• Donne lavoratrici immigrate tra oppressioni e resistenze: generare percorsi di trasformazione sociale

    Quali cambiamenti e processi di trasformazione possono essere messi in moto dall’intraprendere un percorso collettivo e autorganizzato di lotta sindacale sul luogo di lavoro, sia per le soggettività che vi prendono parte, sia per la collettività e i territori in cui queste lotte avvengono?

    È questa la domanda da cui ha preso avvio una ricerca empirica qualitativa che mi ha portato tra i mesi di maggio e ottobre 2021 a conoscere e intervistare svariate lavoratrici immigrate e attivisti/e di diverse realtà politico-sociali coinvolte in due percorsi di lotta dentro e fuori i rispettivi luoghi di lavoro dal 2018 ad oggi. I due casi studio analizzati si trovano in Emilia-Romagna, crocevia strategico per l’attività logistica di tutto il paese, e rappresentano due eccellenze del made in Italy conosciute a livello internazionale: lo stabilimento produttivo di un’azienda alimentare famosa per l’esportazione di prodotti di qualità e i magazzini di imballaggio e spedizione di un colosso dell’e-commerce nell’ambito della moda di lusso.
    Diversi luoghi di impiego, comuni condizioni: essere donne immigrate nel mercato del lavoro italiano

    Al 1 gennaio 2020 (ISTAT) si registrano in Italia 2.607.959 donne straniere, circa il 51,7% della popolazione immigrata europea ed extraeuropea regolarmente residente con un tasso di occupazione che si attesta attorno al 50,7% (in linea con il tasso di occupazione delle donne italiane, 50,2%), rappresentando circa il 43% della manodopera straniera totale, che nel 2019 risultava essere di 2.505.186 persone straniere con un’incidenza di quasi l’11% sulla forza lavoro complessiva del paese (Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche Sociali, 2020). È necessario precisare che questi dati non comprendono le stime del lavoro sommerso, ampiamente diffuso in tutta la penisola e che interessa un’importante fetta della popolazione immigrata (per approfondimenti: Fondazione Leone Moressa, 2020).

    Le occupazioni in cui si trovano maggiormente impiegate le donne immigrate sono caratterizzate da un’alta intensità lavorativa in settori che difficilmente possono essere delocalizzati all’estero e che necessitano di un abbattimento dei costi del lavoro vivo per mantenere un’alta competitività nel mercato o per renderli accessibili alla massa della popolazione (Cvajner, 2018). Questa segregazione lavorativa verso impieghi squalificati e spesso squalificanti determina che se la metà dei lavoratori italiani copre almeno 44 diverse professioni, il 50% degli occupati stranieri si concentra in solo 13 professioni. Se si restringe lo sguardo sulle donne, emerge che la metà delle lavoratrici italiane ricopre circa 20 professioni, mentre il 50% delle lavoratrici immigrate appena 3 ambiti occupazionali: servizi domestici, cura alla persona, pulizie (IDOS, 2020).

    Vi sono altri due settori in cui per specifiche mansioni si concentra un alto numero di manodopera straniera femminile e anch’essi sono caratterizzati da alta intensità di lavoro e dalla necessità di una forza lavoro flessibile, adattabile, attivabile al bisogno e disponibile ad orari anomali: i settori agricolo e logistico. In riferimento a quest’ultimo, i principi logistici di efficienza, tempestività, flessibilità, affidabilità e economicità che influenzano l’organizzazione del lavoro lungo tutta la filiera produttiva inserita in un sistema economico sempre più improntato alle modalità pull di produzione snella, Just in Time e toyotista, riscontrano nella manodopera immigrata femminile quelle vulnerabilità situazionali e sistemiche che la rendono facilmente sfruttabile.

    È all’interno di questa cornice che si ritrovano le donne protagoniste di questa ricerca, le quali ricoprono una posizione lavorativa regolata dai principi logistici sopra brevemente descritti e alle quali vengono imposte condizioni comunemente segnate da: sottoinquadramenti sistemici e conseguenti sottoretribuzioni; rapporti contrattuali esternalizzati e appaltati; ritmi frenetici, flessibili e mala gestione degli orari di lavoro; precarietà contrattuale dovuta ad un utilizzo scorretto dello strumento della “cooperativa” e della prassi diffusa del “cambio appalto”; clima e atteggiamenti antisindacali e violenze verbali e simboliche dal carattere sessista e razzista (SI Cobas, 2017).

    Per comprendere le ampie cause strutturali alla base di queste condizioni lavorative e di vita e, allo stesso modo, delle motivazioni che hanno spinto a mobilitarsi, è necessaria una prospettiva d’analisi intersezionale (Crenshaw, 1989) capace di riconoscere e tenere assieme i molteplici assi lungo cui scorrono simultaneamente discriminazioni e oppressioni. In questo caso, analizzando la condizione delle sette lavoratrici intervistate, gli assi intersecati dal loro locus sociale (Ribeiro, 2020) sono: il genere femminile; la classe sociale lavoratrice operaia; il background migratorio; lo status giuridico (cittadinanza straniera-permesso di soggiorno); la nazionalità/etnia (Marocco, Tunisia, Ucraina, Moldavia, Filippine); il ruolo familiare di madre.

    Queste donne, quindi, intersecano vulnerabilità e subalternità legate non solo alle necessità economiche. Tutte hanno infatti raccontato di come siano consapevoli di essere manodopera facilmente ricattabile e di come vengano quotidianamente poste di fronte a scelte escludenti e peggiorative per sé stesse e per la propria famiglia: per garantire il proprio permesso di soggiorno e quello dei figli minorenni, nati e cresciuti in Italia, necessitano di mantenere un contratto di lavoro in occupazioni che non rispettano i loro diritti e che non lasciano la possibilità di conciliare i compiti di cura e di riproduzione sociale, trovandosi per di più impossibilitate nel mettere in discussione questi ruoli familiari dato che anche i loro partners sono soggetti a simili condizioni lavorative. Usando le parole di una delle lavoratrici, non resta altra scelta che attivarsi e reclamare giustizia:

    «Si inizia ad iscriversi e a lottare innanzitutto per la disperazione, per come ci trattano i padroni: se no un’altra ragione non c’è per cui delle lavoratrici escano fuori a fare sciopero.»

    Ecco che, come afferma Anna Tsing, l’analisi del sistema della logistica è necessaria per capire i dilemmi della condizione umana odierna: le diseguaglianze e le differenze preesistenti sono più che mai reali e sfruttate, rivitalizzate e usate a proprio favore anche dal supply chains capitalism, agendo così un supersfruttamento (Tsing, 2009).

    Lo spazio sociale occupato da queste donne non deve però essere inteso in modo deterministico o passivizzante: come dimostrano i due casi studio, può rappresentare un luogo dal quale si costruiscono percorsi di lotta e rivendicazioni dal carattere plurale, inclusivo, reticolare.
    Generare processi di trasformazione e cambiamenti individuali e collettivi

    Grazie alla prospettiva intersezionale che ha permesso di considerare le ampie cause alla base di questi sfruttamenti, ho potuto allo stesso modo cogliere come queste mobilitazioni siano indispensabilmente e intrinsecamente coinvolte con altre cause sociali, ad esempio quelle per la revisione del sistema dei permessi di soggiorno e contro la violenza di genere, e come abbiano fin da subito intrecciato altre realtà politiche (dal basso e istituzionali) travalicando i confini della fabbrica e andando oltre le rivendicazioni più prettamente sindacali.

    I risultati emersi dalla ricerca evidenziano pertanto diversi cambiamenti che hanno influito sulle singole lavoratrici e sulla collettività tutta.

    Per quanto riguarda le lavoratrici, sono stati registrati cambiamenti a livello di:

    adeguamento contrattuale, salariale e di gestione dei tempi di lavoro: miglioramenti che hanno influito anche sulla qualità della vita extra-lavorativa della donna e di tutto il nucleo familiare;
    apprendimento e sviluppo di sapere esperto utile per affrontare situazioni di difficoltà, diventando un punto di riferimento anche per familiari e conoscenti;
    coscientizzazione e nuova percezione del sé, delle proprie possibilità e capacità di agency, sia ai propri occhi che a quelli delle persone esterne, determinando prese di parola e processi di autodeterminazione importanti;
    rafforzamento e ampliamento delle reti sociali e di supporto formali e informali;
    socializzazione ai movimenti sociali e alle realtà politiche presenti sul territorio, anche per i propri partners e figli/e: queste donne si sono fatte soggetti politici attivi ponendosi come cittadine attiviste (Montagna, 2017) capaci di atti di cittadinanza e di richieste di giustizia forzando il concetto formale di cittadinanza. (Cherubini, 2018; Isin, 2008).

    Gli impatti sulle comunità coinvolte si possono riassumere nei seguenti punti:

    – la diffusione di presidi di giustizia e legalità, richiamando i vari attori sociali alle loro responsabilità, diffondendo tra la cittadinanza consapevolezza in merito a queste tematiche e impedendo che alcune prassi corrotte possano replicarsi facilmente in altre fabbriche e in altri territori;
    - una rivitalizzazione delle reti sociali e delle realtà sindacali e di movimento che ha permesso contaminazioni e intersezioni delle lotte, maggiore coesione comunitaria e la costruzione di nuovi spazi e reti cittadine che trattano varie questioni politico-sociali di interesse comune;
    - costruzione di solidarietà e un contributo al processo di ricomposizione di classe.

    Conclusioni

    Ciò che emerge da questa ricerca a livello locale in riferimento ai risvolti positivi riscontrati, è che questi percorsi collettivi autorganizzati hanno generato importanti processi di cambiamento, di auto- emancipazione e trasformazione in senso migliorativo tanto per le singole soggettività quanto a livello comunitario e sociale verso la costruzione di una classe per sé combattendo pregiudizi, sfiducia, isolamento e individualismo che caratterizzano i luoghi di lavoro e la società intera. Come ha detto una lavoratrice:

    «Se noi prendiamo un frutto, sarà per tutti. È una lotta che è sempre per tutti. […] l’importante è che l’abbiamo fatta, l’importante è che si fa. E si fa per le nostre generazioni: magari un domani un’altra italiana che ha visto la nostra lotta, ce la fa anche lei!».

    Bibliografia

    Cherubini Daniela
    2018 Nuove cittadine, nuove cittadinanze? Donne migranti e pratiche di partecipazione, Milano, Maltemi Linee.

    Crenshaw Kimberlè
    1989 Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Policies, «The University of Chicago Legal Forum», 1.

    Cvajner Martina
    2018 Sociologia delle migrazioni femminili. L’esperienza delle donne post-sovietiche, Bologna, Il Mulino.

    Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione (a cura di)
    2020 X Rapporto annuale. Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

    Fondazione Leone Moressa
    2020 Immigrazione e lavoro nero, Economia dell’immigrazione

    IDOS Centro Studi e Ricerche
    2020 Dossier statistico Immigrazione 2020, Roma, IDOS.

    Isin Engin
    2008 Theorizing acts of citizenship, in Acts of citizen ship, a cura di E. Isin e G. Nielsen, London-New York, Zed Books.

    ISTAT, Stranieri residenti al 1 gennaio

    Montagna Nicola
    2017 Dominant or subordinate? The relational dynamics in a protest cycle for undocumented migrant rights, «Ethnic and Racial Studies».

    Ribeiro Djamila
    2020 Il luogo della parola, Alessandria, Capovolte.

    SI Cobas
    2017 Carne da macello. Le lotte degli operai della logistica e il teorema repressivo contro il SI COBAS e le conquiste dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia, Roma, Red Star Press.

    Tsing Anna
    2009 Supply chains and the human condition, «Rethinking Marxism», 21(2).

    https://www.meltingpot.org/2022/04/donne-lavoratrici-immigrate-tra-oppressioni-e-resistenze-generare-percor
    #femmes #femmes_migrantes #migrations #travail #résistance #oppression #Italie #Emilie-Romagne #made_in_Italy #conditions_de_travail #logistique

  • Migranti morti in #A10 a #Bordighera, soppresse due fermate della #Rt

    Decisione presa da tavolo tecnico in Prefettura. Gli stranieri erano soliti scendere dalla corriera e inerpicarsi in collina per raggiungere l’autostrada dove li attendevano i passeur.

    Due fermate della corriera di linea della #Riviera_Trasporti, l’azienda che si occupa del trasporto pubblico in provincia di Imperia, sono state temporaneamente soppresse a Bordighera per evitare che i migranti le utilizzino per raggiungere #Montenero e, da lì, attraversare l’autostrada che, per un certo tratto, corre parallela ad un sentiero della collina bordigotta.

    La decisione di sopprimere le fermate in località #Madonna_della_Ruota e #regione_Termini, nel tratto di #Aurelia del Comune di Bordighera verso il confine con #Ospedaletti, è stata presa dalla Prefettura di concerto con le forze dell’ordine, a seguito di tavoli tecnici riuniti dopo l’incidente, avvenuto in A10 all’alba del 2 aprile scorso, in cui due migranti sono morti e uno è rimasto gravemente ferito mentre attraversavano la carreggiata dell’Autofiori, investiti da un furgone diretto in Francia.

    Stando a quanto riscontrato dalle forze dell’ordine, infatti, gli stranieri erano soliti utilizzare proprio quelle due fermate per poi scendere dalla corriera e inerpicarsi in collina per raggiungere l’autostrada: qui, probabilmente, ad attenderli c’erano i passeur che, dopo aver riscosso un compenso, li accompagnavano oltre confine.

    La decisione di cancellare, anche solo temporaneamente, le due fermate dell’autobus ha lasciato scontenti i residenti che, per poter salire sulla corriera, devono percorrere diverse centinaia di metri per raggiungere la prima fermata ancora attiva.

    https://www.riviera24.it/2022/07/migranti-morti-in-a10-a-bordighera-soppresse-due-fermate-della-rt-773182
    #arrêt_de_bus #bus #suppression #migrations #asile #réfugiés #frontières #France #Italie #Vintimille #Alpes_Maritimes #décès #morts #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #transports_publics
    #la_fausse_bonne_décision #la_fausse_bonne_idée

  • Unity is merging with a company who made a malware installer | PC Gamer
    https://www.pcgamer.com/unity-is-merging-with-a-company-who-made-a-malware-installer

    IronSource is also well-known for another reason. It developed InstallCore, a wrapper for bundling software installations. If you’ve searched for a popular program and seen a link to a third-party site with a URL that ended in something like “downloadb.net” or “hdownload.net” it may well have been InstallCore. If you made the mistake of downloading it, you’d be offered the kind of extras with generic names like RegClean Pro and DriverSupport an unsophisticated user might click OK on, which is how you end up with a PC full of toolbars and junk that’s as slow as your parents’ is. InstallCore was obnoxious enough Windows Defender will stop it running(opens in new tab), and Malwarebytes(opens in new tab) too.

    As documented by Microsoft’s chief economist for web experience, strategy, and policy Ben Edelman(opens in new tab), InstallCore was also behind a fake installer for a Windows version of Snapchat, a program that’s only ever been available on mobile. It would instead install Android emulator BlueStacks, as well as the usual injection of adware.

    […]

    The Wall Street Journal(opens in new tab) reports Unity has agreed to pay $4.4 billion for IronSource.

    Développer des malwares, ça paye.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #business #rachat #unity #ironsource #installcore #installation #malware #bluestacks #snapchat #android #adware #réputation #eréputation #spoiled_cat #windows_defender #malwarebytes #andreia_gaita #maddy_thorson #jeu_vidéo_celeste #supersonic #tapjoy #publicité #unity_ads #weta_digital

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

    #blé #prix #Ukraine #Russie #guerre_en_Ukraine #guerre_globale_du_blé #produits_essentiels #ressources_pédagogiques #Etats-Unis #USA #Inde #instabilité #marché #inflation #céréales #indice_alimentaire #spéculation #globalisation #mondialisation #production #Afrique #production_agricole #malnutrition #excédent #industrie_agro-alimentaire #agrobusiness #faim #famine #Ethiopie #Arabie_Saoudite #land_grabbing #accaparemment_des_terres #Soudan #Egypte #Corée_du_Sud #exportation #aide_alimentaire #Angola #alimentation #multinationales #pays_du_Golfe #Mali #Madagascar #Ghana #fonds_souverains #sanctions #marchés_financiers #ports #Odessa #Mikolaiv #Mariupol #assurance #élevage #sanctions #dépendance_énergétique #énergie #ouragan_de_faim #dépendance #Turquie #Liban #pac #politique_agricole_commune #EU #UE #Europe #France #Maroc #Algérie

  • Pouvoir vivre en #Ville_sans_voitures individuelles
    http://carfree.fr/index.php/2022/06/16/pouvoir-vivre-en-ville-sans-voitures-individuelles

    Dans le cadre du programme électoral du Parti Pirate pour les #élections législatives #2022, on trouve une proposition intitulée « Pouvoir vivre en #ville sans voitures individuelles… » Pouvoir vivre en ville Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Quartiers_sans_voitures #Vie_sans_voiture #bordeaux #londres #lyon #madrid #marseille #oslo #paris #politique #sans_voiture #toulouse

  • Au nom des femmes

    Cinq lieux emblématiques à Grenoble prennent le nom de femmes qui ont marqué l’Histoire. Cette #féminisation des noms d’espaces publics intervient dans le cadre de la politique d’#égalité femmes-hommes de la Ville. La municipalité vise 100% de nouvelles dénominations féminines.

    Le jardin #Gisèle_Halimi

    Le jardin des Vallons, qui longe la Caserne de Bonne, porte le nom de Gisèle Halimi. Tout au long de sa vie, cette députée de l’Isère (1981-1984) et ambassadrice de France à l’UNESCO puis à l’ONU (à partir de 1985) a lutté contre les violences faites aux femmes, pour l’égalité des genres, contre le racisme, le colonialisme et la mondialisation sauvage.

    Le jardin Joséphine-Baker

    Lové au creux du Muséum, le jardin des Plantes s’appelle aujourd’hui #Joséphine_Baker, en hommage à cette femme résistante et engagée contre toutes les formes de discrimination.

    Dans les années folles, cette vedette populaire de cabaret était aussi activiste au sein du mouvement Harlem et défendait l’émancipation des noir-es face à la ségrégation raciale aux Etats-Unis. Militante pour l’égalité et artiste iconique, elle est la sixième femme et la première femme noire à entrer au Panthéon.

    Le parvis Madeleine-Pauliac/Escadron bleu

    Le parvis de la gare change lui aussi de nom. Médecin et résistante, #Madeleine_Pauliac a dirigé l’Escadron bleu, l’unité mobile n° 1 de la Croix-Rouge constituée de onze femmes volontaires. En 1945, 200 expéditions sanitaires ont pu ainsi être menées dans une Pologne sous domination soviétique.

    La Halle Alice-Milliat

    La Halle de tennis située avenue de la Mogne devient la Halle #Alice_Milliat. Engagée pour l’émancipation, l’égalité et l’indépendance des femmes dans le sport, elle est à l’origine des premiers Jeux Olympiques féminins en 1922.

    Elle est aussi la première femme juge pour les épreuves d’athlétisme des hommes en 1928. En 2021, une statue est inaugurée en son honneur dans le hall du siège du CIO.

    Le parc Isaure-Perier

    Un nouveau parc dans le quartier Bouchayer-Viallet va être baptisé #Isaure_Perier. Militante pour l’égalité et l’enseignement des filles, cette écrivaine féministe faisait, entre autres, partie des cinq femmes membres de la commission désignée par la Commune chargée d’organiser l’enseignement dans les écoles de filles.

    Aussi, férue d’oeuvres d’art, elle a légué sa collection, avec son mari, au musée de Grenoble en 1930.

    https://www.gre-mag.fr/actualites/nom-femmes-espace-public
    #toponymie #noms_de_rue #Grenoble #femmes #toponymie_féministe

  • Un détail sexiste parmi tant d’autres
    Aujourd’hui, j’ai rédigé une annonce « leboncoin » qui a été refusée pour … discrimination.

    Voici le texte qui explique le refus

    Des propos discriminatoires ont été identifiés dans le contenu de votre annonce.

    Conformément à nos règles de diffusion, il est interdit de déposer une annonce contenant des propos discriminatoires.

    Afin que votre annonce soit diffusée sur notre site, nous vous invitons à décrire précisément votre bien sans ajouter de mention discriminatoire.

    Capture d’écran

    Voici le texte refusé pour discrimination, be enjoy, même les petits combats serviront un jour.

    Bonjour,

    C’est un détail, mais ces détails cumulés pourrissent la vie des femmes, et celui-là me rappelle chaque fois que les femmes sont toujours méprisées en 2022 en france, pays des droits de l’homme, mais pas celui des femmes.
    Alors si comme moi vous en avez assez d’être sur une plateforme qui ose écrire

    « Madeleine a confirmé la disponibilité de l’article : il doit désormais confirmer l’envoi »
    au lieu simplement de l’écriture inclusive suivante
    « Madeleine a confirmé la disponibilité de l’article : et confirmera l’envoi prochainement »

    SI vous en avez assez de voir que le genre masculin prédomine non seulement dans les papiers administratifs mais aussi dans les sites de ventes en ligne et dans tout écrit sous le prétexte odieux que « le masculin l’emporte sur le féminin » et que toutes les strates de la société en pâtissent sans que personne ne dise ou ne fasse rien.

    Si vous souhaitez que cela change en demandant collectivement au boncoin d’utiliser une écriture inclusive pour tout·es,

    Vous pouvez me contacter en m’envoyant un message « oui je suis d’accord avec vous pour que cesse les pratiques d’invisibilisation des femmes ».

    Bien à vous !

    #Madeleine

    • Message au service client Lbc :
      Bonjour , lors de mon achat à Catherine M , Leboncoin m’a envoyé le message suivant : « Catherine a confirmé la disponibilité de l’article il doit désormais confirmer l’envoi »
      Pourquoi ce « il » systématiquement masculin ???
      « ET doit désormais confirmer l’envoi » ne serait pas plus simple ?
      Moins bêtement sexiste aussi !
      Non ?

    • La réponse du service client Lbc :
      « Je fais suite à votre message concernant la civilité de votre vendeur.
      Votre avis nous est précieux, il nous permet d’améliorer continuellement la qualité de notre site.
      De ce fait, je prends note de votre remarque et je la transfère directement à l’équipe concernée. »
      De là à ce que se soit suivi d’effet...

  • #sudfa media

    Ahlan et bienvenue ! Nous sommes un petit groupe d’amis et militants français et soudanais. Notre objectif : visibiliser l’#actualité et l’histoire soudanaises – politique, sociale ou culturelle – ainsi que la communauté soudanaise en France. Pour cela, nous nous proposons de traduire des articles écrits par des personnes soudanaises au Soudan ou en Europe, de co-écrire, entre personnes soudanaises et françaises, des articles sur divers sujets, et de publier des entretiens avec différents acteurs et actrices de la communauté soudanaise en Europe.

    Le premier numéro du média sudfa est sorti en décembre 2021 :

    À l’heure où le peuple soudanais a de nouveau pris les rues pour réclamer la chute des militaires (le général Burhan qui a pris le pouvoir par un coup d’Etat en octobre), notre petite équipe franco-soudanaise s’est activée pour vous proposer un tout premier numéro papier de nos articles. Au Soudan et ailleurs : liberté, paix et justice, le pouvoir aux civils ! #madania


    Pour le télécharger : https://blogs.mediapart.fr/sudfa/blog/221221/premier-numero-papier-de-sudfa-media
    https://www.sudfa-media.com
    #Soudan #news #blog

    –-

    déjà signalé par @entreleslignesentrelesmots à la sortie du premier numéro papier :
    https://seenthis.net/messages/942556

  • Rapid Response : Decolonizing Italian Cities

    Anti-racism is a battle for memory. Enzo Traverso well underlined how statues brought down in the last year show “the contrast between the status of blacks and postcolonial subjects as stigmatised and brutalised minorities and the symbolic place given in the public space to their oppressors”.

    Material traces of colonialism are in almost every city in Italy, but finally streets, squares, monuments are giving us the chance to start a public debate on a silenced colonial history.

    Igiaba Scego, Italian writer and journalist of Somali origins, is well aware of the racist and sexist violence of Italian colonialism and she points out the lack of knowledge on colonial history.

    “No one tells Italian girls and boys about the squad massacres in Addis Ababa, the concentration camps in Somalia, the gases used by Mussolini against defenseless populations. There is no mention of Italian apartheid (…), segregation was applied in the cities under Italian control. In Asmara the inhabitants of the village of Beit Mekae, who occupied the highest hill of the city, were chased away to create the fenced field, or the first nucleus of the colonial city, an area off-limits to Eritreans. An area only for whites. How many know about Italian apartheid?” (Scego 2014, p. 105).

    In her book, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (2014), she invites us to visually represent the historical connections between Europe and Africa, in creative ways; for instance, she worked with photographer Rino Bianchi to portray Afro-descendants in places marked by fascism such as Cinema Impero, Palazzo della Civiltà Italiana and Dogali’s stele in Rome.

    Inspired by her book, we decided to go further, giving life to ‘Decolonizing the city. Visual Dialogues in Padova’. Our goal was to question ourselves statues and street names in order to challenge the worldviews and social hierarchies that have made it possible to celebrate/forget the racist and sexist violence of colonialism. The colonial streets of Padova have been re-appropriated by the bodies, voices and gazes of six Italian Afro-descendants who took part in a participatory video, taking urban traces of colonialism out of insignificance and re-signifying them in a creative way.

    Wissal Houbabi, artist “daughter of the diaspora and the sea in between“, moves with the soundtrack by Amir Issa Non respiro (2020), leaving her poetry scattered between Via Cirenaica and Via Libia.

    “The past is here, insidious in our minds, and the future may have passed.

    The past is here, even if you forget it, even if you ignore it, even if you do everything to deny the squalor of what it was, the State that preserves the status of frontiers and jus sanguinis.

    If my people wanted to be free one day, even destiny would have to bend”.

    Cadigia Hassan shares the photos of her Italian-Somali family with a friend of hers and then goes to via Somalia, where she meets a resident living there who has never understood the reason behind the name of that street. That’s why Cadigia has returned to via Somalia: she wants to leave traces of herself, of her family history, of historical intertwining and to make visible the important connections that exist between the two countries.

    Ilaria Zorzan questions the colonial past through her Italo-Eritrean family photographic archive. The Italians in Eritrea made space, building roads, cableways, railways, buildings… And her grandfather worked as a driver and transporter, while her Eritrean grandmother, before marrying her grandfather, had been his maid. Ilaria conceals her face behind old photographs to reveal herself in Via Asmara through a mirror.

    Emmanuel M’bayo Mertens is an activist of the Arising Africans association. In the video we see him conducting a tour in the historic center of Padova, in Piazza Antenore, formerly Piazza 9 Maggio. Emmanuel cites the resolution by which the municipality of Padova dedicated the square to the day of the “proclamation of the empire” by Mussolini (1936). According to Emmanuel, fascism has never completely disappeared, as the Italian citizenship law mainly based on jus sanguinis shows in the racist idea of ​​Italianness transmitted ‘by blood’. Instead, Italy is built upon migration processes, as the story of Antenor, Padova’s legendary founder and refugee, clearly shows.

    Mackda Ghebremariam Tesfau’ questions the colonial map in Piazza delle Erbe where Libya, Albania, Ethiopia and Eritrea are marked as part of a white empire. She says that if people ignore this map it is because Italy’s colonial history is ignored. Moreover, today these same countries, marked in white on the map, are part of the Sub-saharan and Mediterranean migrant routes. Referring then to the bilateral agreements between Italy and Libya to prevent “irregular migrants” from reaching Europe, she argues that neocolonialism is alive. Quoting Aimé Césaire, she declares that “Europe is indefensible”.

    The video ends with Viviana Zorzato, a painter of Eritrean origin. Her house, full of paintings inspired by Ethiopian iconography, overlooks Via Amba Aradam. Viviana tells us about the ‘Portrait of a N-word Woman’, which she has repainted numerous times over the years. Doing so meant taking care of herself, an Afro-descendant Italian woman. Reflecting on the colonial streets she crosses daily, she argues that it is important to know the history but also to remember the beauty. Amba Alagi or Amba Aradam cannot be reduced to colonial violence, they are also names of mountains, and Viviana possesses a free gaze that sees beauty. Like Giorgio Marincola, Viviana will continue to “feel her homeland as a culture” and she will have no flags to bow her head to.

    The way in which Italy lost the colonies – that is with the fall of fascism instead of going through a formal decolonization process – prevented Italy from being aware of the role it played during colonialism. Alessandra Ferrini, in her ‘Negotiating amnesia‘,refers to an ideological collective amnesia: the sentiment of an unjust defeat fostered a sense of self-victimisation for Italians, removing the responsibility from them as they portrayed themselves as “brava gente” (good people). This fact, as scholars such as Nicola Labanca have explained, has erased the colonial period from the collective memory and public sphere, leaving colonial and racist culture in school textbooks, as the historian Gianluca Gabrielli (2015) has shown.

    This difficulty in coming to terms with the colonial past was clearly visible in the way several white journalists and politicians reacted to antiracist and feminist movements’ request to remove the statue of journalist Indro Montanelli in Milan throughout the BLM wave. During the African campaign, Montanelli bought the young 12-year-old-girl “Destà” under colonial concubinage (the so‑called madamato), boasting about it even after being accused by feminist Elvira Banotti of being a rapist. The issue of Montanelli’s highlights Italy’s need to think critically over not only colonial but also race and gender violence which are embedded in it.

    Despite this repressed colonial past, in the last decade Italy has witnessed a renewed interest stemming from bottom-up local movements dealing with colonial legacy in the urban space. Two examples are worth mentioning: Resistenze in Cirenaica (Resistances in Cyrenaica) in Bologna and the project “W Menilicchi!” (Long live Menilicchi) in Palermo. These instances, along with other contributions were collected in the Roots§Routes 2020 spring issue, “Even statues die”.

    Resistenze in Cirenaica has been working in the Cyrenaica neighbourhood, named so in the past due to the high presence of colonial roads. In the aftermath of the second world war the city council decided unanimously to rename the roads carrying fascist and colonial street signs (except for via Libya, left as a memorial marker) with partisans’ names, honouring the city at the centre of the resistance movement during the fascist and Nazi occupation. Since 2015, the collective has made this place the centre of an ongoing laboratory including urban walks, readings and storytelling aiming to “deprovincialize resistances”, considering the battles in the ex-colonies as well as in Europe, against the nazi-fascist forces, as antiracist struggles. The publishing of Quaderni di Cirene (Cyrene’s notebooks) brought together local and overseas stories of people who resisted fascist and colonial occupation, with the fourth book addressing the lives of fighter and partisan women through a gender lens.

    In October 2018, thanks to the confluence of Wu Ming 2, writer and storyteller from Resistenze in Cirenaica, and the Sicilian Fare Ala collective, a public urban walk across several parts of the city was organized, with the name “Viva Menilicchi!”. The itinerary (19 kms long) reached several spots carrying names of Italian colonial figures and battles, explaining them through short readings and theatrical sketches, adding road signs including stories of those who have been marginalized and exploited. Significantly, W Menilicchi! refers to Palermitan socialists and communists’ battle cry supporting king Menelik II who defeated the Italian troops in Aduwa in 1896, thus establishing a transnational bond among people subjected to Italian invasion (as Jane Schneider explores in Italy’s ‘Southern Question’: Orientalism in One Country, South Italy underwent a socio-economic occupation driven by imperial/colonial logics by the north-based Kingdom of Italy) . Furthermore, the urban walk drew attention to the linkage of racist violence perpetrated by Italians during colonialism with the killings of African migrants in the streets of Palermo, denouncing the white superiority on which Italy thrived since its birth (which run parallel with the invasion of Africa).

    These experiences of “odonomastic guerrillas” (street-name activists) have found creative ways of decolonising Italian history inscribed in cities, being aware that a structural change requires not only time but also a wide bottom-up involvement of inhabitants willing to deal with the past. New alliances are developing as different groups network and coordinate in view of several upcoming dates, such as February 19th, which marks the anniversary of the massacre of Addis Ababa which occurred in 1937 at the hands of Italian viceroy Rodolfo Graziani.

    References:
    Gabrielli G. (2015), Il curriculo “razziale”: la costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950), Macerata: Edizioni Università di Macerata.
    Labanca, N. (2002) Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna: Il Mulino.
    Scego, I. (2014) Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Roma: Ediesse.
    Schneider J (ed.) (1998) Italy’s ‘Southern Question’: Orientalism in One Country, London: Routledge.

    https://archive.discoversociety.org/2021/02/06/rapid-response-decolonizing-italian-cities

    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue #afro-descendants #Cadigia_Hassan #via_Somalia #Ilaria_Zorzan #Emmanuel_M’bayo_Mertens #Mackda_Ghebremariam_Tesfau #Piazza_delle_erbe #Viviana_Zorzato #Via_Amba_Aradam #Giorgio_Marincola #Alessandra_Ferrini

    ping @postcolonial @cede

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    ajouté à la métaliste sur l’Italie coloniale :
    https://seenthis.net/messages/871953

    • #Negotiating_Amnesia

      Negotiating Amnesia is an essay film based on research conducted at the Alinari Archive and the National Library in Florence. It focuses on the Ethiopian War of 1935-36 and the legacy of the fascist, imperial drive in Italy. Through interviews, archival images and the analysis of high-school textbooks employed in Italy since 1946, the film shifts through different historical and personal anecdotes, modes and technologies of representation.

      https://vimeo.com/429591146?embedded=true&source=vimeo_logo&owner=3319920



      https://www.alessandraferrini.info/negotiating-amnesia

      En un coup d’oeil, l’expansion coloniale italienne :

      #amnésie #film #fascisme #impérialisme #Mussolini #Benito_Mussolini #déni #héritage #mémoire #guerre #guerre_d'Ethiopie #violence #Istrie #photographie #askaris #askari #campagna_d'Africa #Tito_Pittana #Mariano_Pittana #mémoire #prostitution #madamato #madamisme #monuments #Romano_Romanelli #commémoration #mémoriel #Siracusa #Syracuse #nostalgie #célébration #Axum #obélisque #Nuovo_Impero_Romano #Affile #Rodolfo_Graziani #Pietro_Badoglio #Uomo_Nuovo #manuels_scolaires #un_posto_al_sole #colonialismo_straccione #italiani_brava_gente #armes_chimiques #armes_bactériologiques #idéologie

    • My Heritage ?

      My Heritage? (2020) is a site-specific intervention within the vestibule of the former Casa d’Italia in Marseille, inaugurated in 1935 and now housing the Italian Cultural Institute. The installation focuses on the historical and ideological context that the building incarnates: the intensification of Fascist imperial aspirations that culminated in the fascistization of the Italian diaspora and the establishment of the Empire in 1936, as a result of the occupation of Ethiopia. As the League of Nations failed to intervene in a war involving two of its members, the so-called Abyssinian Crisis gave rise to a series of conflicts that eventually led to the WW2: a ‘cascade effect’. On the other hand, the attack on the ‘black man’s last citadel’ (Ras Makonnen), together with the brutality of Italian warfare, caused widespread protests and support to the Ethiopian resistance, especially from Pan-African movements.

      Placed by the entrance of the exhibition Rue d’Alger, it includes a prominent and inescapable sound piece featuring collaged extracts from texts by members of the London-based Pan-African association International African Friends of Ethiopia - CLR James, Ras Makonnen, Amy Ashwood Garvey - intertwined with those of British suffragette Sylvia Pankhurst and Italian anarchist Silvio Corio, founders of the newspaper New Times and Ethiopian News in London.

      Through handwritten notes and the use of my own voice, the installation is a personal musing on heritage as historical responsibility, based on a self-reflective process. My voice is used to highlight such personal process, its arbitrary choice of sources (related to my position as Italian migrant in London), almost appropriated here as an act of thinking aloud and thinking with these militant voices. Heritage is therefore intended as a choice, questioning its nationalist uses and the everlasting and catastrophic effects of Fascist foreign politics. With its loudness and placement, it wishes to affect the visitors, confronting them with the systemic violence that this Fascist architecture outside Italy embodies and to inhibit the possibility of being seduced by its aesthetic.



      https://www.alessandraferrini.info/my-heritage

      #héritage

    • "Decolonizziamo le città": il progetto per una riflessione collettiva sulla storia coloniale italiana

      Un video dal basso in cui ogni partecipante produce una riflessione attraverso forme artistiche differenti, come l’arte figurativa, la slam poetry, interrogando questi luoghi e con essi “noi” e la storia italiana

      Via Eritrea, Viale Somalia, Via Amba Aradam, via Tembien, via Adua, via Agordat. Sono nomi di strade presenti in molte città italiane che rimandano al colonialismo italiano nel Corno d’Africa. Ci passiamo davanti molto spesso senza sapere il significato di quei nomi.

      A Padova è nato un progetto che vuole «decolonizzare la città». L’idea è quella di realizzare un video partecipativo in cui ogni partecipante produca una riflessione attraverso forme artistiche differenti, come l’arte figurativa, la slam poetry, interrogando questi luoghi e con essi “noi” e la storia italiana. Saranno coinvolti gli studenti del laboratorio “Visual Research Methods”, nel corso di laurea magistrale “Culture, formazione e società globale” dell’Università di Padova e artisti e attivisti afrodiscendenti, legati alla diaspora delle ex-colonie italiane e non.

      «Stavamo preparando questo laboratorio da marzo», racconta Elisabetta Campagni, che si è laureata in Sociologia a marzo 2020 e sta organizzando il progetto insieme alla sua ex relatrice del corso di Sociologia Visuale Annalisa Frisina, «già molto prima che il movimento Black Lives Matter riportasse l’attenzione su questi temi».

      Riscrivere la storia insieme

      «Il dibattito sul passato coloniale italiano è stato ampiamente ignorato nei dibattiti pubblici e troppo poco trattato nei luoghi di formazione ed educazione civica come le scuole», si legge nella presentazione del laboratorio, che sarà realizzato a partire dall’autunno 2020. «C’è una rimozione grandissima nella nostra storia di quello che ricordano questi nomi, battaglie, persone che hanno partecipato a massacri nelle ex colonie italiane. Pochi lo sanno. Ma per le persone che arrivano da questi paesi questi nomi sono offensivi».

      Da qui l’idea di riscrivere una storia negata, di «rinarrare delle vicende che nascondono deportazioni e uccisioni di massa, luoghi di dolore, per costruire narrazioni dove i protagonisti e le protagoniste sono coloro che tradizionalmente sono stati messi a tacere o sono rimasti inascoltati», affermano le organizzatrici.

      Le strade «rinarrate»

      I luoghi del video a Padova saranno soprattutto nella zona del quartiere Palestro, dove c’è una grande concentrazione di strade con nomi che rimandano al colonialismo. Si andrà in via Amba Aradam, il cui nome riporta all’altipiano etiope dove nel febbraio 1936 venne combattuta una battaglia coloniale dove gli etiopi vennero massacrati e in via Amba Alagi.

      Una tappa sarà nell’ex piazza Pietro Toselli, ora dedicata ai caduti della resistenza, che ci interroga sul legame tra le forme di resistenza al fascismo e al razzismo, che unisce le ex-colonie all’Italia. In Italia il dibattito si è concentrato sulla statua a Indro Montanelli, ma la toponomastica che ricorda il colonialismo è molta e varia. Oltre alle strade, sarà oggetto di discussione la mappa dell’impero coloniale italiano situata proprio nel cuore della città, in Piazza delle Erbe, ma che passa spesso inosservata.

      Da un’idea di Igiaba Scego

      Come ci spiega Elisabetta Campagni, l’idea nasce da un libro di Igiaba Scego che anni fa ha pubblicato alcune foto con afrodiscendenti che posano davanti ai luoghi che celebrano il colonialismo a Roma come la stele di Dogali, vicino alla stazione Termini, in viale Luigi Einaudi.

      Non è il primo progetto di questo tipo: il collettivo Wu Ming ha lanciato la guerriglia odonomastica, con azioni e performance per reintitolare dal basso vie e piazze delle città o aggiungere informazioni ai loro nomi per cambiare senso all’intitolazione. La guerriglia è iniziata a Bologna nel quartiere della Cirenaica e il progetto è stato poi realizzato anche a Palermo. Un esempio per il laboratorio «Decolonizzare la città» è stato anche «Berlin post colonial», l’iniziativa nata da anni per rititolare le strade e creare percorsi di turismo consapevole.

      Il progetto «Decolonizzare la città» sta raccogliendo i voti sulla piattaforma Zaalab (https://cinemavivo.zalab.org/progetti/decolonizzare-la-citta-dialoghi-visuali-a-padova), con l’obiettivo di raccogliere fondi per la realizzazione del laboratorio.

      https://it.mashable.com/cultura/3588/decolonizziamo-le-citta-il-progetto-per-una-riflessione-collettiva-sull

      #histoire_niée #storia_negata #récit #contre-récit

    • Decolonizzare la città. Dialoghi Visuali a Padova

      Descrizione

      Via Amba Alagi, via Tembien, via Adua, via Agordat. Via Eritrea, via Libia, via Bengasi, via Tripoli, Via Somalia, piazza Toselli… via Amba Aradam. Diversi sono i nomi di luoghi, eventi e personaggi storici del colonialismo italiano in città attraversate in modo distratto, senza prestare attenzione alle tracce di un passato che in realtà non è ancora del tutto passato. Che cosa significa la loro presenza oggi, nello spazio postcoloniale urbano? Se la loro origine affonda le radici in un misto di celebrazione coloniale e nazionalismo, per capire il significato della loro permanenza si deve guardare alla società contemporanea e alle metamorfosi del razzismo.

      Il dibattito sul passato coloniale italiano è stato ampiamente ignorato nei dibattiti pubblici e troppo poco trattato nei luoghi di formazione ed educazione civica come le scuole. L’esistenza di scritti, memorie biografiche e racconti, pur presente in Italia, non ha cambiato la narrazione dominante del colonialismo italiano nell’immaginario pubblico, dipinto come una breve parentesi storica che ha portato civiltà e miglioramenti nei territori occupati (“italiani brava gente”). Tale passato, però, è iscritto nella toponomastica delle città italiane e ciò ci spinge a confrontarci con il significato di tali vie e con la loro indiscussa presenza. Per questo vogliamo partire da questi luoghi, e in particolare da alcune strade, per costruire una narrazione dal basso che sia frutto di una ricerca partecipata e condivisa, per decolonizzare la città, per reclamare una lettura diversa e critica dello spazio urbano e resistere alle politiche che riproducono strutture (neo)coloniali di razzializzazione degli “altri”.

      Il progetto allora intende sviluppare una riflessione collettiva sulla storia coloniale italiana, il razzismo, l’antirazzismo, la resistenza di ieri e di oggi attraverso la realizzazione di un video partecipativo.

      Esso è organizzato in forma laboratoriale e vuole coinvolgere studenti/studentesse del laboratorio “Visual Research Methods” (corso di laurea magistrale “Culture, formazione e società globale”) dell’Università di Padova e gli/le artisti/e ed attivisti/e afrodiscendenti, legati alla diaspora delle ex-colonie italiane e non.

      Il progetto si propone di creare una narrazione visuale partecipata, in cui progettazione, riprese e contenuti siano discussi in maniera orizzontale e collaborativa tra i e le partecipanti. Gli/Le attivisti/e e artisti/e afrodiscendenti con i/le quali studenti e studentesse svolgeranno le riprese provengono in parte da diverse città italiane e in parte vivono a Padova, proprio nel quartiere in questione. Ognuno/a di loro produrrà insieme agli studenti e alle studentesse una riflessione attraverso forme artistiche differenti (come l’arte figurativa, la slam poetry…), interrogando tali luoghi e con essi “noi” e la storia italiana. I partecipanti intrecciano così le loro storie personali e familiari, la storia passata dell’Italia e il loro attivismo quotidiano, espresso con l’associazionismo o con diverse espressioni artistiche (Mackda Ghebremariam Tesfaù, Wissal Houbabi, Theophilus Marboah, Cadigia Hassan, Enrico e Viviana Zorzato, Ilaria Zorzan, Ada Ugo Abara ed Emanuel M’bayo Mertens di Arising Africans). I processi di discussione, scrittura, ripresa, selezione e montaggio verranno documentati attraverso l’utilizzo di foto e filmati volti a mostrare la meta-ricerca, il processo attraverso cui viene realizzato il video finale, e le scelte, di contenuto e stilistiche, negoziate tra i diversi attori. Questi materiali verranno condivisi attraverso i canali online, con il fine di portare a tutti coloro che sostengono il progetto una prima piccola restituzione che renda conto dello svolgimento del lavoro.

      Le strade sono un punto focale della narrazione: oggetto dei discorsi propagandistici di Benito Mussolini, fulcro ed emblema del presunto e mitologico progetto di civilizzazione italiana in Africa, sono proprio le strade dedicate a luoghi e alle battaglie dove si sono consumate le atrocità italiane che sono oggi presenze fisiche e allo stesso tempo continuano ad essere invisibilizzate; e i nomi che portano sono oggi largamente dei riferimenti sconosciuti. Ripercorrere questi luoghi fisici dando vita a dialoghi visuali significa riappropriarsi di una storia negata, rinarrare delle vicende che nascondono deportazioni e uccisioni di massa, luoghi di dolore, per costruire narrazioni dove i protagonisti e le protagoniste sono coloro che tradizionalmente sono stati messi a tacere o sono rimasti inascoltati.

      La narrazione visuale partirà da alcuni luoghi – come via Amba Aradam e via lago Ascianghi – della città di Padova intitolati alla storia coloniale italiana, in cui i protagonisti e le protagoniste del progetto daranno vita a racconti e performances artistiche finalizzate a decostruire la storia egemonica coloniale, troppo spesso edulcorata e minimizzata. L’obiettivo è quello di favorire il prodursi di narrazioni dal basso, provenienti dalle soggettività in passato rese marginali e che oggi mettono in scena nuove narrazioni resistenti. La riappropriazione di tali luoghi, fisica e simbolica, è volta ad aprire una riflessione dapprima all’interno del gruppo e successivamente ad un pubblico esterno, al fine di coinvolgere enti, come scuole, associazioni e altre realtà che si occupano di questi temi sul territorio nazionale. Oltre alle strade, saranno oggetto di discussione la mappa dell’impero coloniale italiano situata proprio nel cuore della città, in Piazza delle Erbe, e l’ex piazza Toselli, ora dedicata ai caduti della resistenza, che ci interroga sul legame tra le forme di resistenza al fascismo e al razzismo, che unisce le ex-colonie all’Italia.

      Rinarrare la storia passata è un impegno civile e politico verso la società contemporanea. Se anche oggi il razzismo ha assunto nuove forme, esso affonda le sue radici nella storia nazionale e coloniale italiana. Questa storia va rielaborata criticamente per costruire nuove alleanze antirazziste e anticolonialiste.

      Il video partecipativo, ispirato al progetto “Roma Negata” della scrittrice Igiaba Scego e di Rino Bianchi, ha l’obiettivo di mostrare questi luoghi attraverso narrazioni visuali contro-egemoniche, per mettere in discussione una storia ufficiale, modi di dire e falsi miti, per contribuire a dare vita ad una memoria critica del colonialismo italiano e costruire insieme percorsi riflessivi nuovi. Se, come sostiene Scego, occupare uno spazio è un grido di esistenza, con il nostro progetto vogliamo affermare che lo spazio può essere rinarrato, riletto e riattraversato.

      Il progetto vuole porsi in continuità con quanto avvenuto sabato 20 giugno, quando a Padova, nel quartiere Palestro, si è tenuta una manifestazione organizzata dall’associazione Quadrato Meticcio a cui hanno aderito diverse realtà locali, randunatesi per affermare la necessita’ di decolonizzare il nostro sguardo. Gli interventi che si sono susseguiti hanno voluto riflettere sulla toponomastica coloniale del quartiere Palestro, problematizzandone la presenza e invitando tutti e tutte a proporre alternative possibili.

      https://cinemavivo.zalab.org/progetti/decolonizzare-la-citta-dialoghi-visuali-a-padova

      https://www.youtube.com/watch?v=axEa6By9PIA&t=156s

  • http://www.slate.fr/story/225594/madagascar-france-coloniale-repression-sanglante-memoire-oubli-franco-malgache

    À Madagascar aussi la France coloniale a sévi, mais qui s’en souvient ?
    Slate.fr — 30 mars 2022

    Il y a un mystère lié au récit et à la mémoire des événements de 1947, qui firent pourtant près de 90.000 morts : les premiers à se taire sont les premiers concernés.

    À deux années de distance, Sétif (Algérie) en 1945 et Madagascar en 1947 furent deux des pages les plus sombres de l’histoire coloniale française. Or si tout le monde se souvient du drame algérien, ce qu’il s’est passé sur l’« île Rouge » est plus rarement évoqué. Sétif et Madagascar comportent pourtant bien des points communs.

    Ce furent, à la sortie de la Seconde Guerre mondiale, deux insurrections réprimées de façon sanglante, la première annonçant même la seconde, avec plusieurs dizaines de milliers de morts. Toutes deux ont ouvert une époque nouvelle : celle de la revendication pour l’indépendance nationale ; et conduit une dizaine d’années plus tard à celle-ci, pour les Algériens au terme d’une longue guerre de libération (1954-1962), et sans trop de heurts, en 1960, pour les Malgaches.

    L’échec de l’insurrection

    C’est en pleine nuit, le 29 mars 1947, que des centaines de rebelles attaquent le camp militaire de Moramanga. Puis l’insurrection s’étend, pille et incendie des garnisons militaires, des postes de gendarmerie, des bâtiments administratifs et des dépôts d’armes ainsi que des concessions. Des routes et voies ferrées sont coupées. 35.000 Français vivent alors sur l’île, environ 150 Européens sont tués.

    Les conjurés visaient à rétablir l’indépendance immédiate et intégrale de Madagascar. Mais le mouvement insurrectionnel échoue à s’étendre aux grandes villes. Il est pour l’essentiel contenu à la partie orientale de l’île. Des milliers d’insurgés se cachent dans les forêts encore quelques semaines, jusqu’à épuisement.

    La réaction est terrible. L’armée et la police françaises inaugurent de « nouvelles méthodes » : rebelles jetés vivant d’un avion militaire ou enfermés dans des wagons jusqu’à ce que mort s’ensuive. Le chef de l’état-major français évoquera un bilan de 89.000 victimes, directes ou indirectes, de la répression.
    (...)

    #Madagascar #insurrection #repression_coloniale #memoire #oubli

  • Larmes de crocodiles et oubli, suite au décès de madeleine albright, qui avait provoqué la mort de 500 000 enfants irakiens, c’est à dire plus qu’à Hiroshima en Nagasaki !

    Nos médias officiels font le silence sur le passé de cette ancienne secrétaire d’Etat américaine.

    Rappel : madeleine albright, secrétaire d’Etat de Clinton, avait ainsi répondu à une question sur le blocus US qui avait provoqué la mort de 500 000 enfants irakiens : « Je pense que c’était un choix difficile, mais oui, ça en valait la peine » . (Emission « Sixty Minutes » (CBS) du 12 mai 1996). L’interview a remporté un Emmy Award.

    En bonus, guerre en Serbie et au Kosovo.
    Fin octobre 2012, lors de la signature d’un livre dans la librairie de Prague Palác Knih Luxor, #madeleine_albright, recevant la visite d’un groupe de militants de l’organisation tchèque « Přátelé Srbů na Kosovu », qui avaient apporté des photos de guerre, dont certaines montraient des victimes serbes de la guerre du Kosovo de 1999, est filmée leur disant : « Sortez, Serbes dégoûtants ! 

    • Les étudiants de l’essec confrontés aux conséquences de ce qui est enseigné dans leur école. À Cergy, les étudiants de l’essec face à l’insécurité Nicolas Daguin - Le figaro

      Tout commence par un mail anonyme adressé au Figaro en novembre 2021. Un certain « Tyler », qui se présente comme un étudiant de l’Essec - l’une des premières écoles de commerce en France -, souhaite nous faire part du climat d’insécurité qui se serait installé autour du campus, situé à Cergy (Val-d’Oise). La situation aurait « énormément empiré » ces derniers temps et serait « devenue invivable », selon ses mots. Il est question d’agressions, de vols avec violence et même de tentatives d’enlèvements. Le jeune homme affirme aussi que « nombre d’étudiants [seraient] traumatisés et ne [voudraient] plus prendre de cours terminant après le coucher du soleil par peur de rentrer seuls la nuit ».

      S’il n’a personnellement jamais été victime d’aucune agression, Tyler assure que plusieurs de ses camarades n’ont pas eu sa chance. Ce dernier en veut pour preuve le groupe Facebook « ESSAFE », créé en 2017. « Nous l’avons ouvert après avoir constaté une recrudescence des agressions autour du campus, dans l’idée… ..

      La suite payante, mais on en a pas besoin : https://www.lefigaro.fr/actualite-france/ce-n-est-pas-normal-de-mettre-sa-vie-en-danger-pour-etudier-a-cergy-les-etu

      #essec #winner #écoles_de_commerce #management #valeurs #libéralisme #marketing #capitalisme

    • #belgique : Quatre nouveaux centres fermés pour personnes en séjour irrégulier forcées au retour
      https://www.vrt.be/vrtnws/fr/2022/03/23/quatre-nouveaux-centres-fermes-pour-personnes-en-sejour-irreguli

      Le gouvernement fédéral a approuvé la construction de trois nouveaux centres fermés et un centre de départ, créant ainsi plus de 500 places supplémentaires affectées au retour forcé de personnes en séjour irrégulier. Les autorités libèrent 100 millions d’euros pour un plan stratégique. Les nouveaux centres - prévus à Jabbeke, Zandvliet, Jumet et Steenokkerzeel - devraient permettre de presque doubler le nombre de places pour les personnes en séjour illégal d’ici 2030.


      Cette décision historique marque un véritable tournant. Nous créons plus de capacité de retour que jamais et pouvons faire un pas de géant dans la politique de retour de notre pays", soulignait le Secrétaire d’Etat à la Migration sammy mahdi. Les trois nouveaux centres pour migrants illégaux se situent à Jumet (près de Charleroi), à Zandvliet (près d’Anvers) et à Jabbeke (près de Bruges).Ce dernier remplacera d’ailleurs l’actuel centre fermé de Bruges.

      Un centre de départ sera par ailleurs établi à Steenokkerzeel (Zaventem) : les personnes n’y resteront idéalement qu’un jour ou deux pour permettre un retour rapide vers le pays d’origine. Le gouvernement fédéral a approuvé rapidement le marché public pour le développement de ce projet.

      La Belgique compte six centres fermés d’une capacité maximale de 635 places. Avec la construction de trois nouveaux centres et de ce centre de départ, la capacité totale passera à 1.145 places, soit plus de 500 supplémentaires par rapport à aujourd’hui. Les appels d’offre pour le bâtiment de Steenokkerzeel seront publiés cette semaine, la construction pouvant commencer en 2024. Pour les centres de Jabbeke, Jumet et Zandvliet, la construction est prévue entre 2027 et 2029.
      . . . . . .

      #centres_fermés pseudo #prisons #réfugiés #asile #migrations #racisme #police #frontières #migrants #migration

    • Le Royaume-Uni finance 4 caméras de vidéoprotection à Brighton, un hameau de Cayeux-sur-Mer
      https://actu.fr/hauts-de-france/cayeux-sur-mer_80182/le-royaume-uni-finance-4-cameras-de-videoprotection-a-brighton-un-hameau-de-cay

      Quatre caméras de vidéoprotection vont apparaître à Brighton-les-Pins, hameau de Cayeux-sur-Mer (2445 habitants), dans la Somme. Le projet est principalement financé par un fonds britannique.

      « Une opération blanche pour la commune. » C’est avec ces mots que Jean-Paul Lecomte qualifie le projet d’installation de 4 caméras de vidéoprotection dans le hameau de Brighton-les-Pins. En effet, le maire de Cayeux-sur-Mer (Somme) ne mettra pas la main au portefeuille.

      « C’est de l’argent qui tombe du ciel »
      « La situation est idéale pour la commune », commente-t-il. Pour cause, le Royaume-Uni finance une grosse partie de l’installation via un fonds de lutte contre l’immigration clandestine. Sur les 67 000 € du coût total du projet, 11 185 € seront financés par la Fédération Départementale d’Énergie (FDE).

      Les Britanniques apporteront leur pierre à l’édifice à hauteur de 55 923 €. « C’est de l’argent qui tombe du ciel », ironise l’élu.

      Les études de protection réalisées par la gendarmerie nationale ont reconnu deux zones à Cayeux-sur-Mer. La première s’étend du Hourdel à l’entrée de la ville. La seconde se situe plus au sud. À terme, une trentaine de caméras devraient être installées dans ces deux secteurs. Mais pour l’instant, la première tranche ne concerne que quatre caméras à Brighton-les-Pins.

      « Quatre départs de migrants ont été constatés dans la commune », se souvient l’édile. « Deux au sud et deux autres au niveau de la carrière de galets Silmer, à Brighton. »

      Une caméra sera donc placée à cet endroit. Les trois autres seront installées au niveau du foyer de vie, au phare et à l’entrée de la ville. Cette dernière permettra la lecture de plaques d’immatriculation notamment.


      Qui s’occupera de l’entretien des caméras ?
      Une petite interrogation avait tout de même été émise par Philippe Prouvost, conseiller municipal : « Qui s’occupera de l’entretien de ces caméras ? » Jean-Paul Lecomte a assuré que « l’installation et l’entretien seront gérés par la FDE qui passera par l’entreprise Citéos ».

      Le centre de visionnage des images captées par les caméras sera installé dans les locaux des agents de surveillance de la voie publique (ASVP). « Lorsqu’il y aura un problème dans ce coin, une seule personne sera habilitée à visionner ces images », explique le maire.

      Si la zone nord doit faire l’objet des attentions du conseil municipal en 2023, les dossiers pour ces quatre premières caméras viennent d’être envoyés à la préfecture. La date d’installation est encore floue.

      #foutage_de_gueule #surveillance #vidéo-surveillance #réfugiés #algorithme #migrations #police #france

    • Après trois heures de voyage depuis Fort-Dauphin à travers les monts Anosy sur une piste cabossée faisant office de route nationale, le Grand Sud malgache apparaît, immense et isolé. Brutalement vert après deux longues années de sécheresse. En redescendant vers le plateau du Mandrare défilent champs de maïs et de mil, bordés de haies de cactus aux épaisses feuilles hérissées d’épines. Des enfants jouent dans des flaques disputées à de nonchalants zébus.

      Il a suffi de quelques jours consécutifs de pluies, mi-janvier, puis des averses apportées dans le sillage du cyclone Batsiraï début février, pour que la vie reprenne à nouveau sa place. Là où elle semblait condamnée.

      La route trace, cap à l’ouest, traverse Amboasary, gros bourg au débouché de vastes plantations de sisal, puis rejoint Ambovombe, capitale de la région de l’Androy et centre humanitaire où sont installés les bureaux régionaux des agences onusiennes et des ONG d’urgence chargées d’assurer les distributions de vivres jusqu’à la fin de la période de soudure et l’arrivée des récoltes. Le pire a été évité. « Nous avons mis le paquet pour qu’une crise alimentaire très sévère ne dégénère pas. Et jusqu’à présent, grâce à l’augmentation des rations dans les zones les plus critiques, nous considérons que nous avons réussi », assure Jean-Benoît Manhes, représentant adjoint de l’Unicef.

      Dans les trois provinces d’Androy, d’Anosy et d’Atsimo-Andrefana, qui composent le Grand Sud malgache – cette région semi-aride, abandonnée depuis des décennies aux cycles récurrents des sécheresses et de la faim, le « kéré » dans le dialecte local –, environ 1,4 million de personnes – soit près de 40 % de la population − ont toujours besoin d’assistance.

      Vulnérabilité

      Ce chiffre reste aussi important qu’en mai 2021, lorsque les indicateurs s’étaient soudainement assombris avec l’annonce de 28 000 personnes menacées de famine. Quelques semaines plus tard, le directeur exécutif du Programme alimentaire mondial (PAM), David Beasley, y avait vu, depuis Ambovombe, la « première famine climatique », fustigeant l’injustice imposée à un pays « qui n’a en rien contribué au réchauffement, mais qui en paie aujourd’hui le prix » . La formule avait fait mouche, reprise en boucle par les médias du monde entier. Jusqu’à être récupérée en novembre 2021 à la tribune de la 26e conférence des Nations unies sur le climat par le président malgache, Andry Rajoelina, pour exhorter les pays pollueurs à financer des mesures d’adaptation au nom de ses « compatriotes [qui] endurent le tribut d’une crise climatique à laquelle ils n’ont pas participé » .

      A la terrasse du Taliako, où se retrouvent les expatriés après leur journée sur le terrain, un employé du PAM, familier des théâtres humanitaires, ne peut garder ce qu’il a sur le cœur : « C’est la plus grande opération de marketing que j’aie vue depuis longtemps pour lever des fonds. Il y a des mots qu’il faut manier avec prudence », lâche-t-il en s’interrogeant sur l’ignorance réelle ou feinte de son patron, ex-gouverneur républicain de Caroline du Sud et proche de Donald Trump, nommé à la tête de l’institution en 2017.

      Les rapports du Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC) anticipent une diminution des précipitations et une multiplication des épisodes de sécheresse en Afrique australe d’ici à la fin du siècle. Une plus grande irrégularité des pluies et la multiplication des événements extrêmes y sont déjà des phénomènes observés.

      Mais, selon une étude publiée en décembre 2021 par l’initiative World Weather Attribution, le dérèglement climatique ne peut être rendu directement responsable de la sécheresse exceptionnelle enregistrée depuis 2019 dans le sud de la Grande Ile de l’océan Indien. Cette équipe scientifique internationale qui travaille sur les liens entre les événements climatiques extrêmes et le réchauffement estime que le déficit pluviométrique de 40 % par rapport à la normale, subi au cours des deux dernières années, ne s’est produit qu’une fois en cent trente-cinq ans. Trop peu, selon eux, pour conclure autrement qu’à « une manifestation de la variation naturelle du climat » . Ils rappellent en revanche la vulnérabilité d’une population rurale dont plus de 90 % vivent dans l’extrême pauvreté.

      Région laissée pour compte

      Depuis la première crise documentée pendant la période coloniale, en 1895, une quinzaine de kéré ont été recensés sans que les multiples promesses de plans de développement n’aient permis de changer le destin d’une région laissée pour compte, plus que les autres, par le pouvoir central. Trente ans après la famine de 1990, dont la gravité avait provoqué un sursaut de mobilisation, tout apparaît − ou presque − à recommencer.

      A Ambovombe, comme si l’urgence humanitaire était devenue une fatalité, le PAM s’est installé dans les locaux de l’ancien Commissariat général pour le développement intégré du Sud, institution défunte parmi d’autres.

      Il n’y a toujours pas de routes asphaltées. Pour se procurer de l’eau, les villageois doivent parcourir des distances qui peuvent se compter en dizaines de kilomètres. Dans le meilleur des cas, en charrette à zébu, et souvent, pour les femmes qui en ont la charge, à pied, un bidon sur la tête. Même le précieux périmètre irrigué de Behara, aménagé sur les alluvions fertiles des rives du Mandrare, a été délaissé. En mai 2021, c’est de cette zone rizicole jadis prospère qu’est venue l’alerte à la famine.

      « C’est moins dur aujourd’hui. Nous avons reçu de l’aide », témoigne Alphonse Monja, chef de l’un des fokontany (division administrative) de la commune, devant la file des ménages venus recevoir leur distribution mensuelle de vivres. Près d’un tiers d’entre eux bénéficie également d’une allocation monétaire financée par la Banque mondiale. Il préférerait cependant que soit réparé le canal d’irrigation qui lui permettait d’arroser son champ : « De nombreux experts sont venus. Ils ont fait des études puis je ne les ai jamais revus. Le canal est cassé depuis trente ans. Comment pouvons-nous assurer des récoltes avec des pluies de plus en plus irrégulières ? »

      Village après village, l’histoire se répète. Derrière son petit bureau en Formica, Fenolily, maire d’Ambazoa, énumère sans peine la liste des projets reçus par sa commune. Celle-ci, à moins d’une heure d’Ambovombe et proche de l’océan, présente les maux propres au Sud, avec ses paysages déboisés, ses vents forts qui érodent les sols, l’absence de sources d’eau et une population qui ne cesse de croître.

      Il n’est pas question pour l’élu de se plaindre des pirogues reçues pour s’initier à la pêche, même si l’activité a longtemps été considérée comme celle des parias, ni de l’introduction de semences plus résistantes à la sécheresse ou de la « formation en vie associative » dispensée aux agriculteurs. Mais il s’interroge : « On ne nous demande jamais de quoi nous avons besoin, des projets arrivent un beau jour de l’extérieur, durent quelques années, et puis on passe à autre chose. »

      « Une rente éphémère qu’il faut capter »

      A la sortie du village composé de petites cases en bois ou en tôles qui éblouissent sous le soleil, un bâtiment en ciment peint en blanc abrite une « unité de transformation de cactus » censée produire « un complément alimentaire pour les petits ruminants », porté par le Programme des Nations unies pour le développement. Il n’a jamais servi. Personne ici n’aurait l’idée ni les moyens de payer pour de la farine de cactus dont les animaux sont nourris gratuitement après avoir brûlé les épines.

      La chambre froide offerte pour faciliter le stockage des poissons est également à l’arrêt : pas d’argent pour le carburant qui permettrait de la faire tourner. La coopération allemande envisagerait de la doter de panneaux à énergie solaire.

      Au fil des ans, les populations, qui n’ont jamais attendu beaucoup de l’Etat, ont aussi perdu l’espoir que l’aide extérieure puisse transformer leur vie. « Elle n’est plus perçue que comme une rente éphémère qu’il faut capter, constate un économiste malgache fin connaisseur de la région. Chaque village possède sa stratégie. Mais l’argent est loin de toujours aller à ceux qui en ont le plus besoin et, finalement, le système censé secourir les plus fragiles a plutôt tendance à conforter les inégalités » , affirme-t-il, conscient du malaise suscité par ses propos.

      A côté des critères de « vulnérabilité » retenus par les agences pour établir les listes officielles des bénéficiaires de vivres ou de dons monétaires − et souvent perçus comme peu lisibles par les villageois − prévalent d’autres règles. Fixées cette fois au sein des communautés, par les individus qui ont du pouvoir sur le reste du groupe : chefs de lignage, riche usurier, etc. « Quand le PAM ou les ONG ont terminé leurs distributions officielles, chacun doit redonner ce qu’il a reçu et un nouveau partage est réalisé. Ce n’est pas un secret. Mais personne n’ira l’ébruiter, pour éviter les représailles », poursuit-il.

      « L’aide nous tue aussi à petit feu »

      Au marché hebdomadaire de Sampona, Nirina (elle n’a donné que son prénom) semble ignorer ces arrangements. Assise par terre, devant un carré de tissu sur lequel sont disposés des petits tas de figues, la jeune mère de cinq enfants sait seulement que « son nom a été effacé de l’ordinateur et qu’elle n’a jamais reçu d’aide » . Son village se trouve à quatre heures de marche. Les cactus restent sa seule nourriture, avec les quelques vivres qu’elle pourra s’acheter si la vente est bonne.

      Face à la « plus grave sécheresse depuis quarante ans », l’heure est à nouveau à un grand plan pour le Sud. Le président Rajoelina a organisé en juin 2021, à Fort-Dauphin, une conférence pour « l’émergence », dont il est ressorti une liste de projets plus ou moins ambitieux qu’il reste encore à financer.

      De son côté, la Banque mondiale a annoncé une enveloppe de 200 millions de dollars (182 millions d’euros) pour un programme baptisé Mionjo, ce qui signifie « se lever » en langue antandroy. « Depuis toutes ces années, des milliards de dollars ont été dépensés pour le Sud. Nous pouvons déplorer le manque de volonté politique des gouvernements successifs, mais nous devons aussi faire notre autocritique », soupire un bailleur.

      A Ambovombe, le jeune gouverneur de l’Androy n’attend que cela : « Cette région est qualifiée de manière infamante de cimetière de projets. Cela nous fait honte, mais que chacun prenne sa part. Nous ne sommes pas les seuls responsables de la pauvreté ici, blâme Lahimaro Soja, juriste de formation et originaire de la région. L’aide humanitaire sauve des vies lorsque frappe le kéré, mais elle nous tue aussi à petit feu. La population a fini par croire que c’est un droit, au point d’en devenir dépendante. Rien n’est facile dans le sud de Madagascar, mais nos enfants méritent un autre avenir. »

      Par Laurence Caramel (Ambovombe, Madagascar, envoyée spéciale)

      #Madagascar #kéré #sécheresse #famine #alimentation #aide_alimentaire #pauvreté

  • #docu
    Le monde en face - #Wagner, les #hommes_de_l'ombre de #Poutine en #streaming - Replay #France_5 | France tv
    https://www.france.tv/documentaires/politique/3140025-wagner-l-armee-de-l-ombre-de-poutine.html

    L’#opacité, le #crime, et l’impunité. Voilà comment l’on pourrait définir le groupe Wagner, une #armée_privée de #mercenaires travaillant pour le compte de la #Russie, même s’ils s’en défendent. On les retrouve dans plusieurs pays où ils sont employés pour, officiellement, gérer la sécurité. En réalité, le groupe est l’exécuteur des #basses_oeuvres de Poutine.

    #afrique
    #rca
    #madagascar
    #mali

  • Tentative d’épuisement d’un lieu planétaire : Un événement perecquien sur Twitter le 3 mars 2022

    http://liminaire.fr/liminaire/article/tentative-d-epuisement-d-un-lieu-planetaire

    Le 3 mars prochain marquera les 40 ans de la mort de Georges Perec. À cette occasion, célébrons son esprit encore vivace, le temps d’une performance collective éphémère, inspirée de son œuvre.

    Jeudi 3 mars 2022, de 12h30 à 13h30 heure de Paris, participez à la « Tentative d’épuisement d’un lieu planétaire ». [1]

    Mode d’emploi : chacun(e) se poste dans un lieu de son choix et décrit, à la manière « infraordinaire », ce qu’il voit et perçoit, le banal, le quotidien, et le poste en série sur Twitter. Chacun des tweets est accompagné systématiquement d’un hashtag donnant le nom de la ville où il/elle se trouve (#Kinshasa #Malakoff #Paris #Bruxelles #Poitiers #Tours #Marseille #Montevidéo #NewYork #Montréal #Rome #Madrid #Tokyo...), et du hashtag de l’événement #Perec40. (...) #Perec, #Écriture, #Histoire, #Langage, #Livre, #Lecture, #Récit, #Poésie, #Hommage, #Performance, #Twitter (...)

  • #Madeleines au citron
    https://www.cuisine-libre.org/madeleines-au-citron

    Mélanger vigoureusement le sucre et les œufs avec un fouet jusqu’à ce que le mélange devienne pâle et homogène. Prélever 1 petite cuillère de levure, mélanger avec la farine, et verser progressivement sur les œufs en ne cessant pas de remuer. Râper la moitié du zeste du citron et l’ajouter. Verser progressivement l’huile d’olive en filet, comme pour une mayonnaise, et mélanger soigneusement. Répartir le mélange dans les moules à madeleines en faisant attention à ne les remplir qu’aux deux tiers, car les… Madeleines, Farine de blé, #Écorce_de citron / #Végétarien, #Sans viande, #Four

    #Farine_de blé

  • L’Afnic, forte de ses membres et de ses collaborateurs, vous souhaite une excellente année 2022 ! Ensemble nous continuerons de porter haut et fort les couleurs d’un .fr solidaire, accessible et responsable. #PointFR #BonneAnnee #Afnic #Internet #France #MadeInFrance

    Afnic, its members and its teams, wishes you a happy new year 2022 ! Together we will continue to promote an accessible, sustainable and inclusive .fr.

    #DotFR #ccTLDs #Internet #HappyNewYear #Afnic #HappyNewYear2022 #PointFR #BonneAnnee #France #MadeInFrance

  • « La magie-han de la ligne de production-han fermée-han . C’est pour ton pays-han. Hi-han #AgnesRunacher »
    https://www.youtube.com/watch?v=zYhMtZ68nHA


    Lorsque tu vas sur une ligne de production han, c’est pas une punition han, c’est pour la magie, c’est pour ton pays ! 🤩

    #Masques-FFP2 : l’avenir incertain d’une filière française dont la production s’est effondrée

    Entre avril et octobre, la production tricolore de masques FFP2 a chuté de 90%. Pour faire face à la vague Omicron, la filière se dit prête à augmenter ses capacités de production, à condition que l’ensemble des acteurs jouent le jeu du « #made-in-France ».

    Obligatoire dans les restaurants, cinémas ou transports chez certains de nos voisins, le masque FFP2, plus efficace que le chirurgical, n’est pas exigé en France. Une filière s’est pourtant mise en place depuis le début de la pandémie, passant de quatre fabricants tricolores à une trentaine en deux ans, avec une capacité de production de l’ordre d’une vingtaine de millions de masques par semaine.

    Mais entre la faible demande de la population et la concurrence asiatique, les temps sont durs pour ces industriels. S’ils ont enregistré en début d’année de nombreuses commandes d’établissements de soins et de santé (hôpitaux, Ehpad…) qui accordent plus d’importance aujourd’hui à l’origine des produits qu’ils achètent, les producteurs de masques FFP2 ont connu une traversée du désert.

    Après avoir été fournis, « les hôpitaux se sont retrouvés avec des stocks donc il n’y avait plus de commandes. La filière a été quasiment à l’arrêt entre avril et octobre » avec une chute de la production d’environ 90%, souligne Christian Curel, président du syndicat des fabricants de masques F2M. Le nombre d’emplois de la filière estimé à 10.000 aurait quant à lui été « divisé par deux ».

    Depuis, la demande est légèrement repartie sous l’effet de la vague de contaminations au variant Delta débutée en novembre, puis de l’émergence de la nouvelle souche du Covid-19 Omicron. Mais « l’activité demeure extrêmement faible », déplore Christian Curel. De nouvelles commandes des hôpitaux sont néanmoins attendues à partir de janvier.

    « Pas de problème pour augmenter les capacités de production »

    Dans l’hypothèse où le masque FFP2 deviendrait obligatoire en France, la filière assure qu’il n’y a « pas de problème pour augmenter les capacités de productions » et qu’elle sera en mesure de répondre aux besoins de l’Hexagone. A condition que tout le monde joue le jeu :

    « On veut bien augmenter nos capacités de production mais que fait-on si dans deux mois tout s’arrête ? », questionne Christian Curel.

    Au-delà du seul secteur de la santé, il faudrait selon lui inciter l’ensemble des acteurs de la société à acheter les masques FFP2 français, plus efficaces que les masques chinois et dont l’empreinte environnementale est « vingt fois » moins élevée. « Aujourd’hui certaines entreprises n’ont pas le choix. Leurs vendeurs de produits d’hygiène ne proposent que des masques chinois », regrette encore le président du syndicat des fabricants.

    Il estime par ailleurs que le masque FFP2 devrait être recommandé pour toutes les personnes fragiles et les non vaccinées. Mais reste la question du prix, les FFP2 étant plus chers que les masques chirurgicaux : environ 50 à 60 centimes, selon Christian Curel et entre 30 à 40 centimes pour les commandes en gros des professionnels de santé.

    https://www.bfmtv.com/economie/entreprises/industries/masques-ffp2-l-avenir-incertain-d-une-filiere-francaise-dont-la-production-s-

    #masque-FFP2

  • LeDoc / Dʳ Franck Clarot:
    https://twitter.com/Le___Doc/status/1475550686834266119

    C’est très préoccupant, ce qui a été dit ce soir par @JeanCASTEX et @olivierveran, dire que je suis déçu, est un euphémisme

    On annonce une situation grave... et pourtant on prend des mesurettes orientées quasi exclusivement vers la préoccupation première : l’économie #Castex19h

    On soutient les soignants et les acteurs sanitaires de première ligne... et pourtant on laisse faire pour le moment la vague #omicron, et le débordement du système en janvier, ce qui va sécher les soignants, sans compter les cas contacts #Castex19h

    On pointe les incertitudes concernant #Omicron, mais on prie tout de même pour qu’il soit moins dangereux (l’espoir de fin d’année, c’est important) #Castex19h

    Et on diffère au 5 janvier ...

    On nous dit que le virus circule chez les enfants, que cela peut diffuser chez les fragiles... pourtant on nous sort les reco de la SFP, qui a été nulle depuis le début de cette crise, et a qui a eu des positions opposées à TOUTES les autres sociétés savantes su monde. #Castex19h

    On nous parle d’obscurantisme, et d’anti vax, ... pourtant une partie de la com’ du soir reprend leurs arguments, comme la comparaison avec les bronchiolites et les gastro, ce qui d’ailleurs, est aussi contre productif vis à vis de la campagne actuelle de vaccination #Castex19h

    Il est inquiétant de reconnaitre parmi ces arguments des propos tenus ça et là dans Gala, sur LCI et CNEWS, par des gens qui ne voient pas ou plus de patients depuis longtemps, ou qui déjeunent avec la première dame...

    Ce soir, c’est difficile d’essayer de continuer à lutter.

    L’anticipation de la #6emevague aurait mérité d’autres mesures ; les soignants auraient mérité plus, aussi...

  • L’Internationale - Derribar las estatuas de Colón
    https://internationaleonline.org/opinions/1073_derribar_las_estatuas_de_colon

    Pour ceux qui lisent l’espagnol. L’article est illustré avec plein d’images et cartes qui valent la peine. https://www.internationaleonline.org/opinions/1073_derribar_las_estatuas_de_colon

    Deberíamos contagiarnos de la rabia de los movimientos anticoloniales y antirracistas y desmontar el tinglado simbólico que apuntala nuestra superioridad euroblanca.

    «Por cierto, señor, aunque a Colón se hiciera una estatua de oro no pensaran los
antiguos que le pagaban si en su tiempo fuera»
 Gonzalo Fernández de Oviedo, De la natural historia de las Indias, 
Toledo, 1526, fol. xx

    El furor de los últimos tiempos contra las estatuas y monumentos que perpetúan la memoria de la historia colonial puede parecer algo extemporáneo y fuera de lugar; impropio de “sociedades avanzadas”. Son reliquias del pasado, se nos dice, carentes de capacidad mnemónica o contenido ideológico, cuyo valor cultural y artístico ha de ser respetado y protegido como parte de nuestro patrimonio. Tal apariencia vulnerable e inocua es uno de los modos más efectivos de naturalización del status quo en nuestros regímenes modernos. Desde su pedestal, las viejas estatuas señalan de manera sutil y silenciosa a los depositarios legítimos de la memoria, aunque su contenido se haya olvidado, confirmando sin violencia aparente el orden de privilegios y exclusiones transmitido a lo largo del tiempo. Esta airada furia revisionista molesta e indigna porque transgrede los limex de ese ámbito sagrado, anacrónico y estético, en el que colocamos los mitos fundacionales de nuestro sistema de tal manera que permanezcan incuestionados y a resguardo. Por eso también ha causado perplejidad y enojo el modo en que la nueva derecha reactiva ostentosamente ritos “tribales” que se creían superados o se tenían pudorosamente alejados de la visión pública. Los periodos de intensa crisis como el que vivimos tienen la virtud de rasgar velos y disipar espejismos devolviendo a símbolos en apariencia dormidos todo su poder de atracción y repulsión, como cápsulas que condensan el sentido de procesos históricos tan virulentos en su naturaleza como profundos y duraderos en sus consecuencias.

    Réplica, Daniela Ortiz, 2014. Video courtesy of the artist.

    El caso de las estatuas de Cristóbal Colón, objeto predilecto de las celebraciones y de las protestas actuales en torno a los monumentos, ilustra ejemplarmente el modo en que operan estos hitos del espacio público. En apariencia indiferente, desde lo alto de una céntrica glorieta madrileña, Colón es testigo “por defecto” de las paradas militares que cada 12 de octubre marcan la Fiesta nacional, sin que los discursos institucionales hayan de hacer mención directa a su persona o su significado. La enorme bandera que desde hace unos años ondea cerca de la estatua, rivalizando con ella en altura, satura el sentido simbólico de la plaza, haciendo innecesaria cualquier referencia precisa. Más explícita ha sido la elección del lugar por los líderes de los partidos conservadores con el fin de escenificar su indisoluble unidad en defensa de la patria, así como por las cada vez más frecuentes manifestaciones ultras congregadas bajo el grito de “se rompe España”. Estos fenómenos, que responden a la tendencia neofascista de invocar fantasmáticamente momentos “gloriosos” del pasado, logran a pesar de su vacuidad e impostura hacer visibles las profundas razones históricas que vinculan el mundo colonial con el orden social y político del presente.
    Jesus Carrillo 2 Coco Fusco 10 Koda Color 002
    Two Undiscovered Amerindians Visit Madrid, Coco Fusco and Guillermo Gómez Peña, 1992. Photo courtesy of the artist.

    Así lo puso en evidencia la artista peruana Daniela Ortiz cuando escenificó entre la muchedumbre españolista congregada ante la estatua barcelonesa el 12 de octubre de 2014 la posición del indio arrodillado y sumiso que aparece esculpida junto al religioso catalán Bernat Boïl, acompañante de Colón en su segundo viaje. Su performance incomodaba a los alegres portadores de banderas al hacer patente el componente racista y colonial del orgullo español que celebraban. La artista hacía un guiño a la acción llevada a cabo veintidós años antes por Coco Fusco y Guillermo Gómez Peña, en el contexto de las celebraciones del V Centenario. Haciéndose pasar por “dos indígenas aún no descubiertos”, ambos artistas se exhibían enjaulados ante la curiosa y crédula mirada de los turistas en los “setenteros” Jardines del Descubrimiento de Madrid, junto a la estatua de Colón. Lejos de ser un acontecimiento singular, petrificado en los monumentos, demostraban paródicamente que el acto colonial del “descubrimiento” se ha venido repitiendo ininterrumpidamente hasta el presente, incluida la espectacularización turística de las celebraciones del 92, preludio de la intensificación del extractivismo y la aculturación durante la globalización.

    El que estas proyecciones hayan convergido en la figura de Colón dista, sin embargo, de ser resultado de un proceso lineal y exento de contradicciones. Ya que los monumentos afirman principios y valores definitivos e incontrovertibles, listos para ser colectivamente asumidos o eventualmente rechazados, no está de más poner de manifiesto los pies de barro de tales estatuas, explorando cómo y porqué han llegado a cobrar el significado que hoy les damos.
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    Universalis Cosmographia, Martin Waldseemüller, Strasbourg, 1507

    Colón tuvo que esperar casi cuatrocientos años a que España le hiciese el tipo de estatua que Fernández de Oviedo evocaba al dirigirse al emperador. No existía a principios del siglo XVI una tradición monumental en España capaz de traducir la retórica evocación romanista del cronista. De haberla, difícilmente se habría aplicado a Cristóbal Colón “el descubridor”, habida cuenta su detención y el áspero litigio que sostuvieron él y sus herederos sobre las riquezas y el gobierno de “las Indias”. Tal celebración de su persona era incompatible, en cualquier caso, con la titularidad absoluta que se arrogaba la Corona respecto al acontecimiento y sus implicaciones, que no permitía el reconocimiento de otra gloria que no fuera la suya propia. La sombra proyectada sobre la figura de Colón favoreció que Américo Vespucio fuera reconocido como sucesor de Ptolomeo por Waldseemüller en su famosa Universalis Cosmographia de 1507, mientras el mapa de costa de la entonces bautizada “América” se poblaba de insignias lusitanas y castellano-leonesas, de acuerdo con lo firmado entre ambas coronas en Tordesillas en 1494. Waldseemüller no ignoraba el papel de Colón en el descubrimiento, sin embargo, aquel enviado de la monarquía castellana no podía ser considerado como el moderno equivalente del geógrafo alejandrino.

    La proverbial confusión de Colón respecto a la naturaleza de su descubrimiento: “las Indias”, es una buena metáfora de lo contingente de un relato cuyo perfil iba a difuminarse en los escritos del cronista real Lucio Marineo Siculo, Opus de rebus hispaniae memorabilius, publicado en 1530. Ni las fechas, ni el número de barcos, ni el nombre mismo de Colón aparecen registrados correctamente. Ese mismo texto recogía el episodio espurio del hallazgo de una antigua moneda imperial romana en una playa americana, prueba irrefutable de una dependencia histórica del Nuevo Mundo respecto al viejo. La narración del hito del genovés no se iba a fraguar siguiendo la voluntad de construir el relato épico de la conquista española del Nuevo Mundo, sino como la primera de las múltiples historias derivadas de las aventuras, desventuras y conflictos que acompañaron a un proceso inconmensurable e inenarrable en los términos de la época. A pesar de los diarios y cartas anejos a sus viajes, la historia de Colón empieza realmente a tramarse tras 1497, el año en que el rey y la reina deciden cancelar su contrato y Diego Colón viaja a Roma para hablar a favor de su hermano cerca de Julio II. El humanista Pietro Martire, a cargo de fijar la versión oficial de los hechos, iba a ser persuadido por Colón para que terminara lo antes posible la primera parte de su historia latina, incluyendo la información acerca de los descubrimientos que él mismo le había dado. De hecho, a la muerte de Colón, su historia sólo sobrevive gracias a la publicación de De orbe novo en 1516.
    Jesus Carrillo 4 Columbus Landing On Hispaniola
    Columbus Landing at Hispaniola, etching by Theodor de Bry illustrating the work by Girolamo Benzoni, Americae pars quarta. Sive, Insignis & admiranda historia de primera occidentali India à Christophoro Columbo, Frankfurt, 1594.

    Veinte años después de la muerte del almirante hubo un intento frustrado de resucitar a Colón como héroe basilar del imperio, digno de ser conocido por todo “buen español”. En 1526, en la misma carta al emperador Carlos que abre De la natural historia de las Indias, Gonzalo Fernández de Oviedo afirma, como principio argumental de la misma:

    Que como es notorio, don Cristóbal Colón, primer almirante de estas indias las descubrió en tiempos de los católicos reyes Don Fernando y Doña Isabel, abuelos de Vuestra Majestad, en el año de 1491 años [sic] [...] El cual servicio hasta hoy es uno de los mayores que ningún vasallo pudo hacer a su príncipe y tan útil es a sus reinos, como es notorio. Y digo tan útil, porque hablando la verdad, yo no tengo por castellano ni buen español al hombre que de esto desconociese.

    Tras la retórica con que adorna esta introducción, Oviedo aspiraba a modelar y fijar un relato hegemónico con muy pocas posibilidades de éxito. Su énfasis en la dimensión épica de la empresa colombina delataba un vacío en el corazón de la conquista que resultaba tanto más evidente cuanto más avanzaba la invasión militar y la sórdida explotación material y humana de las así denominadas “Indias”. Para llenar dicho hueco Oviedo ofrecía la figura emblemática de Colón como prefiguración de la de sí mismo, con toda la ambivalencia de un temprano sujeto colonial: por un lado, como personificación del espíritu de la monarquía, por nacimiento y por servicio, y, por otro, desde su posición de miembro de la primera generación de pobladores españoles tras su desembarco en tierras del continente en 1513. A pesar de la distancia irreconciliable entre Oviedo y su contemporáneo Fray Bartolomé de Las Casas, ambos coincidían en señalar el vertiginoso abismo epistemológico y moral que abría la conquista y en reivindicar la figura de Colón como nudo desde el que tramar una historia plausible de la misma. Desde el particular punto de vista de Oviedo, la recuperación de Colón como único y legítimo descubridor era tan necesaria para la pensabilidad del imperio como lo era la representación del mundo natural que se desplegaba ante los ojos de los recién llegados y que él se disponía a acometer en su obra. Como sabemos, Oviedo fracasó en sus esfuerzos en más de un sentido. Cortés, y no Colón, iba a ser el héroe sin disputa en los textos de Ginés de Sepúlveda y de Lope de Gómara. Ambos autores imperiales beben abundantemente de los escritos de Oviedo, pero se paran al llegar a la figura de Colón, diluyendo su responsabilidad en el descubrimiento en circunstancias confusas y una neblina de testimonios contradictorios.
    Jesus Carrillo 5 Allegory Of America
    Allegory of America, Jan van der Straet, ca. 1587.

    Cuando la figura de Colón reaparece varias décadas más tarde en las famosas ilustraciones de Theòdore de Bry sobre la conquista de América, lo hace a través del buril del enemigo luterano y en el contexto de la así llamada “leyenda negra”. Vestido como soldado a las órdenes de la reina, pica en mano y espada a la cintura, se le retrata sometiendo a los desnudos e ingenuos indígenas a la autoridad de la corona española. Esta representación, muy alejada de la del navegante a que estamos acostumbrados, no era sino la imagen especular de aquella única que le cabía al almirante y a todos los que le siguieron en el camino de las Indias según la narración hispana. El perfil de valeroso emprendedor y sabio cosmógrafo que, por contraste, quisieron dejar sus herederos en ese collage de narraciones que es La historia del Almirante firmada por su hijo Hernando, acabó dirigiéndose a los lectores italianos, traduciéndose y publicándose en Venecia en 1571. A pesar de tales esfuerzos, en el famoso dibujo de Jan van der Straet, America (ca 1575), seguirá siendo Américo Vespucio quien aparezca despertando y nombrando al “nuevo mundo”, personificado por una mujer desnuda recostada en una hamaca. Mientras América, apenas erguida, solo cuenta con su cuerpo erotizado, el cosmógrafo, en pie ante ella, porta los atributos que simbolizan el dominio civilizatorio europeo. En este caso no son la pica y la espada, como en el Colón de Bry, sino un astrolabio y una bandera con la cruz.

    En el discurso de la nación hispana Colón no iba a tener el áureo papel que Camões diera a Vasco de Gama en Os Lusíadas, ni tampoco el que el mismo Colón representara más tarde en el imaginario de las jóvenes repúblicas americanas, o para la naciente Italia del siglo XIX. De hecho, Colón iba a tener que esperar hasta 1846 para protagonizar el Canto épico sobre el descubrimiento de América, y su autor –Narciso Foxá– sería un cubano de adopción nacido en San Juan de Puerto Rico.
    Jesus Carrillo 6 Monumento A Cristoforo Colombo, Genova
    Monument to Columbus, Genova, various artists, 1846-1892.

    El primer monumento europeo a Colón se erigió en su natal Génova ese mismo 1846, en el umbral de la unificación italiana, representando a un personaje sin insignias militares y apoyado en un ancla marinera. A sus pies se sienta una india desnuda, aunque en este caso sus manos están llenas: una cruz en la derecha y un cuerno de la abundancia en la izquierda. En uno de los lados del pedestal, en grandes letras latinas se lee: DIVINATO UN MONDO LO AVVINSE DI PERENNI BENEFIZI ALL’ ANTICO (“habiendo imaginado un mundo, lo encontró para perpetuo beneficio del viejo”) dejando claro el sentido extractivo y económico del proceso inaugurado por el descubrimiento a ojos de sus compatriotas. En el lado principal aparece el complementario significado nacional del monumento: A CRISTOFORO COLOMBO. LA PATRIA. El visionario Colón genovés, “injustamente” apresado por los reyes de España, personificaba el pujante espíritu de las nuevas naciones burguesas que por entonces aspiraban tanto a enriquecerse como a liberarse de las cadenas de la tiranía, recobrándose desde esa nueva faceta patriótico-capitalista el protagonismo “usurpado” por Vespucio.

    Cuando se erigieron los monumentos de Barcelona y Madrid unas décadas más tarde, se haría con cierta desidia institucional y habiendo de adaptar la iconografía de Colón a patrones ideológicos y a referencias históricas de sentido muy diferente. Aunque el liberalismo burgués trataba de abrirse paso en una cultura anclada en el Antiguo Régimen, nuestro país seguía siendo más de venerar a santos y vírgenes que a prohombres de la patria. Cabe recordar que el 12 de octubre seguimos celebrando la Virgen del Pilar, patrona de España y de la Guardia Civil.
    Jesus Carrillo 9 Monumento A Colón (madrid) 06
    Monument to Christopher Columbus, Madrid, detail by Jerónimo Suñol, 1881-1885, uncovered in 1892. Image: Antonio García, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons.

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    Monument to Christopher Columbus, Madrid, detail by Arturo Mélida, 1881-1885, uncovered in 1892. Image: Jay Cross, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons.

    En el agitado contexto de la Primera República, el federalista Ayuntamiento de Barcelona quiso que un monumento a Colón presidiera la así llamada Plaza de la Junta Revolucionaria, situando al intrépido héroe en las antípodas del nacionalismo centralista español. Cuando quince años más tarde, reprimido el fervor revolucionario, se construyó el monumento barcelonés al final de Las Ramblas, quedó muy corta la suscripción popular inicialmente prevista. Menos éxito aún tuvo el arquitecto murciano formado en París, José Marín-Baldo, quien empleó su juventud en proponer la construcción de un costosísimo cenotafio inspirado en los mausoleos imperiales romanos. Presentó infructuosamente el proyecto a Isabel II y posteriormente lo llevó, con éxito de crítica, pero sin resultados prácticos, a la Exposición Universal de Filadelfia de 1876. Una trayectoria similar tuvo el proyecto que el arquitecto vasco Alberto de Palacio presentó a la Exposición Mundial Columbina de Chicago de 1893, con el que pretendía emular a la torre de su maestro Eiffel para la exposición parisina de 1889. Su descomunal monumento devolvía a Colón el rol que le negara Waldseemüler como generador de una nueva imagen del mundo, moderna y tecnológica; un mundo listo para ser dominado según los parámetros del progreso capitalista. Se trataba de un globo terráqueo metálico de 300 metros de altura situado sobre un complejo arquitectónico con bibliotecas, museos y lugares de ocio. En su modernidad, incluso lo acompañó de un plan de viabilidad económica basado en la explotación turística. Como en el caso de Marín-Baldo, el reconocimiento estadounidense tampoco resultó en la materialización de tan desmesurado proyecto, que también fue desestimado cuando propuso construirlo en El Retiro madrileño, junto al Palacio de Cristal que él mismo había construido unos años antes para los fastos coloniales de la Exposición de Filipinas de 1887.
    Jesus Carrillo 7 Proyecto De Don José Marín Baldo, Monumento A Colón, En Cristóbal Colón Su Vida, Sus Viajes, Sus Descubrimientos
    Monument to Columbus, José Marín-Baldo, 1876, part of José María Asensio, Cristóbal Colón : su vida, sus viajes, sus descubrimientos, p. XLV. Barcelona (1888?). José Marín-Baldo (1826-1891), Public domain, via Wikimedia Commons.

    La imagen que finalmente cristalizaría no sería ni la del héroe clásico de Marín-Baldo, ni la del pionero de un futuro mundialista, que imaginara Palacios, sino otra historicista y autorreferencialmente hispánica. Cuando el Madrid de la Restauración erigió el monumento sito en el Paseo de Recoletos lo haría en dimensiones conceptual y económicamente más modestas y colocando la estatua sobre un desproporcionado pedestal gótico “Reyes Católicos”, acorde con los esfuerzos de restaurar la erosionada imagen de una monarquía metropolitana en plena decadencia. Su figura, con los brazos abiertos y la mirada extasiada hacia el cielo, imita a la de nuestros místicos patrios. El relieve de un Colón encadenado que ilustrara el pedestal de la estatua genovesa se veía aquí sustituido por enfáticas alusiones a su vinculación a la monarquía y a la religión católica. Un lugar privilegiado iba a tener el escudo de armas concedido por los reyes al almirante en que se lee en letras góticas “A CASTILLA Y A LEÓN UN NUEVO MUNDO DIO COLÓN”. A pesar de tal esfuerzo de traducción ideológica, su entrega al Ayuntamiento, coincidiendo con el IV centenario del descubrimiento, se llevó a cabo sin pena ni gloria. Por una jugada del destino, el “Pabellón de los descubrimientos”, que pretendía recuperar por fin la narración hispano-colombina desde la historia de la ciencia y la tecnología en la Expo 92, sufrió un demoledor incendio dos meses antes de la apertura de la “feria” sevillana, extirpando violentamente ese aspecto de las celebraciones del V centenario.
    Jesus Carrillo 8 1890 08 30, La Ilustración Española Y Americana, Monumento Colosal En Memoria De Cristóbal Colón, Proyecto Del Arquitecto Bilbaíno Alberto De Palacio
    Colossal Monument to the Memory of Columbus, Alberto de Palacio, illustration of La Ilustración Española y Americana XXXII, p.117, 1890. Image credits: Alberto Palacio, Public domain, via Wikimedia Commons.

    La narración de la historia de Colón estuvo destinada desde sus inicios a marcar distancia respecto al significado del descubrimiento que daba de iure y de facto la Monarquía española, a excepción del vano intento de Oviedo y Las Casas por dotar de sentido al sinsentido de una empresa que excedía los parámetros heredados de la Cruzada contra el islam. Lo fue desde posiciones muy diferentes. Su “hagiografía” se tramó como defensa de los intereses de sus herederos y, solo tras un prolongado hiato, fue recogida por el republicanismo independentista americano, desde el Cono Sur a Las Antillas, así como por un rampante Estados Unidos de Norteamérica que encontraba afinidad en su espíritu individualista y pionero. Teñido de orgullo patriótico, la reivindicó Génova en el contexto ideológico de la unificación y el Risorgimento, y el colonialismo capitalista de finales del XIX volvió a mirarse especularmente en aquel hombre emprendedor, blanco y de origen europeo, presto a dominar el mundo mediante su supuesta superioridad racial, cultural y tecnológica. La “reespañolización” de Colón, según hemos narrado, fue tardía e impostada, desde una posición defensiva, teniendo que negociar con narraciones generadas, precisamente, para separar “el descubrimiento” del discurso español.

    Es interesante comprobar que a pesar de la violencia y la desigualdad racista que impera en Estados Unidos, se están eliminando gradualmente las conmemoraciones y monumentos de su venerado Colón mediante la implementación de decisiones democráticas adoptadas en los consejos municipales desde Los Ángeles a Nueva York, pasando por Denver, Phoenix, Alburquerque o Minneapolis. Recientemente, fue retirada la estatua de Colón e Isabel la Católica que presidía la rotonda del Capitolio de California, como parte de una limpieza general de imágenes ofensivas para la población indígena por celebrar su genocidio. Es el resultado de largos y ásperos procesos de activismo y protesta antirracista y en defensa de los derechos civiles que nos hablan de la plasticidad que conserva aún la sociedad norteamericana.

    En 2010, coincidiendo con el segundo centenario de las independencias latinoamericanas, se inauguró la exposición Principio Potosí en el Museo Reina Sofía, templo de la modernidad española después de la dictadura. El equipo curatorial, formado por un imposible cruce germano-boliviano, pretendió romper definitivamente el “huevo de Colón” poniendo en evidencia que existe un único e ininterrumpido proceso de expropiación y explotación que aún continúa a escala global. Desmontando el mito racionalista del progreso, señalaban que la sustancia de lo que denominamos modernidad se fraguó en el proceso de “acumulación primitiva” violentamente incoado por los españoles en las minas de Potosí en el siglo XVI y desplegado sin solución de continuidad por el capitalismo hasta hoy. Con ello minaban de paso los fundamentos ilustrados de las narraciones de independencia que se celebraban entonces. Siguiendo a Enrique Dussel, el sujeto moderno se configuraría como ego conquiro a partir de una dialéctica de la dominación previa e inseparable de la misión supuestamente cristianizadora y civilizadora de España y Occidente. Habiendo estallado las últimas costuras del proyecto ilustrado, la modernidad se desvelaría en toda su crudeza barroca, excéntrica, mestiza y violenta, aunque no por ello carente de fermentos disruptivos y emancipatorios.

    Los movimientos anticoloniales y antirracistas contemporáneos reconocen, con los comisarios y artistas de Principio Potosí, que el Colón emprendedor y cosmopolita y el Colón soldado al servicio de España son dos caras de una misma moneda; partes constitutivas del proceso que ha esculpido con su cincel de dominación nuestro espacio social y ha esquilmado el planeta en su totalidad. El acto “bárbaro” de derribar sus estatuas, ya sea metafórica o literalmente, debería contagiarnos algo de su rabia y llevarnos a desmontar de una vez por todas el tinglado simbólico que entiba nuestra superioridad euroblanca, un gesto imprescindible y urgente si queremos imaginar y construir un mundo vivible.
    Jesus Carrillo 11 Mncars 0349
    Exhibition view of The Potosí Principle. How shall we sing the Lord’s song in a strange land?, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid, 2010. Photo by Joaquín Cortes and Román Lores.

    Article originally published in Spanish in ’CONTEXTO Y ACCION’, 25 March 2021 https://ctxt.es/es/20210301/Firmas/35353/derribo-estatuas-Colon-racismo-colonialismo-blanquitud-Jesus-Carillo.htm
    Jesus Carrillo 1 Detalle De La Estatua De Colón En Barcelona Laslovarga
    Detail of the statue of Christopher Columbus in Barcelona, Laslo Varga

    #Christophe_Colombe #colonialisme #statue #monument Cristobal_Colon #Barcelone #Madrid

    • Ça manque assez clairement de Louis Fouché et de tout son mouvement Réinfocovid, qui lui et son groupe, sont quand même parmi les fers de lance de la mise en doute, rassurisme, et critique du vaccin et lien avec toutes les autres composantes (complotistes, extrême droite, etc). C’est vraiment chelou de pas les avoir mis dans cette liste vu leur importance, bien plus que d’autres qui y sont.

    • l’article date du 17/11/2020, à l’époque Réinfocovid avait environ un mois. Manquent aussi pas mal d’autres, sans doute également relativement récents à l’époque, comme Alexandra Henrion-Caude ou, surtout, Reiner Fuellmich et son Nuremberg 2.0.

      On peut aussi constater que, face à ces « nouveaux venus » une bonne partie de celles et ceux de la première vague n’ont pas tenu la distance.

    • sur Fuellmich, il y a pas mal d’entrées, depuis le début, ici-même, mais aussi https://lavamedia.be/fr/tribunal-de-nuremberg-2-0-du-scepticisme-par-rapport-a-la-pandemie-au-deni-de-lholocauste/#Reiner_Fullmich_coordinateur_de_l8217opposition_juridique_aux_mesures_de_ par exemple.
      dans les têtes d’affiche, tu as forcément repéré Christian Perronne et, très tôt, Jean-Dominique Michel, p. ex. https://jdmichel.blog.tdg.ch/archive/2021/04/19/covid-plainte-contre-les-gouvernements-et-l-oms-vers-un-nouv-31460 et le reste de son blog, plus tardivement, par le biais de la défense de Didier Raoult et de l’HCQ, Laurent Mucchielli, p. ex. via son blog chez Mediapart https://blogs.mediapart.fr/laurent-mucchielli/blog
      et pour les politiques, il y a Florian Philippot qui est omniprésent sur une ligne dure antivax, antipass et se positionne en défenseur irréductible des libertés individuelles

    • Sur Reiner Fuellmich et son Nuremberg 2.0.
      https://www.heidi.news/sante-alimentation/le-grand-proces-nuremberg-2-0-sur-le-covid-n-aura-pas-lieu

      Une idée folle est née dans le cerveau agité de l’avocat allemand Reiner Fuellmich, une des grandes figures complotistes actuelles. Celle d’un grand procès international pour punir les scientifiques et les politiques ayant géré la pandémie. Il s’en prend aux tests PCR mais aussi à la reine d’Angleterre, au Vatican et à la famille Rothschild. L’idée fait désormais peur à son auteur, qui tente de la faire oublier tout en affirmant que la justice est en marche.

      ..

      L’idée d’un Nuremberg 2.0 est née en Allemagne, en juillet 2020. Enfin, plutôt dans le ranch californien de l’avocat allemand Reiner Fuellmich. L’homme est un véritable héros des « Querdenker » allemands, notamment depuis qu’il s’en est violemment pris au virologue Christian Drosten, celui qui a mis au point avec ses équipes berlinoises le protocole des tests PCR fin janvier 2020. Tests PCR qui seraient à l’origine du « mal », selon l’avocat. Dont les actions se focalisent essentiellement sur cet outil de dépistage. Sans lui, pas de pandémie, pas de Covid, pas de panique. Pour Reiner Fuellmich, prouver que les PCR ne sont pas des outils d’identification fiables du Sars-CoV-2 permettrait de faire « tomber le château de cartes ».

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      Désinfox Le « M. Covid » allemand est-il poursuivi par la justice pour avoir faussé les tests PCR ?

      Des protocoles de tests PCR volontairement faussés, aboutissant à des résultats 100% positifs ? Des publications très largement diffusées ces dernières semaines affirment que le virologue et conseiller du gouvernement allemand Christian Drosten est « poursuivi par la justice allemande » pour avoir « faussé le protocole des tests PCR ». Des allégations fausses.

      https://www.estrepublicain.fr/sante/2021/10/08/le-m-covid-allemand-est-il-poursuivi-par-la-justice-pour-avoir-fausse

    • Sur le Querdenker
      https://www.france24.com/fr/europe/20210429-les-anti-masque-une-nouvelle-forme-d-extr%C3%A9misme-pour-le-rens

      Ils se font appeler “Querdenker”, ceux qui pensent différemment. Mais pour le service de renseignement allemand, ces opposants virulents aux mesures mises en place pour lutter contre la pandémie de Covid-19 sont surtout des individus qui pensent dangereusement.

      Trop dangereusement pour le bien-être de la démocratie allemande, a conclu l’Office fédéral de protection de la Constitution qui a décidé, mercredi 28 avril, de mettre ce mouvement sous surveillance au niveau national. Dorénavant, les agents du renseignement pourront mettre ces “Querdenker” sur écoute, recruter des informateurs dans le mouvement, espionner leurs échanges sur les réseaux sociaux ou encore faire des recherches sur leurs réseaux de financement.

      Un mouvement hétérogène

      Tous les “Querdenkers ne vont pas se retrouver du jour au lendemain dans le collimateur des services de renseignement, a tenu à souligner le ministère de l’Intérieur. Cette surveillance ne concernera que ceux dont “l’activité peut effectivement être considérée comme anticonstitutionnelle”, précise la Frankfurter Allgemeine Zeitung.

      La mise sur écoute de cette mouvance n’allait pas de soi. D’abord parce qu’elle est issue d’un mouvement tout ce qu’il y a de plus légitime. “À l’origine, les manifestations début avril 2020 en Allemagne étaient l’expression du droit reconnu de protester contre des dispositions que certaines personnes pouvaient trouver attentatoires à leurs libertés”, rappelle Johannes Kiess, sociologue et directeur adjoint à l’Institut Else-Frenkel-Brunswik pour la démocratie de l’université de Leipzig, interrogé par France 24.

      Ensuite, parce que ce rassemblement de mécontents est difficile à délimiter. Il n’y a pas de groupe constitué ou parti auquel on peut adhérer pour revendiquer son appartenance. “Il y a plusieurs manières d’évaluer l’importance des ‘Querdenker’. On peut tout d’abord s’en tenir au nombre de personnes qui participent aux manifestations, ce qui représente environ 10 000 individus. Il y a ensuite les groupes de discussion sur le service de messagerie Telegram, qui peuvent rassembler jusqu’à plus de 100 000 internautes. Enfin, des sondages d’opinion ont montré qu’il y a entre 10 à 20 % de la population allemande qui dit ‘comprendre’ leurs revendications”, énumère Boris Holzer, sociologue à l’université de Constance travaillant sur les mouvements sociaux en Allemagne, contacté par France 24. Il y a donc un noyau dur restreint autour duquel gravite un nombre important d’individus plus ou moins impliqués.

      Et c’est surtout un rassemblement très “hétérogène d’individus venus d’horizons variés”, constatent les médias allemands. “Une partie de ces manifestants a pour seule revendication de revenir plus à la situation d’avant-pandémie au plus vite, mais ils ne remettent pas en cause le système”, note Boris Holzer.

      C’est la partie obscure de ce mouvement qui intéresse l’Office de protection de la Constitution et inquiète de plus en plus l’opinion publique allemande. “Très vite, il y a eu des éléments d’extrême droite qui sont venus se greffer aux ‘Querdenker’ et ont tenté de faire main-basse sur le mouvement”, raconte Johannes Kiess.

      Des passerelles se sont établies - dans la rue et sur les réseaux sociaux - entre les “Querdenker" et des groupuscules néonazis ou des accros aux théories du complot à forts relents antisémites, comme les QAnonistes. “Les figures emblématiques du mouvement sont, pour la plupart, clairement issues de la frange la plus à droite du paysage politique allemand”, reconnaît Boris Holzer. Pour Johannes Kies, “si les éléments les plus extrémistes n’ont pas réussi à s’approprier complètement le mouvement, ils ont su imposer les symboles de l’extrême droite dans les manifestations : slogans anti-système, pancartes contre les immigrés ou pour dénoncer l’existence de supposés complots”.

      Un mouvement radicalisé

      Pour sa part, l’Office fédéral de protection de la Constitution se montre particulièrement attentif à la promiscuité qui s’est installée entre les “Querdenker” et les “Reichsbürger” ("citoyens du Reich", en Allemand). “On s’est vite rendu compte que les liens entre les deux groupes sont bien plus forts que ce que l’on pensait”, a affirmé un porte-parole du ministère de l’Intérieur, interrogé par la Süddeutche Zeitung. Pour lui, c’est le signe “d’une forte remise en cause des institutions démocratiques allemandes”.

      >> Allemagne : qui sont les Reichsbürger, ces nostalgiques du Reich ?

      Les “Reichsbürger” constitue, en effet, “un groupuscule qui va très loin dans la théorie du complot puisque ces membres sont convaincus que le gouvernement n’a aucune légitimité, et que le Reich n’a jamais été aboli. Pour eux, l’Allemagne est toujours en guerre contre les Alliés et toutes les décisions d’Angela Merkel lui sont dictées par les États-Unis”, explique Johannes Kies.

      Ce noyautage des “Querdenker” par des éléments extrémistes a contribué à “une forte radicalisation du mouvement ces derniers mois”, estime le directeur adjoint de l’Institut Else-Frenkel-Brunswik pour la démocratie. Des journalistes ont été agressés en marge des rassemblements et des manifestants se sont violemment opposés aux forces de l’ordre. Cette augmentation des actes violents est aussi “due à la ‘fatigue pandémique’ qui rend les manifestants plus agressifs”, reconnaît-il.

      Cette radicalisation a poussé les services de renseignement à sévir. Dans un rapport de 37 pages justifiant leur décision, ils ont comptabilisé dans les rassemblements plus de 1 000 incidents, allant des provocations aux agressions physiques.

      Mais l’Office fédéral de protection de la Constitution s’est retrouvé face à un os. Le mouvement ne rentre, en effet, dans aucune des trois grandes cases - extrême droite, extrême gauche ou islamisme extrémiste - lui permettant de mettre les “Querdenker” sous surveillance. “Leur définition de l’extrémisme était trop étroite pour cette mouvance”, note Johannes Kies.

      L’agence a donc pris une décision inhabituelle : elle a inventé une nouvelle catégorie baptisée “déligitimation de l’État de droit et de la Constitution”. Un signe que le service de renseignement ne compte pas s’intéresser uniquement aux éléments d’extrême droite dans le sens traditionnel du terme au sein des “Querdenker”, estime Boris Holzer.

      Pour le chercheur de l’université de Constance, “cette nouvelle catégorie semble faite sur mesure pour surveiller les complotistes les plus radicalisés, qui ne peuvent pas être mis dans le même sac que les héritiers autoproclamés d’Hitler ou les anti-immigration, mais dont les discours appellent à renverser l’État de droit”.

      Si les experts interrogés par France 24 s’accordent à dire que l’Office de protection de la Constitution a eu raison de prendre la menace des “Querdenker” au sérieux, ils reconnaissent que la décision d’étendre ainsi le champ de l’extrémisme peut mettre mal à l’aise. “C’est une catégorie beaucoup plus floue et l’Office de protection de la Constitution a une grande latitude pour décider de ce qui entre dedans. Cela peut-être dangereux sur le plan institutionnel”, note Johannes Kies.

      Selon lui, la conception des renseignements allemands de ce qui est dangereux pour la démocratie est peut-être mal adaptée à la réalité du jour. “Ces services partent du principe que la menace ne peut venir que des franges de la société”, souligne-t-il. Or la montée en puissance des “Querdenker” a clairement démontré qu’à l’heure de la pandémie, les extrémistes n’ont plus le monopole des discours antisystème virulents.

  • Les rois de la béquille ou les mystères de Brueghel
    https://www.franceculture.fr/emissions/les-emois/les-rois-de-la-bequille-ou-les-mysteres-de-brueghel

    Peint en 1568 par Peter Brueghel le vieux, visible au Louvre, « Les Mendiants » s’avère une bien singulière peinture nous montrant 5 miséreux amputés qui, coiffés tels des rois de carnaval et saisis, toute béquille au vent, semblent saisis par le démon de la danse.
    https://cdn.radiofrance.fr/s3/cruiser-production/2016/09/b50039b5-e0ef-42b9-90a6-3e9882283778/838_pieter_bruegel_d._a._024.webp
    Magnétisé par cette toile, le dessinateur Sergio Aquindo a entraîné l’écrivain Pierre Senges dans sa rêverie et méditation pour une exploration graphique saisissante et la confection d’une fiction historique où une caravane de personnage fameux, grands destins laissés sur le bas-côté de l’Histoire, répond à des récits de la fête des fous flamandes et à des méditations picturales.

  • Tremblez, les wokes veulent interdire le latin et le grec ! Vraiment ? http://www.slate.fr/story/219375/wokes-interdire-cours-latin-grec-faux-obsession-mediatique-etats-unis-reforme-

    « Ils veulent annuler les cours de latin » is the new « elles veulent interdire La Belle au bois dormant ».

    Spoiler : non. Ni aux États-Unis, ni en France. Et la disparition progressive de l’enseignement des langues anciennes n’a rien à voir avec eux.

    J’ai pris des bonnes résolutions. Par exemple, j’ai décidé de faire mon lit tous les matins (= étendre la couette d’une façon approximative). J’ai également décidé de ne plus cliquer sur les titres ridicules, du type « Face à l’idéologie “woke”, Jean-Michel Blanquer annonce un plan européen pour le latin et le grec ». Donc je n’ai rien lu sur Jean-Michel Blanquer, les cours de grec et le wokisme, jusqu’à ce que je tombe sur cet excellent décryptage d’Elodie Safaris.

    À partir de cet article, elle est allée regarder les liens. En réalité, dans l’article, rien ne concerne la France. Pour une raison assez simple à comprendre : en France, personne n’a demandé la fin des cours de grec ou de latin. C’est donc un non-sujet ici. Comme d’habitude, on parle en réalité des États-Unis –ce qui, rappelons-le à Jean-Michel Blanquer, ne correspond pas géographiquement à sa fiche de poste.

    L’article cite une enquête du Figaro de juin dernier dans lequel une prof italienne raconte qu’une fois, un élève l’a interrogée sur la misogynie de Platon et une autre fois sur le racisme et le sexisme de Homère. Oh mon Dieu... Mais c’est... terrible.

    Cette histoire des wokes contre le latin aura fait à certains toute l’année. Quasiment tous les mois, on a eu nos articles à la titraille bien accrocheuse...

    #débunking #panique-morale #madeInJean-MiMiBlanquer

  • La Nuit des féminismes 1/2 : Quelques pionnières... (4/10) : Madeleine Pelletier, une femme d’avant-garde Les nuits de France Culture
    https://www.franceculture.fr/emissions/les-nuits-de-france-culture/la-nuit-des-feminismes-1-2-quelques-pionnieres-4-10-madeleine-pelletie

    C’est à la femme seulement de décider si et quand elle veut être mère, car, sur notre corps, notre droit est absolu.

    https://seenthis.net/messages/816521

    En 2017, Céline du Chéné consacrait un volet de l’émission « Une vie, une œuvre » à #Madeleine_Pelletier. Anarchiste, féministe, première femme française interne en psychiatrie, son parcours atypique est mis en lumière dans ce documentaire.

    https://seenthis.net/messages/911452
    https://maitron.fr/spip.php?article24398, notice PELLETIER Madeleine [PELLETIER Anne, Madeleine] par Claude Maignien, version mise en ligne le 31 janvier 2009, dernière modification le 22 octobre 2020.
    #anarchisme #féminisme