• Ambiente: Europa e Cina finanziano il carbone serbo

    Dentro i propri confini Europa e Cina impongono regole stringenti, ma con gli investimenti esteri puntano ancora sulle fonti fossili, con tutto ciò che questo vuol dire quanto a impatto ambientale. È il caso della Serbia, dove l’ampliamento di una miniera e la costruzione di quattro centrali a carbone avranno effetti sull’ambiente e sulla salute.

    La Serbia ricava il 70% della sua elettricità dal carbone, ma questa quota potrebbe aumentare presto. Nonostante gli appelli della scienza e gli accordi internazionali sul clima, infatti, lo stato dell’est Europa continua a puntare sulle fonti fossili grazie ai capitali in arrivo dalle banche estere. A partire dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Ebrd), istituzione finanziaria che ha come azionisti la stessa Banca europea degli investimenti, un’istituzione finanziaria dell’Unione europea, più 67 Paesi.

    Non è la sua prima operazione controversa: la stessa banca in passato aveva per esempio finanziato una discarica in Armenia, senza però sufficienti garanzie sul fronte ambientale. L’altro grande finanziatore del carbone serbo è la Cina, che insieme all’Europa sta puntando al proprio interno su un’economia più verde, in disaccordo, a quanto pare, con gli investimenti di oltreconfine.

    Quattro nuove centrali a carbone in Europa

    La beneficiaria dei prestiti è la società pubblica dell’energia elettrica #Elektroprivreda_Srbije (Eps), che ha ricevuto più volte mutui dalla Ebrd per i suei impianti a carbone. Come riporta la ong Bankwatch, sulla base della strategia energetica del governo varata nel 2016, oltre a prolungare la vita di alcune centrali a carbone già esistenti, la #Eps sta espandendo la miniera di lignite di #Drmno e sta anche progettando nuovi impianti per produrre elettricità: #Kostolac_B3, #Nikola_Tesla_B3, #Kolubara_B e #Stavalj.

    «Mentre è improbabile che tutti vengano realizzati, la Eps dà chiaramente la priorità a Kostolac B3 nel programma di implementazione della strategia energetica e non ha pubblicamente annunciato la cancellazione degli altri impianti previsti», spiegano ancora dalla ong attiva nel monitoraggio a livello mondiale di progetti finanziati con soldi pubblici e che insieme all’associazione ambientalista Cekor ha denunciato le criticità anche alla stessa Ebrd.

    Carbone e impatto ambientale: miniera a cielo aperto

    Tra i problemi rilevati, le due organizzazioni denunciano anche l’espansione della miniera di Drmno, oggi grande quasi 20 km quadrati. L’obiettivo è portare la produzione da 9 a 12 milioni di tonnellate annue per alimentare il futuro terzo lotto della vicina centrale Kostolac B, ma l’ampliamento viene realizzato «senza una valutazione degli impatti ambientali e sociali, in violazione della politica della Ebrd e della legislazione serba ed europea». Dice Ioana Ciuta, esperta di energia di Bakwatch:

    «Nessun dato sulla superficie dell’espansione è stato reso pubblico e il ministero serbo dell’Energia, sviluppo e protezione ambientale non ha ritenuto necessario, in base a una decisione del 2013, alcuna valutazione degli impatti sull’ambiente».

    Problemi ambientali e sulla salute

    Eppure gli effetti sono significativi, a partire da una produzione di energia ad alte emissioni di CO2, contro gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, e un alto indebitamento per finanziare questi programmi. Ma gli effetti negativi non solo solo ecologici ed economici: gli abitanti dell’area hanno raccontato agli attivisti di Bankwatch e Cekor di soffrire problemi di salute per l’inquinamento. E i muri di molte case sono pieni di crepe, secondo i cittadini a causa dell’attività estrattiva.

    Carbone e ambiente: accerchiati dall’inquinamento

    Oggi, racconta Ioana Ciuta, i cittadini di Drmno sono accerchiati, con la centrale in ampliamento a nord e la miniera in fase di espansione a nord-est, est e sud, mentre a ovest è stato installato un nuovo molo sul Danubio per l’arrivo delle attrezzature necessarie alla costruzione di Kostolac B3. L’area si trova vicino anche al sito archeologico di Viminacium, attrazione turistica dove è in costruzione anche un campo estivo per gli studenti.

    «Ma chi vorrebbe andare in vacanza vicino a una miniera di lignite a cielo aperto che si espande per quasi 20 km quadrati?», si chiede retoricamente Ciuta.

    Milioni di euro nonostante l’impatto ambientale del carbone

    Questi progetti che non sarebbero stati possibili senza i soldi della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e quelli delle banche cinesi. La prima eroga mutui alla società energetica Eps dal 2001 nonostante che, fa notare Bankwatch, «la società persegua chiaramente una strategia di espansione della produzione elettrica da carbone e numerose accuse di corruzione e violazioni della legge macchino la sua reputazione».

    Nel 2015, a seguito di una forte alluvione, la Ebrd ha erogato un prestito da 200 milioni di euro: dovevano servire per ripagare i danni e superare il momento difficile, ma il risultato nella realtà sarà una maggiore quantità di carbone estratto e bruciato.

    Nello stesso anno, la Export-Import Bank of China ha concesso un mutuo da 608 milioni di dollari per ampliare la miniera di Dmro e costruire il terzo lotto della centrale di Kostolac. La banca era già stata il principale finanziatore di altri interventi a Kostolac da 1,25 miliardi di dollari totali.

    Lotta agli effetti sull’ambiente solo sulla carta

    Dopo le denunce delle due ong alla Ebrd, la banca ha pubblicato un primo rapporto di valutazione in cui vengono ammesse alcune criticità. Il punto, però, è che la banca ha obiettivi ambientali ambiziosi che poco hanno a che fare con il carbone, almeno sulla carta.

    «La salvaguardia dell’ambiente e un impegno per l’energia sostenibile sono anch’essi centrali nell’attività della Ebrd», si legge sulla pagina web della banca, dove si spiega che «un impegno per promuovere uno sviluppo sostenibile e in accordo con l’ambiente è stato esplicitato al momento della sua fondazione». Secondo la Ebrd, la finanza per contrastare i cambiamenti climatici, fronte su cui l’Europa ha obiettivi e linee d’azione precisi, nel 2017 ha rappresentato il 43% degli investimenti totali della banca.

    Le contraddizioni di Europa e Cina

    Gli attivisti sollevano l’incongruenza tra le politiche interne della Repubblica popolare e le sue strategie di investimento all’estero.

    «La Cina sta ripulendo la sua politica a casa, ma fuori la forza lavoro e la tecnologia del Paese stanno trovando nuovi mercati», denuncia Ciuta.

    Altrettanta incoerenza si può rilevare nelle politiche dell’Europa, che lavora per rafforzare gli obiettivi legati all’energia pulita e la riduzione delle emissioni per i suoi stati membri, ma è molto più morbida sul fronte degli investimenti della Ebrd all’estero. I mutui alla Eps non sono infatti l’unica operazione dibattuta della Ebrd: la banca ha finanziato impianti alimentati a fonti fossili in Polonia, Repubblica Ceca e Bulgaria, mentre in Armenia, come citato più sopra, ha erogato risorse per la costruzione di una discarica senza sufficienti garanzie di rispetto dell’ambiente.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/10/24/carbone-ambiente-serbia
    #charbon #énergie #Chine #Serbie #UE #EU #Europe #Kolubara #mines

    #environnement #santé

    ping @daphne @albertocampiphoto

  • #Dick_Marty - Un grido per la giustizia

    Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il governo americano stipula degli accordi segreti con i governi europei per combattere il terrorismo. Sono accordi che prevedono che la #Cia abbia pieni poteri per rapire e torturare delle persone sospette. Una violazione flagrante dei trattati internazionali, dello stato di diritto e delle leggi dei paesi europei, e uno schiaffo ai diritti dell’uomo. Quando il Washington Post nel 2005 rivela questo patto segreto, il Consiglio d’Europa incarica il parlamentare svizzero Dick Marty di indagare. Questo documentario è la storia di questa indagine e il ritratto di una persona fuori dal comune.

    Un racconto dettagliato e ricco di testimonianze che ci porta dentro ad una spy story degna delle più fantasiose sceneggiature: per Dick Marty la sete di verità è stata il motore di una ricerca minuziosa, condotta con pochi mezzi e con la pazienza di unire un tassello all’altro, sbrogliando una matassa più che ingarbugliata. Si sente davvero di poter contare qualcosa, quando ci si trova davanti a un gigante come i servizi segreti americani? Sarà proprio lui - l’ex procuratore pubblico con “Una certa idea di giustizia”, come recita il titolo del suo libro appena pubblicato per Favre - a portare la propria testimonianza anche nella parte in studio di questa puntata, unendo così il racconto più umano alla ricostruzione dei fatti.

    Nel documentario :

    «Io se dovessi sapere e tacere mi sentirei complice. Allora preferisco dire, denunciare, gridare, e non essere complice pur sapendo che il mio grido magari serve a poco»

    «Siamo sulla Terra per compiere qualcosa, non semplicemente per far passare il tempo. Ho l’impressione che finché uno ha la capacità di indignarsi di fronte all’ingiustizia, ci si sente vivi e si ha ancora il coraggio di guardarsi nello specchio»

    «Denunciare. E’ il compito di ogni testimone di un’ingiustizia. E ritengo complici tutti coloro che di fronte a un’ingiustizia stanno zitti. Ritengo che la rivolta di chi assiste all’ingiustizia permette di far progredire la nostra civiltà»

    https://www.rsi.ch/la1/programmi/cultura/storie/Dick-Marty-Un-grido-per-la-giustizia-10853348.html
    #justice #terrorisme #film #documentaire #CIA #torture #prisons_secrètes #anti-terrorisme #war_on_terror #USA #Etats-Unis #ennemi_combattant #Convention_de_Genève #extraordinary_renditions #transferts_aériens #Black_sites #Pologne #Roumanie #Abu_Omar (imam disparu à Milan) #Aviano #Italie #Guantanamo #zero_zone #extra-territorialité #torture_codifiée

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    #Dick_Marty, une très rares personnes pour laquelle j’ai vraiment un profond respect...

    Dans l’interview de présentation du film sur Dick Marty...

    Giornalista: «Tra giustizia e legalità, Lei dove si mette?»
    Dick Marty: «Io sarei dalla parte di Antigone e non di Creonte.»
    Giornalista: «Antigone che vuole dare sepoltura a suo fratello...»
    Dick Marty: «... violando la legge. La legge del potente. Sono chiaramente dalla parte di Antigone. E’ vero che nella maggior parte delle cose si è necessariamente dalla parte della giustizia. Però ci sono dei momenti cruciali in cui devi ribellarti. E questi atti di ribellione hanno fatto progredire l’umanità. E se ci fossero state più ribellioni... penso al tempo del Terzo Reich... forse avremmo evitato delle catastrofi umanitarie terribili.»
    Giornalista: «Ribellarsi non è facile però...»
    DM: «Certo, bisogna saper staccarsi dal gruppo. Bisogna saper gridare la propria rivolta, la propria verità. E questo chiede un certo impegno»

    • Une certaine idée de la justice

      Ses enquêtes, dignes des meilleurs romans d’espionnage ont fait la une de la presse mondiale. De la plus grande saisie d’héroïne jamais réalisée en Suisse aux prisons secrètes de la CIA, du trafic d’organes au Kosovo à la situation des droits de l’homme en Tchétchénie, Dick Marty s’est engagé successivement dans les trois pouvoirs de l’État. Ce livre n’est pas seulement le récit inédit de ces investigations souvent périlleuses, mais aussi une réflexion critique sur des sujets politiques controversés.


      http://www.editionsfavre.com/info.php?isbn=978-2-8289-1736-4

      #livre #Tchétchénie #drogue #Kosovo

    • Dick Marty, un cri pour la justice

      Procureur, politicien, enquêteur spécial, le Tessinois Dick Marty est une figure internationale connue pour sa droiture et perspicacité. Infatigable, il a mené l’enquête sur les #prisons_secrètes que la #CIA avait créées en Europe après le 11 septembre pour les terroristes présumés. La torture y était largement pratiquée avec la bénédiction de Washington. Portrait d’un homme à qui rien ne fait peur.

      https://www.rts.ch/play/tv/doc-a-la-une/video/dick-marty-un-cri-pour-la-justice?urn=urn:rts:video:10725798&id=10725798

      #rendition_flights

    • Selected CIA Aircraft Routes and Rendition Flights 2001-2006

      The image is a map of selected CIA aircraft routes between 2001 and 2006, some of which transported prisoners to foreign countries to be interrogated and tortured.

      I worked with artist and geographer #Trevor_Paglen who provided the data. Trevor spent several years tracking down the flight information, and has a book out on his investigations, Torture Taxi: On the Trail of the CIA’s Rendition Flights (https://www.mhpbooks.com/books/torture-taxi). See this interview with him (https://www.democracynow.org/article.pl?sid=06/09/15/1342250) on Democracy Now! with co-author, journalist A.C. Thompson.

      The map was also published in An Atlas of Radical Cartography (http://www.an-atlas.com), Domus magazine as was displayed at MoMA PS1 and as a public billboard in Los Angeles in September 2006 as part of a series of public art installations about the war. Clockshop, a public arts organization in Los Angeles, funded the display.

      https://backspace.com/is/in/the/house/work/pg/cia_flights.html

    • Torture Taxi. On the Trail of the CIA’s Rendition Flights

      It’s no longer a secret: Since 9/11, the CIA has quietly kidnapped more than a hundred people and detained them at prisons throughout the world. It is called “extraordinary rendition,” and it is part of the largest U.S. clandestine operation since the end of the Cold War.

      Some detainees have been taken to Egypt and Morocco to be tortured and interrogated. Others have been transported to secret CIA-run facilities in Eastern Europe and Afghanistan, where they, too, have been tortured. Many of the kidnapped detainees have ended up at the U.S. detention camp at Guantánamo, but others have been disappeared entirely.

      In this first book to systematically investigate extraordinary rendition, an award-winning investigative journalist and a “military geographer” explore the CIA program in a series of journeys that takes them around the world. They travel to suburban Massachusetts to profile a CIA front company that supplies the agency with airplanes; to Smithfield, North Carolina, to meet pilots who fly CIA aircraft; to the San Francisco suburbs to study with a “planespotter” who tracks the CIA’s movements; and to Afghanistan, where the authors visit the notorious “Salt Pit” prison and meet released Afghan detainees.

      They find that nearly five years after 9/11, the kidnappings have not stopped. On the contrary, the rendition program has been formalized, colluding with the military when necessary, and constantly changing its cover to remain hidden from sight.


      https://www.mhpbooks.com/books/torture-taxi

    • The Council of Europe’s investigation into illegal transfers and secret detentions in Europe: a chronology

      The European Court of Human Rights has so far delivered three judgments concerning CIA rendition and secret detention operations in Council of Europe member states (one against “the former Yugoslav Republic of Macedonia” and two against Poland), and individual applications are currently pending against other states (Italy, Lithuania and Romania), many drawing on Senator Dick Marty’s investigations. The Court has published a thematic fact-sheet on cases involving secret detentions.

      22 April 2015: In remarks to German news magazine Der Spiegel, former Romanian President Ion Iliascu admits to the existence of a secret CIA “site” in Romania. PACE President Anne Brasseur responds: “it is now up to the Romanian prosecutorial authorities to conduct a serious investigation into the facts, and to hold to account the perpetrators of any crimes committed in this context.”

      11-12 March 2015: The deputies of the Council of Europe’s ministerial body - which oversees the execution of Court judgments - say they are concerned Mr Al Nashiri and Mr Abu Zubaydah, now interned at Guantanamo Bay, could face “flagrant denials of justice” if tried by Military Commission and ask the Polish authorities to urgently seek assurances from the US that they will not be tried using torture evidence or subjected to the death penalty. Poland swiftly does so.

      24 July 2014: The European Court of Human Rights delivers landmark judgments in the Abu Zubaydah and Al Nashiri cases, finding that Poland was complicit in “CIA rendition, secret detention and interrogation operations on its territory” and that, by enabling the CIA to detain the applicants, it was exposing them to a serious risk of torture. After an appeal by the government is turned down on 16 February 2015, the rulings became final.

      3 December 2013: The European Court of Human Rights holds a joint Chamber hearing in the Abu Zubaydah and Al Nashiri cases against Poland, listening to submissions from all parties, and posts the video online. It also holds a confidential hearing with the parties the day before the public hearing.
      10 October 2013: The European Parliament, in a fresh resolution, deeply deplores the failures to respond to its earlier demands, and renews the call for proper investigations in Lithuania, Romania and Poland. It suggests the “climate of impunity” surrounding the CIA’s rendition programme may have enabled the mass surveillance by the NSA, recently revealed.

      9 July 2013: In addition to his case against Lithuania, Mr Zubaydah also brings a case before the Strasbourg Court against Poland, similar to the case already brought by Mr Al Nashiri.

      14 December 2012: The Court communicates to the Lithuanian Government the case of Abu Zubaydah v. Lithuania. Mr Zubaydah says he was illegally held and ill-treated in a secret prison in Lithuania run by the CIA.

      13 December 2012: The European Court of Human Rights issues its first judgment in a case involving secret prisons on European soil when its Grand Chamber finds “The former Yugoslav Republic of Macedonia” in violation of the Convention for its part in the torture and rendition of German car-salesman Khaled El-Masri. It is greeted as a landmark judgment.

      18 September 2012: The Strasbourg Court communicates to the Romanian Government the case of Al Nashiri v. Romania. Mr Al Nashiri – who also brought the earlier case against Poland – alleges Romania knowingly and intentionally enabled the CIA to detain him and has refused to date to properly acknowledge or investigate any wrongdoing.

      11 September 2012: PACE President Jean-Claude Mignon welcomes the latest resolution of the European Parliament, adopted on the anniversary of the 9/11 attacks, which calls on Lithuania, Poland and Romania to open or resume independent investigations into allegations that they colluded with the CIA to hold and interrogate terrorism suspects in secret prisons. National investigations so far have been “painfully inadequate”, he points out, but the process of accountability continues.

      10 July 2012: The European Court of Human Rights communicates to the Polish Government the case of Al Nashiri v. Poland. Mr Al Nashiri, suspected of terrorist acts and now in Guantanamo, says he was tortured in Poland while in US custody following rendition, and that Poland “knowingly and intentionally” enabled his secret detention.

      16 May 2012: The European Court of Human Rights holds its first hearing on a rendition-related case, in the El-Masri case, and posts the video online. This case is heard before the Grand Chamber, an indication of its significance.

      8 December 2011: Reacting to reported confirmation of a secret CIA prison in Romania, Dick Marty says: “Five years ago we put forward substantial elements of proof of a secret CIA prison in Romania. There have been years of official denials since then. But the ‘dynamic of truth’ has run its course [...]. Those responsible for the crimes committed – and their cover-up – should now be held to account in a court of law.”

      24 November 2011: Reporting on a September 2010 visit to Romania, the Council of Europe’s Anti-Torture Committee (CPT) questions the absence of a judicial inquiry into the allegations of a secret CIA prison in the country. In their response, the Romanian authorities repeat that there is no evidence of this, and that – in the absence of proof – for them the subject is closed.

      22 November 2011: The European Court of Human Rights communicates to the Italian Government the case of Nasr and Ghali v. Italy, and asks the parties to answer a number of questions. Egyptian imam Abu Omar alleges he was kidnapped in Rome and transferred to Egypt with Italian involvement, and then detained in secret for several months in inhuman conditions.

      6 October 2011: In his last report for PACE, Dick Marty evaluates the various judicial or parliamentary inquiries launched after his reports five years ago named European governments which had hosted CIA secret prisons or colluded in rendition and torture. Overall, he concludes that unjustified resort to the doctrine of “state secrets” is still too often shielding secret services from scrutiny of involvement in human rights violations.

      5 September 2011: In two comments marking the tenth anniversary of the 9/11 attacks – addressing, in turn, renditions and secret detentions – Council of Europe Human Rights Commissioner Thomas Hammarberg echoes Dick Marty’s repeated calls for accountability on the part of European governments.

      19 May 2011: Reporting on a June 2010 visit to Lithuania, the Council of Europe’s Anti-Torture Committee (CPT) questions both the promptness and thoroughness of the Lithuanian Prosecutor General’s pre-trial investigation into abuse of office, then under way. In their response, the Lithuanian authorities report that “no objective data concerning the fact of abuse (or another criminal act) were collected during the pre-trial investigation” and therefore no charges will be brought.

      28 September 2010: The European Court of Human Rights becomes involved in the first specific case involving rendition and secret prisons when it communicates the case of El-Masri v. “the former Yugoslav Republic of Macedonia” to the authorities, and asks the parties to answer a number of questions. Mr El-Masri, apparently mistaken by the CIA for another man of the same name, was kidnapped and interrogated in a Skopje hotel for 23 days before being transferred to US agents.

      21 August 2009: Reacting to a news report that Lithuania was the site of a third secret CIA prison in Europe, Dick Marty says his own sources seem to confirm this information, and calls for “a full, independent and credible investigation” into what occurred on the outskirts of Vilnius: “Denial and evasion are no longer credible,” he says.

      6 November 2008: Testifying at the Milan trial of CIA and Italian secret service agents accused of kidnapping Abu Omar, Dick Marty says this is one of the few cases involving the CIA’s extraordinary rendition program to come to court. The invocation of ’state secrets’ by the Italian government must not - as in other judicial or parliamentary procedures in the US and Germany - be allowed to block the trial: “Let justice take its course!” he declares.

      4 April 2008: In a statement, Dick Marty criticises the Committee of Ministers for its response and accuses European governments of “hypocrisy” for continuing to deny their involvement in secret detentions and illegal renditions, unless forced to do so. “The United States made a choice - which I think was a wrong choice - to fight the war on terror using illegal means, but they at least made it openly and defend it,” he points out.

      16 January 2008: In a reply, the Committee of Ministers – representing the 47 Council of Europe governments – says only that it will “carefully consider” the Secretary General’s proposals to control the activities of foreign intelligence services in Europe, noting that they “reached deeply into sensitive areas of national security, law and practice”. To date, it has not yet implemented any of these proposals.

      27 June 2007: The plenary Assembly – bringing together over 300 legislators from 47 European countries – backs Mr Marty’s report and urges better oversight of foreign intelligence services operating in Europe. The use of “state secrecy” laws to protect wrongful acts by secret services should be limited, the parliamentarians say.

      8 June 2007: Presenting a second report following several months of additional inquiry, Swiss Senator Dick Marty reveals evidence that US “high-value detainees”, including alleged 9/11 mastermind Khalid Sheikh Mohammed, were held in secret CIA prisons in Poland and Romania. Based on extensive, cross-referenced testimony from serving and former intelligence agents, he also alleges a series of partly secret decisions among NATO allies in 2001 which enabled the CIA to carry out illegal activities in Europe.

      14 February 2007: In a report, the European Parliament comes to similar conclusions to Mr Marty, saying EU countries “turned a blind eye” to extraordinary renditions across their territory and airspace.

      6 September 2006: The Committee of Ministers – representing the 47 governments of the Council of Europe – decides only to “take note” of the Secretary General’s proposals for greater control over the activities of security services operating in Europe, declining any immediate follow-up. The decision comes on the very same day that US President George Bush admits the existence of secret CIA prisons. On the other hand, PACE President René van der Linden reacts by declaring that kidnapping people and torturing them in secret “is what criminals do, not democratic governments”. Such activities will not make citizens safer in the long run, he says. The admission is a vindication of Senator Marty’s work, he adds.

      30 June 2006: Council of Europe Secretary General Terry Davis makes concrete proposals to European governments for laws to control the activities of foreign intelligence services in Europe, reviewing state immunity, and making better use of existing controls on over-flights, including requiring landing and search of civil flights engaged in state functions.

      27 June 2006: The plenary Assembly debates Mr Marty’s first report and calls for the dismantling of the system of secret prisons, oversight of foreign intelligence services operating in Europe and a common strategy for fighting terrorism which does not undermine human rights.

      14 June 2006: Analysing a second round of replies from governments to his inquiry, Council of Europe Secretary General Terry Davis concludes in a supplementary report that laws to protect Europeans against human rights violations by foreign intelligence agents are “the exception rather than the rule”. Confirming his earlier conclusions, he says current controls on civil air traffic are inadequate, while State aircraft in transit are rarely checked.

      7 June 2006: Presenting his first report, Dick Marty says he has exposed a global “spider’s web” of illegal US detentions and transfers, and alleges collusion in this system by 14 Council of Europe member states, 7 of whom may have violated the rights of named individuals.

      17 March 2006: In an opinion, legal experts from the Council of Europe’s Venice Commission say that, under the European Convention on Human Rights and other international laws, member states should refuse to allow transit of prisoners where there is a risk of torture. If this is suspected, they should search civil planes or refuse overflight to state planes.

      1 March 2006: Analysing governments’ replies to a separate inquiry using powers under the European Convention on Human Rights, Council of Europe Secretary General Terry Davis says Europe appears to be “a happy hunting-ground for foreign security services”. Presenting a first report, he says that the rules governing activities of secret services – especially foreign ones – appear inadequate in many member states, and that current air traffic regulations do not safeguard against abuse. Immunity for foreign agents who commit crimes in Europe should not extend to serious human rights violations.

      7 November 2005: Following media reports, the Parliamentary Assembly appoints Senator Dick Marty, a Swiss former prosecutor, to conduct a parliamentary inquiry into “alleged secret detentions and unlawful inter-state transfers of detainees involving Council of Europe member states”. PACE President René van der Linden declares: “This issue goes to the very heart of the Council of Europe’s human rights mandate.”

      https://assembly.coe.int/nw/xml/News/FeaturesManager-View-EN.asp?ID=362

      #chronologie

    • Deuxième rapport de Dick Marty, 08.06.2007

      Dick Marty: ‘high-value detainees’ were held at secret CIA prisons in Poland and Romania

      PACE rapporteur Dick Marty (Switzerland, ALDE) today revealed new evidence that US “high-value detainees” were held in secret CIA prisons in Poland and Romania during the period 2002-5 and alleges a series of partly secret decisions among NATO allies in October 2001 which provided the basic framework for illegal CIA activities in Europe.

      In an explanatory memorandum made public today, Mr Marty says he has cross-referenced the credible testimonies of over 30 members of intelligence services in the US and Europe with analysis of “data strings” from the international flight planning system.

      https://pace.coe.int/en/news/1487

  • OpenStreetMap Carto Tutorials
    https://ircama.github.io/osm-carto-tutorials

    #OpenStreetMap #Carto is the style used for the Standard tile layer of OpenStreetMap.

    This independent site includes unofficial #tutorials to set-up a development environment of OpenStreetMap Carto and to manage this software. It will allow exploiting the style and also being able to contribute to the developments.

    To implement this site I kept track of technical notes that have been useful to me and that I hope will also be of help to master OpenStreetMap Carto fast, learning all most relevant aspects from the ground up.

    All pages of this site allow commenting. You can also contribute or create GitHup issues. Opening GitHup issues is the most effective way for correction requests.

    #osm #kosmtik

    • could lead to an end,… le contenu de l’article n’est pas aussi optimiste. Ce pourrait être, au contraire, le signal d’un renouveau des conflits.

      After the Yugoslav wars, the Western powers that intervened to end the bloodshed hoped the nations that emerged from the conflicts would learn to respect their minorities. A redrawing of borders along ethnic lines would be an admission that these hopes were futile, and it could increase the temptation for minorities in other ex-Yugoslav states to secede. The danger is especially great in Bosnia and Herzegovina, where the Serb- and Croat-dominated regions could gravitate toward Serbia and Croatia, and in Macedonia, which has a strong ethnic Albanian minority.

      If a swap prompts Albanian nationalists in Macedonia and Kosovo to push harder for a “Greater Albania” and Serbs and Croats move to break up Bosnia, the danger of armed conflicts will re-emerge. That’s a situation no one wants. That’s why German Chancellor Angela Merkel opposes any deal that would involve border changes, even though U.S. National Security Adviser John Bolton has said the Trump administration wouldn’t object to such an outcome.

      C’est cet angle que retenait le Monde le 14 août
      https://seenthis.net/messages/715009
      (avec carte des zones envisagées pour l’échange)

    • Kosovo-Serbie : une « #rectification_des_frontières » pour une « solution définitive » ?

      Le dialogue, poussivement mené entre Belgrade et Pristina sous l’égide de l’Union européenne, était au point mort, mais Aleksandar Vučić et son homologue kosovar Hashim Thaçi ont brusquement décidé d’accélérer le processus et de trouver une « solution définitive », qui passerait par une « rectification des frontières ». Une hypothèse qui pourrait créer un très dangereux précédent.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/+-dialogue-Kosovo-Serbie-+
      #frontières_mobiles

      v. aussi :
      https://www.courrierdesbalkans.fr/Kosovo-dialogue-etc
      #paywall

  • Threatening wilderness, dams fuel protests in the Balkans

    For almost a year, a clutch of Bosnian women has kept watch over a wooden bridge to disrupt the march of hydropower - part of a Balkan-wide protest against the damming of Europe’s wild rivers.

    From Albania to Slovenia, critics fear the proposed run of dams will destroy their majestic landscape, steal their water and extinguish species unique to the Balkans.

    So the village women stake out the bridge around the clock, listening out for the telltale sounds of diggers on the move.

    “We are always here, during the day, at night, always,” said Hata Hurem, a 31-year-old housewife, in the shadow of the towering mountains that dominate the Balkan landscape.

    Clustered by a creek on the edge of the village of Kruscica, about 40 miles north west of Sarajevo, the local women have taken turns to stand firm, blocking trucks and scrapers from accessing the construction sites of two small plants.

    Investment in renewable energy is growing worldwide as countries rush to meet goals set by the Paris Agreement on climate change. But from China to South America, dams cause controversy for flooding fragile ecosystems and displacing local communities.

    Plans to build almost 3,000 hydropower plants were underway across the Balkans in 2017, about 10 percent of them in Bosnia, according to a study by consultancy Fluvius.

    Authorities and investors say boosting hydropower is key to reducing regional dependency on coal and to falling in line with European Union energy policies as Western Balkan states move toward integration with the bloc.

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    The energy ministry of the Federation of Bosnia and Herzegovina, one of Bosnia’s two autonomous regions, where Kruscica is located, did not respond to a request for comment.

    The government of Bosnia’s other region, Republika Srpska, said building dams was easier and cheaper than shifting toward other power sources.

    “The Republic of Srpska has comparative advantages in its unused hydro potential and considers it quite justified to achieve the goals set by the EU by exploiting its unused hydropower,” said energy ministry spokeswoman Zorana Kisic.
    DAMS AND PICKETS

    Yet, critics say the “dam tsunami” - a term coined by anti-hydropower activists - endangers Europe’s last wild rivers, which flow free.

    If rivers stop running freely, they say dozens of species, from the Danube Salmon to the Balkan Lynx, are at risk.

    About a third of the planned dam projects are in protected areas, including some in national parks, according to the 2017 study, commissioned by campaign groups RiverWatch and Euronatur.

    Most plants are small, producing as little as up to 1 MW each - roughly enough to power about 750 homes - but their combined impact is large as activists say they would cut fish migration routes and damage their habitat.

    “Three thousand hydropower plants ... will destroy these rivers,” said Viktor Bjelić, of the Center for Environment (CZZS), a Bosnian environmental group.

    “Many of the species depending on these ecosystem will disappear or will be extremely endangered.”

    Some local communities fear displacement and lost access to water they’ve long used for drinking, fishing and farming.

    In Kruscica, protesters say water would be diverted through pipelines, leaving the creek empty and sinking hopes for a revival of nature tourism that attracted hikers, hunters and fishing enthusiasts before war intervened in the 1990s.

    “(The river) means everything to us, it’s the life of the community,” said Kruscica’s mayor Tahira Tibold, speaking outside the barren wooden hut used as base by demonstrators.

    Locals first heard about the plants when construction workers showed up last year, added the 65-year-old.

    Women have led protests since fronting a picket to shield men during a confrontation with police last year, said Tibold.

    Campaigners have taken their plight to court, alleging irregularities in the approval process, and works have stalled. But demonstrators keep patrolling around the clock, said Bjelić of CZZS, as it is not known when or how the case will end.
    SHADES OF GREEN

    The protest was backed by U.S. clothing company Patagonia as part of a wider campaign to preserve Balkan rivers and dissuade international banks from investing in hydropower.

    Banks and multilateral investors including the European Investment Bank (EIB), the European Bank for Reconstruction and Development (EBRD) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC), fund hundreds of projects, according to a 2018 study by Bankwatch, a financial watchdog.

    “It’s a waste of money and a moral travesty that some of the world’s largest financial institutions have embraced this out-dated and exploitative technology,” Patagonia founder Yvon Chouinard said in a statement in April.

    The World Bank, EBRD and EIB said their investments have to comply with environmental and social standards, which EBRD and EIB said they were strengthening.

    EBRD said it also improved its assessment process and pulled out of some projects near protected areas.

    “Hydropower is an important source of renewable energy for Western Balkans,” said EBRD’s spokeswoman Svitlana Pyrkalo.

    Bosnia gets 40 percent of its electricity from hydropower, the rest from coal-fired power plants. It plans to increase the share of renewables to 43 percent by 2020, under a target agreed with the EU.

    Dams are generally considered more reliable than wind and solar plants as they are less dependent on weather conditions.

    But that could change with global warming if droughts and floods grow more common, said Doug Vine, a senior fellow at the Center for Climate and Energy Solutions, a U.S.-based think tank.

    Last year a long drought lowered water levels across the Western Balkans, hitting hydropower output and driving up prices.

    Campaigners say Balkan states should focus on solar and wind power as they involve less building works and cost less.

    “Just because it doesn’t emit CO2 it doesn’t mean it’s good,” said Ulrich Eichelmann, head of RiverWatch.

    “Is like saying (that) … smoking is healthy because it doesn’t affect the liver”.

    https://www.reuters.com/article/us-bosnia-environment-dams/threatening-wilderness-dams-fuel-protests-in-the-balkans-idUSKCN1J0007
    #barrages_hydroélectriques #eau #énergie #Balkans #Bosnie #résistance #manifestations #faune #wildlife

    • Dans les Balkans, un « tsunami de barrages » déferle sur les écosystèmes

      Portée par une image verte et des financements européens, l’énergie hydroélectrique connaît de multiples projets dans les Balkans. Au grand dam des populations locales concernées et au détriment d’écosystèmes encore préservés.

      « Ne touchez pas à la #Valbona ! » « Laissez les fleuves libres ! » Le soleil automnal à peine levé, les cris et les slogans d’une trentaine de manifestants résonnent jusqu’aux plus hauts sommets des « Alpes albanaises ». Coincée entre les montagnes du #Monténégro et du #Kosovo, la vallée de la Valbona a longtemps été l’une des régions les plus isolées d’Europe. Les eaux cristallines de sa rivière et le fragile écosystème qui l’entoure attirent depuis quelques années des milliers de personnes en quête de nature sauvage.

      « Les barrages vont détruire les rares sources de revenus des habitants. Sans le tourisme, comment peut-on gagner sa vie dans une région si délaissée ? » Après avoir travaillé une quinzaine d’années à l’étranger, Ardian Selimaj est revenu investir dans le pays de ses ancêtres. Ses petits chalets en bois se fondent dans la végétation alpine. Mais, à quelques dizaines de mètres seulement, les bétonnières sont à l’œuvre. Malgré l’opposition bruyante des habitants et des militants écologistes, le lit de la rivière est déjà défiguré. « Si la Valbona est bétonnée, ce ne sera plus un parc national mais une zone industrielle », se désole Ardian Selimaj, la larme à l’œil.

      Les barrages qui se construisent aux confins albanais sont loin d’être des cas uniques. « Les Balkans sont l’un des points chauds de la construction des centrales hydroélectriques. Près de 3.000 y sont prévus ou déjà en construction ! » Militant écologiste viennois, Ulrich Eichelmann se bat depuis près de trente ans pour la protection des rivières d’Europe. Son ONG, RiverWatch, est en première ligne contre les 2.796 centrales qu’elle a recensées dans le sud-est du continent. De la Slovénie à la Grèce, rares sont les rivières épargnées par ce « tsunami de barrages ».
      Un désastre environnemental qui se fait souvent avec le soutien du contribuable européen

      « Les raisons de l’explosion du nombre de ces projets sont multiples, commente Ulrich. La corruption, la mauvaise compréhension des enjeux climatiques, les intérêts financiers qu’y trouvent les banques et les institutions financières, l’extrême faiblesse de l’application des lois... » Dans des sociétés malmenées par la corruption, les investisseurs ont peu de mal à faire valoir leurs intérêts auprès des dirigeants. Ceux-ci s’empressent de leur dérouler le tapis rouge. Et sont peu enclins à appliquer leur propre législation environnementale : 37 % des barrages envisagés le sont au cœur de zones protégées.

      Parc national ou zone Natura 2000, des points chauds de la biodiversité mondiale sont ainsi menacés. Un désastre environnemental qui se fait souvent avec le soutien du contribuable européen. « En 2015, nous avons constaté que la Banque européenne pour la reconstruction et le développement (Berd) avait financé 21 projets dans des zones protégées ou valorisées au niveau international », commente Igor Vejnovic, de l’ONG Bankwatch-CEE. Alors que l’Union européenne (UE) promeut officiellement les normes environnementales dans la région, on retrouve ses deux grandes banques de développement derrière plusieurs constructions de centrales. Igor Vejnovic dénonce « un soutien à des projets qui ne seraient pas autorisés par la législation européenne en vigueur ».

      Un soutien financier qui est d’ailleurs difficile à établir. « Leur nombre est probablement encore plus élevé, assure Igor Vejnovic, car la Banque européenne d’investissement (BEI) et la Berd financent ces centrales par des intermédiaires régionaux et les deux banques refusent systématiquement d’identifier les porteurs des projets en invoquant la confidentialité du client. » Des clients qui font souvent peu de cas des obligations légales. Selon Bankwatch-CEE, de nombreuses études d’impact environnemental ont été bâclées ou falsifiées. Des irrégularités parfois si caricaturales qu’elles ont conduit les deux banques européennes à suspendre, quand même, leurs prêts à d’importants projets dans le parc national de Mavrovo, en Macédoine. Ses forêts abritent l’une des espèces les plus menacées au monde, le lynx des Balkans.

      Grâce à une géographie montagneuse et à une histoire récente relativement épargnée par les phases destructrices de l’industrialisation, les rivières des Balkans offrent encore des paysages spectaculaires et une nature sauvage. Leurs eaux cristallines et préservées abritent près de 69 espèces de poissons endémiques de la région, dont le fameux saumon du Danube, en danger d’extinction. Une expédition de quelques jours sur la Vjosa, le « cœur bleu de l’Europe », a ainsi permis la découverte d’une espèce de plécoptères et d’un poisson encore inconnus de la science. Un trésor biologique méconnu dont les jours sont pourtant comptés. Malgré leurs conséquences catastrophiques, les petits barrages de moins de 1 MW se multiplient : ceux-ci ne nécessitent généralement aucune étude d’impact environnemental.
      La détermination des populations locales a fait reculer plusieurs barrages

      Louée pour son caractère « renouvelable », l’hydraulique représente 10 % du parc électrique français et près de 17 % de l’électricité produite sur la planète. Bénéficiant de la relative conversion du secteur énergétique au développement dit « durable », les barrages sont en pleine expansion à travers le globe. Les industriels de l’eau n’hésitent pas à le répéter : l’énergie hydraulique, « solution d’avenir », n’émet ni gaz à effet de serre ni pollution. Ces affirmations sont pourtant contredites par de récentes études. Peu relayées dans les grands médias, celles-ci démontrent que les pollutions causées par l’énergie hydraulique auraient été largement sous-estimées. Dans certaines régions du monde, les grandes retenues d’eau artificielles généreraient d’importantes productions de méthane (CH4), dont le pouvoir de réchauffement est 25 fois supérieur à celui du dioxyde de carbone (CO2).

      « L’hydroélectricité est l’une des pires formes de production d’énergie pour la nature, s’emporte Ulrich. Ce n’est pas parce qu’il n’émet pas de CO2 que c’est une énergie renouvelable. » Le militant écologiste s’indigne des conséquences de ces constructions qui transforment des fleuves libres en lacs artificiels. « La nature et les espèces détruites ne sont pas renouvelables. Quand une rivière est bétonnée, la qualité de l’eau baisse, le niveau des eaux souterraines en aval du barrage chute alors que la côte, elle, est menacée par l’érosion en raison de la diminution de l’apport en sédiments. »

      Les discours positifs des industriels tombent en tout cas à pic pour les dirigeants des Balkans, qui espèrent ainsi tempérer les oppositions à ces centaines de constructions. La diversification énergétique recherchée a pourtant peu de chances de profiter à des populations locales qui verront leur environnement quotidien transformé à jamais. « Si les promoteurs investissent parfois dans les infrastructures locales, cela a une valeur marginale par rapport aux dommages causés au patrimoine naturel et à la qualité de l’eau, explique Igor Vejnovic. L’hydroélectricité est d’ailleurs vulnérable aux périodes de sécheresse, qui sont de plus en plus fréquentes. » Les centrales dites « au fil de l’eau » prévues dans les Balkans risquent de laisser bien souvent les rivières à sec.

      Malgré les problèmes politiques et sociaux qui frappent les pays de la région, les mobilisations s’amplifient. La détermination des populations locales à défendre leurs rivières a même fait reculer plusieurs barrages. En Bosnie, où les habitants ont occupé le chantier de la Fojnička pendant près de 325 jours, plusieurs constructions ont été arrêtées. À Tirana, le tribunal administratif a donné raison aux militants et interrompu les travaux de l’un des plus importants barrages prévus sur la Vjosa. Après s’être retirée du projet sur la Ombla, en Croatie, la Berd a suspendu le versement des 65 millions d’euros promis pour les gros barrages du parc Mavrovo, en Macédoine, et a récemment commencé à privilégier des projets liés à l’énergie solaire. Cette vague de succès suffira-t-elle à contrer le tsunami annoncé ?


      https://reporterre.net/Dans-les-Balkans-un-tsunami-de-barrages-deferle-sur-les-ecosystemes
      #hydroélectricité #extractivisme

    • Balkan hydropower projects soar by 300% putting wildlife at risk, research shows
      More than a third of about 2,800 planned new dams are in protected areas, threatening rivers and biodiversity.

      Hydropower constructions have rocketed by 300% across the western Balkans in the last two years, according to a new analysis, sparking fears of disappearing mountain rivers and biodiversity loss.

      About 2,800 new dams are now in the pipeline across a zone stretching from Slovenia to Greece, 37% of which are set to be built in protected areas such as national parks or Natura 2000 sites.

      Heavy machinery is already channelling new water flows at 187 construction sites, compared to just 61 in 2015, according to the research by Fluvius, a consultancy for UN and EU-backed projects.

      Ulrich Eichelmann, the director of the RiverWatch NGO, which commissioned the paper, said that the small-scale nature of most projects – often in mountainous terrain – was, counterintuitively, having a disastrous impact on nature.

      “They divert water through pipelines away from the river and leave behind empty channels where rivers had been,” he told the Guardian. “It is a catastrophe for local people and for the environment. For many species of fish and insects like dragonflies and stoneflies, it is the end.”

      One stonefly species, Isoperla vjosae, was only discovered on Albania’s iconic Vjosa river this year, during an expedition by 25 scientists which also found an unnamed fish previously unknown to science. Like the Danube salmon and the Prespa trout, it is already thought to be at risk from what Eichelmann calls “a dam tsunami”.

      The scientists’ report described the Vjosa as a remarkably unique and dynamic eco-haven for scores of aquatic species that have disappeared across Europe. “The majority of these viable communities are expected to irrecoverably go extinct as a result of the projected hydropower dams,” it said.

      However, Damian Gjiknuri, Albania’s energy minister, told the Guardian that two planned megadams on the Vjosa would allow “the passage of fish via fish bypass or fish lanes”.

      “These designs have been based on the best environmental practices that are being applied today for minimising the effects of high dams on the circulation of aquatic faunas,” he said.

      Gjiknuri disputed the new report’s findings on the basis that only two “high dams” were being built in Albania, while most others were “run-of-the-river hydropower”.

      These generate less than 10MW of energy and so require no environmental impact assessments, conservationists say. But their small scale often precludes budgets for mitigation measures and allows arrays of turbines to be placed at intervals along waterways, causing what WWF calls “severe cumulative impacts”.

      Beyond aquatic life, the dam boom may also be threatening humans too.

      Since 2012, property conflicts between big energy companies and small farmers have led to one murder and an attempted murder, according to an EU-funded study. The paper logged three work-related deaths, and dozens of arrests linked to Albania’s wave of hydropower projects.

      Albania is a regional hotspot with 81 dams under construction but Serbia, Macedonia, and Bosnia and Herzegovina are also installing 71 hydro plants, and Serbia has a further 800 projects on the drawing board.

      Gjiknuri said the Albanian government was committed to declaring a national park on a portion of the Vjosa upstream from the planned 50m-high Kalivaçi dam, preventing further hydro construction there.


      https://www.theguardian.com/environment/2017/nov/27/balkan-hydropower-projects-soar-by-300-putting-wildlife-at-risk-researc
      https://www.theguardian.com/environment/2017/nov/27/balkan-hydropower-projects-soar-by-300-putting-wildlife-at-risk-researc
      signalé par @odilon il y a quelques temps:
      https://seenthis.net/messages/648548

    • Serbie : mobilisation citoyenne contre les centrales hydroélectriques dans la #Stara_planina

      L’État serbe a donné le feu vert aux investisseurs pour la construction de 58 centrales hydroélectriques sur plusieurs rivières dans la Stara planina. S’étalant à l’est de la Serbie, ce massif montagneux constitue la frontière naturelle entre la Serbie et la Bulgarie et continue jusqu’à la mer Noire. Cette zone protégée est l’une des plus grandes réserves naturelles de Serbie.


      https://www.courrierdesbalkans.fr/Serbie-mobilisation-citoyenne-contre-les-centrales-hydroelectriqu

    • Le #Monténégro se mobilise contre les mini-centrales hydroélectriques

      Quand les directives européennes sur les énergies renouvelables servent les intérêts des mafieux locaux... Après l’Albanie, la Bosnie-Herzégovine, la Croatie ou la Serbie, c’est maintenant le Monténégro qui entre en résistance contre les constructions de mini-centrales hydroélectriques. 80 projets sont prévus dans le pays, avec de très lourdes conséquences pour l’environnement et les communautés rurales.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Centrales-hydroelectrique-au-Montenegro

    • In Bosnia ed Erzegovina le comunità locali combattono per i propri fiumi

      Sono 122 i mini-impianti idroelettrici già in funzione e altri 354 sono in fase di realizzazione. Molti sono finanziati da società di altri Paesi europei che sfruttano scarsi controlli e corruzione. Ma le lotte stanno cambiando le cose

      Nella periferia di Sarajevo c’è un grande parco che richiama centinaia di turisti attirati da un intreccio di ruscelli e cascatelle. È la sorgente della Bosna, il fiume da cui la Bosnia ed Erzegovina prende il nome. Non è un caso che sia un corso d’acqua a ispirare il toponimo di questo Paese, che da sempre vive un legame strettissimo con i suoi fiumi. Che fluiscono, con un andamento spesso selvaggio, per un’estensione di oltre 11mila chilometri.

      A partire dagli anni Duemila, però, decine di centrali idroelettriche hanno iniziato a sorgere lungo questo reticolo per sfruttarne il potenziale energetico. In Bosnia ed Erzegovina le chiamano Mhe (sigla che sta per mini-hidroelektrane): piccoli impianti con una potenza installata inferiore ai dieci MegaWatt (MW). “Sono 108 i fiumi, in particolare piccoli torrenti di montagna, su cui sono state costruite delle centrali”, spiega Muriz Spahić, ex presidente dell’Associazione dei geografi bosniaci. Oggi in pensione, Spahić è uno degli scienziati che ha contribuito a definire gli impatti negativi delle Mhe sulla vita che si sviluppa dentro e intorno ai fiumi: “L’acqua che viene immessa nelle tubature diventa una creazione artificiale, in cui la vita animale sparisce”. A soffrirne sono ad esempio i pesci a causa della mancanza di percorsi dedicati per superare gli sbarramenti. Spahić denuncia inoltre come prelievi idrici eccessivi lascino spesso i letti in secca, soprattutto in estate.

      Oggi, secondo i dati dell’Ong Eko akcija sono 122 le Mhe in funzione e 354 quelle in fase di progettazione o costruzione. Un dato che include gli impianti della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH) e della Republika Srpska, le due entità che, insieme al distretto autonomo di Brčko, compongono l’ossatura amministrativa del Paese. In totale, nel 2022, tutte le Mhe hanno generato circa il 2,7% della produzione elettrica nazionale, come rilevato dalla Commissione statale per l’energia. “Oltre ai danni ai fiumi, spesso abbiamo assistito a ingenti opere di disboscamento per permettere la costruzione delle strade d’accesso”, sostiene Jelena Ivanić del Centro per l’ambiente di Banja Luka, la principale associazione ambientalista della Republika Srpska.

      Accanto alla scrivania, una pila di dossier e libri raccoglie le lotte contro l’ipersfruttamento idrico che il centro porta avanti dal 2004. “Eppure, le Mhe erano state presentate come una soluzione meno invasiva rispetto ai grandi impianti”, afferma. In Bosnia ed Erzegovina, secondo i dati del think thank energetico Ember, dal 2000 il carbone genera oltre il 50% della produzione nazionale di elettricità. Il reticolo fluviale è diventato una risorsa appetibile dal 2005, quando la repubblica balcanica ha aderito all’Energy community treaty. Con l’accordo (che punta ad allineare le politiche energetiche di nove Paesi dell’Europa Sud-orientale a quelle dell’Ue) si rendono necessari nuovi investimenti per l’energia pulita. Un fattore che, anche grazie a generose sovvenzioni, stimola “una vera e propria corsa alla costruzione di questi piccoli impianti”, incalza Ivanić.

      “Sono 108 i fiumi, in particolare piccoli torrenti di montagna, su cui sono state costruite delle centrali” – Muriz Spahić

      Tuttavia, il boom di Mhe non passa inosservato, soprattutto nelle aree rurali dove le persone si erano abituate nei secoli a utilizzare i corsi d’acqua per i propri bisogni primari. Si diffonde così a macchia d’olio un movimento dal basso, capillare e interetnico, per la protezione dei fiumi. Nel 2016 più di 40 associazioni locali si sono unite in una coalizione nazionale, dimostrando un legame intimo tra uomini e acqua, che va oltre il semplice uso della risorsa.

      “Per 505 giorni abbiamo presidiato questo ponte, giorno e notte”, racconta Tahira Tibolt. Indica un cartello sul ciglio della strada: “Il ponte delle coraggiose donne di Kruščica”. Dal 2017 questo gruppo locale ha ostacolato l’accesso al fiume del proprio villaggio per bloccare un progetto idroelettrico, nonostante gli arresti, le minacce e alcuni violenti scontri con la polizia. Nel 2021, tutti i permessi sono stati annullati e le donne di Kruščica hanno vinto il Goldman Environmental Prize, una sorta di premio “Nobel per l’ambiente”. Tibolt ricorda come quei 505 giorni siano stati un momento di vera comunità: “Siamo state l’esempio che ci si può contrapporre con il corpo se non è possibile farlo per vie legali”.

      “Oltre ai danni ai fiumi, spesso abbiamo assistito a ingenti opere di disboscamento per permettere la costruzione delle strade d’accesso” – Jelena Ivanić

      Molte persone hanno anche subito danni diretti dalle Mhe. Meno di venti metri separano la mini-centrale di Kaćuni dalla camera da letto di Salko e Namira Hodžić. “Ancora ricordo i giorni della costruzione -lamenta l’uomo-. È stato un inferno: le ruspe hanno lavorato per 43 giorni, gli esplosivi usati per sbancare la roccia hanno crepato la casa e ci hanno costretti a rifarne una parte. Tra lavori e spese processuali abbiamo perso tra i 25 e i 35mila euro”. Oggi, per la coppia, il problema è il ronzio costante della centrale. “Quando tornano a trovarci, i nostri figli non vogliono più rimanere a dormire. Preferiscono andare in hotel”, racconta l’uomo, che ha denunciato i proprietari dell’impianto. La sua non è l’unica battaglia legale in corso. Al crescere dell’opposizione di associazioni e cittadini, sono aumentate anche le contromisure degli investitori. Attualmente sono più di trenta le cause aperte dall’Aarhus centar BiH, organizzazione che fornisce supporto legale gratuito ai movimenti ambientalisti.

      Come nel caso della querela temeraria che ha coinvolto due giovani attiviste di Sarajevo Est: Sara Tuševljak e Sunčica Kovačević. “Eravamo qui quando hanno costruito queste strade d’accesso alle Mhe. Abbiamo sentito le esplosioni, fotografato i detriti e gli alberi franati giù nel letto del fiume”, racconta Kovačević da una roccia a picco sul fiume Kasindolska. Sul suo telefono, mostra le foto dello stesso torrente secco e ricoperto di detriti. Nel 2022, quando le attiviste denunciano pubblicamente il potenziale rischio ambientale di questa situazione, arriva una chiamata dall’amministratore delegato di Green Invest, l’azienda belga a capo del progetto, che chiede loro di ritrattare. Un mese dopo, la compagnia Buk doo -di proprietà della società belga- presenta la prima di tre querele per diffamazione.

      “I permessi si ottengono molto velocemente e i controlli quasi non esistono. Agli investitori conviene di più pagare le multe che adeguarsi alla legge” – Nina Kreševljaković

      Anche Amnesty International ha considerato il provvedimento come un’azione strategica contro la partecipazione pubblica. Green Invest è solo una delle aziende europee che partecipano, a vario titolo, ai 95 progetti di Mhe censiti da Eko akcija in tutto il Paese. Quelli in cui sono coinvolte imprese italiane sono 14, tra cui la Sol Spa che ne conta ben cinque. “Ci si può chiedere cosa abbia attratto tutti questi investitori stranieri -incalza l’avvocata dell’Aarhus centar BiH, Nina Kreševljaković-. La risposta è molto semplice: qui regna l’anarchia”. Dal suo studio di Sarajevo elenca i vari problemi legati a questo settore: “I permessi si ottengono molto velocemente e i controlli quasi non esistono. Ci sono stati casi di corruzione, e agli investitori conviene di più pagare le multe che adeguarsi alla legge”.

      Un sistema, quello delle Mhe, che a lungo si è appoggiato alle feed-in tariffs, un piano agevolato attraverso il quale agli investitori veniva garantito l’acquisto di energia a un prezzo fino a quattro volte maggiore rispetto a quello di mercato, per un periodo di tempo tra i 12 e i 15 anni. “Dopo anni di lotte, grazie alla pressione di associazioni e Ong, nel 2022 il parlamento della FBiH ha adottato una legge che vieta la costruzione di nuove mini-centrali”, prosegue l’avvocata. Nella Republika Srpska il sistema delle Mhe è stato invece fortemente ridimensionato con una norma che vieta alle istituzioni di finanziarne di nuove. “Negli anni il movimento ha raggiunto grandi risultati -racconta Ulrich Eichelmann, direttore di RiverWatch, una delle Ong di conservazione ambientale più attive nei Balcani-. Il numero dei progetti di Mhe è diminuito drasticamente, anche perché ormai gli investitori sanno che la consapevolezza dei cittadini sul tema è cresciuta”.

      Il problema, ora, si sta spostando su nuove grandi opere energetiche come il “Gornji Horizonti” attualmente in costruzione in Erzegovina: un massiccio sistema di dighe, canali e sbarramenti concepito in epoca jugoslava e oggi ripreso in mano dal gruppo cinese Gezhouba. Il progetto, denuncia RiverWatch, muterà il corso di diversi fiumi con una portata impossibile da calcolare per la natura inesplorata del territorio. “Bisogna vedere come le persone affronteranno questi nuovi problemi -conclude Eichelmann- ma la radice di tutto ciò risiede in una visione che considera ogni risorsa naturale semplicemente come una risorsa per fare più soldi”.

      https://altreconomia.it/in-bosnia-ed-erzegovina-le-comunita-locali-combattono-per-i-propri-fium

      #Mhe

  • A l’école genevoise, le #Kosovo n’existe pas

    Les cartes géographiques murales dans les classes font du Kosovo une province serbe. Elles ont été achetées à l’entreprise Michelin, en France. Le Département de l’instruction publique reconnaît une erreur.

    « Madame, il est où le Kosovo sur la carte ? » demande un élève. Réponse hypothétique de l’enseignant : « En #Serbie, Toto. » C’est la blague de la rentrée scolaire genevoise, qui fera sans doute davantage grimacer que sourire. Mais elle est vraisemblable. En effet, sur les cartes murales du monde et de l’Europe des classes des degrés primaire et secondaire dont le Département de l’instruction publique (DIP) a fait l’acquisition, le Kosovo n’existe pas. Il n’est qu’une province serbe, alors que son indépendance a été reconnue. Diable, il va falloir que les professeurs se montrent fins diplomates.

    Comment cette bourde a-t-elle été rendue possible, dans un canton où la communauté kosovare est très présente ? « L’absence des frontières politiques du Kosovo n’a pas été remarquée par les acheteurs sur le moment, répond Pierre-Antoine Preti, porte-parole du DIP. Il n’y a aucune volonté délibérée de la part du DIP, qui va désormais s’employer à corriger cette erreur. » Comment ? Dans un premier temps, la commande 2018-2019 sera renvoyée à l’expéditeur. Les commandes suivantes seront conformes aux frontières politiques européennes, assure le département.
    Exigence de cartes plastifiées résistantes

    Chaque année, Genève procède au réassort des cartes murales donnant des signes de fatigue. Le canton vient de faire l’acquisition de 73 exemplaires. La Direction générale de l’enseignement obligatoire (DGEO) a passé commande au français Michelin, manifestement pas à la page puisque l’Hexagone, comme la Suisse, a reconnu le Kosovo en 2008, peu après sa déclaration d’indépendance unilatérale.

    Genève aurait été mieux inspiré en achetant local. En Suisse, le numéro un des éditeurs touristiques est Hallwag Kümmerly+Frey et ses cartes sont à jour. Le DIP n’ignorait pas ce fournisseur lorsqu’il a procédé au choix, l’acquisition étant passée par la centrale commune d’achat du Département des finances, qui veille à l’application des règles usuelles des marchés publics.

    Mais la DGEO avait sur le produit des idées bien arrêtées. Elle souhaitait des cartes plastifiées plus résistantes à l’usage scolaire, une exigence formulée avec le soutien d’experts pédagogiques dans le domaine de la géographie. Dommage qu’attachés à ces considérations techniques, ils en aient oublié le fond. Et comme le concurrent suisse de Michelin ne proposait pas cette plastification dans le format désiré, c’est l’entreprise française qui l’a emporté.
    « La communauté kosovare mérite toute notre considération »

    Au grand dam aujourd’hui de la conseillère d’Etat Anne Emery-Torracinta, qui regrette l’absence des frontières nationales du Kosovo sur ces documents : « La communauté kosovare présente sur notre territoire mérite toute notre considération. La Suisse fut l’un des premiers pays à reconnaître ses frontières nationales. »

    Du côté des politiques, on reste pantois devant la gaffe : « C’est grave, car on constate qu’on a mis l’accent sur l’emballage, et pas sur le contenu, réagit Jean Romain, député PLR au Grand Conseil. Enseigner, c’est d’abord transmettre des connaissances, les plus justes possible. » François Lefort, député vert au parlement : « Le DIP devient un habitué des bourdes. Soit par ignorance, soit par manque d’intérêt. C’est regrettable. »

    Pour un enseignant du primaire, cette affaire est dommageable : « C’est blessant pour les élèves kosovars, et cela pourrait créer des remous même au sein des familles. A nous de saisir l’occasion de faire un peu de géopolitique pour expliquer les choses. » Francesca Marchesini, présidente du Syndicat des enseignants du primaire (SPG), salue la volonté du DIP de corriger le tir. « Même si le problème n’a pas été soulevé par le corps enseignant avant ce réassort. » Les cartes actuellement dans les classes souffrent en effet de ce même manquement.
    « Au détriment aussi des entreprises suisses »

    Au Syndicat des enseignants du Cycle d’orientation (Famco), Julien Nicolet, membre du bureau, relève un autre choix problématique, selon lui : la renonciation à l’Atlas mondial suisse, publié par la Conférence suisse des directeurs cantonaux de l’Instruction publique, au profit d’un atlas des Editions De Boeck, en Belgique : « Les données statistiques sont anciennes, la cartographie est médiocre, certaines régions, comme la péninsule Ibérique, ne sont pas traitées, et les noms sont francisés à outrance. Ces économies de bouts de chandelle ne riment à rien. »

    Elles posent aussi une autre question : « L’obligation d’épargner se traduit par des économies de court terme. Dans les deux cas d’espèce, elles sont au détriment aussi des entreprises suisses. Comment dit-on se tirer une balle dans le pied en wallon ? » plaisante un enseignant.

    A Genève, les 3500 cartes géographiques suspendues dans les classes totalisent une valeur de 65 000 francs. Pas cher pour ce qu’elles procurent de rêves, mais cher pour y voir figurer des erreurs. Cela ne risque pas d’arriver dans le canton de Vaud, qui a rompu depuis des années avec la tradition en n’achetant plus de cartes murales du monde, leur préférant la projection. Demeure une seule carte en papier, celle du canton. Une valeur sûre qui évitera à Toto de chercher le Kosovo dans le Gros-de-Vaud.

    https://www.letemps.ch/suisse/lecole-genevoise-kosovo-nexiste
    #polémique #cartographie #école #éducation #Suisse

    cc @reka

    • La carte est fausse ? La leçon de géographie sera meilleure !

      Il est évidemment regrettable que le Kosovo ait été « oublié » sur les cartes scolaires genevoises comme le révèle le TEMPS. Les réactions contrites des protagonistes de la bourde sont justifiées. Mais l’épilogue de l’affaire (renvoi chez Michelin afin d’obtenir des cartes correctes) et les réactions outrées des politiciens en quête d’une « transmission des connaissances les plus justes possibles » mérite discussion.

      L’histoire de la cartographie – portée par des grandes figures comme Brian Harley et Mark Monmonier – nous apprend en effet qu’aucune carte n’est « vraie » ou « juste ». Les bonnes cartes, certes, tendent à être les plus fidèles possibles, mais toutes représentent un reflet du monde, des choix cartographiques et des rapports de pouvoirs. Comment les futures cartes « justes » qui seront livrées au DIP représenteront-elles la Palestine ? la Crimée ? Le Tibet ? Le Cachemire ? Les îles Kouriles ? Ceuta et Melilla ? Gibraltar ? Je serai curieux de le savoir !

      Il y a là une matière d’apprentissage bien plus nécessaire pour les élèves que la géographie traditionnelle de pays figés chacun dans une couleur et de capitales à mémoriser. Mon conseil aux enseignants de géographie genevois est donc de conserver précieusement leurs nouvelles cartes fausses et d’en faire la matière d’un cours sur la géographie changeante des Balkans – une région riche d’ailleurs d’une histoire cartographique particulièrement remarquable – sur le pouvoir des cartes et sur les rapports compliqués entre la réalité et sa représentation…

      Ce sera toujours plus intéressant que de contempler – comme les petits vaudois si l’on en croit l’article du TEMPS – le seul canton de Vaud…

      Harley, B. J. 1988. Maps, Knowledge and Power. In The Iconography of Landscape, eds. D. Cosgrove and S. Daniels. Cambridge : Cambridge University Press.

      ------. 1989. Deconstructing the Map. Cartography (26):1-20.

      Monmonier, M. S. 1993. Comment faire mentir les cartes. Paris : Flammarion.

      https://blogs.letemps.ch/etienne-piguet/2018/08/30/la-carte-est-fausse-la-lecon-de-geographie-sera-meilleure

  • Serbia-Kosovo: un nuovo confine?

    In Serbia si parla sempre più di delimitazioni, demarcazioni, scambio di territori, in riferimento ad una imminente soluzione dell’annosa questione del Kosovo. Un’analisi del dibattito in corso.

    All’inizio di agosto il presidente serbo Aleksandar Vučić ha dichiarato di essere favorevole a una «delimitazione» territoriale tra Serbia e Kosovo, senza però precisare che cosa questa delimitazione potrebbe effettivamente implicare. Nonostante Vučić ultimamente abbia più volte annunciato l’avvicinarsi del momento di una “dolorosa presa di posizione” sulla questione del Kosovo, i suoi sostenitori tuttora ricordano che in passato aveva “giurato” che non avrebbe mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, a nessun prezzo.

    Vučić ha alimentato ulteriormente il clima di confusione dichiarando di non avere nessun piano riguardo alla «delimitazione» con il Kosovo, ma che il prossimo 9 settembre si rivolgerà ai serbi del Kosovo.

    Forse in quell’occasione l’opinione pubblica scoprirà che cosa intende il presidente serbo per “delimitazione”: il riconoscimento del confine attuale tra Serbia e Kosovo, che Belgrado definisce un confine “amministrativo”, oppure l’idea di una divisione del Kosovo secondo la quale la parte settentrionale, a maggioranza serba, verrebbe annessa alla Serbia?

    Si specula inoltre su una terza ipotesi, ovvero su un possibile scambio di territori tra i due paesi che implicherebbe che i comuni di Preševo, Bujanovac e Medveđa situati nel sud della Serbia, e abitati prevalentemente da albanesi, vengano “scambiati” con i comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo.

    Ed è proprio in quest’ottica che una parte dell’opinione pubblica serba ha interpretato l’affermazione del presidente del Kosovo Hashim Thaçi, il quale ha dichiarato che intende avanzare, nel quadro del negoziato condotto a Bruxelles, una proposta di “correzione dei confini”.

    Le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dal presidente Vučić e dal suo omologo kosovaro dimostrano che la ricerca di una soluzione della questione del Kosovo si sta intensificando e che entrambi i presidenti stanno cercando di trarre il massimo vantaggio dalle trattative e di convincere le rispettive opinioni pubbliche che usciranno vittoriosi dal negoziato, pur non essendovi ancora certezza sul se e quando verrà raggiunto un accordo.

    Questo intensificarsi della ricerca di un compromesso è dovuto alla necessità di raggiungere al più presto, nell’ambito del negoziato condotto sotto gli auspici dell’Unione europea, un accordo legalmente vincolante sulla normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina. La ratifica di questo accordo è una condizione necessaria all’avanzamento della Serbia verso l’Unione europea.

    Al momento non si sa nulla riguardo ai contenuti dell’accordo, tranne il fatto che dovrebbe impedire alla Serbia di bloccare l’ingresso del Kosovo nelle organizzazioni internazionali. Ciò significa, in ultima analisi, che il governo di Belgrado dovrà smettere di opporsi all’adesione del Kosovo alle Nazioni Unite, il che equivarrebbe a riconoscere – se non formalmente, almeno tacitamente – l’indipendenza del Kosovo.
    Vaso di Pandora o operazione di facciata

    Uno dei primi leader politici a esprimere sostegno all’idea di delimitazione territoriale avanzata da Vučić è stato il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik. “Noi desideriamo solo affermare i nostri interessi, quelli della Republika Srpska, della Serbia, dei quattro comuni [a maggioranza serba] nel nord del Kosovo, nonché gli interessi serbi in Montenegro”, ha dichiarato Dodik, esprimendo la propria visione del futuro della regione, e soprattutto della Bosnia Erzegovina.

    L’ipotesi di recrudescenze nazionaliste ha suscitato forti reazioni prima ancora che Dodik la esplicitasse. L’ex primo ministro della Svezia Carl Bildt, che ha ricoperto l’incarico di Alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia Erzegovina e conosce bene le dinamiche politiche dell’area balcanica, ha messo in guardia, in un articolo pubblicato su Washington Post, sul fatto che lo scambio di territori tra Serbia e Kosovo potrebbe aprire il vaso di Pandora, mettendo a rischio la pace non solo in Bosnia Erzegovina ma anche in Macedonia, dove una cospicua parte della popolazione è di nazionalità albanese.

    Anche Daniel Serwer, professore presso la Johns Hopkins University di Washington ed esperto di Balcani, ha dichiarato, in un’intervista rilasciata a Radio Slobodna Evropa , che un’eventuale divisione del territorio kosovaro “aprirebbe la strada a tentativi di unificazione del Kosovo con l’Albania o con le regioni della Macedonia abitate prevalentemente da albanesi. Così si creerebbe un caos nei Balcani”. Serwer ha inoltre espresso dubbi sulla possibilità che Washington possa sostenere l’idea di una divisione del Kosovo.

    Replicando alle affermazioni di Serwer, il diplomatico austriaco Wolfgang Petritsch, che è stato inviato speciale dell’Ue in Kosovo, ha dichiarato che un’eventuale divisione del Kosovo non sarebbe che una mera “correzione cosmetica” che “non avrebbe alcun effetto negativo sugli altri paesi della regione”, proponendo che, sotto l’egida dell’Ue, dell’Onu e dell’Osce, venga sottoscritta una dichiarazione che vincoli tutti i paesi dei Balcani ad astenersi in futuro da qualsiasi tentativo di raggiungere simili accordi.

    Nel frattempo, su invito del ministro degli Esteri Ivica Dačić, in Serbia è arrivata in visita Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, la quale ha dichiarato che la Russia rispetterà “ogni decisione favorevole ai cittadini della Serbia”, ricordando che la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu sancisce l’integrità territoriale della Serbia.

    A destare un’eco particolarmente forte è stata la dichiarazione della cancelliera tedesca Angela Merkel, secondo cui “nei Balcani non ci sarà alcuna modifica dei confini; l’integrità territoriale dei paesi dei Balcani occidentali è determinata e intoccabile”.

    Commentando diverse reazioni all’ipotesi di una modifica del confine tra Serbia e Kosovo, il ministro degli Esteri Ivica Dačić ha dichiarato: “Nel caso in cui venisse raggiunto un accordo bilaterale, perché a qualcuno dovrebbe importare di quello che vi è scritto?”.
    Tradimento e sostegno

    A suscitare preoccupazione, soprattutto tra i serbi del Kosovo, è il fatto che ancora non è stata creata l’Associazione delle municipalità serbe, prevista dall’Accordo di Bruxelles firmato nel 2013, che dovrebbe garantire una certa autonomia alle enclavi serbe. La maggioranza della popolazione serba del Kosovo vive nella parte centrale del paese e, in caso di un’eventuale divisione del Kosovo, rimarrebbe privata dell’appoggio del governo di Belgrado di cui attualmente gode.

    Inoltre nell’ambito del negoziato non è ancora stata affrontata la questione della divisione del patrimonio comune, né tanto meno quella relativa alla tutela della chiese e dei monasteri serbi in Kosovo.

    Invece di cercare di risolvere numerose questioni bilaterali che si trascinano da anni, le autorità dei due paesi hanno aperto una nuova questione, quella della delimitazione del confine.

    E oltre al fatto che fin dal 1999, quando le forze dell’esercito e della polizia serba si sono ritirate dal Kosovo dopo l’intervento militare della Nato, la Serbia non ha alcun controllo effettivo sul territorio kosovaro, la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu fa riferimento alla sovranità dell’allora Repubblica federale di Jugoslavia, nonché alla presenza della comunità internazionale in Kosovo.

    Questo documento è uno dei principali argomenti a cui ricorre una parte dell’opposizione serba nel criticare l’idea di delimitazione con il Kosovo avanzata da Vučić. La maggior parte degli esponenti dell’opposizione accusa Vučić di aver tradito gli interessi nazionali e violato la Costituzione serba nella quale sta scritto che il Kosovo è parte integrante della Serbia, e sono favorevoli al mantenimento dello status quo, ovvero all’ipotesi del “congelamento del conflitto”, mentre alcuni persino sostengono la necessità di interrompere i negoziati.

    Esprimendo una posizione diametralmente opposta, 35 organizzazioni non governative, favorevoli al proseguimento del dialogo tra Belgrado e Pristina, hanno invitato l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini ad assumere una chiara presa di posizione contro la divisione del Kosovo e contro qualsiasi scambio di territori tra i due paesi.

    La più forte resistenza all’idea della divisione del territorio kosovaro è arrivata dalle enclavi serbe in Kosovo, e in particolare dal monastero di Visoki Dečani situato nei pressi del confine con l’Albania. L’abate del monastero, padre Sava Janjić, e il vescovo di Raška e Prizren Teodosije hanno avvertito che un’eventuale divisione del Kosovo secondo un principio etnico non farebbe altro che aumentare le pressioni a cui sono sottoposti i serbi che vivono nella parte centrale del paese, spingendoli ad emigrare.

    “Fanno parte di un’operazione organizzata e sistematica condotta dai servizi segreti”, li ha attaccati il capo dell’Ufficio per il Kosovo del governo serbo Marko Đurić. I media filogovernativi hanno inoltre reagito lanciando una campagna denigratoria contro i dignitari della Chiesa ortodossa serba in Kosovo, bollando padre Sava come difensore degli interessi albanesi (usando il peggiorativo šiptar), mercenario della CIA e peggiore nemico della Serbia. Questo linguaggio non è riservato solo ai rappresentanti della Chiesa ortodossa serba ma chiunque si azzardi a criticare le idee avanzate da Vučić viene bollato come traditore e nemico dello stato.

    Il presidente Vučić invece riceve quotidianamente messaggi di sostegno non solo da parte dei funzionari del suo partito ma anche dei leader politici dei serbi del Kosovo, compresi i sindaci dei 10 comuni a maggioranza serba del Kosovo che hanno fatto sapere che appoggeranno ogni proposta di risoluzione della questione del Kosovo avanzata da Vučić, a prescindere che si tratti di “una delimitazione, correzione o qualcos’altro”.

    Considerando l’ampio sostegno di cui gode, Vučić avrebbe già potuto spiegare in termini chiari – non solo attraverso i mezzi di comunicazione, ma anche in parlamento, aprendo un vero dibattito pubblico – tutti gli aspetti che hanno finora caratterizzato il negoziato tra Belgrado e Pristina e le possibili soluzioni alla questione.

    Avrebbe potuto, invece di scagliarsi continuamente contro “nemici e traditori”, sforzarsi di ottenere un appoggio più solido da parte dell’opinione pubblica serba all’imminente risoluzione della questione dello status del Kosovo.

    Quel che è certo comunque è che Vučić continuerà a seguire le indicazioni provenienti da Bruxelles e Washington, perché solo con il sostegno della comunità internazionale potrà adempiere a tutti gli obblighi assunti con la firma dell’Accordo di Bruxelles e rimanere al potere.

    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Serbia/Serbia-Kosovo-un-nuovo-confine-189683
    #Serbie #Kosovo #frontières #géographie_politique #ex-Yougoslavie

  • Les Européens s’inquiètent des discussions sur les frontières entre Serbie et Kosovo
    https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/08/14/les-europeens-s-inquietent-des-discussions-sur-les-frontieres-entre-serbie-e


    ©Le Monde

    Les frontières pourraient-elles être de nouveau modifiées dans les Balkans ? Longtemps inimaginable au nom de la stabilité d’une région déchirée par plusieurs guerres dans les années 1990, cette éventualité, qui effraie nombre de chancelleries européennes, a fait un retour inattendu dans le cadre des longues et délicates négociations entre la Serbie et le Kosovo. Dans une déclaration remarquée, le président de cette ancienne région serbe devenue indépendante en 2008, Hashim Thaci, a publiquement expliqué début août que des « corrections frontalières » pouvaient être envisagées dans le cadre « d’une solution pacifique avec la Serbie ».

    Cette idée explosive avait jusqu’ici toujours été écartée par les autorités du Kosovo, pays à majorité albanophone, mais où vit également une importante minorité serbe. Principalement concentrée dans le nord du pays, autour de la ville divisée de Mitrovica, celle-ci est toujours entretenue par les autorités de Belgrade, qui n’ont jamais reconnu l’indépendance du Kosovo. Or, cette situation juridique instable constitue le principal point d’achoppement des négociations entre les deux pays. Le nord du Kosovo est devenu une zone de non-droit en proie aux mafias et aux assassinats politiques : en janvier, un opposant politique serbe a été tué en pleine rue.

    Même s’il s’est dit opposé à tout « échange de territoire », l’homme fort du Kosovo pourrait accepter de perdre ces territoires contre le rattachement de la vallée de Presevo et des municipalités de Medveda et Bujanovac, des enclaves majoritairement albanophones en territoire serbe. M. Thaci a proposé d’y organiser un référendum, « la seule option pour légitimer les souhaits des Albanais qui y vivent ».

  • Österreich plant mit einigen EU-Ländern Aufnahmelager außerhalb der EU

    Österreich arbeite „mit einer kleinen Gruppe von Staaten“ an dem Projekt, sagte Kurz. Die Pläne seien bisher allerdings „sehr vertraulich“, um die „Durchsetzbarkeit“ des Projekts zu erhöhen. Auf die Frage, ob ein solches Aufnahmezentrum in Albanien eingerichtet werden könnte, sagte Kurz: „Wir werden sehen.“

    In der vergangenen Woche hatte bereits der dänische Ministerpräsident Lars Lökke Rasmussen bestätigt, dass einige EU-Länder, darunter auch Österreich, Aufnahmezentren für abgelehnte Asylbewerber außerhalb der EU einrichten wollen. In österreichischen Medienberichten war zuletzt mehrfach von Albanien als möglichem Standort die Rede.

    https://www.welt.de/newsticker/news1/article177463654/Fluechtlinge-Oesterreich-plant-mit-einigen-EU-Laendern-Aufnahmelager-ausserhalb
    #asile #migrations #réfugiés #externalisation #Albanie #hotspots (sorte de hotspot en dehors de l’UE) #Autriche #Danemark

    –----

    voir la métaliste sur les tentatives d’externalisation de la procédure d’asile de différents pays européens dans l’histoire :
    https://seenthis.net/messages/900122

    • C’est à la même occasion de la proposition d’un #axe contre l’immigration illégale...

      Les ministres de l’Intérieur allemand, autrichien et italien créent un « axe » contre l’immigration illégale

      « A notre avis, il faut un axe des volontaires dans la lutte contre l’immigration illégale », a annoncé le chancelier autrichien #Sebastian_Kurz, mercredi.


      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/les-ministres-de-l-interieur-allemand-autrichien-et-italien-creent-un-a
      #Allemagne #Italie

    • L’Autriche et le Danemark veulent ouvrir des camps d’expulsés aux portes de l’UE

      Selon le premier ministre danois, Copenhague est en discussion avec Vienne et « d’autres pays » de l’Union pour la mise en place d’un « nouveau régime européen de l’asile ».

      Leurs divisions et la pression des populistes font décidément naître les idées les plus renversantes parmi les dirigeants européens quant au traitement à réserver aux demandeurs d’asile et au refoulement de ceux qui ne peuvent prétendre à celui-ci.

      Mardi 5 juin, le premier ministre danois, Lars Lokke Rasmussen, a annoncé que son pays était en discussion avec l’Autriche – qui assumera bientôt la présidence tournante de l’Union – et « d’autres pays » pour la mise en place d’un « nouveau régime européen de l’asile ». Point central du dispositif : la création de « centres communs de réception et d’expulsion en Europe ». En clair, des camps de rétention, où se retrouveraient des migrants ne pouvant prétendre à une demande d’asile, ou ne pouvant être rapidement renvoyés.

      M. Rasmussen n’a pas mentionné la possible localisation de ces camps. Ils ne seraient pas, selon lui, « sur la liste des destinations préférées des migrants et des passeurs ». Il s’agirait en fait, selon plusieurs sources, de l’Albanie et du Kosovo, candidats à l’adhésion à l’UE. Le premier ministre a évoqué des contacts « avec d’autres dirigeants européens » et se disait « optimiste », quant à la mise en place d’un projet pilote « d’ici à la fin de l’année ». Les premières discussions auraient en fait eu lieu à Sofia, en marge du sommet entre les dirigeants des Vingt-Huit et cinq pays des Balkans occidentaux, le 17 mai.

      Les sociaux-démocrates et les populistes du Parti du peuple danois (Dansk Folkeparti, DF) – ces derniers soutiennent M. Rasmussen au Parlement – ont fait savoir qu’ils étaient favorables à la proposition du premier ministre. La formation populiste avait déjà proposé de transformer une île inhabitée du royaume, située en dehors du territoire de l’Union, en centre de détention pour les déboutés. La ministre libérale de l’immigration, Inger Stojberg, avait répondu qu’elle était « toujours prête à examiner de bonnes idées », même si celle-ci présentait « des défis pratiques et légaux ».

      Paris semble tomber des nues

      A Bruxelles, mercredi, le chancelier conservateur autrichien Sebastian Kurz présentait avec son gouvernement les principaux axes de sa présidence, qui démarrera le 1er juillet. Il aurait voulu que toute l’attention soit portée sur sa volonté de renforcer les frontières extérieures de l’Union et sur ses propositions pour le budget post-Brexit – ses deux priorités.

      Or, il a évidemment été interrogé sur les propos de M. Rasmussen et a dû les confirmer, tout en ajoutant prudemment qu’il ne s’agissait pas d’un projet porté par sa future présidence mais « d’une initiative émanant d’un cercle restreint auquel le Danemark appartenait ». Quels autres Etats membres seraient concernés ?

      Les Pays-Bas, semble-t-il, mais la diplomatie néerlandaise affirmait, jeudi, ne pas vouloir se prononcer sur la concrétisation du projet. La Belgique, elle, n’aurait pas été consultée même si, lundi, lors d’une réunion des ministres européens de l’intérieur et de la migration, son secrétaire d’Etat, le nationaliste flamand Theo Francken, avait évoqué la nécessité d’empêcher l’accostage des bateaux en Europe – « push back » – et proclamé « la mort » du règlement de Dublin. Celui-ci oblige les pays de première arrivée (Italie et Grèce surtout) à enregistrer un migrant avant son transfert éventuel vers un autre Etat membre.

      L’Allemagne ? Mme Merkel aurait été « approchée » mais, jeudi, lors d’un congrès du Parti populaire européen, à Munich, elle insistait surtout sur le contrôle des frontières extérieures de l’Union et suggérait la nécessité de reproduire, avec d’autres pays tiers, l’accord conclu avec la Turquie pour la gestion des migrants. La famille des conservateurs européens prône toujours la relocalisation de demandeurs d’asile dans l’Union, à partir de pays tiers. Un proche de la chancelière ne cachait pas son scepticisme l’égard des plans de Copenhague et Vienne.

      La France, alors ? Sa diplomatie semble tomber des nues. Paris œuvre à un texte pour sortir le dossier migratoire de l’ornière mais ne pourrait accepter l’idée de camps de rétention. « Inimaginable », aussi, dit une source diplomatique, de voir des pays des Balkans se ranger à de telles initiatives, même en échange d’un coup de pouce financier ou d’une accélération de l’examen de leur dossier d’adhésion.

      Bruxelles inquiète des dérives

      Du côté de la Commission européenne – dont le président, Jean-Claude Juncker, recevait mercredi M. Kurz – la réponse est embarrassée. Le collège résume les projets en question à des « initiatives nationales », en soulignant qu’il serait préférable d’avoir une approche européenne, fondée sur « les valeurs » de l’Union.

      Bruxelles s’inquiète surtout des dérives du débat et redoute la multiplication des incidents avec la future présidence autrichienne, susceptible de rallier les voix de la Hongrie, de la Pologne ou d’autres Etats membres, hostiles à l’accueil des demandeurs d’asile.

      De précédents projets visant à la création de centres « d’accueil », sur le territoire libyen notamment, avaient été prudemment écartés. L’idée d’ouvrir des camps dans des pays européens, hors UE, portée par le ministre autrichien de l’intérieur, Herbert Kickl, poids lourd du FPÖ (Parti autrichien de la Liberté) est vue comme un nouvel obstacle à toute solution consensuelle.

      M. Kickl a aussi promis d’augmenter le nombre des personnes reconduites aux frontières. En 2017, 11 974 déboutés du droit d’asile ont quitté l’Autriche et 58 % d’entre eux ont été éloignés de force. Le ministre a également confirmé la mise en place d’une nouvelle police des frontières et annoncé que son pays ne participerait plus au programme de répartition des réfugiés arrivés en Grèce et en Italie. Il souhaite d’ailleurs que désormais, plus aucune demande d’asile ne soit étudiée sur le sol européen.

      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/06/08/l-autriche-et-le-danemark-veulent-ouvrir-des-camps-d-expulses-aux-portes-de-
      #Kosovo

    • L’étonnante proposition de #Donald_Tusk sur les réfugiés

      Le président du Conseil européen Donald Tusk envisage la création de centres en dehors de l’UE pour distinguer rapidement les personnes éligibles à l’asile et les migrants économiques qui ne peuvent y prétendre, ressort-il d’un projet de conclusions qu’il a fait parvenir aux chefs d’Etats et de gouvernement européens dans la perspective du sommet des 28 et 29 juin.

      Cette proposition, avancée par M. Tusk pour sortir de l’impasse sur la question migratoire, est un « #potentiel_game-changer », d’après un diplomate européen.

      Ces « plateformes régionales de débarquement » permettraient d’accueillir des personnes sauvées en mer alors qu’elles essayaient de rejoindre l’UE. Elles seraient gérées en coopération avec le Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (UNHCR) et l’Organisation internationale pour les migrations (OIM).

      Le document ne précise toutefois pas où elles se situeraient. Une source européenne a néanmoins précisé qu’elles étaient envisagées « en dehors de l’UE » sans donner plus de détails.

      La Tunisie et l’Albanie sont régulièrement citées comme étant susceptibles d’accueillir de telles installations. Le secrétaire d’Etat belge à l’Asile et la Migration, Theo Francken (N-VA), avait d’ailleurs récemment suggéré de ramener les migrants secourus en mer vers le pays du Maghreb pour ensuite les trier. Une idée similaire avait aussi été avancée dès 2016 par le dirigeant ultranationaliste hongrois Viktor Orban.

      Outre la création de ces « plateformes », Donald Tusk propose aux dirigeants de renforcer les moyens financiers consacrés à la lutte contre la migration illégale et d’offrir un soutien plus important aux garde-côtes libyens. Il souligne aussi la nécessité d’une coopération accrue avec des pays d’origine et de transit des migrants, pour éviter de connaître à nouveau un afflux comparable à celui de 2015.

      Les « plateformes de débarquement » seraient destinées aux migrants qui, malgré toutes ces mesures, tenteraient la traversée de la Méditerranée et seraient « secourus dans le cadre d’opérations de recherche et de sauvetage ».

      Les chefs d’Etat et de gouvernement se pencheront en détail sur les propositions de M. Tusk lors du sommet des 28 et 29 juin. Ils aborderont également l’épineuse question de la réforme du règlement de Dublin, pierre angulaire du régime d’asile européen.

      Après trois ans de palabres, les 28 Etats membres de l’UE ne sont en effet pas parvenus à s’accorder sur une réforme de ce texte, dont les failles ont été révélées lors de l’afflux massif et soudain de migrants dans l’Union en 2015.

      Ce règlement, qui détermine l’Etat membre responsable d’une demande d’asile dans l’UE, fait pour l’heure peser une pression démesurée sur les pays de « première entrée », en particulier l’Italie et la Grèce. Les chances qu’un compromis se dégage sur ce point lors du sommet semblent toutefois infimes, pour ne pas dire inexistantes.

      http://www.lalibre.be/actu/international/l-etonnante-proposition-de-donald-tusk-sur-les-refugies-5b29222e5532a296888d

      autre mot barbare : #potentiel_game-changer

    • L’axe commence à se mettre en place...

      Germany and Austria start joint police work to combat illegal migration

      The Austrian and German federal police and the Bavarian state police plan for the first time this Friday to work together in their border area to assess ways they can combat increasing illegal immigration and crime. The authorities will start by taking a closer look at rail traffic.

      https://www.thelocal.de/20180601/germany-and-austria-strengthen-borders-to-combat-risky-illegal-migration

    • Migranti, Conte: «In autunno vertice sulla Libia». E intanto a Innsbruck asse con Germania e Austria

      Il premier: «Invierò una lettera da spedire a Juncker e a Tusk». Intanto, intesa a tre per arginare i flussi migratori in modo da far arrivare in Europa solo chi fugge da una guerra.

      «Il merito dell’Italia è stato riuscire a ricondurre in un quadro unitario organico vari aspetti di un fenomeno complesso e avere compreso che il fenomeno della gestione dei flussi migratori non è emergenziale». Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in conferenza stampa alla fine del vertice Nato. «Stiamo organizzando una conferenza in Italia sulla Libia in autunno per dar seguito a quella di Parigi», ha aggiunto il premier,«il processo di stabilizzazione non può riguardare solo l’Italia ma nemmeno soltanto Macron». Sulla Libia, ha spiegato invece Conte, «c’è tanto da fare, il Paese va affiancato» nel suo percorso di stabilizzazione che porti alle elezioni. Ma Conte ha avvertito che «se arriviamo troppo presto alle elezioni, si rischia di avere il caos totale. Bisogna prima creare le condizioni sociali ed economiche necessarie per reggere l’impatto di un sistema democratico».

      «Presto una lettera a Juncker e Tusk»

      Il presidente del Consiglio ha affermato poi di non aver parlato di Libia con Trump a Bruxelles: lo farà nel dettaglio nella sua prossima visita negli Usa. «Il problema», ha detto, «non è modificare il regolamento di Dublino» che è «asfittico come approccio, è assolutamente inadeguato. I principi delle Conclusioni Ue attestano che è superato». Conte ha parlato di una lettera da spedire a Juncker presidente della Commissione europea e a Tusk a capo del Consiglio europeo: «Nella mia lettera si chiederà che anche Sophia, anche questa missione internazionale sia adeguata alle conclusioni del Consiglio Ue. E così per le altre». «La mia lettera partirà molto presto, non so a che punto è Juncker ma appena rientrerò a Roma lavorerò a questo». «L’ultima notizia», ha poi detto, «è che la nave Diciotti si sta avviando in porto. Abbiamo dato indicazione di individuare le persone o i migranti che si sono resi responsabili di atti che contrastano con le nostre leggi».

      Il vertice a tre

      In mattinata, sul tema migranti era già stato protagonista Matteo Salvini, ministro dell’Interno. Un’intesa a tre, un «asse di volenterosi» guidato da Austria, Germania e Italia per arginare i flussi migratori. È ciò che è emerso dall’incontro trilaterale fra Salvini e gli omologhi tedeschi e austriaci, Horst Seehofer e Herbert Kickl a Innsbruck, che precede il vertice Ue. Si tratta di un’intesa per frenare le partenze di migranti e gli sbarchi, in modo da far giungere in Europa solo chi fugge da una guerra.

      Salvini: «Proposte italiane diventano proposte europee»

      «Le proposte italiane su migranti diventano proposte europee: contiamo che finalmente l’Europa torni a difendere i confini e il diritto e alla sicurezza dei 500 milioni di europei» ha detti Matteo Salvini. «Con i colleghi di Austria e Germania - ha spiegato al termine dell’incontro - abbiamo affrontato il grande problema degli arrivi: se si riducono questi si risolvono anche i problemi minori interni tra le nazioni e non ci sarà alcun problema alle frontiere». «Meno migranti, meno sbarchi e meno morti» ha poi aggiunto. «Chiederemo sostegno alle autorità libiche, dare a Tripoli il diritto ai rimpatri e la redistribuzione delle quote degli arrivi. Chiederemo alle missioni internazionali di non usare l’Italia come unico punto d’arrivo e il sostegno nelle operazioni di soccorso, protezione e riaccompagnamento di migliaia di clandestini nei luoghi di partenza. Credo quindi - ha detto poi Salvini - che questo nucleo di amicizia e di intervento serio concreto ed efficiente di Italia, Germania ed Austria, possa essere un nucleo che darà un impulso positivo a tutta Europa per riconoscere il diritto di asilo a quella minoranza di donne e bambini che fuggono dalle guerre ed evitare l’arrivo e la morte di decine di migliaia di persone che non scappano da nessuna guerra».

      «Proteggere le frontiere esterne all’Unione Europea»

      A fargli eco il ministro dell’Interno tedesco Seehofer:«I tre Paesi si sono messi d’accordo per controllare l’immigrazione. Vogliamo introdurre ordine nella politica migratoria ma garantire un approccio umanitario e proteggere effettivamente le frontiere esterne dell’Unione Europea». «Sarebbe importante - sottolinea poi il ministro - che l’intera Unione europea decidesse qualcosa. Noi possiamo avere delle iniziative, ma l’Unione europea deve avere un’opinione comune. Sono ottimista e qui abbiamo l’occasione di procedere in una direzione positiva». E il ministro dell’Interno austriaco Kickl sottolinea come «questo asse di volenterosi può prendere iniziative ma è l’intera Unione Europea che deve intervenire». «Le cose sono relativamente semplice - aggiunge - noi tre siamo d’accordo sul fatto che vogliamo mettere ordine» e «mandare il chiaro messaggio che in futuro non dovrebbe essere possibile calpestare il suolo europeo se non si ha il diritto alla protezione». Previsto un nuovo incontro a Vienna sempre fra i ministri dell’Interno di Italia Germania e Austria il prossimo 19 luglio.


      https://www.corriere.it/politica/18_luglio_12/migranti-asse-germania-austria-fermare-sbarchi-6ba33c18-859b-11e8-b570-8bf3

  • Le Kosovo, notre canton

    Environ 200 000 Albanais vivent en Suisse. La plupart d’entre eux sont originaires du Kosovo. Les liens entre la Suisse et le Kosovo sont si étroits que ce petit pays apparaît comme le 27e canton suisse.


    https://www.revue.ch/fr/editions/2018/03/detail/news/detail/News/le-kosovo-un-canton-suisse

    Lire cela dans la revue officielle du Département fédéral des affaires étrangères... c’est pour le moins surprenant !
    J’aimerais bien voir la tête de certains votant·es UDC en lisant ce titre !!!!

    #identité #altérité #géographie_culturelle #Kosovo #Suisse #migrations #asile #réfugiés #réfugiés_kosovars

  • Balkan: Kosovo unterzeichnet Grenzabkommen mit Montenegro (http://...
    https://diasp.eu/p/6898931

    Balkan: Kosovo unterzeichnet Grenzabkommen mit Montenegro

    Trotz Tränengasattacken im Plenarsaal hat das kosovarische Parlament ein Grenzabkommen unterzeichnet. Es gilt als Voraussetzung für eine visafreie Einreise in die EU.

    #ausland #grenzabkommen #balkan #kosovo #montenegro #tränengasattacken #plenarsaal #parlament #voraussetzung #einreise #news #bot #rss

    • A l’Elysée, y savaient pas. Il n’ont pas de profil sur Seenthis.

      https://seenthis.net/messages/136243#message136451
      @souriyam

      https://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/trafic-d-organes-au-kosovo-la-controverse-carla-del-ponte_472137.html

      A peine quatre mois après avoir quitté ses fonctions de procureur du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie (TPIY), Carla Ponte publie un livre-témoignage, La chasse, les criminels de guerre et moi, où elle évoque son expérience. Sur les huit années passées à ce poste, un élément surtout a suscité de vives réactions.
      Elle glisse en effet dans son ouvrage des informations sur un trafic d’organes prélevés sur des prisonniers serbes par des Albanais du Kosovo. Trafic présumé dans lequel auraient été impliqués, selon elle, des dirigeants de l’actuel Kosovo indépendant, à la fin des années 1990, dont l’actuel Premier ministre Hashim Thaçi.

      http://www.lemonde.fr/europe/article/2013/04/29/kosovo-cinq-medecins-condamnes-pour-un-trafic-d-organes-international_316837
      Des peines historiques ont été prononcées à Pristina, lundi 29 avril, contre cinq médecins impliqués dans le plus vaste trafic d’organes jamais mis au jour sur le continent européen. La clinique Medicus, au cœur de ce trafic, était située dans la capitale kosovare. C’est donc là qu’a été initiée l’enquête, confiée à Jonathan Ratel, un magistrat international relevant de la mission civile européenne EULEX, qui contribue à l’établissement d’un État de droit au Kosovo.
      Avec implication de Turcs et d’Israéliens :
      Les enquêteurs ont remonté le réseau jusqu’aux pays sources. Notamment en Allemagne, d’où provenaient les fonds d’origine pour la création de la clinique. Un mandat d’arrêt international a été délivré à l’encontre du chirurgien Yusuf Sonmez, surnommé « Docteur Frankenstein » et déjà interpellé pour des faits similaires en 2005, et de Moshe Harel. Celui-ci a joué un rôle clé dans l’organisation du réseau. Arrêté après le raid contre la clinique, il avait été autorisé à rendre visite à sa mère, prétendument malade en Israël, mais n’est jamais revenu au Kosovo.
Les demandes d’extradition envoyées en Turquie et en Israël pour ces deux hommes n’ont pas été satisfaites, car ces pays ne livrent pas leurs ressortissants. Le médecin turc a cependant été entendu à Istanbul en mars 2011.

    • Dick Marty sur le trafic d’organes au Kosovo : « Qui sera assez fou pour témoigner ? »
      https://www.les-crises.fr/dick-marty-sur-le-trafic-dorganes-au-kosovo-qui-sera-assez-fou-pour-temoi

      Devant un public nombreux de l’université de Neuchâtel, où l’émotion des guerres de l’ex-Yougoslavie était bien palpable, Dick Marty, l’auteur du rapport explosif de décembre 2010 sur le trafic illicite d’organes au Kosovo, http://assembly.coe.int/nw/xml/News/FeaturesManager-View-FR.asp?ID=964 s’est exprimé mercredi dans le cadre du « Carrefour de Sarajevo ».

      C’était la première fois depuis des années que Dick Marty, (membre par ailleurs du Conseil de la Fondation Hirondelle, propriétaire de JusticeInfo.net) revenait sur son rapport qui met en cause l’actuel président du Kosovo, Hashim Thaçi. Il accusait celui-ci d’être « l’un des plus dangereux parrain de la pègre albanaise ». Le rapport affirmait que le président du Kosovo et ses proches « ont ordonné, et parfois personnellement veillé au bon déroulement d’un certain nombre d’assassinats, de détentions, d’agressions et d’interrogatoires dans diverses régions du Kosovo et notamment à l’occasion d’opérations menées par l’UÇK sur le territoire albanais, entre 1998 et 2000. »

      Mandaté à trois reprises par le Conseil de l’Europe pour enquêter respectivement sur les prisons secrètes de la CIA en Europe, sur les crimes dans le Caucase du Nord, et sur le trafic d’organes au Kosovo en 1999, Dick Marty a goûté de près au cynisme de la Realpolitik et de la raison d’Etat. Mercredi soir, il a avoué avoir été « ébranlé » par la rédaction de ces trois rapports qui, dit-il, « ont détruit bien des illusions, bien des espoirs que j’avais en la justice : J’ai découvert que les gouvernements mentent, que les gouvernements manipulent l’information, que des hommes ont un double langage, ils parlent le dimanche des droits de l’homme et le lundi matin, ils les bafouent ».

      Revenant sur le rapport lié aux assassinats et au trafic d’organes, dont se sont rendus responsables des responsables de l’UCK (l’armée de libération du Kosovo) et notamment de l’actuel président de la république du Kosovo, Dick Marty s’étonne que l’ex-procureure du Tribunal pénal international pour l’ex-Yougoslavie (TPIY), Carla del Ponte, n’en a fait état que dans son livre paru en 2008, « La traque, les criminels de guerre et moi » ; soit quatre ans après l’échec des enquêtes de ses services pour faire la lumière sur les allégations contenues dans le rapport Marty. « Etonnement » redoublé, raconte Dick Marty, lorsque en 2010, il demande à voir les éléments de preuve que les enquêteurs du TPIY ont récolté sur le trafic d’organes, et qu’on lui dit que « ces preuves ont mystérieusement disparu du bureau du procureur »…

      Pour l’ex-procureur tessinois, la justice sur cette affaire est un leurre : « les Américains ont privilégié la stabilité à court terme. Avec les Européens, ils ont fermé les yeux même s’ils savaient tous parfaitement à quoi s’en tenir sur les têtes du crime organisé au Kosovo et sur les crimes qu’ils commettaient ».
      Dans quelques jours, les Chambres spéciales sur le Kosovo vont devenir opérationnelles et auront pour mandat de poursuivre les auteurs du trafic d’organes mis en lumière par Dick Marty. Mais celui-ci n’attend rien du premier Tribunal jamais créé par l’Union européenne : « Qui, dans ces conditions, serait assez fou pour témoigner vingt ans après les faits ? Beaucoup de témoins ont déjà été assassinés ».

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Dick_Marty
      Dick Marty, né le 7 janvier 1945 à Sorengo, est une personnalité politique suisse. Ancien procureur général du canton du Tessin, député au Conseil des États pendant seize ans 2, il a également été membre de l’Assemblée parlementaire du Conseil de l’Europe pour laquelle il a mené différentes enquêtes qui l’ont fait connaître sur la scène internationale3.

    • http://assembly.coe.int/nw/xml/News/FeaturesManager-View-FR.asp?ID=964
      . . . .
      4. La clinique Medicus
       

      168. Au cours de nos recherches, nous sommes venus à connaissance d’informations qui vont plus loin, par étendue et détails, de ce que nous avons illustré dans ce rapport. Elles semblent indiquer l’existence d’un véritable trafic international criminel d’organes humains, impliquant des complicités dans au moins trois différents pays étrangers (en dehors du Kosovo), pendant plus d’une dizaine d’années. Nous avons notamment récolté des indications crédibles et convergentes qui induisent à conclure que le trafic d’organes qui a eu lieu après la fin du conflit, et que nous avons décrit dans ce rapport est, en fait, étroitement lié à l’affaire contemporaine autour de la clinique « Medicus », avec, du moins en partie, les mêmes acteurs, aussi bien kosovars qu’étrangers. Par respect pour l’enquête et la procédure judiciaire en cours conduite par EULEX et le Bureau du Procureur spécial du Kosovo, nous renonçons, pour le moment, de rendre public les résultats de nos recherches sur cet aspect spécifique. Nous ne pouvons,cependant, que vivement encourager toutes les autorités des pays concernés par l’enquête « Medicus » de collaborer pleinement pour établir la vérité et les responsabilités de ce trafic infâme.

      . . . . .

  • De la viande de 12 ans exportée vers le Kosovo L’Essentiel - 12 Mars 2018
    http://www.lessentiel.lu/fr/news/europe/story/De-la-viande-de-12-ans-exportee-vers-le-Kosovo-20842957

    BASTOGNE - Le journal flamand « Het Laatste Nieuws » affirme ce mardi que de la viande de 2004, transformée à l’abattoir Veviba de Bastogne, est arrivée au Kosovo en 2016.

    Un peu moins d’une semaine après l’éclatement du scandale sanitaire qui a touché l’abattoir Veviba à Bastogne, de nouvelles révélations ne cessent de secouer la Belgique ces derniers jours. Selon le journal flamand Het Laatste Nieuws, en septembre 2016, un camion est sorti de l’abattoir bastognard pour prendre la direction du Kosovo avec de la viande datant de 2004.


    Sur des boites portant la marque Veviba, la majeure partie des étiquettes étaient déchirées et l’année 2004 apparaissait encore sur certains petits morceaux. Toujours selon le quotidien néerlandophone, au moment des faits, les services kosovars de l’inspection alimentaire auraient même prévenu l’Agence fédérale belge pour la sécurité de la chaîne alimentaire (Afsca). Les abattoirs d’Izegem et de Harelbeke, au nord du pays, auraient également participé au chargement de ce camion.

    Interrogé par Het Laatste Nieuws, Bruno De Meulenaer, un professeur de l’Université de Gand indique que « surgeler de la viande durant douze ans n’est pas forcément synonyme de danger sanitaire ». Pour éviter le moindre danger, la chaîne du froid ne doit cependant pas être brisée et la viande doit avoir été conservée à une température de -18°C. « Dans tous les cas », termine le professeur, « ce type de pratique n’est pas conseillé ».

    #viande #frics #Belgique #Kosovo #abattoirs #alimentation #agro-industrie #agrobusiness

  • Rabbia e pensiero, nel rifugio culturale dei serbi del #Kosovo

    Da fuori sembra una baracca, ma al #Bes(i)misao gli studenti tengono in vita una certa idea del mondo e della loro insensata Mitrovica, la piccola capitale dei serbi del Kosovo che rischia di rimanere schiacciata dalla depressione.
    Il Bes(i)misao rappresenta un punto di incontro tra il mondo accademico e quello della quotidianità di Mitrovica Nord. Mitrovica Nord senza gli universitari sarebbe deserta. Gli studenti sono diecimila, cioè un terzo della popolazione. La loro presenza è fondamentale per l’economia locale (affitti e consumi), ma anche per un discorso identitario: avere qualcosa d’importante in un luogo fondamentalmente depresso. L’ateneo è quello dell’Università di Pristina. Già, perché da dopo la guerra Mitrovica ha dato rifugio non solo a molti serbi scappati dalle aree a maggioranza albanese, ma anche alle facoltà in lingua serba del polo universitario di #Pristina.

    La definizione che hanno affiancato al Bes(i)misao è di rifugio culturale. Ma da cosa si rifugiano i giovani di Mitrovica Nord?


    http://eastwest.eu/it/opinioni/european-crossroads/kosovo-mitrovica-besimisao-centro-culturale-giovani-intellettuali
    #Mitrovica #refuge_culturel #université #serbes #étudiants
    cc @albertocampiphoto

  • Pourquoi vos appareils électroménagers n’affichent plus la bonne heure - Tech - Numerama
    https://www.numerama.com/tech/334012-pourquoi-vos-appareils-electromenagers-naffichent-plus-la-bonne-heu

    Les horloges de certains de vos appareils électriques n’affichent pas la bonne heure depuis quelques semaines ? La cause de ce décalage horaire pourrait trouver son origine dans le désaccord politique persistant entre la Serbie et le Kosovo. C’est l’explication étonnante, mais pourtant bien réelle, donnée par le Réseau européen des gestionnaires de réseau de transport d’électricité (ENTSO-E) début mars.

    « Le système énergétique de l’Europe continentale connaît, depuis la mi-janvier, des écarts de puissance significatifs et continus dus à la pénurie d’approvisionnement d’un gestionnaire de réseau de transport au sein du réseau interconnecté », observe l’association dont fait partie Réseau de Transport d’Électricité (RTE), la filiale d’EDF, ainsi que 42 autres gestionnaires de réseau de transport.

    Étonnant, non ?

    #temps #heure #réseau_électrique #Kosovo #Serbie

    • Mon four affiche la bonne heure.

      C’est quoi cette fake news ?

      Un décalage dans les horloges c’est :
      – 20 % des voyageurs qui restent sur le quai des gares.
      – Des accidents des chemin de fer.
      – Des usines chimiques qui explosent . . .
      Le bordel partout.

      Mais pourquoi les médias du Décodex propagent ils ce genre de rumeurs débiles ?

    • Normalement, explique l’ENTSO-E, la fréquence électrique moyenne dans la zone qui est desservie par les gestionnaires de réseau de transport est de 50 Hz. Or, celle-ci est très légèrement plus basse, à 49,996 Hz. L’écart paraît infime mais il est suffisant pour entraîner un décalage entre l’heure officielle et celle qui est affichée sur l’écran de vos appareils électroménagers.

      Et le décalage n’est pas de quelques secondes : il peut atteindre plusieurs minutes. « La diminution de la moyenne de fréquence affecte aussi les horloges électriques qui sont pilotées par la fréquence du système électrique et non par un cristal de quartz : elles montrent actuellement un retard de près de six minutes », explique l’association des gestionnaires de réseau de transport.
      […]
      D’après l’ENTSO-E, la situation devrait progressivement revenir à la normale ; il faudra néanmoins quelques semaines pour que tout soit stabilisé. Dans le cas contraire, le dossier risque de prendre un tour beaucoup plus politique, avec en particulier l’Union européenne dans la boucle.

      Donc :
      • écart de fréquence 50 - 49,996 = 0,004 Hz, soit une différence relative (0,004/50) de presque 10^-4
      • retard cumulé : 6 minutes

      une division tout bête pour obtenir la durée cumulée pendant laquelle la fréquence est inférieure à sa valeur nominale :
      6 / 10^-4 = 60 000 minutes -> 42 jours -> 6 semaines
      (52 jours soit presque 7,5 semaines sans arrondir l’écart relatif (8.10^-5)

    • Non, en effet, il retardait, je m’en suis fait la remarque et je l’ai mis à l’heure dans le courant de la semaine dernière jours (4 minutes de retard, il me semble).

      Il n’y a guère de conséquences, je pense : un dispositif qui a vraiment besoin d’une horloge fiable (ce n’est pas le cas de mon four…) ne prend pas ses pulsations sur la fréquence du courant du secteur :
      • soit il a un oscillateur à quartz (coût inférieur à 1 euro, précision relative de l’ordre de 10^-10, sans commune mesure avec la dérive évoquée ci-dessus) s’il doit être autonome (je ne mentionne pas les horloges atomiques, peu courantes dans les objets que tu cites, mais on est à 10^-16 de précision relative…),
      • soit, s’il doit communiquer, il dispose d’un mécanisme de synchronisation .

  • #Kosovo: une Cour spéciale va enfin juger les crimes de la guérilla albanaise
    https://www.mediapart.fr/journal/international/130218/kosovo-une-cour-speciale-va-enfin-juger-les-crimes-de-la-guerilla-albanais

    Manifestation de vétérans de l’UCK en 2015 à Pristina. © Laurent Geslin Le Kosovo va fêter les dix ans de son #indépendance, proclamée le 17 février 2008. Une redoutable épée de Damoclès pèse sur ses responsables politiques, issus de l’ancienne guérilla albanaise de l’UÇK. Une nouvelle Cour spéciale doit bientôt émettre ses premières inculpations et juger les crimes commis entre 1998 et 2000.

    #International #crimes_de_guerre #tribunal_spécial

  • La trahison des intellectuels, par Edward W. Said (Le Monde diplomatique, août 1999)
    https://www.monde-diplomatique.fr/1999/08/SAID/3184

    C’est des Etats-Unis que l’intellectuel palestinien Edward W. Saïd a suivi la guerre du Kosovo. Et assisté à l’émergence d’un ordre international nouveau dominé par l’« hyperpuissance » américaine, sous la bannière d’une morale qui fait, sciemment, deux poids deux mesures. Insupportable et condamnable en Yougoslavie, le nettoyage ethnique ne l’est pas moins en Croatie, en Turquie ou en Palestine. Abandonner l’universalisme, c’est trahir...

    #Edward_W.Said #Kosovo
    source @mdiplo

  • Grecia mantiene confinados más de 12.000 refugiados en cinco islas del Egeo

    Las inclemencias meteorológicas agravarán por desgracia la ya difícil situación de los ‘hotspots’ de #Lesbos, Chíos, #Samos, #Kos y #Leros, transformados en “lugares de confinamiento indefinido para los solicitantes de asilo”, decía hace unos días Nicola Bay, director de Oxfam en Grecia. Miles de mujeres, hombres y niños muy pequeños siguen viviendo allí en precarias tiendas de campaña, durmiendo literalmente en el suelo, esperando una respuesta a su solicitud de asilo en Europa. Algunos llevan así casi 19 meses.

    Desde que entró en vigor el acuerdo UE-Turquía sobre refugiados, en marzo del 2016, la situación en estos ‘hotspots’ se ha ido deteriorando hasta límites insospechados. Actualmente, según el Gobierno griego, más de 15.000 refugiados están atrapados en estas islas, el doble de su capacidad de acogida. Entre ellos, más de 12.000 viven recluidos en los ‘hotspots’, con acceso limitado al agua potable y a los servicios básicos.


    http://www.elperiodico.com/es/internacional/20171204/grecia-mantiene-confinados-a-mas-de-12000-refugiados-en-cinco-islas-del
    #statistiques #îles #chiffres #réfugiés #Grèce #asile #migrations #Chios #attente #anti-chambre

    • Greece: 13,000 Still Trapped on Islands

      The Greek government has moved more than 7,000 asylum seekers from the islands to the mainland as an emergency measure, as it had promised in early December 2017. But with more than 5,000 people arriving since December, it has also increased the number of unsuitable makeshift shelters in the already overcrowded island camps.

      https://www.hrw.org/news/2018/03/06/greece-13000-still-trapped-islands
      #accord_UE-Turquie
      cc @i_s_ @isskein

    • « Samos est le pire endroit en Grèce pour les réfugiés »

      A Samos, où les arrivées d’exilés se poursuivent malgré l’accord de 2016 entre l’UE et la Turquie, les conditions de vie dans le camp de transit sont devenues inhumaines. Sur cette île transformée de facto en prison, les habitants, au départ tous solidaires des réfugiés, cèdent parfois aux sirènes d’une « radicalisation raciste ».

      « Regardez comment nous vivons ! » s’exclame Manos, en désignant la clôture qui entoure sa propriété agrippée au flanc de la colline. C’est une maison modeste, conçue au départ pour les vacances. Jusqu’à ce que Manos et son épouse Vasso prennent leur retraite et viennent s’installer définitivement sur l’île dont ils sont originaires. Ils pensaient y couler des jours tranquilles, d’autant que la vie sur l’île est moins chère qu’à Athènes. Sauf que désormais, au bout du minuscule petit jardin, il y a ces silhouettes adossées au grillage. Et juste derrière, un océan de tentes et de bicoques précaires en bois : La « jungle » de Samos, où s’installent tous ceux qui arrivent clandestinement sur l’île mais ne peuvent plus loger, faute de places, à l’intérieur du hot spot, qu’on distingue un peu plus loin. Cet ancien camp militaire a été reconverti en centre de « transit » pour les réfugiés et migrants arrivées des côtes turques, toutes proches.

      Les dirigeants européens se félicitent régulièrement d’avoir mis un terme à la crise migratoire amorcée en 2015 ? A Samos, ce « succès » fait grincer des dents. Car les îles grecques proches de la Turquie payent le prix lourd de cette normalisation. Les arrivées peuvent avoir diminué, elles n’ont jamais cessé. Et désormais, tous ceux qui accostent à Samos, comme sur les îles voisines, sont contraints de rester sur place jusqu’à l’achèvement de la longue procédure de demande d’asile. Cela peut prendre six mois, un an, parfois plus encore.

      Dans le jardin de Manos et de Vasso, le face-à-face est saisissant. Les nouveaux « voisins », les doigts agrippés au grillage, gémissent et implorent de l’aide : « On s’entasse les uns sur les autres, c’est sale, il y a des rats et des serpents partout », énumèrent en cœur ces Congolais, d’une voix plaintive. « Ceux-là sont vraiment gentils et je leur fais souvent à manger. La nourriture du camp est infecte », murmure Vasso. Mais Manos tient aussi à montrer les branches cassées de son amandier, la porte fracturée du frigo extérieur : « Une nuit, des gamins un peu ivres y ont trouvé mes gouaches s’en sont emparé et ont maculé de peinture les murs de la maison. Juste comme ça, sans raison, raconte ce professeur de dessin retraité. Un autre jour, c’est le pare-brise de ma voiture qui a été cassé. » Le grillage est une barrière fragile, maintes fois détruite, maintes fois réparée par Manos. « C’est une honte ! L’Europe nous a sacrifiés pour sa tranquillité », gronde-t-il.

      « Faux certificats »

      Conçu à l’origine pour 648 places, le hot spot et la « jungle » qui l’entoure ont accueilli 6 000 personnes au plus fort de cet hiver. A Vathi, la capitale de l’île, il n’y a guère plus de 8 000 habitants. A la différence des autres îles grecques, le hot spot de Samos a été installé, non pas dans un endroit isolé, mais juste à la sortie de cette petite ville qui se déploie en amphithéâtre verdoyant autour d’un joli port. « L’aspect positif, c’est que les réfugiés peuvent échapper quelques heures à l’enfer de ce camp et venir respirer en ville. Il y a donc moins de tensions qu’ailleurs à l’intérieur du hot spot. Mais toute cette nouvelle population, c’est aussi un choc pour les gens du coin », souligne Manos Logothetis, le directeur général de l’office de santé public et l’un des deux seuls médecins du hot spot. « Jusqu’en 2008, il n’y avait qu’une seule Africaine à Samos. Les gens ne connaissent pas l’Afrique, nous n’avions pas de colonies ! Et voilà qu’on met face à face une population vieillissante, dont la moitié a plus de 60 ans, confrontée à des réfugiés ou migrants, pour la plupart très jeunes. C’est normal que certains aient peur. Notre île est devenue une belle prison où les réfugiés sont coincés le temps de statuer sur leur sort », soupire le médecin.

      Sur son bureau, il montre un paquet de photocopies : « Ce sont de faux certificats médicaux saisis par la police. Tous ceux qui arrivent ici se prétendent malades. C’est le moyen le plus rapide pour se faire évacuer à Athènes. Mais il y a de vrais malades, et ceux-là se perdent parfois dans la masse de ceux qui trichent. » En réalité, personne ne veut rester dans ce hot spot aux conditions de vie inhumaines. « Ils arrivent ici après un dangereux périple, et personne ne leur dit rien. On les dirige vers le camp, à eux de comprendre ensuite comment ça marche. Tous les documents sont en grec, il n’y a aucune aide juridictionnelle prévue. Ils s’installent où ils peuvent, sans sanitaires. Mais même à l’intérieur du camp, les douches sont insuffisantes, les toilettes déglinguées », se désole Domitille Nicolet, une jeune juriste française, arrivée ici il y a quelques mois pour Avocats sans frontières (ASF) et qui tente avec quatre collègues de gérer « 300 dossiers », ballottés dans le labyrinthe de la légendaire bureaucratie grecque. Les lenteurs administratives ont été accentuées par les réductions du nombre de fonctionnaires imposées par la crise économique. Et les contrôles se sont multipliés, en principe pour lutter contre la corruption. « Résultat, pour commander une cartouche d’encre, il me faut cinq autorisations, un appel d’offres. Et ça peut prendre un an », soupire Manos Logothetis.

      « Il faut faire la queue pour tout »

      « Il y a beaucoup d’incompétence. Mais c’est aussi une stratégie volontaire », considère de son côté Antonis Rigas, coordinateur de Médecins sans frontières (MSF), qui vient d’ouvrir une clinique en ville. « Dès le départ, la situation a été difficile dans les hot spots. Parce qu’il fallait faire passer un message : décourager ceux qui seraient tentés par la traversée depuis la Turquie. A Samos, quand on a récemment proposé de réparer les ampoules cassées et d’améliorer le système hydraulique dans le hot spot, on nous a répondu que les réfugiés n’avaient qu’à faire les réparations eux-mêmes », explique-t-il, avant d’insister : « Aujourd’hui, Samos est devenu le pire endroit en Grèce pour les réfugiés. » Début mai, en visite sur l’île, Dimitrios Vitsas, le ministre grec des migrations l’a lui aussi reconnu, promettant de tenter d’alléger la pression sur l’île.

      Les nouveaux arrivants, près d’un millier rien qu’en avril, sont désormais évacués sur les îles voisines de Kos ou Leros. Sept cents réfugiés ont également été transférés à Athènes au début du mois, et un nouveau camp éloigné de la ville est également prévu. « Mais cette construction prendra beaucoup de temps. Et en attendant, on a du mal à comprendre pourquoi l’Europe, le continent le plus riche du monde, n’accepte pas de partager le fardeau migratoire imposé à la Grèce : 15 000 personnes coincées sur les îles, ce n’est pas insurmontable à l’échelle europèenne ! » s’exaspère Bogdan Andrei, un Roumain qui a créé Samos Volonteers, la plus grande ONG qui aide les réfugiés sur l’île.

      Depuis trois ans, Bogdan les voit arriver plein d’espoirs, malgré les traumatismes vécus. « Et voilà qu’il leur faut endurer la promiscuité, la saleté. Il faut faire la queue pour tout : l’obtention d’un papier, les repas, les douches. Puis attendre. Sans cesse attendre, sans même savoir pour combien de temps. Une vie privée d’horizon qui rend souvent dépressif », se désole-t-il.

      « Le pire a été évité »

      Cette attente sans fin est visible à Vathi. Elle s’est même incrustée dans la carte postale : dès le matin, ils sont nombreux à fuir le bourbier infâme du hot spot, pour aller passer en ville ce temps qui ne compte pour rien. Assis en grappes sur les bancs des places, les yeux rivés sur leurs portables, ils ont forcément changé la physionomie des lieux. Et plus le temps passe, plus ce huis clos devient tendu.

      « En 2015, les gens d’ici, comme ailleurs en Grèce, ont fait preuve d’une solidarité incroyable. Ils ont spontanément aidé tous ceux qui arrivaient des côtes turques. Puis quand ils ont été coincés ici, l’ambiance a changé », se souvient Nikos Kaklamanis, un neurologue qui est aussi le responsable local de la section de Syriza, le parti de gauche au pouvoir à Athènes. Une association de citoyens en colère s’est créée dès 2016, dénonçant la saleté, « les risques de maladie », mais aussi « l’islamisation de l’île ». Puis on a fait pression sur ceux qui louaient des logements aux ONG afin qu’ils cessent de le faire, et un an plus tard des parents en colère ont voulu chasser les enfants réfugiés d’une école.

      « Pour l’instant, le pire a été évité à chaque fois. Car les responsables politiques locaux évitent la surenchère extrémiste. Elle profite toujours à l’extrême droite, personne d’autre ne gagne de voix en stigmatisant les réfugiés, en Grèce comme ailleurs », rappelle le docteur Logothetis, qui appartient à la branche locale de Nouvelle Démocratie, le parti conservateur grec. Il avoue cependant ne pas être toujours suivi par la direction de son parti. « Les gens de Samos ne sont pas racistes. Ils ont vécu une situation totalement inédite depuis trois ans. Ils sont déboussolés ! Il y a eu plusieurs braquages, sur une île qui n’a jamais connu de délinquance. Et la présence de ce hot spot horrible est une honte qui pèse sur le moral, la vie quotidienne », défend Manos, le prof de dessin à la retraite.

      Issu des rangs de Syriza à gauche, Nikos Kaklamanis redoute, lui, une « radicalisation raciste de l’île ». Elle s’exprime déjà. Des restaurants et des bars refusent désormais les réfugiés, et particulièrement les Africains. Ioanna, une jeune Samiote qui a ouvert un bar à chicha sur le port, n’en revient toujours pas. « Soudain j’ai été ostracisée par tous mes amis et connaissances ! Ils ne me parlent plus », lâche, amère, cette jeune femme qui songe désormais à quitter l’île. « Le poison qui dévaste l’Europe se répand insidieusement chez nous aussi hélas. Partout, le réfugié devient l’équivalent du Juif des années 30 », s’inquiète Nikos Kaklamanis.


      https://www.liberation.fr/planete/2019/05/23/samos-est-le-pire-endroit-en-grece-pour-les-refugies_1728873

  • Hand-Drawn-ish Coastal Effects – Adventures In Mapping
    https://adventuresinmapping.com/2017/12/05/hand-drawn-ish-coastal-effects

    Well, #coasts have always been especially interesting things on atlases and globes. Here are two throwback methods for giving coastal areas a bit of offset contrast and a sense of depth and abrupt texture.

    #map #mer

  • Op-ed: Winter has arrived, thousands left at its mercy in Greece’s hot-spots

    The capacity of the hotspots in #Lesvos, #Samos, #Chios is exceeded by somewhere between 100 and 250 per cent. People including vulnerable groups like children, sick people and pregnant women are accommodated in anything from small summer tents to makeshift shelters and damaged prefabricated houses, left at the mercy of the hard weather. Further the lack of hot water and limited sanitation makes hygiene a problem and with very few NGO’s still operating in the hotspots there is a shortage of even basic provisions like milk powder and diapers on top of the extreme conditions. Traumatized, mentally ill or disabled people do not have sufficient access to proper medical, psychological support and treatment and the with the combination of confinement, lack of information and perspective tensions are running high with incidents of violence and self-harm.


    https://www.ecre.org/winter-has-arrived-thousands-left-at-its-mercy-in-greeces-hot-spots-op-ed-by-e

    #îles #Grèce #asile #migrations #réfugiés #chiffres #statistiques #hiver #sur-population #hotspots #Lesbos #Leros #Kos

  • À l’Est, des terres d’exils

    Depuis la chute du communisme, l’Europe de l’Est a connu de nombreux mouvements de population, des départs, des mouvements internes, mais également des arrivées et des retours, libres ou forcés. Des #Balkans à la #mer_Baltique, c’est toutefois l’intensité des départs, essentiellement à destination de l’ouest du continent, qui caractérise l’Europe centrale et orientale depuis un quart de siècle. Quels sont les motifs de ces exils et à quoi ressemblent-ils ?

    Sommaire :
    #Mobilités des #Roms albanais et kosovars en Europe (S.Altasserre)
    – Vies suspendues : l’exil des rescapés roms du Kosovo (S.Bosnjak)
    – La #Moldavie, terre d’émigration (R.Ursu)
    – Quand des Roms marginalisés en #Bulgarie s’exilent en #France (S.Altasserre)
    – Murs hongrois : une faillite de la politique migratoire européenne ? (A.Slim)
    – Les identités baltes au défi des migrations (C.Bayou)
    – L’immigration russe à #Riga depuis 1945 : chiffres et idées reçues (E.Le Bourhis)
    – Les maisons d’édition d’Europe centrale en exil (A.Rochacka-Cherner)
    – Trajectoire migratoire de l’instrumentiste bulgare dans le paysage contemporain (S.Altasserre)

    http://www.regard-est.com/home/breve_contenu.php?id=1682
    #migrations #émigration #migrations_internes #Kosovo #Albanie #Hongrie
    cc @reka