parole/video/la-storia-di-alaji-diouf-accusato-di-essere-uno-scafista-ed-in-carcere-per-7-ann

      #interview #entretien #témoignage

  • "Affaire de Grenoble" : Annulation des #poursuites contre Thomas Mandroux

    Vous vous souvenez de l’affaire de l’IEP de Grenoble avec les accusations d’islamophobie et les représailles judiciaires, administratives et médiatiques contre les étudiants et ces horribles « Islamo-gauchistes » . Et bien le Tribunal a annulé les porsuites. A suivre...


    https://twitter.com/AA_Avocats/status/1637814005489074176
    #graffitis #Institut_d’études_politiques (#IEP) #Klaus_Kinzler #justice #Thomas_Mandroux #Vincent_Tournier
    –----

    Pour mémoire, la métaliste sur ce qu’on a surnommé l’#affaire_de_Grenoble
    https://seenthis.net/messages/943294

  • Déboîter le corps social

    Dominer c’est martyriser, tailler, couper dans la chair et les graisses depuis toujours. Mais pour percevoir l’inventivité clinique de l’appareil d’État macronien, il faut se rendre sur le boulevard pour comprendre comment se déploie en ce moment sur des populations entières un art médical instruit des derniers progrès d’une chirurgie orthopédique des âmes. Ce savoir anatomique concerne tous les membres du corps social : avec ses os, tendons, jointures, articulations, et surtout... ses nerfs. Le projet de Macron c’est de déboîter tout un peuple. Écraser « ceux qui ne sont rien », "emmerder jusqu’au bout" la France entière et se venger des Gilet Jaunes sont maintenant les uniques obsessions du tyran loin de toute préoccupation d’ordre politique. À revers de ce supplice raffiné, l’implication des corps disloqués fait la solidarité des chairs impatientes. Emmerdons l’emmerdeur... jusqu’au bout.

    GREY BLOC

    La manifestation précédant celle du samedi 11 mars avait été un magnifique feu d’artifice sur l’avenue Daumesnil avec ses guirlandes de poubelles incendiées pour fêter la grève des éboueurs. C’est pour cela que pour la manifestation suivante, celle du mercredi 15 mars, le plus tout à fait nouveau préfet de police Laurent Nuñez avait fait annoncer par son grand ami, le directeur du très droitard Le Parisien, la présence de 1400 « casseurs » pour une occasion inespérée de venger l’affront.

    Et l’on allait voir ce qu’on allait voir, parce que Laurent Nuñez est au maintien de l’ordre ce que Chanel est à la haute-couture française : une exigence de raffinement jamais démentie. Laurent Nuñez, ce n’est pas ce rustre de Lallemant, ce kéké de sous-préfecture qui se prend pour Goebbels quand il chevauche sa Harley. Laurent Nuñez c’est la manière espagnole, à l’opposé d’une brutalité trop manifestement germanique (énorme bourde au pays de l’Occupation).

    Laurent Nuñez, c’est le doigté du flamenco, l’esprit de finesse du jésuite Baltasar Gracián allié à la rouerie du courtisan du siècle d’or. Nuñez-le débonnaire, à la bedaine stoïque de Sancho Panza est là pour faire oublier le futur projet d’« immigration-remigration » du triste sieur Darmanin. Avez-vous remarqué qu’invité au bal, l’ingénieux hidalgo de Tourcoing aiguise en ce moment sa petite moustache franquiste ? Conduite par ce triste attelage, la manifestation du 15 mars fit symptôme en terme d’exotisme et du point de vue de l’art des castagnettes.

    Arrivé sur place : « Surprise, surprise ! ». Les 1400 « casseurs » annoncés en Guests Stars du Parisien ne font pas cortège de tête. Que se passe-t-il ? La réalité c’est qu’à la place du Black Bloc, un immense GREY Bloc, cortège aux tempes grisonnantes, a remplacé la matière noire en tête de manif. Quel est ce prodige ? De pauvres cassos auraient-ils remplacé les authentiques « casseurs » ?

    Tout cette chair sent la douleur : l’épaule fatiguée côtoie les lombaires usées, la jambe qui flagelle négocie avec l’épicondylite du coude. Les doigts craquellent aux jointures non loin des poignets engourdis. L’arthrite du genou s’enflamme.

    Le Grey Bloc c’est un système de vases communicants : des milliers de gens en ont marre de la foire du Trône et des flonflon de l’arrière, ils sont venus chercher autre chose à l’avant, histoire de refaire corps ensemble quand la carcasse flanche. On avait promis de bloquer le pays, mais sans jamais appeler à la grève générale c’est peut-être ce qui rassembla ces corps cassés pour refaire solidarité.

    Pour la préfecture c’est une tuile, les invités VIP ne sont pas venus à la fête. Qu’allait on faire des pétards, des cotillons, des pandores frisés, lustrés, enrubannés, tout costumés pour la parade ? La maréchaussée arrive très excitée par la promesse d’une vengeance-spectacle. L’effroyable et vivante mêlée qui la nargue depuis des années doit mériter le Waterloo de ce jour. Mais là, que faire avec cette bande de bras cassés, cour des miracles en goguette qui traîne ses jointures usées sur le boulevard ?
    Port Royal, Port Royal, morne plaine

    Il est un fait que c’est en cet endroit funeste que le buffet a été servi, tout proche de l’entrée des urgences de l’hôpital Cochin, là où le boulevard du Port-Royal s’élargit. Les urgences de Cochin c’est le mur des fédérés de la Génération 2018, avec ses quatre-vingts Gilets Jaunes admis aux urgences chaque soir de manifestation.

    Mais ce jour ci, point de Black Bloc ni de Gilets d’or. La plus haute technologie policière a donc été convoquée pour rien. Fiasco. La maréchaussée trépigne. Rage, rage, pleurs de rage. Port Royal, Port Royal, morne plaine.

    Que faire ? Où trouver « casseur » à casser ? Impossible de battre retraite sans avoir déboîté du Black Bloc. Dans la tête du préfet c’est la danse mauresque l’obsession des « casseurs » tourne et retourne à toute vitesse. On avait bien précisé qu’à seize heures tapantes, c’était l’heure du goûter gendarmesque. C’est pourquoi, lui d’habitude si stoïque, si modéré, si distingué, si Todo su control, le voilà devenu Don Quichotte hallucinant des moulins à vents. Autant de bras battant des ailes dans sa cervelle en tourmente.

    C’est pourquoi à cette heure funeste le pauvre Grey Bloc fut pris à partie. Sur ordre du préfet, la maréchaussée se jette sur les crinières poivre et sel en une immense clameur : « -Faute de grive mangeons du merle ! ». Sous l’effet d’une gigantesque tenaille très clairement préméditée, des centaines de boucliers fondent sur une foule de paisibles préretraités. Innocentes victimes que l’idée de fuir ne traverse même pas.

    Est-ce par effet d’une fascination pour l’objet de leur perpétuel désir que les pandores chargent le retraité en essaim, façon Black Bloc ? Mais là où le Bloc charge en essaim c’est pour taper quelque banque - comme pique une abeille pour rappeler qu’elle existe - ; alors qu’ici, c’est l’attaque des frelons asiatiques, espèces invasives venues d’ailleurs, hordes qui ne connaissent d’autre loi que la leur.

    En un immense bourdonnement toute une colonie de frelons se précipite sur moi sans raison. Ils sont plus d’une centaine, la masse compacte et affamée se jette sur moi. Arthrose, arthrite, seul au milieu du boulevard, vont-il voir que je boîte ? Quand il s’approche, l’insecte aveugle est guidé par l’odeur du sang, seuls le guide les aboiements de sa hiérarchie. Les uniformes-carapaces font méga-thorax, mais derrière les hublots, je vois leur yeux-lucarnes comme dans un bocal. À moins qu’il ne porte talonnettes, l’insecte me dépasse d’une bonne toise. C’est lorsque je me retourne que le plat d’un bouclier s’abat lâchement sur l’épaule. Plat contre omoplate, l’effet de masse des corps blindés, caparaçonnés, soudés est tel que l’onde de choc destructrice se propage à toute vitesse dans mes organes. Omoplate, humérus et clavicule divorcent. Ma ceinture scapulaire ne tient plus mon corps Impression d’être fauché par une voiture sur le boulevard.

    Sensation de démembrement étrange.

    Ensuite, sensation de vol, puis effroyable choc : l’asphalte du sol me retombe lourdement sur le dos. Des médics m’entourent. L’intensité de la douleur me submerge. Je perds connaissance. Mes deux bras ne peuvent plus bouger, me voilà devenu pingouin. Je rampe jusqu’aux urgences sur le boulevard-banquise. Je cherche le « Service des fauchés sur le pavé ». Quelle est la nouvelle méthode du gouvernement Macron ? Planquer les blessés dans les statistiques des piétons écrasés ? J’y pense très fort tellement cela ressemble à un accident de la circulation.

    Je suis maintenant sur un lit, dans une chambre d’isolement. On me demande si je fume. La chicha me réconfortera m’assure-t-on. Un aide-soignant me tend une pipe. Je peux lire : « Penthrox ». Selon le dictionnaire Vidal :

    « Un nouvel antalgique non opioïde indiqué dans le soulagement d’urgence des douleurs sévères associées à un traumatisme chez des patients adultes conscients. Son utilisation est limitée à un usage professionnel, notamment au sein des services d’accueil des urgences, SAMU et SMUR. »

    Face aux violences d’État, les labos ont travaillé, tout est prévu. Ils font circuler dans les services un médicament qu’on utilisait dans les années 2000 en maternité. C’est devenu la chicha du manifestant, le produit phare du moment. Ce shoot à l’avantage de permettre une réduction de n’importe quelle fracture à chaud sans anesthésie.

    Caressante extase, au gré des fumées grises, une nuit sans rêve me submerge comme un brouillard.
    Balistique des corps

    La nuit donne à penser. À la réflexion, cent corps soudés comme de lourds wagons d’un convoi de marchandises visent un transfert de masse maximale (on n’arrête pas facilement un train). Toute cette pantomime n’était pas faite de gestes gesticulés, hasardeux. C’est de toute évidence une technique, précise, méditée, longuement répétée : martyriser est un métier. Le cohérence du dispositif vise à maximiser l’onde de choc pour faire le plus de dégâts possibles en interne.

    Le calcul balistique est simple : on charge à deux-cent sur un piéton-cible afin créer une onde de choc maximale. L’impact cause un choc piéton identique au capot d’une voiture lancée sur un corps humain à pleine vitesse. À cette différence près que le bouclier pare-buffles des condés démultiplie la force du coup porté en percussion frontale.

    Pour une course à une vitesse entre 10 et 15 km/h, avec un tel transfert de masse, les blessures graves sont inévitables. Les plus fréquentes sont des contusions, des déboîtements, des fractures de l’omoplate, de l’épaule et du bras, sans compter de multiples lésions invisibles en interne. S’ajoute la probabilité d’un traumatisme crânien en réception dorsale.

    Tout cela sent le bloc opératoire. Des médecins ont-il appris aux forces de l’ordre la manière d’opérer ? C’est donc cela le secret du docteur Nuñez, ce chirurgien orthopédique boulevardier ? On crée à grande échelle des traumatismes qui ressemblent à des accidents de la route, mais sans ouvrir les chairs ni faire couler le sang, et sans barbaque sur la chaussée. Voilà la trouvaille !

    C’est ainsi qu’on réchauffe d’anciennes recettes tout en faisant une mise à jour de l’appareil technique des violences d’État. D’un côté on retourne aux classiques : le coup de bottin de commissariat ce sont les films policiers des années cinquante, ils ne laissent aucune trace sur la victime. De l’autre on industrialise la besogne sur des foules entières en recrutant des milliers d’exécutants pour rendre le geste efficace à grande échelle.

    Le sang qui coule, le steak haché qui s’exhibe sur les écrans au vingt heures pendant le repas du soir, cela fait toujours mauvais genre à l’international, surtout devant les expert de l’ONU. Après ça, comment vendre le « pays des droits de l’homme », cette plus value des sacs de marque qu’achètent les touristes chinois ? C’est la raison pour laquelle, plutôt que de faire un exemple spectaculaire, mille contusions invisibles propagent une onde de choc beaucoup plus large sur les populations, ce qui permet aussi d’occuper les légions de gendarmes que ce gouvernement a embauché depuis les Gilets Jaunes.

    La nouvelle tactique c’est le coup de Bottin collectif informé des derniers progrès de la chirurgie orthopédique. Flash ball ou Tonfa, les armes utilisées contre les Gilets jaunes produisaient des blessures individualisantes et fabriquaient autant de martyrs identifiables dont tout le monde sait les noms. Ici, la peine est collective, la nouvelle arme de guerre c’est la collision sur le boulevard. Percutez tant que vous pouvez, il en restera toujours quelque chose.
    Fractures sociales (Châtiments sans peine)

    Comme un coup de crosse, la tonfa du temps des Gilets Jaunes ouvre le crâne des sourcils à la nuque, c’est une technique de guerre à part entière. Il s’agit d’inonder de son sang un adversaire afin de l’immobiliser dans son élan, ce qui démoralise simultanément ses camarades. L’objectif c’est l’écœurement : pendant l’hiver 2018, combien de médics ont vomi dans les douches les soirs de manifestations ?

    Ici rien de tel. Les « contusions », dans le milieu médical tout le monde sait ce que cela veut dire : rien de précis . Quand il s’agit de déboîter les membres, de contusionner des corps, de traumatiser en interne sans faire couler le sang ni ouvrir les chairs, l’agression doit être invisible à la caméra et ne laisser aucune trace sur les réseaux. Mais ce n’est pas le seul avantage de cette technique. Les chocs frontaux opérés à coup de boucliers permettent d’établir un catalogue raisonné de châtiments corporels infligés directement sur la victime. Le choix des victimes a lieu au juger, c’est à dire sans jugement.

    Pour preuve de la banalisation de ces pratiques, un policier propose sur une vidéo récente, face à la caméra, de casser le bras d’un manifestant qui ne facilite pas son arrestation.

    On est là largement en dehors du droit puisque c’est la police qui se fait juge d’une peine immédiate. Aucun tribunal d’aucun État de droit, aucune société dite « civilisée » ne peut prescrire ce genre de peine.

    Petit catalogue des châtiments :

    -- La moindre « contusion » c’est entre une et deux semaines de soins, cela peut aller jusqu’à six mois.
    -- Une clavicule cassée c’est 6 semaines d’immobilisation.
    -- Un humérus fracturé c’est 6 semaines d’immobilisation et deux mois de convalescence.
    -- Une omoplate cassée, c’est 6 à 9 semaines de soins.
    -- Une épaule cassée c’est deux ans de soins.
    -- Une atteinte de la coiffe des rotateurs c’est la condamnation à perpétuité.
    (L’atteinte est répertoriée comme invalidité de guerre sur les sites d’anciens combattants).

    L’objectif c’est la « rééducation ». Les frais de rééducation nécessitent plusieurs semaines, voire des mois de réadaptation, cela donne le temps de réfléchir. Les ostéopathes ne sont pas remboursés, tout cela se fera donc aux frais des victimes, c’est une nouvelle peine d’amende à part entière. La méthode est simple, discrète, efficace et permet d’appliquer directement peines et châtiments sans passer par d’interminables procédures ou juridictions complexes.

    À cela s ’ajoute que les services d’urgence, qui n’ont pas de temps à perdre, vous déclarent en bonne santé aussitôt passé le cap de la radio (qui ne voit que les fractures). Sans perte de connaissance, les blessés sont directement renvoyés chez eux, sans IRM, échographie ni Scanner. Pour ce qui est des lésions plus graves, il est demandé une « réévaluation par le médecin traitant si persistance des douleurs ». Là vous passez en appel et la plupart du temps c’est sans réduction de peine, mais plutôt pour un allongement de la durée de la sanction. Et là je ne parle pas des souffrances psychiques, des gens qui suite au choc de l’agression, tétanisés par la peur, voient leur existence bouleversée par les cauchemars ou la paranoïa.

    Quand la douleur est machinique, la sanction est automatique. Le but est de produire de manière invisible et immédiate une immobilisation de toute opposition. Pourquoi s’emmerder plus longtemps avec de la paperasse et des juges ? Pourquoi prendre la peine de fignoler un dossier de convocation judiciaire :

    « Le dénommé X est accusé d’avoir le 12/04 à Paris (XVI ème arrondissement), en tout cas sur le territoire national et depuis temps n’emportant pas prescription, seul et sans arme, opposé une résistance violente en portant des coups de pieds alors qu’il était au sol pour ne pas de laisser interpeller, causant notamment une fracture de la main chez l’un des agents interpellateurs X et Y (ITT 30 jours) dépositaire de l’autorité »

    Qui lit encore cela ? Au diable la paperasse ! La police c’est la justice, la justice c’est la police, pourquoi séparer les pouvoirs ? C’est là la simple logique des fusions-acquisitions : deux entreprises fusionnent pour regrouper deux entités commerciales et maximiser leurs gains. La politique de « Contusion-Confusion » c’est gagnant-gagnant pour tous les partenaires. C’est ainsi que l’État se transforme en auto-entreprise et en État policier.

    Le problème c’est qu’à aucun moment l’on ne se demande si de fil en aiguille, on n’en vient pas à créer une machine monstrueuse, vaste logiciel de gestion des corps menés à l’abattoir par un appareil d’État à la dérive. Quand à l’exhibition systématique de la troupe, piétinant la foule comme on marche sur Rome, c’est clairement la marque des régimes fascistes
    Le supplice de Damiens 2.0

    À l’époque où des Gilets Jaunes hagards erraient pendant plusieurs heures sur le boulevard, à la recherche d’un service d’urgences, leur œil dans une main, un sac dans l’autre, cela a marqué les esprits. Quand un œil éclatait et que cela faisait le bruit d’un œuf qu’on écrase, cela ne s’oublie pas. Quand on vise l’os malaire d’un visage et que la mâchoire s’enfonce, non seulement le choc post-traumatique est inévitable mais c’est la boucherie. Le problème c’est que cela donne une mauvaise image du « pays des Lumières », et de son despote éclairé.

    Si l’on se rappelle les gilets jaunes. À partir de l’acte III, Macron a dit à sa police « -Faites ce que vous voulez ». Ils se sont exécutés, et mécaniquement ces gens ont fait ce qu’ils ont voulu. Que voulez-vous qu’il se passe quand on distribue des viseurs holographiques à de jeunes chiens fous tout en sanctionnant disciplinairement ceux qui ne veulent pas aller au ball-trap ?

    Je rappelle pour ceux qui ne sont pas informés qu’un viseur holographique EOTech permet de tirer sur une cible en mouvement sans obligation de parallaxe. Ce viseur a été inventé pour l’invasion de l’Irak en 1990. Ce viseur a été ensuite monté sur des fusils LBD et utilisé systématiquement par les forces de l’ordre pendant l’hiver 2018. Celui-ci est livré en option, « afin discriminer les parties du corps à impacter » explique pudiquement le fabricant. Un simple point rouge permet effectivement d’ajuster le tir sur n’importe quel orbite de manière très précise. Inutile d’aligner laborieusement une mire et le guidon d’une arme. Avec ce confort de tir, à vingt mètres, n’importe qui se prend pour un tireur d’élite. Et comme c’est valorisant de faire partie de l’ « élite », certains ont osé parler de « bavures » à l’époque des Gilets Jaunes. Ce qui a fait ricaner certains dans les comicos.

    Les Gilets jaunes c’est le retour au Moyen-âge. Ce qui compte dans la justice médiévale, ainsi que l’indique l’évangile de Luc, c’est : « Malheur à l’homme par qui le scandale arrive ! Mieux vaut qu’on lui attache une grosse meule autour du cou et qu’on le jette dans la mer » » (Lc, 17,1-2). Ceci signifie que du point de vue du droit canonique, peu importe que le curé de Montaillou, -village Occitan- soit pédophile, violeur, adultère ou le dernier des meurtriers, tout cela relève finalement du for interne, c’est à dire de la conscience personnelle du point de vue des pratiques de confessionnal. Du point de vue de la vulgate canonique, ce qui compte avant tout, c’est de vénérer publiquement la très Sainte Trinité.

    Le pêcheur public c’est celui qui est susceptible de contaminer une communauté toute entière. Il donne le mauvais exemple et abîme la récolte comme une pomme pourrie contamine tout un panier. Dès que le scandale devient public, il faut donc l’éradiquer. C’est la raison pour laquelle, dans l’Ancien Régime, en régime de contamination virale, le scandale comme la justice sont affaire de spectacle. Quand on jette le présumé coupable à l’eau, une grosse pierre attachée au cou comme le propose l’évangéliste Luc, la justice c’est l’inverse du baptême. Le baptême intègre dans la communauté, la grosse pierre participe à un rite d’exclusion, d’excommunication, de désintégration puisqu’il faut savoir qu’à l’origine le baptême n’est pas un sacrement mais une épreuve de justice ordalique.

    Un exemple de cette justice-spectacle de l’Ancien-Régime c’est le supplice très célèbre de Robert François Damiens, condamné pour « parricide commis sur la personne du Roi Louis XV ». Il est racontée dans l’Histoire de Robert François Damiens, contenant les particularités de son parricide et de son supplice (1757) :

    « On amena dans l’enceinte quatre chevaux jeunes et vigoureux qui avaient été achetés la veille quatre cent trente-deux livres […] ils avaient obtenu la permission de dépecer le condamné. Voici comment ils s’y prirent. Les chevaux furent encore excités et lancés. Alors, quand les membres de Damiens furent tendus à point, les deux bourreaux coupèrent les nerfs aux jointures des cuisses. Cela ne se fit pas sans peine. Le sang jaillit en abondance. « Oh ! hurla Damiens ; ayez-pitié de moi, Seigneur ! Jésus, secourez-moi ! » Les couteaux fouillaient sa chair, ne s’arrêtant que devant les os. « Voyons maintenant », dit le bourreau. Les chevaux tirèrent. Cette fois une cuisse se détacha, la cuisse gauche. […] Damiens regarda encore cette douloureuse séparation , Il n’y avait plus de résistance de sa part. Après de nouvelles secousses des chevaux, l’autre cuisse partit. Restaient les bras. Les deux bourreaux recommencèrent le jeu de leurs couteaux à l’endroit des épaules et aux aisselles. On aurait dit deux bouchers travaillant dans la même viande. La cruauté a son ivresse, et ils étaient arrivés à cette ivresse-là. Ils n’épargnaient aucun nerf, aucun tendon. « Grâce ! grâce ! » criait toujours Damiens. Le bras droit tomba. Damiens ne perdit pas encore connaissance. « Ses cris continuaient, mais avec moins de bruit,et la tête continuait à aller. » Enfin, les chevaux emportèrent le dernier bras. Il n’y eut plus sur la table basse qu’un tronc qui vivait encore et une tête dont les cheveux venaient de blanchir tout à coup. Il vivait ! Pendant qu’on détachait les chevaux et qu’on ramassait ses quatre membres, les confesseurs se précipitèrent vers lui. Mais Henri Samson les arrêta en leur disant que Damiens venait de rendre le dernier soupir. La vérité est que je voyais encore l’estomac agité et la mâchoire inférieure aller et venir comme s’il parlait. Ce tronc respirait ! Ses yeux se tournèrent encore vers eux. On ne dit pas si la foule battit des mains une seconde fois.Ce qu’il y a de certain, c’est que, pendant une heure et demie que dura ce supplice, personne ne songea à quitter sa place, ni aux fenêtres ni sur le pavé. Un bûcher avait été préparé à quelque distance de l’échafaud, avec des fagots et de la paille. On y jeta d’abord les quatre membres du supplicié, et ensuite le tronc. Les débris palpitants furent recouverts d’autres fagots. On mit le feu au tout ! »

    On voit bien dans ce récit qu’il s’agit de démembrer quelqu’un pour lui arracher une malédiction qui déborde le corps social. Un individu est extrait de la société pour purifier le corps social tout entier, de la même manière qu’on pratique une saignée pour épurer le flux sanguin d’un malade dans le théâtre de Molière. Mais l’efficace du rituel n’est rendu possible qu’à la condition que ce démembrement ait lieu aux yeux de tous. La guérison du grand corps malade ne s’opère que par transsubstantiation [1]

    [1] En théologie dogmatique catholique, la...
    du sang versé dans un rituel qui implique toute la communauté. C’est pourquoi la justice médiévale est un spectacle, le rituel ne fonctionne pas s’il n’est pas accompli aux yeux de tous. Rappelons que les gens allaient encore avec leurs enfants assister aux exécutions capitales jusqu’au début de le seconde guerre mondiale.

    Aujourd’hui quand on veut déboîter tout un peuple, les corps sont démembrés à l’abri des regards, c’est à dire au plus intime des corps, c’est la raison pour laquelle la nouvelle technique du maintien de l’ordre n’assume plus la visibilisation des violences d’État. Pour preuve, le preux cavalier Macron ne plastronne plus :

    « Oyez, Oyez, boursemolles, ribaudes et puterelles, traversez ruisseau pour trouver boulot, en mon château me venez chercher ! ».

    L’époque a changé, la bête attaque maintenant systématiquement de dos. On le voit bien avec cette réforme des retraites qu’un gouvernement abject tente de faire passer par une loi sur la sécurité sociale. Le nouveau supplice de Damiens c’est la colonie pénitentiaire de Kafka. Dans ce récit une machine inscrit la peine dans l’intimité du corps du supplicié, ici cette intimité est largement distribuée tout en étant privatisé : miracle de la bio-logistique des corps !

    C’est au hasard des engagements d’un corps qu’un individu prend parfois la mesure que l’onde de choc qui le traverse fragmente le corps social tout entier. À cette heure, deux épaules immobilisées me laissent deux doigts libres pour taper ce texte sous analgésiques. Ce texte donc un texte écrit à l’horizontal : si le mouvement de lutte contre la réforme des retraites ne laisse personne indifférent c’est parce qu’il attaque les corps ; nous sommes tous mortels et du point de vue de notre finitude, les existences sont toutes égales. C’est la raison pour laquelle des plus jeunes aux plus vieux, le spectacle de l’ignominie présidentielle brûle d’une telle flagrance.

    Et foin des grands discours, c’est l’implication des corps disloqués qui fait la solidarité de nos chairs impatientes.

    [1] En théologie dogmatique catholique, la transsubstantiation est la doctrine selon laquelle au cours de l’eucharistie, au moment de la consécration, les espèces du pain et du vin deviennent le Corps réel et le Sang réel du Christ tout en conservant leurs caractéristiques physiques et leurs apparences originales.

    https://lundi.am/Deboiter-le-corps-social
    #domination #violences_policières #répression #France #macronisme #Laurent_Nuñez #Laurent_Nunez #maintien_de_l'ordre #grey_block #manifestation #15_mars_2023 #casseurs #contusions #invisibilité #invisibilisation #violences_d'Etat #immobilisation #viseur_holographique

  • Un long reportage illustré (à lire sur le site du Monde pour accéder à toutes les photos) qui rend bien compte des spécificités de la justice (post-)coloniale, jusqu’à nos jours, en Polynésie française. L’auteur minore cependant les violences, a minima symboliques, liées à l’entrée en vigueur d’un système juridique importé.

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/03/17/en-polynesie-des-magistrats-nomades-apportent-un-peu-de-republique-au-bout-d

    En Polynésie, des magistrats nomades apportent un peu de République au bout du monde
    Par Franck Johannès, 17 mars 2023 à 05h30, mis à jour à 10h42

    Dans l’archipel, seules trois des cent dix-huit îles disposent de tribunaux. Pour les autres, des « juges forains » passent tous les deux ou trois ans pour trancher les litiges ou prononcer les divorces. Sur place, l’attente est forte, le choc culturel aussi.

    Ils sont déjà tous là, parfois depuis des heures. Des femmes avec une couronne de fleurs sur le chapeau et un éventail à la main, des hommes en bermuda, taillés comme des rugbymen des Fidji mais un peu intimidés, des vieux qui devisent à voix basse, à patienter dans la moiteur de la grande salle de la mairie. Ils ont lu depuis des jours l’affichette placardée à l’entrée, en français et en tahitien : « Avis à la population : la justice foraine informe qu’une mission est programmée sur l’île de Rurutu les mercredi 22, jeudi 23 et vendredi 24 février. » L’attente est forte : la dernière fois que la justice a débarqué sur l’île, c’était en 2021, et il faudra attendre de nouveau deux ans pour la revoir.

    Le juge forain qui descend de l’avion, c’est lui : Gérard Joly, 62 ans, les traits un peu tirés après s’être levé à 4 heures du matin à Tahiti, pour les trois journées d’audience, de douze heures chacune, prévues dans cette île perdue au milieu du Pacifique. Suivi par Christophe Lai Kui Hun, son fidèle greffier, qui traîne une pile de dossiers et une imprimante dans une glacière, et par Teana Gooding, l’interprète, qui rit encore plus souvent qu’elle ne parle.

    Un juge forain n’est pas un juge qui fait la foire ; c’est un juge nomade qui tient audience dans une île qui n’a pas de tribunal. C’est-à-dire, en Polynésie, toutes les 118 îles, sauf trois, dont Tahiti – le mot « forain » désigne à l’origine celui qui exerce son activité dans les marchés et les foires, et ce magistrat du bout du monde apporte avec lui un peu de la République, non sans difficulté. Gérard Joly, qui a été juge des enfants en métropole pendant dix-huit ans, a été affecté en Polynésie en septembre 2006, préside le tribunal du travail (les prud’hommes) à Papeete, et est aussi chargé de la justice foraine depuis sept ans.

    Rurutu est son dernier voyage. La tâche est passionnante mais épuisante. Il s’agit d’organiser des tournées pour desservir des archipels noyés dans une surface grande comme l’Europe, soit par des vols réguliers lorsqu’ils existent, comme à Rurutu, à un peu moins de 600 kilomètres de Tahiti ; soit par un vol privé avec les services administratifs de la Polynésie française ; soit encore par catamaran, sur un océan souvent houleux, pour aborder quatre ou cinq îles d’un coup en une semaine. Les îles Tuamotu, qui voyaient auparavant un juge tous les dix ans, peuvent espérer désormais faire trancher leurs litiges tous les trois à cinq ans. Aller jusqu’au tribunal de Papeete est, pour les habitants de ces îles, financièrement hors de question.

    « Vous avez tous le même nom ? »

    Des litiges, il y en a de plus en plus, et un juge forain unique, à l’évidence, ne suffit pas : il y avait, dans les archipels des Australes, des Tuamotu et des Gambier, 28 affaires foncières à juger en 2012, contre 101 en 2022, avec un stock de 261 cas encore à traiter. On comptait 65 dossiers aux affaires familiales en 2012, et 182 dix ans plus tard, sans compter les commissions rogatoires d’un juge de Papeete à exécuter, et les 123 affaires de délinquance à examiner sur place. Le juge forain est ainsi juge foncier, juge pénal, juge des affaires familiales, il prononce ici un divorce, là une adoption, voire un changement de sexe, et il a intérêt à avoir un solide greffier pour tenir les procédures – c’est le cas.

    Gérard Joly passe désormais le témoin à Laetitia Ellul, fine spécialiste du droit foncier. « Je suis le juge forain, les gens pensent que je m’appelle Forain ! s’amuse le magistrat. Et quand je dis que c’est maintenant Laetitia le juge forain, on me dit : “Ah bon ? Vous avez tous le même nom ?” » Dans le doute, tout le monde l’appelle Gérard.

    Le problème majeur, à Rurutu, ce sont les « affaires de terre », la propriété foncière. Cette île des Australes a en effet été un peu oubliée par la France. Le petit royaume est tombé sous protectorat français en 1889, avant d’être annexé en 1900. « Les lois françaises sont trop compliquées pour vous, vous ne pourriez pas les comprendre, avait paternellement assuré le gouverneur lors de l’annexion. Gardez vos lois et restez les chefs de vos îles. » Ainsi, pour l’administration coloniale, il ne s’est rien passé à Rurutu avant 1946, où la loi française s’est appliquée lorsque la Polynésie est devenue un territoire d’outre-mer.

    Sur l’île, on produit alors un café renommé, un peu de coprah, les femmes tissent la fibre de pandan pour en faire une vannerie réputée, les hommes pêchent et cultivent le taro, un tubercule qui tient à la fois de la pomme de terre et du navet. Sans se douter un instant qu’ils sont sur des terres qui ne leur appartiennent pas, faute du moindre titre de propriété. Arrive alors, au début des années 1950, Eric de Bisschop, un navigateur français, ancien consul pétainiste à Honolulu, mais qui a eu la bonne fortune d’épouser la fille d’un chef influent à Rurutu. La France le charge d’établir le cadastre de l’île, tâche immense dont il s’est fort bien acquitté jusqu’en 1953 (avant de périr sottement en mer, en 1958).

    Les surprises du cadastre

    Bisschop, improvisé géomètre, a fait noter, après de longues palabres, les noms et les ascendants des occupants des terres, de leurs voisins, de témoins, dans chaque parcelle, et a établi des « procès-verbaux de bornage », aujourd’hui précieux puisque ce sont les seules pièces officielles sur lesquelles s’appuyer. Le cadastre existe donc, mais toujours pas les titres de propriété, et les habitants de Rurutu ont découvert avec surprise que le champ de taro qu’ils cultivaient depuis trois générations ne leur appartenait pas : toutes les terres sont, par défaut, la propriété de l’Etat, et aujourd’hui de la Polynésie française. Il s’agit désormais de les redistribuer. Ce n’est pas une mince affaire.

    Une loi du territoire, qui court jusqu’en 2025, autorise cette redistribution : l’habitant de Rurutu qui s’estime propriétaire fait une déclaration auprès de la direction des affaires foncières, à Papeete, en justifiant, grâce aux fameux procès-verbaux de bornage, que sa famille y vit depuis des générations – Gérard Joly n’est pas pour rien dans la mise en œuvre, au fil des années, de cette jurisprudence. On vérifie sur place : si c’est bien le cas, la terre est au requérant ; si la propriété est contestée, l’affaire est renvoyée devant le tribunal, qui tranche l’imbroglio du supposé ayant droit. Pour pimenter la chose, les terres sont en indivision, et il faut ensuite départager les dizaines de lointains cousins qui ont un ancêtre commun mentionné sur le procès-verbal de bornage…

    Les affaires de terre mobilisent ainsi l’essentiel de la justice foraine. La nouvelle présidente, Laetitia Ellul, ouvre l’audience, et explique qu’elle remplace Gérard, lequel papote avec de vieilles connaissances. Elle siège, en civil, à côté du greffier, derrière une table recouverte d’une grande nappe rouge et or dans la salle de la mairie, où des ventilateurs s’efforcent de faire croire qu’ils apportent un peu de fraîcheur. Ambiance bon enfant, un peu surprenante : la juge tutoie les demandeurs. « Oui, c’est étrange vu de Paris, explique Gérard Joly, mais en tahitien le “vous” n’existe pas. Lorsqu’on vouvoie quelqu’un, il se demande à qui d’autre on s’adresse. Et le vouvoiement est vécu comme une distance affichée par les popa’a, les Blancs. On s’y fait, finalement. »

    L’ancien maire de Rurutu, Taratiera Tepa, revendique trois parcelles. Il a fait venir ses témoins, qui décrivent minutieusement les terrains et ce qui pousse dessus, assurent qu’il n’y a que la famille de l’ancien maire qui l’occupe. La présidente Ellul, procès-verbal de bornage dans une main, cadastre dans l’autre, instruit le dossier, fait noter les déclarations. Elle ira le lendemain sur place, grimper dans la montagne et patauger dans les ruisseaux, pour faire un PV de constat, évaluer l’âge des bananiers ou des avocatiers qu’on dit avoir été plantés par un ancêtre – car « la propriété se prouve par tout moyen », énonce le code civil. Chaque partie devrait ensuite résumer ses arguments par écrit, et le tribunal foncier de Papeete, où elle siège, tranchera. « Moi, je me débrouille tout seul, sans avocat, dit Taratiera Tepa, mais c’est long et compliqué, et ça coûte cher, il faut aller à Papeete. L’administration devrait prendre en charge les frais, ce n’est pas normal que ce soit la population qui supporte ça pour récupérer sa terre. »

    Justiciables intimidés

    Les dossiers se succèdent et se ressemblent, sous l’œil imperturbable de Pito, le policier municipal, un géant qui assure le service d’ordre et est aussi chauffeur et pourvoyeur de café. « Est-ce qu’on doit évacuer ma tante handicapée qui vit là depuis trente ans ? », s’indigne un demandeur. Laetitia Ellul le rassure : « Je ne pense pas que le haut-commissaire fasse intervenir la police pour chasser madame. On est en pleine phase d’instruction, chacun doit dire ce qu’il pense, et après je conclurai le dossier. » Teana, l’interprète, traduit le plus simplement possible le jargon juridique ; c’est difficile, d’autant que le rurutu n’est pas tout à fait du tahitien. « Ici, ils n’ont pas les “f” et les “h”, explique la jeune femme, et souvent cela ressemble à du vieux tahitien. » Christophe, le greffier polynésien, intervient souvent pour expliquer un point obscur ou rappeler que « l’audience, c’est le moment privilégié pour parler avec le juge » – il est souvent plus facile de ne pas s’adresser directement au magistrat, même si Laetitia déploie des trésors de patience et de pédagogie.

    Le choc culturel est tout de même violent. « La langue de la République est le français », dit la Constitution, mais personne sur l’île ne pense sérieusement que Rurutu soit la France, même si ses habitants en ont la nationalité. Et la culture locale est de tradition orale, alors que la procédure française multiplie les écrits, les requêtes, les conclusions. Le code civil polynésien a certes été profondément aménagé, mais « il s’agit d’une justice étrangère, a relevé Natacha Gagné, ethnologue à l’université Laval de Québec, qui a enquêté sur place : c’est celle des farani [les Français], c’est-à-dire la justice du colonisateur », qui engendre « des rapports fortement asymétriques » intimidant nécessairement les justiciables, et « sources de malaise ».

    C’est encore plus vrai pour la justice pénale, parfaitement conforme au droit de la métropole – et la mairie ressemble cette fois à un tribunal. Gérard Joly prend l’audience, en robe, pour la journée, avec deux assesseurs. Deux avocats commis d’office sont venus de Papeete avec une envoyée impromptue du parquet général, qui remplace l’habituelle magistrate, rompue, elle, aux coutumes des îles. On juge Edwin R., trésorier de l’Eglise protestante locale, qui a subtilisé 10 millions de francs Pacifique (CFP, soit 84 000 euros) en dix-neuf ans. L’Eglise ne s’est pas portée partie civile et fait son possible « pour qu’on ne mette pas son nez dans ses affaires », constate le juge. L’affaire est confuse, et le prévenu, qui assure qu’il rembourse 10 000 CFP par mois, est bien incapable de le prouver, son avocat n’ayant même pas pensé à lui demander des traces de chèques ou de virements. Le ministère public réclame une peine de six mois avec sursis : il prend un an avec sursis et 150 000 CFP d’amende.

    Dans la seconde affaire, Tibere M. a agressé sexuellement l’infirmière venue soigner sa vieille maman, et la soignante a porté plainte. Le parquet réclame son incarcération à Tahiti – il n’y a pas de prison à Rurutu – et de six à huit mois ferme ; il est finalement condamné à deux ans avec sursis et obligation de soins – obligation assez formelle, même si un psychologue passe de temps à autre sur l’île. En juge unique pour des affaires moins lourdes, le président Joly examine quatorze autres dossiers : bagarres, violences intrafamiliales pour la plupart, conduite en état d’ivresse, problèmes tumultueux de voisinage… Il distribue des mois de prison avec sursis, de petites amendes et, autant que possible, des travaux d’intérêt général – sur l’île, le choix des peines est nécessairement limité.

    « Difficultés du dialogue »

    Les prévenus parlent peu, et le tribunal a le plus grand mal à obtenir des réponses, mais ils ne mentent guère, ou très rarement, et avouent parfois, en passant, d’autres infractions que celle pour laquelle on les juge. Gérard Joly, plus bonhomme que jamais, s’adresse à eux très simplement, presque amicalement, pour casser un peu la solennité du tribunal. Mais, résume Natacha Gagné, « les silences et les difficultés du dialogue soulignent l’énorme contradiction entre le statut de l’audience comme moyen d’expression et d’écoute, et la réalité du rapport à l’Etat dans la pratique ».

    Pourtant, on l’aime bien, le juge forain, dans les îles. « Gérard, il me manque déjà, déclare en souriant Teana, l’interprète. Il met les gens à l’aise, il plaisante beaucoup, il est là tout le temps, toujours prêt pour un conseil et pour rendre service. » Le juge saute le repas de midi et reste dans la mairie. On vient lui demander comment adopter, comment divorcer, quels papiers il faut, et il n’hésite jamais à proposer une « requête verbale », que permet le code. Un couple débarque sans rendez-vous et veut divorcer par consentement mutuel : il dicte la requête au greffier, la requête est faite sans avocat, sans huissier, sans notaire, et sera prononcée à Papeete après avis du parquet, en quelques semaines.

    Une femme hésite un instant avant d’aller le voir ; c’est un raerae, une personne trans. Ce n’est pas rare en Polynésie, où la tolérance est grande sur la transidentité, même si ce n’est pas toujours simple pour autant. Elle suit un traitement depuis longtemps déjà, et veut changer d’état civil. Le juge prend la requête, un jeu de photos d’elle en robe qu’elle a apporté, pour convaincre le parquet, à Papeete, qui doit donner son avis. L’affaire ne devrait pas poser de difficulté.

    La juge Ellul, pendant ce temps, reçoit Heiroa, 37 ans, un grand gaillard parachutiste de Tarbes, venu rendre visite à son Omer, son père adoptif de Rurutu. C’est son papa fa’a’mu (quelque chose comme « pour nourrir », en français), une vieille coutume polynésienne, qui permet à des parents de confier leur enfant à des parents nourriciers, plus ou moins proches, en conservant des liens avec lui. Omer a obtenu de la justice française en 1988 une délégation d’autorité parentale, et veut désormais adopter le petit, qui est nettement plus grand que lui. « Je voulais qu’il porte mon nom, dit Omer, ravi, une fleur de tiaré derrière l’oreille. Et puis, pour la succession, c’est bien. J’aurais pu faire un testament, mais qui peut toujours être contesté. » Heiroa grommelle qu’un testament aurait bien suffi, mais il devient héritier à la fois de sa famille biologique et de sa famille d’adoption : bonne affaire, d’autant qu’Omer a « pas mal de terres ». Heiroa est majeur, Omer n’a pas d’autres enfants, l’adoption est une formalité. Le papa est parti avec son nouveau fils, un sourire radieux, de la lumière dans les yeux, et le sourire ému de la juge.

    A la nuit tombée, les deux magistrats sirotent une bière dans la pension qui les héberge, en faisant le point sur les dossiers. « C’est crevant, on n’arrête pas, mais on se sent utile, dit avec le sourire Laetitia Ellul. On se dit qu’on a vraiment aidé les gens, et que ça valait le coup. » Le lendemain, à l’aéroport, des plaignants leur déposent in extremis les pièces qu’ils n’ont pu fournir la veille. Parce que les magistrats du bout du monde ne reviendront pas avant deux ans.❞

    #Polynésie #justice #colonisation #post-colonialisme #cadastre #droit #magistrature

  • VIDEO. Julien Le Guet, porte-parole des anti-bassines, placé en garde à vue à la gendarmerie de Niort.
    Le Courrier de l’Ouest Julien RENON Publié le 17/03/2023
    https://www.ouest-france.fr/nouvelle-aquitaine/niort-79000/video-julien-le-guet-porte-parole-des-anti-bassines-place-en-garde-a-vu
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAyMzAzZWE3MTNlMjc3M2QwNmU0YTk5YTIxMDRlZmExMjk3Y2Y?width=1260&he

    C’est sous les cris de « No bassaran ! » ​lancés par une centaine de militants que Julien Le Guet, revêtu d’un bleu de travail, a poussé la grille de la gendarmerie de Niort ce vendredi 17 mars, à 9 heures. Le poing levé vers son bruyant comité de soutien, le porte-parole de « Bassines non merci ! » ​s’est engouffré sous le porche de la caserne pour répondre aux questions des militaires sur sa présence à la manifestation interdite de Sainte-Soline, les 28 et 29 octobre 2022. Sur sa convocation figuraient deux motifs : « Participation à un groupement formé en vue de la préparation de violences contre les personnes ou de destructions ou de dégradations de biens » ​et ​« Dégradation ou détérioration du bien d’autrui commise en réunion ». Après une heure d’audtion, ce dernier a été placé en garde à vue.

    #mégabassines #Bassines #no_bassaran #méga-bassines

  • L’Espagne va récolter 6 milliards d’euros via la taxe sur les superprofits de la finance et de l’énergie
    https://lareleveetlapeste.fr/lespagne-va-recolter-6-milliards-deuros-via-la-taxe-sur-les-superp

    En plus de ces taxes sur les superprofits, le gouvernement Espagnol a mis en place un impôt de solidarité sur les grandes fortunes pour faire progresser la « justice fiscale » et lutter contre les inégalités

  • Face aux agressions sexuelles, un féminisme sans flics - CQFD, mensuel de critique et d’expérimentation sociales
    http://cqfd-journal.org/Face-aux-agressions-sexuelles-un

    Vous êtes féministe, devenez gendarme ». C’est le slogan d’une campagne de recrutement lancée en 2021 par Marlène Schiappa, alors ministre déléguée en charge de la Citoyenneté. Rien d’étonnant de la part de celle que le collectif Matsuda dénonce comme étant une des « cheffes de file française du “féminisme carcéral” ». Ce féminisme défend l’alourdissement des peines de prison pour les violeurs et promeut des lois sécuritaires en la matière. Opposé à ces politiques répressives, le collectif se fait le relais – exemples à l’appui – d’une autre vision des choses dans leur anthologie autoéditée Abolir la police (2021).

    Dans un des articles, la militante Mariame Kaba revient sur l’histoire des Santa Cruz Women Against Rape (Femmes de Santa Cruz contre le viol). Dans les années 1970, critiquant la mauvaise prise en charge de ces agressions par la police et les tribunaux, celles-ci avaient monté des centres populaires de soutien aux victimes de viols, qu’elles n’encourageaient pas franchement à pousser la porte des commissariats.

    #féminisme #viol #violences #justice

  • Destruction de bidonvilles et expulsion d’étrangers : l’opération à risques de Gérald Darmanin à Mayotte - L’éMonde
    https://justpaste.it/3rsja

    DécryptagesLe projet du ministre de l’intérieur, doit se déployer à partir de la fin du ramadan le 21 avril, pour deux mois environ. Les conditions de sa préparation, et l’opposition d’associations, montrent qu’elle n’ira pas sans risques.

    Ce pourrait être un des marqueurs de son futur bilan au ministère de l’intérieur : Gérald Darmanin a promis à Mayotte une « action spectaculaire » de destruction des bidonvilles et d’expulsion de leurs habitants en situation irrégulière. L’opération, très attendue par les élus du département, doit se déployer à partir de la fin du ramadan le 21 avril, pour deux mois environ, jusqu’en juin. Les conditions de sa préparation montrent qu’elle n’ira pas sans risques.
    Le préfet, Thierry Suquet, se voit confier une triple mission. D’abord, la lutte contre le séjour irrégulier qui suscite de vives tensions sociales à Mayotte, avec l’idée de passer de 80 interpellations d’étrangers par jour actuellement à 250-280 – les expulsés, en majorité, seront ramenés par voie maritime vers Anjouan, aux Comores voisines.
    Ensuite, le « décasage », démantèlement des habitats informels – 8 maires soutiennent le plan et se disent prêts pour l’opération qui ciblerait 5 000 personnes dans 1 000 « bangas », soit 10 % des cases de tôle couvrant les collines de Mayotte. La moitié des 310 000 résidents recensés sur l’île vivent dans ces habitations illégales.

  • (11) PENDANT 30 ANS, IL A VIOLÉ LES FEMMES EN TOUTE IMPUNITÉ - ENQUÊTE - YouTube
    https://www.youtube.com/watch?v=C-94osP55Lg

    Pendant trente ans, il fut une silhouette qui hantait le Nord industriel. Il violait, agressait — au petit matin, des dizaines de femmes, brisées à jamais. Puis il s’arrêtait. Et recommençait. Alice Géraud, écrivaine, scénariste, ex-journaliste (Libé, Les Jours), est allée à la rencontre de ses victimes.

    Quatre années d’enquête, terrible, et sobre, qui disent 30 ans d’agressions, d’incurie judiciaire, de bassesses policières. 30 ans qui racontent la France du silence et du laisser faire. Page après page, éclate la mécanique d’un échec. Et l’on saisit combien la bascule du système judiciaro-policier, de la fin des années 80 jusqu’à l’ère #metoo, fut lente. Et reste encore trop sourde aux plaintes.

    #viol #violence #justice #metoo

  • #Incendie du #camp de #Moria en Grèce : la fabrique des coupables idéals

    Le #procès en appel des quatre Afghans condamnés en 2021 à dix ans de prison pour l’incendie en 2020 du camp de migrants de #Lesbos se tient le 6 mars. Une contre-enquête vidéo met en lumière les « preuves faibles et contradictoires » qui ont conduit au verdict de première instance, et pointe la responsabilité des autorités grecques et européennes dans la tragédie.
    https://www.youtube.com/watch?v=CPGd0Loozhw

    LeLe drame avait eu lieu la nuit du 8 au 9 septembre 2020 sur l’île grecque de Lesbos. Plusieurs incendies consécutifs, propagés par des vents forts, avaient détruit le camp de migrants de Moria, le plus grand d’Europe, réputé pour ses conditions de vie extrêmement précaires.

    Aucune victime n’était à déplorer, mais les 13 000 migrants de ce camp situé à quelques kilomètres de la Turquie s’étaient retrouvés sans abri, en pleine pandémie de Covid-19.

    En juin 2021, quatre jeunes Afghans ont été condamnés à dix ans de prison ferme pour incendie criminel. Ils ont fait appel de la décision. Leur audience se tient le lundi 6 mars 2023 à Lesbos.

    « Les accusés avaient été condamnés sur la seule base du témoignage douteux d’un Afghan, qui n’a pas comparu à l’audience », précise Natasha Dailiani, l’une des avocates des quatre condamnés. Ces derniers sont issus de la minorité religieuse chiite des Hazaras, souvent persécutée en Afghanistan.

    Ils assurent de leur côté que ce témoin, un Afghan de l’ethnie majoritaire sunnite des Pachtouns, les a désignés comme les incendiaires en raison de leur appartenance religieuse. « Les quinze autres témoins à charge présents à l’audience de juin 2021 n’ont pas identifié les quatre accusés », ajoute Me Dailiani.

    Missionnées par la défense des mis en cause, Forensic Architecture et Forensis, deux organisations spécialisées dans les contre-enquêtes sur les crimes et mensonges d’État, ont retracé les événements de cette nuit du 8 septembre 2020 en s’appuyant sur des centaines de vidéos prises par les réfugiés et autres acteurs présents sur place, des témoignages ainsi que des rapports officiels.

    Leur enquête vidéo révèle entre autres que « les jeunes demandeurs d’asile accusés d’avoir mis le feu ont été arrêtés sommairement sur la base de preuves faibles et contradictoires », rapporte Dimitra Andritsou, coordinatrice de recherche à Forensis.

    Le vaste camp de Moria comportait douze zones (voir la carte ci-dessous). Le premier incendie se déclare le 8 septembre, au plus tard à 23 h 36, à proximité de la zone 6 (dans l’est du camp), avant de se propager dans le reste du camp, selon les deux collectifs d’enquête.

    Un deuxième incendie se déclare ensuite au centre du camp. À 1 h 43, le 9 septembre, il se répand dans la zone 12 (dans le sud du camp). Le principal témoin affirme que les quatre Afghans auraient eux-mêmes mis le feu à cette zone 12, comme le rappellent Forensic Architecture et Forensis.

    Celles-ci reconstituent également la progression de l’incendie dans la zone 12, cartographiant ainsi le schéma de propagation du feu, qui correspond à la direction du vent. La majorité du camp de Moria était en outre composée d’abris de fortune faits de plastique, de polystyrène, de bois ou de bâches, soit des matières hautement inflammables, comme l’illustrent les vidéos spectaculaires récoltées par Forensic Architecture et Forensis.

    « Il fallait trouver un responsable »

    Les quatre Afghans jugés coupables avaient rapidement été arrêtés, quelques jours après l’incendie de Moria. Deux autres mineurs afghans avaient par ailleurs été interpellés et condamnés à cinq ans de prison ferme lors d’un procès distinct en mars 2021.

    « Il fallait trouver un responsable. Ce procès, particulier, ne remplissait pas les conditions qui garantissent un procès équitable, c’était en ce sens une parodie de justice, dénonce l’avocate Natasha Dailiani. Nos clients, dans l’attente de leur appel, sont évidemment inquiets. Dévastés après le verdict du premier procès, ils ne peuvent accepter cette décision et clameront à nouveau leur innocence. »

    « Notre enquête suggère que face à la gestion inhumaine du camp par l’Union européenne et le gouvernement grec, il fallait un bouc émissaire », estime de son côté Dimitra Andritsou.

    Surpeuplé, le camp de Moria, dit hotspot (centre de premier accueil), d’une capacité de quelque 3 000 places, abritait le jour de l’incendie de 2020 environ 13 000 migrants, majoritairement originaires d’Afrique ou du Proche-Orient. Nombre d’associations et de politiques avaient précédemment alerté sur un drame qui semblait inévitable tant le camp était insalubre.

    L’incendie du 8 septembre 2020 au camp de Moria était le dernier d’une longue série. Au moins 247 départs de feu s’étaient déclarés à l’intérieur et aux alentours de cette structure depuis sa création en 2013, ainsi que le relèvent Forensic Architecture et Forensis.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/060323/incendie-du-camp-de-moria-en-grece-la-fabrique-des-coupables-ideals

    #camps_de_réfugiés #Grèce #réfugiés #asile #migrations #architecture_forensique #justice #contre-enquête #responsabilité #reconstruction #feu #hotspot

    –—

    Fil de discussion sur cet incendie :
    https://seenthis.net/messages/876123

    • Fire in Moria Refugee Camp

      In the late hours of 8 September 2020, large fires broke out at the migrant camp of Moria, located on the frontier island of Lesvos, Greece. The fires smouldered over several days, displacing thousands of people and reducing the epicentre of the EU’s carceral archipelago to ashes. The overcrowded camp, first established in 2013, was host to more than 13,000 people at the time, and was notorious for its precarious and unsafe living conditions—conditions manufactured and maintained for years by Greek and EU policies.

      https://counter-investigations.org/investigation/fire-in-moria-refugee-camp

    • Grecia, incendi e responsabilità

      Il controverso processo per il disastroso incendio che ha distrutto il campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo, terminato con una condanna, ha visto la difesa utilizzare nuovi dati scientifici sulla fragilità degli ecosistemi alla minaccia del fuoco

      “Il crimine non è l’incendio, il crimine è Moria”, recitava lo striscione esposto davanti alla corte d’appello dell’isola di Lesbo il 6 marzo 2024, mentre quattro richiedenti asilo afgani aspettavano una decisione sul loro caso.

      Poche ore dopo, tre di loro sono stati rilasciati sulla parola e rinviati a nuovo processo, in quanto minorenni al momento degli incidenti. Il processo contro l’altro imputato è continuato fino all’8 marzo 2024, quando è stato dichiarato colpevole e condannato a otto anni di carcere. Il caso ha sollevato preoccupazioni sui diritti umani, sullo stato di diritto e sulla sicurezza nel contesto migratorio.

      Cronaca di una tragedia annunciata

      I quattro imputati facevano originariamente parte dei cosiddetti “Sei di Moria”, un gruppo di sei giovani richiedenti asilo (cinque minorenni e un adulto) arrestati dalla polizia locale pochi giorni dopo lo scoppio del tragico incendio nel campo profughi di Moria di settembre 2020, che ha lasciato 13mila persone senza riparo.

      Al momento degli arresti, i vigili del fuoco stavano ancora indagando. Nonostante la mancanza di prove, le immagini dei “piromani” in manette hanno fatto subito il giro dei media.

      Nel frattempo sono venute alla luce le scandalose condizioni di vita nel campo. Notis Mitarachi, l’allora ministro greco della Migrazione, ha cercato di placare l’opinione pubblica con dichiarazioni pompose: rivolgendosi ai membri del Comitato permanente per la pubblica amministrazione, l’ordine pubblico e la giustizia, ha affermato che le infrastrutture a Moria erano già state notevolmente migliorate e che i responsabili dell’incendio “sarebbero stati puniti e deportati”.

      A giugno 2021, il tribunale con giuria mista di Chios ha dichiarato i quattro imputati colpevoli di “incendio doloso con pericolo per la vita umana” e li ha condannati a dieci anni di reclusione, basandosi sulla testimonianza scritta di un unico testimone.

      Sebbene nessuno potesse dire esattamente come tutto fosse iniziato, diversi testimoni hanno collegato la tragedia ad una serie di incidenti violenti avvenuti tra i residenti del campo nelle tarde ore dell’8 settembre 2020, e in particolare, a forti disaccordi sulle misure di isolamento legate al coronavirus presto trasformatisi in una lotta interetnica, poi sfuggita di mano.

      Mitarachi ha dichiarato che «gli incidenti a Moria sono iniziati tra i richiedenti asilo a causa della quarantena». Pochi mesi dopo, intervistato da un media greco, ha dichiarato che il progetto del governo di creare un campo profughi più sicuro con condizioni umane dignitose nella regione aveva incontrato resistenza da parte delle autorità locali, con esiti disastrosi.

      Mitarachi ha poi accusato Kostas Moutzouris, governatore regionale del Nord Egeo, che a sua volta lo ha citato in giudizio nell’aprile 2021.

      Il famigerato campo profughi è stato definito da reporter internazionali e operatori umanitari come “l’inferno in terra”, “una bomba a orologeria” e “un disastro in attesa di accadere”, dove le persone venivano tenute per anni in condizioni disumane.

      Al suo apice, il campo ospitava oltre 14mila persone in uno spazio originariamente progettato per 2.150, e sono state registrate morti a causa delle terribili condizioni di vita, della scarsa igiene e delle scarse scorte di cibo.
      Una prospettiva diversa

      Il processo contro i quattro afghani del 2021 è stato controverso fin dall’inizio. Poiché l’unico testimone non è comparso in tribunale e quindi non è stato interrogato, la difesa ha sottolineato «interpretazioni errate o incomplete» delle intenzioni dei loro clienti e degli eventi della notte dell’incendio.

      Nel 2023 sono venute alla luce nuove prove: gli avvocati della difesa hanno tentato di ricostruire i fatti con l’aiuto delle ricerche condotte da Forensic Architecture/Forensis su loro commissione.

      I rilievi di FA/Forensis, sulla base di testimonianze e resoconti ufficiali scritti, nonché dell’esame di materiale audiovisivo, hanno attribuito l’incendio a condizioni geografiche, morfologiche e meteorologiche che rendono questa regione mediterranea più esposta agli incendi, soprattutto a settembre, quando “il terreno è più secco”.

      In una conferenza stampa tenutasi a marzo 2023, gli esperti Dimitra Andritsou e Stefanos Levidis hanno spiegato che “le condizioni di siccità, combinate con la precarietà e la densità derivanti dalle politiche imposte dalle autorità greche e dell’UE, hanno portato ad un forte aumento dei grandi incendi ogni anno in questo periodo”.

      La nostra analisi”, ha concluso Andritsou, “rivela significative incongruenze nella testimonianza del testimone chiave e getta ulteriori dubbi sulle prove in base alle quali sono stati accusati i giovani richiedenti asilo”.

      Il parere degli esperti si è basato in modo significativo sui filmati girati dagli stessi giovani migranti nel quadro di un corso di formazione sulla realizzazione di film e reportage offerto da un’organizzazione che lavora con i rifugiati a Lesbo.
      La prevenzione incendi: una questione di cultura e di valori

      In una prospettiva più ampia, ciò apre una nuova discussione sul tema della prevenzione e gestione degli incendi, soprattutto nelle regioni ad alto rischio come Lesbo.

      Indipendentemente dall’esito finale, il fatto che nella sperimentazione sia stata utilizzata un’ipotesi legata al clima/morfologia evidenzia la rilevanza di progetti che affrontano i fenomeni estremi che colpiscono la Grecia.

      OBCT ha intervistato il professor Kostas Kalabokidis, responsabile del Greek Living Lab (LL) nell’iniziativa FIRE-RES, un progetto che fornisce soluzioni innovative per territori resilienti al fuoco in Europa, tra cui Lesbo.

      “Gli ecosistemi forestali della regione mediterranea sono costantemente minacciati da incendi estremi, che hanno un impatto significativo sui servizi eco-sistemici essenziali”, afferma Kalabokidis. “I nostri studi mirano a esaminare le intricate relazioni tra le strategie di soppressione e gestione degli incendi e i diversi servizi eco-sistemici colpiti dagli incendi, con l’obiettivo di sviluppare un quadro completo e su misura per paesaggi resilienti agli incendi”.

      Il professor Kalabokidis ha sottolineato come l’uso di approcci metodologici avanzati, come l’analisi dei compromessi, la pianificazione degli scenari o le simulazioni stocastiche, possa contribuire a ridurre i pericoli e i rischi di incendi boschivi.

      FIRE-RES studia non solo i fattori ambientali, ma anche le condizioni socio-economiche che possono rendere una regione più esposta agli incendi e ad altri disastri. Nel caso del campo sovrappopolato di Moria, le dimensioni e la densità della popolazione hanno agito da catalizzatori, combinate con l’uso di materiali economici e infiammabili.

      Altri fattori comprendono la mancanza di un’adeguata formazione tra residenti e operatori su come prevenire e gestire un’emergenza legata agli incendi e una consapevolezza limitata (soprattutto tra i giovani residenti, come evidenziato dagli atti del processo) delle conseguenze di un comportamento irresponsabile che potrebbe portare ad un disastro e un crimine grave.

      FIRE-RES sottolinea l’importanza di educare le popolazioni che vivono in regioni resistenti al fuoco; ciò potrebbe tradursi in un insieme di atteggiamenti, competenze e pratiche tra i civili provenienti da diverse sfere della società, che consentirebbe loro di avere una migliore comprensione dei pericoli imminenti, ma anche delle soluzioni praticabili.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Grecia/Grecia-incendi-e-responsabilita-230976