• Le cyclone Mocha a touché les côtes du Bangladesh et de la Birmanie
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/05/13/des-centaines-de-milliers-de-personnes-fuient-le-cyclone-mocha-en-birmanie-e

    Le puissant cyclone Mocha est arrivé sur les côtes du Bangladesh et de la Birmanie, dimanche 14 mai en début de matinée, dans le golfe du Bengale, a annoncé le bureau du département météorologique du Bangladesh.

    https://www.sudouest.fr/saint-pee-sur-nivelle-a-nouveau-inondee-sare-egalement-touchee-15144367.php

    Les fortes pluies de la nuit du vendredi 12 au samedi 13 mai, qui n’ont pas cessé dans la matinée, ont provoqué des débordements à Saint-Pée-sur-Nivelle. Le bassin de la Nivelle est toujours en vigilance jaune

    Sérieusement, il va falloir interdire les processions religieuses pour faire tomber la pluie ...
    #préfectures #goutte_froide vs #douche_froide #loi_anti_cyclone #Dard_moi_l'nain

  • Segregare e punire: il disegno politico brutale dentro il “decreto Cutro”

    Nonostante la pletora di emendamenti il quadro del provvedimento governativo appare definito: centri informali chiusi, procedure accelerate, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. “Una strategia illegale e sconsiderata”, osserva Michele Rossi

    Per comprendere il testo del decreto legge 10 marzo 2023 (https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=19&id=1375360&part=doc_dc-allegatoa_aa), il cosiddetto “decreto Cutro”, occorre applicare con grande concentrazione le parole d’ordine gramsciane circa il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, 2014). Pessimismo dell’intelligenza perché siamo certamente di fronte al più violento e invasivo tentativo di sovvertimento di alcuni fondamentali istituti costituzionali, democratici e sociali della recente storia repubblicana.

    Non deve in tal senso ingannare il fatto il decreto legge riguardi “solo” migranti e “solo” norme che disciplinano l’immigrazione. È evidente che sottesa a tale disciplina risulta ben visibile un’idea di società e pur producendo un certo accanimento su uno specifico gruppo sociale -i migranti-, l’intento, nemmeno troppo malcelato, è di intervenire sui rapporti tra gruppi sociali: un’operazione di “ortopedia sociale” (M. Focault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, 2014) volta a separare, segmentare, disgiungere le comunità, annichilirne la tensione, individuale e collettiva all’integrazione, alla coesione, allo stesso contatto interculturale. Il decreto opera -purtroppo con conseguenze drammatiche- innanzitutto sulle persone migranti, ma colpendo loro, frammenta il corpo sociale intero, con pesanti ripercussioni su tutti. Non si tratta nemmeno più di modelli di accoglienza, addirittura il paradigma securitario credo non basti a interpretarne la ratio e la filosofia di fondo, vedremo, ma di produrre condizioni di tale aleatorietà da rendere ordinario l’arbitrio, la deterrenza sistematica sino all’avveramento della profezia: non è possibile nessuna integrazione, solo marginalità e segregazione.

    Del resto, come proveremo ad argomentare, per immaginare un tale impianto andava raccolto e finalizzato un lungo periodo di semina culturale e nei fatti, la nuova costruzione normativa non poteva che ergersi su fondamenta feroci, una de-soggettivazione del migrante e la criminalizzazione della solidarietà sociale. Nonostante la pletora di emendamenti, frutto di una ben organizzata e accurata strategia, il quadro normativo e anche simbolico e culturale appare definito e spaventoso: centri informali chiusi, procedure accelerate, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. In poche parole: segregare e punire. Una strategia illegale e sconsiderata, che ha chiaramente una pesantissima ricaduta sociale su persone, territori e comunità.

    Impotenza e aggressività
    Il “decreto Cutro” emendato, con le sue novazioni normative, non è infatti preciso ma piuttosto confuso e lo è forse, volutamente. Vuole, questo è chiaro, rendere non più esigibili che quei diritti che non può permettersi di negare apertamente, come (forse) vorrebbe. Per questo sembra più orientato a creare caos, paura e incertezza che a prescrivere e normare un qualsivoglia governo del fenomeno. La lettura consegna abbastanza nitido il tentativo di rendere organico un sistema di deterrenza: non puoi arrivare, se arrivi non puoi stare, se stai verrai recluso, non avrai il permesso di soggiorno e non potrai muoverti, se e quando potrai muoverti non troverai accoglienza, se la troverai avrai pochi servizi e sconterai il tempo che avrai passato ad attendere, non potrai lavorare regolarmente e renderti autonomo, se anche lavori non potrai convertire il permesso in lavoro: preparati ad essere sempre marginale e per te oltre allo sfruttamento, nessuna garanzia e nessun futuro.

    In estrema sintesi, e semplificando (ma nemmeno troppo) questo è il suo contenuto: si rivolge allo straniero e -con l’aggressività dell’impotenza (i promessi blocchi navali non sono stati in effetti realizzati)- promette sofferenza, spaventa, annichilisce il diritto ma anche la speranza. In questo senso la sua banalità non deve ingannare: è tanto più pericoloso quanto studiato frutto di una meticolosa applicazione.

    Dove possiamo colpire siccome non possiamo fermare? Dove possiamo ostacolare siccome non possiamo negare? Stupisce però che il governo abbia applicato la sua logica senza nessuna remora circa le conseguenze, in termini di sofferenza, illegalità, marginalità e quindi del prezzo di un tale impianto sulle vite individuali e sulla società tutta che questa operazione comporterà. Il messaggio sociale, culturale e simbolico è tanto più nascosto nelle pieghe di mille emendamenti quanto più è forte anche in questo senso, e suona come un monito: “Attenzione, siamo disposti a tutto”. Un monito che traduce un senso del potere sulla vita delle persone incondizionato e feroce.

    La “banalità” degli emendamenti
    In tal senso non deve nemmeno ingannare che una ipotesi così invasiva e violenta avvenga attraverso decine e decine di singoli emendamenti, che con il loro aspetto tecnico e procedurale parrebbero offrire una qualche forma di rassicurazione: “Non si può operare un tale sovvertimento attraverso emendamenti”; ossia cancellazioni e aggiunte di commi, frasi, parole. Lo strumento garantisce una operazione meno organica e meno frontale -come fu nel 2018 con i “decreti sicurezza”- e rischia di attenuare l’attenzione pubblica, di distrarla, specie i non addetti ai lavori. È piuttosto da ritenersi che anche questa sia una precisa strategia, già peraltro testata nei mesi scorsi nel processo di conversione del cosiddetto “decreto sbarchi”, in cui una serie di emendamenti che reintroducevano aspetti salienti dei “decreti sicurezza” del 2018 furono presentati in commissione Affari costituzionali dal parlamentare leghista Igor Iezzi, per poi essere dichiarati inammissibili per estraneità di materia e senza i requisiti di necessità e urgenza. Calare attraverso un’azione ordinaria contenuti che ordinari non sono, prevenire una reazione nella società civile, anticiparla sul tempo, farlo senza essere (troppo) visibili, lasciare conseguenze irreparabili.

    Deterrenza e paura reali
    Infine va osservato come il decreto legge che si avvia a essere convertito in legge dello Stato e a sfidarne l’ordinamento, rechi il nome della località dove si è consumata l’ennesima tragedia del mare: Cutro. È sintomatico e paradossale al tempo. Sintomatico perché, riferendosi al luogo di una strage sulla quale il governo ha una responsabilità per l’assenza dei soccorsi, rende manifesta, plastica, l’assenza di ogni limite alla politica di deterrenza imbracciata. In questo senso il nome suona sinistro perché riporta alla mente il mancato soccorso, i morti, lo spostamento delle bare senza interloquire con i familiari, il mancato omaggio della presidente del Consiglio alle vittime, i superstiti lasciati e abbandonati nel Cara di Sant’Anna, piantonati dalle forze dell’ordine. La stessa località è stata però anche -ed in questo senso che il decreto si intitoli Cutro appare invece paradossale- di una grande, continua e spontanea manifestazione di accoglienza dei cutresi e di tante comunità, paesi, amministrazioni della Calabria: dalla veglia delle vittime alla solidarietà ai superstiti, al blocco stradale per impedire il trasferimento coatto delle bare, alla manifestazione nazionale dell’11 marzo e a uno striscione, che, rivolto ai migranti tutti, vittime e superstiti, recitava: “La vostra speranza è la nostra speranza”. Quella speranza che il decreto vuole colpire e che i cittadini di Cutro e della Calabria hanno invece scelto per riconoscere nei migranti ciò che ci unisce. Ed è questo che il decreto, in ultima istanza, vuole intaccare.

    Carichi residuali
    Molto diverse da queste parole, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, mentre ancora erano in corso le operazioni di recupero dei corpi delle vittime, quelle del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che non riconosce “speranza” nei migranti ma una mancanza, precisamente di responsabilità. Lui non si rivolge direttamente ai migranti come invece faranno i cutresi, parla in prima persona, ma traccia un distinguo, morale, un solco incolmabile tra chi come lui, il ministro dice,“educato alla responsabilità” non avrebbe messo in mare, nelle mani degli scafisti i figli e chi lo ha fatto. Questa affermazione ben rappresenta a mio parere, lo spirito che informa il decreto che sopra abbiamo provato a interpretare. La strage, si intende, è colpa di chi, irresponsabile e non educato alla responsabilità, ha messo i figli in mare. La frase ha provocato, per la violenza e brutalità che esprime, forti reazioni; ma non è evidentemente un’esternazione sconsiderata. Le parole del ministro “disumanizzano” i migranti, che lo faccia a fronte dei corpi delle vittime, le rende solo più odiose, ma a ben vedere che cosa vuole trasmettere il ministro? Che non c’è società comune possibile senza “educazione”, senza il rispetto dei figli, senza responsabilità, non c’è futuro possibile “con” i rifugiati, essi non sono persone ma una categoria indistinta, non “educata” alla responsabilità, una minaccia quindi che va contenuta con ogni mezzo. Pochi mesi prima si era infatti rivolto a loro definendoli “carico residuale”. Ci siamo “noi”, categoria morale, e “loro” categoria immorale, che non hanno i medesimi attributi di umanità, che hanno la colpa della strage. Altri esponenti del governo avrebbero infatti parlato in quei giorni di mancato “rispetto di sé e della vita”. E come si può costruire una comunità con chi non ha rispetto “per sé e per la vita”, “responsabilità verso i figli” che appaiono essere i presupposti necessari per una convivenza civile?

    Privare
    Forse più queste affermazioni che singoli emendamenti riescono a restituire, perché ne sono coerente espressione, il disegno complessivo del decreto. Ma appunto vi è coerenza e continuità, le esternazioni pubbliche rompono la patina burocratica e banale del lavoro tecnico di scrittura di commi, articoli e rimandi. Tuttavia quegli emendamenti non potrebbero essere stati scritti se non avendo in mente “carichi residuali”, “non-persone” cui attribuire vigliaccamente la colpa della loro stessa morte per mancanze strutturali che li rendono definitivamente e senza appello, “altro” da noi, corpi estranei, da espellere, impossibilitati a vivere in comunità. Sironi, in un importantissimo saggio sulla tortura (Sironi, Françoise, Psychopathologie des violences collectives, Odile Jacob, 2007), scrive “privare i migranti del riconoscimento dei fattori storici e politici in cui prende corpo la migrazione, significa negare ai migranti quelle dimensioni cruciali nelle negoziazioni identitarie e nelle più ampie trasformazioni sociali che li implicheranno in qualità di nuovi cittadini”. È esattamente questo il punto. Esternazioni e decreti concordano invece su questa linea: negare i fattori storici e politici in cui la migrazione prende corpo. Per prima cosa infatti dobbiamo affermare che il decreto del 10 marzo 2023 lascia invariate due premesse: non sono possibili arrivi legali e canali sicuri e il solo modo di regolarizzarsi resta, nei fatti, l’asilo politico. Però non ci sono “veri” rifugiati e le liste dei Paesi sicuri aumentano irragionevolmente. Una scelta che nega la realtà attuale: guerre, persecuzioni, regioni non più abitabili, più di 100 milioni di rifugiati globali, il trionfo delle organizzazioni del traffico che prosperano sulla chiusura dei confini europei, i sanguinosi patti con Libia e Turchia.

    Segregare: l’assalto alla libertà dei richiedenti asilo
    Costretti a una migrazione forzatamente illegale, quindi a manifestarsi come presenza indesiderata e minacciosa dell’equilibrio sociale, economico, finanche “etnico” del Paese di approdo, il migrante è anche costretto a chiedere asilo, costituendo questa l’unica via -per poi dover sottostare a una complessa procedura burocratica di legittimazione della propria presenza e a un esito assai incerto rispetto il riconoscimento di una forma di protezione-.

    Il quadro che si sta delineando appare infatti molto peggiore anche di quello tracciato nel 2018 dai famigerati “decreti sicurezza”, perché entra in gioco oggi -ancor più violentemente- il tema della limitazione della libertà personale dei richiedenti asilo. Se, ad esempio, nel 2018 la riforma sovvertiva il sistema di accoglienza affermando la centralità dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), ridotti a mero parcheggio, senza servizi di integrazione e senza nemmeno il rispetto degli standard minimi europei; essi oggi rischiano di essere “superflui”, perché comunque aperti, ovvero senza limitazione della libertà personale dei richiedenti. Oggi il Governo Meloni preconizza, con la nozione vaga di “punti caldi/punti di crisi” (hotspot), centri di detenzione informale in cui condurre sia le procedure di identificazione sia l’esame, accelerato, delle domande di asilo. Non più quindi luoghi di transito ma di detenzione informale. Come osserva Gianfranco Schiavone va infatti ricordato che “l’ordinamento italiano continua a non prevedere alcun intervento dell’autorità giudiziaria sul presupposto della detenzione negli hotspot e sulla condizione della stessa”. Il governo sceglie la direzione opposta, intendendo sfruttare al massimo questa mancanza di garanzia, gli hotspot divengono da luoghi di identificazione e transito, centri informali di detenzione, utili sia all’identificazione sia all’esame, accelerato, della domanda d’asilo.

    Segregare: l’estensione indebita della frontiera
    È attraverso questa risignificazione dei vaghi e opachi “punti di crisi/punti caldi” che il governo, ignorando il dettato costituzionale sul trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni, si appresta a estendere indebitamente la nozione di “frontiera” sin dentro città e paesi, anche molto lontano da porti e confini terrestri e, in questo spazio sospeso e indefinito, a tracciare il solco e innalzare i muri che separeranno italiani e stranieri, presenze legali e “illegali”, dentro e fuori. Gli emendamenti al “decreto Cutro” prevedono un ampiamento delle casistiche cui applicare la procedura accelerata di esame della domanda di asilo (o procedura “di frontiera”) tale da ricomprendere nei fatti ogni casistica possibile. Il decreto prevede anche la moltiplicazione degli hotspot sul territorio nazionale. Sino ad oggi le procedure di esame accelerato, in frontiere erano limitate a pochissime fattispecie. È un cambio di paradigma: negli hotspot non solo la procedura di identificazione ma anche l’esame della domanda d’asilo, con la possibilità di estenderne -evidentemente- i tempi di permanenza. È la genesi di un nuovo sistema concentrazionario. Infatti ritorna anche, dal testo dei “decreti sicurezza”, l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere al sistema pubblico di accoglienza integrata e diffusa (Sai, già Sprar). Tale sistema ritorna quindi in versione Siproimi, a essere esclusivo per i soli, pochi, cui verrà riconosciuta la protezione internazionale. Tramonta l’idea di costruire la protezione e l’integrazione sin da subito, attraverso la prossimità relazionale del contatto nelle comunità e attraverso la libertà di movimento dei richiedenti asilo.

    Punire: la spietata logica dei grandi centri chiusi
    Una recente e fondamentale inchiesta di Altreconomia, condotta da Luca Rondi e Lorenzo Figoni, ha squarciato il velo sulle condizioni di vita dentro i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). L’articolo s’intitola significativamente “Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei Cpr italiani”. I Cpr, pur teatro di un crescente numero di gesti autolesivi, suicidi, violenze e danneggiamento delle strutture, sono stati recentemente oggetto di uno stanziamento economico imponente (quasi 46 milioni di euro) per potenziarne -sempre seguendo la logica della paura e della deterrenza percorsa dal governo- il funzionamento e anche in questo caso, la diffusione sul territorio nazionale. Si intravede un’ipotesi: segregare il migrante sin dal suo arrivo e in caso di diniego passare direttamente da hotspot a Cpr. L’inchiesta di Altreconomia, dati alla mano, mostra l’abuso di psicofarmaci dentro le strutture, utilizzati sistematicamente per disciplinare migranti costretti all’inattività forzata, senza personale cui rivolgersi e nessuna attività da svolgere.

    In un’intervista rilasciata al giornalista Franz Baraggino e pubblicata su ilfattoquotidiano.it, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha commentato: “Avere più Cpr non serve a niente, se non a dare il messaggio simbolico del ‘li teniamo chiusi qui’, nient’altro”. Lo stesso Garante ha aggiunto che “in quei posti le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate […] i comportamenti di insofferenza acuta sono il prodotto di uno spazio dove non sei nulla, non fai nulla e nulla avviene, salvo rimuginare sul proprio destino, che è un destino di fallimento, quello del rimpatrio”. Complessivamente nei Cpr transitano circa 10mila persone all’anno, il 2% del totale degli irregolari, e contribuiscono per il solo 50% (circa 3.000) ai complessivi 6.000 rimpatri che avvengono in media ogni anno. Senza accordi bilaterali, il rimpatrio è per molti più una minaccia che una realtà. A fronte dell’inefficacia dello strumento, a fronte dei suoi costi e della sofferenza che genera, il governo invece investe su questa forma di detenzione per le persone “espulse”, per un’irregolarità appositamente creata.

    Sin dagli anni 90 del secolo scorso la letteratura scientifica è concorde sull’individuare nei centri di detenzione amministrativa, siano strutture adibite al rimpatrio come i nostri Cpr o le strutture di confinamento e segregazione dei richiedenti asilo come gli hotspot, luoghi con alta incidenza di problemi psichiatrici psicologici, di perdita della salute organica e delle risorse psico-sociali per affrontare la vita lavorativa e sociale una volta usciti dal centro (Loutan, Louis, et al. “Impact of trauma and torture on asylum-seekers.” The European Journal of Public Health 9.2 (1999): 93-96.). Allora perché farne sistema? La domanda è chiaramente retorica.

    Punire: lo smantellamento della protezione speciale
    Largamente anticipati da un sinistro rumore di fondo che ha ricordato il precedente assalto alla protezione umanitaria (2018), un rumore di fondo sorretto dalla mistificazione che affermava essere la protezione speciale una anomalia solo italiana; gli emendamenti al “decreto Cutro” hanno infine smantellato anche tale protezione. Non potendo privarla dei riferimenti a convenzioni e norme internazionali (Cedu), il governo -altro esempio di logica deliberatamente punitiva- ha scelto di confondere le competenze per il rilascio, ostacolandone l’ottenimento, che rimane sulla carta possibile ma nei fatti arduo. Se sino a oggi il percorso di ottenimento appariva ragionevole e chiaro, ora non lo è più, precipitato nel conflitto di competenze tra questure e commissioni territoriali. Preme sottolineare che questa ennesima e antieconomica previsione colpirà in special modo coloro che per varie ragioni stanno compiendo passi decisivi per un percorso di integrazione sociale e lavorativa, cui ha dato principio nonostante gli ostacoli precedenti.

    Conclusione
    Abbiamo provato a ricostruire il messaggio culturale, simbolico e -almeno per alcune misure- le conseguenze concrete, di quanto previsto dal decreto legge del 10 marzo 2023 e dei suoi numerosissimi emendamenti che ne definiranno la conversione in legge, prevista entro i primi dieci giorni di maggio. Per quanto molti dei suoi contenuti siano di difficile applicazione ed è prevedibile un’imponente mole di controversie legali, abbiamo creduto importante analizzarne gli intenti, cercando di osservarne il disegno per comprendere quale intenzioni ed obiettivi hanno mosso il legislatore in una così radicale sfida all’ordinamento giuridico, ai diritti, a istituti sociali e conquiste culturali.

    Tra queste, certamente colpisce, a 45 anni dalla “Legge Basaglia”, il ritorno a strutture concentrazionarie per segregare un determinato gruppo sociale, oggi i migranti, privati della loro libertà per la colpa di sfidare con determinazione, disperazione o -come riconosciuto dai cutresi- speranza, il divieto imposto dall’Europa e dall’Italia a poter vivere in pace e sicurezza. Per articolare in legge questo che è un discorso politico e culturale “estremo” che nega sia ai migranti il riconoscimento delle cause in cui si è prodotta la migrazione, sia alla società italiana la propria storia e le sue conquiste democratiche e sociali (tra esse ricordiamo solo la chiusura dei manicomi, delle classi speciali), il governo investe su un decisivo salto di qualità in strumenti e pratiche di segregazione, confinamento e marginalizzazione dei migranti, sino al punto di limitare la libertà personale. Un salto di qualità atto a impedire il contatto, la solidarietà e orientato a impedire l’integrazione sociale e lavorativa, la convivenza interculturale basata sui diritti.

    Vincolato da Costituzione, trattati internazionali, norme superiori, il governo propone allora un disegno “banalmente” tecnico nella forma (gli emendamenti) quanto feroce nella sostanza. Tanto più feroce quanto più impotente a fronte dei cambiamenti epocali che stiamo collettivamente attraversando, cercando nella deterrenza e nella minaccia ai gruppi sociali più fragili, la misura della propria forza e assumendo una postura punitiva, inutile se non a produrre evitabili sofferenze individuali, tensioni sociali improduttive e costi economici e sociali per le generazioni future.

    L’iniziale citazione di Antonio Gramsci è stata trattata solo per metà, quella relativa al pessimismo dell’intelligenza. In conclusione è il tempo invece della seconda parte, l’ottimismo della volontà. C’è ragione di credere che un disegno -quello tracciato dal decreto- così povero di futuro e così meschinamente abbarbicato sulla deumanizzazione dei migranti, sia rigettato dalla società, sia reso inapplicabile nella quotidianità, nelle relazioni interpersonali e sociali, prima ancora che nelle aule dei tribunali, iniziando una grande stagione dove italiani e migranti insieme affermino uniti l’inviolabilità dei diritti di tutti e tutte e la libertà di costruire insieme il futuro che ci attende.

    https://altreconomia.it/segregare-e-punire-il-disegno-politico-brutale-dentro-il-decreto-cutro
    #décret #décret_Cutro #decreto_Cutro #Italie #migrations #asile #réfugiés #loi

    • Italy: New law curtails migrants’ rights

      For migrants in Italy getting special protection status can be life-changing. But lawmakers have now approved a law severely restricting access.

      Italy’s parliament recently greenlighted a controversial decree to crack down on irregular migration. Known as the Cutro decree — in reference to the southern town in Calabria where more than 90 people died in a shipwreck last February — the legislation severely limits a special protection status Italian authorities can grant to migrants who do not qualify for asylum.

      Italy has recorded more than 42,000 irregular arrivals since the beginning of 2023, almost four times as many as in the same period last year and the Italian government claims special protection incentivizes migrants to start dangerous trips to the country.

      “Special protection creates attractive conditions for immigration and we will eliminate it,” said Nicola Molteni of the right-wing League party, whose currently serving as the undersecretary at the Interior Ministry.

      Agriculture Minister Francesco Lollobrigida, from Prime Minister Giorgia Meloni’s far-right Brothers of Italy party, recently sparked controversy, warning against the “ethnic replacement” of Italians by migrants, a notion widely regarded as racist.

      Before the decree, people offered special protection status could live in Italy for two years, renew their residence permit and convert it into a working permit. It was granted to asylum seekers who risked being persecuted in their country of origin, those fleeing war and natural disasters, as well as those with family ties or high levels of economic integration in Italy.
      What changes with the new migration rules

      Now, all that has changed. While special protection remains available for those at risk of torture, inhumane treatment or systematic rights violations in their home nation, the new law narrows access by scrapping criteria based on family links or economic integration.

      “If a person is not at terrible risk in their home country, but in the meantime has started a family or had children in Italy, the commission [assessing residence status] will not take this into account,” explains Paolo De Stefani, a professor in international law at the University of Padova.

      People fleeing natural disasters or seeking treatment for severe medical conditions will also see their access to special protection restricted. Most importantly, however, it will not be possible for them to convert it into a work permit.

      Language courses and legal advice will also be scrapped in reception centers.

      Things will change, too, for unaccompanied minors. They are still entitled to special protection permits until they turn 18; they can extend it for one more year, but cannot convert it into a work permit.

      “This means killing the prospects of integration for people arriving in Italy at a very young age,” said De Stefani. “What type of educational path will be imagined for those with such prospects?”

      In contrast with the otherwise restrictive nature of the law, the law offers a new possibility for victims of forced marriage to apply for special protection.

      Migrants fear for their future

      While those who already benefit or who have already requested special protection will not be affected by the new legislation, many agree the climate towards migrants has become more harsh.

      Sarja Kubally, a Gambian national currently under special protection, says Italy has not been the same since a new government headed by the far right came to power.

      “I am thinking of leaving, I am happy here, but now I am afraid of staying with this situation,” he told DW.

      Although Kubally is confident he himself will get a work permit, he fears others will miss out on opportunities he benefited from.

      “Special protection really changes your life. It allows you to work, to study. You can do many things and give back,” Kubally said. “If someone needs help, you need to help them, not make it even harder for them. We should put humanity first.”

      The uncertainty for Ali, who asked not to use his real name for security reasons, is far greater. The Pakistani national, who spent four years in Greece where he maintains local authorities did not accept his asylum claim, has been living in Italy since 2021. He now has a three-year work contract and is learning Italian, but his asylum request was recently rejected. He is now appealing the decision. Should his bid be turned down again, Ali will not be able to apply for special protection under the new rules.

      “I lost four years of my life in Greece, but here in Italy I am well integrated, I have a job, I want to stay here,” Ali told DW. “Well-integrated people should be allowed to stay. I haven’t thought about [what I would do if I couldn’t access special protection]. Going back to Pakistan is unthinkable.”

      Less special protection, more precariousness

      Italy has always provided special protection, except from 2018-2020 when former Interior Minister Matteo Salvini scrapped it temporarily . Though Prime Minister Giorgia Meloni claims otherwise, Italy is not the only country which offers this type of protection. Though different terminology is used, 18 other states in Europe provide similar special protections.

      Critics warn restricting access to special protection will push more migrants into an undocumented life outside the law and rob vulnerable people of fundamental rights — especially as the move follows another decree which limits the work of nonprofit rescue ships operating in the Mediterranean, and Italy last month declaring a six-month state of emergency to curb migration flows.

      Valeria Carlini, a spokesperson for the Italian Council for Refugees, says the law will not only harm people seeking protection but also local societies, where migrants have begun building a life and contributing to the socioeconomic fabric.

      Law professor De Stefani believes the legislation ultimately undermines integration — especially for irregular migrants — and aims to put an emergency band-aid on migration flows. “People will have poorer conditions in Italy and eventually seek better protection and living standards in other European countries,” he said.

      Like many of her predecessor governments, Meloni has been demanding more solidarity and better coordination among EU countries to tackle migration flows.

      “This law might be seen as the latest maneuver to pressure Europe into seriously tackling migration issues, but it is betting with someone else’s life,” said De Stefani.

      https://www.infomigrants.net/en/post/48834/italy-new-law-curtails-migrants-rights

    • La doppia morte dei naufraghi di #Cutro

      1.

      In un documento redatto dall’associazione di magistrati Area sul “#decreto_Cutro” appena prima dell’esame della Camera dei Deputati, si legge questo interrogativo: «cosa spinge il legislatore a credere che blocchi navali o i finanziamenti di regimi autoritari possano fermare persone che hanno attraversato il deserto per fuggire a guerre, violenza insopportabile, distruzione, persecuzione, ripetute discriminazioni e che cercano protezione in quei Paesi che hanno fatto della protezione internazionale e del rispetto della dignità una regola fondamentale e immutabile della loro civiltà?» (https://www.areadg.it/comunicato/non-chiamiamolo-decreto-cutro). Nel frattempo il decreto legge è stato convertito, senza alcuna modifica da parte della Camera ove il Governo ha posto la fiducia, nella legge 5 maggio 2023 n. 50.

      Dopo la tragedia di Cutro (94 morti di cui 36 bambini, ma vi sono altri dispersi) chiunque si sarebbe aspettato che il Governo, seppure dalla sua posizione di chiusura, mettesse mano alla legislazione vigente focalizzandosi su due questioni generali irrisolte: la prima questione riguarda come riformare la normativa in materia di ingressi per lavoro in modo da aprire canali di ingresso regolare, come lo stesso Governo ha più volte annunciato di voler fare; la seconda riguarda la possibilità di introdurre procedure di ingresso protette/sicure, finora non esistenti, per consentire a una parte dei rifugiati che intendono arrivare in Italia di poterlo fare attraverso canali appunto protetti. In entrambi i casi le due diverse auspicate normative, oltre a salvare vite umane, avrebbero avuto il non secondario effetto di sottrarre alla criminalità organizzata delle quote di merce umana. Eppure la legge n. 50/2023 non è intervenuta su nessuna di queste due questioni fondamentali: né sugli ingressi per lavoro, né sugli ingressi per asilo.

      Sulla materia degli ingressi per lavoro il decreto legge n. 20/2023, poi convertito in legge, è intervenuto su due aspetti: la programmazione generale degli ingressi e la formazione all’estero. Sul primo punto la nuova disciplina prevede «la predisposizione ogni tre anni – salva la necessità di un termine più breve – del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione» e «la definizione con dPCM annuale delle quote di ingresso, con possibilità di adottare ulteriori decreti in corso d’anno, sulla base dei criteri generali adottati nel documento programmatico». Ciò, peraltro, era già contemplato, con minime differenze, dalla normativa e l’unica modesta innovazione riguarda la modifica all’art. 21 del TU Immigrazione secondo cui «può essere autorizzato l’ingresso e il soggiorno per lavoro subordinato, anche a carattere stagionale, di stranieri cittadini di Paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto intese o accordi in materia di rimpatrio». Nulla viene modificato in relazione al problema di fondo che produce da oltre vent’anni l’irregolarità in Italia, ovvero l’impossibile incontro a distanza tra offerta e domanda di lavoro che costringe i lavoratori stranieri a entrare in Italia irregolarmente, o a entrarvi regolarmente – se provenienti da paesi per i quali non è richiesto il possesso di un visto – e poi rimanere a soggiornare irregolarmente e lavorare in nero in attesa che un provvedimento di emersione o un decreto flussi, come quello emanato dal Governo il 26 gennaio 2023 per 82.705 posti di lavoro (a fronte di 240.000 domande presentate) permetta loro di regolarizzare ex post la loro posizione di soggiorno. Paradossalmente la nuova norma non prevede neppure l’abrogazione della preventiva verifica dell’indisponibilità di lavoratori italiani o stranieri già presenti in Italia prevista quale condizione per il rilascio dei nulla-osta al lavoro richiesti da datori di lavoro per l’assunzione dei persone chiamate a svolgere le prestazioni indicate nel decreto sulle quote: si genera così ancora una volta una palese contraddizione in quanto la programmazione è (o meglio dovrebbe essere) fondata sull’analisi del fabbisogno del mercato del lavoro effettuata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali previo confronto con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. È quindi irragionevole che l’assunzione dall’estero per la medesima mansione sia condizionata da un’ulteriore verifica da parte del centro per l’impiego della indisponibilità di altri lavoratori che siano già in Italia. La mancanza di modifiche sostanziali, coperta da modificazioni solo linguistiche, è visibile in modo evidente nell’art. 23 TU immigrazione che prevede la possibilità di realizzare attività di istruzione e di formazione professionale e civico-linguistica nei Paesi di origine finalizzata all’inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani. Si tratta anche in questo caso, di una previsione che esisteva già, solo con diversa epigrafe. L’unica modifica significativa riguarda la possibilità che il Ministero del lavoro promuova «la stipula di accordi di collaborazione e intese tecniche con soggetti pubblici e privati operanti nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nei Paesi terzi di interesse per la promozione di percorsi di qualificazione professionale e la selezione dei lavoratori direttamente nei Paesi di origine» (art. 23 comma 4 bis); l’ingresso dei lavoratori che hanno effettuato i corsi avverrebbe in tal caso in deroga ai limiti quantitativi previsti dalla programmazione delle quote di ingresso. Si apre così la possibilità di una selezione delle braccia da parte di grandi agenzie che decideranno di organizzare corsi di formazione per reperire la propria mano d’opera all’estero, ma non la possibilità per i lavoratori stranieri che hanno effettuato con successo dei corsi di formazione all’estero (magari nell’ambito di programmi di cooperazione allo sviluppo, del tutto esclusi) di ottenere un visto di ingresso per ricerca di lavoro in presenza dei requisiti economici, posseduti dagli stessi lavoratori o forniti da terzi, necessari a mantenersi in Italia per un primo periodo. Se così fosse stato la legge avrebbe dato avvio a una pagina nuova che non si è voluto in alcun modo aprire. Il messaggio è chiaro: nessuna riforma del sistema degli ingressi doveva essere effettuata.

      Se sul versante degli ingressi per lavoro il Governo ha finto di aumentare i canali di ingresso regolari, per ciò che riguarda gli ingressi per asilo non ha neppure finto: nulla infatti è stato proposto se non dichiarazioni di elogio all’esperienza dei corridoi umanitari, realizzati però non dal Governo ma da enti umanitari. Le persone morte nella strage di Cutro, come in molte altre tragedie, erano in larga parte stranieri che fuggivano da situazioni di persecuzione e violenze in Afghanistan, Siria, Iraq e altri paesi e che cercavano asilo in Europa. La loro partenza dalla Turchia e la scelta della rotta marittima erano legate alla necessità di evitare, almeno per i soggetti più deboli (quali donne e minori), la via terrestre, ovvero la famigerata rotta balcanica segnata da continue violenze e respingimenti, dalla Grecia fino alla Slovenia. Sotto questo profilo la strage di Cutro rappresenta una tragica sintesi dell’ecatombe in atto lungo le rotte migratorie, sia via mare che via terra. Un decreto legge che nasce quale risposta a quella strage, come detto in premessa, avrebbe dovuto affrontare il nodo di come introdurre procedure e criteri in base ai quali i cittadini stranieri con bisogno di protezione internazionale possano entrare in Italia in modo regolare e protetto, autonomamente o usufruendo di programmi pubblici. Anche su questo versante erano state avanzate diverse interessanti proposte, ma sono state tutte rigettate.

      C’è una terza questione che la legge n. 50/2023 non affronta: la materia dei soccorsi in mare considerata la tardività e inefficacia dimostrata nel caso specifico e, in particolare, la non chiarita ragione per cui, pur informate dei fatti, le autorità competenti sono intervenute agendo attraverso modalità riconducibili a un’operazione di polizia e non a quelle di un operazione di ricerca e soccorso, come richiesto dalla normativa internazionale (https://www.asgi.it/notizie/naufragio-cutro-associazioni-depositano-esposto-collettivo-in-procura). A ben guardare però la materia del soccorso in mare è già regolata da precise norme di diritto internazionale recepite dall’Italia e non c’è bisogno di alcuna nuova disciplina per evitare le tragedie come quella di Cutro, che, semmai, avvengono a causa di prassi e forzature finalizzate e eludere o indebolire gli obblighi di soccorso. Di fronte a una tragedia avvenuta in un’area geografica non presidiata dall’intervento di ONG il Governo italiano non ha potuto coprire le proprie carenze gettando la colpa sulle odiate organizzazioni umanitarie. Alla caccia di qualcosa di roboante da dare in pasto all’opinione pubblica ha scelto, dunque, di introdurre nuove disposizioni penali eccezionalmente severe nel caso di morte o lesioni come conseguenza dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. La premier Meloni ha scenograficamente annunciato ai media «la volontà di colpire gli scafisti non solo quando li troviamo sulle barche, ma andandoli a cercare lungo tutto il globo terracqueo» (la Repubblica 10 marzo 2023) dimenticando che coloro che guidano le imbarcazioni spesso hanno poco a che fare con le organizzazioni criminali e che in ogni caso, anche quando vi sono connessi, sono gli ultimi anelli della catena (Dal mare al carcere: la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti).

      2.

      Se non interviene né sui nodi scoperti degli ingressi regolari per lavoro, né sugli ingressi protetti, quali sono dunque le materie affrontate dal decreto legge n. 20/2023 e, poi, dalla legge di conversione n. 50/2023?

      Gli aspetti essenziali, la nuova norma interviene sono tre: a) il ridimensionamento della protezione speciale; b) la destrutturazione del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo con smembramento del SAI (sistema di accoglienza ed integrazione), a cui – analogamente a quanto era avvenuto per lo SPRAR con la legge n. 173/2020 – viene sottratta la possibilità di accogliere i richiedenti asilo; c) l’ampliamento delle ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo nei CPR e soprattutto negli hotspot e una parallela estensione delle procedure di frontiera o procedure accelerate, con una generale contrazione delle garanzie procedurali in sede di esame delle domande di asilo.

      Mi limito, per ragioni di spazio, a un breve approfondimento della problematica della protezione speciale. Il ridimensionamento della terza forma di protezione prevista dall’ordinamento, la cosiddetta protezione speciale, introdotta con la legge n. 132/2018 ma novellata in senso estensivo con la legge n. 173/2020, è stato il tema che maggiormente è emerso nel dibattito pubblico. Il testo del decreto legge n. 20/2023 sembrava mirare solo a restringere l’ambito di applicazione della previgente normativa cassando il paragrafo dell’art. 19 comma 1.1 secondo cui «non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine». In sede di conversione in legge al Senato è emersa una volontà della maggioranza ancor più aggressiva finalizzata a cancellare pressoché in toto questo istituto e ad eliminare la possibilità di esaminare la domanda di riconoscimento della protezione speciale attraverso il canale costituito dall’istanza alla questura e dal parere vincolante della commissione senza audizione, ovvero fuori dalla procedura di esame di una domanda di asilo. Alla fine dell’iter parlamentare alcune delle proposte più estreme sono state ritirate (pur se tutto è stato incanalato nella sola procedura di asilo) ed è rimasto l’obbligo per le Commissioni territoriali che esaminano le domande di asilo di riconoscere una protezione speciale qualora «esistano fondati motivi di ritenere che [la persona interessata] rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6 [del TU Immigrazione]». Il nuovo articolo prevede che «il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».

      In questa situazione pochi dubbi possano esserci in relazione all’obbligo per le Commissioni territoriali di valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione speciale per rispetto di uno degli obblighi costituzionali o connessi all’ordinamento internazionale cui l’Italia è vincolata. Tra tali obblighi v’è il rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU e da una rilevante giurisprudenza interna. Si è invece diffusa una fallace informazione secondo cui la protezione speciale è stata cancellata. In particolare si è sostenuto che è stato cancellato il riconoscimento di tale protezione per riconoscimento del diritto alla vita privata e famigliare. Persino nella relazione illustrativa del decreto legge alla Camera dei Deputati si possono leggere affermazioni quali la seguente: «l’articolo 7, modificato al Senato, elimina il divieto di respingimento ed espulsione di una persona previsto nel caso vi sia fondato motivo di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare». In tale frase si sostiene che è legittimo espellere colui che… ha il diritto a non essere espulso. Ha dell’incredibile leggere tali corbellerie in un atto parlamentare e ciò illumina il livello di tensione politica che ha avvolto l’intera vicenda e soprattutto svela l’intenzione dell’Esecutivo: il diritto in questione non può essere cancellato, ma non deve potere essere esercitato.

      È agevole prevedere, sulla base di chiare evidenze, che il Governo farà enormi pressioni affinché le Commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo (che non sono per nulla indipendenti e soggette solamente alla legge e su cui si esercita una pervasiva influenza politica) restringano al massimo l’ambito di applicazione della protezione speciale rigettando il maggior numero possibile di domande anche in presenza dei presupposti per il riconoscimento. Che lo straniero denegato faccia pure ricorso alla magistratura sapendo che essa deciderà sui ricorsi dopo anni a causa della lentezza dei procedimenti, che diverranno ancor più lenti a causa dell’aumento dei contenziosi. Intanto ciò che conta è portare subito a casa il risultato di una diminuzione del numero dei riconoscimenti di protezione, anche se ciò aumenterà l’irregolarità e la precarietà di vita di migliaia di persone la cui vita è ritenuta irrilevante.

      Con il decreto legge n. 20/2023 e la conseguente legge di conversione i morti del naufragio di Cutro sono morti una seconda volta.

      https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/05/16/la-doppia-morte-dei-naufraghi-di-cutro
      #naufrage #mourir_en_mer #décès #Gianfranco_Schiavone #migrations #asile #réfugiés #Méditerranée #Italie

    • Naufragio di Cutro, ritardi e omissioni della Guardia di finanza. Avvisi di garanzia per tre ufficiali

      Il giallo degli audio spariti e le bugie sulla vedetta di salvataggio. Perquisizioni e sequestri di tablet e cellulari. L’ipotesi di reato: omicidio colposo. Alti tre indagati coperti da omissis. Il legale delle vittime
      “Lo Stato ha responsabilità chiare”

      Alle 23.49 del 25 febbraio il capoturno della sala operativa della Guardia costiera di Reggio Calabria era relativamente tranquillo. Da Vibo Valentia, la Guardia di finanza assicurava che una loro motovedetta, la potente “5006” era già uscita alla ricerca di quel caicco, verosimilmente carico di migranti, segnalato un paio d’ore prima da un aereo di Frontex a tutti i comandi operativi europei ed italiani a cominciare da quello della Finanza a Pratica di mare.

      (#paywall)
      https://www.repubblica.it/cronaca/2023/06/01/news/naufragio_cutro_indagati_sequestro-402763465

      #justice

    • The Crotone Cover Up

      Italy lied about their role in a shipwreck that killed 94 people – including 35 children – and the EU border agency Frontex helped cover it up

      During the early hours of February 26, 2023 a wooden pleasure boat crashed close to the shore in Cutro, Italy. On board were nearly 200 people, mostly refugees from Afghanistan. At least 94 of them died, including 35 children. Yet the overloaded boat had been spotted by Europe’s border agency Frontex six hours before the wreck, struggling in bad weather. The deaths, which took place so close to the shore, shocked Italy and Europe. But Frontex and the Italian authorities deflected blame onto each other.

      Frontex said that the boat showed “no signs of distress” and that it was up to Italy to decide whether to launch a rescue operation. Italy’s prime minister claimed that they didn’t know the boat “risked sinking” and didn’t intervene because Frontex didn’t send them an ‘emergency communication’. “Do any of you think that the Italian government could have saved the lives of 60 people, including a child of about three years whose body was just found today, and it didn’t?” Prime Minister Giorgia Meloni said shortly after the tragedy.

      A joint investigation by Lighthouse Reports and its partners reveals that both the Italian authorities and the Frontex leadership were aware that the boat was showing signs of distress when the ship was first spotted six hours before the wreck, but nevertheless decided not to intervene – and later tried to conceal how much they knew.
      METHODS

      When images of boat debris on an Italian beach were broadcast around the world, it was hard to imagine that they came from a vessel carrying 200 people. The Summer Love, a wooden boat approximately 25 metres long, was crammed with women, children and men fleeing wars, hoping for a better life. With little video footage available, we decided to make a 3D model of the vessel to better understand and explain the risks people were prepared to take. Crowded below decks, they had little chance of survival when the boat sank as their only exit was one narrow staircase.

      Over time, our reporters won the trust of some of the survivors by spending time with them in the centres they’re now living in. They shared their stories from departing Turkey to the harrowing losses they suffered in the sea. Some shared videos which revealed additional details about the shipwreck, including a tablet with navigation software which confirmed the vessel’s location and direction of travel.

      Crucially, we obtained leaked confidential Frontex mission reports which revealed that a plane operated by the border agency had reported signs of distress to both the agency and Italian authorities. Hours before the flight, operators warned about “strong winds” in the Ionian Sea. Frontex then detected the vessel by tracking multiple satellite phone calls made throughout the day by people on board. A detailed account of the pilot’s calls show that Frontex knew it was a “possible migrant vessel,” with no visible safety jackets and a “significant thermal response” from below deck. According to Frontex’s press office, this is an indication of the presence of an “unusual” number of people on board.

      Bad weather, a lack of life vests and overcrowding constitute signs of distress under Frontex’s and Italy’s own maritime rules; still the maritime authorities did not launch a search and rescue operation. After the wreck, the European border agency concealed the fact that their pilot had signalled strong winds to their control room during the surveillance flight.
      STORIES

      Assad Almulqi was a child when war broke out in Syria. His family fled their city after it was attacked with poisonous gas in 2013. This year, the 22 year-old paid 8,000 euros for a place on the boat from Turkey. His six-year-old brother Sultan was allowed to travel for free.

      He recalls the moment everything went wrong. “It was dark. The ship leaned to one side and half of it went underwater. It sank in seconds.”

      “I got scared, held my brother in my arms and told my uncle that we needed to go upstairs because something not normal was happening. The waves started hitting the windows and water entered the ship.”

      He jumped out when the water reached his knees, holding his brother tightly.

      Assad tried desperately to keep Sultan above the waves as he attempted to signal to rescuers. “We were drowning ourselves to keep his head above the water, but it wasn’t enough to save him.”

      They clung to pieces of the ship, fighting to stay afloat as people around them drowned.

      Also onboard was 23-year old Nigeena who was travelling with her husband Seyar, following their wedding just four months earlier. She clutched his hand as they fought to stay above water. They were almost ashore when a huge wave swept Seyar away. Their boat broke apart 200 metres off the coast of Italy.

      “The wreck is Italy’s fault because they knew from the start that a boat had arrived,” said Nigeena. “Usually when they see an unfamiliar ship it’s their job to check it out. But they didn’t.”

      Lawyers for some of the families of the victims are planning to take a case to the European Court of Human Rights, arguing Italy should be held responsible for the “irremediable violation of migrants’ right to life.”

      https://www.lighthousereports.com/investigation/the-crotone-cover-up

      –---

      En italien (résumé):
      L’insabbiamento sulla strage di Steccato di Cutro

      Un’inchiesta internazionale di #Lighthouse_Reports dimostra il rimpallo delle responsabilità tra Frontex, guardia di finanza e guardia costiera italiana

      https://www.meltingpot.org/2023/06/linsabbiamento-sulla-strage-di-steccato-di-cutro

    • Omissione di soccorso: la vera storia del naufragio di Cutro

      Un’inchiesta internazionale – a cui Domani ha collaborato insieme a Lighthouse Reports, Süddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais e Sky News – mostra attraverso documenti inediti, fonti confidenziali, immagini satellitari, modelli 3d e decine di testimonianze cosa è accaduto quella sera e il rimpallo delle responsabilità tra le tre autorità coinvolte: Frontex, guardia di finanza e guardia costiera. Intanto l’indagine giudiziaria della procura di Crotone va avanti: il primo giugno le prime perquisizioni hanno riguardato tre ufficiali della guardia di finanza. L’obiettivo è individuare le falle nella catena di comando

      (#paywall)
      https://www.editorialedomani.it/fatti/naufragio-cutro-inchiesta-internazionale-wqa2rkss

  • Mission accomplie ? Les effets mortels du contrôle des frontières au #Niger

    Résumé

    Le 26 mai 2015, le Parlement du Niger a adopté la #loi n° #2015-36 sur le #trafic_illégal_de_migrants, qui a donné lieu à une approche répressive et sécuritaire de la gestion des migrations. La loi a été rédigée sous l’égide de l’Office des Nations unies contre la drogue et le crime (ONUDC), et le soutien financier de l’Italie et du Danemark.

    Les prestataires de services aux migrants (tels que transporteurs, hôtes, courtiers, etc.) qui, jusqu’alors, opéraient au grand jour dans le contexte d’une infrastructure de mobilité transsaharienne socialement et économiquement cruciale, se sont retrouvés soudainement criminalisés et exposés à des sanctions sévères ainsi qu’à des peines d’emprisonnement.

    De nouvelles formes de contrôle des frontières ont été mises en place, avec le soutien technique r et financier des institutions de l’UE et des États membres désireux de contenir la migration à travers le Sahara. Au cours années suivantes i, des milliers de décès et de disparitions de migrants ont été enregistrés dans le nord du Niger. Le gouvernement nigérien, les médias et les agences de l’UE telles que Frontex ont imputés la responsabilité de l’augmentation du nombre de décès et de disparitions aux transporteurs , désormais considérés comme des passeurs négligents et cupides. Grâce à sa fermeté, le Niger a été érigé en modèle en matière de “lutte contre le trafic illicite de migrants”. Le gouvernement nigérien et ses partenaires internationaux ont ainsi développé un discours de “mission accomplie”, se vantant d’avoir réussi à réduire le nombre de “migrants” transitant par le Niger et soulignant la protection des migrants contre les passeurs.

    Ce récit a été remise a été contesté par de nombreux journalistes, activistes et chercheurs , soutenant au contraire, que cette loi n’a fait qu’exacerber les dangers de mort auxquels sont confrontés les migrants i. Ils ont mis en évidence le rôle du Niger en tant que lieu stratégique clé du contrôle de la mobilité dans le cadre des politiques d’externalisation des frontières de l’UE, à travers lesquelles l’UE a étendu le contrôle de ses frontières au-delà de son périmètre, y compris toujours plus au sud dans la bande Saharo-sahélienne. Leurs analyses ont montré que les effets de la loi, ainsi que les nombreuses formes de contrôle aux frontières qui se sont développées ces dernières années, ont contraint les trajectoires les transporteurs dans des zones plus reculées du désert, créant ainsi des situations dangereuses et souvent fatales lorsqu’un véhicule tombe en panne ou que les transporteurs abandonnent leurs passagers et s’enfuient afin d’éviter d’être appréhendés. Des activistes, des journalistes et des chercheurs travaillent sans relâche depuis des années pour attirer l’attention sur la façon dont la mise en œuvre de la loi a conduit à un désastre humanitaire pour les migrants et les Nigériens, ainsi qu’à une précarité économique et à la crainte d’amendes sévères et d’emprisonnement parmi les locaux, en particulier pour ceux qui vivent dans la région d’Agadez.

    En dépit de ces efforts, le nombre réel de décès de migrants dans le reste inconnu. En effet, les sanctions sévères prévues par la loi ont contraint les mouvements transsahariens à l’intérieur du Niger à se poursuivre dans la clandestinité et dans les zones les plus reculées du désert, où les incidents peuvent facilement passer inaperçus. Par conséquent, il est devenu encore plus difficile de recueillir des données fiables sur les décès.

    Dans ce rapport, l’enquête de Border Forensics mobilise des méthodologies nouvelles et uniques d’analyse géospatiale et de télédétection pour contribuer à une meilleure analyse empirique des effets mortels de la loi 2015-36 et du renforcement des contrôles aux frontières qui en découle. Nous détaillons d’abord le contexte sous-jacent aux changements spectaculaires obervées dans l’approche de la migration au niveau national au Niger, et le rôle des acteurs européens dans le développement des contrôles frontaliers au Niger à partir de 2015 pour contenir la migration vers l’Europe. Puis, nous discutons des défis liés à la collecte de données et limitant la disponibilité de preuves empiriques pour documenter les effets de la loi 2015-36. Ensuite, nous décrivons les méthodologies uniques que nous avons développées et les sources de données auxquelles nous avons eu accès, avant de les appliquer à une étude de cas multi-sites le long d’une section de la route Agadez-Sabha qui s’étend de la ville civile de Séguédine au poste frontalier de Toummo à la frontière nigéro-libyenne, en passant par le poste militaire de Madama. Après une brêve description de chacun des sites, nous décrivons les analyses géospations et de télédétection que nous avons déployées sur chacun d’eux. Enfin, nous discutons des implications de ces résultats pour déterminer les responsabilités des dangers accrus des traversées transsahariens au Niger dans le sillage de la loi 2015-036.

    Bien que nos analyses de chaque site révèlent des dynamiques variées de pratiques frontalières et d’éclatement des trajectoires, un modèle récurrent émerge, indiquant une corrélation claire entre le renforcement des contrôles frontaliers et la dispersion des trajectoires des migrants. Nous démontrons ensuite comment cette dispersion voit les trajectoires des migrants s’enfoncer dans le désert, où les chances de survie sont considérablement réduites dans les cas d’incidents récurrents tels que les pannes de véhicule, d’abandon, ou de passagers à court d’eau. Nous rendons ainsi visible et mesurable l’un des plus grands risques encourus lors de cette traversée du désert du Sahara : un état de déshydratation potentiellement mortel dans les zones moins fréquentées et moins surveillées.

    Les méthodologies innovantes présentées dans ce rapport sont destinées à servir de base à l’élargissement de la base de preuves sur les effets de l’externalisation des frontières. Ces éléments de preuves peuvent soutenir les appels à une plus grande responsabilisation de tous les acteurs engagés dans la gestion des frontières, notamment le gouvernement nigérien, l’UE et ses États membres, ainsi que les agences de l’ONU.

    https://www.borderforensics.org/fr/investigations/niger-investigation

    #frontières #externalisation #migrations #réfugiés #asile #répression #morts_aux_frontières #létalité #décès #mourir_aux_frontières #criminalisation #contrôles_frontaliers #passeurs #transporteurs #Agadez #déshydratation #désert #responsabilité #Border_forensics

    a contribué à l’enquête @rhoumour

    • ’Migrants abandoned in the Sahara Desert have no chance of surviving’ — Border Forensics

      A new report released by Border Forensics concludes that migrants have almost no chance of surviving when crossing the desert from Niger to Libya. Ever since the introduction of border control laws in 2015, migrants have been forced to take more remote and deadly paths, according to Border Forensics.

      Border Forensics, an agency that uses spatial analysis to investigate practices of border violence, recently published an investigation on the consequences of new border control mechanisms between Niger and Libya. The collective, composed of researchers and geographers, has shown how crossing the desert to reach Libya has become increasingly deadly since 2015.

      That year, Niamey adopted a law making transporting and hosting migrants illegal. Consequently, traffickers had to find new routes that were further away from the main roads and less visible to the authorities.

      According to the Border Forensics report, the death toll in the Sahara Desert has never been higher than it is today.

      InfoMigrants interviewed Rhoumour Ahmet Tchilouta, a member of Border Forensics and a PhD student in political geography at the University of Grenoble.

      InfoMigrants: What techniques did you use for this investigation?

      Rhoumour Ahmet Tchilouta: We used geospatial data. The aim was to measure the effect of the Nigerien law of 2015 on the routes taken by migrants through the Sahara desert.

      We focused on the route linking Agadez, in northern Niger, to Sabha, in Libya.

      We analyzed high-resolution satellite images to understand the new paths that migrants take in order to avoid the authorities. With satellite data, it is possible to obtain very clear images and see the smallest details very precisely. For example, you can see a wrecked vehicle or streams of people.

      We also analyzed the risks associated with dehydration using a technique which is also used by researchers working on the route from Mexico to the United States.

      We conducted interviews with drivers [members of an irregular immigration network responsible for transporting migrants in vehicles through Niger, editor’s note] who detailed the new zones of trajectories to us.

      We compared these trajectories with the main routes and then we considered several factors — like elevation, heat or the wind. We also analyzed how much a person sweats, specifically how many liters of water a migrant will lose as they try to reach the main road after being abandoned in the desert.

      With the accumulated factors, we can now say that the migrants abandoned in the Sahara Desert have no chance of surviving.

      The migrants are too far away from main roads to be spotted and helped in the case of an accident. The human body cannot last that long.

      In addition, by analyzing the field of vision, meaning the visibility or invisibility of the routes, we show the correlation between invisibility and the dangers that migrants face. The less visible the routes, the more deadly the situation becomes for migrants. The main cause of death is always the same: lack of water.

      IM: In the report, you state that the “Sahara is an open tomb”. You write that bodies can be found months or even years after death.

      Rhoumour Ahmet Tchilouta: In the Sahara desert, sandstorms and windstorms are frequent. Vehicle tracks disappear quickly. If you put an object in the sand, it quickly disappears.

      The same rule applies to cadavers. Some remain buried forever.

      Windstorms can also unearth bodies. There are very regular reports of macabre discoveries in the desert. We find dried up bodies, suddenly exposed by the movements of sand.

      IM: Why do you carry out this type of research work and for what purpose?

      Rhoumour Ahmet Tchilouta : The purpose of this investigation is to provide evidence. For years, journalists, researchers and organizations have said the 2015 law has caused a lot of suffering by making the road to Libya much more dangerous. Except there was no proof.

      This report shows how border policies have accentuated the dangers faced by migrants on the road between Niger and Libya.

      New empirical data of the mechanisms through which border controls have led to increased danger for migrants now exists.

      There is also another objective: to highlight the violence of the migration policies implemented in Niger.

      IM: Who is accountable for the increased death and suffering of migrants?

      Rhoumour Ahmet Tchilouta: There have always been deaths in the desert but never as many as now.

      The 2015 law in Niger has had devastating effects and the main actor responsible for the migratory dramas is Niger. Yet, without European and UN funding, Niger would never have been able to implement its policy.

      One of the main partners in migration control in Niger is the International Organization for Migration (IOM): it is involved in the construction of border posts and the strengthening of Niger’s defense and security forces.

      The UN agency is Niamey’s main partner. The EU funds the partnership.

      European players therefore play an important role. The EU Emergency Trust Fund for Africa has provided about €300 million to Niger.

      All actors operating in Niger believe the mission of stopping migratory flows has been partially accomplished. This is false, the policy has simply forced migrants to take increasingly distant and dangerous paths.

      https://www.infomigrants.net/en/post/48858/migrants-abandoned-in-the-sahara-desert-have-no-chance-of-surviving--b

    • Europas Wüste

      Die EU möchte Migration verhindern – und das bereits außerhalb ihrer eigentlichen Grenzen. Welche Auswirkungen das hat, zeigt ein Blick auf die Situation im Niger.

      Die Bundesregierung hat sich kürzlich auf eine gemeinsame Strategie zur Reform des europäischen Asylrechts geeinigt. In Auffanglagern an den EU-Außengrenzen soll das Schicksal tausender Geflüchteter im Schnellverfahren entschieden werden. Dabei gibt sich die europäische Gemeinschaft größte Mühe, Migrant:innen proaktiv von ihren eigenen Grenzen fernzuhalten.

      Ein Beispiel: Die Bundeswehr wird sich an der »EU Military Partnership Mission In Niger« beteiligen. Im Sinne der Friedensstiftung in der Sahelzone sollen Maßnahmen getroffen werden, um die Geflüchteten möglichst schon mitten in Afrika an der Weiterreise zu hindern. So wird die Sahara-Wüste zum großen und tödlichen Hindernis – und zur ersten Grenze der EU mitten in Afrika – wie es Menschenrechtsaktivist:innen vor Ort nennen.

      In dieser Folge von Global Trouble sprechen wir mit Kerem Schamberger über die Situation im Niger. Er ist in der Öffentlichkeitsarbeit von medico international für den Bereich Flucht und Migration zuständig und hat das westafrikanische Land besucht. Gemeinsam mit den medico-Partnerorganisationen „Alarmphone Sahara“ und „Border Forensics“ blicken wir auf die Folgen von Europas Externalisierung des Grenzregimes.

      https://www.medico.de/europas-wueste-19081
      #podcast

    • Sahara : La collaboration entre le Niger et l’UE pour renforcer les contrôles aux frontières met en danger la vie des migrants

      Border Forensics a développé de nouvelles méthodes d’analyse géospatiale pour mesurer l’impact du renforcement des contrôles sur les risques encourus par les migrants lors de la traversée du désert du Sahara nigérien.

      Une loi sur le “trafic illicite de migrants” adoptée par le Niger en 2015 et mise en oeuvre avec le soutien décisif des États, institutions et agences européens, a provoqué une crise humanitaire tant pour les migrants que pour les Nigériens empruntant les routes transsahariennes du Niger. L’enquête publiée par Border Forensics s’appuie sur des méthodes innovantes d’analyse géospatiale pour apporter de nouvelles preuves sur la manière dont ces politiques et pratiques ont accentué les risques de perte de vies humaines.
      Afin de prévenir la migration à travers le nord du Niger vers la Libye, le Gouvernement nigérien, Dans le but de contrecarrer la migration à travers le nord du Niger vers la Libye, les autorités européennes ont criminalisé les prestataires de services aux migrants (transporteurs, hôtes, courtiers, etc.), qui constituaient jusqu’alors une infrastructure vitale de la mobilité transsaharienne. Ils ont établi de nouvelles formes de contrôle aux frontières. Celles-ci n’ont pas mis fin à la mobilité dans la région, au contraire, elles ont forcé les trajectoires des transporteurs vers des zones encore plus reculées du désert, créant ainsi des conditions dangereuses et souvent fatales lorsqu’un véhicule tombe en panne ou que les transporteurs abandonnent leurs passagers en fuyant d’être appréhendés.
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      “En raison des sanctions sévères prévues par la loi et du renforcement des contrôles aux frontières, les mouvements transsahariens à l’intérieur du Niger ont été contraints à la clandestinité. Ce faisant, on ignore l’ampleur réelle des décès de migrants dans le désert. Pour pallier ce manque de données fiables et contribuer à une meilleure analyse empirique des effets meurtriers de la loi de 2015-36, nous avons dû développer de nouvelles méthodes d’analyse géospatiale, en nous appuyant notamment sur le travail des activistes et des chercheurs qui ont documenté les décès de migrants dans le désert de Sonora, à la frontière entre les États-Unis et le Mexique.” – Tara Plath.
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      L’enquête de Border Forensics mobilise ces méthodologies géospatiales et de télédétection novatrices pour analyser la relation entre les pratiques frontalières, les changements spatiaux dans les trajectoires des migrants et les dangers accrus de la traversée du desert du Sahara nigérien.
      Le rapport a déployé ces méthodes pour une étude de cas sur plusieurs sites le long d’une section de la route reliant Agadez, dans le nord du Niger, à Sabha, en Libye : la ville civile de Séguédine, le poste militaire avancé de Madama et le poste de contrôle de Toumo à la frontière nigéro-libyenne. Les analyses menées par Border Forensics sur chaque site révèlent un schéma clair établissant un lien entre le renforcement des contrôles aux frontières et les changements de trajectoire des migrants, qui s’enfoncent dans le désert, où les chances de survie sont considérablement réduites en cas d’incidents récurrents tels que la panne du véhicule, d’abandon ou de pénurie d’eau. L’enquête permet ainsi de rendre visible et mesurable les dangers accrus rencontrés par les migrants à travers l’un des plus grands risques encourus dans ces voyages transsahariens : un état de déshydratation potentiellement mortel dans les zones les moins fréquentées et les moins visibles. La corrélation observée entre le niveau d’invisibilité des pistes alternatives utilisées par les migrants pour éviter les contrôles aux frontières et le niveau de danger potentiel rencontré le long de ces pistes post-2015 suggère une relation de cause à effet.

      Au-delà des pertes tragiques en vies humaines, la loi 2015-36 a eu aussi d’autres effets néfastes. Elle a contribué à saper le tissu social, économique et politique des communautés affectées au Niger et au-delà. Elle a eu un impact sur les moyens de subsistance des populations locales mettant ainsi en péril leur stabilité économique et leur bien-être, tout en restreignant la mobilité au Niger des citoyens de la Communauté économique des États de l’Afrique de l’Ouest qui, conformément aux accords régionaux, devraient pourtant bénéficier de la liberté de circulation et du droit de résider et de s’installer au Niger. Ces éléments peuvent appuyer les appels à une plus grande responsabilisation de tous les acteurs engagés dans la gestion des frontières, en particulier le gouvernement nigérien, l’UE et ses États membres, ainsi que les agences de l’ONU.
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      “Tous les acteurs – qu’ils soient nigériens, européens, des agences de l’ONU ou autres – impliqués dans l’élaboration et la mise en œuvre de cette loi devraient être tenus responsables de l’augmentation des décès et des souffrances des migrants qu’elle a entraînée. Le gouvernement du Niger devrait mettre fin à la criminalisation des nombreux acteurs qui transportent ou interagissent avec les migrants, tandis que l’Union européenne, ses agences et ses États membres devraient immédiatement cesser de soutenir des politiques migratoires néfastes au Niger et au-delà par le biais de l’externalisation de leur dispositifs de contrôle des frontières.”

      https://airinfoagadez.com/2023/05/14/sahara-la-collaboration-entre-le-niger-et-lue-pour-renforcer-les-cont

  • ★ KROPOTKINE : LA LOI ET L’AUTORITÉ - Socialisme libertaire

    « Quand l’ignorance est au sein des sociétés et le désordre dans les esprits, les lois deviennent nombreuses. Les hommes attendent tout de la législation, et chaque loi nouvelle étant un nouveau mécompte, ils sont portés à lui demander sans cesse ce qui ne peut venir que d’eux-mêmes, de leur éducation, de l’état de leurs mœurs ». Ce n’est certes pas un révolutionnaire qui dit cela pas, même un réformateur. C’est un jurisconsulte, Dalloz, l’auteur du recueil des lois françaises, connu sous le nom de Répertoire de la législation. Et cependant ces lignes, quoiqu’écrites par un homme qui était lui-même un faiseur et un admirateur des lois, représentent parfaitement l’état anormal de nos sociétés.

    En effet, depuis des milliers d’années ceux qui nous gouvernent, ne font que répéter sur tous les tons : Respect à la loi, obéissance à l’autorité ! Le père et la mère élèvent les enfants dans ce sentiment. L’école les raffermit, elle en prouve la nécessité en inculquant aux enfants des bribes de fausse science, habilement assorties. Les livres d’histoire, de science politique, d’économie sociale regorgent de ce respect à la loi : on a même mis les sciences physiques à contribution en introduisant dans ces sciences d’observation un langage faux, emprunté à la théologie et à l’autoritarisme. Le journal fait la même besogne ; il n’y a pas d’article de journal qui ne prêche l’obéissance à la loi, lors même qu’à la troisième page, ils constatent chaque jour l’imbécillité de la loi et montrent comment elle est traînée dans toutes les boues, dans toutes les fanges par ceux qui sont préposés à son maintien. L’art fait chorus avec la soi-disant science. Le héros du sculpteur, du peintre et du musicien couvre la Loi de son bouclier et, les yeux enflammés et les narines ouvertes, il est prêt a frapper de son glaive quiconque oserait y toucher (...)

    #Kropotkine #anarchisme #loi #autorité #émancipation

    ⏩ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/04/kropotkine-la-loi-et-l-autorite.html

  • Ces Allemands derrière les barreaux pour avoir fraudé le bus

    Inscrite dans le code pénal en 1935, sous le régime nazi, une disposition pénale convertit les amendes en jours de prison. Des sanctions similaires existent en Suisse ou en Autriche

    « J’ai souvent fraudé dans les transports en commun, surtout quand j’étais sans-abri », reconnaît Peter, 43 ans. A l’époque, ce Munichois ne se doutait pas que ça lui vaudrait plusieurs séjours en prison.

    En 2021, Peter, qui souhaite conserver l’anonymat, reçoit un courrier du parquet de Munich, lui intimant de payer plus de 4 000 euros, en raison de 10 trajets sans ticket.


    Faute de pouvoir régler l’amende, il est condamné à 9 mois d’emprisonnement, écopant ainsi de la « peine substitutive de privation de liberté », un dispositif controversé que le gouvernement allemand entend réformer.

    « Tout ce que j’avais réussi à construire s’est soudainement effondré », témoigne auprès de l’AFP cet homme qui vivait alors de petits boulots en tant que graphiste ou photographe et avait retrouvé un toit.

    Le quadragénaire assure avoir déjà purgé 3 peines similaires entre 2012 et 2019, pour un total de … 27 mois d’emprisonnement.

    Inscrite dans le code pénal en 1935, sous le régime nazi, cette disposition pénale convertit les amendes en jours de prison. Des sanctions similaires existent en Suisse ou en Autriche.


    « Délit de pauvreté »
    Frauder le bus, commettre un vol à l’étalage ou conduire sans permis peuvent, tant que l’auteur ne paye pas son amende, conduire à une incarcération de 12 mois maximum.

    « Ce n’est pas normal que des personnes soient emprisonnées pour délit de pauvreté », dénonce Arne Semsrott qui milite pour l’abolition d’un régime pénalisant avant tout les plus démunis.

    Quelque 95 % des personnes concernées par cette sanction gagnent moins de 1 000 euros par mois, a rappelé le député social-démocrate (SPD) Johannes Fechner lors de la présentation de la réforme au Bundestag, le 15 mars.

    En 2022, plus de 50 000 personnes ont fait un passage en prison pour amendes impayées, selon les associations. Les fraudeurs dans les transports représentent un quart d’entre eux, assure M. Fechner.

    En mars 2022, Peter a reçu un coup de pouce du « Freiheitsfonds » ou « Fonds pour la liberté » qui lui a versé 1 200 euros pour lui éviter 82 jours supplémentaires en prison.

    Grâce aux dons collectés, cette association berlinoise, présidée par Arne Semsrott, « libère » les personnes dans le cas de Peter en payant directement leurs amendes.

    Le quadragénaire combat la dépression depuis sa première incarcération, en 2012, avec des allers-retours en hôpital psychiatrique. « Un jour de prison suffit à changer ta vie pour toujours », confie celui qui a dû cohabiter avec « dealers, violeurs et meurtriers ».

    La réforme refuse d’abolir totalement la peine substitutive car cela « remettrait en question tout le système d’application des amendes », selon le projet de loi.

    Il est « nécessaire de garder un moyen de pression », abonde la députée conservatrice (CSU) Susanne Hierl.

    Le projet prévoit notamment de rendre deux fois moins longue l’incarcération encourue.

    « Le Parlement a déjà essayé 10 fois de réformer cette disposition, et nous avons échoué 10 fois. Il est grand temps d’y arriver enfin », estime Marco Buschmann, ministre de la Justice. Le texte pourrait être voté mi-mai au Bundestag.

    Sanction coûteuse
    D’après Arne Semsrott, la réforme voulue par le gouvernement ne change pas grand chose. « Le même nombre de personnes continueront d’aller en prison, seulement moins longtemps ».

    Celles-ci « continueront de perdre leur travail, leur logement ou leur place en thérapie », selon Johannes Fechner.

    Depuis sa création, le Freiheitsfonds a « délivré » 716 personnes pour un montant de 667 000 euros, soit une somme moyenne de 930 euros par individu.

    « La justice ne vérifie pas si les personnes ont les moyens de payer ! », s’indigne Manuel Matzke, porte-parole du syndicat fédéral de prisonniers GG/BO qui regrette également, dans la plupart des cas, l’absence de contrôle par un juge.

    En effet, « une audience a lieu seulement si l’accusé s’oppose au jugement par écrit dans les deux semaines », ce qui rend plus vulnérables « les personnes socialement défavorisées », explique la juriste Elena Blessing sur Verfassungsblog, site internet académique traitant de débat juridique.

    Une journée d’incarcération coûte en moyenne 150 euros à l’Etat allemand, selon GG/BO. Le Freiheitsfonds se vante d’avoir, par son action, fait économiser 10 millions d’euros aux caisses de l’Etat.

    Source : https://fr.timesofisrael.com/ces-allemands-derriere-les-barreaux-pour-avoir-fraude-le-bus

    #pauvreté #délits #allemagne #amendes #transports #sdf #prison #suisse #autriche les #lois d #adolf_hitler n’ont pas été abrogées #transports_en_commun #transports_publics #peine_de_substitution

  • #Caporalato in #Friuli_Venezia_Giulia : #Gorizia è solo la punta dell’iceberg

    A fine febbraio una telefonata anonima ha fatto scoprire 30 braccianti rumeni, tra cui due minori, segregati in case fatiscenti, obbligati a lavorare per pochi euro, minacciati e picchiati. Per la Flai Cgil «il caporalato sta dove c’è ricchezza: in Friuli è rappresentata dai vigneti»

    A fine febbraio tre persone sono state arrestate a Gorizia per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera in agricoltura. Le accuse nei loro confronti sono aggravate dalle minacce, dal numero dei lavoratori coinvolti e dalla minore età di due di loro.

    Il nuovo caso di caporalato è emerso grazie a una segnalazione anonima. La guardia di finanza e la procura hanno così scoperto una trentina di persone segregate in case fatiscenti e in precarie condizioni igienico-sanitarie, costrette a lavorare come braccianti agricoli per pochi euro al giorno, minacciate e picchiate se tentavano di ribellarsi. Lavoratori e caporali sono di origine rumena.

    «Che il caporalato fosse diffuso in regione lo sapevamo già, almeno dal dicembre 2021, quando sono stati scoperti alcuni casi a Pordenone. Adesso tutti si meravigliano, ma quello che è accaduto a Gorizia è l’ennesima dimostrazione che il caporalato, come la mafia, sta dove c’è ricchezza. E la grande ricchezza a cielo aperto del Friuli, come del Veneto, sono i vigneti che da tempo hanno sostituito le vecchie coltivazioni», dice a Osservatorio Diritti Alessandro Zanotto, coordinatore regionale Flai Cgil Friuli.

    Caporalato in Italia: il fenomeno va da Sud a Nord

    Il caporalato è sempre più radicato anche al Nord. Sono 405 le aree interessate dal fenomeno lungo tutta la Penisola, di queste solo 194 si trovano al Sud.

    Le altre sono divise tra Nord e Centro. Tra le regioni del Nord, Veneto e Lombardia sono quelle più coinvolte con 44 e 21 aree individuate. Due quelle monitorate in Friuli-Venezia Giulia, a Pordenone. A cui ora si aggiunge Gorizia (dati Osservatorio Placido Rizzotto Flai Cgil).

    «L’operazione della Procura e della Guardia di finanza a Gorizia è la prova che nessuna regione, nessuna coordinata geografica è immune allo sfruttamento. Un menù tossico fatto di condizioni di lavoro umilianti e contesti di vita ripugnanti», spiega a Osservatorio Diritti Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil.

    Differenze non ce ne sono rispetto ai casi scoperti al Sud: spesso i lavoratori sono di origine straniera (nei casi scoperti a Pordenone erano pachistani, a Gorizia rumeni), i salari sono bassissimi, contratti non ce ne sono e neppure diritti.

    Anche se al Nord può capitare che ci si avvalga di società di somministrazione di manodopera o di consulenti del lavoro locali, «che danno una parvenza di legalità, ma che in realtà sono apparati schiavistici. A Gorizia poi erano coinvolti anche due minorenni e i lavoratori erano tutti di origine rumena, quindi cittadini europei. Una vicenda che smentisce la retorica sul permesso di soggiorno», afferma Bilongo.

    Caporalato in Friuli Venezia Giulia

    I casi scoperti in Friuli-Venezia Giulia, in particolare nel territorio di Pordenone (su cui il VI Rapporto Agromafie e Caporalato della Flai Cgil ha acceso i riflettori), sono «solo la punta dell’iceberg in un territorio che si vanta di avere come pilastro della propria società la rettitudine, ma che il caporalato riesce a scalfire ugualmente. E lo stesso numero di vertenze aperte sul territorio è paradigmatico dell’ampiezza del fenomeno», dice Bilongo.

    Anche Zanotto parla di punta dell’iceberg quando racconta dei casi scoperti in regione, in particolare a Pordenone: «In quel caso erano coinvolti lavoratori pachistani, rinchiusi in case in campagna o in centro, alcuni senza permesso di soggiorno. Anche il caporale era pachistano. Ma le vere menti sono locali. È ipocrita chi dice di non sapere e di non vedere: noi li vediamo, questi ragazzi e ragazze, lavorare nei vigneti alle potature, a novembre e dicembre, tutti i giorni, anche i sabati e le domeniche, dalla mattina presto alla sera tardi. Ragazzi e ragazze che arrivano attraverso la rotta dei Balcani e che vengono sfruttati nelle nostre campagne».

    La legge contro il caporalato esiste, ma va applicata

    Ma come si combatte il caporalato? Per Bilongo la risposta è semplice: applicando la normativa di cui l’Italia si è dotata.

    «La legge 199 del 2016 sul caporalato prevede un impianto repressivo, ma anche di prevenzione. E se i dati sui contenziosi non accennano ad arretrare nonostante le forze a contrasto insufficienti, la prevenzione, purtroppo, non decolla», dice il sindacalista.

    Bilongo, in particolare, fa riferimento alla Rete del lavoro agricolo di qualità, l’organismo autonomo istituito dalle legge 116/2014 che punta ad arginare il caporalato in agricoltura attraverso la creazione di una lista di imprese virtuose.

    La legge sul caporalato del 2016 ha potenziato la Rete, prevedendo l’istituzione di sezioni territoriali in ogni provincia. Ma a fine 2021, le sezioni attivate sono solo 21. E le aziende iscritte alla Rete sono 5.978 su un potenziale di 250 mila (dati Osservatorio Placido Rizzotto – Quaderno n. 1 Geografia del caporalato).

    Qual è il motivo di numeri così bassi? «Il caporalato è una via facile per avere manodopera da discount ed è ormai una modalità consolidata. Eppure la soluzione è lì perché se un’azienda non ha niente da rimproverarsi può iscriversi alla rete ed essere certificata come sana. Dobbiamo rivendicare la necessità di fare prevenzione attraverso la Rete», afferma Bilongo.

    In Friuli-Venezia Giulia ci stanno provando, ma, come precisa Zanotto, «spesso le controparti partecipano agli incontri ma poi finisce lì. Eppure ciò che vediamo noi dovrebbero vederlo anche loro e rendersi conto che chi utilizza questa forma di manodopera rappresenta una concorrenza sleale per le aziende in regola».
    Sindacato di strada: ecco come si combatte il caporalato oggi

    Nei luoghi di lavoro, in quelli di aggregazione o di preghiera, nelle piazze dove avvengono gli ingaggi giornalieri, la Flai Cgil da alcuni anni ha scelto di reinventarsi come sindacato di strada per poter incontrare i lavoratori, distribuire materiale informativo e contratti in diverse lingue, segnalare i servizi del territorio, sostenere chi vuole denunciare.

    «A Pordenone è stato grazie al lavoro del sindacato di strada che abbiamo scoperto quello che stava e sta accadendo», dice Zanotto.

    Con il camper dei diritti – presente in Campania, Sardegna, Puglia, Piemonte, Basilicata, Calabria, Sicilia, Veneto – sono stati avvicinati molti lavoratori che, per paura o problemi di natura logistica, non riuscivano a entrare in contatto con il sindacato.

    «I braccianti agricoli lavorano dall’alba al tramonto e quando rientrano il sindacato è chiuso. Abbiamo rovesciato il paradigma andando loro incontro per intercettare bisogni, farci carico delle criticità, infondere consapevolezza. Questo significa recarsi di notte nei luoghi da cui partono per andare nei campi, o la domenica nei mercati o in moschea. È un lavoro costoso ma efficace. Nel 2018 a Latina quasi 5 mila braccianti indiani sono scesi in piazza. Il coraggio per farlo è il frutto del lavoro del sindacato di strada che, per anni, ha presidiato quella zona», conclude Bilongo.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2023/04/03/caporalato-friuli-venezia-giulia
    #Italie #exploitation #main_d'oeuvre #travail #agriculture #braccianti #migrations #vignobles #migrants_roumains #Pordenone #loi #legge_199 #industrie_agro-alimentaire

  • Macron : Le grand « plan eau » qui fait flop

    Face à une sécheresse historique et à la pénurie qui s’annonce pire que celle de l’été dernier, avec des nappes phréatiques très en dessous de leur niveau habituel, Emmanuel Macron sort son « plan eau » : 50 mesures censées prendre le problème à bras le corps, présentées la semaine dernière dans les Alpes. Blast a suivi pendant des semaines sa préparation sous... influence. Enquête et décryptage sur un catalogue de mesures ineffectives dicté par les lobbies.

    Ménager l’attente... Dans le domaine du teasing et des effets d’annonce, Emmanuel Macron est passé maître. Annoncé depuis des semaines et retardé à plusieurs reprises, d’abord prévu début 2023 à l’occasion des « Carrefours de l’eau » organisés chaque année à Rennes, le plan sécheresse du gouvernement avait été remis à plus tard à la demande de l’Elysée. On l’attendait encore le 22 mars dernier lors de la journée mondiale de l’eau, qui offrait une fenêtre de tir idéale. Crise politique oblige, l’affaire avait dû être encore décalée. Et finalement le voilà, présenté jeudi dernier par le chef de l’Etat sur les rives du lac de Serre-Ponçon (Hautes-Alpes).

    En août 2022, la France a chaud. Le soleil (de plomb) cogne, les Français suent et les terres s’assèchent - un phénomène inquiétant, sans revenir jusqu’au cauchemar des incendies dans les Landes. En pleine canicule, les alertes remontées par les élus et les préfets se multipliant, Elisabeth Borne annonce la mise sur orbite d’une « planification écologique » plaçant l’eau au cœur de ses priorités. On sait aujourd’hui que près de 700 villages ou petites villes ont souffert de pénuries d’eau potable, chiffre qui à l’époque avait été minoré. Pendant plusieurs semaines, certaines populations avaient dû être alimentées par des citernes ou de l’eau en bouteille livrée par packs.

    Diagnostics clairement tracés

    Le coup de chaud de l’été 2022 passé, le chantier est lancé opérationnellement le 29 septembre par Christophe Béchu, le ministre de la Transition écologique, et sa secrétaire d’Etat Bérangère Couillard, avec une phase de consultation. Début janvier 2023, les contributions de ces groupes de travail, comme celles des comités de bassin (des instances de concertation à l’échelle locale rassemblant opérateurs, Etat, collectivités, ONG, industriels, agriculteurs et consommateurs), sont présentées à la secrétaire d’Etat dans le cadre du Comité national de l’eau (un organe consultatif placé sous l’autorité du ministère de la Transition).

    De ces travaux et de leurs conclusions remises à Bérangère Couillard se dégagent « des diagnostics clairs et des propositions de solutions », « notamment autour de la REUT (réutilisation des eaux usées traitées) et du développement de la télérelève », se félicite la Fédération professionnelle des entreprises de l’eau (FP2E) dans sa lettre publiée en mars dernier.

    La FP2E fédère 6 entreprises membres dont les multinationales Veolia, Suez et Saur. Ce lobby influent a participé activement à cinq des groupes de travail - sur la gestion des sécheresses, sur les usagers, la sobriété, le grand cycle de l’eau et les pollutions diffuses. L’occasion de pousser ses intérêts. A la sortie de la consultation, la FP2E pointe aussi « les blocages à lever », « relatifs notamment au financement, à la complexité des démarches administratives ou encore à la durée des autorisations ». Des freins « décourageants pour les porteurs de projet », note-t-elle.

    En réalité, cet investissement vient de loin. La FP2E, et avec elle les géants privés de l’eau, pousse ses pions depuis des mois : avant la présidentielle de 2022, ce syndical patronal avait présenté aux candidats son « programme ». Dès lors, tout était dit et la « feuille de route » tracée. Elle n’a pas changé depuis.
    Un gouvernement bien irrigué

    En France, la dernière grande loi sur l’eau date de 2006. Depuis, les effets du changement climatique sur le cycle hydrologique se font sentir, beaucoup plus puissamment et rapidement qu’on ne le pensait il y a encore quelques années. Résultat, l’édifice institutionnel de la gestion de l’eau à la française, qui a vu le jour à l’orée des années soixante, craque de toute part. Pourtant, personne ne veut ouvrir la boîte de Pandore que représenterait nécessairement l’élaboration d’une nouvelle loi. Celle-ci imposerait en effet de mettre au premier rang des discussions la question explosive de l’évolution du modèle agricole productiviste. Un sujet très actuel, le récent week-end de guerre civile dans un champ des Deux-Sèvres en étant une sidérante démonstration, autour de la question des méga-bassines. Et surtout un casus belli pour la FNSEA, très en cour à l’Elysée.

    Le plan présenté en grande pompe par Emmanuel Macron au lendemain de la pénible et interminable séquence sur les retraites a été bien irrigué. Pour parvenir aux 53 mesures qu’il exhibe, on a exhumé tout ce qui trainait au fond des placards depuis des lustres, afin de susciter un effet « waouh ». Ce catalogue ne fera pas illusion bien longtemps, comme on s’en apercevra rapidement, dès cet été. Il est le produit d’un véritable opéra-bouffe qui a vu tous les lobbies intéressés s’atteler dans l’urgence à la rédaction de rapports, de contributions et de propositions dont le contenu laisse dubitatif. Ils s’y sont mis, tous sans exception.

    Cet activisme n’est pas nouveau. C’est même un grand classique qui a débouché jusqu’à présent sur une série de grand-messes pour rien – des Assises en 2018-2019 au Varenne de l’eau du ministère de l’Agriculture en 2021-2022 (qui déroulait le tapis rouge à la FNSEA), avant que l’Académie des technologies ne s’y colle à son tour fin 2022. Une litanie sans rien changer qu’Emmanuel Macron n’a pourtant pas manqué de rappeler la semaine dernière, les énumérant pour s’en féliciter : « dès le mois de septembre, on a tiré les leçons, lancé les travaux, le ministre l’a rappelé, s’appuyant sur ce qui avait été fait dès il y a cinq ans ».
    Un plan « Copytop »

    Pour permettre au président de la République de sortir sa tête de l’eau et marcher sur le lac de Serre-Ponçon, une véritable usine à gaz s’est mise en branle à un train d’enfer. Depuis l’automne dernier, les contributions se sont ainsi empilées les unes sur les autres : mission d’information de la commission des affaires économiques du Sénat, copieux rapport du groupe prospective de la Chambre haute, propositions de la Fédération nationale des collectivités concédantes et régies (FNCCR), du Comité national de l’eau - un organisme baroque, repaire de tous les lobbies, placé sous l’autorité du ministère chargé de la Transition écologique – ou encore, dernières en date, celles d’une autre commission sénatoriale. Sans oublier les 48 propositions du Comité de bassin Seine-Normandie le 3 février, avant l’audition organisée le 15 du même mois par la commission de l’aménagement du territoire et du développement durable du Sénat (encore) !

    Au final, cette bataille d’experts s’est dénouée dans des réunions interministérielles (les « RIM ») opposant classiquement l’écologie, l’agriculture, Bercy, la DGCL du ministère de l’Intérieur, le tout sous la férule de Matignon - dont l’occupante connaît le sujet. « Béchu et Couillard n’y connaissent rien, c’est Borne qui pilote tout depuis le début », confirme une source proche du dossier.

    L’analyse de cette production frénétique de nos collèges d’experts, qui se sont copiés sans vergogne sous l’air du « y’a qu’à-faut qu’on », est édifiante. S’ouvre alors sous nos yeux l’étendue affolante de tout ce qui aurait dû être fait, ne l’a pas été et reste donc à faire - avec les remises en cause drastiques que cela implique.

    Depuis une quinzaine d’années, tous les organismes de recherche impliqués dans la question de l’eau, comme les inspections des administrations centrales, ont publié des centaines de rapports parfaitement informés, qui détaillent par le menu la montée des périls comme les mesures qui devraient être prises pour y faire face. En pure perte. Rien ne change, business as usual.

    Pollutions multiformes, pesticides, irrigation à outrance, imperméabilisation des sols, inondations, sécheresses, recul du trait de côte, chute dramatique de la biodiversité... La réalité est un cauchemar. Et l’élaboration aux forceps de ce nouveau « plan eau » illustre une nouvelle fois, jusqu’à la caricature, la « méthodologie » qui voit rituellement la montagne accoucher d’une souris.

    Que s’est-il passé, au juste ? Ce qui se passe en réalité depuis des lustres. L’affaire se joue en deux temps : l’état des lieux d’abord, puis les propositions. L’état des lieux, la phase 1, s’alimente des centaines de rapports disponibles. Rédigés par des fonctionnaires (IGEDD, CGEEAR, IGF, IGA…) ou par des collaborateurs du Parlement, très généralement compétents, ils renvoient les décisions à prendre au politique. C’est à cette étape, celle des propositions, que les choses se grippent. Pour s’en convaincre, il suffit de confronter pour chacun des rapports, et d’un rapport l’autre, l’état des lieux initial aux « propositions » d’actions élaborées. Le constat est accablant : l’intervention du politique neutralise tout espoir d’améliorer quoi que ce soit.

    Le sénateur et l’éléphant

    Sur le constat tout le monde s’accorde, globalement. A quelques nuances près : la France demeure un pays bien doté, avec des précipitations suffisantes pour répondre à de multiples usages - 32 à 35 milliards de m3 sont prélevés chaque année pour le refroidissement des centrales nucléaires, l’eau potable, l’agriculture, l’alimentation des canaux, l’industrie, etc. Mais les impacts du changement climatique sur le cycle de l’eau se font déjà sentir, y compris dans les bassins plus septentrionaux, provoquant l’eutrophisation des cours d’eau, l’évaporation à un rythme plus rapide et la diminution des pluies en été.

    Et puis, il y a « l’éléphant dans la pièce », selon l’expression du sénateur Renaissance Alain Richard... Co-rapporteur d’un rapport avec Christophe Jarretie (député Modem de Corrèze jusqu’en juin 2022), Alain Richard désigne ici la mobilisation de la ressource pour les besoins agricoles, qui explosent l’été quand il n’y a plus d’eau… D’où les conflits sur l’irrigation et les bassines, qui ont dépassé la côte d’alerte.

    Se prononçant en faveur de la multiplication des retenues, ce même rapport souligne pourtant « une autre limite aux stratégies d’économies d’eau pour l’irrigation agricole » : elle « réside dans la manière dont la marge de manœuvre permise par les économies se trouve redéployée. En améliorant le système d’irrigation, on peut mobiliser davantage d’eau pour les plantes à prélèvement égal. La tentation peut être alors de ne pas réduire les prélèvements mais d’augmenter la surface irriguée. Ce risque est d’autant plus fort qu’avec l’élévation des températures et la modification du régime des précipitations certaines cultures historiquement non irriguées qui n’avaient besoin que de l’eau de pluie, comme la vigne dans le Sud-Ouest, ne doivent désormais leur survie qu’à l’installation de dispositifs d’irrigation. »

    Le 5 février dernier, on a appris que la région Occitanie et six départements du Sud-ouest (Haute-Garonne, Gers, Hautes-Pyrénées, Tarn-et-Garonne, Lot et Landes) venaient de recapitaliser à hauteur de 24 millions d’euros la Compagnie d’aménagement des coteaux de Gascogne (CACG). Spécialisée dans les barrages et les bassines, cette société d’aménagement régional était en quasi faillite. L’an dernier, sa gestion désastreuse a été sévèrement étrillée par la chambre régionale des comptes. Objectif de cette opération de sauvetage de la CACG ? « S’armer face au manque d’eau », notamment en « augmentant la capacité des réserves existantes »…
    Les diktats de la FNSEA

    Dans les débats autour de la crise de l’eau, on parle aussi beaucoup des « solutions fondées sur la nature ». Ça fait écolo à tout crin. « Cela implique d’aller à l’encontre de la tendance à l’artificialisation des sols, de désimperméabiliser, en particulier en milieu urbain, pour favoriser l’infiltration de l’eau de pluie ou encore apporter de la fraîcheur dans les villes lors des pics de chaleur », édicte le rapport de la commission des affaires économiques du Sénat. Problème, on oublie de dire que le principe du « zéro artificialisation nette » a suscité sur le terrain une véritable bronca des élus, de toute obédience, qui ont engagé un bras de fer avec le gouvernement sur le sujet.

    Notre éléphant, celui du sénateur Richard, est lui aussi au cœur des débats. « L’agriculture est le principal consommateur d’eau, indispensable à la pousse des plantes et à l’abreuvement du bétail, relève le Sénat. Mais l’adaptation des pratiques au changement climatique est encore trop lente et la transition vers l’agro-écologie doit être accélérée à travers tous les leviers possibles : formation, aides apportées par le premier ou le deuxième pilier de la politique agricole commune (PAC), recherche appliquée et expérimentation des nouvelles pratiques ».

    Des mesures et solutions de bon sens ? Probablement, sauf que le courant majoritaire de la profession agricole, incarné par la FNSEA, continue à s’opposer avec succès à toute évolution structurelle du modèle productiviste dominant et impose ses diktats à tous les gouvernements. L’actuel ministre de l’Agriculture Marc Fesneau l’a lui-même reconnu à mi-mots dans un récent article de Libération.

    Un autre sujet est lui aussi systématiquement évacué des « solutions ». Il mériterait qu’on y réfléchisse, pour reconsidérer le sujet dans son ensemble : chaque année, pour « équilibrer les fonds publics », l’Etat prélève 300 millions d’euros depuis quinze ans dans les caisses des agences de l’eau. « Les consommations domestiques d’eau potable, sur laquelle les redevances sont assises, sont sollicitées pour financer des domaines de plus en plus variés touchant de plus en plus au grand cycle de l’eau, et de moins en moins à la modernisation des stations d’épuration ou à la modernisation des réseaux de distribution d’eau potable, pourtant vieillissants », pointent ainsi les deux co-présidents du groupe de travail « Redevances des agences de l’eau et atteintes à la biodiversité ».

    En 2022, le duo Richard-Jarretie envisageait de compenser ce manque à gagner par la création d’une nouvelle taxe (assise sur la taxe d’aménagement départementale). Leur proposition de loi, qui aurait dû être adoptée en loi de finance rectificative, sera finalement sèchement rejetée par Bercy.

    La fuite politique

    Autrefois, « l’eau était gérée directement par les maires dans des syndicats intercommunaux à échelle humaine », mais « les regroupements de structures conduisent à dépolitiser l’eau », constate le rapport des deux parlementaires sur la question de la gouvernance. Résultat de cette évolution, « l’eau n’est plus que rarement une question politique débattue lors des campagnes électorales locales ».

    Désormais, « le pouvoir est passé du côté des techniciens. » « La politique de l’eau est dépolitisée et renvoyée à la recherche des meilleurs choix techniques possibles, constatent Jarretie et Richard. Les maires des grandes villes, les présidents des grandes intercommunalités ne siègent plus que rarement dans les organismes chargés de (sa) gestion. Ils y délèguent des élus, certes compétents, mais dont le poids politique propre est minime et qui n’ont pas tellement d’autre choix que de suivre les orientations de la technostructure de l’eau. »

    Parallèlement, cette dépossession d’une question éminemment politique s’accompagne d’une surenchère. Elle concerne la recherche et l’innovation, a priori louables sauf quand elles deviennent le paravent et le prétexte à l’inaction. Depuis une quinzaine d’années, les multinationales Veolia, Suez et Saur mènent avec succès un lobbying opiniâtre pour promouvoir une fuite en avant technologique. Censée apporter des solutions miracles, par exemple pour la réutilisation des eaux usées ou la recharge artificielle des nappes phréatiques, elle contribue en réalité au statu quo, pour ne rien changer aux pratiques délétères qui sont pourtant à l’origine de la dégradation croissante de la qualité de la ressource.

    Face à la production de ce discours et à cette fibre du tout technologique, difficile de résister. Pour deux raisons. « La compréhension des mécanismes de la politique de l’eau, tant dans ses aspects techniques qu’organisationnels est particulièrement ardue », soulignent Alain Richard et Christophe. Certes, « les SDAGE (schéma directeur d’aménagement et de gestion des eaux, ndlr) et les SAGE (schéma d’aménagement et de gestion des eaux, ndlr) sont soumis à l’avis du public. Les dossiers d’autorisation au titre de la loi sur l’eau font l’objet d’enquêtes publiques dont les éléments sont mis à disposition de tous sur les sites Internet des préfectures. Mais seuls quelques « initiés » sont capables de maîtriser les nombreux paramètres en jeu ». Face à cette complexité et au jeu des lobbies, les administrés sont désarmés : « La transparence des procédures ne garantit pas la participation du public et l’appropriation des enjeux à une grande échelle. » Par ailleurs, en matière de gouvernance encore, l’équilibre et les relations national/local ne se soldent pas vraiment en faveur de l’implication des échelons au plus près des administrés.

    Doit-on réfléchir et envisager de décentraliser l’action publique, pour plus d’efficacité ? Un nouveau vœu pieu. La Macronie méprise les 570 000 élus locaux français. Dans la pratique, ce sont désormais les préfets, et surtout les préfets de région, qui ont la haute main sur des politiques publiques revues à l’aune du libéralisme le plus échevelé.

    Un déluge de com

    Le 23 février dernier, Christophe Béchu et Bérangère Couillard présidaient le premier comité d’anticipation et de suivi hydrologique (CASH) de l’année. Objectif affiché ? « Informer les représentants des usagers sur la situation hydrologique actuelle et projetée en anticipation de risques potentiellement significatifs de sécheresse »...

    Pareille langue de bois n’augurait rien de bon, ou plutôt admirablement ce qui allait suivre cet interlude comme quand les deux membres du gouvernement, 24 heures plus tard, expliqueront qu’ils vont décider avec les préfets de mesures de restrictions... « soft ». Le lendemain de cette pseudo-annonce, Le Monde consacre son éditorial aux périls qui menacent, appelant face à l’urgence à la sobriété des usages. Comme un coup de pied à l’âne.

    En ce début d’année 2023, le rouleau compresseur de la com gouvernementale s’emballe. A donner le tournis. La veille de la réunion du CASH, le 22 février sur France Info, le ministre Béchu déclare la France « en état d’alerte ». Le samedi 25 février, en visite au Salon de l’agriculture, Emmanuel Macron en appelle à un « plan de sobriété sur l’eau » et invente les « rétentions collinaires » jusque-là... inconnues.

    Le lundi 27 février, Christophe Béchu, à nouveau, réunit les préfets coordonnateurs de bassin. La semaine suivante, il est en visio avec les 100 préfets de département. Dix jours plus tôt, la troisième mission d’information sénatoriale mobilisée auditionnait des directeurs d’agences de l’eau. En outre, pour tirer les enseignements pratiques de la sécheresse historique de 2022, une mission est confiée aux inspections générales, charge à elles d’établir un retour d’expérience auprès de l’ensemble des acteurs et usagers et de formuler des propositions d’amélioration. La mission, en cours, devrait rendre ses conclusions au 1er trimestre 2023.

    Des « solutions » ineptes

    Cette mise en scène à grand spectacle se distingue principalement... par son inanité : loin de répondre aux enjeux d’une crise systémique, il s’agit en s’appuyant sur des « évidences » (qui n’en sont pas) de « vendre » du vent en agitant des « solutions » (qui n’en sont pas) tout en promouvant une fuite en avant technologique qui elle va rapporter des milliards aux usual suspects du secteur...

    À Savines-le-Lac, dans ses mesures phare, Emmanuel Macron a notamment insisté jeudi dernier sur la nécessité de lutter contre les fuites pour atteindre les objectifs fixés - et « faire 10% d’économie d’eau ». En les réparant ?

    Édifié depuis la moitié du XIXème siècle, le linéaire du réseau français d’adduction d’eau atteint quelque 880 000 kilomètres. Estimé à 1 000 milliards d’euros, ce patrimoine national a été à l’origine largement financé sur fonds publics, avant l’invention de la facture d’eau. Propriété des collectivités locales, son taux de renouvellement est en deçà de ce qu’il devrait être idéalement (1% par an), calé logiquement sur la durée de vie des tuyaux.

    « Parce que tout ça, c’est le fruit de quoi ?, a fait mine de s’interroger Emmanuel Macron la semaine dernière. De sous-investissements historiques. Et pourquoi on se retrouve collectivement dans cette situation ? C’est que pendant très longtemps, on s’est habitué à ne plus investir dans nos réseaux d’eau ».

    Face à cette situation, la loi n° 2010-788 du 12 juillet 2010 (dite loi « Grenelle II ») a introduit deux dispositions : l’obligation tant pour les services d’eau que d’assainissement d’établir pour fin 2013 un descriptif détaillé de leurs réseaux d’une part, et l’obligation pour les services de distribution de définir un plan d’actions dans les deux ans lorsque les pertes d’eau en réseaux sont supérieures au seuil fixé par décret (n° 2012-97 du 27 janvier 2012).

    En clair, si son réseau est excessivement percé, la collectivité sera pénalisée en se voyant imposer un doublement de la redevance « prélèvement » perçue par les agences de l’eau sur les factures des usagers. Par ailleurs, plus « incitatif », la Banque des territoires (Caisse des dépôts et consignations) a ouvert ces dernières années une ligne de crédit de 2 milliards d’euros « [d’]Aquaprêt ». Les collectivités sont donc invitées à s’endetter pour changer leurs tuyaux. Succès mitigé jusqu’à aujourd’hui.

    Pour donner la mesure du problème, il est utile de savoir que changer un kilomètre de tuyau coûte entre 50 000 et 200 000 euros. Depuis trois ans, regroupées sous la bannière « Canalisateurs de France », les entreprises du secteur ont augmenté leurs tarifs de 30 à 40%.

    Autrement dit, une fois ces éléments précisés, aucune progression sensible n’est à attendre sur la question des fuites. Il va donc falloir trouver ailleurs.

    D’autant que si Emmanuel Macron annonce des financements (180 millions d’euros par an « sur nos points noirs), il s’est bien gardé de préciser l’origine de ces fonds (en encadré).

    Les eaux usées, plan juteux des majors

    Devant les élus, face aux Alpes qui le toisaient, le chef de l’Etat a insisté sur une autre mesure forte : il faut « investir massivement dans la réutilisation des eaux usées », a-t-il asséné avec un air entendu.

    Réutiliser les eaux usées ? Encore une fausse bonne idée « frappée au coin du bon sens ». Pour le mesurer et se faire une idée de l’annonce présidentielle, il faut là aussi comprendre de quoi il s’agit. Cette idée est en réalité promue depuis une vingtaine d’années au fil d’un lobbying effréné de Veolia, Suez et de la Saur.

    Concrètement, il existe aujourd’hui à peine 80 unités de « réutilisation des eaux usées traitées » (REUT) dans l’hexagone, pour plus de 22 330 stations d’épuration, de la petite installation qui traite les rejets de quelques centaines d’usagers aux complexes géants implantés dans les métropoles.

    Le traitement des eaux usées n’a pas pour objectif de la rendre potable. Avant d’être traitée, cette eau usée reçoit un prétraitement afin d’éliminer le sable et les autres matières en suspension. Le process consiste ensuite à opérer des filtrations et traitements (mécanique, biologique, physico-chimique…) avant de la rejeter d’une qualité acceptable, fixée par la réglementation, dans le milieu naturel (les lacs, les rivières, la mer, etc).

    L’épuration classique, dite par boue activée, s’inspire du domaine naturel. Plus précisément des rivières, qui développent des boues au sol afin de supprimer la pollution - elle s’en nourrit. Dans une installation traditionnelle, on fournit de l’oxygène à la boue pour satisfaire ses besoins énergétiques et on la laisse se nourrir, avant de la séparer de l’eau traitée à l’aide d’un clarificateur. Les filières les plus modernes peuvent aujourd’hui compter jusqu’à 10 étapes de traitement successives, jusqu’aux ultra-violets (UV).

    Plus coûteux et bien moins répandu, le traitement membranaire repose sur le même principe, mais au lieu d’utiliser un clarificateur les membranes filtrent la liqueur mixte.

    Avec la REUT, il s’agit de mobiliser des traitements complémentaires pour améliorer la qualité de l’eau usée. L’objectif n’est plus de la rejeter dans le milieu naturel mais de l’utiliser pour l’irrigation, l’arrosage des espaces verts, des golfs ou la réalimentation des nappes phréatiques, des captages ou des réserves qui servent à produire de l’eau potable, comme Veolia l’expérimente à grande échelle en Vendée.

    Revers de la médaille, c’est... autant d’eau qui ne revient pas au milieu, qui en a pourtant besoin, les rivières comme les nappes phréatiques, pour le maintien du cycle naturel - sans négliger les inquiétudes suscitées par le contrôle sanitaire des eaux ainsi « réutilisées » par ses usagers. Sur ce terrain, les expérimentations citées en exemples par les défenseurs de l’usage de la REUT pour l’irrigation dans le sud de l’Espagne ou en Italie (jusqu’à 10% des eaux usées y sont retraitées) montrent plutôt le chemin à éviter : les systèmes hydrologiques concernés y ont été gravement dégradés par un recours intensif à la REUT…

    On retrouve ici encore les mêmes à la manœuvre. Car pour Veolia, Suez et Saur, nouveaux usages « non conventionnels » veut dire d’abord et surtout nouvelles filières, nouvelles technologies, donc nouveaux marchés… Ces lobbies ont déjà convaincu le gouvernement qu’il fallait « faire sauter les entraves règlementaires qui pénalisent le développement des projets ». Comme en atteste le décret publié le 11 mars 2022, censé encadrer cette pratique, réputée « incontournable » pour répondre aux tensions qui se font jour sur la disponibilité des ressources en eau.
    Construire des bassines ?

    La question de l’irrigation de l’agriculture est devenue sensible à l’aube des années 2000, dans plusieurs grandes régions françaises - la Charente, le Sud-Ouest, la Beauce, la Picardie, terres d’élection des grandes cultures irriguées. Alors que le changement climatique affecte déjà le cycle hydrologique, la fuite en avant d’un modèle agricole productiviste délétère va dès lors entrer en contradiction avec une gestion soutenable de la ressource en eau.

    L’impasse s’est faite jour dans le courant des années 80 quand l’Etat a considéré que tout prélèvement au-dessus d’un certain seuil devait faire l’objet d’une déclaration à ses services, après avoir délivré des autorisations au coup par coup, sans aucune limite, pendant des décennies. Une situation intenable.

    Chaque été, les préfets d’une vingtaine de départements prennent de manière récurrente des arrêtés sécheresse et 30% du territoire métropolitain est considéré en déficit structurel. « On a une quinzaine de départements, dont les Hautes-Alpes d’ailleurs, qui sont d’ores et déjà placés en vigilance », a rappelé le président de la République la semaine dernière. « On a ensuite une dizaine de départements qui sont d’ores et déjà en alerte ou alerte renforcée dans certaines zones », a-t-il encore ajouté.

    La récente actualité, avec le choc des images de Sainte-Soline, a définitivement popularisé le sujet des grandes bassines. Mais, au juste, qu’est-ce qu’une bassine ? Cet ouvrage de stockage d’eau pour l’irrigation est constitué de plusieurs hectares de bâches en plastique retenues par des remblais de 10 à 15 mètres. Mais il ne se remplit pas avec de l’eau de pluie en hiver : avec une pluviométrie moyenne de 800 mm par an, il faudrait... 15 ans pour la remplir. Elle n’est pas davantage alimentée par de l’eau de ruissellement, comme celle des crues - comme le sont les retenues collinaires. Les bassines sont donc remplies par l’eau des nappes phréatiques, ce à quoi s’opposent les militants mobilisés le 25 mars dernier dans les Deux-Sèvres. Il faut compter 2 mois pour remplir une bassine avec des pompes travaillant à 500m3/H.

    Une fois capturée, l’eau est exposée au soleil, à l’évaporation et à la prolifération bactérienne ou algale. Elle servira alors principalement à irriguer du maïs destiné à nourrir le bétail, dont une bonne partie sera exportée avant que nous réimportions le bétail qui s’en nourrit. On dénombre aujourd’hui une bonne quarantaine de sites avec des grandes bassines (ou des projets) sur le sol national.

    Depuis un demi-siècle, on se débarrassait au printemps de l’eau « excédentaire » pour pouvoir effectuer les semis. On a drainé prairies et zones humides, « rectifié » les rivières pour évacuer l’eau. Ces opérations ont eu pour résultat une diminution des prairies et une augmentation de l’assolement en céréales. Mais à force d’évacuer l’eau, on a commencé à subir les sécheresses et les irrigants ont commencé à pomper l’eau des nappes.

    La loi NOTRe à la poubelle ?

    Comme si ça ne suffisait pas, la loi NOTRe de 2015 - loi phare du mandat Hollande qui avait pour objectif de rationaliser l’organisation des 35 000 services d’eau et d’assainissement français jusqu’alors gérés par les communes, en transférant ces compétences aux intercommunalités - n’a cessé d’être détricotée par les élus locaux qui n’ont jamais accepté d’être privés de leurs prérogatives.

    Après trois premières lois rectificatives, une quatrième offensive est venue du Sénat : la chambre haute examinait le 15 mars une nouvelle proposition de loi qui prévoit que même si les compétences ont déjà été transférées il serait possible de revenir en arrière, même pour les interco ayant procédé à la prise de compétences ! « On ne pourrait rêver pire pour créer un bordel ingérable », soupire un haut responsable de la direction générale des collectivités locals du ministère de l’Intérieur.

    Dans son rapport annuel 2023, la Cour des comptes a posé le dernier clou au cercueil, dans le chapitre qu’elle consacre à la politique de l’eau en France. Conclusion d’une enquête d’ampleur menée avec les treize chambres régionales, le texte n’y va pas de main morte pour dénoncer cette mascarade : « Elle est incohérente [et ] inadaptée aux enjeux de la gestion quantitative de la ressource », fulmine-t-elle. Cette politique, telle qu’elle est menée, souffre de « la complexité et du manque de lisibilité de son organisation », constatent les sages.

    La Cour fustige, les lobbies dansent...

    Exemple ? Près de la moitié des sous-bassins hydrographiques ne sont pas couverts par un schéma d’aménagement et de gestion des eaux (Sage), dont l’élaboration... conditionne pourtant la mise en œuvre concrète des orientations du Sdage.

    « Lorsqu’ils existent, le contenu de ces schémas n’est pas toujours satisfaisant en raison de leur durée moyenne d’élaboration, proche d’une dizaine d’années, de l’ancienneté des données sur lesquelles ils s’appuient et de l’absence d’objectifs de réduction des consommations d’eau », pointent les magistrats financiers. Face à ces constats d’une sévérité sans précédent, la Cour des comptes demande donc de la « clarifier » en suivant mieux la géographie de l’eau et recommande de la (re)structurer autour du périmètre des sous-bassins versants.

    Mais qu’importent ces sombres augures et leurs appels... Le 22 mars, on se réjouissait, c’est bien là l’essentiel : Canalisateurs de France - les marchands de tuyaux qui réclament de 3 à 4 milliards d’euros d’investissements supplémentaires chaque année - organisaient un grand raout : une « matinée de l’eau » avec pour « grand témoin » l’incontournable Erik Orsenna, l’homme... qui se vantait de faire commerce de son entregent dans un portrait criant de vérité publié en 2016 par M le Monde. Le ton était donné.

    Dans ces conditions, après avoir observé pendant des mois ce qui se passait en coulisses, et constaté l’omniprésence de lobbies toujours plus offensifs, on ne pouvait s’attendre qu’au pire à l’annonce du fameux plan eau du gouvernement. A la lecture du document diffusé dans la foulée du discours d’Emmanuel Macron, on doit le dire, on n’a pas été déçu. Entre énièmes déclarations d’intention (jamais suivies d’effets), camouflage du réel, empilement de gadgets ineptes - le baromètre de ceci, le thermomètre de cela... -, le président de la République s’est fait le VRP d’un « plan waouh ». Présenté comme la « modernisation sans précédent de notre politique de l’eau », il tient en réalité du concours Lépine et du catalogue de la Redoute.

    À la sortie, une (seule) chose est acquise : l’été sera chaud. Et l’exercice d’esbroufe ne règlera rien.

    https://www.blast-info.fr/articles/2023/macron-le-grand-plan-eau-qui-fait-flop-lojNnq91RhyU46bCLV9S0w

    #eau #plan_eau #lobbies #Macron #plan #mesures #sécheresse #plan_sécheresse #REUT #réutilisation_des_eaux_usées_traitées #FP2E #télérelève #Veolia #Suez #Saur #lobby #FNCCR #Comité_national_de_l’eau #Comité_de_bassin_Seine-Normandie #RIM #irrigation #bassines #changement_climatique #irrigation_agricole #agriculture #Compagnie_d’aménagement_des_coteaux_de_Gascogne (#CACG) #zéro_artificialisation #dépolitisation #politique #politique_de_l'eau #technostructure #gouvernance #SDAGE #SAGE #schéma_d'aménagement_et_de_gestion_des_eaux #schéma_directeur_d'aménagement_et_de_gestion_des_eaux #politique_publique #libéralisme #comité_d’anticipation_et_de_suivi_hydrologique (#CASH) #inaction #réseau #investissements #sous-investissement #Aquaprêt #collectivités_locales #Canalisateurs_de_France #fuites #eaux_usées #épuration #bassines #nappes_phréatiques #industrie_agro-alimentaire #loi_NOTRe

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    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/997687

  • La situation aux États-Unis

    https://mensuel.lutte-ouvriere.org//2023/02/25/etats-unis-apres-les-elections-de-mi-mandat_521783.html

    Les élections (de mi-mandat) de 2022 marquent une nouvelle forte poussée vers la droite

    Parler de «  gauche  » et de «  droite  » à propos des #démocrates et des républicains n’est pas approprié. Ces deux grands partis ont été les seuls à alterner au pouvoir pour diriger l’appareil d’État de la bourgeoisie au cours des 166 dernières années. En effet le système électoral américain favorise le #bipartisme. Les termes «  gauche  » et «  droite  » sont devenus des étiquettes utilisées pour distinguer les discours et les électorats des deux #partis_bourgeois. Ainsi, les travailleurs se sont rangés dans le camp des démocrates pendant une bonne partie du 20e siècle et les couches plus aisées dans celui des républicains.

    Quoi qu’il en soit, le soutien de la classe ouvrière aux démocrates ne cesse de diminuer depuis des années et, à l’approche des élections, cette tendance s’est confirmée  : le vote ouvrier pour les démocrates a baissé de près de 15 % en 2022.

    Le glissement des travailleurs blancs vers le camp républicain n’est pas nouveau. Il remonte au moins à l’élection de #Reagan en 1980, voire plus loin encore. Mais, en 2022, l’écart en faveur des républicains a été de 33 points, soit 8 points de plus qu’en 2020.

    Le recul des démocrates dans les électorats noir, latino et asiatique a été beaucoup moins important mais, à bien des égards, il pèse encore plus lourd. En grande majorité issus de la classe ouvrière, ces électeurs constituent depuis longtemps une sorte de socle sur lequel les démocrates comptent. En 2022, 80 % de l’#électorat_noir votait démocrate – ce qui reste considérable – mais ce résultat représente une baisse de sept points depuis les dernières élections de mi-mandat et s’inscrit dans la continuité de l’érosion qui a suivi la période 2008-2016, durant laquelle entre 90 et 97 % des Noirs votaient démocrate. Quant au vote hispanique, il s’est porté à environ 60 % sur les démocrates, soit une baisse de 10 points en quatre ans. Enfin, les électeurs d’origine asiatique ont voté démocrate à 64 %, soit une baisse de 7 points.

    Les Démocrates  : un parti «  progressiste  » qui a longtemps ratissé large

    […] Le #Parti_démocrate s’est attribué le mérite des réformes et des avancées que ces mouvements ont arrachées à la bourgeoisie pendant la longue période où l’hégémonie de l’#impérialisme américain, générant un surplus de richesses, permettait cette redistribution. Quels qu’aient été les tensions et les antagonismes – et ils étaient nombreux – entre les différents groupes composant le monde du travail, leur regroupement au sein du Parti démocrate semblait offrir une voie sur laquelle chacun pouvait poursuivre la lutte pour «  le progrès  ». De 1932 à 1980, le Parti démocrate domina la scène politique, les républicains ne jouant un rôle significatif que pendant l’intervalle de la période du #maccarthysme, la chasse aux sorcières contre les communistes, au début des années 1950.

    Avec le début de la crise économique en 1971, puis son aggravation à la fin des années 1970, la situation des travailleurs commença à se dégrader. Pour l’État de la bourgeoisie, l’heure n’était plus à distribuer des miettes pour maintenir la paix sociale. Frappée par la crise, la classe capitaliste attendait d’abord de l’État qu’il l’aide à maintenir ses profits, et cela impliquait d’abaisser le niveau de vie des travailleurs. Il fallait donc démanteler les #programmes_sociaux et les services publics créés pendant la longue expansion de l’après-guerre. Le Parti démocrate, en loyal serviteur de la bourgeoisie, fut en première ligne pour mener ces attaques.

    L’une des premières attaques importantes fut la faillite de la ville de #New_York en 1975, qui frappa durement les employés, les programmes sociaux et les services municipaux. Cette attaque fut supervisée par deux maires démocrates successifs. En 1978-1979 puis dans les années 1980, des pressions furent exercées sur les travailleurs de l’automobile pour qu’ils acceptent toute une série de concessions lors du renouvellement de leurs contrats. D’abord présentées comme temporaires, ces concessions furent ensuite rendues permanentes, et rapidement étendues au reste de la classe ouvrière. Et, là encore, l’attaque fut conduite par des politiciens démocrates, qui justifiaient les nouveaux contrats au nom de la sauvegarde des emplois dans l’#industrie_automobile.

    Pour décourager les travailleurs de faire valoir leurs revendications salariales au travers de grèves, les deux grands partis bourgeois se relayèrent. En 1981, les démocrates passèrent la main aux républicains, et #Ronald_Reagan mit tout le poids de l’État pour briser la grève des #contrôleurs_aériens. Les caciques du Parti démocrate et des syndicats prétendent que Reagan fut à l’origine du déclin constant qui s’est poursuivi jusqu’à aujourd’hui. En fait, la porte fut ouverte dès 1978, lorsque le président démocrate #Jimmy_Carter tenta d’utiliser la #loi_antisyndicale_Taft-Hartley, adoptée à l’ère McCarthy, pour briser une grève dans les mines de charbon qui dura 110 jours. Le dégoût des travailleurs envers Carter, après ce qui apparaissait comme une trahison, ne fut pas pour rien dans la victoire éclatante de Reagan en 1980.

    Entre les travailleurs et la bourgeoisie, un fossé en passe de devenir un gouffre

    La crise dans laquelle l’économie américaine est plongée depuis un demi-siècle a entraîné un effondrement du niveau de vie de la classe ouvrière.

    En 2022, le salaire horaire minimum au niveau fédéral était de 7,25 dollars. S’il avait suivi le rythme officiel de l’inflation depuis le pic de sa valeur réelle en 1968, il aurait été de 12 dollars. Et s’il avait suivi le rythme de la croissance de la productivité depuis 1968, comme entre 1938 et 1968, il aurait été de près de 26 dollars en 2022.

    L’évolution du #salaire_minimum illustre le fossé qui s’est creusé entre la #classe_ouvrière et les couches aisées au cours du dernier demi-siècle. Presque tous les gains de la croissance économique depuis le début de la crise ont été absorbés par la plus-value et les mille et une manières dont cette plus-value est répartie au sein des classes riches de cette société.

    Cette évolution s’est poursuivie jusqu’aux élections de 2022. En 2021, dernière année pour laquelle on dispose de données, la marge bénéficiaire nette des entreprises a été de 9,5 %, soit la valeur la plus élevée jamais enregistrée. Cette même année, la rémunération moyenne des PDG des 350 plus grandes entreprises a été 399 fois plus élevée que celle des salariés. En 1965, elle n’était «  que  » 20 fois plus élevée.

    La condition des travailleurs se détériore non seulement par rapport à celle des classes aisées, dont la situation s’améliore nettement, mais aussi en termes absolus

    L’inflation a grignoté la valeur réelle des salaires. Selon le département américain du Travail, le salaire horaire médian réel est au même niveau qu’en 1973. Lorsqu’il y a eu des augmentations, elles ont presque toutes bénéficié au décile supérieur de l’échelle des revenus. Ceux qui se situent dans les 40 % inférieurs ont vu leurs salaires baisser. De plus, les chiffres de l’inflation sont trafiqués et donnent une image déformée de la situation. Qui plus est, ces chiffres ignorent tous les autres facteurs qui ont réduit le revenu réel des travailleurs, à commencer par l’élimination des pensions et d’autres avantages sociaux autrefois considérés comme faisant partie de la masse salariale, ainsi que l’énorme augmentation des frais médicaux, qui constituent une ponction sur les revenus.

    Les statistiques gouvernementales masquent la réalité

    En témoigne le taux de chômage officiel avant les élections de 2022, de 3,5 % de la population active. Or, 37 % de la population en âge de travailler est exclue de ce que le gouvernement considère comme la population active. De nombreuses personnes sont exclues de ce comptage  : celles qui s’occupent d’enfants en bas âge, dans un pays où il n’existe pas de structures d’accueil publiques  ; celles dont les compétences et diplômes sont insuffisants pour occuper les emplois disponibles, dans un pays où le système scolaire public est incapable d’apprendre à lire à 40 % des enfants des écoles des grandes villes  ; ou encore les personnes handicapées à la suite d’accidents du travail, en raison de maladies professionnelles, voire par le Covid long qui a touché des millions de personnes, les empêchant de travailler, dans le pays affichant le pire taux de décès par Covid de tous les pays développés. Sont également exclues de la population active les personnes trop âgées pour être embauchées, mais qui n’ont pas encore atteint l’âge pour toucher les maigres aides sociales versées aux seniors. Les entreprises de la high-tech, en particulier le commerce en ligne et ses entrepôts, recherchent des travailleurs jeunes, forts, agiles et rapides, dont une grande partie sont relégués à des emplois temporaires ou à temps partiel, à des contrats ou à des emplois de type Uber.

    Les difficultés immédiates des travailleurs ont été aggravées par la dégradation sur le long terme des services publics et l’élimination ou la privatisation des services sociaux

    Lors des élections de 2022, les services publics comptaient près d’un million de travailleurs de moins que juste avant la pandémie. La classe capitaliste, avide d’aspirer une part croissante des richesses produites, cherche à s’approprier une portion croissante des sommes que le gouvernement dépensait jusqu’alors pour les infrastructures, les programmes sociaux et les services publics. Derrière la vitrine de cette grande et riche démocratie américaine, il y a peu de lois qui limitent le temps de travail, il y en a encore moins qui prévoient le paiement des arrêts maladie, et il n’y en a aucune garantissant des congés payés. Autrement dit, tout cela dépend de la bonne volonté de chaque patron. On a pu voir comment cela se traduit concrètement en 2020, aux pires moments de la pandémie, lorsque la moitié des travailleurs des industries dites essentielles n’ont pas eu droit à un seul jour de congé payé. Voici donc un pays où le système de santé est de plus en plus contrôlé par des entreprises privées, qui peuvent refuser des soins médicaux à qui ne peut pas payer.

    Telle est la réalité à laquelle est confrontée la population laborieuse aujourd’hui

    Telle est la réalité à laquelle est confrontée la population laborieuse aujourd’hui. Ses conséquences sont dramatiques. L’espérance de vie moyenne a diminué de près de deux ans et demi depuis 2019, après une baisse de deux ans en 2015-2016. Cela est imputable au Covid, certes, mais seulement en partie. Il y a tous les autres décès, dont beaucoup sont appelés par les médias «  morts par désespoir  »  : suicides, homicides, overdoses, abus d’alcool… Au premier rang des victimes, les anciens combattants des guerres – déclarées ou non – menées par l’impérialisme américain, et leurs proches. Mais il y a aussi les jeunes gens abattus dans la rue après avoir intégré, faute de la moindre perspective d’avenir, tel ou tel gang de quartier. Il y a les quelque cinq mille personnes tuées chaque année dans des accidents du travail, et les milliers d’autres qui meurent de la mort lente causée par les fumées, les produits chimiques et les Un encouragement pour l’extrême droite

    Faute d’une autre possibilité pour exprimer son mécontentement, la population s’est longtemps contentée de voter contre tous ceux qui semblaient diriger l’État. Dans un contexte où les démocrates étaient au premier plan pour imposer une détérioration des conditions de vie, et en l’absence d’un parti représentant la classe ouvrière, la porte était ouverte à un démagogue comme Trump.

    Donald Trump a su jouer sur le ressentiment éprouvé par beaucoup de gens du fait qu’ils étaient de plus en plus pauvres, marginalisés et méprisés par ceux d’en haut. Il a su toucher une population en plein désarroi, plongée dans une crise économique grandissante. Il a instrumentalisé la colère et la frustration des travailleurs, en tournant en dérision les institutions prétendument civilisées qui leur donnent des leçons et les regardent d’en haut  : les chefs des deux grands partis politiques, les médias, les universités et leurs experts, les agences gouvernementales et leurs hauts fonctionnaires, voire les stars de Hollywood, etc. Il s’en est pris à tout le monde, sauf à ceux dont le contrôle sur la société a mené à la crise, c’est-à-dire à la classe capitaliste. substances toxiques présentes sur leur lieu de travail. Il y a les tragédies des violences domestiques, qui sont la conséquence et le signe des pressions indicibles qui s’exercent au quotidien sur la vie des travailleurs.

    Un encouragement pour l’extrême droite

    Faute d’une autre possibilité pour exprimer son mécontentement, la population s’est longtemps contentée de voter contre tous ceux qui semblaient diriger l’État. Dans un contexte où les démocrates étaient au premier plan pour imposer une détérioration des conditions de vie, et en l’absence d’un parti représentant la classe ouvrière, la porte était ouverte à un démagogue comme Trump.

    #Donald_Trump a su jouer sur le ressentiment éprouvé par beaucoup de gens du fait qu’ils étaient de plus en plus pauvres, marginalisés et méprisés par ceux d’en haut. Il a su toucher une population en plein désarroi, plongée dans une crise économique grandissante. Il a instrumentalisé la colère et la frustration des travailleurs, en tournant en dérision les institutions prétendument civilisées qui leur donnent des leçons et les regardent d’en haut  : les chefs des deux grands partis politiques, les médias, les universités et leurs experts, les agences gouvernementales et leurs hauts fonctionnaires, voire les stars de Hollywood, etc. Il s’en est pris à tout le monde, sauf à ceux dont le contrôle sur la société a mené à la crise, c’est-à-dire à la classe capitaliste.

    Trump a servi les capitalistes en mettant au grand jour toutes les idées violentes et dévalorisantes que renferme l’idéologie dans laquelle baigne la société  : suprématie blanche, nativisme anti-immigrants, misogynie, intolérance envers la manière dont les gens vivent leur intimité, machisme et violence. Autrement dit, il a incité implicitement les gens à s’en prendre les uns aux autres. Et il a emballé tout cela dans le drapeau américain, le serment d’allégeance et la croix chrétienne qui décoraient ses réunions publiques.

    Rien de tout cela n’a commencé avec Trump. Il suffit de penser au rituel des réunions syndicales dans des salles ornées du drapeau américain

    Ces réunions commencent par la prière d’un prêtre local, souvent chrétien, et par le serment d’allégeance, ce verbiage patriotard pondu lors de la période McCarthy pour renforcer les attaques contre les militants communistes et syndicalistes. Chaque réunion syndicale qui commence ainsi entretient la soumission des travailleurs et leur loyauté à l’égard des dominants, et renforce les attaques contre eux-mêmes et toute leur classe.

    Trump a-t-il transformé le #Parti_républicain de manière temporaire ou permanente  ?

    Les républicains eux-mêmes n’en savent rien. Mais la question va bien au-delà du Parti républicain. Trump a donné à ses partisans une sorte de programme  : se défendre en attaquant tous les «  autres  ». Ce faisant, il a courtisé consciemment l’extrême droite. Quand, après la série de rassemblements d’extrême droite à Charlottesville en 2018, il a dit qu’il y avait des «  gens bien  » dans cette foule (ce qu’il a répété plusieurs fois par la suite), il déroulait le tapis rouge au Ku Klux Klan, aux nazis et aux Proud Boys.

    Le problème dépasse la personne de Trump

    Dans un nombre croissant de pays, des démagogues de son espèce jouent un rôle très similaire. Cela signifie que quelque chose, dans la situation internationale actuelle, sur les plans politique et économique, favorise ce mouvement vers la droite, renforçant les formations d’#extrême_droite existantes.

    Aux États-Unis, des organisations comme le #KKK, les nazis, la #Black_Legion, les Know Nothing, les mafias et les gangs font partie du paysage depuis longtemps. La plupart du temps marginales mais toujours là, elles ont périodiquement joué un rôle de supplétifs pour renforcer la violence étatique  : dans le Sud, pour réimposer l’esclavage pendant les décennies qui ont suivi la guerre de Sécession  ; dans les quartiers d’immigrants, pour maintenir un ordre que la police était incapable d’imposer  ; à #Chicago, où le gang #Black_P_Stone_Nation, de concert avec le maire démocrate Richard J. Daley, expulsa l’équipe SCLC de #Martin_Luther_King du ghetto du West Side  ; dans les régions minières, où les Pinkerton massacrèrent des mineurs comme les #Molly_Maguires  ; ou à Centralia dans l’État de Washington, où l’American Legion exécuta des militants de l’#IWW en 1919, et à #Minneapolis où elle assassina des grévistes  ; ou dans le Michigan en 1934, où la #Black Legion tua des militants du syndicat #UAW. Et puis tous ceux, de Jimmy Hoffa à Dow Wilson, qui furent tués par la mafia.

    Ces forces marginales ont toujours existé aux États-Unis, mais #Trump leur a permis de gagner en crédibilité aux yeux de certains travailleurs. Si le climat devait à nouveau se détériorer, cette crédibilité pourrait leur donner un poids leur permettant d’amener une partie de la classe ouvrière à attaquer l’autre.

    L’absence aux États-Unis d’un parti ouvrier, qui représenterait les intérêts tant immédiats qu’à long terme de la classe ouvrière, a constitué une opportunité pour un démagogue comme Trump, mais pourrait aussi jouer un rôle dans un développement de l’extrême droite au sein même de la classe ouvrière.

    Une voix pour les travailleurs

    Depuis l’époque d’#Eugène_Debs, il y a plus d’un siècle, il n’a pas existé d’organisation politique capable de s’adresser à tous les travailleurs, sur la base de leurs intérêts de classe immédiats et à long terme. Le Parti socialiste du temps de Debs ne le faisait pas, mais il constituait pour Debs une tribune qui lui permettait de s’adresser à la classe ouvrière à travers tout le pays, et il le fit avec un langage correspondant aux problèmes auxquels elle faisait face et aux possibilités dont elle disposait. Il affirmait qu’il avait confiance dans la capacité de la classe ouvrière à «  détruire toutes les institutions capitalistes qui asservissent et avilissent et à rebâtir des institutions libres et humaines  ». En pleine Première Guerre mondiale, lors du procès qui le conduisit en prison pour s’être opposé à l’entrée en guerre des États-Unis, il déclara  : «  Je ne suis pas un soldat capitaliste  ; je suis un révolutionnaire prolétarien… Je suis opposé à toutes les guerres, à une seule exception… et, dans cette guerre-là, je m’engagerai corps et âme… je parle de la guerre mondiale de la révolution sociale. Dans cette guerre, je suis prêt à combattre de toutes les manières que la classe dominante rendra nécessaires, même sur les barricades.  »

    Aujourd’hui, il n’y a toujours pas de parti de la classe ouvrière. C’est même pire qu’à l’époque de Debs

    Mais le but reste le même  : ceux qui veulent mettre en place une nouvelle société et ont confiance dans la capacité de la classe ouvrière à le faire doivent trouver les moyens de s’adresser à elle, en parlant des problèmes actuels des travailleurs, mais en le faisant à partir de la perspective du combat que la classe ouvrière devra mener pour diriger la construction d’une société socialiste.

    C’est exactement ce que des militants ont tenté de faire en utilisant les élections de 2022 dans le #Michigan, le #Maryland et l’#Illinois pour parler au nom du #WCP (#Working_Class_Party – Parti de la classe ouvrière). Cette poignée de militants ne prétendent pas être le #parti_révolutionnaire dont on a besoin et qui n’existe pas encore. Ils ne peuvent certainement pas prétendre faire ce que Debs a pu faire grâce à sa propre expérience de la lutte des travailleurs et à l’activité de toute une génération de militants.

    Mais ceux qui ont mené, dans ces trois États, la campagne pour un Parti de la classe ouvrière se sont au moins donné les moyens de dire ce qui devait l’être sur la dégradation de la condition ouvrière, sur la croissance des forces de droite et sur les possibilités dont dispose la classe ouvrière du fait de son rôle clé au cœur même du système de production et de tout ce qui lui est lié.

    Il n’y aura pas de solution à la misère croissante tant que la classe ouvrière ne se préparera pas à la bataille

    #capitalisme #États-Unis

    • Négocier le poids des chaines : Emmanuel Macron : pour discuter des questions liées au travail, « je suis à la disposition de l’intersyndicale »
      https://www.lemonde.fr/politique/live/2023/03/24/retraites-en-direct-je-suis-a-la-disposition-de-l-intersyndicale-pour-discut

      Le chef de l’Etat a assuré, lors d’une conférence de presse en marge du sommet européen, qu’il était prêt à échanger avec les syndicats sur les questions liées au travail, sans mentionner les pensions. Usure au travail, fins de carrière, reconversion professionnelle, évolution de carrière, conditions de travail, rémunérations dans certaines branches : « Je suis à la disposition de l’intersyndicale si elle souhaite venir me rencontrer sur ces sujets », a-t-il dit, sans inclure la question des retraites.

      Quant à la réforme qui a fédéré contre elle de nombreux Français, « il y a un chemin démocratique qui doit se poursuivre » avec l’avis attendu du Conseil constitutionnel, a déclaré le président.

      Le chef de l’Etat a mis l’accent sur la suite de son agenda, évoquant les pénuries d’eau, la réforme du marché du travail, l’amélioration de la sécurité ou encore la loi de programmation militaire. « Nous continuons à avancer, le pays ne peut pas rester à l’arrêt », a-t-il fait valoir.

      Quant aux troubles de jeudi, M. Macron a dit condamner les violences. « Nous aurons la plus grande fermeté » contre leurs auteurs, a-t-il prévenu. Quant aux images de policiers s’en prenant à des manifestants, « c’est toujours une difficulté quand il y a des moments de très fortes tensions », a-t-il ajouté, précisant que des « messages très clairs » ont été passés en matière de « respect de la déontologie ».

      « J’ai surtout vu des scènes où beaucoup de nos policiers, de nos gendarmes étaient l’objet d’agressions totalement disproportionnées de la part de militants extraordinairement violents et équipés », a-t-il ajouté, précisant : « Nous ne céderons rien à la violence. »

  • Dominos. Suite aux déclarations d’Emmanuel Macron, La Cimade demande l’abandon pur et simple du projet de loi asile et immigration - La Cimade
    https://www.lacimade.org/presse/suite-aux-declarations-demmanuel-macron-la-cimade-demande-labandon-pur-et-

    Lors de son interview, le président de la République a confirmé que le projet de #loi #asile et #immigration serait retiré de l’ordre du jour de la séance publique du Sénat la semaine prochaine. Pour La Cimade, cette annonce était la seule possible : dans la crise sociale, politique et démocratique que nous traversons, notre société a plus que jamais besoin de solidarité, de cohésion, de justice ; certainement pas de davantage de répression et de stigmatisation des personnes exilées, à travers un projet de loi qui était porteur de graves atteintes aux droits.

    la programmation gouvernementale prends des coups, youpi !

    #xénophobie_d'État

  • Le maire de Saint-Brevin était menacé : ses voitures et sa maison touchées par un incendie
    Ouest-France Modifié le 22/03/2023
    https://www.ouest-france.fr/pays-de-la-loire/saint-brevin-les-pins-44250/le-maire-de-saint-brevin-etait-menace-ses-voitures-et-sa-maison-touchee
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAyMzAzOGVkZTE5ZGJiMWI0N2FiZGI0ZTM5YjJiMTNlMTg5MjU?width=1260&he

    Le pont de Saint-Nazaire étant bloqué ce mercredi 22 mars, les automobilistes ont dû faire demi-tour. Sur le chemin de Saint-Brevin-les-Pins, des personnes ont aperçu des flammes et se sont rendues sur place. Il s’agissait du domicile du maire, Yannick Morez. Sa maison a pris feu, vers 5 h, alors qu’il dormait. Selon les premières pistes d’enquête, l’incendie pourrait avoir été provoqué par un cocktail Molotov jeté sur sa voiture. Il se serait ensuite propagé à l’autre voiture, puis à la façade de la maison.

    Le maire déjà menacé

    Yannick Morez a essayé d’éteindre l’incendie avec un extincteur mais les flammes étaient déjà trop importantes. Elles ont gagné également un deuxième véhicule stationné sur place. La chaleur était si forte que les éléments en ​plastique de la fermeture du portail ont fondu, pourtant situés à plus de quatre mètres de la voiture.

    Depuis le projet de transfert du Cada (Centre d’accueil des demandeurs d’asile), le maire et ses adjoints font l’objet de menaces depuis quelques semaines.

    #racisme #extrême-droite

  • Une étude révèle que les automobilistes enfreignent la #loi pour gagner du temps, tandis que les #cyclistes l’enfreignent pour sauver des vies
    http://carfree.fr/index.php/2023/03/13/une-etude-revele-que-les-automobilistes-enfreignent-la-loi-pour-gagner-du-te

    Les chercheurs ont constaté que presque tous les usagers de la route enfreignent la loi, mais que les raisons de ces infractions diffèrent d’un mode à l’autre. Les automobilistes enfreignent Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Insécurité_routière #Vélo #londres #recherche #relations_cyclistes-automobilistes #sécurité_routière #vitesse

  • Pour ceux qui bougent (en 2023) : 2016 dans le rétroviseur - (La véritable histoire du Cortège de Tête)
    https://lundi.am/Pour-ceux-qui-bougent-en-2023-2016-dans-le-retroviseur

    Des centrales syndicales au ministère de l’Intérieur, tout le monde s’y accorde : si l’on s’en tient au décompte du nombre de manifestantes, la mobilisation contre la réforme des retraites constitue le plus grand mouvement social en France depuis des années. Pourtant, à hauteur de pavé, l’ambiance dans les rues paraît relativement morose, l’énergie manque et l’encadrement policier étouffe. Beaucoup regrettent 2016 et ses suites, soit l’apparition de nouvelles manières de manifester et de déborder le rituel syndical, ce qu’il est de coutume d’appeler le Cortège de Tête. Dans le texte qui suit, d’anciens lycéens participants du MILI (Mouvement Inter Luttes Indépendant) reviennent sur cette période et la genèse du fameux Cortège de Tête. Ils viennent nous rappeler que pour que s’inventent de nouvelles formes à même de créer des brèches et d’ouvrir des possibles, il faut parfois quelques « conditions objectives » mais surtout et toujours, de l’audace.

    [...] Le Cortège de Tête n’est pas apparu par magie. Il n’était pas moins le produit de la spontanéité que celui des « conditions objectives ». C’est une forme de conflictualité qui s’est imposée et diffusée progressivement dans la manif syndicale sous l’impulsion des bandes, pour ensuite s’en autonomiser. C’est d’ailleurs cette même énergie, ce même dissensus, qui a tenté d’être déployé ailleurs - 11h Nation, Nuits Debout, manifs sauvages -, y trouvant sa place de manière plus limitée. sans rencontrer le même écho (avec une pertinence ponctuelle mais pas la même persistance). Le Cortège de Tête s’est d’ailleurs transformé tout au long de la séquence avant que sa forme ne se stabilise, ne se folklorise, voire ne se sclérose. Il était dominé tantôt par son côté festif, tantôt par un mode black bloc, ou bien encore une tonalité k-way-noirs-chasubles-rouges : ainsi la conflictualité ne s’y incarnait pas toujours de la même manière. Pourtant il a signifié un temps, pour ce mouvement là, le « saut qualitatif », la forme adéquate.

    Voilà qui n’est a priori plus vrai en 2023.
    Si le Cortège de Tête s’est installé, durablement, et jusqu’aux manifs actuelles contre la réforme des retraites, il n’est plus synonyme de franchissement d’obstacles (contestation de la main-mise de l’espace de la représentation politique par le conservatisme de gauche, moyens d’une offensivité collective, thématisation du mouvement sur un au-delà d’un combat réformiste). C’est un ersatz, tributaire d’une forme automatique mais progressivement évidée de sa substance : une salle d’attente. On y espère encore l’événement - certains tentent parfois de l’activer - mais il ne vient pas, ou peu.

    #manifs #manifestations #organisation #cortège_de_tête #auto-organisation #loi_travail

  • Manifestation à Paris du 4 mars 2023 contre la loi Darmanin

    Partant de Château Rouge, le cortège a remonté les quartiers populaires du 18e arrondissement jusqu’à la Porte de la Chapelle. Nous sommes passés devant le futur site olympique « Arena », notoirement connu, comme d’autres chantiers des jeux de 2024, pour employer des travailleurs sans papiers.

    Nous avons ensuite emprunté les maréchaux par le Boulevard Ney, en nous arrêtant devant le bâtiment de la Poste. Un porte-parole a dénoncé la responsabilité en cascade de cette entreprise dans l’emploi de travailleurs sans papier par l’intermédiaire de ses filiales DPD et Chronopost, ces dernières faisant elles-mêmes appel à des sous-traitants.

    D’autres prises de paroles se sont succédé, à la fin de la manifestation, au niveau de la Porte d’Aubervilliers.

    Prochaine échéance, partout en France : samedi 25 mars 2023

    https://blogs.mediapart.fr/uni-es-contre-limmigration-jetable/blog

    https://www.geo.fr/geopolitique/sur-les-chantiers-des-jeux-olympiques-de-paris-2024-le-tabou-des-travailleurs-sa

    https://solidaires.org/sinformer-et-agir/actualites-et-mobilisations/communiques/greve-des-travailleurs-sans-papiers-de-dpd-et-chronopost

    #loi_Darmanin #CRA #Centre_de_rétention_administrative #sans_papier #OQTF #obligation_de_quitter_le_territoire_français #IRTF #interdiction_de_retour_sur_le_territoire_français #Arena #jeux_olympiques #la_Poste #Chronopost

  • Pendant ce temps-là, les puissances occidentales mettent en ordre de bataille les esprits et transforment à vitesse accélérée leurs économies en «  économies de guerre  »

    Contre la guerre en Ukraine et sa généralisation
    https://mensuel.lutte-ouvriere.org/2023/02/25/contre-la-guerre-en-ukraine-et-sa-generalisation_521781.html

    Poutine, qui nie jusqu’à l’existence d’une nation ukrainienne, aura, par son sanglant mépris des peuples, contribué à ce que s’affirme le sentiment d’appartenir à l’Ukraine, alors qu’il peinait à prendre corps malgré les efforts du pouvoir et des nationalistes.

    L’échec relatif de Poutine résulte, entend-on souvent, de la mobilisation d’un peuple dressé pour défendre sa patrie, rien de tel ne motivant les soldats russes. Certes. Mais ce n’est qu’une partie de la réalité. Si l’Ukraine a tenu bon, malgré une industrie et une armée a priori moins fortes que celles du Kremlin, elle le doit avant tout à la trentaine de membres de l’OTAN, dont les États-Unis, l’Allemagne, la Grande-Bretagne, la France, qui l’ont armée, financée et soutenue de bien des façons. Et ils ne cessent de surenchérir en ce domaine, tel Biden encore le 20 février à Kiev.

    Quand les pays de l’OTAN livrent à l’Ukraine des armements de plus en plus sophistiqués, de plus en plus efficaces, ils poursuivent un objectif immédiat proclamé  : éviter la défaite de l’Ukraine et faire durer la guerre afin d’affaiblir la Russie, et si possible la mettre à genoux.

    Cela pour montrer au monde entier ce qu’il en coûte de ne pas s’incliner devant l’ordre impérialiste. Les propos de Biden à Varsovie  : «  L’Ukraine ne sera jamais une victoire pour la Russie  », son refus affiché de toute négociation avec Poutine, le fait que les dirigeants occidentaux ont tous adopté la même posture et le même langage ces derniers temps, tout cela va dans le même sens.

    Le conflit en cours n’est pas la principale raison d’une escalade que l’Occident mène tambour battant. Il fait aussi office de toile de fond pour une mise en ordre de bataille des esprits, ne serait-ce que par la banalisation d’une guerre qui s’installe pour durer, dans une Europe qui n’en avait plus connu depuis 1945, exception faite des bombardements de la Serbie par l’OTAN, il y a un quart de siècle.

    Une mise sur le pied de guerre qui vaut aussi pour les économies de chaque pays, dans un monde capitaliste qui s’enfonce dans la crise sans que ses dirigeants y voient d’issue. Certes, les dirigeants du monde capitaliste n’ont pas encore choisi la fuite en avant vers une conflagration généralisée, comme celle qui conduisit à la Première et à la Deuxième Guerre mondiale, mais rien ne garantit que le conflit ukrainien ne risque pas, à tout moment, de précipiter l’humanité dans une nouvelle guerre mondiale.

    Le conflit en Ukraine sert déjà de terrain d’entraînement aux États impérialistes pour préparer l’éventualité d’un affrontement dit de haute intensité, que les états-majors militaires et politiques envisagent explicitement. Il sert aussi aux chefs de file de l’impérialisme à renforcer des blocs d’États alliés, avec leurs réseaux de bases sur le pourtour de la Russie et de la Chine.

    sommant les autres États de se rallier à ces alliances militaires et d’adopter des trains de sanctions contre la Russie, même quand cela va à l’encontre de leurs intérêts et de ceux, sonnants et trébuchants, de leurs capitalistes. On le constate pour l’arrêt des importations de gaz et de pétrole russes, l’interdiction de commercer avec la Russie, d’y maintenir des activités industrielles, ce qui pénalise des pays européens, dont l’Allemagne et la France, mais profite aux États-Unis.

    Si un fait nouveau, capital pour l’avenir de l’humanité, s’est fait jour au feu de cette guerre, c’est l’évolution rapide de la situation mondiale dans le sens de sa #militarisation.

    Poutine a répondu de façon monstrueuse à la pression continue de l’impérialisme en Europe de l’Est en lançant ses missiles et ses tanks sur l’Ukraine le 24 février 2022. Mais c’est l’impérialisme qui s’est préparé depuis longtemps à aller à la confrontation.

    ... à plonger tôt ou tard l’Ukraine dans la guerre, donc à faire de ses habitants les otages d’une rivalité qui les dépasse, car elle oppose le camp mené par les États-Unis à la Russie, avec son dictateur, ses bureaucrates et ses oligarques pillards. D’un côté ou de l’autre, il n’y a nulle place pour le droit des peuples à décider de leur destinée, même si on veut nous le faire croire.

    L’ex-chancelière Angela Merkel n’en croit rien. Elle le dit dans une interview où elle revient sur la crise qui s’ouvrit en février 2014, quand le président ukrainien d’alors, contesté par la rue et surtout lâché par des secteurs de la bureaucratie et de l’oligarchie, dut s’enfuir. Le pouvoir issu du #Maïdan s’alignant sur les États-Unis, Poutine récupéra alors la #Crimée et poussa le Donbass à faire sécession. Les accords de Minsk, que Merkel parrainait avec Hollande et auxquels avaient souscrit Moscou et Kiev, devaient régler pacifiquement le différend, prétendait-elle à l’époque. Elle avoue désormais qu’il s’agissait d’un leurre. «  Poutine, explique-t-elle, aurait [alors] pu facilement gagner. Et je doute fortement que l’OTAN aurait eu la capacité d’aider l’Ukraine comme elle le fait aujourd’hui. […] Il était évident pour nous tous que le conflit allait être gelé, que le problème n’était pas réglé, mais cela a justement donné un temps précieux à l’Ukraine.  » Et à l’OTAN pour préparer l’affrontement avec Moscou.

    Le conflit couvait depuis l’effondrement de l’#URSS en 1991. Dès ce moment-là, États-Unis et Union européenne furent à la manœuvre pour aspirer l’Europe de l’Est dans l’orbite de l’OTAN. Des conseillers de la Maison-Blanche expliquaient qu’il fallait détacher l’Ukraine de la Russie, pour que celle-ci n’ait plus les moyens de redevenir une grande puissance.

    Or, après les années Eltsine (1991-1999), d’effondrement économique, d’éclatement de l’État et de vassalisation humiliante du pays par l’Occident, Poutine et la bureaucratie russe voulaient restaurer la #Grande_Russie.

    Une première tentative de l’Occident pour aspirer l’Ukraine eut lieu en 2004 sous l’égide du tandem ­Iouchtchenko­-­Timochenko, tombeur du pro-russe Ianoukovitch. Elle tourna court, la population, dégoûtée, finissant par rappeler Ianoukovitch. Elle allait le chasser à nouveau en 2014. Cette fois fut la bonne pour le camp occidental et signifiait la guerre  : dans le #Donbass, que l’armée de Kiev et des troupes d’extrême droite disputaient aux séparatistes, elle fit 18 000 morts et des centaines de milliers de réfugiés. Huit ans plus tard, tout le pays bascula dans l’horreur.

    Les dirigeants américains et européens savaient que Moscou ne pouvait accepter une Ukraine devenue la base avancée de l’OTAN. Ils savaient quels risques mortels leur politique impliquait pour les Ukrainiens, et pour la jeunesse russe que Poutine enverrait tuer et se faire tuer. Cette guerre, l’OTAN l’avait rendue inéluctable depuis 2014, en armant, entraînant, conseillant l’#armée_ukrainienne et les troupes des nationalistes fascisants.

    Les dirigeants occidentaux n’en avaient cure, car faire la guerre avec la peau des peuples est une constante de la politique des puissances coloniales, puis impérialistes. On le vérifie encore une fois dans le sang et la boue des tranchées en #Ukraine, dans les ruines des HLM de #Kharkiv, #Kherson ou #Donetsk que les missiles des uns ou des autres ont fait s’effondrer sur leurs habitants. N’en déplaise aux médias d’ici qui ressassent la fable d’un conflit soudain opposant le petit David ukrainien isolé et désarmé qu’agresserait sans raison le grand méchant Goliath russe.

    À l’occasion du premier l’anniversaire de l’invasion de l’Ukraine, on a eu droit au rouleau compresseur d’une #propagande sans fard dans les #médias. Il y aurait le camp du Mal (la Russie, l’Iran et surtout la Chine), face au camp du Bien, celui des puissances qui, dominant la planète, y garantissent la pérennité du système d’exploitation capitaliste au nom de la démocratie ou de la sauvegarde de pays comme l’Ukraine, dès lors qu’ils leur font allégeance.

    Cette propagande massive vise à s’assurer que l’opinion publique adhère sans réserve à ce qu’on lui présente comme la défense d’un peuple agressé, en fait, à la guerre que mènent les grandes puissances par Ukrainiens interposés. Car, au-delà de ce qu’il adviendra de la Russie et du régime de Poutine – une des préoccupations contradictoires des États impérialistes, qui disent vouloir la victoire de Kiev tout en craignant qu’une défaite de Poutine déstabilise de façon incontrôlable la Russie et son «  étranger proche  » – ces mêmes États visent un objectif au moins aussi important pour eux. Ils veulent enchaîner à leur char de guerre leur propre population, dans le cadre ukrainien, tout en ayant en vue des conflits plus larges à venir.

    En fait, le conflit ukrainien a tout du prologue d’un affrontement plus ou moins généralisé, dont politiques, généraux et commentateurs désignent déjà la cible principale  : la Chine. Ainsi, Les Échos du 15 février a mis à sa une un article qui titrait  : «  Pour l’Amérique, la Chine redevient l’ennemi numéro un  », après que «  la guerre en Ukraine [avait un temps détourné son attention] de la confrontation  » avec la Chine.

    Déjà, les steppes, les villes et le ciel d’Ukraine servent autant aux états-majors et industriels occidentaux à affronter la #Russie, par soldats ukrainiens interposés, qu’à tester sur le vif leurs #blindés, pièces d’#artillerie, #systèmes_de_commandement, de communication, d’interception, de renseignement, et à en tirer les leçons voulues. Ils y voient aussi une aubaine pour se débarrasser de #munitions et d’engins plus ou moins anciens que les combats vont consommer . Conséquence favorable pour eux, cela justifie l’escalade des livraisons d’armes et, de ce fait, l’explosion des #budgets_militaires afin de doper les #industries_de_guerre.

    Cette conjoncture permet à des États d’engranger des commandes, parfois énormes, de pays dépendants de protecteurs plus puissants et des leaders des marchés de l’#armement.

    Ainsi, Varsovie a envisagé de donner à Kiev des vieux Mig-29 de conception soviétique pour les remplacer par des F-16 américains, et promis de lui livrer d’anciens chars Leopard, qu’elle remplacera par de nouveaux modèles. Évidemment, cela ne fait l’affaire ni de Dassault ni du char Leclerc français qui peine à trouver preneur. C’est que, même alliés au sein de l’OTAN, voire soucieux d’afficher leur unité, comme Biden l’a souligné lors de la promesse que lui et Scholtz ont voulue simultanée de livrer des tanks à Kiev, les États impérialistes restent rivaux sur ce terrain, comme sur d’autres. Les États-Unis se réservent la part du lion, avec des commandes d’armement qui ont doublé en 2022, à la mesure de leur puissance industrielle, de leur suprématie militaire… et des guerres à venir.

    Ces commandes d’armes pour l’Ukraine, qui s’ajoutent à celles que l’on dit destinées à remettre à niveau chaque armée occidentale, servent autant à tenir la dragée haute à #Poutine qu’à transformer à vitesse accélérée les #économies occidentales en «  #économies_de_guerre  », selon les termes même du programme que se sont fixé les ministres de la Défense des pays de l’#OTAN, lors de leur sommet des 14-15 février à Bruxelles. Depuis des mois, les dirigeants politiques occidentaux et plus encore les chefs de leurs armées discutent publiquement et concrètement d’une guerre généralisée qu’ils savent s’approcher. Ainsi, à Brest, l’#amiral_Vandier, chef d’état-major de la Marine, a lancé à la nouvelle promotion d’élèves-­officiers  : «  Vous entrez dans une Marine qui va probablement connaître le feu à la mer.  » Certains avancent même une date pour cela, tel le général Minihan, chef des opérations aériennes aux #États-Unis  : «  J’espère me tromper, mais mon intuition me dit que nous nous affronterons en 2025  » avec la #Chine.

    Ukraine  : un effroyable bilan humain, social et économique

    En attendant, la guerre en Ukraine a déjà tué ou blessé 180 000 militaires russes, à peine moins de soldats ukrainiens, et tué plus de 30 000 civils, estime le chef de l’armée norvégienne, membre de l’OTAN. 7,5 millions d’Ukrainiens ont trouvé refuge en Pologne, Slovaquie, Autriche, etc., et en Russie. Parmi eux se trouvent une écrasante majorité de femmes et d’enfants, car les hommes de 18 à 60 ans, mobilisables, ont l’interdiction de quitter le territoire. Il y a aussi plusieurs millions de déplacés dans le pays même.

    De nombreuses villes, grandes ou petites, ont été bombardées, parfois rasées, les infrastructures énergétiques partout frappées, ce qui a plongé la population dans l’obscurité et le froid. Le montant des destructions de routes, ponts, voies ferrées, ports, aéroports, entreprises, écoles, hôpitaux, logements… atteignait 326 milliards de dollars, selon ce qu’estimait le Premier ministre en septembre dernier. Ce montant, déjà colossal, n’a pu que croître depuis, ne serait-ce que parce qu’il s’accompagne d’énormes détournements qu’ont effectués et que vont effectuer ministres, généraux, bureaucrates et oligarques ukrainiens.

    Zelensky a reconnu la corruption de l’appareil d’État jusqu’au sommet quand il a limogé une partie de son gouvernement, dont les ministres de la Défense et de la Reconstruction, et plusieurs très hauts dirigeants. Cela ne change rien à la nature d’un État qui, source principale des nantis comme en Russie, est l’un des plus corrompus au monde  : plus que l’État russe, dit-on, ce qui n’est pas rien. En fait, Zelensky n’avait pas le choix  : une commission américaine de haut niveau avait débarqué à Kiev pour vérifier ce que devenait l’aide colossale fournie par l’oncle d’Amérique. Après tout, même si l’État américain est richissime, il a aussi ses bonnes œuvres (industriels de l’armement, financiers, capitalistes de haut vol) et ne veut pas qu’une trop grosse part des profits de guerre file dans poches des bureaucrates, oligarques et maffieux ukrainiens.

    Et puis, au moment même où l’Occident annonçait fournir des tanks à l’État ukrainien, il ne s’agissait pas que le régime apparaisse pour ce qu’il est  : celui de bandits prospérant sur le dos de la population. Cela s’adressait moins à l’opinion occidentale, qui ne connaît de la situation que ce qu’en disent les médias, qu’à la population ukrainienne.

    Victime des bombardements et exactions de l’armée russe, elle se rend compte qu’elle est aussi la victime des parasites de la haute bureaucratie, des ministres véreux ou des généraux voleurs. Et l’union sacrée n’a pas fait disparaître les passe-droits qui permettent aux nantis de profiter en paix de leur fortune à l’étranger, tandis que leurs sbires de la police raflent les hommes, valides ou pas, pour le front. Les résistances que cela provoque ici ou là n’ont rien pour étonner dans un tel contexte, d’autant que, si l’armée a d’abord pu compter sur des volontaires, ceux qu’elle mobilise maintenant n’en font, par définition, pas partie.

    Tout à leurs commentaires dithyrambiques sur un régime censé incarner la démocratie et l’unité d’un peuple derrière ses dirigeants, les médias français préfèrent tirer un voile pudique sur des faits qui pourraient gâcher leur tableau mensonger.

    [...] Le régime de la bureaucratie russe et de ses oligarques milliardaires, lui-même bien mal en point socialement et économiquement, corrompu, policier et antiouvrier, ne peut représenter aucun avenir pour la population ukrainienne, même russophone.

    Quant au régime qu’incarne Zelensky, ce chargé de pouvoir des grandes puissances et de leurs trusts qui lorgnent sur les richesses agricoles et minières de l’Ukraine ainsi que sur sa main-d’œuvre qualifiée, afin de l’exploiter avec des salaires misérables , ce qui a commencé dès 2014, le conflit lui a sans doute sauvé la mise, au moins dans un premier temps. Comme dans toute guerre, la population s’est retrouvée bon gré mal gré derrière un pouvoir qui se faisait fort de la défendre. Mais gageons que de larges pans des classes populaires n’ont pas oublié pour autant ce qu’avait fini par leur inspirer cet acteur devenu président, qui avait joué au «  serviteur du peuple  » pour mieux préserver les intérêts des nantis.

    S’affrontant sur le terrain par peuples interposés, les dirigeants occidentaux, représentants d’une bourgeoisie impérialiste qui domine le monde, les dirigeants russes, représentants des parasites qui exploitent les travailleurs de Russie, les dirigeants ukrainiens, représentants de leurs oligarques autant que des trusts occidentaux, sont tous des ennemis des classes populaires, de la classe ouvrière.

    Et les travailleurs, où qu’ils se trouvent, quelle que soit leur nationalité, leur langue ou leur origine, n’ont aucune solidarité à avoir, sous quelque prétexte que ce soit, avec «  l’ennemi principal qui est toujours dans notre propre pays  », comme disait le révolutionnaire allemand Karl Liebknecht en 1916, en pleine Première Guerre mondiale.

    Partout, la marche à une économie de guerre

    Le 6 février, Antonio Guterres, secrétaire général de l’ONU [...] : «   Le monde se dirige les yeux grand ouverts [vers] une guerre plus large .  »

    On vient d’en avoir la confirmation au sommet des ministres de la Défense des membres de l’OTAN. Il leur a été demandé, selon Les Échos, «  de passer en #économie_de_guerre  », de relancer et activer la #production_d’armements, et d’abord d’#obus, de #chars et de pièces d’artillerie, pour faire face à «  une #guerre_d’usure  » en Ukraine. Et de préciser que si, il y a dix ans, les États-Unis demandaient à leurs alliés de monter leurs #dépenses_militaires à 2 % de leur produit intérieur brut, ce chiffre est désormais considéré comme un plancher que beaucoup ont dépassé. La conférence sur la sécurité en Europe qui a suivi, à Munich, a réuni la plupart des dirigeants européens et mondiaux pour aller dans le même sens.

    C’est ce qu’ils font en cherchant à persuader leur population de l’inéluctabilité de la guerre  ; en lui désignant comme ennemis certains pays, au premier rang desquels la Russie et la Chine  ; en déployant une propagande insidieuse mais permanente dans les médias autour de thèmes guerriers  ; en mettant l’accent sur la préparation de la #jeunesse à servir «  sa  » nation, à la défendre, sans jamais dire qu’il s’agira de la transformer en #chair_à_canon pour les intérêts des classes possédantes. Le gouvernement français s’en charge avec son #Service_national_universel, qui vise à apprendre à des jeunes à marcher au pas, avec des reportages télévisés plus ou moins suscités sur le service à bord de navires de guerre, sur des régions sinistrées (Saint-Étienne) où la reprise de la production d’armes ferait reculer le chômage. Le nouveau ministre allemand de la Défense se situe sur le même terrain, lui qui veut rétablir le service militaire et faire de la Bundeswehr la première armée du continent grâce aux 100 milliards de hausse de son #budget.

    En juin dernier, Macron avait annoncé la couleur avec son plan Économie de guerre doté par l’État de 413 milliards sur sept ans. Il fallait «  aller plus vite, réfléchir différemment sur les rythmes, les montées en charge, les marges, pour pouvoir reconstituer plus rapidement ce qui est indispensable pour nos #armées, pour nos alliés ou pour celles [comme en Ukraine] que nous voulons aider  ». Et, s’adressant aux dirigeants de l’organisme qui regroupe les 4 000 entreprises du secteur militaire, il leur avait promis des décisions et, surtout, des #investissements. Pour les #profits, la guerre est belle…

    Bien au-delà du conflit ukrainien, la cause profonde de l’envolée des budgets militaires est à chercher dans la crise du système capitaliste mondial, qui va s’aggravant sans que quiconque dans les milieux dirigeants de la bourgeoisie en Europe et en Amérique sache comment y faire face.

    Comme à chaque fois que le monde se trouve confronté à une telle situation, la bourgeoisie et ses États en appellent à l’industrie d’armement pour relancer l’économie. Car, grâce au budget militaire des États, elle échappe à la chute de la demande qui affecte les secteurs frappés par la baisse du pouvoir d’achat des couches populaires et, en dopant le reste de l’économie par des commandes de machines, de logiciels, de matériaux, de matières premières, etc., la bourgeoisie peut espérer que cela l’aidera à maintenir le taux de profit général.

    [...] même quand certains prétendent chercher une solution de paix à une guerre que leur politique a suscitée, la logique de leur politique d’armement continu de l’un des deux camps sur le terrain, celle de la militarisation de l’économie de nombreux pays sur fond d’une crise générale dont l’évolution leur échappe, tout cela fait que, de la guerre en Ukraine à un conflit plus large, la distance pourrait être bien plus courte qu’on ne le croit.

    Contrairement à ce qu’affirme Guterres, ce n’est pas toute l’humanité qui avance vers l’abîme les yeux grands ouverts. Les dirigeants politiques de la bourgeoisie ne peuvent pas ne pas voir ce qu’ils trament, eux, et dans quels intérêts, ceux de la bourgeoisie. Cela, ils le discernent en tout cas bien mieux que les masses du monde entier, auxquelles on masque la réalité, ses enjeux et son évolution qui s’accélère.

    Oui, en Ukraine, en Russie, comme partout ailleurs, le niveau de la conscience et de l’organisation de la classe ouvrière est très en retard sur cette course à la guerre dans laquelle la bourgeoisie engage l’humanité. Et plus encore au regard de ce qu’il faudrait pour l’enrayer, la transformer en guerre de classe pour l’émancipation des travailleurs du monde entier.

    C’est ce que firent les bolcheviks en Russie en 1917, en pleine guerre mondiale. C’est sur cette voie qu’il faut que s’engagent, en communistes révolutionnaires et internationalistes, en militants de la seule classe porteuse d’avenir, le prolétariat, toutes celles et tous ceux qui veulent changer le monde avant qu’il ne précipite à nouveau l’humanité dans la barbarie. Alors, pour paraphraser ce que Lénine disait de la révolution d’Octobre  : «  Après des millénaires d’esclavage, les esclaves dont les maîtres veulent la guerre leur [répondront]  : Votre guerre pour le butin, nous en ferons la guerre de tous les esclaves contre tous les maîtres.  »

    #guerre_en_ukraine #capitalisme #crise

    • Royaume-Uni : hausse significative du budget militaire

      A l’occasion de la mise à jour de sa doctrine de politique étrangère, le Royaume-Uni a annoncé son intention de porter à terme son #budget_défense à 2,5 % du PIB.

      Face aux « nouvelles menaces », le #Royaume-Uni va investir cinq milliards de livres supplémentaires dans sa politique de défense. Cette rallonge va porter ce budget à 2,25 % du PIB à horizon 2025, un redressement jamais vu depuis la guerre froide.
      Cette enveloppe doit permettre de « reconstituer et de renforcer les stocks de #munitions, de moderniser l’entreprise nucléaire britannique et de financer la prochaine phase du programme de #sous-marins_Aukus », a souligné Downing Street dans un communiqué, le jour même de la signature à San Diego du contrat entre l’Australie, les Etats-Unis et le Royaume-Uni. A terme, l’objectif est de revenir à des dépenses militaires équivalentes à 2,5 % du PIB, bien au-dessus de l’engagement pris au niveau de l’#Otan (2 % du PIB).

      Ces annonces interviennent au moment où le Royaume-Uni met à jour sa doctrine de politique étrangère dans un document de 63 pages qui fait la synthèse des principaux risques pour la sécurité du pays. La dernière mouture, publiée il y a trois ans, exposait les ambitions de la « Global Britain » de Boris Johnson au lendemain du Brexit. La #Russie y était identifiée comme la principale menace pour la sécurité. La #Chine était qualifiée de « défi systémique » et le document annonçait un « pivot » du Royaume-Uni vers l’axe Indo-Pacifique.
      Les tendances observées sont toujours les mêmes, mais « elles se sont accélérées ces deux dernières années », observe cette nouvelle revue. « Nous sommes maintenant dans une période de risques renforcés et de volatilité qui va probablement durer au-delà des années 2030 », note le rapport.

      (Les Échos)

      #militarisation #impérialisme

    • Les importations d’armes en Europe en forte hausse

      Les #achats_d'armement ont quasiment doublé l’an dernier sur le sol européen

      Depuis le début de la guerre en Ukraine, l’Europe s’arme massivement. C’est ce que confirme le dernier rapport de l’#Institut_international_de_recherche_sur_la_paix_de_Stockholm (Sipri), publié lundi. Hors Ukraine, les #importations_d'armements sur le Vieux Continent se sont envolées de 35 % en 2022. En intégrant les livraisons massives d’#armes à l’Ukraine, elles affichent une hausse de 93 %.

      […] Sur la période 2018-2022, privilégiée par le #Sipri pour identifier les tendances de fond, les importations d’armes européennes affichent ainsi une hausse de 47 % par rapport aux cinq années précédentes, alors qu’au niveau mondial, les transferts internationaux d’armes ont diminué de 5,1 % sur cette période. Un contraste majeur qui témoigne de la volonté des Européens d’« importer plus d’armes, plus rapidement », explique Pieter ​Wezeman, coauteur du rapport.
      Dans cette optique, outre les industriels locaux, les Européens comptent sur les #Etats-Unis. Sur la période 2018-2022, ces derniers ont représenté 56 % des #importations_d'armes de la région. Le premier importateur en #Europe a été le Royaume-Uni, suivi de l’#Ukraine et de la Norvège.
      […]

      En France, #Emmanuel_Macron a proposé une augmentation de 100 milliards d’euros pour la loi de programmation militaire 2024-2030 par rapport à la période 2019-2025. Le Premier ministre britannique, #Rishi_Sunak, vient pour sa part d’annoncer que le #Royaume-Uni allait investir 5 milliards de livres (5,6 milliards d’euros) supplémentaires dans la défense, dans un contexte de « nouvelles menaces venues de #Russie et de #Chine ». Plus symbolique encore, l’Allemagne du chancelier #Olaf_Scholz a annoncé, en mai 2022, le lancement d’un fonds spécial de 100 milliards pour moderniser son armée et rompre avec des décennies de sous-investissement.

      (Les Échos)

      #militarisation

    • La France s’apprête à relocaliser sur son sol une vingtaine de productions industrielles militaires , révèle mardi franceinfo. Ces relocalisations sont une déclinaison de « l’économie de guerre » réclamée par l’Élysée.

      Le mois dernier, on a appris que la France s’apprêtait à relocaliser la production de #poudre pour ses obus d’artillerie (de 155mm). Selon nos informations, en tout, il y aura une vingtaine de relocalisations stratégiques en France.

      Dans le détail, la France va donc de nouveaux produire sur son territoire des #coques de bateaux produites jusqu’à présent dans les pays de l’Est, des explosifs pour gros calibres produits en Suède, Italie ou encore Allemagne, mais, surtout, des pièces jugées « critiques » pour certains moteurs d’hélicoptères. On parle ici précisément des disques des turbines haute-pression des bi-moteurs RTM322. Jusqu’à présent, ces pièces étaient élaborées aux Etats-Unis puis forgées en Angleterre. Bientôt, l’élaboration et la forge seront faites en France dans l’usine #Aubert_et_Duval située dans le Puy-de-Dôme. […]

      (France Info)

      #militarisation #relocalisation #industrie_de_la_défense

    • Emmanuel Chiva est à la tête (de l’emploi) de la direction générale de l’armement (DGA). Son sale boulot : mettre en œuvre l’« économie de guerre » voulue par Macron.

      Un type qui pratique au quotidien "l’argent magique" et un "pognon de dingue" (public) au service des capitalistes de l’armement. Le principe : un vol à grande échelle des fruits du travail de millions de travailleurs pour produire en masse du matériel de destruction massive.

      Pour nous en faire accepter les conséquences (les futures baisses du pouvoir d’achat, les hôpitaux fermés, les écoles surchargées, les enseignants en sous-effectif, les transports dégradés, un budget de l’État écrasé par la dette, etc.), Le Monde lui tend ses colonnes : « Nous sommes entrés dans l’économie de guerre »
      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/03/15/emmanuel-chiva-dga-nous-sommes-entres-dans-l-economie-de-guerre_6165595_3210

    • La marche vers un économie de guerre
      https://lutte-ouvriere.be/la-marche-vers-un-economie-de-guerre

      [...] Les USA augmentent fortement leur budget militaire, l’Allemagne débloque 100 milliards pour l’armée, la France annonce plus de 400 milliards de budget pour les prochaines années et en Belgique, 14 milliards de dépenses guerrières supplémentaires sont prévues d’ici 2030.

      Pour faire accepter l’envolée des dépenses militaires, alors que partout les besoins des populations sont criants, les dirigeants des pays capitalistes cherchent à persuader de l’inéluctabilité de la guerre. Ils désignent comme ennemis certains pays, au premier rang desquels la Russie et la Chine, et déploient une propagande insidieuse mais permanente dans les médias autour de thèmes guerriers.

      Les gouvernements mettent aussi l’accent sur la préparation de la jeunesse qu’ils comptent utiliser comme chair à canon. L’Etat belge s’en est chargé en ouvrant cette année, dans 13 écoles de la fédération Wallonie Bruxelles, une option « métiers de la Défense et de la sécurité » dans laquelle des jeunes sont préparés à devenir agent de sécurité, policier ou militaire, à partir de la quatrième secondaire technique !

      Au-delà du conflit ukrainien, la cause profonde de l’envolée des budgets militaires est à chercher dans la crise du système capitaliste mondial qui ne fait que s’aggraver.

    • Vers un doublement du budget militaire / Le Japon tourne la page du pacifisme
      https://www.monde-diplomatique.fr/2023/03/POUILLE/65605

      Ce samedi 27 novembre 2021, le premier ministre japonais Kishida Fumio effectue une visite matinale des troupes de défense terrestre sur la base d’Asaka, au nord de Tokyo. Après un petit tour en char d’assaut, il prononce un discours de rupture : « Désormais, je vais envisager toutes les options, y compris celles de posséder des capacités d’attaque de bases ennemies, de continuer le renforcement de la puissance militaire japonaise. » Selon le chef du gouvernement, « la situation sécuritaire autour du Japon change à une vitesse sans précédent. Des choses qui ne se produisaient que dans des romans de science-fiction sont devenues notre réalité ». Un an plus tard, M. Kishida annonce le doublement des dépenses de #défense et débloque l’équivalent de 315 milliards de dollars sur cinq ans. Le #Japon va ainsi disposer du troisième budget militaire du monde derrière ceux des États-Unis et de la Chine. Il représentera 2 % du produit intérieur brut (PIB), ce qui correspond à l’engagement pris en 2014 par les vingt-huit membres de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (#OTAN)… dont il ne fait pourtant pas partie.

      Ces décisions — qui s’inscrivent dans le cadre de la nouvelle « stratégie de sécurité nationale » dévoilée en août 2022 — changent profondément les missions des forces d’autodéfense, le nom officiel de l’#armée_nippone. Elles ne s’en tiendront plus, en effet, à défendre le pays mais disposeront des moyens de contre-attaquer. Et même de détruire des bases militaires adverses.

      Cette #militarisation et cette imbrication renforcée avec les États-Unis sonnent, pour la presse chinoise, comme dune dangereuse alerte. Certes, les rapports sino-japonais s’étaient déjà dégradés quand Tokyo avait acheté, le 11 septembre 2012, trois des îles Senkaku/Diaoyu à leur propriétaire privé et que, dans la foulée, Pékin avait multiplié les incursions dans la zone (8). Les visites régulières d’Abe au sanctuaire Yasukuni, qui honore la mémoire des criminels de guerre durant la seconde guerre mondiale, n’avaient rien arrangé.

      Mais le climat s’était plutôt apaisé dans la dernière période. « J’étais parvenu à un consensus important [avec Abe] sur la construction de relations sino-japonaises répondant aux exigences de la nouvelle ère (9) », a même témoigné le président chinois après l’assassinat de l’ex-premier ministre, en juillet 2022. Depuis l’annonce de la nouvelle stratégie de défense, le ton a changé.

      [...] en tournant le dos brutalement à sa politique pacifiste, le Japon se place en première ligne face à Pékin et éloigne tout espoir d’autonomie vis-à-vis des États-Unis. Cette impossible entrée dans l’après-guerre froide cohabite pourtant avec un dynamisme régional haletant où, de Hanoï à Colombo, ce pays vieillissant a construit les leviers de sa future croissance. Il y est en concurrence directe avec la Chine, très présente. Déjà, la plupart des pays asiatiques refusent de choisir entre Pékin et Washington, qui leur promet la sécurité. Et avec Tokyo ?

      (Le Monde diplomatique, mars 2023)

      #budget_militaire

    • Le géant de l’armement Rheinmetall surfe sur la remilitarisation de l’Europe (Les Échos)

      L’entrée au DAX, lundi, du premier producteur de munitions et constructeur de chars en Europe consacre le retour en force des combats conventionnels terrestres. Après une année 2022 record, Rheinmetall s’attend à faire mieux encore en 2023.

      Ce lundi, Armin Papperger, le patron de Rheinmetall, se fera un plaisir de sonner la cloche de la Bourse de Francfort pour marquer l’entrée de son groupe dans le Dax après une année record. Son cours a doublé et sa valorisation avoisine 10,5 milliards d’euros. « Le changement d’ère et la guerre en Europe ont ouvert une nouvelle page pour #Rheinmetall », a-t-il déclaré jeudi, lors de la présentation des résultats du premier producteur de munitions et constructeur de chars en Europe.

      Le retour des combats conventionnels terrestres a dopé le résultat net de ce dernier : il a bondi de 61 %, à 469 millions d’euros pour un chiffre d’affaires record de 6,4 milliards d’euros, en hausse de 13,25 %. Le résultat opérationnel (Ebit hors effets exceptionnels) a, lui, progressé de 27 %, à 754 millions d’euros. Et ce n’est qu’un début : « Je m’attends à ce que l’année 2023 soit de loin la meilleure année de l’histoire de l’entreprise en termes de commandes », a annoncé Armin Papperger.

      Carnet de commandes record

      Il a plusieurs fois loué devant la presse l’efficacité du nouveau ministre de la Défense Boris Pistorius, qui devrait, selon lui, permettre de débloquer enfin les 100 milliards du fonds de modernisation de l’armée allemande. Sur cette enveloppe, le patron de Rheinmetall estime pouvoir capter 38 milliards d’euros d’ici à 2030, dont 20 milliards répartis à parts équivalentes entre les chars et la numérisation des forces terrestres, et 8 milliards pour les munitions. A ces montants s’ajoute la hausse prévisible du budget de la défense allemande : Boris Pistorius a réclamé 10 milliards de plus par an et il faudrait même 10 milliards supplémentaires pour atteindre les 2 % du PIB. Un objectif pour tous les membres de l’Otan qui devrait rapidement devenir un prérequis minimum. Le réarmement généralisé des pays de l’Alliance atlantique ne peut donc que profiter à Rheinmetall. Il vient en outre d’élargir sa palette en s’invitant dans la fabrication du fuselage central du F-35 américain qui devrait lui rapporter plusieurs milliards d’euros. Le groupe, qui affichait déjà l’an dernier un carnet de commandes record de 24 milliards d’euros, estime avoir les capacités pour faire bien davantage.

      600.000 obus

      En Ukraine, Rheinmetall assure ainsi pouvoir livrer un peu moins de la moitié des besoins de la production d’artillerie. Avec l’achat du fabricant espagnol Expal Systems, qui devrait être bouclé dans l’année, la capacité annuelle du groupe passe à environ 450.000 obus, voire 600.000 d’ici à deux ans.

      Rheinmetall est en train d’agrandir une usine en Hongrie et souhaite en ouvrir une de poudre en Saxe avec la participation financière de Berlin. Selon Armin Papperger, l’intégration verticale de l’entreprise, qui produit elle-même ses composants, la met par ailleurs à l’abri d’un chantage éventuel de la Chine sur les matières premières. Quant à la main-d’oeuvre, elle ne manquerait pas : le groupe se dit « inondé de candidatures », il a recruté 3.000 personnes l’an dernier et compte en faire autant cette année. Toutes les planètes sont donc alignées aux yeux de Rheinmetall pour pousser les feux. Le groupe vise un chiffre d’affaires de 7,4 à 7,6 milliards d’euros en 2023, ce qui représenterait une nouvelle hausse de 15,5 % à 18,7 %. Sa marge opérationnelle devrait passer de 11,8 % à 12 % environ.

      #militarisation #militarisme #capitalisme #troisième_guerre_mondiale

    • La guerre en Ukraine accélère la militarisation

      La guerre en Ukraine accélère la militarisation de l’Europe. Tragédie pour les populations ukrainienne et russe qui ont déjà payé cette guerre de 30 000 morts, elle est une aubaine pour les militaires et les marchands d’armes. Première guerre dite «  de haute intensité  » en Europe depuis 1945, sur un front de plus de 1 000 kilomètres, elle permet aux militaires de tester leurs matériels, de valider ou adapter leurs doctrines d’utilisation. Elle offre un marché inespéré pour les marchands d’armes appelés à fournir munitions et missiles, drones ou chars détruits en grande quantité. Elle accélère la hausse des budgets militaires de tous les États.

      Une militarisation engagée avant la guerre en Ukraine

      La hausse des dépenses militaires dans le monde était engagée avant l’invasion russe de l’Ukraine. Selon le dernier rapport du Sipri, l’Institut international pour la paix de Stockholm, publié le 25 avril, les dépenses militaires dans le monde ont dépassé en 2021, pour la première fois, la barre des 2 000 milliards de dollars, avec 2 113 milliards de dollars, soit 2,2 % du PIB mondial. C’est la septième année consécutive de hausse des dépenses militaires dans le monde selon ce rapport, qui précise  : «  Malgré les conséquences économiques de la pandémie de Covid-19, les dépenses militaires mondiales ont atteint des niveaux records.  »

      Si la Russie, présentée comme le seul agresseur et va-t-en-guerre, a augmenté son budget militaire en 2021, qui atteint 66 milliards de dollars et 4 % de son PIB, elle n’arrive qu’en cinquième position dans le classement des puissances les plus dépensières, derrière les États-Unis, la Chine, l’Inde et la Grande-Bretagne.

      En Grande-Bretagne, avec 68,3 milliards de dollars, les dépenses militaires sont en hausse de 11,1 %. Après le Brexit, Boris Johnson a multiplié les investissements, en particulier dans la marine. Peu avant sa démission, il affirmait vouloir restaurer l’impérialisme britannique en tant que «  première puissance navale en Europe  » et marquait à la culotte les autres puissances impérialistes du continent. Il a été l’un des premiers dirigeants européens à se rendre à Kiev pour afficher son soutien à Zelensky. Toute une brochette de politiciens britanniques milite pour que les dépenses militaires augmentent plus vite encore dans les années à venir. Ainsi, Nile Gardiner, ancien collaborateur de Thatcher, affirmait en mars au Daily Express : «  Les dépenses de défense devraient doubler, de deux à quatre pour cent [du PIB] dans les années à venir si la Grande-Bretagne veut sérieusement redevenir une puissance mondiale.  »

      Johnson a renforcé par divers canaux sa coopération militaire avec les États-Unis. Ces liens étroits entre les impérialismes britannique et américain ont été illustrés par l’alliance #Aukus (acronyme anglais pour Australie, Royaume-Uni et États-Unis) contre la Chine. Cette alliance s’est concrétisée par la commande australienne de huit sous-marins à propulsion nucléaire, pour la somme de 128 milliards de dollars. Déjà en hausse de 4 % en 2021 par rapport à 2020, les dépenses militaires de l’Australie sont donc appelées à augmenter. C’est aussi la politique occidentale agressive vis-à-vis de la Chine, et les pressions américaines, qui ont poussé le Japon à dépenser 7 milliards de dollars de plus en 2021 pour ses armées, la plus forte hausse depuis 1972.

      Selon le rapport du #Sipri, dès 2021, donc avant la guerre en Ukraine, huit pays européens membres de l’#Otan avaient porté leurs dépenses militaires à 2 % de leur PIB, ce que réclament depuis longtemps les États-Unis à leurs alliés. Avec 56,6 milliards de dollars (51 milliards d’euros) dépensés en 2021, la France est passée de la huitième à la ­sixième place des États pour leurs dépenses en armement. La loi de programmation militaire 2019-2025 avait déjà prévu un budget de 295 milliards d’euros sur six ans, pour arriver à plus de 2,5 % du PIB en 2025.

      La guerre en Ukraine a donc éclaté dans ce contexte d’augmentation générale des dépenses d’armement, qu’elle ne peut qu’accélérer et renforcer.

      Les leçons de la guerre en Ukraine

      Pour les états-majors et les experts, la #guerre_en_Ukraine n’est pas une tragédie mais d’abord un formidable terrain d’expérimentation des matériels de guerre et des conditions de leur mise en œuvre. Chaque épisode – offensive contrariée des armées russes au début de la #guerre, retrait du nord de l’#Ukraine puis offensive dans le #Donbass, destruction méthodique des villes – et les diverses façons d’utiliser l’artillerie, les drones, l’aviation, les moyens de communication et de renseignement sont étudiés pour en tirer le maximum de leçons. Depuis six mois, des milliers d’experts et d’ingénieurs chez #Thales, #Dassault, #Nexter, MBDA (ex-Matra), #Naval_Group ou chez leurs concurrents américains #Lockheed_Martin, #Boeing ou #Northrop_Grumman, étudient en détail comment cette guerre met en lumière «  la #numérisation du champ de bataille, les besoins de munitions guidées, le rôle crucial du secteur spatial, le recours accru aux drones, robotisation, cybersécurité, etc.  » (Les Échos du 13 juin 2022). Ces experts ont confronté leurs points de vue et leurs solutions technologiques à l’occasion de l’immense salon de l’#armement et de la sécurité qui a réuni, début juin à Satory en région parisienne, 1 500 #marchands_d’armes venus du monde entier. Un record historique, paraît-il  !

      Les leçons de la guerre en Ukraine ne sont pas seulement technologiques. Comme l’écrivait le journal Les Échos du 1er avril 2022, «  la guerre entre grands États est de retour en Europe. » Cette guerre n’a plus rien à voir avec «  les “petites guerres” comme celles de Bosnie ou du Kosovo, ni les opérations extérieures contre des groupes terroristes (Al Qaida, Daech) ou des États effondrés (Libye, 2011)  ». Pour les militaires, cette guerre n’est plus «  une guerre échantillonnaire mais une guerre de masse  », tant du point de vue du nombre de soldats tués ou blessés au combat que du nombre de munitions tirées et du matériel détruit.

      Entre février et juin, selon les estimations réalisées malgré la censure et les mensonges de chaque camp, cette guerre aurait fait 30 000 morts russes et ukrainiens, plusieurs centaines par jour. L’Ukraine rappelle que la guerre est une boucherie, que les combats exigent sans cesse leur chair à canon, avec des soldats qui pourrissent et meurent dans des tranchées, brûlent dans des chars ou sont tués ou estropiés par des obus et des missiles. Leur guerre «  de haute intensité  », c’est avant tout des morts, parmi les militaires comme les civils. Préparer les esprits à accepter de «  mourir pour nos valeurs démocratiques  », autre déclinaison du «  mourir pour la patrie  », est l’un des objectifs de la #propagande des gouvernements occidentaux qui mettent en scène la guerre en Ukraine.

      Côté matériel, les armées russes ont perdu plusieurs centaines de chars. Les États-Unis et leurs alliés ont livré plusieurs dizaines de milliers de missiles sol-sol ou sol-air de type Javelin ou Stinger, à 75 000 dollars pièce. Une semaine après le début de l’invasion russe, le colonel en retraite Michel Goya, auteur d’ouvrages sur les guerres contemporaines, écrivait  : «  L’#armée_de_terre française n’aurait plus aucun équipement majeur au bout de quarante jours  » (véhicules de combat, pièces d’artillerie…). La conclusion de tous ces gens-là est évidente, unanime  : il faut «  des forces plus nombreuses, plus lourdement équipées [qui] exigeront des budgets de défense accrus  » (Les Échos, 1er avril 2022). Augmenter les budgets militaires, drainer toujours plus d’argent public vers l’industrie militaire ou sécuritaire, c’est à quoi s’emploient les ministres et les parlementaires, de tous les partis, depuis des années.

      Des complexes militaro-industriels concurrents

      La guerre en Ukraine, avec l’augmentation spectaculaire des #budgets_militaires qu’elle accélère, est une aubaine pour les marchands d’armes. Mais elle intensifie en même temps la guerre que se livrent ces industriels. L’annonce par le chancelier allemand, fin février, d’un emprunt de 100 milliards d’euros pour remettre à niveau la #Bundeswehr, autrement dit pour réarmer l’Allemagne, a déclenché des polémiques dans l’#Union_européenne. Le journal Les Échos du 30 mai constatait avec dépit  : «  L’#armée_allemande a annoncé une liste de courses longue comme le bras, qui bénéficiera essentiellement aux industries américaines  : achat de #F-35 à Lockheed Martin, d’hélicoptères #Chinook à Boeing, d’avions P8 à Boeing, de boucliers antimissiles à Israël, etc.  » Au grand dam des militaristes tricolores ou europhiles, le complexe militaro-industriel américain profitera bien davantage des commandes allemandes que les divers marchands de mort européens.

      Il en est ainsi depuis la naissance de l’Union européenne  : il n’y a pas une «  #défense_européenne  » commune car il n’y a pas un #impérialisme européen unique, avec un appareil d’État unique défendant les intérêts fondamentaux d’une #grande_bourgeoisie européenne. Il y a des impérialismes européens concurrents, représentant des capitalistes nationaux, aux intérêts économiques complexes, parfois communs, souvent opposés. L’#impérialisme_britannique est plus atlantiste que les autres puissances européennes et très tourné vers son vaste ex-­empire colonial. L’#impérialisme_français a développé ses armées et sa marine pour assurer sa mainmise sur son pré carré ex-colonial, en particulier en Afrique. L’impérialisme allemand, qui s’est retranché pendant des décennies derrière la contrition à l’égard des années hitlériennes pour limiter ses dépenses militaires, en se plaçant sous l’égide de l’Otan et des #États-Unis, a pu consacrer les sommes économisées à son développement économique en Europe centrale et orientale. Les interventions militaires ou diplomatiques n’étant que la continuation des tractations et des rivalités commerciales et économiques, il n’a jamais pu y avoir de défense européenne commune.

      Les rivalités permanentes entre Dassault, Airbus, #BAE, #Safran ont empêché la construction d’un avion de combat européen. La prépondérance des États-Unis dans l’Otan et leur rôle majeur en Europe de l’Est et dans la guerre en Ukraine renforcent encore les chances du #secteur_militaro-industriel américain d’emporter les futurs marchés. Ces industriels américains vendent 54 % du matériel militaire dans le monde et réalisent 29 % des exportations. L’aubaine constituée par les futures dépenses va aiguiser les appétits et les rivalités.

      Bien sûr, les diverses instances européennes s’agitent pour essayer de ne pas céder tout le terrain aux Américains. Ainsi, le commissaire européen au Commerce et ex-ministre français de l’Économie, Thierry Breton, vient de débloquer 6 milliards d’euros pour accélérer le lancement de 250 satellites de communication de basse orbite, indispensables pour disposer d’un réseau de communication et de renseignement européen. Jusqu’à présent, les diverses armées européennes sont dépendantes des États-Unis pour leurs renseignements militaires, y compris sur le sol européen.

      À ce jour, chaque pays européen envoie en Ukraine ses propres armes, plus ou moins compatibles entre elles, selon son propre calendrier et sa volonté politique. Les champs de bataille du Donbass servent de terrain de démonstration pour les canons automoteurs français Caesar, dont les journaux télévisés vantent régulièrement les mérites, et les #chars allemands Gepard, anciens, ou Leopard, plus récents. La seule intervention commune de l’Union européenne a été le déblocage d’une enveloppe de financement des livraisons d’armes à l’Ukraine, d’un montant de 5,6 milliards sur six ans, dans laquelle chaque État membre peut puiser. C’est une façon de faciliter l’envoi d’armes en Ukraine aux pays de l’UE les moins riches. Avec l’hypocrisie commune aux fauteurs de guerre, les dirigeants de l’UE ont appelé cette enveloppe «  la facilité européenne pour la paix  »  !

      Vers une économie de guerre  ?

      Pour passer d’une «  guerre échantillonnaire  » à une «  guerre de masse  », la production d’armes doit changer d’échelle. Pour ne parler que d’eux, les fameux canons Caesar de 155 millimètres sont produits en nombre réduit, une grosse dizaine par an, dans les usines #Nexter de Bourges, pour la somme de 5 millions d’euros l’unité. Pour en livrer une douzaine à l’Ukraine, le gouvernement a dû les prélever sur la dotation de l’armée française, qui n’en a plus que 64 en service. Juste avant le début de la guerre en Ukraine, Hervé Grandjean, le porte-parole des armées, rappelait les objectifs de l’armée française pour 2025  : «  200 chars Leclerc, dont 80 rénovés, 135 #blindés_Jaguar, 3 300 #blindés_légers, 147 hélicoptères de reconnaissance et d’attaque dont 67 Tigre, 115 #hélicoptères de manœuvre, 109 #canons de 155 et 20 drones tactiques notamment  ». En comparaison, et même si les chars des différentes armées n’ont ni les mêmes caractéristiques ni la même valeur, en trois mois de guerre en Ukraine, plus de 600 chars russes ont été détruits ou mis hors service.

      La guerre en Ukraine devrait donc permettre aux militaires d’obtenir davantage de coûteux joujoux. Ils ont reçu le soutien inconditionnel du président de la Cour des comptes, l’ex-socialiste Pierre Moscovici, pour qui «  l’aptitude des armées à conduire dans la durée un combat de haute intensité n’est pas encore restaurée  ». Et dans son discours du 14 juillet, Macron a confirmé une rallonge de 3 milliards d’euros par an pour le budget de l’armée. Mais pour rééquiper en masse les armées européennes, il faut que les capacités de production suivent. Le 13 juin, Le Monde titrait  : «  Le ministère de la Défense réfléchit à réquisitionner du matériel du secteur civil pour refaire ses stocks d’armes  », et précisait  : «  L’État pourrait demander à une PME de mécanique de précision qui ne travaille pas pour le secteur de la défense de se mettre à disposition d’un industriel de l’armement pour accélérer ses cadences.  » Et comme toujours, l’État s’apprête à prendre en charge lui-même «  les capacités de production de certaines PME de la défense, en payant par exemple des machines-outils  ». Les capitalistes n’étant jamais si bien servis que par eux-mêmes, le chef de l’UIMM, le syndicat des patrons de la métallurgie, est désormais #Éric_Trappier, le PDG de Dassault.

      Produire plus massivement du matériel militaire coûtera des dizaines, et même des centaines, de milliards d’euros par an. Il ne suffira pas de réduire encore plus les budgets de la santé ou de l’école. Les sommes engagées seront d’un tout autre niveau. Pour y faire face, les États devront s’endetter à une échelle supérieure. Les gouvernements européens n’ont peut-être pas encore explicitement décidé un tel tournant vers la production en masse de ce matériel militaire, mais les plus lucides de leurs intellectuels s’y préparent. L’économiste et banquier Patrick Artus envisageait dans Les Échos du 8 avril le passage à une telle «  #économie_de_guerre  ». Pour lui, cela aurait trois conséquences  : une hausse des #dépenses_publiques financées par le déficit du budget de l’État avec le soutien des #banques_centrales  ; une forte inflation à cause de la forte demande en énergie et en métaux parce que les #dépenses_militaires et d’infrastructures augmentent  ; enfin la rupture des interdépendances entre les économies des différents pays à cause des ruptures dans les voies d’approvisionnement.

      Avant même que les économies européennes ne soient devenues «  des économies de guerre  », les dépenses publiques au service des capitalistes ne cessent d’augmenter, l’inflation revient en force, aggravée par la spéculation sur les pénuries ou les difficultés d’approvisionnement de telle ou telle matière première. L’#économie_capitaliste est dans une impasse. Elle est incapable de surmonter les contradictions qui la tenaillent, et se heurte une fois de plus aux limites du marché solvable et à la concurrence entre capitalistes, qui engendrent les rivalités entre les puissances impérialistes  ; à la destruction des ressources  ; et à son incapacité génétique d’en planifier l’utilisation rationnelle au service de l’humanité. La course au militarisme est inexorable, car elle est la seule réponse à cette impasse qui soit envisageable par la grande bourgeoisie. Cela ne dépend absolument pas de la couleur politique de ceux qui dirigent les gouvernements. Le militarisme est inscrit dans les gènes du capitalisme.

      Le #militarisme, une fuite en avant inexorable

      Il y a plus d’un siècle, #Rosa_Luxemburg notait que le militarisme avait accompagné toutes les phases d’accumulation du #capitalisme  : «  Il est pour le capital un moyen privilégié de réaliser la plus-value.  » Dans toutes les périodes de crise, quand la rivalité entre groupes de capitalistes pour s’approprier marchés et matières premières se tend, quand le marché solvable se rétrécit, le militarisme a toujours représenté un «  champ d’accumulation  » idéal pour les capitalistes. C’est un marché régulier, quasi illimité et protégé  : «  L’#industrie_des_armements est douée d’une capacité d’expansion illimitée, […] d’une régularité presque automatique, d’une croissance rythmique  » (L’accumulation du capital, 1913). Pour la société dans son ensemble, le militarisme est un immense gâchis de force de travail et de ressources, et une fuite en avant vers la guerre généralisée.

      Pour les travailleurs, le militarisme est d’abord un vol à grande échelle des fruits de leur travail. La production en masse de matériel de destruction massive, ce sont des impôts de plus en plus écrasants pour les classes populaires qui vont réduire leur pouvoir d’achat, ce sont des hôpitaux fermés, des écoles surchargées, des enseignants en sous-effectif, des transports dégradés, c’est un budget de l’État écrasé par la charge de la dette. Pour la #jeunesse, le militarisme, c’est le retour au service militaire, volontaire ou forcé, c’est l’embrigadement derrière le nationalisme, l’utilisation de la guerre en Ukraine pour redonner «  le sens du tragique et de l’histoire  », selon la formule du chef d’état-major des armées, Thierry Burkhard.

      L’évolution ultime du militarisme, c’est la #guerre_généralisée avec la #mobilisation_générale de millions de combattants, la militarisation de la production, la #destruction méthodique de pays entiers, de villes, d’infrastructures, de forces productives immenses, de vies humaines innombrables. La guerre en Ukraine, après celles en Irak, en Syrie, au Yémen et ailleurs, donne un petit aperçu de cette barbarie. La seule voie pour éviter une barbarie plus grande encore, qui frapperait l’ensemble des pays de la planète, c’est d’arracher aux capitalistes la direction de la société.

      Un an avant l’éclatement de la Première Guerre mondiale, #Rosa_Luxemburg concluait son chapitre sur le militarisme par la phrase  : «  À un certain degré de développement, la contradiction [du capitalisme] ne peut être résolue que par l’application des principes du socialisme, c’est-à-dire par une forme économique qui est par définition une forme mondiale, un système harmonieux en lui-même, fondé non sur l’accumulation mais sur la satisfaction des besoins de l’humanité travailleuse et donc sur l’épanouissement de toutes les forces productives de la terre.  » Ni Rosa Luxemburg, ni #Lénine, ni aucun des dirigeants de la Deuxième Internationale restés marxistes, c’est-à-dire communistes, révolutionnaires et internationalistes, n’ont pu empêcher l’éclatement de la guerre mondiale et la transformation de l’Europe en un gigantesque champ de bataille sanglant. Mais cette guerre a engendré la plus grande vague révolutionnaire de l’histoire au cours de laquelle les soldats, ouvriers et paysans insurgés ont mis un terme à la guerre et menacé sérieusement la domination du capital sur la société. L’issue est de ce côté-là.

    • France. Militaires et industriels doutent d’être suffisamment gavés

      Les « promesses déjà annoncées : une hausse de 5 milliards d’euros pour combler le retard dans les drones, un bond de 60 % des budgets des trois agences de renseignement, une relance des commandes dans la défense sol-air , la reconstitution des stocks de munitions. Il a aussi promis plus de navires et de satellites pour l’Outre-Mer, des avancées dans la cyberdéfense, le spatial, la surveillance des fonds marins, le doublement du budget des forces spéciales, et enfin une progression de 40 % des budgets pour la maintenance des équipements, afin d’en accroître les taux de disponibilité.

      Ajouter à cette liste un doublement de la réserve, une participation potentiellement accrue au service national universel, la promesse de dégager 10 milliards pour l’innovation... « Toutes les lignes budgétaires vont augmenter, sauf la provision pour les opérations extérieures », a déclaré le ministre. Selon lui, les dépenses pour aider l’armée ukrainienne ne seront pas imputées sur le budget des armées. Ce dont beaucoup de militaires doutent. Un partage des frais entre ministères est plus probable.

      (Les Échos)

    • Pour eux, la guerre n’est pas une tragédie, mais une aubaine.

      Entre 2018 et 2022, la France a vu sa part dans les ventes mondiales d’armes passer de 7 à 11 %.

      Actuellement 3e sur le marché de l’armement, elle se rapproche de la 2e place. Un record qui contribue à la surenchère guerrière, en Ukraine et ailleurs, et qui alimente les profits des marchands d’armes.

    • La nouvelle #loi_de_programmation_militaire a été présentée en Conseil des ministres ce mardi 4 avril. Un budget de la défense en hausse de 40 % par rapport à la #LPM 2019-2025. Un montant historique

      D’autant que la LPM 2024-2030 n’inclura pas le montant de l’aide militaire à l’#Ukraine

      La politique de l’actuel président de la République contraste avec celle de ses prédécesseurs. Comme beaucoup de ses voisins, la France a vu ses dépenses de défense diminuer depuis la fin de la #guerre_froide

      Réarmement spectaculaire de la #Pologne par le biais de la Corée du Sud

      « Ce pays est en première ligne et sera potentiellement une grande puissance militaire en 2030 », a affirmé Bruno Tertrais, directeur adjoint de la Fondation pour la recherche stratégique lors de son audition au Sénat. Le 30 janvier dernier, le Premier ministre polonais a ainsi annoncé que le budget de la défense atteindrait 4 % du PIB en 2023.

      #militarisation #budget_de_la_défense

    • On ne prépare une guerre qu’à la condition de pouvoir la gagner. Et en l’état, les occidentaux commencent tout juste à comprendre que ce qu’ils pensaient assuré (première frappe nucléaire et bouclier ABM) de la part des américains, n’est finalement pas du tout si assuré que cela et que même, ma foi, la guerre est peut-être déjà perdue.

    • En l’état, ce n’est pas la guerre. Mais, oui, ils s’y préparent.

      Et cette nouvelle guerre mondiale ne sera pas déclenchée nécessairement quand ils seront certains de « pouvoir la gagner ».

    • L’Union européenne et ses obus : un petit pas de plus vers une économie de guerre
      https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/05/10/lunion-europeenne-et-ses-obus-un-petit-pas-de-plus-vers-une-

      Mercredi 3 mai, le commissaire européen Thierry Breton a présenté son plan pour produire un million de munitions lourdes par an. Les industries d’armement européennes ne sont plus adaptées au rythme de production nécessaire pour des guerres de « haute intensité », ou même simplement telle que celle en Ukraine.

      Alors que l’armée ukrainienne tire 5 000 obus d’artillerie par jour de combat, la production annuelle du fabricant français Nexter ne permettrait de tenir ce rythme... que huit jours. Thierry Breton a annoncé une enveloppe de 500 millions d’euros pour stimuler dans ce sens les industriels de l’Union européenne. Elle fait partie d’un plan de deux milliards d’euros annoncé fin mars pour fournir des obus à l’armée de Kiev, sous prétexte « d’aider » l’Ukraine. Il s’agit d’abord de puiser dans les stocks nationaux, puis de passer des commandes, et enfin de remplir les caisses des industriels pour qu’ils produisent plus vite.

      Les sommes déployées par l’UE sont très marginales par rapport aux dépenses faites par chaque puissance impérialiste pour financer son propre armement et enrichir ses capitalistes de l’armement. Ainsi, la programmation militaire française a augmenté de 100 milliards d’euros, tandis que le gouvernement allemand promet, lui, 100 milliards pour moderniser son armée.

      L’annonce européenne vise sans doute surtout à afficher à l’échelle du continent, donc aux yeux d’un demi-milliard d’Européens, que l’on va vers une économie de guerre et qu’il faut s’y adapter dès maintenant. Dans ce qu’a déclaré Thierry Breton, il y a aussi l’idée de s’attaquer à tous les goulots d’étranglement qui bloquent cette marche vers une économie de guerre. Il prévoit des dérogations aux règles européennes, déjà peu contraignantes, sur le temps de travail, c’est-à-dire de donner carte blanche aux patrons pour allonger la journée de travail dans les usines concernées. Le flot d’argent public dépensé en armement, que ce soit au niveau des États ou de l’Union européenne, sera pris sur la population d’une façon ou une autre. Chaque milliard en plus pour les obus signifiera un hôpital en moins demain.

  • Afrique : pillée par TotalEnergies
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/03/01/afrique-pillee-par-totalenergies_528273.html

    La Tanzanie a donné son accord, mardi 21 février, à la construction de l’oléoduc East African Crude Oil Pipeline (Eacop). Outre les ravages environnementaux à prévoir, cet énorme projet pétrolier est dénoncé depuis des années par les populations locales et les ONG.

    Le projet est en effet synonyme de #confiscation de terres et du délogement de dizaines de milliers de paysans. Mais les profits escomptés par les actionnaires pèsent plus lourd, particulièrement ceux de Total qui détient 62 % des parts.

    L’#Eacop doit relier sur 1 443 kilomètres les champs de pétrole du lac Albert en Ouganda au port de Tanga en #Tanzanie, sur l’océan Indien. Il a la particularité d’être chauffé à 50 degrés sur tout son trajet, du fait de la forte viscosité du pétrole brut ougandais. De plus, d’après un rapport publié en octobre 2022 par les associations Les amis de la Terre et Survie, environ 118 000 personnes parmi les paysans des régions où sera extrait puis acheminé le pétrole, seront chassées de leurs terres. Les multiples témoignages relayés par les médias depuis des années font état d’intimidations et de menaces, émanant des forces de sécurité de TotalEnergies et des forces armées ougandaises et tanzaniennes. Plusieurs leaders de communautés et des membres d’ONG locales ont été arrêtés et doivent aujourd’hui se cacher du fait de leur opposition au projet.

    La #multinationale_pétrolière nie bien entendu tout cela. Elle parle sur son site d’« attention forte au respect des droits des communautés » et explique que toutes les familles ont droit à une compensation financière. Dans les faits, de nombreux paysans chassés il y a plusieurs années disent n’avoir toujours rien perçu. Et même si ce devait être le cas, les sommes resteraient dérisoires face à la perte de leurs terres nourricières et du fait de l’#inflation.

    L’#oléoduc menace aussi le plus grand bassin d’eau douce d’Afrique, le bassin du #lac_Victoria, dont plus de 40 millions de personnes dépendent. Les militants des #ONG locales redoutent les fuites de pétrole, en se basant sur l’exemple catastrophique du #Nigeria.

    Le #pillage impérialiste, qui est au cœur de toute l’histoire de #TotalEnergies et de son ancêtre Elf, se poursuit, avec le soutien indéfectible de l’État français. Macron s’en défend depuis des années, et vient de réaffirmer le 27 février qu’il « n’y a plus de politique africaine de la France ». Dans les faits, il cherche juste à lui donner une forme plus discrète. L’Élysée a ainsi dû reconnaître que le président avait écrit en mai 2021 une lettre au président ougandais #Museveni, dans laquelle il affirme souhaiter une accélération du chantier Eacop. Face à la #loi_du_profit, le sort de la planète et des êtres humains compte pour rien.

    #impérialisme

  • Refusons la #Surveillance biométrique
    https://framablog.org/2023/02/24/refusons-la-surveillance-biometrique

    Vous avez hâte de voir les JO de Paris en 2024 ? Non ? Roooh… et la petite #Loi surveillance qui va avec ? Vous avez hâte de la voir appliquée aussi ? Non ? Alors cette BD est pour vous… BD réalisée dans le … Lire la suite­­

    #Lecture #Libertés_numériques #jeux_olympiques #Quadrature #surveillance_biométrique

  • Le 18 février 2023 nous avons manifesté contre la loi Darmanin et contre la construction, le maintien et la modernisation des Centres de Rétention Administrative (CRA). À Paris, le cortège est parti de la Porte Dorée jusqu’au niveau du CRA de Vincennes (à plusieurs centaines de mètres). La préfecture avait interdit, le matin même, le parcours jusqu’au CRA. Nous avons traversé le bois de Vincennes et son quartier résidentiel, bien bourgeois. Un manifestant a été interpellé après avoir régulé la circulation pour la manifestation.


    https://antiracisme-solidarite.org
    https://abaslescra.noblogs.org/contre-la-loi-darmanin-les-centres-de-retention-manifestation-le
    https://blogs.mediapart.fr/1528952/blog/130223/tract-et-visuels-ucij-pour-impression-et-communication-sur-les-resea

    Prochaine échéance, le samedi 4 mars partout en France

    #loi_Darmanin #CRA #Centre_de_rétention_administrative #sans_papier #OQTF #obligation_de_quitter_le_territoire_français #IRTF #interdiction_de_retour_sur_le_territoire_français

  • Campagne Antiracisme et Solidarité
    https://antiracisme-solidarite.org

    Français·e·s – Immigré·e·s :
    MÊME MACRON, MÊME COMBAT !
    Loi Darmanin contre les étranger·e·s : Danger pour tou·te·s !

    On ne peut plus reculer. Il faut défaire ce gouvernement et toute sa logique. Lutter contre le monde de Macron et Darmanin, contre les attaques sur nos retraites et contre la nouvelle loi immigration.
    faisons monter en puissance la mobilisation contre la loi Darmanin

    AGENDA NATIONAL

    SAMEDI 18 FÉVRIER | Manifestations contre la répression, l’enfermement et les expulsions pour dénoncer les Centres de Rétention Administrative et la loi Darmanin (Appel commun Bordeaux, Nantes, Lyon, Paris, Toulouse, Lille, Calais, Marseille).

    SAMEDI 4 MARS | Premières mobilisations partout en France contre la loi Darmanin ! « Uni.es contre l’immigration jetable. Pour une politique migratoire d’accueil ».

    SAMEDI 25 MARS | À l’occasion de la journée internationale contre la racisme, manifestations régionales contre la loi Darmanin.

    Appel unitaire contre la loi Darmanin et l’immigration jetable
    UCIJ 2023
    Nous refusons le nouveau projet de loi asile et immigration

    Le nouveau projet de loi Asile & Immigration du gouvernement conduit à une négation radicale des droits fondamentaux des migrant·e·s. Il a pour objectif de graver dans le marbre et de radicaliser les pratiques préfectorales arbitraires et répressives : systématisation des OQTF et des IRTF, dans la suite des instructions déjà prises pour augmenter les assignations à résidence et le nombre de Centre et Locaux de Rétention Administrative.

    Le projet s’inscrit délibérément dans une vision utilitariste et répressive dont témoigne l’obsession des expulsions et l’inscription des sans-papiers au fichier des personnes recherchées. Les migrant·e·s sont déshumanisé·e·s et considéré·e·s uniquement comme de la main d’œuvre potentielle, qui n’a droit qu’à des propositions de régularisations précaires, limitées aux métiers dits “en tension”. Alors que la dématérialisation prive de l’accès au séjour de nombreux étranger·e·s, le droit du séjour et le droit d’asile vont être encore plus restreints. Le projet prévoit des moyens pour empêcher d’accéder ou de rester sur le territoire, au lieu de les utiliser pour accueillir dignement celles et ceux qui fuient la guerre, les persécutions, la misère ou les conséquences du dérèglement climatique… Les droits protégés par les conventions internationales sont de plus en plus bafoués (asile, droit de vivre en famille, accueil des femmes et des personnes LGBTIA+ victimes de violences…) y compris ceux des enfants (enfermement, non-respect de la présomption de minorité, séparation des parents…). Les droits des étranger·e·s sont de plus en plus précarisés.
    L’attaque s’inscrit dans l’agenda global du gouvernement : chômage, retraites, logement, santé…

    En 2006 déjà, nous étions uni·e·s contre l’immigration jetable, nous appelons donc à nous mobiliser contre cette réforme qui, si elle était adoptée, accentuerait encore le fait que les étranger·e·s en France sont considéré·e·s comme une population de seconde zone, privée de droits, précarisée et livrée à l’arbitraire du patronat, de l’administration et du pouvoir. Il est de la responsabilité de nos organisations, associations, collectifs et syndicats de réagir. Nous appelons à la mobilisation la plus large possible sur tout le territoire dans les prochaines semaines.

    https://antiracisme-solidarite.org/argumentaire-contre-la-loi-darmanin
    https://antiracisme-solidarite.org/agenda

    #loi_darmanin #OQTF #IRTF #immigration #sans_papiers #antiracisme

    • Exploitation, vulnérabilité et résistance : le cas des #ouvriers_agricoles indiens dans l’Agro Pontino

      De nombreuses représentations trompeuses continuent à peser sur l’exploitation des ouvriers agricoles étrangers en Italie, rendant difficile la compréhension du phénomène et l’intervention sur ses causes réelles. Cet article tente de questionner les principaux lieux communs sur le sujet, en analysant un cas particulièrement éclairant : celui de la communauté #Pendjabi de #religion_sikh employée sur l’Agro Pontino, dans le Latium. Cette étude de cas permet, d’une part, de faire ressortir les conditions d’exploitation systémiques, masquées derrière des mécanismes apparemment légaux ; de l’autre, il révèle que même les individus les plus vulnérables peuvent résister à l’exploitation et revendiquer activement leurs droits.

      https://www.cairn.info/revue-confluences-mediterranee-2019-4-page-45.htm

    • #In_migrazione

      In Migrazione è una Società Cooperativa Sociale nata nel 2015 dalla volontà di persone impegnate nella ricerca, nell’accoglienza e nel sostegno agli stranieri in Italia.

      Diversi percorsi professionali e umani che hanno attraversato un ampio spaccato di esperienze diverse e che con In Migrazione si sono uniti per dare vita ad un soggetto collettivo, innovativo, aperto e trasparente.

      Una Cooperativa nata per sperimentare nuovi progetti di qualità e innovative metodologie al fine di interpretare e concretizzare percorsi d’aiuto efficaci verso i migranti che vivono nel nostro Paese situazioni di disagio e difficoltà. Esperienze concrete che sappiano diventare buone pratiche riproducibili, per contribuire a migliorare quel sistema di accoglienza e inclusione sociale degli stranieri.

      Le nostre ricerche e le concrete sperimentazioni progettuali mettono al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni, aspettative e sogni.

      Mettiamo a disposizione queste esperienze e le nostre metodologie alle altre associazioni, cooperative, Enti pubblici e privati, professionisti e volontari del settore, convinti che nel sociale non possano e non debbano esistere copyright.

      https://www.inmigrazione.it

    • Progetto “Dignità-Joban Singh”, contro la schiavitù dei braccianti

      Una serie di sportelli di accoglienza, ascolto e sostegno, ma anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Un progetto per dare voce alle vittime di lavoro schiavo, in memoria del giovane di origini indiane, morto suicida il 6 giugno 2020 a Sabaudia

      Si chiama Dignità-Joban Singh ed è il progetto in corso organizzato dall’associazione Tempi Moderni contro le varie forme di schiavismo e sfruttamento che mortificano e riducono in schiavitù migliaia di persone, immigrati e italiani, indiani e africani, uomini e donne, in questa Italia fondata sul lavoro ma anche su una persistente presenza di razzisti, violenti, mafiosi e di sfruttatori che mortificano la democrazia ed esprimono chiaramente la loro natura predatoria.

      Joban Singh, di appena 25 anni e residente nel residence “Bella Farnia Mare”, nel Comune di Sabaudia, in provincia di Latina, il 6 giugno scorso è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento. Joban decise di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo.

      Dedicare questo progetto alla sua memoria, per non dimenticare ciò che significa vivere come uno schiavo in un paese libero, è un impegno che viene sottoscritto da Tempi Moderni ma che può camminare solo sulle gambe di tanti, o meglio di una comunità di persone responsabili e ribelle contro i padroni e i padrini di oggi.

      In questa Italia ci sono, secondo il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400 e 450mila lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato. Di queste ultime, più di 180mila sono impiegate in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Secondo il sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%.

      Un fiume di denaro che è espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica. È questo un sistema che produce lo schiavismo contemporaneo, come più volte il “Rapporto Italia”, ancora dell’Eurispes, ha messo in luce.

      Ancora nel 2019, ad esempio, l’Eurispes aveva esplicitamente dichiarato che lo sfruttamento è una fattispecie criminale le cui principali vittime sono i migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Lo sfruttamento, infatti, risultava più diffuso nei comparti più esposti alle irregolarità, al sommerso e all’abuso, dove chi fornisce prestazioni lavorative è in condizione di maggiore vulnerabilità.

      Si registrano dunque casi più numerosi, ancora secondo l’Eurispes, nell’agricoltura e pastorizia, a danno di polacchi, bulgari, rumeni, originari dell’ex U.R.S.S., africani e, in misura crescente, pakistani e indiani; nell’edilizia, a danno di europei dell’Est; nel settore tessile e manifatturiero, a danno di cinesi; nel lavoro domestico (soprattutto come badanti), a danno di soggetti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’ex U.R.S.S., dall’Asia e dall’America del Sud.

      Insomma, uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche casi di violenza sessuale, di subordinazione delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno.

      In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla guardia di finanza, ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza.

      Dunque, cosa fare? Avere il coraggio di capire, organizzarsi e agire collettivamente. Non si hanno alternative. La povertà, lo sfruttamento, la schiavitù, la violenza, non si abrogano per decreto. Non basta una legge. Serve un’azione collettiva espressione di una volontà radicale di contrasto di questo fenomeno mediante innanzitutto l’accoglienza e l’ascolto delle sue vittime, la costruzione di una relazione orizzontale con loro, dialettica, professionale e anche in questo coraggiosa, perché si deve prevedere l’azione di denuncia dei padroni insieme a quella della tutela.

      Ed è questa la sintesi perfetta del progetto Dignità–Joban Singh che ha organizzato e avviato una serie di sportelli di accoglienza, ascolto, sostegno e anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Si tratta di sportelli che hanno il compito di accogliere e di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, di qualunque nazionalità, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione.

      Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire e gli insegnamenti di Don Milani, Don Primo Mazzolari e Don Sardelli. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi.

      Un progetto che però ha bisogno del sostegno della maggioranza di questo paese, donne e uomini che non vogliono vivere sotto il ricatto delle mafie, dei violenti, degli sfruttatori, dei neoschiavisti, dei razzisti, in favore di un’Italia che merita un futuro diverso, migliore.

      https://www.nigrizia.it/notizia/progetto-dignita-joban-singh-contro-la-schiavitu-dei-braccianti

    • Marco Omizzolo

      Marco Omizzolo is a sociologist, researcher and journalist, who has been documenting and denoucing human rights violations against Sikh migrant workers exploited in the fields in the province of Latina (central Italy). In a context where “agrimafia” is rampant and many farms are controlled by criminal organisations, migrants have to work for up to 13 hours a day in inhumane conditions and under the orders of “caporali” (gangmasters), they earn well below the minimum wage and they have to live in cramped accommodation. To document their situation, Marco has worked undercover in the fields and he also went to Punjab (India) to follow an Indian human trafficker, where he investigated the connections between human trafficking and the system of agrimafia. Marco is also one of the founders of InMigrazione, an organisation that supports migrant workers informing them about their rights, helping them organise and fight for labour rights, and giving them the legal support they might need. In 2016, Marco and some Sikh activists managed to organise the first mass strike in Latina, joined by over 4000 workers.

      Because of his work - and particularly because of his investigations denouncing the criminal organisations involved in the agribusiness and the local food industry - Marco Omizzolo has been receiving serious threats. His car has been repeatedly damaged, he is often under surveillance and he has been forced to relocate because of the threats received.

      https://www.frontlinedefenders.org/en/profile/marco-omizzolo

    • The Indian migrants lured into forced labor on Mussolini’s farmland

      Gurinder Dhillon still remembers the day he realized he had been tricked. It was 2009, and he had just taken out a $16,000 loan to start a new life. Originally from Punjab, India, Dhillon had met an agent in his home village who promised him the world.

      “He sold me this dream,” Dhillon, 45, said. A new life in Europe. Good money — enough to send back to his family in India. Clothes, a house, plenty of work. He’d work on a farm, picking fruits and vegetables, in a place called the Pontine Marshes, a vast area of farmland in the Lazio region, south of Rome, Italy.

      He took out a sizable loan from the Indian agents, who in return organized his visa, ticket and travel to Italy. The real cost of this is around $2,000 — the agents were making an enormous profit.

      “The thing is, when I got here, the whole situation changed. They played me,” Dhillon said. “They brought me here like a slave.”

      On his first day out in the fields, Dhillon climbed into a trailer with about 60 other people and was then dropped off in his assigned hoop house. That day, he was on the detail for zucchini, tomatoes and eggplant. It was June, and under the plastic, it was infernally hot. It felt like at least 100 degrees, Dhillon remembers. He sweated so much that his socks were soaked. He had to wring them out halfway through the day and then put them back on — there was no time to change his clothes. As they worked, an Italian boss yelled at them constantly to work faster and pick more.

      Within a few hours of that first shift, it dawned on Dhillon that he had been duped. “I didn’t think I had been tricked — I knew I had,” he said. This wasn’t the life or the work he had been promised.

      What he got instead was 3.40 euros (about $3.65) an hour, for a workday of up to 14 hours. The workers weren’t allowed bathroom breaks.

      On these wages, he couldn’t see how he would ever repay the enormous loan he had taken out. He was working alongside some other men, also from India, who had been there for years. ”Will it be like this forever?” he asked them. “Yes,” they said. “It will be like this forever.”

      Ninety years ago, a very different harvest was taking place. Benito Mussolini was celebrating the first successful wheat harvest of the Pontine Marshes. It was a new tradition for the area, which for millennia had been nothing but a vast, brackish, barely-inhabited swamp.

      No one managed to tame it — until Mussolini came to power and launched his “Battle for Grain.” The fascist leader had a dream for the area: It would provide food and sustenance for the whole country.

      Determined to make the country self-sufficient as a food producer, Mussolini spoke of “freeing Italy from the slavery of foreign bread” and promoted the virtues of rural land workers. At the center of his policy was a plan to transform wild, uncultivated areas into farmland. He created a national project to drain Italy’s swamps. And the boggy, mosquito-infested Pontine Marshes were his highest priority.

      His regime shipped in thousands of workers from all over Italy to drain the waterlogged land by building a massive system of pumps and canals. Billions of gallons of water were dredged from the marshes, transforming them into fertile farmland.

      The project bore real fruit in 1933. Thousands of black-shirted Fascists gathered to hear a brawny-armed, suntanned Mussolini mark the first wheat harvest of the Pontine Marshes.

      "The Italian people will have the necessary bread to live,” Il Duce told the crowd, declaring how Italy would never again be reliant on other countries for food. “Comrade farmers, the harvest begins.”

      The Pontine Marshes are still one of the most productive areas of Italy, an agricultural powerhouse with miles of plastic-covered hoop houses, growing fruit and vegetables by the ton. They are also home to herds of buffalo that make Italy’s famous buffalo mozzarella. The area provides food not just for Italy but for Europe and beyond. Jars of artichokes packed in oil, cans of Italian plum tomatoes and plump, ripe kiwi fruits often come from this part of the world. But Mussolini’s “comrade farmers” harvesting the land’s bounty are long gone. Tending the fields today are an estimated 30,000 agricultural workers like Dhillon, most hailing from Punjab, India. For many of them — and by U.N. standards — the working conditions are akin to slave labor.

      When Urmila Bhoola, the U.N. special rapporteur on contemporary slavery, visited the area, she found that many working conditions in Italy’s agricultural sector amounted to forced labor due to the amount of hours people work, the low salaries and the gangmasters, or “caporali,” who control them.

      The workers here are at the mercy of the caporali, who are the intermediaries between the farm workers and the owners. Some workers are brought here with residency and permits, while others are brought fully off the books. Regardless, they report making as little as 3-4 euros an hour. Sometimes, though, they’re barely paid at all. When Samrath, 34, arrived in Italy, he was not paid for three months of work on the farms. His boss claimed his pay had gone entirely into taxes — but when he checked with the government office, he found his taxes hadn’t been paid either.

      Samrath is not the worker’s real name. Some names in this story have been changed to protect the subjects’ safety.

      “I worked for him for all these months, and he didn’t pay me. Nothing. I worked for free for at least three months,” Samrath told me. “I felt so ashamed and sad. I cried so much.” He could hardly bring himself to tell his family at home what had happened.

      I met Samrath and several other workers on a Sunday on the marshes. For the Indian Sikh workers from Punjab, this is usually the only day off for the week. They all gather at the temple, where they pray together and share a meal of pakoras, vegetable curry and rice. The women sit on one side, the men on the other. It’s been a long working week — for the men, out in the fields or tending the buffaloes, while the women mostly work in the enormous packing centers, boxing up fruits and vegetables to be sent out all over Europe.

      Another worker, Ramneet, told me how he waited for his monthly check — usually around 1,300 euros (about $1,280) per month, for six days’ work a week at 12-14 hours per day. But when the check came, the number on it was just 125 euros (about $250).

      “We were just in shock,” Ramneet said. “We panicked — our monthly rent here is 600 euros.” His boss claimed, again, that the money had gone to taxes. It meant he had worked almost for free the entire month. Other workers explained to me that even when they did have papers, they could risk being pushed out of the system and becoming undocumented if their bosses refused to issue them payslips.

      Ramneet described how Italian workers on the farms are treated differently from Indian workers. Italian workers, he said, get to take an hour for lunch. Indian workers are called back after just 20 minutes — despite having their pay cut for their lunch hour.

      “When Meloni gives her speeches, she talks about getting more for the Italians,” Ramneet’s wife Ishleen said, referring to Italy’s new prime minister and her motto, “Italy and Italians first.” “She doesn’t care about us, even though we’re paying taxes. When we’re working, we can’t even take a five-minute pause, while the Italian workers can take an hour.”

      Today, Italy is entering a new era — or, some people argue, returning to an old one. In September, Italians voted in a new prime minister, Giorgia Meloni. As well as being the country’s first-ever female prime minister, she is also Italy’s most far-right leader since Mussolini. Her supporters — and even some leaders of her party, Brothers of Italy — show a distinct reverence for Mussolini’s National Fascist Party.

      In the first weeks of Meloni’s premiership, thousands of Mussolini admirers made a pilgrimage to Il Duce’s birthplace of Predappio to pay homage to the fascist leader, making the Roman salute and hailing Meloni as a leader who might resurrect the days of fascism. In Latina, the largest city in the marshes, locals interviewed by national newspapers talked of being excited about Meloni’s victory — filled with hopes that she might be true to her word and bring the area back to its glory days in the time of Benito Mussolini. One of Meloni’s undersecretaries has run a campaign calling for a park in Latina to return to its original name: Mussolini Park.

      During her campaign, a video emerged of Meloni discussing Mussolini as a 19-year-old activist. “I think Mussolini was a good politician. Everything he did, he did for Italy,” she told journalists. Meloni has since worked to distance herself from such associations with fascism. In December, she visited Rome’s Jewish ghetto as a way of acknowledging Mussolini’s crimes against humanity. “The racial laws were a disgrace,” she told the crowd.

      A century on from Italy’s fascist takeover, Meloni’s victory has led to a moment of widespread collective reckoning, as a national conversation takes place about how Mussolini should be remembered and whether Meloni’s premiership means Italy is reconnecting with its fascist past.

      Unlike in Germany, which tore down — and outlawed — symbols of Nazi terror, reminders of Mussolini’s rule remain all over Italy. There was no moment of national reckoning after the war ended and Mussolini was executed. Hundreds of fascist monuments and statues dot the country. Slogans left over from the dictatorship can be seen on post offices, municipal buildings and street signs. Collectively, when Italians discuss Mussolini, they do remember his legacy of terror — his alliance with Adolf Hitler, anti-Semitic race laws and the thousands of Italian Jews he sent to the death camps. But across the generations, Italians also talk about other legacies of his regime — they talk of the infrastructure and architecture built during the period and of how he drained the Pontine Marshes and rid them of malaria, making the land into an agricultural haven.

      Today in the Pontine Marshes, which some see as a place brought into existence by Il Duce — and where the slogans on one town tower praise “the land that Mussolini redeemed from deadly sterility” — the past is bristling with the present.

      “The legend that has come back to haunt this town, again and again, is that it’s a fascist city. Of course, it was created in the fascist era, but here we’re not fascists — we’re dismissed as fascists and politically sidelined as a result,” Emilio Andreoli, an author who was born in Latina and has written books about the city’s history, said. Politicians used to target the area as a key campaigning territory, he said, but it has since fallen off most leaders’ agendas. And indeed, in some ways, Latina is a place that feels forgotten. Although it remains a top agricultural producer, other kinds of industry and infrastructure have faltered. Factories that once bustled here lie empty. New, faster roads and railways that were promised to the city by previous governments never materialized.

      Meloni did visit Latina on her campaign trail and gave speeches about reinvigorating the area with its old strength. “This is a land where you can breathe patriotism. Where you breathe the fundamental and traditional values that we continue to defend — despite being considered politically incorrect,” she told the crowd.

      But the people working this land are entirely absent from Meloni’s rhetorical vision. Marco Omizzolo, a professor of sociology at the University of Sapienza in Rome, has for years studied and engaged with the largely Sikh community of laborers from India who work on the marshes.

      Omizzolo explained to me how agricultural production in Italy has systematically relied on the exploitation of migrant workers for decades.

      “Many people are in this,” he told me, when we met for coffee in Rome. “The owners of companies who employ the workers. The people who run the laborers’ daily work. Local and national politicians. Several mafia clans.”

      “Exploitation in the agricultural sector has been going on for centuries in Italy,” Giulia Tranchina, a researcher at Human Rights Watch focusing on migration, said. She described that the Italian peasantry was always exploited but that the system was further entrenched with the arrival of migrant workers. “The system has always treated migrants as manpower — as laborers to exploit, and never as persons carrying equal rights as Italian workers.” From where she’s sitting, Italy’s immigration laws appear to have been designed to leave migrants “dependent on the whims and the wills of their abusive employers,” Tranchina said.

      The system of bringing the workers to Italy — and keeping them there — begins in Punjab, India. Omizzolo described how a group of traffickers recruits prospective workers with promises of lucrative work abroad and often helps to arrange high-interest loans like the one that Gurinder took out. Omizzolo estimates that about a fifth of the Indian workers in the Pontine Marshes come via irregular routes, with some arriving from Libya, while many others are smuggled into Italy from Serbia across land and sea, aided by traffickers. Their situation is more perilous than those who arrived with visas and work permits, as they’re forced to work under the table without contracts, benefits or employment rights.

      Omizzolo knows it all firsthand. A Latina native, he grew up playing football by the vegetable and fruit fields and watching as migrant workers, first from North Africa, then from India, came to the area to work the land. He began studying the forces at play as a sociologist during his doctorate and even traveled undercover to Punjab to understand how workers are picked up and trafficked to Italy.

      As a scholar and advocate for stronger labor protections, he has drawn considerable attention to the exploitative systems that dominate the area. In 2016, he worked alongside Sikh laborers to organize a mass strike in Latina, in which 4,000 people participated. All this has made Omizzolo a target of local mafia forces, Indian traffickers and corrupt farm bosses. He has been surveilled and chased in the street and has had his car tires slashed. Death threats are nothing unusual. These days, he does not travel to Latina without police protection.

      The entire system could become even further entrenched — and more dangerous for anyone speaking out about it — under Meloni’s administration. The prime minister has an aggressively anti-migrant agenda, promising to stop people arriving on Italy’s shores in small boats. Her government has sent out a new fleet of patrol boats to the Libyan Coast Guard to try to block the crossings, while making it harder for NGOs to carry out rescue operations.

      At the end of February, at least 86 migrants drowned off the coast of Calabria in a shipwreck. When Meloni visited Calabria a few weeks later, she did not go to the beach where the migrants’ bodies were found or to the funeral home that took care of their remains. Instead, she announced a new policy: scrapping special protection residency permits for migrants.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      The idealistic image of the harvest was powerful propaganda at the time. Not shown were the workers, brought in from all over the country, who died of malaria while digging the trenches and canals to drain the marsh. It also stands in contrast to today’s reality. Workers are brought here from the other side of the world, on false pretenses, and find themselves trapped in a system with no escape from the brutal work schedule and the resulting physical and mental health risks. In October, a 24-year-old Punjabi farm worker in the town of Sabaudia killed himself. It’s not the first time a worker has died by suicide — depression and opioid addiction are common among the workforce.

      “We are all guilty, without exception. We have decided to lose this battle for democracy. Dear Jaspreet, forgive us. Or perhaps, better, haunt our consciences forever,” Omizzolo wrote on his Facebook page.

      Talwinder, 28, arrived on the marsh last year. “I had no hopes in India. I had no dreams, I had nothing. It is difficult here — in India, it was difficult in a different way. But at least [in India] I was working for myself.” His busiest months of the year are coming up — he’ll work without a day off. And although the mosquitoes no longer carry malaria, they still plague the workers. “They’re fatter than the ones in India,” he laughs. “I heard it’s because this place used to be a jungle.”

      Mussolini’s vision for the marsh was to turn it into an agricultural center for the whole of Italy, giving work to thousands of Italians and building up a strong working peasantry. Today, vegetables, olives and cheeses from the area are shipped to the United States and sold in upmarket stores to shoppers seeking authentic, artisan foods from the heart of the old world. But it comes at an enormous price to those who produce it. And under Meloni’s premiership, they only expect that cost to rise.

      “These days, if my family ask me if they should come here, like my nephew or relatives, I tell them no,” said Samrath. “Don’t come here. Stay where you are.”

      https://www.codastory.com/rewriting-history/indian-migrants-italy-pontine-marshes

  • Loi sur l’immigration : diviser dans l’intérêt du patronat

    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/02/08/loi-sur-limmigration-diviser-dans-linteret-du-patronat_49414

    Le projet de #loi_Immigration a été présenté en Conseil des ministres le 1er février. Depuis les années 1980, c’est le 29e texte législatif consacré au droit d’asile et à l’#immigration, le second de l’ère Macron.

    L’ objectif est toujours le même : faire diversion en cette période de crise et diviser les travailleurs, le tout sans léser le patronat à la recherche d’une main-d’œuvre sous-payée.

    Chaque loi a introduit un tour de vis supplémentaire contre les candidats à l’asile. Le dernier projet « rogne un petit peu plus le droit de l’asile, le droit à une vie familiale normale, les droits de l’enfant et le droit à un procès équitable », selon le président d’#Amnesty_International_France. La loi supprime la ­possibilité de déposer un recours lors du rejet de la demande d’asile ; et l’ordre de quitter le territoire, qui fera l’objet d’une inscription sur un fichier, sera délivré plus rapidement.

    Le caractère expéditif des décisions risque d’être renforcé par le recours à un juge unique, alors que jusqu’à présent la Cour nationale du #droit_d’asile statuait de façon collégiale. « Là, ça va confiner à l’abattage. On veut juger plus vite, pour débouter plus vite, pour expulser plus vite », a commenté la présidente de l’association des avocats du droit d’asile Elena.

    Cette fermeté revendiquée se double d’une volonté de garantir aux secteurs prétendus sous tension, comme l’hôtellerie ou le bâtiment, une main-d’œuvre d’origine étrangère, en délivrant des cartes de séjour au compte-gouttes et renouvelables tous les ans. Aucun démagogue anti-immigrés ne songe à priver le patronat de sa chair à exploiter à bas coût. Ainsi, en plus de s’inscrire dans l’objectif de diviser les travailleurs français et immigrés, cette nouvelle loi introduit une division entre immigrés, dont les patrons seront les seuls gagnants, car le chantage aux papiers, qui existe déjà de fait mais qui entrera dans la loi, permettra de faire pression sur les #salaires et les #conditions_de_travail.

    Contre toutes les divisions, entre travailleurs français et #immigrés, entre #travailleurs_immigrés, la ­liberté de circulation et d’installation doit être rappelée comme un #droit_humain élémentaire, mais aussi comme un moyen de défense de la classe ouvrière qui, par-­delà les différences de nationalités, doit être unie face au patronat et au gouvernement à son service.

    #exploitation #capitalisme #main_d’oeuvre

  • https://reporterre.net/A-La-Reunion-des-habitants-s-opposent-a-un-parc-de-loisirs-sur-le-volcan

    Hugo Picard, la cinquantaine, est un enfant du coin : petits-fils du guide du volcan, fils d’éleveur, il est lui-même éleveur de bœufs en contrebas du piton Dugain. Derrière son large sourire, son discours est tranché : « La mairie veut acheter une partie de mes terres pour faire passer la piste d’accès aux tyroliennes. Ils m’ont fait plein de propositions : nettoyer ma retenue collinaire, arranger mon chemin, et même donner un boulot à ma femme ! » raconte le Réunionnais.

    Mais Hugo est droit dans ses bottes, il ne veut pas de ce projet et tient à défendre les terres agricoles. « Je préfère développer la souveraineté alimentaire, nourrir le peuple. Mais pas de béton ! Le béton, ce n’est pas ça qui donne à manger »

    #parc_d'attractions #loisirs #dégradation #tourisme #marchandisation #usure_du_monde #projet_écocidaire #bio-diversité

  • Logement : Appel à se mobiliser le 28 janvier contre « une proposition de loi scélérate » de la majorité - Basta !
    https://basta.media/Logement-loi-kasbarian-berger-appel-a-se-mobiliser-contre-une-loi-scelerat-

    Une proposition de loi de deux parlementaires de la majorité promet une répression encore plus sévère des locataires précaires et sans-logis squatteurs. Des associations appellent à une mobilisation le 28 janvier, avant l’examen du texte au Sénat.

    Proposition de loi portée par Guillaume Kasbarian et Aurore Bergé (présidente du troupeau macroniste à l’assemblée).
    https://seenthis.net/messages/986268
    #loi_scélérate #macronie