• Confine Serbia-Ungheria: aumenta la militarizzazione e la violenza della polizia

    Una sparatoria (probabilmente tra “trafficanti”) diviene il pretesto per un’ulteriore stretta repressiva

    La zona di confine tra la Serbia e l’Ungheria è da molti anni un luogo di sosta forzata e di transito delle persone migranti. E’ qui, tra la cittadina ungherese di #Röszke e quella serba di #Horgos, che nell’autunno del 2015 venne costruita da Orban la prima barriera “anti-rifugiati” che divenne in poco tempo uno dei simboli della politica dell’Unione europea, replicata poi in molteplici forme.

    Questo territorio al nord della Serbia rimane oggi uno dei punti più caldi delle rotte balcaniche settentrionali, essendo – al pari del confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – uno snodo fondamentale per l’accesso all’Europa e quindi per le politiche di controllo e respingimento. Diversi report e costanti attività di monitoraggio hanno descritto nel dettaglio la violenza e la brutalità della polizia nei confronti di persone in movimento sia sul lato serbo che su quello ungherese.

    Nel rapporto trimestrale del 2023 riferito ai mesi di luglio, agosto e settembre 1, la Ong #KlikAktiv di Belgrado ha indicato le tendenze in atto. Il report è frutto di osservazioni durante le visite agli insediamenti informali ai confini esterni dell’UE con la Serbia e della raccolta di testimonianze e foto delle condizioni di vita, e fornisce anche informazioni sul contesto, compreso il quadro giuridico e le scelte politiche relative alla gestione della migrazione. In particolare, l’organizzazione punta l’attenzione sui respingimenti da e verso la Serbia, sulla violenza della polizia serba e sulla morte delle persone lungo il percorso. Una parte è dedicata anche alle sparatorie avvenute in quei mesi nell’area settentrionale del Paese e delle reti di passatori (smugglers) sospettate di esserne all’origine. Sono illustrati anche alcuni dati: la maggior parte delle persone incontrate dall’Ong proveniva da Siria e Afghanistan (94%); il punto di “ingresso” più comune in Serbia è dalla Bulgaria (con il 40% che a settembre è entrato solo attraverso la Macedonia settentrionale), mentre i tragitti più utilizzati per uscire dal Paese sono quelli verso la Bosnia-Erzegovina e l’Ungheria, con quest’ultima che ha anche il primato dei respingimenti. Klikaktiv ha, infine, continuato a rilevare un numero significativo di minori non accompagnati negli insediamenti informali presenti nella zona di confine, perfino ragazzini di età inferiore ai 14 anni provenienti soprattutto dalla Siria.

    Un episodio emblematico è quello raccontato da No Name Kitchen, che opera a Subotica supportando centinaia di persone che vivono fuori dai campi ufficiali negli edifici abbandonati.
    L’Ong tramite la pagina facebook ha denunciato un violento pushback nei confronti di quattro ragazzi marocchini. Racconta di aver incontrato il gruppo fuori dal campo di #Subotica la notte del 25 ottobre, dopo essere stati informati della gravità delle condizioni fisiche di uno dei giovani: «La polizia lo ha colpito molto violentemente causandogli una ferita aperta sulla fronte e una grave commozione cerebrale. Anche gli altri tre amici indossavano bende in testa. M. e i tre amici sono stati arrestati e brutalmente attaccati da tre poliziotti ungheresi, dopo aver attraversato il villaggio serbo di #Martonoš».

    «L’estrema violenza usata in questa repressione ci lascia senza parole – scrivono le attiviste -. Il gruppo ha segnalato di essere stato picchiato in mezzo alla foresta alle 23 da due poliziotti maschi. Usavano soprattutto manganelli per infliggere ferite. Mentre il gruppo stava soffrendo terribilmente, il terzo poliziotto ha iniziato a filmare la scena».

    No Name Kitchen spiega che il ragazzo per la quantità di botte ricevute in testa ha perso conoscenza ed è stato trasportato in un ospedale nella città ungherese di Szeged dove è stato rapidamente curato e rilasciato senza ulteriori visite mediche nonostante i sintomi indichino un potenziale trauma cerebrale. Insieme al gruppo di amici è stato illegalmente rispedito in Serbia senza che nessuno si preoccupasse delle sue condizioni di salute.

    Il pretesto “perfetto”

    E’ in questo contesto, nel quale la mobilità umana viene pesantemente repressa, che un nuovo scontro tra gruppi di migranti, probabilmente smugglers, ha portato alla morte di tre persone e al ferimento di un’altra. Le uniche notizie sono legate ad un comunicato diramato dal ministero dell’interno serbo, dove si legge che la polizia ha poi fatto irruzione in alcuni edifici abbandonati nell’area di Horgos, sequestrando armi e munizioni, trovando inoltre 79 persone di varie nazionalità che sono state trasferite nei campi di ricezione. L’operazione – che ha coinvolto le unità anti-terrorismo, la gendermerie e gli elicotteri della polizia – ha portato all’arresto di quattro cittadini afghani e due turchi sospettati di possesso illegale di armi ed esplosivi.

    La sparatoria e le morti sono diventate così il nuovo pretesto per portare un’ulteriore stretta e militarizzazione nell’intera zona di confine. Il presidente serbo Vucic ha infatti dichiarato che potrebbe far intervenire l’esercito per risolvere la situazione se le forze di polizia non si dimostreranno all’altezza, avvertendo così il suo stesso Ministro degli Interni Gasic: “[…] non è la prima volta che parlo con il Ministro degli Interni. O farete le cose che dovete fare, o direte che non siete in grado di farle. Mettetevi in guardia, farò intervenire l’esercito e faremo piazza pulita, li arresteremo e li metteremo dietro le sbarre”, ha detto intervenendo in televisione. Dopo la sparatoria è stato stipulato un accordo di cooperazione tra lo stesso Gasic e il Ministro degli Interni ungherese Pinter, in un incontro al valico di frontiera di Reska, dove hanno discusso della lotta “all’immigrazione irregolare” e dell’utilizzo di ufficiali ungheresi a supporto dei colleghi serbi. “Per combattere la criminalità organizzata e la migrazione irregolare, è stato proposto di istituire un gruppo di lavoro congiunto tra i membri dei ministeri degli Interni di Serbia e Ungheria”, riporta il comunicato congiunto 2.

    Le autorità hanno inoltre comunicato a tutte le organizzazioni umanitarie che sono attive nei campi profughi dislocati nella zona che temporaneamente non potranno lavorare al loro interno. Alcuni testimoni affermano che i successivi controlli di polizia hanno portato a fermi e diversi episodi di violenza.

    https://www.youtube.com/watch?v=l43XWHlj8uw&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

    «Negli ultimi mesi le operazioni poliziesche sono diventate dei veri e propri “rastrellamenti” nelle strade, nelle stazioni e nei negozi della regione di Subotica e Sombor.»

    Gli ultimi aggiornamenti di No Name Kitchen sono del 2 novembre, quando le attiviste hanno visitato il campo ufficiale a Subotica e lo hanno trovato completamente vuoto. Il campo solitamente ospita più di 300 persone tra uomini, donne, ragazzi e famiglie, e la polizia l’ha sgomberato il 31 ottobre deportando con la forza le persone. «Ci è stato detto che durante lo sgombero ci sono stati pestaggi e violenza. Non sappiamo dove siano state portate queste persone, ma sembra che la chiusura di tutti i campi serbi faccia parte dell’ultima azione promossa dallo Stato per reprimere l’immigrazione irregolare al confine tra Serbia e Ungheria».

    «Recentemente – osserva l’organizzazione – è stato pubblicato un video che mostra le forze militari e di polizia che rastrellano ostelli e insediamenti informali alla ricerca di bande di smuggler e persone migranti. La clip di 7 minuti è accompagnata da musica che ricorda un videogioco di guerra. Le forze militari armate con il volto coperto vengono filmate mentre arrestano e sfrattano le persone dagli edifici».

    La caccia ai migranti è diventata la norma, di fatto impedendo la circolazione delle persone migranti anche all’interno del territorio serbo, attraverso una politica di deportazioni dal nord al sud, verso i campi al confine con la Macedonia e il Kosovo, rallentando il viaggio delle persone e alimentando così il circuito economico connesso al movimento dei migranti, che coinvolge – tra gli altri – gli apparati dello stato stessi e i network di smuggling. Dall’altra parte, le guerre intestine tra le organizzazioni di smuggling forniscono il pretesto perfetto per la repressione governativa, che però si abbatte in modo generalizzato sulle persone migranti senza scalfire le organizzazioni criminali che si propone di colpire. Dopo diverse inchieste giornalistiche firmate da Balkan Insight negli ultimi mesi, la credibilità delle autorità serbe è a pezzi agli occhi dell’opinione pubblica, perché è stata dimostrata più volte la complicità tra gli apparati di polizia e le bande di smuggler, svelando un sistema dove economicamente tutti ci guadagnano, sulla pelle delle persone migranti 3.

    https://www.meltingpot.org/2023/11/confine-serbia-ungheria-aumenta-la-militarizzazione-e-la-violenza-della-
    #Serbie #Hongrie #militarisation_des_frontières #frontières #migrations #asile #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #violence

    • The Third Quarterly Report in 2023

      The report covers trends observed in the field during our team’s visits to the informal settlements at the EU’s external borders with Serbia during July, August and September 2023, including testimonies and quotes of refugees, as well as the photos of the living conditions. The report also provides information on the context, including important legal framework and political trends regarding migration management in the country. We particularly shed light on push backs to and from Serbia, violence by the Serbian police and deaths of refugees on the route. We also wrote about recent shootings in the northern area of the country and smuggling networks suspected to be behind them.

      Some of the key trends identified in the reporting period were:

      - Majority of all Klikaktiv’s beneficiaries were from: Syria and Afghanistan (94% combined). Most common entry point: Bulgaria (with 40% who entered through North Macedonia in September) Most common attempted exit points: to Hungary and to Bosnia and Herzegovina.

      – Push backs from the EU Member States have continued in the reporting period - majority of which happened from Hungary to Serbia. Push backs by the Serbian police were reported by people on the move on the border with Bulgaria in joint operation with Austrian police, and on the border with North Macedonia together with German police.

      - Klikaktiv continued to note a significant number of unaccompanied boys in informal settlements in the border area, particularly those younger than 14 years old, mostly from Syria.

      - Although in smaller numbers compared to refugees from Syria and Afghanistan, we continued to meet Turkish citizens who came to Serbia legally and tried to continue to the EU irregularly.

      These trends are further elaborated on in the report, as well as other information and cases from the field.

      You can download the full report here: https://drive.google.com/file/d/1nQiQvm4atW8ltpjTFTTBGeMseJvzsEO_/view

      https://klikaktiv.org
      #rapport #push-backs #refoulements

  • How we reframed learning and development: learning-based complex work
    https://redasadki.me/2023/11/04/how-we-reframed-learning-and-development-learning-based-complex-work

    The following is excerpted from Watkins, K.E. and Marsick, V.J., 2023. Chapter 4. Learning informally at work: Reframing learning and development. In #Rethinking_Workplace_Learning_and_Development. Edward Elgar Publishing. This chapter’s final example illustrates the way in which organically arising IIL (informal and #incidental_learning) is paired with opportunities to build knowledge through a combination of structured education and #informal_learning by peers working in frequently complex circumstances. Reda Sadki, president of #The_Geneva_Learning_Foundation (TGLF), rethought L&D for #immunization workers in many roles in low- and middle-income countries (LMICs). Adapting to technology available to participants from the countries that joined this effort, Sadki designed a mix of (...)

    #About_me #Global_health #Interviews #Published_articles #complexity #Karen_E._Watkins #Performance_management #Victoria_J._Marsick #workforce_development

  • Aux Canaries, l’île d’El Hierro, nouvelle porte d’entrée des migrants vers l’Espagne
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/04/aux-canaries-l-ile-d-el-hierro-nouvelle-porte-d-entree-des-migrants-vers-l-e

    Aux Canaries, l’île d’El Hierro, nouvelle porte d’entrée des migrants vers l’Espagne
    Par Sandrine Morel (El Hierro (Canaries), envoyée spéciale)
    Plus de 13 000 migrants sont arrivés dans l’archipel espagnol durant le seul mois d’octobre, dont près de 7 300 sur le territoire le plus petit, qui tente d’échapper à « l’effet Lampedusa », du nom de l’île italienne débordée par les arrivées. Coque contre coque, douze pirogues sénégalaises aux couleurs vives et autant de barques mauritaniennes sont amarrées sur la jetée du tout petit port de pêche traditionnelle de La Restinga, aux Canaries. Sur le quai, deux ouvriers, débordés, s’affairent pour les détruire et faire de la place. Longtemps, lorsque des migrants accostaient sur l’île d’El Hierro, la plus petite et la plus occidentale de l’archipel espagnol, ce n’était que par « accident », parce qu’ils s’étaient perdus dans l’immensité de l’océan Atlantique baignant les côtes rocheuses, noires et escarpées, de cet ancien volcan situé au large du sud du Maroc. A présent, non seulement ils s’y rendent volontairement mais, depuis cet été, El Hierro, qui ne compte que trois communes et moins de 10 000 habitants sur un territoire de 268 kilomètres carrés, est devenue la principale porte d’entrée en Espagne par la mer.
    « Le Maroc a renforcé la surveillance de ses côtes, et même si des canots pneumatiques et des barques continuent d’en partir, on observe une certaine reconfiguration des routes migratoires, explique Sofia Hernandez, responsable du centre de coordination de la société publique de sauvetage en mer Salvamento maritimo, à Las Palmas de Gran Canaria. En s’éloignant du littoral, pour ne pas être interceptées par les garde-côtes, avant de mettre le cap au nord, les pirogues qui partent du Sénégal se dirigent droit sur El Hierro… » Si tout va bien, après six à huit jours en mer et près de 1 500 kilomètres parcourus, les passagers, essentiellement sénégalais, mais aussi gambiens et guinéens, arrivent dans cette réserve de la biosphère.
    Durant le seul mois d’octobre, près de 7 300 migrants y ont ainsi accosté – du jamais-vu en un si court laps de temps. « Même la “crise des pirogues” de 2006 n’est pas comparable à ce qui se passe ici », explique Javier Armas, sénateur et conseiller municipal du village El Pinar, en référence aux 31 000 migrants qui, cette année-là, avaient débarqué aux Canaries. Un nombre sur le point d’être dépassé : près de 30 000 migrants sont déjà arrivés sur l’archipel entre le 1er janvier et 31 octobre. Au moins 778 sont morts ou ont disparu durant le premier semestre lors de la traversée périlleuse, selon le collectif d’aide aux migrants Caminando Fronteras.
    Bacari Djassi y a échappé de peu. Parti en avril 2021 de Nouakchott, en Mauritanie, à bord d’un bateau de pêche où 65 migrants comme lui avaient pris place, le périple de ce jeune Sénégalais, alors âgé de 16 ans, devait durer quatre ou cinq jours. « Au sixième jour, on a compris que l’on s’était perdus. On n’avait plus rien à boire ni à manger. Un premier passager est mort après avoir bu de l’eau de mer. Les jours suivants, il a fallu jeter à l’eau 17 corps… », explique le jeune homme, originaire de Kolda, en Casamance.
    Au douzième jour, un chalutier les a finalement repérés au large d’El Hierro. « Quand les secours nous ont amenés au port, personne ne pouvait marcher, sauf le capitaine et ses deux amis, qui avaient gardé de l’eau », se souvient Bacari Djassi, assis sur un muret qui domine la mer à Valverde, la capitale de l’île. Après deux ans dans un centre d’accueil pour mineurs isolés, il y vit désormais avec sa petite amie espagnole et leur bébé de 2 mois. Volontaire à la protection civile, il aide les secouristes et fait partie du club de lutte canarienne, revitalisé grâce à la venue des jeunes migrants.
    Eviter un « effet Lampedusa » Comme lui, Siny Diop, Sénégalais de 22 ans, fait partie des « anciens » arrivés avant la vague de cet été qui se sont intégrés. Embauché dans une exploitation de bananiers avec trois autres compatriotes, il gagne près de 1 100 euros par mois, paie 250 euros de loyer et envoie 150 euros à sa famille. Il économise le reste, avec l’espoir un jour de retourner monter un négoce au Sénégal. En attendant, il joue dans la petite équipe de football Atletico El Pinar.
    Sur l’île, longtemps très pauvre, les arrivées de migrants ont d’abord suscité une vague de solidarité. « Nous avons tous des grands-parents ou des arrière-grands-parents qui ont émigré à Cuba ou au Vénézuéla pour fuir les pénuries et nous savons ce que signifie chercher ailleurs un avenir meilleur », rappelle Francis Mendoza, chef des volontaires des services de protection civile qui n’a pas hésité à écourter ses vacances pour revenir prêter main-forte à ses collègues cet été. Javier Armas souligne toutefois qu’il « faut prendre garde à ce que les services publics suivent et que les habitants ne se sentent pas délaissés. Les pêcheurs, les centres de plongée et les hôteliers sont gênés. Le port est encombré, la rade polluée, et le personnel de la Croix-Rouge, les volontaires et les capitaines de bateaux de sauvetage sont épuisés ».
    Prise de court cet été, la population a vu le médecin et l’infirmière de garde de l’unique centre médical de Valverde mobilisés pour soigner les migrants, qui souffrent souvent de brûlures et des symptômes de déshydratation. Depuis, une équipe a été envoyée en renfort, mais le petit hôpital de 20 lits reste sous tension et les hôteliers du port de La Restinga craignent que les touristes fuient l’île. Le président du parti d’extrême droite Vox, Santiago Abascal, a d’ores et déjà tenté de récupérer politiquement ces tensions lors d’une visite à La Restinga, le 19 octobre, pour dénoncer « l’invasion migratoire ».
    Malgré les défis posés par les arrivées de migrants, tout est fait pour éviter sur l’île d’El Hierro un « effet Lampedusa », du nom de l’île italienne débordée par les arrivées. Une fois identifiés par la police dans le centre d’accueil précaire aménagé sous une vaste tente, dans l’ancien pavillon des sports de San Andres, les adultes sont transférés en moins de soixante-douze heures sur l’île de Tenerife, plus grande et mieux préparée, avec un ordre d’expulsion en poche – peu effectif étant donné les difficultés posées par les pays d’origine pour accepter les rapatriements. Lorsque les capacités d’accueil des Canaries sont atteintes (6 300 places), ils sont envoyés sur la péninsule, où des ONG leur procurent un hébergement durant un mois. Le gouvernement espagnol prévoit d’ouvrir 11 000 places supplémentaires.
    Devant le centre de migrants de Las Canteras, installé dans une ancienne caserne militaire à 15 kilomètres au nord de Santa Cruz de Tenerife, les Sénégalais Oussénou Bouich, pêcheur, et Moussa N’Diaye, soudeur, tous deux âgés de 20 ans, et Daouda Gningue, conducteur d’engin agricole, arrivés il y a moins d’une semaine après avoir payé entre 400 000 et 450 000 francs CFA (environ 680 euros), attendent avec impatience de gagner le continent et de poursuivre leur route. Ils partagent le même souhait de trouver « du travail » et « une bonne vie » à Madrid, Paris, Londres ou Berlin. Plus que la crise politique qui secoue le Sénégal, ils disent fuir « la misère » et « le manque d’espoir ».Sur l’île d’El Hierro, seuls restent les mineurs isolés, placés sous la tutelle des régions. Ils sont ainsi près de 260, actuellement, répartis entre une résidence étudiante, une ancienne garderie et d’autres sites provisoires. « Les habitants sont très empathiques mais nous n’avons pas les moyens matériels d’accueillir, de scolariser et d’intégrer socialement autant d’enfants. Si nous voulons le faire bien, nos capacités ne nous permettent pas de prendre en charge plus d’une cinquantaine d’entre eux », estime le président socialiste du cabildo, le gouvernement insulaire, Alpidio Armas. Le ministre de l’intérieur espagnol, Fernando Grande-Marlaska, qui met la recrudescence des arrivées sur le compte de l’« instabilité dans le Sahel », s’est rendu le 30 octobre à Dakar afin de renforcer les mécanismes de lutte contre les réseaux de trafic de migrants et tenter de réactiver les vols de rapatriement, très impopulaires pour les gouvernements africains. Au contingent de 33 gardes civils et de 5 policiers espagnols – dotés de quatre embarcations, d’un hélicoptère et de 13 véhicules tout-terrain – qui collaborent avec les autorités sénégalaises, s’est ajouté, le 17 octobre, un avion de la garde civile pour surveiller les côtes sénégalaises et mauritaniennes. Sur l’île d’El Hierro, ces derniers jours, seul le mauvais temps en mer a été capable de ralentir le rythme des arrivées.

    #Covid-19#migration#migrant#espagne#canaries#iledelhierro#routemigratoire#traversee#atlantique#maroc#mauritanie#senegal#casamance#kolda#sahel#migrationirrreguliere#rapatriement#politiquemigraroire

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • Menschen wie Sand am Meer, Ihre Kinder 1970
    https://www.youtube.com/watch?v=y0sv93-Ps-k

    Ich steh hier im Keller
    Wasser bis zum Knie
    Überall stehen Trümmer
    Schlimmer wars noch nie

    Jeder will mal treten
    Doch nach oben nie
    Manche jagt der Feuerhund
    Wie das Federvieh

    Es gibt Menschen wie Sand am Meer
    Keiner sieht den anderen mehr
    Menschen wie Sand am Meer
    Niemand sieht das Ufer mehr

    Alle Köpfe reden
    Sich die Augen wund
    Jeder läßt sein Wasser
    Jeder spielt gesund

    Eine müde Seele
    Legt sich in ihr Grab
    Irgendwo im Dunkel
    Weint ein neuer Tag

    Es gibt Menschen wie Sand am Meer
    Keiner sieht den anderen mehr
    Menschen wie Sand am Meer
    Niemand sieht das Ufer mehr

    Fass mich an
    Bist du auch wirklich da
    Fass mich an
    Bist du auch wirklich da

    Ihre Kinder
    https://de.wikipedia.org/wiki/Ihre_Kinder

    Ihre Kinder war eine deutsche Rockband der späten 1960er und vor allem der frühen 1970er Jahre aus Nürnberg. Sie gilt als Pionier der deutschsprachigen Rockmusik. Sie wird dem Krautrock zugeschrieben. Ihre Musik beinhaltete jedoch Elemente aus klassischem Rock, Folk und Jazzrock.

    #Allemagne #Krautrock

  • Museum der Dinge in Berlin: Gentrifizierung schlägt zu – Immobilienfonds kündigt Kreuzberger Institution
    https://www.berliner-zeitung.de/kultur-vergnuegen/museum-der-dinge-in-berlin-gentrifizierung-schlaegt-zu-immobilienfo

    2.11.2023 von Timo Feldhaus - Dem Museum der Dinge wurde von einem Immobilienfonds gekündigt. Tipp: Bis Sonntag kann man es noch in Kreuzberg besuchen. Und was geschieht danach?

    In diesem Jahr feierte die kleine, aber sehr feine Ikone des guten Geschmacks noch ihr 50-jähriges Jubiläum. Nun muss die Kreuzberger Institution mit dem immer leicht umständlichen Namen „Werkbundarchiv – Museum der Dinge“ raus. Ein Imobilienfonds aus Luxemburg hat das Haus auf der Oranienstraße, in dem auch die legendäre Buchhandlung Kisch & Co. einst Mieter war, gekauft. Jetzt müssen sie im Eiltempo ihre Sachen packen.

    Eine Interimslösung wurde im letzten Moment gefunden: Im Mai kann das Museum der Dinge auf der Leipziger Straße in Mitte wieder öffnen. So viel Platz wie in Kreuzberg wird dort allerdings nicht sein, sagt die Museumsleiterin Florentine Nadolni bei einem Besuch, um die etwa 20.000 Objekte und mehr als 45.000 Dokumente vom Archiv des Werkbunds zu zeigen – jene 1907 von Künstlern, Industriellen und Kulturpolitikern gegründete Vereinigung, deren revolutionär schlichte und mehrheitlich wunderschöne Produkte den Kern der Sammlung ausmachen. In Berlin, so die Leiterin, sei es das einzige Museum mit Gestaltungsschwerpunkt, das Design- und Alltagsgegenstände aus West- und Ostdeutschland gleichwertig zeigt und in Zusammenhang bringt.

    Die Welt in Ordnung im Museum der Dinge

    Bis zum Sonntag kann man sich die gesammelte Herrlichkeit der Produktkultur des 20. und 21. Jahrhunderts noch ansehen, von denen einige schon aus den Vitrinen in Kartons geräumt sind. Sie stehen abfahrbereit an der Wand. Zudem gibt es noch eine Sonderausstellung zu sehen: „Die Röhre“ des Architekten Günther L. Eckert. Seine Pläne für eine oberirdische, die Erdkugel umspannende Röhre, in der die gesamte Menschheit leben sollte. Ein furioser, utopischer Entwurf, der gut ins Heute passt. Als Eckert ihn Anfang der 1980er entwarf, war die Weltbevölkerung erst halb so groß wie heute. Am Sonntag um 19 Uhr, bevor hier die Lichter ausgehen, wird noch etwas Musik gespielt und Wein gereicht. Bis dahin sollte man unbedingt noch einmal vorbeischauen.

    #Berlin #Kreuzberg #Oranienstraße #Gentrifizierung #Museum

  • Bangladesh : « Ce qui frappe dans les camps de réfugiés de Rohingya, c’est l’abandon d’un peuple et la déstructuration sociale »

    L’annonce faite par Emmanuel Macron lors de son voyage au Bangladesh, le 11 septembre, d’augmenter d’un million d’euros la contribution française aux activités du Programme alimentaire mondial dans les camps de Rohingya de ce pays est-elle à la hauteur de la situation ?

    Rappelons-nous. Il y a six ans, des centaines de milliers de Rohingya quittaient l’Etat de Rakhine [Arakan] au #Myanmar, l’ex-Birmanie. Ils fuyaient les massacres, les viols, les incendies de leurs maisons commis pendant l’offensive militaire lancée en août 2017. A la fin de cette même année, plus de 700 000 nouveaux réfugiés étaient arrivés dans le district de #Cox’s_Bazar, dans le sud-est du #Bangladesh. Ils rejoignaient les 200 000 réfugiés rohingya issus de déplacements antérieurs.

    Pour accueillir ces populations, un camp entre jungle et rizières est sorti de terre. #Kutupalong-Balukhali est aujourd’hui le plus grand camp de réfugiés au monde. Il se compose de plusieurs sites contigus dont les artères centrales en brique et en ciment débouchent sur des ruelles étroites. Là, les familles vivent dans de petites habitations faites de bambou et de bâches.

    Toute une série de restrictions

    Certaines sont posées à flanc de colline et donc exposées aux glissements de terrain, conséquence des pluies diluviennes qui peuvent s’abattre pendant la mousson. Les points d’#eau_potable, certes nombreux, ne sont ouverts que quelques heures par jour, et il est fréquent de voir des disputes s’y dérouler. Quelle ironie dans cette région parmi les plus humides au monde. Parfois, on surprend le long des frontières du camp les barbelés qui nous rappellent qu’il s’agit d’un bidonville semi-fermé.

    Si le Bangladesh a ouvert ses portes aux réfugiés, il les soumet à toute une série de restrictions. Les boutiques rohingya qui fleurissent le font selon le bon vouloir de la police qui peut les fermer au motif qu’elles n’ont pas été autorisées. Les déplacements à l’intérieur de Kutupalong, même d’un camp à l’autre, sont extrêmement limités. Il est en outre interdit aux Rohingya de travailler, bien qu’un grand nombre d’entre eux le fassent.
    Ils sont alors à la merci de la #police, des #bakchichs et des #arrestations. L’éducation est par ailleurs très encadrée. De multiples obstacles sont posés à l’enregistrement des naissances. L’approche du gouvernement à l’égard des camps est un mélange ambigu de tolérance et de prohibition : cette élasticité laisse les Rohingya dans un état d’incertitude perpétuelle.

    Le #contrôle_social auquel sont soumis les réfugiés est aussi le fait des groupes politico-criminels rohingya qui pullulent dans le camp et dont la présence, ces dernières années, s’est faite plus intense. Ces groupes sont en conflit ouvert pour le contrôle du trafic de yaba. Ce mélange de méthamphétamine et de caféine est principalement produit au Myanmar, et le Bangladesh est l’un des principaux marchés où circule cette drogue.

    Viols et violences

    Le déploiement humanitaire est impressionnant, mais l’engagement des donateurs s’amenuise. Le mois dernier, le « Plan de réponse conjoint » 2023 élaboré par les Nations unies et le gouvernement n’était financé qu’à hauteur de 30 %. Entre mars et juin, les allocations alimentaires mensuelles – des paiements en espèces reçus sur une carte SIM – sont passées de 12 à 8 dollars par personne.

    Cette réduction a pour conséquence d’entraver la capacité des réfugiés d’acheter des produits frais sur le marché et des vêtements. Il faut trouver de quoi manger, coûte que coûte, ce qui amène les réfugiés à se livrer à des activités illicites – cambriolages et trafics en tout genre.

    Les conséquences du sous-investissement par les bailleurs de fonds sont aussi médicales et viennent s’ajouter à celles de l’augmentation de la population dans un espace qui, lui, ne s’accroît pas. Chaque année, y naissent entre 30 000 et 35 000 #bébés. Du fait de la densité des lieux et de la faiblesse des services sanitaires, il est estimé que 40 % de la population du camp souffre de la #gale. La fermeture de certains services de #santé a pour effet d’engorger les structures qui se maintiennent.

    Les #femmes seules, comme les personnes âgées et handicapées, sont parfois contraintes de payer des services pour des tâches qu’elles n’ont pas la possibilité d’accomplir seules : réparer leur maison, porter la bouteille de gaz du point de distribution jusque chez elles en dépit de l’existence d’une assistance prévue pour combler une partie de ces besoins spécifiques. Les femmes sont vulnérables aux #viols et aux violences – les cas sont nombreux et loin d’être mis au jour.

    Un « facteur d’attraction »

    Il est difficile d’imaginer que l’engagement présidentiel français modifiera la donne. Cela nécessite un tout autre investissement. La survie d’un peuple, condamné à vivre dans ces conditions de nombreuses années encore, relève du génie. Ce qui frappe dans les camps de réfugiés rohingya de Cox’s Bazar, ce sont moins les limites du système de l’aide que l’abandon d’un peuple et sa conséquence : la déstructuration sociale.

    La plupart des réfugiés espèrent retourner au Myanmar, une étape qui ne pourra être franchie que lorsque leurs terres et leur nationalité, dont ils ont été privés en 1982, leur seront restituées. Certains se résolvent malgré tout à rentrer clandestinement au Myanmar où ils s’exposent aux violences commises par les autorités birmanes.
    Quelques-uns ont bénéficié de rares opportunités de réinstallation dans d’autres pays, comme le Canada ou les Etats-Unis, mais le gouvernement bangladais a suspendu le programme de réinstallation en 2010, arguant qu’il agirait comme un « facteur d’attraction ». Les initiatives récentes visant à relancer le processus ont été timides.
    Une possibilité est la traversée risquée vers la #Malaisie, un pays qu’un nombre croissant de Rohingya à Kutupalong considère comme une voie de salut. Pour la très grande majorité des réfugiés, il ne semble n’y avoir aucun avenir à moyen terme autre que celui de demeurer entre deux mondes, dans ce coin de forêt pétri de #dengue et de #trafics en tout genre.

    Michaël Neuman est directeur d’études au Centre de réflexion sur l’action et les savoirs humanitaires (Crash) de la Fondation Médecins sans frontières.
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/31/bangladesh-ce-qui-frappe-dans-les-camps-de-refugies-de-rohingya-c-est-l-aban

    Massacre des Rohingya : « Facebook a joué un rôle central dans la montée du climat de haine » en Birmanie
    https://www.lemonde.fr/pixels/article/2022/09/29/massacre-des-rohingya-facebook-a-joue-un-role-central-dans-la-montee-du-clim
    https://archive.ph/DMWO8

    Au Bangladesh, l’exil sans fin des Rohingya
    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/12/16/au-bangladesh-l-exil-sans-fin-des-rohingya_6154745_3210.html
    https://archive.ph/xKPyh

    #camp_de_réfugiés #Birmanie #Rohingya #réfugiés #musulmans #barbelés #drogues #déchéance_de_nationalité #aide_humanitaire #Programme_alimentaire_mondial

  • Neue Ausstellung: Berlinische Galerie zeigt Jeanne Mammens „Café Reimann“
    https://www.tagesspiegel.de/berlin/berlinische-galerie-zeigt-jeanne-mammens-cafe-reimann-3889012.html

    Der Taxihalteplatz Kudamm-Leibnitz, auch als Leiku bekannt, hieß in der Nachkriegszeit „Reimann“ nach dem nahegelegen Cafe am Kurfürstendamm. Überliefert ist die Adresse Kurfürstendamm 62 Ecke Giesenrechtstraße.

    https://www.openstreetmap.org/node/3455613474#map=17/52.50053/13.31240

    Ebenfalls belegt ist die Lage in Fahrtrichtung rechts hinter der Einmündung der Konstanzer Straße beziehungsweise des Olivaer Platz im Eckhaus mit der Nummer 182, welches einem Neubau Platz.machen musste.

    25.10.2017 Andreas Conrad - Man darf wohl annehmen, dass die Zahl derer, denen das Geräusch eines Diesel-Motors wie Musik in den Ohren klingt, stark im Sinken begriffen ist. Aber an dem Haus in der Charlottenburger Kantstraße 153 hängt nun mal nur eine Gedenktafel, nach der dort der Ingenieur Rudolf Diesel 1893/94 gewohnt und gearbeitet habe.

    Kein Hinweis hingegen auf den von diesem Haus inspirierten Beitrag zur leichten Muse, dem unsere Großväter und Großmütter einen noch immer nachklingenden Ohrwurm verdankten: „In einer kleinen Konditorei / da saßen wir zwei bei Kuchen und Tee / Du sprachst kein Wort, kein einziges Wort / und wusstest sofort, dass ich Dich versteh!“

    Natürlich kam die Inspiration nicht vom Haus an sich, vielmehr von dem in Berlin einst wohlbekannten Café Reimann, das dort 1919 von dem aus Ostpreußen nach Berlin gezogenen Walter Reimann eröffnet worden war, Keimzelle einer hier bald florierenden Konditorei-Kette. Heute befindet sich dort das österreichische Restaurant Ottenthal, in den zwanziger Jahren aber verkehrte in dem Café neben Prominenten wie Kurt Tucholsky und Carl von Ossietzky auch der Schriftsteller und Liedtexter Ernst Neubach.
    „In einer kleinen Konditorei“

    Dem muss die anheimelnde Atmosphäre so gefallen haben, dass er zu den von Vico Torriani, Max Raabe und vielen anderen nach einer Melodie von Fred Raymond gesungenen Zeilen angeregt wurde. In den Erinnerungsstücken, die Walter Christian Reimann, in Schöneberg lebender Sohn des Konditors, zur Firmen- und Familiengeschichte besitzt, befindet sich auch eine Widmung Neubachs, des „Verfassers der ,Kleinen Konditorei’“, wie er schreibt – ein nachträgliches Dankeschön für die anregenden Mußestunden im Kaffeehaus.

    Man fand die Cafés Walter Reimanns in den zwanziger Jahren auch am Kurfürstendamm 35 und 182 sowie am Hausvogteiplatz 1, und 1931 wurde eine Filiale im Kaufhaus Nathan Israel eröffnet, das war ein imposanter Komplex gleich rechts neben dem Roten Rathaus, das älteste und zeitweise größte Kaufhaus Berlins. Nach dem Krieg gelang ein Neubeginn am Kurfürstendamm 62, nach Reimanns Tod 1957 wurde das zwischen Leibniz- und Giesebrechtstraße gelegene Café noch zehn Jahre von seiner Witwe weitergeführt.

    Lange versunkene Stadtgeschichte, nun aber durch die kürzlich eröffnete Ausstellung zur Malerin Jeanne Mammen wieder ein wenig dem Vergessen entrissen. Denn zu den in der Berlinischen Galerie gezeigten Werken gehört auch das um 1931 entstandene, in Berlin nie zuvor öffentlich gezeigte Aquarell „Café Reimann“. Es war 1931 in Curt Morecks „Führer durch das ,lasterhafte’ Berlin“ erschienen und befindet sich im Besitz der Morgan Library & Museum in New York. Wie berichtet, hatte das Museum zur Finanzierung des Transports einen erfolgreichen Spendenaufruf veröffentlicht.


    Kurfürstendamm 35 ?

    Koksöfen im Vorgarten

    Man sieht auf dem Aquarell ein etwas trist dreinblickendes Paar an einem Tisch vor dem Café Walter Reimann am Kurfürstendamm 35, wo sich heute das Hotel California befindet. Das Café ist auf dem Bild leicht identifizierbar an dem angeschnittenen Namenszug und einem der Koksöfen, Vorgängern der modernen Heizstrahler, die Reimann vor seinem damaligen Haupthaus aufgestellt hatte.

    Besonders diese Öfen, wie man sie von Pariser Cafés kannte, haben dem Publikum damals imponiert. Sie inspirierten sogar den Bühnenbildner des vom Komponisten Rudolf Nelson geleiteten Theaters am Kurfürstendamm 217 zu einer Kulisse für die Revue „Tombola“. In dem ehemaligen Astor-Kino, wo sich heute eine Tommy-Hilfiger-Filiale befindet, wärmte sich 1929 Hans Albers mit seinen Kollegen Otto Wallburg und Willi Schaeffers am Koksofen.


    Das erste Reimann-Kaffeehaus, an das das Lied „In einer kleinen Konditorei“ erinnert, befand sich aber in der Kantstraße 153

    ( heute / 2023 https://www.ottenthal.com )

    Auch Albers verkehrte bei Reimann, vom Theater zum Café hatte er es ja nicht weit: einmal quer über den Kurfürstendamm. Weiter zählten Prominente wie Alfred Kerr, Friedrich Hollaender, die noch unbekannte Marlene Dietrich und Camilla Spira zu den Gästen. Auch viele Juden waren darunter, was das Café am 12. September 1931, als der Boulevard zum Schauplatz massiver Krawalle der Nazis unter Gauleiter Joseph Goebbels wurde, zu einem heftig attackierten Angriffsziel machte. Das Mobiliar im Vorgarten wurde demoliert, die große Schaufensterscheibe zertrümmert, innen sollen sogar zwei Schüsse gefallen sein.

    „Onkel Emil“ leistet Widerstand

    Walter Reimann selbst war kein Jude. Den Nazis stand er ablehnend gegenüber, verweigerte sich der Ausgrenzung der Juden, solange es irgendwie ging, leistete später mit seiner Frau Charlotte aktiven Widerstand. Als Ullstein-Bildredakteurin hatte sie die Journalistin Ruth Andreas-Friedrich kennengelernt, bekam dadurch Kontakt zu der von dieser und dem Dirigenten Leo Borchard 1938 gegründeten Widerstandsgruppe „Onkel Emil“. Dieses nie aufgeflogene Netzwerk unterstützte die zunehmend verfolgten Juden mit Verstecken, Papieren und Essen.

    Gerade Walter und Charlotte Reimann hatten als Betreiber von Kaffeehäusern einige Möglichkeiten, Lebensmittel zu organisieren, halfen zudem Hilde Waldo, der späteren Sekretärin des emigrierten Schriftstellers Lion Feuchtwanger, bei ihrer Ausreise in die USA. Die Gruppe „Onkel Emil“ wurde auch in der Gedenkstätte „Stille Helden – Widerstand gegen die Judenverfolgung 1933 – 1945“ gewürdigt, die unlängst in der Rosenthaler Straße 39 in Mitte geschlossen wurde und im Januar in der Gedenkstätte Deutscher Widerstand in der Tiergartener Stauffenbergstraße 13/14 in erweiterter Form wiedereröffnet werden soll.

    Die Erinnerung an Walter und Charlotte Reimann wird also fortleben, wenn Jeanne Mammens „Café Reimann“ längst wieder nach New York zurückgekehrt ist. Und irgendwann dürfte sicher auch mal wieder das aus den späten Zwanzigern herüberwehende Lied von der kleinen Konditorei im Radio erklingen, melancholische Verse „von Liebesleid und Weh“.

    „Jeanne Mammen. Die Beobachterin. Retrospektive 1910 – 1975“, Berlinische Galerie, Alte Jakobstraße 124 – 128 in Kreuzberg, bis 15. Januar, mittwochs bis montags, 10 – 18 Uhr

    Berlin-Charlottenburg, Kurfürstendamm, 1953
    https://www.flickr.com/photos/lautenschlag/8277548761

    Flickr

    "[...] Die vier Cafés, die W.alter Reimann vor dem Krieg betrieben hatte, waren alle zerstört worden. Doch noch im Jahre 1945 eröffnete er am Olivaer Platz, Kurfürstendamm 62, ein neues „Café Reimann“. Mit seiner guten Küche wurde es in den einfach eingerichteten aber großzügigen und freundlichen Räumen schnell wieder zu einem renommierten Haus. In den siebziger Jahren zogen die „Mozart-Terrassen“ in diese Räume, ein Café, das sich jedoch am recht unattraktiven Olivaer Platz nicht lange halten konnte. Eine unkonventionelle Gaststätte unternahm in den achtziger Jahren den Versuch, sich an dieser Stelle zu etablieren, konnte sich aber auch nicht lange halten. Seit einigen Jahren hat in dem renovierten, hellgelb gestrichenen Haus das Nobel-Schuhgeschäft „Magli“ eine Filiale. [...]"

    aus:
    Der Kurfürstendamm : Gesichter einer Straße / Regina Stürickow. - Berlin: Arani-Verl., 1995

    In dieser Version von In einer kleinen Konditorei (Georg Kober - 1929) geht es um den Boulevard des Capucines in Paris nicht um Kurfürstendamm oder Kantstraße. Die hat wohl eher Vico Toriani durch Weglassen der ersten Strophe in den Fünfzigern ins Spiel gebtacht.
    https://www.youtube.com/watch?v=BVw_7u29uA4

    Auch diese akkordeonlastige Version des Saxophonorchesters Dobbri von 1928 klingt eher nach Pariser musette als nach einem Berliner Gassenhauer .
    https://www.youtube.com/watch?v=uj7eQFfN8V4&pp=ygUgaW4gZWluZXIga2xlaW5lbiBrb25kaXRvcmVpIDE5Mjg%3D

    https://www.openstreetmap.org/way/68915107#map=17/48.87045/2.33105

    #Berlin #Charlottenburg #Kurfürstendamm #Konstanzer_Straße #Olivaer_Platz #Kantstraße #Geschichte #Gastronomie #Konditorei #Nazis #Widerstand #Taxihalteplatz

    #Boulevard_des_Capucines #Paris #Gassenhauer

  • Trois migrants tués dans une fusillade à la frontière entre la Serbie et la Hongrie - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/52889/trois-migrants-tues-dans-une-fusillade-a-la-frontiere-entre-la-serbie-

    Trois migrants tués dans une fusillade à la frontière entre la Serbie et la Hongrie
    Par La rédaction Publié le : 30/10/2023
    Trois migrants sont morts et un quatrième a été blessé vendredi dans une fusillade survenue près de la frontière entre la Serbie et la Hongrie. La zone est souvent le théâtre d’affrontements entre réseaux de passeurs et exilés, qui tentent d’entrer en Hongrie, membre de l’Union européenne, pour continuer leur route vers l’ouest. Un affrontement entre migrants a tourné au drame vendredi 27 octobre en Serbie, près de la frontière avec la Hongrie. Une fusillade s’est produite dans les bâtiments d’une ferme abandonnée près du village frontalier de Horgos. Trois exilés ont été tués et un quatrième a été blessé, a rapporté la télévision étatique RTS. La personne blessée a été transportée à l’hôpital et une enquête a été ouverte pour faire la lumière sur ce drame. La nationalité des victimes n’a pas été précisée. D’importants effectifs policiers ont été dépêchés dans la zone, où se sont produits ces derniers mois des heurts parfois meurtriers entre réseaux de passeurs et groupe de migrants. Les actions de la police visent à « freiner la migration irrégulière et à élever le niveau de sécurité dans cette partie du pays, où les affrontements entre migrants sont fréquents, parfois avec usage d’armes à feu », a indiqué la police dans un communiqué.
    Quelques heures après l’incident, quatre ressortissants afghans et deux Turcs, soupçonnés de possession illégale d’armes à feu et d’explosifs, ont été interpellés, a annoncé la police. On ne sait pas en revanche si ces arrestations sont liées à la fusillade.Lors de la descente de police dans la région, deux fusils automatiques et des munitions ont été saisis. Soixante-dix-neuf exilés ont également été découverts et transférés vers des centres d’accueil du pays, a précisé la police dans le même communiqué. Samedi, deux personnes originaires du Kosovo, accusées de trafic de migrants et d’avoir fourni des armes, ont été interpellées. Les policiers ont par ailleurs trouvé 54 passeports turcs. En visite dans la région, le ministre de l’Intérieur, Bratislav Gasic, a promis que « nous ne bougerons pas d’ici tant que toutes les personnes responsables d’un acte ou d’un incident criminel n’auront pas été éliminées ».
    C’est dans cette zone frontalière que des centaines de migrants squattent dans des bâtiments abandonnés avant de tenter de franchir la frontière avec la Hongrie, membre de l’Union européenne (UE). Ils continuent ensuite leur route vers l’Europe de l’Ouest.
    La frontière serbo-hongroise se situe sur la route migratoire terrestre des Balkans vers l’Europe occidentale, qui mène de la Turquie à la Grèce et à la Bulgarie, puis à la Macédoine du Nord, à la Serbie ou à la Bosnie.La police serbe a effectué des descentes dans la zone frontalière à plusieurs reprises au cours des derniers mois, arrêtant des passeurs présumés et confisquant des armes. Le président Aleksandar Vucic a déclaré vendredi que la Serbie pourrait faire appel à l’armée « pour résoudre ce problème », a rapporté la télévision d’État RTS.

    #Covid-19#migrant#migration#hongrie#balkan#mortalite#routemigratoire#mortalite#kosovo#serbie#frontiere#turquie#grece#bulgarie#macedoine#bosnie

  • ★ BONS BAISERS KROPOTKINIENS DE RUSSIE - Socialisme libertaire

    De tous les “grands” noms des révolutionnaires anarchistes, Kropotkine est l’un des rare à être régulièrement cité et parfois mis en avant par des “non-révolutionnaires”.
    Ce qu’il leur plaît c’est son livre “L’Entraide”.
    Très bon livre. A première vue, super bien s’il se popularise. Tant mieux. Surtout que ce livre détruit le concept socio-darwiniste du néolibéralisme (ex : « il faut évoluer », comme des pokémons ?)
    Mais Kropotkine c’est un tout, cela ne s’arrête pas à de la solidarité. Kropotkine c’est aussi le renversement des injustices par la lutte, c’est combattre la morale ambiante qui pèse sur l’individu.
    C’est la destruction de ce système économique, des institutions religieuses pour établir l’Egalité sociale et la liberté individuelle et collective. On ne peut ignorer, sans devenir un charlatan et un escroc, qu’anarchiste, Kropotkine milite pour le communisme anarchiste (entendre : une mise commun sans hiérarchie étatique). Ce combat contre les injustices morales et sociales de l’État et du Capitalisme passe par l’Expropriation des richesses. Expropriation qui est la pierre angulaire de la solution collective, aussi bien concernant les inégalités économiques que les drames écologiques. On est loin de la secte Rabhi avec son histoire pathétique de colibri à seau d’eau ! Kropotkine, lui, envoie les canadairs ! Et détruit la source du problème (...)

    #Kropotkine #anarchisme #anarchie #communisme_anarchiste

    https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/09/bons-baisers-kropotkiniens-de-russie.html

  • Homohass im Regenbogenkiez doch keine Volks­verhetzung?
    https://www.queer.de/detail.php?article_id=37569

    Gestern Abend in Schöneberg, Pallasstraße 21, koreanischer Imbiß „IXTHYS“, Vorabend zu Halloween

    Die Wände des Ladens sind mit eng religiös beschriebenen Behängen gefüllt, die an das Gekritzel eines Doktor Mabuse oder Marquis de Sade in seiner Zelle erinnern.


    Einzelne, von außen sichtbare religiöse Parolen lauten ...

    – Jesus sprach : „Die Starken bedürfen des Arztes nicht, sondern die Kranken.“
    – Ich bin gekommen, die SÜNDER zu rufen und nicht die Gerechten

    – Die Botschaft von der Auferstehung, als Überschrift einer langen, von der Decke bis zum Boden reichenden Banderole
    – Die Botschaft vom Kreuz reicht hinunter bis zu einem Wandtresen mit Besteck.

    Wie gruselig ist das denn! Heute Abend gehe ich als fetter, blutverschmierter Jesus, mit Stigmata und Wunde über dem Herz, kaum bekleidet, wie die Kinder Süßes und Saures sammeln. Halleluja ! Um den Hals hänge ich mir ein paar eucharistischen Fische, die sind echt und stinken schon, weil sie zweitausend Jahre lang vergeblich versucht haben, die Armen zu ernähren. Klappt bis heute nicht, und so können sie nur noch meinem Jesuskostüm sein besonderes Aroma verleihen.

    Mal sehen, wie weit ich komme, besonders wenn ich meinen Schwanz aus dem Lendenschurz baumeln lasse. Hei, das wird ein Spaß!
    Es lebe die Religionsfreiheit !

    21.11.2020 von Micha Schulze - Das Landgericht Berlin erklärte die Hausdurchsuchung im koreanischen Imbiss „Ixthys“ wegen homofeindlicher Bibelverse für rechtswidrig. Auch die Staatsanwaltschaft ruderte zurück.

    Eine homofeindliche Provokation mitten im Berliner Regenbogenkiez bleibt vermutlich ohne Konsequenzen. Laut einem Bericht des Kirchenportals katholisch.de stuft die Berliner Staatsanwaltschaft die im Schaufenster des koreanischen Imbiss-Restaurants „Ixthys“ angebrachten Bibelverse nicht mehr als Volksverhetzung ein.

    Das Landgericht Berlin erklärte zudem die im Spätsommer erfolgte Hausdurchsuchung im Lokal für rechtswidrig. Die Voraussetzung für den Durchsuchungsbeschluss des Amtsgerichts habe mangels Anfangsverdacht nicht vorgelegen, heißt es laut katholisch.de in der Urteilsbegründung.

    „Sollen ausgetilgt werden aus der Mitte ihres Volkes“

    Der Imbiss der gebürtigen Koreanerin und Fundi-Christin Park Young-Ai in der Pallasstraße ist komplett mit Bibelzitaten tapeziert. Der Name „Ixthys“ ist altgriechisch für „Fisch“, ein Erkennungszeichen für Christ*innen.

    Anlass der noch laufenden Ermittlungen war ein Bibelzitat aus dem 3. Buch Mose, das auch als Levitikus bekannt ist. „Und einem Mann sollst Du nicht beiliegen, wie man einem Weib beiliegt; Greuel ist dies“, ist im Schaufenster des Imbisses auch von der Straße aus zu lesen. Weiter heißt es: „Jeder, der einen von allen diesen Gereueln tut – die Personen, die sie tut, sollen ausgetilgt werden aus der Mitte ihres Volkes.“ Die drei Worte „Greuel ist dies“ hob die Wirtin farblich hervor.

    Die Wirtin „möchte, dass alle Menschen zu Gott finden“

    Das homofeindliche Plakat hatte bereits im Juli für einigen Medienwirbel gesorgt (queer.de berichtete). Unter der Überschrift „Die Schande von Schöneberg“ berichtete u.a. das Boulevardblatt „B.Z.“ über die homofeindliche Agitation der 71-jährigen Wirtin. LGBTI-Aktivist*innen, etwa vom Lesben- und Schwulenverband Berlin-Brandenburg, forderten die Betreiberin auf, das Bibelzitat zu entfernen.

    Park Young-Ai blieb jedoch stur: „Ich bin sehr gläubig und möchte, dass alle Menschen zu Gott finden“, erklärte die Koreanerin Anfang Juli in einem Statement. „Ich verurteile homosexuelle Menschen nicht, aber wenn sie Gottes Willen nicht befolgen, werden sie nicht das ewige Leben, sondern die ewige Hölle erfahren müssen.“ Sie habe auch kein Problem damit, Lesben und Schwule zu bedienen.

    Das Amtsgericht sah einen klaren Anfangsverdacht

    Das Amtsgericht Tiergarten hatte im Sommer einen klaren Anfangsverdacht auf Volks­verhetzung gesehen. „Der Beschuldigten kam es gerade darauf an, durch die Auswahl des Bibelzitats und die Hervorhebung der genannten Passage ihre homophobe und menschenfeindliche Haltung öffentlich zum Ausdruck zu bringen“, heißt es in dem vom Landgericht nun für rechtswidrig erklären Durchsuchungsbeschluss. Der Wirtin sei bewusst gewesen, dass ihr Restaurant „in unmittelbarer Nähe zum Winterfeldplatz und damit im Zentrum der LSBTI-Community Berlins“ liege, wo viele schwule Männer lebten oder ausgingen, so hatte das Amtsgericht argumentiert. „Sie nahm wenigstens billigend in Kauf, dass das Bibelzitat geeignet ist, Hass und Gewalt gegen schwule Männer hervorzurufen oder zu verstärken.“

    The Last Temptation of Christ (1988)
    https://www.youtube.com/watch?v=LJvCFAHRAFI

    Bereits vor der Rüge des Landgerichts war die Berliner Staatsanwaltschaft komplett zurückgerudert. „Nach erneuter Überprüfung der Sach- und Rechtslage bestehen Zweifel, ob das verfahrensgegenständliche Geschehen den Tatbestand einer Volks­verhetzung“ erfülle, zitiert katholisch.de aus einer Stellungnahme der Anklagebehörde an das Landgericht. „Gewichtige Umstände“ sprächen dafür, dass das Hass-Poster der Imbissbesitzerin ein „zulässiger Ausdruck der verfassungsrechtlichen Religions- und Meinungsfreiheit“ sei.

    „Diese Überzeugungen mögen – insbesondere in Bezug auf den Umgang mit Homosexualität – nicht mehr zeitgemäß erscheinen“, so die Staatsanwaltschaft. Jedoch dürfte die Art und Weise der Äußerung nicht den Tatbestand der Volks­verhetzung erfüllen, zumal sich die Wirtin auf den Wortlaut der biblischen Textpassage berufen könne.

    Der Anwalt von Park Young-Ai beantragte laut katholisch.de nun die Einstellung des Ermittlungsverfahrens.

    Propaganda - Doktor Mabuse
    https://www.youtube.com/watch?v=bHKm4mLTLs8

    Propaganda
    https://de.wikipedia.org/wiki/Propaganda_(Band)

    https://www.academia.edu/2302564/Religionen_in_Korea_ein_%C3%9Cberblick_in_Kultur_Korea_2_2012_p_9_13_also_

    Interview mit Park Young Ai, Inhaberin des koreanischen Restaurants „IXTHYS“ in Berlin

    Ihr Imbiss heißt IXTHYS. Wofür steht der Name?

    Das griechische Wort für Fisch lautet „ichthys“. Das I-Ch-Th-Y-S-Symbol besteht aus zwei gekrümmten Linien, die einen Fisch darstellen. Dieses Fischsymbol spielte bereits im Urchristentum eine große Rolle. IX steht für „Jesus Christus“ - es bedeutet, dass Jesus Christus unser Heiland ist. Ich habe den Namen IXTHYS aber auch deshalb gewählt, um Menschen neugierig zu machen, weil sie nicht wissen, was das Wort bedeutet. Aus der Frage nach dem Namen ergibt sich die Gelegenheit, über Jesus Christus zu sprechen.

    An den Wänden Ihres Restaurants und in der Speisekarte sind Bibelzitate allgegenwärtig. Verbirgt sich dahinter eine missionarische Absicht?

    Ja, ich möchte eine missionarische Aufgabe erfüllen. Die Geschichte der Geburt Jesu Christi indet sich auf den Transparenten an den Wänden. Jesus ist der einzige Mensch ohne Sünde und hat darum die Macht, das Böse zu be- siegen. Gott liebt alle Menschen, und sie müssen errettet werden - es ist eine missionarische Tätigkeit, den Menschen das zu sagen. Die Bibelzitate sind nur Buchstaben, solange Menschen den Heiligen Geist nicht empfangen haben, aber wenn wir mit ganzem Herzen lesen, dann erfahren wir Gottes Kraft.

    Unsere Gäste lesen das Wort Gottes, und für viele hat es kei- ne Bedeutung. Aber eines Tages, wenn sie Probleme haben, wenn sie krank oder dem Tode nahe sind, dann erinnern sie sich hofentlich an dieses Restaurant und an das Wort Gottes. Ich bete dafür.

    War die Eröfnung des Restaurants von Beginn an geknüpft an diese missionarische Aufgabe, oder haben Sie diese Idee erst im Laufe der Zeit entwickelt?

    Ja, ich habe das Restaurant eröfnet, um eine missionari- sche Aufgabe zu erfüllen. In der deutschen Kirche gibt es nur noch alte Leute, die den Gottesdienst besuchen, und das liegt daran, dass die Pastoren Theologie nur als Beruf studiert, nicht aber den Heiligen Geist empfangen haben. Damit fehlen ihnen Macht und Kraft, die Menschen zu erreichen - sie predigen nur das tote Wort.

    Seit wann gibt es IXTHYS?

    An diesem Ort seit 2001. Vorher hatte ich ein Jahr lang einen Imbiss in Charlottenburg – das war Gottes Prüfung. Ich habe die Wände von Anfang an mit Bibeltexten verziert.

    Meine Glaubensbrüder und –schwestern hatten Befürch- tungen, dass die Gäste deshalb ausbleiben, weil sie das nicht mögen.

    Haben sich diese Befürchtungen bestätigt? Wie reagieren die Besucher auf diese Art der Gestaltung? Am Anfang haben viele gedacht, wir seien eine Sekte, ich habe das so oft gehört. Viele neue Gäste verlassen das Restaurant, wenn sie die Bibeltexte sehen. Ich kann das gut verstehen.

    Ein Gast sagte einmal, dass ihm das Leben nach dem Tod egal sei, er werde davon ja ohnehin nichts merken. Außer- dem sei es in der Hölle warm, und deshalb wolle er dort sein. Ich habe geantwortet, dass nur der Körper vergäng- lich ist, die Seele aber ewig lebe. Er hat darauf nichts mehr gesagt.

    Gibt es umgekehrt auch Besucher, die Ihren Imbiss gezielt aufgrund der Gestaltung besuchen, weil sie sich hier auf- gehoben fühlen?

    Die meisten kommen einfach, weil sie das Essen mögen. Einige kommen aber auch wegen des Gotteswortes und wegen der Atmosphäre der Liebe, die sie hier umgibt. Es kann passieren, dass der Restaurantbetrieb wegen einer Gebetspause des Personals zwischenzeitlich unterbrochen wird. Wer dann bestellen oder bezahlen will, muss warten.

    Hat Ihre Glaubenspraxis Vorrang vor der Serviceleistung?

    Ja. Unser Service ist mangelhaft (lacht). Sie bieten keinen Alkohol an. Im Christentum gibt es kein grundsätzliches Alkoholverbot – im Gegenteil: Der Genuss von Wein ist sogar fester Bestandteil der Liturgie. Welchen Grund gibt es, Ihr Angebot auf nicht-alkoholische Geträn- ke zu beschränken?

    Wir trinken beim Abendmahl auch Wein, und Gott würde das Trinken von Alkohol oder den Verkauf von Alkohol nicht verneinen, das ist keine Sünde. Wenn Menschen aber zu viel trinken, sind sie betrunken, dann macht Alkohol sie kaputt. Unser Essen ist scharf, und wenn es warm ist im Sommer, würden die Gäste sicher drei oder vier Biere trinken, manche sogar mehr – das ist nicht gut für sie.

    Würden Sie einen Angehörigen einer anderen Konfession bei IXTHYS beschäftigen?

    Wenn der Betrefende sich nicht bekehren lassen würde, könnten wir nicht zusammenarbeiten, weil der Geist ein anderer ist. Das wäre nicht harmonisch.

    Was entgegnen Sie, wenn Gäste Ihr Konzept als rigoros und dogmatisch kritisieren?

    Wie gesagt, ich kann das verstehen. Wenn Gäste trotz ihrer Kritik interessiert sind, dann können wir ins Gespräch kom- men, aber wenn nicht, dann akzeptiere ich die Kritik nicht. Manchmal weine ich, weil unsere Gäste das Wort Gottes nicht verstehen. Dann bete ich für sie. Ich habe einen Frieden in mir, der von Gott kommt.

    Das Interview führte Dr. Stefanie Grote

    #Korea #Religion #Christentum #Berlin #Schöneberg #Pallasstraße #Halloween #wtf

  • Regina Ziegler: „Als ich nach Berlin kam, war ich wie im Rausch“
    https://www.berliner-zeitung.de/panorama/regina-ziegler-als-ich-nach-berlin-kam-war-ich-wie-im-rausch-li.215


    „Die Mitte meiden und sich am Rand wohlfühlen“: Regina Ziegler lebt in Zehlendorf. Foto Guido Werner/Ziegler Film

    30.10.2033 von Anne Vorbringer - Berlin hat rund 3,8 Millionen Einwohner, und jeder hat seinen eigenen Blick auf die Stadt. Was macht Berlin aus, wieso lebt man hier – und tut man es überhaupt gern?

    In unserer Rubrik „Fragebogen Berlin“ fragen wir bekannte Hauptstädterinnen und Hauptstädter nach ihren Lieblingsorten und nach Plätzen, die sie eher meiden. Sie verraten, wo sie gern essen, einkaufen oder spazieren gehen. Aber auch, was sie an Berlin nervt und was man hier auf keinen Fall tun sollte.

    Diesmal hat Regina Ziegler unsere Fragen beantwortet, die in diesem Jahr großes Jubiläum feiern kann. Vor 50 Jahren gründete sie Ziegler Film und wurde Deutschlands erste Produzentin. Bis heute realisierte sie rund 500 Filmprojekte und gehört damit zu den produktivsten und erfolgreichsten Produzenten des Landes.

    Für ihr neuestes Projekt arbeitete Ziegler mit dem Streaming-Riesen Amazon zusammen. Seit dem 26. Oktober läuft die Serie „Die Therapie“ exklusiv bei Prime Video. Die Buchvorlage stammt von einem anderen bekannten Berliner: dem Bestseller-Autor Sebastian Fitzek.

    1. Frau Ziegler, seit wann sind Sie schon in der Stadt?

    Eigentlich wurden meine Wurzeln in Berlin 1943 gepflanzt. Meine Mutter wohnte damals in Charlottenburg in der Röntgenstraße. Sie war mit mir hochschwanger und wurde mit meiner älteren Schwester an der Hand drei Tage und vier Nächte im Luftschutzkeller verschüttet. Als wir gerettet waren, war unsere Wohnung nicht mehr da. So trampte sie nach Allrode im Harz zu ihren Eltern und ich wurde am 8. März in Quedlinburg geboren und war der Hit des Weltfrauentages 1944. Diese Geschichte saß so tief in mir, dass ich nach dem Abitur 1964 zum Jurastudium nach Berlin zog.

    2. Welcher ist Ihr Lieblingsort in Berlin?

    Der China Club in der Behrenstraße 72, der seit vielen Jahren meinen Gästen und mir auch wegen seiner fantastischen asiatischen Küche und wegen des Restaurantmanagers Henryk Vieillard ein Genuss ist.

    3. Wo zieht es Sie hin, wenn Sie entspannen wollen?

    In mein Bett …

    4. Welche Ecken der Stadt meiden Sie?

    Als Dauer-Radiohörerin kenne ich immer aktuell die Präsenz der Klebeaktionen der Letzten Generation und kann entsprechend reagieren. Meistens gelingt es mir, dadurch stundenlange Staus zu vermeiden und zu meinen Terminen pünktlich zu sein.

    5. Ihr ultimativer Gastro-Geheimtipp?

    Das 893 Ryotei in der Kantstraße und das Ponte in der Regensburger Straße zum Dinner. Zum Lunch empfehle ich die Salumeria Rosa in der Neuen Kantstraße 25.

    6. Ihr ultimativer Shopping-Geheimtipp?

    Es gibt kleine, feine Boutiquen rund um den Savignyplatz, in denen ich mich gerne nach ausgefallenen Modellen umschaue. Und an einem Issey-Miyake-Shop kann ich nicht vorbeigehen, ohne reinzuschauen. Gott sei Dank haben wir in Berlin keinen Miyake-Laden.

    7. Der beste Stadtteil Berlins ist …

    Charlottenburg war und ist immer noch mein bevorzugter Kiez. Als ich 1964 aus Obernkirchen nach Berlin kam, war ich wie im Rausch. So viele Menschen wie an der Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche hatte ich noch nie gesehen. Ich mietete ein Zimmer in der Mommsenstraße 36 bei einer kinderreichen Familie. Meine Vermieterin und ihre vier Kinder nahmen mich wie ein Familienmitglied auf, und sie drückte auch ein Auge zu, wenn mein späterer Ehemann Hartmut Ziegler mal über Nacht blieb, was damals strikt verboten und deshalb sehr ungewöhnlich war und zu der Geburt von Tanja führte.
    Um mir etwas dazuzuverdienen, trug ich in Charlottenburg die Berliner Morgenpost aus und verkaufte an den Wohnungstüren Waschmaschinen. Während der ersten Jahre beim Sender Freies Berlin in der Masurenallee nutzte ich noch jeden Tag die Straßenbahn entlang der Kantstraße. Mein erster Spielfilm „Ich dachte, ich wäre tot“ lief 1974 mit großem Erfolg viele Wochen im filmkunst 66 in der Bleibtreustraße 12. Als die langjährigen Besitzer des Kinos, Rosemarie und Franz Stadler, das filmkunst 66 verkauften, haben Tanja und ich nicht lange überlegt – und uns einen Traum erfüllt.

    8. Das nervt mich am meisten an der Stadt:

    Klaus Wowereit hat mit Georgia Tornow vor vielen Jahren am Potsdamer Platz den Boulevard der Stars ins Leben gerufen. Da haben die Sterne noch gestrahlt. Meiner auch. Heute sind sie total verrottet und vergammelt. Diese Sterne sind für mich auch Sinnbild für die Filmfestspiele und deren ungewisse Zukunft.

    9. Was muss sich dringend ändern, damit Berlin lebenswert bleibt?

    Dass in Berlin keine Menschen mehr unter den Brücken schlafen müssen. Wir brauchen bezahlbaren Wohnraum, wir brauchen eine nachhaltige Verbesserung der Verkehrssituation. Die Menschen müssen kurzfristiger Termine bei den Bürgerämtern bekommen. Und beim BER müssen endlich die Laufbänder und die Fahrstühle funktionieren und nicht tagelang ausfallen. Ich finde es unverständlich, dass die Lufthansa nur wenige Direktflüge aus der deutschen Hauptstadt ins Ausland anbietet. Auch das muss sich dringend ändern.
    Und aus aktuellem Anlass möchte ich hinzufügen: Eine Stadtgesellschaft hat Regelungen und Gesetze, an die sich alle halten müssen – ganz gleich, ob sie in Berlin geboren oder erst später hierhergekommen sind: Sie sind Berliner. Es gibt keinen Platz für Hass, Aggression, Gewalt, Intoleranz und Antisemitismus.

    10. Ihr Tipp an Unentschlossene: Nach Berlin ziehen oder es lieber bleiben lassen?

    Wenn, dann die Mitte meiden und sich am Rand wohlfühlen.

    11. Cooler als Berlin ist nur noch …

    Quedlinburg, weil ich da geboren bin.

    –---

    Zur Person

    Regina Ziegler kam 1944 in Quedlinburg (Sachsen-Anhalt) zur Welt. 1964 ging sie nach Berlin und arbeitete nach einer Ausbildung zur Wirtschaftsdolmetscherin zunächst als Produktionsassistentin beim SFB. 1973 gründete sie ihre eigene Firma. Gleich für ihre erste Produktion „Ich dachte, ich wäre tot“ erhielt sie mehrere Auszeichnungen. Mittlerweile haben sie und ihre Tochter Tanja (Foto) rund 500 Filme und Serien für Kino und Fernsehen produziert.

    Tanja Ziegler stieg im Jahr 2000 ins Unternehmen Ziegler Film ein und besitzt inzwischen die Mehrheit der Anteile. Regina Ziegler ist Honorarprofessorin an der Filmuniversität Babelsberg, gemeinsam mit ihrer Tochter betreibt sie das Berliner Programmkino filmkunst 66. Vom Museum of Modern Art in New York wurde sie 2006 mit einer Retrospektive geehrt. 2017 veröffentlichte sie ihre Autobiografie „Geht nicht gibt’s nicht“. Ihre neue Produktion, die sechsteilige Thriller-Serie „Die Therapie“, läuft aktuell bei Amazon Prime Video.

    #Berlin
    #Charlottenburg #Bleibtreustraße #Kantstraße #Masurenallee #Mommsenstraße #Neue_Kantstraße #Röntgenstraße #Regensburger_Straße #Savignyplatz
    #Mitte #Behrenstraße #Potsdamer_Platz
    #Wilmersdorf
    #Zehlendorf

    #Fernsegen
    #Film
    #Gastronomie
    #Kino

  • Republik Türkei : 100 Jahre Krieg
    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Helmuth_Karl_Bernhard_von_Moltke


    Moltkebrücke https://www.openstreetmap.org/way/222139121#map=18/52.52187/13.36877
    Le centième anniversaire de la république turque signifie cent ans de persécutions et de guerre contre les Kurdes par un état soi-disant démocratique. L’unité éthnique est un pilier de l’état turc qui sert de justification pour sa politique génocidaire.

    On ne parle que rarement des excellentes relations de la Turquie avec l’Allemagne nazie. Cependant l’actuel état capitaliste allemand poursuit son soutien sans réserve pour les génocidaires d’Ankara.

    Il s’agit d’une vielle tradition. En 1838 déja le futur maréchal prussien Helmuth Graf von Moltke assista les troupes ottomanes pendant une campagne militaire contre les Kurdes. Entre entre 1915 et 1917 le Kaiser laissa faire le génocide ottoman contre les Arméniens. Pour les nazis la Turquie fut un allié contre l’enpire britannique. Aujourd’hui le gouvernement démocratique et les industriels allemands soutiennent la guerre génocidaire contre le peuple kurde et persécutent les réfugiés politiques kurdes sur le sol allemand.

    De l’« Homme malade de l’Europe Helmuth Graf von Moltke écrivit en 1841 :

    « Ce fut longtemps la tâche des armées occidentales de contenir la puissance ottomane ; il semble que la préoccupation de la politique européenne soit à présent de retarder son déclin. »

    -- H. von Moltke

    https://www.nd-aktuell.de/artikel/1177352.rueckblick-republik-tuerkei-jahre-krieg.html

    27.10.2023 von Christopher Wimmer - Drohnen- und Artilleriebeschuss, Bomben aus Flugzeugen, zerstörte Infrastruktur, getötete Zivilist*innen; ein Krankenhaus, das in Schutt und Asche liegt. Solche Bilder gehen gerade um die Welt. Sie spielen sich jedoch nicht nur in Israel und im Gazastreifen ab, sondern sind auch rund 1000 Kilometer weiter nordöstlich bittere Realität. Die Luftangriffe, von denen hier die Rede ist, werden von der türkischen Armee ausgeführt. Die Zivilist*innen, die dabei sterben, sind syrische Staatsbürger*innen, meist Kurd*innen. Beim zerstörten Krankenhaus handelt es sich um eine Covid-19-Klinik in der Stadt Dêrik, die in der autonomen Region Nord- und Ostsyrien liegt.

    Am 5. Oktober hat die Türkei eine Militäroffensive gegen die Region gestartet, die auch als »Rojava« bekannt ist. Die Begründung dafür war ein Anschlag auf das Innenministerium in Ankara. Die Arbeiterpartei Kurdistans PKK bekannte sich zu diesem Angriff, bei dem zwei türkische Polizisten verletzt wurden. Hakan Fidan, der türkische Außenminister, behauptete daraufhin, die PKK-Attentäter seien in Nordsyrien ausgebildet worden, was die Operation in der benachbarten Region rechtfertige. Beweise konnte er nicht vorlegen. Auch wirkte der Anlass für die Offensive vorgeschoben. Der Türkei ist Rojava seit Jahren ein Dorn im Auge; die kurdisch-dominierte Selbstverwaltung sei lediglich ein Ableger der verbotenen PKK, heißt es.
    Eine Geschichte der Verfolgung

    Woher stammen die Aggressionen des türkischen Staates gegen die Kurd*innen? Ein Blick zurück: Vor hundert Jahren, am 29. Oktober 1923, erklärte Mustafa Kemal Paşa, später als Atatürk bekannt, dass die Türkei von nun an eine Republik sei. Atatürk wurde am selben Tag zum ersten Präsidenten der Republik gewählt.

    Innerhalb des neuen Staates bildeten die Kurd*innen die größte ethnische Minderheit – auch heute leben noch etwa 15 Millionen kurdische Menschen in der Türkei, was 19 Prozent der Gesamtbevölkerung entspricht. Atatürks Staat sah in ihnen eine Bedrohung für die staatliche Integrität und nationale Einheit. Die »moderne« Türkei wollte ein ethnisch homogener Nationalstaat werden. Religiöse und ethnische Vielfalt standen dieser Vorstellung im Weg. Der spätere türkische Justizminister Mahmut Esat Bozkurt formulierte dies 1930 unumwunden: »Der Türke muss der ausschließliche Herr und Meister in diesem Land sein. Wer nicht türkischer Herkunft ist, der kann hier nur ein einziges Recht haben, das Recht, Diener und Sklave zu sein.«

    Die Kurd*innen waren von einer massiven Assimilierungspolitik betroffen: Kurdische Kinder mussten in der Schule Türkisch lernen, auf ihre Muttersprache stand die Prügelstrafe. Kurdische Ortsnamen wurden umbenannt, kurdische Namen und Kultur verschwanden aus der Öffentlichkeit. 1934 erließ das türkische Parlament zudem das Gesetz gegen »Personen ohne Verbundenheit mit der türkischen Kultur«, mit welchen Zwangsumsiedlungen von Kurd*innen aus den kurdischen Gebieten umgesetzt wurden.
    Eine Geschichte des Widerstands

    Die kurdische Bevölkerung in der Türkei reagierte auf diese Politik mit zahlreichen Aufständen, die allerdings aufgrund von internen Spaltungen durchweg scheiterten. Gründe dafür waren meist Stammesgrenzen oder religiöse Differenzen. Doch blieb der Widerstand bestehen und erreichte mit den weltweiten Protesten der 1960er Jahre neuen Aufschwung. Aus einer Gruppe rebellierender Studierender gründete sich im November 1978 eine neue Partei. Sie sollte die kurdische Bevölkerung – im Guten wie im Schlechten – seitdem bestimmen: die Arbeiterpartei Kurdistans PKK. 1984 erklärte die PKK der Türkei den bewaffneten Kampf. Bis heute ist die Guerilla nicht besiegt – militärisch konnte die PKK aber auch nicht gewinnen. Von den geschätzten 40 000 Toten dieses Krieges sind rund 25 000 Kämpfer*innen der PKK sowie knapp 6000 Zivilist*innen. Zur Bilanz hinzu kommen 3500 zerstörte Dörfer und über 2,5 Millionen geflohene Kurd*innen sowie massive Menschenrechtsverletzungen durch türkische Sicherheitskräfte. Von ihrem ursprünglichen Ziel, einen kurdischen Staat zu schaffen, ist die Partei mittlerweile abgerückt. Die »kurdische Frage« ist jedoch in der Türkei bis heute ungelöst, der PKK-Gründer Abdullah Öcalan sitzt seit 1999 in türkischer Haft.
    Keine guten Aussichten

    Seit 2002 kontrolliert die Partei für Gerechtigkeit und Entwicklung (AKP) des Präsidenten Recep Tayyip Erdoğan die Geschicke der Türkei. In ihrer Regierungszeit hat sie den türkischen Staat deutlich verändert: Die republikanisch-kemalistischen Eliten wurden entmachtet und durch eine islamisch dominierte Politik ersetzt: Ein neues Präsidialsystem sichert Erdoğan, der im Mai 2023 wiedergewählt wurde, die Macht. Nahtlos knüpfte die AKP jedoch in einem Punkt an ihre Vorgänger an: die Unterdrückung kurdischer Selbstbestimmung.

    Zuletzt eskalierte der Konflikt in den kurdischen Gebieten der Türkei 2015. Ankara verschärfte erneut die Repression gegen kurdische Politiker*innen und Aktivist*innen, die daraufhin in einzelnen Städten Barrikaden errichteten und ihre Selbstverwaltung ausriefen. Daraufhin kam es zum »Städtekrieg«, in dem die Türkei im Inneren Panzer und Hubschrauber einsetzte. Dabei sollen bis zu 400 Menschen getötet worden sein. Alle Anlässe, gegen Oppositionelle vorzugehen, richteten sich in den letzten Jahren auch immer gegen Politiker*innen der prokurdischen Halkların Demokratik Partisi (HDP), von denen viele – etwa der frühere Ko-Vorsitzende Selahattin Demirtaş – zu langen Haftstrafen verurteilt wurden.

    Doch nicht nur innerhalb der eigenen Grenzen bekämpft die Türkei kurdische Selbstbestimmung. Seit Jahren gibt es – weitgehend unbeachtet von der Weltöffentlichkeit – im nordsyrischen Rojava Raketen- und Drohnenangriffe des Nato-Mitglieds Türkei. Zudem hat Ankara bereits seit 2016 in drei Angriffskriegen große Teile der Region annektiert, verübt dort laut Amnesty International Kriegsverbrechen und betreibt eine Politik der ethnischen Vertreibung der lokalen Kurd*innen. Unter anderem der Wissenschaftliche Dienst des Deutschen Bundestags hat die türkischen Invasionen als völkerrechtswidrig bezeichnet. Auch vermeintliche PKK-Stellungen im Nordirak greift die Türkei regelmäßig an. Dabei soll es immer wieder zum Einsatz von verbotenen chemischen Kampfstoffen durch die türkische Armee kommen.

    All diese Angriffe sind Teil in einer mindestens 100-jährigen Geschichte des anti-kurdischen Rassismus in der Türkei. Für die kurdische Bevölkerung – sowohl in der Türkei als auch in Syrien und im Irak – bedeutet dieser einen permanenten Zustand von Angst und Schrecken. In Rojava beginnen gerade langsam wieder die Aufbauarbeiten der zerstörten zivilen Infrastruktur, jedoch scheint der nächste türkische Angriff nur eine Frage der Zeit. Die westliche Staatengemeinschaft lässt Ankara gewähren.

    #histoire #guerre #génocide #Turquie #Allemagne #Kurdistan #Berlin #Moabit #Moltkebrücke #Entlastungsstraße #Willy-Brandt-Straße #Alt-Moabit #Rahel-Hirsch-Straße #Elisabeth-Abegg-Straße #Magnus-Hirschfeld-Ufer

  • En route pour le milliard

    1734 km sur le fleuve Congo, une incroyable épopée pour réclamer justice.
    Sola, Modogo, Mama Kashinde, Papa Sylvain, Bozi, Président Lemalema… font partie de l’Association des victimes de la #Guerre_des_Six_Jours de #Kisangani. Depuis 20 ans, ils se battent pour la #mémoire de ce #conflit et demandent #réparation pour les préjudices subis. Excédés par l’indifférence des institutions à leur égard, ils décident de se rendre à Kinshasa pour faire entendre leurs voix.


    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/58608_0
    #film #documentaire #film_documentaire
    #marche #République_Démocratique_du_Congo (#RDC) #massacre #indemnisation #mutilations #mutilés #justice

  • A Moscou, la chasse aux migrants pour garnir les rangs de l’armée
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/27/a-moscou-la-chasse-aux-migrants-pour-garnir-les-rangs-de-l-armee_6196764_321

    A Moscou, la chasse aux migrants pour garnir les rangs de l’armée
    Par Benoît Vitkine(Moscou, correspondant)
    Comme s’il craignait les répliques des événements de la semaine précédente, Rouslan (le prénom a été modifié) fait un détour imperceptible, s’éloignant de quelques pas des portes métalliques derrière lesquelles s’abrite la mosquée de Kotelniki. « En réalité, il n’y a pas grand-chose à faire pour se protéger, reconnaît ce citoyen kirghiz d’une trentaine d’années, qui habite à quelques pâtés d’immeubles de là. Tu peux être contrôlé et arrêté partout : dans le métro, dans la rue, sur ton lieu de travail… » Le raid de la police, vendredi 20 octobre, dans cette banlieue-dortoir située à une heure du centre de Moscou, à la sortie de la prière musulmane, a marqué les esprits.
    En fait de mosquée, le lieu est une modeste salle de prière nichée dans les étages d’une tour HLM. Kotelniki, 70 000 habitants dont une forte population immigrée, en compte une poignée. Celle du boulevard Pokrovski défraie régulièrement la chronique : attroupements massifs, protestations des riverains, visites régulières de la police… En juillet, les forces antiémeutes sont entrées, précédées de gaz lacrymogènes, pour procéder à des contrôles d’identité. L’épisode du 20 octobre a été moins brutal. Il est lié non pas aux tensions ethniques et religieuses qui agitent occasionnellement Moscou (selon les estimations, contestées, du grand mufti de Russie, la capitale compterait 3 à 4 millions de musulmans), mais aux conséquences de la guerre en Ukraine : en manque de bras pour l’armée, et soucieux d’éviter une nouvelle vague de mobilisation impopulaire, le pouvoir russe fait la chasse aux migrants. (...)
    Environ 250 personnes ont été emmenées. Selon les informations du Monde, seize n’étaient pas revenues une semaine plus tard et ont été incorporées à l’armée. Parmi eux, le finaliste d’un télécrochet célèbre, Mamout Ouseïnov, qui a filmé toutes les étapes, depuis l’arrestation jusqu’à l’arrivée du groupe directement dans un dortoir militaire. C’est grâce à sa présence que l’affaire a reçu un certain écho. « Le même jour, rien que pour Kotelniki et ses environs, il y a eu deux autres rafles sur des marchés, précise Valentina Tchoupik, défenseuse historique des droits des migrants, qui vit désormais en exil. Depuis l’été, ce sont des dizaines à travers toute la Russie. »
    Face au scandale – relatif –, les autorités militaires ont expliqué que le but était de vérifier les états de service des personnes contrôlées. Depuis novembre 2022, une loi exige en effet que les étrangers ayant acquis la nationalité russe à l’âge adulte effectuent, s’ils ont moins de 30 ans, leur service militaire. La différence est notable, puisque les conscrits ne sont pas censés être envoyés sur le front ukrainien – même s’ils peuvent être mobilisés dès la fin de leur service.
    Sauf que tous les témoignages concordent pour affirmer que les officiers ont bien évoqué « l’obligation de signer un contrat d’un an », ce qui implique de rejoindre l’armée régulière pour être envoyé en Ukraine. « C’est l’une des techniques qu’ils utilisent fréquemment, constate Mme Tchoupik. Ils jouent de la confusion face à des gens qui ne connaissent pas leurs droits. Formellement, il s’agit du service militaire ; dans les faits, les recruteurs leur expliquent qu’ils doivent signer un contrat, et parfois ils les menacent de la prison. »
    Le Monde Application
    Plusieurs témoins de la rafle de Kotelniki assurent que l’alternative de la prison a bel et bien été évoquée par les officiers sur place, particulièrement insistants avec les titulaires d’un passeport russe. « Depuis quinze ans que je suis en Russie, tout le monde rêve d’obtenir la nationalité russe, constate Timour, originaire du Kirghizistan, qui a lui-même reçu son passeport peu avant la guerre. Ça te facilite la vie, ça la rend moins dangereuse… Maintenant c’est devenu synonyme de danger. » En réalité, les pressions exercées par Moscou sur les migrants ne visent pas seulement ceux ayant acquis récemment la nationalité russe. Dès le mois de septembre 2022, les autorités ont mis en place une procédure de naturalisation accélérée pour les étrangers signant un contrat avec le ministère de la défense. A en juger par les informations publiquement disponibles sur les pertes au combat, le dispositif n’a que peu séduit. La manœuvre a aussi crispé les pays d’Asie centrale et du Caucase, dont sont originaires la plupart des quelque 11 millions d’immigrés vivant en Russie, et qui s’opposent, plus ou moins fermement, à l’envoi de leurs ressortissants en Ukraine. Moscou a conduit ce travail tout en affirmant n’avoir aucun mal à recruter des volontaires pour la guerre, principalement grâce aux salaires mirobolants proposés par l’armée. Le 25 octobre, l’ancien président Dmitri Medvedev donnait ainsi le chiffre de 385 000 recrues pour l’année 2023. En plus de ce dispositif légal, les moyens utilisés pour incorporer des étrangers incluent la coercition et la duperie. Les témoignages et demandes d’aide qui remontent au réseau de Valentina Tchoupik, mais aussi à d’autres défenseurs des droits de l’homme, font état de migrants arrêtés pour être placés en position de vulnérabilité. (...)
    Mi-octobre, un acteur tadjik du nom de Charifdjon Tillozoda, qui s’était d’abord engagé avant de solliciter l’aide de ses proches pour échapper à l’envoi au front, s’est retrouvé sous le coup d’une accusation d’espionnage passible de vingt ans de détention. La prison constitue ensuite un autre vivier pour les recruteurs – ceux de Wagner, auparavant, et désormais ceux du ministère de la défense.La défenseuse des droits de l’homme assure toutefois que de telles pratiques se sont raréfiées alors qu’elles étaient, selon elle, massives en septembre-octobre 2022 et avril-mai 2023, avec des signalements à ses collègues se comptant alors en milliers par mois. Selon elle, les rafles actuelles se soldent plus souvent par des expulsions que par des tentatives de recrutement : « C’est une pratique récurrente à chaque fois que des élections approchent [un scrutin présidentiel est prévu en mars 2024], une pression très démonstrative est mise sur les migrants. Pour les policiers, c’est aussi une occasion de les voler. »
    Les cas de manipulations sont eux aussi fréquents. Le Monde a recueilli le témoignage d’un ressortissant ouzbek sur une pratique en vigueur à Sakharovo, une localité de la grande banlieue moscovite où est situé le principal centre administratif (et de rétention) pour les migrants de la capitale. Cet homme, qui demande à se faire appeler Sarvar et qui enchaîne depuis vingt ans les petits boulots dans la construction, s’y est rendu au début du mois d’octobre pour renouveler son permis de travail. (...) Sarvar assure avoir demandé, par curiosité, quelles étaient les conditions d’un tel contrat. Plus tard, au moment de déposer les documents requis pour son permis de travail, une employée lui a remis une liasse de documents à parapher pour finaliser la procédure, lui enjoignant de « faire vite » et de signer directement au guichet. Dix minutes plus tard, quand des policiers sont venus le chercher en lui disant : « Maintenant tu es des nôtres, que tu le veuilles ou non », Sarvar a compris qu’il avait signé, dans la masse de papiers, un contrat d’engagement avec le ministère de la défense.En demandant conseil à l’ambassade de son pays et à des juristes, le travailleur migrant a pu établir que le document n’était pas un contrat en bonne et due forme, mais une déclaration d’intérêt. Deux semaines plus tard, quand il est venu chercher son permis de travail, un officier a encore passé une demi-heure à essayer de le convaincre, allant jusqu’à prétendre qu’il aurait le choix entre aller au front et « rester dans la réserve ». « Depuis vingt ans, conclut Sarvar, je suis en règle, je paie mes impôts. J’ai tout subi, les passeports confisqués par les employeurs, les salaires non versés, les menaces et les violences de la police… Mais je n’imaginais pas qu’ils pourraient en arriver à un tel niveau de cynisme. »

    #Covid-19#migrant#migration#russie#guerre#recrutement#immigrant#caucase#asie#kirghizistan#oubzekhistan#passeport#nationalite#sante#droit

  • Libérée par le #Hamas, Yocheved #Lifshitz a milité toute sa vie pour les droits des #Palestiniens
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/26/liberee-par-le-hamas-yocheved-lifshitz-a-milite-toute-sa-vie-pour-les-droits

    Cette femme âgée de 85 ans, qui proteste inlassablement avec son mari, toujours otage, contre les conditions de vie des habitants de #Gaza, a été relâchée mardi après son enlèvement, le 7 octobre, dans le #kibboutz de Nir Oz.

    Par Raphaëlle Bacqué(Tel-Aviv, envoyée spéciale)
    Publié aujourd’hui à 06h00, modifié à 15h33
    Temps deLecture 5 min.

    Yocheved Lifshitz, 85 ans, au lendemain de sa libération par le Hamas, à l’hôpital Ichilov de Tel-Aviv, le 24 octobre 2023. ARIEL SCHALIT / AP
    Yocheved Lifshitz paraît frêle et pâle, au milieu de ses dix petits-enfants, sur cette photo qu’ils ont prise à l’hôpital de Tel-Aviv, où elle se remet toujours de ses dix-huit jours de détention. On remarque tout de suite ce regard un peu perdu, sous des cheveux noirs coupés court, et sa petite silhouette qui semble flotter dans une tenue de coton noire.

    Sur la vidéo qu’a fait circuler le Hamas sur ses chaînes Telegram, quelques heures à peine après sa libération, mardi 24 octobre, des membres du mouvement islamiste, qui s’y entendent en communication, semblaient d’ailleurs tout attentifs à marcher à petit pas à côté de cette femme de 85 ans, en lui tenant le bras, avant de la remettre, en même temps que Nourit Kuper, 79 ans, aux mains de la Croix-Rouge. Ont-ils seulement su qui elle était, demande-t-on à son petit-fils Daniel ?

    « Oui, elle le leur a dit, et avec une grande colère », confie-t-il au Monde. C’est que Yocheved et son mari, Oded, de trois ans son cadet, enlevé avec elle le 7 octobre dans ce kibboutz de Nir Oz que le couple avait fondé en 1952, ont toujours été d’inlassables militants des droits des Palestiniens. Au milieu des années 1990, raconte d’ailleurs volontiers sa fille Sharone, qui, après l’enlèvement de ses parents, a aussitôt quitté Londres pour Tel-Aviv, Oded Lifshitz avait même rencontré le chef de l’Organisation de libération de la Palestine (OLP), Yasser Arafat. Ce dernier venait de s’installer à Gaza, à quelque 3 kilomètres du kibboutz, juste après avoir reçu, en 1994, le prix Nobel de la paix, en même temps que les anciens premiers ministres israéliens Shimon Pérès et Yitzhak Rabin pour leurs efforts en faveur de cette paix qui paraît aujourd’hui si lointaine.

    Yocheved a dit aussi à ses geôliers que, quelques semaines avant leur enlèvement, les Lifshitz conduisaient encore régulièrement les malades de Gaza jusqu’aux hôpitaux israéliens afin qu’ils y soient soignés… Toute la famille Lifshitz, d’ailleurs, milite pour Shalom Akhshav (« la paix maintenant », en hébreu), ce mouvement qui plaide « pour un compromis raisonnable entre les peuples israélien et palestinien ». En somme, par une tragique ironie de l’histoire, les terroristes du Hamas ne pouvaient ignorer que leur prisonnière et son époux sont de ces Israéliens qui protestent inlassablement contre les conditions dans lesquelles vivent les Palestiniens dans cette prison à ciel ouvert qu’est Gaza.

    « Shalom »
    Si le Hamas a diffusé si complaisamment la vidéo de la libération de Yocheved Lifshitz, c’est d’ailleurs parce que, en un geste et en un mot, leur prisonnière a rappelé cet engagement. Juste avant qu’elle ne le quitte, on y voit en effet la vieille dame se retourner vers son ravisseur, encagoulé et armé, pour lui serrer la main en murmurant distinctement un « shalom », ce mot hébraïque qui veut dire « paix » en même temps qu’il est un salut. Depuis quarante-huit heures, ce geste et ce « shalom » bouleversent une société israélienne déjà profondément traumatisée par les 1 400 morts et quelque 200 enlèvements perpétrés par les terroristes lors de leur attaque surprise du 7 octobre.

    Même ses quelques mots pour dire qu’elle avait été « bien traitée », lors d’une conférence de presse organisée par sa fille et son petit-fils, sans que le gouvernement israélien ait eu son mot à dire, ont choqué jusqu’aux autres familles d’otage. « Au moment même où des efforts considérables sont déployés pour convaincre le monde que les otages doivent être libérés le plus rapidement possible, c’est étrange de l’entendre dire qu’ils sont bien traités », s’insurge Ronen Tzur, le directeur de la communication du Forum des familles d’otages et de disparus, qui reconnaît la rupture de tout contact avec les Lifshitz.

    Ce que raconte Yocheved Lifshitz, alors que son mari est toujours détenu, est pourtant le premier témoignage public sur la façon dont s’est déroulée l’une des prises d’otages perpétrées par le Hamas. Pour s’imaginer l’événement, il faut d’abord plonger à moins de 3 kilomètres du mur d’enceinte et de l’énorme grille électrifiée entourant Gaza, là où se trouve le kibboutz de Nir Oz, où vivent les Lifshitz.

    Trois semaines avant le 7 octobre, retrace ainsi la vieille dame, parfois secondée par sa fille Sharone, cette petite communauté de près de 400 personnes, fondée sur l’idéalisme des débuts d’Israël, avait subi des attaques qui, avec le recul, ressemblent à des avertissements. « Le Hamas nous avait préparés, pour ainsi dire, dit-elle d’ailleurs clairement. Ils avaient incendié nos champs en envoyant des ballons qui allumaient des feux. » Elle assure cependant que « l’armée israélienne ne nous a pas pris au sérieux. Le gouvernement nous a abandonnés ».

    « Un enfer »
    Le matin du samedi 7 octobre, alors que le calme paraît être revenu, les habitants voient soudain « des groupes comme des essaims faire sauter cette clôture coûteuse » entourant Gaza et fondre vers le kibboutz dont ils ouvrent les portes. « Des masses ont alors envahi nos maisons, battant les gens sans faire de distinction entre les jeunes et les vieux », dit-elle, comme si elle revoyait encore ce qu’elle appelle « un enfer ».

    Oded et Yocheved Lifshitz savent ce qu’est la violence. Si cette fille d’immigrés polonais qui ont quitté l’Europe en 1933 a été professeure d’éducation physique et photographe, lui est un ancien journaliste. En 1982, il a ainsi été l’un des premiers à pénétrer dans Sabra et Chatila et à relater les massacres survenus dans ces camps de réfugiés palestiniens, à Beyrouth-Ouest, qui firent des centaines, voire des milliers de morts.

    C’est autre chose, cependant, d’être soi-même visé. En 2015, un vidéoclip électoral du Likoud avait fait scandale : il mettait en scène des figurants déguisés en djihadistes déferlant en pick-up et demandant « la direction de Tel-Aviv ». Le groupe d’hommes armés, habillés et encagoulés de noir qui pénètre dans le kibboutz, ce 7 octobre, ressemble tout à fait à ce cauchemar.

    En quelques heures, ils dévastent tout, tuent vingt personnes, pillent, brûlent et enlèvent 80 habitants, dont le couple âgé. Dans cette folie, les Lifshitz ont été séparés, mais, précise son fils aujourd’hui, sa mère a eu le temps de voir que son mari était blessé après avoir reçu « une balle dans la main, alors qu’il tentait de bloquer la poignée de la porte blindée » derrière laquelle ils se tenaient.

    « Peur d’une peste »
    Yocheved Lifshitz, bras et jambes entravés, est jetée brutalement en travers d’une moto. « Pendant que nous roulions, ils m’ont frappée avec un bâton en bois. Ils ne m’ont pas cassé les côtes, mais j’ai eu très mal et j’avais du mal à respirer », relate-t-elle. Bientôt, on la descend à l’entrée d’un de ces #tunnels par lesquels le Hamas fait passer en contrebande armes et nourriture. « Nous avons marché pendant des kilomètres, à travers ce système géant de tunnels qui ressemble à des toiles d’araignée. La terre est humide, tout est toujours humide, détaille-t-elle. Lorsque nous sommes arrivés, ils nous ont dit qu’ils croyaient au Coran, qu’ils ne nous feraient pas de mal et que nous vivrions dans les mêmes conditions de vie qu’eux dans les tunnels. »

    Les deux ou trois premières heures, elle est gardée dans une salle avec vingt-cinq autres #otages, mais, bientôt, les ravisseurs les séparent selon le lieu où ils ont été enlevés et elle reste avec quatre autres otages du kibboutz, chacun accompagné d’un garde. On lui a pris sa montre et ses bijoux, mais, pour le reste, les ravisseurs les traitent convenablement. Ils les nourrissent de pain pita, de fromage et de concombres et installent des matelas pour la nuit.

    L’un des otages, blessé aux jambes et aux bras en tombant de la moto où il avait été placé, « reçoit ainsi chaque jour la visite d’un infirmier qui nettoie ses plaies » et d’un médecin qui lui administre des antibiotiques. Les ravisseurs paraissent aussi particulièrement se préoccuper de l’hygiène. Les otages disposent de shampooing et de toilettes propres que les terroristes nettoient régulièrement « pour qu’on n’attrape pas de maladies, ils avaient peur d’une peste », rapporte Yocheved Lifshitz.

    Au cours de sa conférence de presse, lorsqu’on lui a demandé si ses geôliers avaient essayé de discuter avec les otages, elle a répondu, sans être plus précise : « Nous leur avons dit : “Pas de politique.” Ils ont parlé de toutes sortes de choses et ont été très amicaux avec nous. » Peut-elle parler plus franchement, alors que quelque deux cents otages sont encore aux mains du Hamas ? Yocheved Lifshitz a, en tout cas, discrètement donné aux familles des nouvelles des #prisonniers qu’elle a pu croiser pendant ces dix-huit jours d’enfer. Et espère, désormais, le retour de son mari.❞

  • Françoise Hardy - Was mach’ ich ohne dich, 1970
    https://www.youtube.com/watch?v=6R2_Xd1RCcM

    Version #Karaoke ;-)
    https://www.youtube.com/watch?v=QQ5RfHTsfWU


    It Hurts to Say Goodbye, instrumental, Arnold Goland, 1967

    Sans les paroles de Serge Gainsbourg de 1968 c’est simplement du easy listening bien arrangé La version allemande de W. Brandin est d’une qualité limitée. A travers cette production on découvre surtout comment à l’époque en Allemagne les messieuer (die Herren !) se remplissaient les poches avec le stéréotype de la petite Française à l’accent de nunuche.

    http://www.fhardy.de/text/was_mach_ich_ohne_dich.html

    Text: W. Brandin
    Was mach ich ohne dich?

    Nach zwei Cognacs ex bekamst du Mut
    Deine Abschiedstexte waren gut
    Ratlos und perplex nur dachte ich:
    Was mach ich ohne dich?

    Stets war mein Komplex: Du bist zu schön
    Charme hast du für sechs, ach was, für zehn
    Liebt denn sowas exklusiv nur mich?
    Was mach ich ohne dich?

    Ob du daran denkst,
    Wie einsam und verloren ich bin?
    Nein, du hast schon längst
    Eine Andere im Sinn!

    Gib mir keinen Extrakuss jetzt mehr,
    Der nur noch Reflexbewegung wär.
    Ratlos und perplex nur frag ich mich:
    Was mach ich ohne dich?

    Was mach ich ohne dich?

    All die Nächte mit dir,
    Voll von Glück bis zum Morgengrauen -
    Die und dich stahl mir
    Eine andere Frau

    Diese Dame X, die dich mir nimmt,
    Fliegt auf deine Tricks wie ich, bestimmt.
    Dann als Dame ex sagt sie wie ich:
    Was mach ich ohne dich?

    Voici le témoignage de son admirateur allemand le plus hardi..
    Le vieux monsieur a collectionné une tonne de vidéos.
    http://www.fhardy.de/html/videoclips.html

    Françoise Hardy Fanseite
    http://www.fhardy.de

    Herzlich willkommen auf meiner Françoise Hardy Seite.

    Diese Seiten habe ich als Fan von „Françoise Hardy“, der für mich einzigartigen französischen Sängerin, erstellt. Anfang der 60er Jahre habe ich sie zum ersten Mal im Radio gehört und mir bald danach ihre LP „FH1“ gekauft. Obwohl ich ihre französischen Texte nicht verstand, ging ihre Stimme in mein Herz und hat dieses nie mehr verlassen. Als in den 70er Jahren dann im Radio ihre Musik kaum noch zu hören war, geriet sie auch bei mir ein wenig in Vergessenheit.

    1997 beschloss ich, alle meine LP´s auf CD zu überspielen, um den Plattenspieler auszurangieren.
    Als erstes versuchte ich es natürlich mit den übriggebliebe- nen Platten von Françoise Hardy, die in den mehr als 30 Jahren stark gelitten hatten. Dabei wurde ihre Stimme in meinem Herzen wieder wach. und zwar stärker als zuvor.

    Auf Anhieb fand ich im ersten Musik- laden die CD „Blues 1962 /1993“. Das spornte mich natürlich an, weitere CD´s zu finden, was jedoch nicht mehr ganz so einfach war.
    Besonders bei den deutschen Titeln hatte ich Probleme. Trotz 1.5-jähriger intensiver Suche auf Schallplattenbörsen und Trödel-märkten, hatte ich keinen Erfolg.
    Aber durch das Internet war es dann doch möglich, wieder eine umfangreiche Musik- sammlung anzulegen.

    Im Internet hatte ich tolle Seiten über Françoise Hardy gefunden (siehe Links), jedoch keine, wo man etwas tauschen, anbieten oder kaufen konnte. Also versuchte ich hier, etwas Derartiges zu installieren. Leider wurde dieses nicht angenommen.
    Danach legte ich das Haupt-Augenmerk auf Francoise Hardy’s Musik. Man konnte kurze Proben meiner komplette F.H.-Sammlung hier hören. So hat man die Möglichkeit vor der Bestellung einer CD, als Entscheidungshilfe die Songs hier zu hören, denn nicht alle Internet-Versand-Händler bieten komplette Hörproben. Das wurde ein voller Erfolg. Leider musste ich am 14.6.2002 hier sämtliche Musik abschalten. Die IFPI (International Federation of the Phonographic Industry) verbot mir das Veröffentlichen von Hörproben mit der Androhung von rechtlichen Schritten. Ich wollte diese Homepage schließen, fehlte doch nun das wichtigste, die Musik von Françoise Hardy. Ich wurde aber von vielen Besuchern hier überredet, dieses nicht zu tun.
    Inzwischen sind die umfangreichen Liedertexte mit ihren vielen Übersetzungen ein Highlight geworden. Schauen Sie dort mal rein, Sie werden es nicht bereuen.
    Ich werde versuchen, weiterhin Informationen zu sammeln um sie hier zu veröffentlichen bzw. als Links abzulegen. Wenn Sie der Meinung sind, dass hier etwas fehlt, so schicken Sie mir eine E-Mail. Über Ihre Anregungen oder Kritik würde ich mich sehr freuen.

    Letzte Änderung: 28.06.2023, Rolf Ludwig

    Lieber Françoise Hardy Freund. Für diese Seiten musste bisher ein RealPlayer installiert sein. Da dieser Player heute kaum noch Bedeutung hat habe ich alles umgestellt, auf das M4A Format..Damit die Musikwiedergabe funktioniert kann nicht jeder Browser benutzt werden. Am besten funktioniert Google Chrome, dort muss nichts eingestellt werden, aber auch MS-Edge funktioniert jetzt. Beim IExplorer muss der Zugriff auf den Windows Mediaplayer zugelassen werden Das geschieht z.B. beim ersten Aufruf eines Songtextes. Bei Opera ist keine Hintergrundmusik möglich. Falls jemand wie es mit Safari und anderen Browsern Erfahrung hat, schreibt mir eine Mail oder ins Gästebuch.

    #musique #histoire #Allemagne #France #Gainsbourg

    • La page Wikipedia sur FH relate que c’est une vielle dame dont les idées et convictions ont été façonnées par les bourgeois qui l’ont entouré tout au long de sa vie. D’abord elle se prononce pour Sarkosy, puis c’est Macron. Elle a bossé avec succès mais n’a pas laissé d’oeuvre remarquable comme les grands révoltés Ferrat, Ferré ou encore Brassens. Et dans le même genre France Gall est bien plus intéressante et extrême. Au fait j’ai découvert cette chanson par Jimmy Sommerville et à travers le génie de Gainsbourg. Alors FH pour moi c’est un peu la « poor little rich girl » Schlagersängerin un peu arriviste mais mignonne à son époque. De la pop musique commerciale quoi.

    • Le parolier Walter Brandin
      https://de.wikipedia.org/wiki/Walter_Brandin

      Les producteurs de la version allemande ont fait appel à Walter Brandin pour la version allemande qui a malheureusement loupé l’occasion de surpasser son collègue français Gainsbourg. Pourtant l’allemand permet une plus grande liberté aux poètes que le français. La preuve sont les Kurt Schwitters, Heinz Erhard, Ernst Jandl et enfin chacune qui ose additionner nos mots en néologismes à longueur infinie grammaticalement correcte.

      Le texte allemand de « Comment te dire adieu » est donc le résultat d’un travail de routine sans engagement ni génie particulier par un parolier qui ne voulait pas être original mais satisfaire ses commanditaires.

      Walter Brandin betätigte sich nach einem privaten Klavier- und Orgelstudium und einem in Breslau begonnenem Musikstudium im Militärdienst als Musiker und Chorleiter. In russischer Kriegsgefangenschaft (1945–1949) war er als Orchesterleiter, Komponist und Verfasser von Texten tätig.[1]

      Er verfasste oder übersetzte zahlreiche Liedertexte für Zarah Leander, Helen Vita, Udo Jürgens, Adamo, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, Françoise Hardy, Karel Gott, Katja Ebstein, René Kollo, Su Kramer und viele andere. Er übertrug das berühmte Chanson „Göttingen“ der französischen Sängerin Barbara ins Deutsche.

      Margot Hielscher sang 1958 beim Eurovision Song Contest das von ihm getextete Lied Für zwei Groschen Musik.

      Brandin schuf die deutsche Fassung der Musicals Hair und Where’s Charley (Charleys Tante) und schrieb zahlreiche Drehbücher[2].

      1982 war er Gründungsmitglied des Popkurs Hamburg – damals noch Modellversuch Popularmusik.
      Erfolgstitel mit Texten von Walter Brandin (Auswahl)
      Das alte Försterhaus[3] (Friedel Hensch und die Cyprys 1954)
      Es wird Nacht, Senorita (Udo Jürgens 1968)
      Inch Allah (Katja Ebstein 1969)
      Anuschka (Udo Jürgens 1969)
      Wer ist er? (Udo Jürgens 1970)
      Bis morgen auf dem Mond mit dir (Adamo 1970)
      Die alte Dame, der Sänger und die Spatzen (Adamo 1972)

    • Le parolier Walter Brandin
      https://de.wikipedia.org/wiki/Walter_Brandin

      Les producteurs de la version allemande ont fait appel à Walter Brandin qui a malheureusement loupé l’occasion de surpasser son collègue français Gainsbourg. Pourtant l’allemand permet une plus grande liberté aux poètes que le français. La preuve sont les Kurt Schwitters, Heinz Erhard, Ernst Jandl, Otto Waalkes et enfin chacune qui ose additionner nos mots en néologismes à longueur infinie.

      Le texte allemand de « Comment te dire adieu » est donc le résultat d’un travail de routine sans engagement ni génie particulier par un parolier qui ne voulait pas être original mais satisfaire ses commanditaires.

      C’est dommage car ses autres collaboration montrent que c’était quelqu’un d’ouvert avec un penchant pour la gauche social-démocrate qui croyait naïvement en la mission civilisatrice d’Israël.

      Katja Ebstein - Inch Allah 1972 (avec paroles)
      https://www.youtube.com/watch?v=NvLcPAxqfBM

      Walter Brandin betätigte sich nach einem privaten Klavier- und Orgelstudium und einem in Breslau begonnenem Musikstudium im Militärdienst als Musiker und Chorleiter. In russischer Kriegsgefangenschaft (1945–1949) war er als Orchesterleiter, Komponist und Verfasser von Texten tätig.[1]

      Er verfasste oder übersetzte zahlreiche Liedertexte für Zarah Leander, Helen Vita, Udo Jürgens, Adamo, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, Françoise Hardy, Karel Gott, Katja Ebstein, René Kollo, Su Kramer und viele andere. Er übertrug das berühmte Chanson „Göttingen“ der französischen Sängerin Barbara ins Deutsche.

      Margot Hielscher sang 1958 beim Eurovision Song Contest das von ihm getextete Lied Für zwei Groschen Musik.

      Brandin schuf die deutsche Fassung der Musicals Hair und Where’s Charley (Charleys Tante) und schrieb zahlreiche Drehbücher.

      1982 war er Gründungsmitglied des Popkurs Hamburg – damals noch Modellversuch Popularmusik.
      Erfolgstitel mit Texten von Walter Brandin (Auswahl)
      Das alte Försterhaus[3] (Friedel Hensch und die Cyprys 1954)
      Es wird Nacht, Senorita (Udo Jürgens 1968)
      Inch Allah (Katja Ebstein 1969)
      Anuschka (Udo Jürgens 1969)
      Wer ist er? (Udo Jürgens 1970)
      Bis morgen auf dem Mond mit dir (Adamo 1970)
      Die alte Dame, der Sänger und die Spatzen (Adamo 1972)

      La liberté du poète allemand, mode d’emploi pour écoliers.
      L’exemple de « ottos mops » d’Ernst Jandl
      https://deutschunterlagen.files.wordpress.com/2014/12/jandl-ottos-mops.pdf

      ottos mops

      ottos mops trotzt
      otto : fort mops fort
      ottos mops hopst fort
      otto : soso
      otto holt koks
      otto holt obst
      otto horcht
      otto : mops mops
      otto hofft
      ottos mops klopft
      otto : komm mops komm
      ottos mops kommt
      ottos mops kotzt
      otto : ogottogott

      Kurt Schwitters - An Anna Blume, 1932
      https://www.youtube.com/watch?v=U2TIVTHzFT0

      Ursonate - Kurt Schwitters, dit par Michael Schmid (16:59 !)
      https://www.youtube.com/watch?v=PXtDkAnJx7o

      Otto Waalkes - Mao Tse Tung, Idi Amin 1977
      https://www.youtube.com/watch?v=vB-cZRYdE_s

      #poésie

    • Ali Abunimah is now on bluesky sur X :

      Elderly Israeli Yocheved Lifshitz turns around, shakes the hand of a Palestinian Qassam Brigades soldier and says “Shalom” as she is transferred to the Red Cross. The resistance are keeping their promise to safely return home all detained noncombtants, as conditions allow.

      https://twitter.com/AliAbunimah/status/1716573935943266606

      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1716570755150872576/pu/vid/avc1/636x360/H0kHbrd9bNrMlycs.mp4?tag=12

    • Je vois passer beaucoup de ce genre de commentaires cette nuit, et franchement j’ai beaucoup de mal. Si on veut démontrer son humanité, il y a quand même mieux que de se pavaner en train de libérer une femme de 85 ans qu’on vient de prendre en otage pendant quinze jours. Par exemple en ne prenant pas en otage une femme de 85 ans.

    • cette militante du dialogue Israélo palestinien va subir un long débriefing. ses interventions média seront à surveiller

      edit

      Leurs époux sont toujours retenus dans la bande de Gaza .... Le porte-parole de la branche militaire du Hamas, Abou Obeida, a affirmé dans un communiqué que les deux femmes otages avaient été libérées « pour des raisons humanitaires pressantes » grâce à une médiation du #Qatar et de l’#Egypte. Le Comité international de la Croix-Rouge (CICR) a affirmé de son côté avoir facilité la libération de ces deux #otages. .... Les négociations sur une éventuelle libération d’un groupe de 50 otages ont échoué, le Hamas exigeant qu’Israël autorise les livraisons de carburant à Gaza, ce que rejette l’Etat hébreu tant que tous les otages n’auront pas été libérés, selon des responsables au fait des #pourparlers, rapporte le Wall Street Journal. .... D’après les estimations des responsables du kibboutz [Nir Oz] , environ un quart de ses 400 habitants ont été tués, kidnappés ou sont portés disparus.

      https://www.20minutes.fr/monde/israel/4059174-20231023-guerre-hamas-israel-mouvement-islamiste-palestinien-affir

      #Yocheved_Lifshitz #kibboutz_Nir_Oz #otages #Hamas #Israël

    • @arno
      J’ai bien conscience que c’est de la propaguande et que peut etre les Quassam mangent des mémés israeliennes hors caméra mais je comprend pas le pbl de sortir les civils non combattants via la croix-rouge quand c’est possible pour les éloigner des bombes. C’est quand même un geste qui montre un « humanisme » plus élévé que les bombardement de Gaza. J’ai pas vu écrit "otage"et a te lire j’ai l’impression que ton pbl c’est le sexe et l’age de la dame. Comment on fait a guerre proprement et « humainement » (tellement d’hommerie dans l’hypocrisie de ce mot) ? Quel types de civils non-combattants doit on éloigner du feu ? Quel est la différence entre un « civil non-combattant évacué à la croix-rouge » et un « otage libéré qui n’aurais jamais du être otagé » ?

    • Les terroristes ne doivent jamais paraître humains. Et à chaque fois que tu parles d’eux et de leurs actes, tu dois rappeler que ce sont des terroristes inhumains. Sinon tu es comme eux.

      Il n’en reste pas moins qu’il s’agit apparemment d’une survivante de la directive Hannibal... ainsi qu’une survivante des bombardements d’autodéfense... ainsi qu’une survivante des armées diaboliques du Hamas. J’ignore lequel des 3 est le plus prodigieux.

      (je n’adhère pas forcément à tout ce que j’écris ; je me laisse coupablement aller à un certain cynisme, et j’ai honte... au moins 30 secondes... mon cynisme est cependant à priori moins létal que les Quassam ou les JDAM)

    • J’avais pas vu l’article de 20mns mis par @colporteur - on parle bien d’otages et on apprend que les « époux » sont toujours retenus (si c’est des prostates non-combattantes ca passe de les otagé manifestement). Mais vu qu’il y a un échange je pense maintenant qu’on peu parler d’otages. Si j’ai compris ce que j’ai lu, les deux femmes libéres avaient des besoins de santé qui justifiaient leur évacuation. C’est quand même un peu plus sympa vu d’ici que de couper électricité et l’eau ou bombarder 55 hopitaux...

      Je sais pas ce qu’est la directive Hannibal, mais est-ce que ces otages ou civiles non-combattants sont sur des territoire qui devraient revenir à la Palestine selon les directives de l’ONU ? Si c’est le cas c’est pas exactement simplement ce que j’appellerait des « non-combattants » ou des « otages » ? Je veux pas dire que des colonialistes israeliennes mériteraient d’etre prises en otage, mais je voudrais comprendre du mieux possible ce que couvre tous ces mots qui sont pas claire, cad terroristes/resistants, otages/civiles-non-combattants/colons...

      (Il y a « campisme » aussi qui à popé hier dans cette guerre de vocabulaire et là aussi j’avoue ne pas trop comprendre quelle hommerie cache ce mot. Il doit y avoir des infos sur seenthis désolé pour ce hors sujet.)

    • " On peut définir le campisme comme la "science du camp". une affaire scout, "toujours prêts, ou vcegda gatov chez les pionniers.

      https://wikirouge.net/Campisme
      (peut mieux faire...)

      Le « campisme » : une vision binaire et idéologique des questions internationales, Bernard Dréano
      https://blogs.mediapart.fr/jean-marc-b/blog/160818/le-campisme-une-vision-binaire-et-ideologique-des-questions-internat

      en consultant les cartes successives de la présence juive puis de la création et de l’extension d’Israël, on constate que la bande de Gaza a dès la création d’Israël été un isolat bordé par Israël et l’Égypte.
      si on adopte une définition politique extensive de l’État colon, on considérera que les habitants israéliens et juifs du désert du Néguev sont des colons. si on en reste au droit international (impérialiste), il n’en est pas de même. nombre des morts suite aux massacre commis par le Hamas sont d’ailleurs nés dans le Neguev, et on a pu lire que certains tâchaient d’entrenir des relations avec des gazaouis, prenaient position contre le traitement infligé par Israël aux Bédouins du Néguev, faisaient partie de ceux qui lors de la récente contestation massive du régime avaient réintroduit la question d’une paix juste avec les palestiniens (outre le fait quelle doit escompter un traitement acceptable de son mari et des autres otages, Yocheved Lifshitz vient de fournir une image fort troublante à ce sujet)
      https://www.monde-diplomatique.fr/cartes/israel
      lorsque des otages sont en cause, il est classique (si on est pas en Russie avec le massacre de Beslan en 2004 https://fr.wikipedia.org/wiki/Prise_d%27otages_de_Beslan) que l’État supposé garant de leur sécurité soit traversé de contradictions quant à la manière de procéder, négocier, ou pas ? jusqu’ou ? (WP évoque un refus de laisser livre du carburant à Gaza, blocus, libération de prisonniers palestiniens par milliers, ouverture de négociations politiques sur le devenir des palestiniens ? un état palestinien ? mais où ?!?). l’article de 20mn cite la presse US qui parle de tractations s !ur le sort des otages. si cessez-le-feu il pouvait y avoir c’est aussi par là que ça passe. cependant, dans bien des cas, la libération d’otages revient en boomerang contre l’État des libérés.

      ainsi, par exemple, la Démocratie chrétienne italienne a-t-elle chose le refus de toute négociation préférant un Aldo Moro mort exécuté par les BR plutôt que libéré et apte à livrer publiquement une analyse politique de la putréfaction du compromis historique qui a continué à lier la DC au PCI.

      Ici les enjeux sont tout autres, le Gouvernement israélien d’unité nationale devra finir, quand ? comment ? c’est le jeu de parties israéliennes (dont celle, disons "pour une paix juste", passée de minoritaire à marginale, que l’on silence à coups de licenciements et de censure) y compris dans la manière de mener la guerre.
      #campisme #négociation

    • D’après certains témoignages, la directive Hannibal aurait débordé du cadre lors de la riposte à l’attaque (terroriste) du Hamas, au sens où apparemment, des tirs de mortiers auraient été employés pour déloger les combattants (terroristes) embusqués avec des civils israéliens (innocents).

    • כאן חדשות sur X : “גורמים שעוסקים בהסברה הישראלית בימים האחרונים: העובדה שאפשרו ליוכבד ליפשיץ לשאת הצהרה בשידור חי הייתה טעות. לא בטוח שהיה מישהו שערך דיון מקדים בנושא ושאל את עצמו את כל השאלות • בתמונה: כך סיקרו ב”סקיי ניוז" את הצהרתה AmichaiStein1
      https://twitter.com/kann_news/status/1716761417380950040

      “Each person had a guard watching him or her. They took care of all the needs. They talked about all kinds of things, they were very
      friendly.”
      sky Yocheved Lifshitz details what it was like while
      being held hostage by Hamas.

    • Les responsables israéliens seraient mécontents d’une interview donnée par une ancienne captive âgée du Hamas à Gaza parce qu’elle n’avait pas été bien préparée à cette déclaration.

      https://seenthis.net/messages/1022869

      le Sin beth patauge dans la semoule ou quoi ? je voyais Yocheved Lifshitz partie pour une semaine de débriefing avant éventuelle prise de parole (ou internement).

      edit : la trad automatique de la partie en hébreu du tweet cité : « Facteurs impliqués dans la propagande israélienne ces derniers jours : le fait que Yocheved Lifshitz ait été autorisé à faire une déclaration en direct était une erreur. Il n’est pas sûr que quelqu’un ait eu une discussion préliminaire sur le sujet et se soit posé toutes les questions. • Sur la photo : voici comment Sky News a couvert sa déclaration »

    • le Sin Beth, aux fraises, a fait comme si on ne savait pas qui était libéré, alors qu’il leur est loisible d’enfermer le temps qu’il faut dans un hôpital militaire qui est susceptible de revenir de captivité avec un discours et une attitude inapproprié

      Haaretz :

      Lifshitz is a peace activist who together with her husband helped sick Palestinians in Gaza get to hospital for years, her grandson told Reuters. Lifshitz and her 83-year-old husband, Oded, were kidnapped from their home at the Nir Oz kibbutz, close to the border with Gaza in southern Israel and Oded remains a captive, according to the Israeli government.
      “They are human rights activists, peace activists for all their life,” grandson Daniel Lifshitz told Reuters in Tel Aviv before the release was confirmed. “For more than a decade, they took... sick Palestinians from the Gaza Strip, not from the West Bank, from the Gaza Strip every week from the Erez border to the hospitals in Israel to get treatment for their disease, for cancer, for anything,” he added.

  • Veglia a tutto solare
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Croazia/Veglia-a-tutto-solare-227337

    Decarbonizzare, decentrare, democratizzare. Sono le tre D di una possibile rivoluzione energetica che alcuni cittadini stanno portando avanti sull’isola croata di Veglia (Krk) attraverso l’installazione di molti impianti fotovoltaici e l’istituzione di una comunità energetica. Un’intervista

  • Berlin: Wieder ein schwerer Übergriff auf einen Taxi-Fahrer
    https://www.berlin-live.de/berlin/aktuelles/berlin-taxi-fahrer-messer-raub-polizei-friedrichshain-id56781.html

    16.10.2023 von Sarah Dapena Fernandez - Der Beruf des Taxi-Fahrers ist derzeit in Berlin kein einfacher, erzählte ein Berliner Fahrer vor ein paar Wochen BERLIN LIVE. Die Pläne des Senats wollen die Taxis vor dem Hauptbahnhof in Berlin in die Tiefgarage des Gebäudes verlegen. Man sorgt sich um einen Einbruch an Kundschaft. Zudem leiden viele Taxi-Fahrer unter den zahlreichen alternativen Mitfahrmöglichkeiten wie Uber, Bolt und Co.

    Im April 2023 kam es zu einem erschreckenden Überfall auf einen Taxi-Fahrer der ganz Berlin und besonders aber die Taxi-Fahrer dieser Stadt erschütterte. Nach einer Fahrt stach ein 24-Jähriger im Stadtteil Grunewald auf den Fahrer ein weil er offenbar kein Geld hatte. Seinen schweren Verletzungen erlag der Taxi-Fahrer später im Krankenhaus. Ende September brachte ein Mann in Neukölln ein Taxi zum stehen, lief über den Wagen und schlug dann auf den Fahrer ein.

    Berlin: Beklaut, geschlagen und mit Messer bedroht

    In der Nacht von Sonntag auf Montag, dem 16. Oktober, überfiel ein Fahrgast in Berlin seinen Fahrer. Der Tatverdächtige soll gegen 2.15 Uhr am Frankfurter Tor einen Teil der Einnahmen des Taxi-Fahrers gestohlen haben. Nachdem der 58-jährige Fahrer das Geld zurückverlangte, soll der 28-Jährige dem Mann zuerst einen Faustschlag ins Gesicht verpasst und ihn dann anschließend mit einem Messer bedroht haben.

    Danach soll der Fahrgast weiteres Geld des Fahrers an sich genommen haben und in Richtung der Warschauer Straße in Berlin-Friedrichshain geflohen sein. Einsatzkräfte der Polizei konnten ihn kurze Zeit später festnehmen. Er soll nun einem Richter vorgeführt werden.

    #Berlin #Taxi #Kriminalität #Raub

  • #Kythira, October 5, 2023: A trip back to the EU border where many lost their loved ones a year ago.

    They wanted to thank the local people of Kythira who, without thinking of the danger to their own lives, rescued a total of 80 people on October 5, 2022.
    People who otherwise would certainly not be alive. Together, some survivors and family members came together to hold a memorial ceremony on the beach of Diakofti, the place where the night of 5.10.2022 will remain forever present for all.

    “October 05 remains an indelible date for all of us. That night two boats capsized in Greece waters, one of them just off the island of Kythira. The people on the boats were fleeing war and terror – filled with longing for a safe future. Here in this place, very close to the harbor, the boat crashed into a rockface. The wind was strong, the waves high, and it was night. Many inhabitants of the island came and tried to save the people by any means possible. They saved 80 people with their efforts. However, at least 15 people lost their lives that night.

    When the tragedy became known to the relatives of those onboard, those who could made their way to Kythira. In this time of shock and loss, survivors and relatives met there, as well as initiatives in solidarity and people willing to help.
    Some of the dead could be found in the water. They were identified, transported to Kalamatas hospital, and then buried in Komotini. Others are still missing a year later. The survivors have been housed in inhumane camps and are fighting for their residence permits to live safe life.

    Since October 2022, we – some of the survivors and relatives remained in contact. In March 2023, we remembered what happened in #Erfurt with an evening called “#A_Sea_Full_of_Tears.” More than 200 people created space for mourning, pain and remembrance, but also for courage and hope. It was
    possible to feel the presence of those who are no longer with us. In this touching atmosphere, the idea of returning to Kythira became more concrete.

    We gathered here in Kythira with everyone to mourn and commemorate the lost. We keep alive the memory of the people who died in the sea. We also come angry at the European borders that killed them, and continue to kill. We come with the desire to build another future in solidarity and without
    borders. It is our resistance.”

    At the beginning of the Memorial, Shuja and Sultana told the story of how we all came together and introduced the speeches of the survivors and family members.
    Khadijah, who lost her dearest husband Abdul Wase Ahmadi that night, began by expressing her discomfort. She said,
    “I stand here wanting to tell you so many words. But the waves behind me make me sad and I can’t find
    the words. The last words from my husband were: who will save us here? You came and saved us, endangering your own lives. We are here to thank you. To embrace you. We are a family now. We will never forget you. Thank you!”

    Zameer, who lost his mother, sister, and brother, stood with his back to the
    sea, which became their graves:
    “I lost my whole family here, in this sea, but you saved me. I wanted to say thank you. When I leave Kythira, I will be leaving my family here with you. Please take care of them.”

    With the heartbreaking statements from the survivors, more than 100 people came to commemorate that night and the dead together with them. The ceremony on 5.10.23 was touching.
    In the days before the Memorial, the 25 travellers to Kythira, including 12 survivors and family members of missing people and their supporters from Hamburg, Erfurt, Munich, and Athens, among others, had daily conversations and meetings with the people who saved them that night:

    There was Dimitris, who took his uncle’s crane and stood on the edge of the abyss with it, saving Khadijah, Hussein, Masih and many others from certain
    death.
    Kostas, who also played the clarinet at the Memorial, who with others were able to pull up many people with ropes, their strength coming from their hands and will power.
    The vice mayor and volunteer firefighter who unobtrusively made everything
    possible everywhere.

    The firefighter Spyros, who with two of his colleagues, rappelled down the dangerous slope with his private equipment to give instructions to people how to be pulled up with the rope.
    Everyone who spent the next few days cooking, bringing clothes, healing wounds, comforting worries, answering questions for the survivors and for the many relatives who immediately came from abroad. They were comforted in their difficult time and helped through the bureaucracy.
    Many of the survivors who could not travel with us listened to a live stream on October 5 and were thus also present. Some had written their own speeches and sent voice messages.

    An elderly lady in black sat on a chair on the beach for the whole two hours and listened attentively as all the speeches in Dari were translated into German and Greek. Four coast guard officers, a priest, a teacher with his little students, many of the people who supported the days with whatever
    they had – all could not believe that the people had come back, had the strength to return to Kythira and embraced them even more in their hearts.

    The day before the Memorial, the survivors had invited all those who had saved them to an Afghan meal in Karavas. It is a beautiful village in the island’s north with a valley, a river and a spring named Amir Ali. Here, in this sheltered place, many were able to embrace and share stories and pain for
    the first time. Many of the locals said that they do not talk to anyone about this night, they do not want to burden anyone in their families, but constantly the images flash in their minds. Now through this trip they had finally found others again with whom they can share the painful experiences.

    “I don’t take off my sunglasses and you understand why,” said Giannis.
    And the other Giannis, the cook who after rescuing people still opened the kitchen of his restaurant and cooked whatever he had so that the survivors would have something to eat says: “Solidarity is a big cooking pot. Allilegii ine ena tsoukali.”

    We promise to never forget those who lost their lives on these borders. We think always of those in Lampedusa and so many other places who are thinking of their loved ones whose lives ended at these deadly borders. We have paused for a moment and now we will move forward together. To tear down the borders and build another world of welcome.

    http://kithira.w2eu.net/2023/10/14/kythira-october-5-2023

    #mémoire #commémoration #Grèce #naufrage #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #5_octobre_2022 #ceux_qui_restent #survivants #deuil #courage #espoir #colère #résistance #frontières #mémorial #solidarité

  • #Oro_blanco

    Tous les matins, Flora parcourt les montagnes argentines avec ses lamas pour trouver des pâturages. Mais la terre devient de plus en plus stérile, et ses animaux doivent lutter pour trouver de quoi se nourrir. Une entreprise canado-américaine s’est installée dans la région de #Salinas_Grandes pour extraire du #lithium. En puisant les dernières ressources en eau de l’#Atacama et du #Kolla, elle cherche à satisfaire la soif du monde pour les #batteries rechargeables.

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/60708
    #film #documentaire #film_documentaire #Argentine #montagne #extractivisme #énergie #mines

  • Au #Sénégal, la farine de poisson creuse les ventres et nourrit la rancœur

    À #Kayar, sur la Grande Côte sénégalaise, l’installation d’une usine de #farine_de_poisson, destinée à alimenter les élevages et l’aquaculture en Europe, a bouleversé l’économie locale. Certains sont contraints d’acheter les rebuts de l’usine pour s’alimenter, raconte “Hakai Magazine”.
    “Ils ont volé notre #poisson”, affirme Maty Ndau d’une voix étranglée, seule au milieu d’un site de transformation du poisson, dans le port de pêche de Kayar, au Sénégal. Quatre ans plus tôt, plusieurs centaines de femmes travaillaient ici au séchage, au salage et à la vente de la sardinelle, un petit poisson argenté qui, en wolof, s’appelle yaboi ou “poisson du peuple”. Aujourd’hui, l’effervescence a laissé place au silence.

    (#paywall)

    https://www.courrierinternational.com/article/reportage-au-senegal-la-farine-de-poisson-creuse-les-ventres-

    #élevage #Europe #industrie_agro-alimentaire

    • Un article publié le 26.06.2020 et mis à jour le 23.05.2023 :

      Sénégal : les usines de farines de poisson menacent la sécurité alimentaire

      Au Sénégal, comme dans nombre de pays d’Afrique de l’Ouest, le poisson représente plus de 70 % des apports en protéines. Mais la pêche artisanale, pilier de la sécurité alimentaire, fait face à de nombreuses menaces, dont l’installation d’usines de farine et d’huile de poisson. De Saint-Louis à Kafountine, en passant par Dakar et Kayar… les acteurs du secteur organisent la riposte, avec notre partenaire l’Adepa.

      Boum de la consommation mondiale de poisson, accords de #pêche avec des pays tiers, pirogues plus nombreuses, pêche INN (illicite, non déclarée, non réglementée), manque de moyens de l’État… La pêche sénégalaise a beau bénéficier de l’une des mers les plus poissonneuses du monde, elle fait face aujourd’hui à une rapide #raréfaction de ses #ressources_halieutiques. De quoi mettre en péril les quelque 600 000 personnes qui en vivent : pêcheurs, transformatrices, mareyeurs, micro-mareyeuses, intermédiaires, transporteurs, etc.

      Pourtant, des solutions existent pour préserver les ressources : les aires marines protégées (AMP) et l’implication des acteurs de la pêche dans leur gestion, la création de zones protégées par les pêcheurs eux-mêmes ou encore la surveillance participative… Toutes ces mesures contribuent à la durabilité de la ressource. Et les résultats sont palpables : « En huit ans, nous sommes passés de 49 à 79 espèces de poissons, grâce à la création de l’aire marine protégée de Joal », précise Karim Sall, président de cette AMP.

      Mais ces initiatives seront-elles suffisantes face à la menace que représentent les usines de farine et d’huile de poisson ?

      Depuis une dizaine d’années, des usines chinoises, européennes, russes, fleurissent sur les côtes africaines. Leur raison d’être : transformer les ressources halieutiques en farines destinées à l’#aquaculture, pour répondre à une demande croissante des consommateurs du monde entier.

      Le poisson détourné au profit de l’#export

      Depuis 2014, la proportion de poisson d’élevage, dans nos assiettes, dépasse celle du poisson sauvage. Les farines produites en Afrique de l’Ouest partent d’abord vers la #Chine, premier producteur aquacole mondial, puis vers la #Norvège, l’#Union_européenne et la #Turquie.

      Les impacts négatifs de l’installation de ces #usines sur les côtes sénégalaises sont multiples. Elles pèsent d’abord et surtout sur la #sécurité_alimentaire du pays. Car si la fabrication de ces farines était censée valoriser les #déchets issus de la transformation des produits de la mer, les usines achètent en réalité du poisson directement aux pêcheurs.

      Par ailleurs, ce sont les petits pélagiques (principalement les #sardinelles) qui sont transformés en farine, alors qu’ils constituent l’essentiel de l’#alimentation des Sénégalais. Enfin, les taux de #rendement sont dévastateurs : il faut 3 à 5 kg de ces sardinelles déjà surexploitées [[Selon l’organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO)]] pour produire 1 kg de farine ! Le poisson disparaît en nombre et, au lieu d’être réservé à la consommation humaine, il part en farine nourrir d’autres poissons… d’élevage !

      Une augmentation des #prix

      Au-delà de cette prédation ravageuse des sardinelles, chaque installation d’usine induit une cascade d’autres conséquences. En premier lieu pour les mareyeurs et mareyeuses mais aussi les #femmes transformatrices, qui achetaient le poisson directement aux pêcheurs, et se voient aujourd’hui concurrencées par des usines en capacité d’acheter à un meilleur prix. Comme l’explique Seynabou Sene, transformatrice depuis plus de trente ans et trésorière du GIE (groupement d’intérêt économique) de Kayar qui regroupe 350 femmes transformatrices : « Avant, nous n’avions pas assez de #claies de #séchage, tant la ressource était importante. Aujourd’hui, nos claies sont vides, même pendant la saison de pêche. Depuis 2010, quatre usines étrangères se sont implantées à Kayar, pour transformer, congeler et exporter le poisson hors d’Afrique, mais elles créent peu d’#emploi. Et nous sommes obligées de payer le poisson plus cher, car les usines d’#exportation l’achètent à un meilleur prix que nous. Si l’usine de farine de poisson ouvre, les prix vont exploser. »

      Cette industrie de transformation en farine et en huile ne pourvoit par ailleurs que peu d’emplois, comparée à la filière traditionnelle de revente et de transformation artisanale. Elle représente certes un débouché commercial lucratif à court terme pour les pêcheurs, mais favorise aussi une surexploitation de ressources déjà raréfiées. Autre dommage collatéral enfin, elle engendre une pollution de l’eau et de l’air, contraire au code de l’environnement.

      La riposte s’organise

      Face à l’absence de mesures gouvernementales en faveur des acteurs du secteur, l’#Adepa [[L’Adepa est une association ouest-africaine pour le développement de la #pêche_artisanale.]] tente, avec d’autres, d’organiser des actions de #mobilisation citoyenne et de #plaidoyer auprès des autorités. « Il nous a fallu procéder par étapes, partir de la base, recueillir des preuves », explique Moussa Mbengue, le secrétaire exécutif de l’Adepa.

      Études de terrain, ateliers participatifs, mise en place d’une coalition avec différents acteurs. Ces actions ont permis d’organiser, en juin 2019, une grande conférence nationale, présidée par l’ancienne ministre des Pêches, Aminata Mbengue : « Nous y avons informé l’État et les médias de problèmes majeurs, résume Moussa Mbengue. D’abord, le manque de moyens de la recherche qui empêche d’avoir une connaissance précise de l’état actuel des ressources. Ensuite, le peu de transparence dans la gestion d’activités censées impliquer les acteurs de la pêche, comme le processus d’implantation des usines. Enfin, l’absence de statistiques fiables sur les effectifs des femmes dans la pêche artisanale et leur contribution socioéconomique. »

      Parallèlement, l’association organise des réunions publiques dans les ports concernés par l’implantation d’usines de farines et d’huile de poisson. « À Saint-Louis, à Kayar, à Mbour… nos leaders expliquent à leurs pairs combien le manque de transparence dans la gestion de la pêche nuit à leur activité et à la souveraineté alimentaire du pays. »

      Mais Moussa Mbengue en a conscience : organiser un plaidoyer efficace, porté par le plus grand nombre, est un travail de longue haleine. Il n’en est pas à sa première action. L’Adepa a déjà remporté de nombreux combats, comme celui pour la reconnaissance de l’expertise des pêcheurs dans la gestion des ressources ou pour leur implication dans la gestion des aires marines protégées. « Nous voulons aussi que les professionnels du secteur, conclut son secrétaire exécutif, soient impliqués dans les processus d’implantation de ces usines. »

      On en compte aujourd’hui cinq en activité au Sénégal. Bientôt huit si les projets en cours aboutissent.

      https://ccfd-terresolidaire.org/senegal-les-usines-de-farines-de-poisson-menacent-la-securite-a

      #extractivisme #résistance

  • Berlin: Verfolgungsjagd - ging der Polizei ein Kokstaxi-Fahrer ins Netz?
    https://www.berlin-live.de/berlin/brennpunkt/berlin-verfolgungsjagd-polizei-kokstaxi-fahrer-festnahme-id57670.html

    Ein Ausserirdischer, der sich völlig unvoreingenommen aus deutschen Medien über Berlin informiert, muss den Eindruck gewinnen, dass der öffentliche Nahverkehr der Hauptstadt um ein neues Transportmittel erweitert wurde. Das „Kokstaxi“.

    Das neue Beförderungsmittel wurde im Zuge der Bestrebungen zur Drogenlegalisierung geschaffen. Es bildet die gesellschaftliche Wirklichkeit im Mobilitätssektor angemessen ab und wurde von der Bevölkerung dringend erwartet.

    Hier beweist sich eine innovative Verkehrsverwaltung, die bereits zahlreiche Ausnahmen von geltenden Regeln für Elektroroller, Carsharing-Blech und Ubertaxis eingeführt hat. Im Wettbewerb um Investoren gibt es keine Grenzen. Her mit der Disruption . Brandenburg kriegt Elon Musk und Tesla, Berlin die Sopranos und Koskstaxis.

    Jetzt mal im Ernst. Ein „Kokstaxi“ ist kein Taxi. Der Begriff sollte aus der Öffentlichkeit verschwinden. In die Welt gesetzt wurde er von der Marketingabteilung der Drogenmafia und ihren sorglosen Medien-Zuarbeitern. Wer das Wort in Massenmedien verwendet bewirbt einen Vertriebsweg für lebensgefährliche Drogen, indem er positive Eigenschaften, die traditionell mit Taxis in Verbindung gebracht werden, auf Drogenkuriere anwendet.

    Sofort verfügbar, schnell, anonym und zuverlässig sind nur ein paar Eigenschaften, die durch den Begriff vom Taxi auf die Drogenkuriere übertragen werden. Dabei ist die einzige Gemeinsamkeit der vertrauliche, anonyme Service mit Barzahlung, die keine Datenspur hinterlässt. „Was im Taxi passiert bleibt im Taxi“ gehört zum Service für Abgeordnete genauso wie für Stinos. Beim Drogenkurier ist das nicht so sicher. Der schiebt im schlimmsten Fall eine heftige Erpressung hinterher.

    Andere typische Taxi-Qualitäten wie perfekte Stadtkenntnis, Auskunftsfreude und diskrete Aufmerksamkeit der Frauen un Männer als Steuer zeichnen Drogenkuriere nicht aus. Dieses Image transportiert der Marketingbegriff als gewollte Hintergrundschwingung, damit die Partyszene bei Drogenbestellung eine wohlige Stimmung fühlt. „Order mich bloß, dann geht’s dir gut wie im Taxi-Schoß“ will das wohl in bester Paech-Brot-Manier sagen.

    Deshalb hier die große Bitte an alle Journalistinnen und Journalisten :

    Wenn Sie über Drogenkuriere, über Verfolgungsjagden und die Just-in-time-Lieferung von Drogen aller Art berichten, bitte verwenden Sie nie wieder den hässlichen Begriff aus der Marketingabteilung der Drogenmafia. „Drogenkurier“ ist aussagekräftig. „Kurierfahrzeug“ ist weniger knallig als irgendwas mit „Taxi“, aber Sie können die Chance nutzen, und mit eigenen Buzzwords in die Mediengeschichte eingehen.

    Wir vom Taxi unterstützen Sie dabei gerne. Wir waren schon immer gut im Erfinden von Bezeichnungen für Personen der Zeitgeschehens, eigenartige Bauten und historische Ereignisse. Wie wärs zum Beispiel mal mit einem Volker-Beck-Service oder einem Volki-Drogi-Auti als Hommage an den notorischen Polit-Kokser aus der Nasenpartei vom Neuen Tor.

    Da geht noch was. Sehr geehrte Damen und Herren von Presse, Film, Funk und Fernsehen, bitte übernehmen Sie.

    17.10.2023 von Anouschka Hamp - Wilde Verfolgungsjagd auf der A100 in Berlin. Der Polizei ist gestern mutmaßlich ein Drogendealer ins Netz gegangen.

    Gerade unter jungen, feierwütigen Berlinern und Touristen sind die Kokstaxis der Hauptstadt berühmt und berüchtigt. Der Grund: Anders als Straßenverkäufer bieten sie – ganz nach dem Taxi-Vorbild – einen Rundum-Service. Man bestellt einfach mit der App Telegram Kokain, Cannabis oder auch andere Drogen und kann sich innerhalb weniger Minuten mit dem Dealer direkt und anonym treffen, egal ob zuhause, nach der Arbeit oder nachts vor einem Club.

    Diese ständige Mobilität macht es der Berliner Polizei besonders schwierig, die Fahrer oder gar ihre Hintermänner zu schnappen. Doch in Friedenau könnte nun ein Täter geschnappt worden sein.

    Wie die Autobahnpolizei mitteilt, konnte am Montagabend (16. Oktober) ein mutmaßlicher Kokstaxi-Fahrer festgenommen werden. Dabei lieferten sich die Beamten gegen 18.10 Uhr auf der Stadtautobahn A100 eine wilde Verfolgungsjagd mit dem Mann. Dabei versuchten sie zunächst, ihn mit Leuchtsignalen dazu aufzufordern, ihnen zu folgen.

    Dem kam der 41-Jährige auch nach – anfangs. Doch bei der Abfahrt Hohenzollerndamm entschied er sich um und statt der Polizei hinterherzufahren, beschleunigte er und fuhr weiter geradeaus.

    Das fanden die Beamten im Auto

    Bei der Ausfahrt Mecklenburgische Straße wagte er ein riskantes Manöver: Von der äußersten linken Spur zog er über alle vier Fahrstreifen, um die Ausfahrt zu nehmen. Weiter ging es durch ein dicht besiedeltes Wohngebiet an der Binger Straße. Doch dort konnte der Fahrer letztlich gestoppt werden.

    Durch ein entgegenkommendes Fahrzeug musste der Mann abbremsen und in eine Parklücke ausweichen. Der Fahrer weigerte sich allerdings immer noch, sich von der Polizei kontrollieren zu lassen. Letztlich sahen sich die Beamten gezwungen, ein Fenster des Autos einzuschlagen. Der 41-Jährige wurde vorläufig festgenommen.

    Bei einer Durchsuchung des Wagens konnten verschiedene mutmaßliche Substanzen wie Kokain und Crystal Meth sichergestellt werden. Der Fahrer wurde nach kurzer Zeit wieder freigelassen, doch die Ermittlungen wegen des Autorennens und des mutmaßlichen Drogenhandels laufen weiter.

    #Berlin #Taxi #Kokstaxi #Kriminalität #Medien #Werbung #Propaganda #Sprache

  • Berlin: Nach Mord im Grunewald – so schnell war das Taxi wieder in Betrieb
    https://www.berlin-live.de/berlin/aktuelles/berlin-mord-grunewald-taxi-reinigung-tatort-franka-mantei-c-id45103.html


    In diesem Taxi wurde Anfang April 2023 der Fahrer brutal erstochen – kurz darauf fuhr der Wagen wieder auf der Straße. Credit: Privat

    6.10.2023 von Jana Wengert - Anfang April 2023 wurde ein Taxifahrer brutal in seinem Wagen erstochen – kurze Zeit später waren alle Spuren der Tat beseitigt…

    Am 6. April 2023 ereignete sich im Berliner Grunewald ein schrecklicher Vorfall: Auf heimtückische Art wurde ein Taxifahrer von einem Fahrgast brutal erstochen. Das Urteil für den Täter ist inzwischen gesprochen. Doch was passierte mit dem Fahrzeug, in dem das 49-jährige Opfer sein Leben verlor?

    Die elfenbeinfarbige Mercedes-Limousine wurde ein Fall für Franka Mantei – Tatortreinigerin in der Hauptstadt. Gemeinsam mit ihrem Team, der Deutsche Hygiene- und Infektionsschutz oHG, kümmerte sich die examinierte Krankenschwester um die Reinigung des mit Blut verschmierten Wagens. BERLIN LIVE hat mit ihr gesprochen.
    Berlinerin reinigte Mord-Taxi

    Nachdem die Polizei Berlin alle Spuren im Auto gesichert hatte, war die Tatortreinigerin gefragt. „Das Taxi stand in der DIR E/V Abt. V BGSt 21, Blumberger Damm in Berlin. Von dort musste die Abholung zu uns organisiert werden“, erinnerte sich Mantei im Gespräch mit unserer Redaktion zurück.

    Die Organisation erfolgte mit dem Halter des Fahrzeugs und mithilfe der Finanzierung des Weißen Rings. Diese finanzielle Unterstützung des Vereins ist jedoch kein Normalfall: Sie kommt nur dann infrage, wenn es sich um Strafdelikte handelt und die Hinterbliebenen der Kriminalitätsopfer auf die Hilfe angewiesen sind.

    Berlin: Taxi-Reinigung stellte Team vor Herausforderung

    Bei der Reinigung des Fahrzeugs stand Mantei dann vor der nächsten Hürde. „Der Fahrersitz war unsere große Herausforderung. Durch tief eingedrungenes Blut stellte diese Fläche eine starke Kontaminationsfläche dar“, erklärte die gebürtige Berlinerin. Ein Anblick, der wohl jedem gerne erspart geblieben wäre. Doch professionelles Handeln ist hier wichtiger denn je: „Würde man hier nicht richtig vorgehen, wären Spätfolgen wie Geruchsbildungen die Folge.“

    Immer wieder kommt es bei der Reinigung vor, dass man mit privaten Gegenständen der verstorbenen Person in Kontakt kommt – so auch in diesem Fall: Im Taxi lag noch die Brille des Fahrers. „Sie wurde den Hinterbliebenen ausgehändigt“, verriet Mantei. Momente, die definitiv keinen kalt lassen.

    Persönlicher Gegenstand des Opfers lag noch im Wagen

    Selbst der Tatortreinigerin gehen bei ihrer Arbeit viele Gedanken durch den Kopf: „Warum endet ein ‚eigentlich so normaler‘ Arbeitstag so grausam? Wieviel unvorstellbare Angst muss man in diesen Minuten haben? Welch plötzliche Panik, welch plötzlicher Schmerz, obwohl man eben noch ganz bei der Arbeit war und von seinem Kaffeebecher nippte.“

    Fragen, auf die wohl keiner eine Antwort findet. Der Alltag muss dennoch weitergehen. Deshalb müssen auch sämtliche Spuren des grausamen Mordes aus dem Auto beseitigt werden – und das nicht nur aus optischen Gründen, sondern auch der Gesundheit wegen. Auf die Frage, wann das Taxi wieder eingesetzt werden konnte, antwortete Mantei: „24 Stunden nach der Reinigung.“ Ohne die Details der Tatortreinigerin zu kennen – so, als wäre nie etwas gewesen.

    #Berlin #Taxi #Taximord #Kriminalität