• Ehpad  : le miroir du capitalisme sénile (21 mars 2022)

    https://mensuel.lutte-ouvriere.org/2022/03/26/ehpad-le-miroir-du-capitalisme-senile_244641.html
    (Lutte de classe n°223 - avril 2022)

    – Le nouvel «  or gris  »
    – Des hospices aux #maisons_de_retraite lucratives et aux Ehpad
    – Pillage des fonds publics, exploitation et déshumanisation
    – Une concentration et une financiarisation de plus en plus poussée
    – Opacité et absence de contrôle

    #ehpad #capitalisme

  • La politica dell’Unione europea sui biocarburanti fa male al clima e ai sistemi alimentari

    Per produrre gli eco-combustibili utilizzati oggi in Europa si coltivano mais, colza e palma da olio su una superficie di 9,6 milioni di ettari, che basterebbe a sfamare 120 milioni di persone. “L’Ue non solo cede vaste aree coltivate per alimentare le automobili ma fa anche salire ulteriormente i prezzi”, denunciano T&E e Oxfam

    “I biocarburanti vegetali sono probabilmente la cosa più stupida mai promossa in nome del clima”. Non ha usato mezzi termini Maik Marahrens, biofuels manager di Transport&Environment nel commentare il nuovo rapporto pubblicato il 9 marzo che la federazione europea per i trasporti e l’ambiente ha curato insieme all’Ong Oxfam.

    Oggi l’Europa utilizza l’equivalente di circa 9,6 milioni di ettari di terre agricole (una superficie pari a quella dell’Irlanda) per coltivare colza, mais, soia, barbabietole da zucchero, grano e altre derrate alimentari che, invece di finire sulle nostre tavole, vengono utilizzati per produrre bioetanolo, biodiesel e biometano. “Stiamo cedendo vaste porzioni di terra per coltivazioni che poi bruciamo nelle nostre automobili -riprende Marahrens-. È uno spreco scandaloso: questi terreni potrebbero sfamare milioni di persone o, se restituiti alla natura, potrebbero diventare serbatoi di carbonio ricchi di biodiversità”.

    L’utilizzo di questi combustibili era stato introdotto a livello europeo con la Eu Renewable energy directive (Red) del 2009 con l’obiettivo di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili; ma già le successive direttive in materia (2015 e 2018) hanno introdotto delle limitazioni all’uso di biocarburanti di origine alimentare. Oggi Germania e Francia sono i due Paesi che ne consumano le maggiori quantità (facendo affidamento rispettivamente sull’olio di palma, che viene importato, e sulla colza) seguiti da Svezia, Regno Unito, Spagna e Italia.

    “Il consumo di biocarburanti di origine vegetale in Europa richiede un’area totale di 9,6 milioni di ettari, pari al 9,2% del totale dei terreni coltivati nel continente”, si legge nel report che evidenzia come la gran parte di questa superficie (circa due terzi) si trovi in Europa. Mentre la quota restante, dove vengono coltivate soprattutto palma da olio e soia, si trova in Asia e in America Latina.

    Ma che cosa succederebbe se queste superfici venissero destinate ad altri scopi? La prima opzione presa in considerazione nel report riguarda la possibilità di abbandonare le monocolture per la produzione di mais e colza per da trasformare in biocombustibili per lasciare spazio al ritorno della vegetazione naturale e al ripristino dei boschi: “Questo permetterebbe di rimuovere dall’atmosfera 64,7 milioni di tonnellate di CO2 all’anno -si legge nel report- circa il doppio del risparmio netto generato, in termini di minori emissioni, dall’utilizzo di biocarburanti pari a circa 32,9 milioni di tonnellate”. La rinaturalizzazione di queste aree avrebbe poi ulteriori benefici, rappresentando un argine alla perdita di biodiversità che oggi interessa circa l’80% degli habitat del continente, secondo una stima della Commissione europea: “L’occupazione di vaste aree con monocolture per i biocarburanti significa invariabilmente meno spazio per gli ecosistemi naturali e meno habitat per piante e animali selvatici”, sottolinea il report.

    La seconda possibilità prevede la possibilità di installare pannelli fotovoltaici. I biocarburanti consumati in Europa consentono di percorrere circa 329mila milioni di chilometri: “Per coprire la stessa distanza con auto elettriche alimentate con energia prodotta da pannelli fotovoltaici servirebbe una superficie di 0,133 milioni di ettari -spiega Horst Fehrenbach dell’Istituto per l’energia e la ricerca ambientale (Ifeu), che ha curato la ricerca per conto di T&E e Oxfam-. In questo modo il 97,5% della superficie oggi utilizzata per produrre biocombustibili potrebbe essere destinata ad altro uso”.

    La terza possibile alternativa riguarda l’utilizzo dei terreni oggi destinati alla produzione di biocarburanti per coltivare generi alimentari destinati al consumo umano: secondo le stime contenuta nel report se la superficie oggi utilizzata solo in Europa (escludendo quindi dal conteggio le piantagioni in altri continenti) venisse utilizzata per produrre grano questo permetterebbe di soddisfare il fabbisogno calorico di circa 120 milioni di persone, circa un quarto della popolazione del continente. “La politica dell’Unione europea sui biocarburanti è una catastrofe per centinaia di milioni di persone che lottano per portare in tavola il loro prossimo pasto -commenta Julie Bos, consulente per la giustizia climatica dell’Unione europea di Oxfam-. Non solo cede vaste aree coltivate per alimentare le automobili ma fa anche salire ulteriormente i prezzi dei prodotti alimentari. I Paesi europei devono smettere una volta per tutte di usare il cibo per produrre carburante”.

    Marahrens ricorda poi come “ogni giorno 15 milioni di pagnotte e 19 milioni di bottiglie di olio di girasole e di colza vengono bruciati nei motori di camion e automobili. Continuare a farlo mentre il mondo sta affrontando una crescente crisi alimentare globale è al limite del criminale. Paesi come la Germania e il Belgio stanno discutendo di limitare i biocarburanti per le colture alimentari. Il resto dell’Europa deve seguirne l’esempio”.

    https://altreconomia.it/la-politica-dellunione-europea-sui-biocarburanti-fa-male-al-clima-e-ai-

    #biocarburants #alimentation #terres #agriculture #maïs #colza #huile_de_palme

    • Biofuels: An obstacle to real climate solutions

      The EU wastes land the size of Ireland on biofuels, missing enormous opportunities to fight climate change, biodiversity loss and the global food crisis.

      A new study by the IFEU institute quantifies for the first time the enormous opportunity costs across Europe of dedicating millions of hectares of fertile cropland to the production of biofuels. The results are clear – this land could be used much better in the interest of mitigating climate change, stemming biodiversity loss or increasing global food security.

      In 2009, the European Union (EU) introduced a biofuels mandate as part of its green fuels law, the ‘#Renewable_Energy_Directive’ (RED). The proposition at the time was attractive: farmers would be supported to produce ‘green fuels’. In reality, biofuels have harmed food security and obstructed climate change mitigation.

      The study carried out by the Institut für Energie- und Umweltforschung (IFEU) on behalf of T&E shows that production of crops for biofuels consumed in Europe requires 9.6 Mha of land – an area larger than the island of Ireland. This is 5.3 Mha if the production of co-products, mainly feed for industrial livestock farming, is taken into account.
      Key findings

      - If this land were returned to its natural state (‘rewilded’) it could absorb around 65 million tonnes of CO2 from the atmosphere – nearly twice the officially reported net CO2 savings from biofuels replacing fossil fuels.
      - Using the land for solar farms would be far more efficient. You need 40 times more land to power a car using biofuels vs an electric car powered by solar. Using an area equivalent to just 2.5% of this land for solar panels would produce the same amount of energy.
      - Crops cultivated on these lands could be used to provide the calorie needs of at least 120 million people.

      https://www.transportenvironment.org/discover/biofuels-an-obstacle-to-real-climate-solutions

      #rapport

  • Rappasciona, soupe italienne de légumes secs
    https://www.cuisine-libre.org/rappasciona-soupe-italienne-de-legumes-secs

    Soupe italienne savoureuse et légère avec des ingrédients de la tradition paysanne pauvre. La veille, faites tremper le blé et le maïs dans des récipients séparés pendant 24 heures et faites tremper les haricots pendant 12 heures. Le lendemain matin, remplissez une grande marmite d’eau et laissez mijoter le blé environ 1h30. Faites de même pour le maïs en le faisant cuire pendant 45 minutes et les haricots pendant 40 minutes en ajoutant de l’eau chaude si nécessaire. Lorsque tous les trois sont cuits,… #Blé_entier, #Haricot_blanc, #Maïs_sec, #Pouilles / #Végétarien, #Sans œuf, Végétalien (vegan), #Sans lactose, #Sans viande

    #Végétalien_vegan_

  • #Flee

    Le film raconte l’histoire vraie d’Amin Nawabi (pseudonyme), réfugié afghan. Il raconte son enfance heureuse à Kaboul, l’arrestation de son père sous le régime communiste, puis sa disparition. Lorsque la guerre s’installe en Afghanistan, le frère ainé d’Amin s’enfuit pour éviter la conscription. Le reste de la famille quitte l’Afghanistan pour la Russie lors du retrait des troupes soviétiques en 1989.

    En Russie, la famille, en situation irrégulière, est harcelée par la police, et ils souhaitent rejoindre le frère ainé qui vit en Suède. Il faut pour cela réunir une somme importante pour payer les passeurs. Les deux sœurs d’Amin rejoignent la Suède après une traversée traumatisante de la mer Baltique. Amin, sa mère et son autre frère échoue lors d’une première tentative pour traverser la Baltique. Leur bateau prend l’eau, et l’équipage d’un paquebot qu’ils croisent contacte la police estonienne qui les renvoie à Moscou.

    La famille décide ensuite qu’Amin fera une nouvelle tentative, avec un passeur capable de lui procurer un faux passeport et de le faire voyager en avion. Le passeur envoie Amin au Danemark et non en Suède, lui ordonne de détruire son faux passeport à l’arrivée et de prétendre que toute sa famille est morte. Il bénéficie du statut de mineur non accompagné, mais est séparé de sa famille et craint le renvoi si on découvre qu’il a menti.

    Amin est homosexuel, et craint de l’avouer à sa famille car l’homosexualité est taboue en Afghanistan. Sa famille finira néanmoins par l’accepter. Il fait une carrière scientifique qui l’oblige à sacrifier sa vie de couple avec un Danois. Amin décide finalement de se marier avec son concubin Kasper, et ils emménagent dans une jolie maison.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Flee_(film)

    #film #film_d'animation #réfugiés #migrations #Afghanistan #réfugiés_afghans #maison #LGBT #mourir_aux_frontières #parcours_migratoire #itinéraire_migratoire #passeurs

  • La maison en A.
    https://youtu.be/bBf3Sniwfqw

    C’est l’histoire d’Elizabeth Faure, bâtisseuse, qui a décidé de réaliser son rêve : construire elle-même sa maison. Mais avec le minimum d’argent, soit 40 000 euros pour 180 m2 de surface habitable. Elizabeth Faure a 65 ans lorsqu’elle se lance dans ce projet fou, c’était en 2013, près de la commune de Lusignac en Dordogne. La Maison en A, long métrage réalisé par Morgane Launay, raconte son histoire. « J’ai eu envie filmer cette mission impossible : une femme soixantenaire et sans argent qui construit quasiment seule sa maison en forme de A. Cette super-héroïne prouve que tout est possible », explique la réalisatrice.

  • Dans les #Deux-Sèvres, la #mobilisation contre les #mégabassines atteint ses objectifs malgré son interdiction... et les lacrymogènes

    Plusieurs milliers de personnes et de nombreux élus ont manifesté, samedi 29 octobre, à #Sainte-Soline, contre le plus gros projet en cours de mégabassine, pour dénoncer l’#accaparement_de_l’eau par l’agro-industrie. À l’appel de 150 organisations, le rassemblement, qui dure depuis plusieurs jours, a été le théâtre de tensions avec les forces de l’ordre.

    SainteSainte-Soline (Deux-Sèvres).– Il est 15 h 15 ce samedi 29 octobre quand plus de deux cents personnes avancent pacifiquement au milieu de l’immense cratère de Sainte-Soline. Après avoir marché au pas de course depuis le camp de base, à deux kilomètres de là, déjoué plusieurs barrages de police et traversé des nuages lacrymogènes, dérouté les forces de l’ordre par la progression de trois cortèges distincts à travers champs, une partie de la foule manifestante a atteint son but : pénétrer à l’intérieur du chantier très protégé de la dernière mégabassine en cours d’aménagement dans les Deux-Sèvres.

    Cette gigantesque excavation artificielle, couverte de cailloux calcaires et bordée de massifs remblais encore inachevés, doit accueillir, pendant l’hiver, de l’eau pompée dans les nappes phréatiques afin de constituer une réserve pour arroser, l’été, les cultures irriguées du coin, maïs en tête. Avec une emprise au sol de 16 hectares – soit la taille de vingt-deux terrains de foot –, cette mégabassine est la plus grosse jamais construite dans les Deux-Sèvres. Un mur de gaz lacrymogènes chasse toutefois la foule au bout de quelques minutes.

    Qu’à cela ne tienne, la manifestation est une réussite aux yeux de celles et ceux qui l’ont organisée : 7 000 personnes selon leurs estimations ont pris part à la marche et ont réussi à s’approcher des grilles du chantier. Et ce malgré l’interdiction du rassemblement par la préfecture, le blocage des routes alentour depuis le matin et une mobilisation impressionnante des forces de l’ordre : quelque 1 600 gendarmes et policiers étaient mobilisés, tandis que plusieurs hélicoptères survolaient la manifestation.

    Malins, des activistes avaient commencé à installer le camp dès le début de la semaine et se trouvaient sur place avant que les accès ne soient bloqués. Chapiteaux, barnums, toilettes sèches… et des centaines de tentes ont poussé en quelques jours. La mobilisation se poursuit tout au long du week-end avec des concerts, une « assemblée des luttes », des balades archéologiques et naturalistes… et de nouvelles actions.

    « On voulait quelque chose de festif, un moment sympathique à partager ensemble », précisait en amont du rassemblement Léna Lazare des Soulèvements de la Terre - l’un des collectifs, avec Bassines non merci et environ 150 autres organisations, à l’origine de la mobilisation.

    Quatrième moment de la mobilisation antibassine après celle de Mauzé-sur-le-Mignon en septembre 2021, celle de Cramchaban en novembre, puis celle d’Épannes en mars – toutes trois dans le marais poitevin - la marche de Sainte-Soline, à une cinquantaine de kilomètres au sud-ouest de Poitiers, avait pour but d’arrêter le prochain chantier qui démarrerait dans la région. Avec pour demande un moratoire sur la construction de ces équipements destinés à alimenter en eau une poignée d’agriculteurs. Il faut dire qu’entre-temps, un été de sécheresse record a posé avec une nouvelle urgence la question d’une gestion équitable de l’eau et ne fait que conforter les activistes dans leur combat.

    « On lutte contre un projet d’accaparement d’eau, explique Mélissa Gingreau, l’une des porte-paroles de Bassines non merci. On s’oppose à la construction de seize mégabassines dans les Deux-Sèvres. Mais si on ne veut pas qu’elles se construisent ici, on veut surtout qu’elles ne se fassent pas ailleurs. Car il s’agit d’une privatisation de l’eau au profit d’une minorité de gens. »

    La bassine de Sainte-Soline est destinée à l’usage de douze exploitants agricoles. Avec son tee-shirt « L’eau est un commun. Protégeons-là, partageons-là », le porte-parole de la Confédération paysanne, Nicolas Girod, défend l’idée qu’une autre agriculture est possible, qui stocke naturellement l’eau dans les sols. « Les mégabassines, ce sont des outils de l’agro-industrie qui font disparaître paysannes et paysans, tout comme les fermes-usines, les produits de synthèse, les OGM… Pomper une eau qui a réussi à s’infiltrer dans les sols est un non-sens écologique. Ce qu’il faut, c’est sortir des pratiques de monocultures intensives et retrouver des sols qui ne soient plus stériles. »

    Philippe Beguin, l’agriculteur qui a prêté le terrain pour le campement militant, a précisément fait ce chemin quand, il y a quelques années, il s’est fâché avec les concepteurs d’une autre mégabassine du secteur. « Ils ne répondaient pas précisément à mes questions. Or moi j’avais fait mes calculs, j’avais vu qu’avec les charges d’emprunt liées à cet équipement, on ne gagnerait pas plus d’argent en faisant du maïs irrigué qu’en faisant du blé en culture sèche », raconte-t-il à Mediapart.

    Il a fini par claquer la porte, remettant en cause le système dans lequel il était. « Je ne suis pas fier de ce que je faisais… Mais les paysans, on a été tellement formatés ! Beaucoup de mes voisins critiquent mon retournement, mais j’observe qu’avec la médiatisation du combat contre les mégabassines, certains changent aussi d’avis. »

    Aujourd’hui, Philippe a mis l’une de ses parcelles en jachère, car elle se trouve, entre mai et septembre, sur la zone de nidification d’un oiseau migrateur : l’outarde canepetière. Et là où il faisait du maïs et du tournesol irrigués, il fait désormais pousser du blé et du millet blanc destiné à l’alimentation d’oiseaux. Il a conservé un peu de tournesol et de maïs, mais « seulement là où il y a les bonnes terres profondes, sans irrigation, quitte à faire la moitié du rendement », dit-il.

    C’est bien à cette « agriculture de qualité », et non pas à « une agriculture destructrice de la faune et de la flore », qu’il faut parvenir, estime Lisa Belluco, députée EELV (Europe Ecologie Les Verts) de la 1re circonscription de la Vienne - circonscription voisine de celle de Sainte-Soline avec laquelle elle partage le même bassin versant. « Dans le secteur, ce sont 31 mégabassines que la préfecture veut faire passer. Si nous gagnons ici, nous gagnerons pour les autres projets. Si l’on prend en compte tous les usagers de l’eau, on voit bien que ce système ne peut pas fonctionner dans un contexte de changement climatique. »

    Comme elle, Manon Meunier, élue LFI (La France insoumise) à l’Assemblée nationale sur la Haute-Vienne, est venue manifester pour, dit-elle, « faire bifurquer l’agriculture ». « Il faut investir dans la transition agroécologique, dans une agriculture intensive en emploi. »

    Lors de son intervention en juillet dernier devant la commission Développement durable et aménagement du erritoire de l’Assemblée nationale, la climatologue coprésidente du Giec Valérie Masson-Delmotte ne disait pas autre chose. « Ces simples politiques de substitution et de bassines ne seront pas à l’échelle par rapport aux besoins, indiquait la scientifique. […] Là, on peut être dans des cas de mal-adaptation parce que l’on créerait du stockage et [...] on accentuerait le niveau de réduction des nappes. Il faut aussi se projeter sur ce que nécessiterait une adaptation à l’échelle d’ici à 2050, et là on se rend compte qu’on aura besoin de toute manière de changement dans les systèmes de production pour réduire les besoins d’irrigation, et pour parvenir du coup à un meilleur équilibre avec le climat tel qu’il évolue. »

    Dans les rangs militants, au-delà des organisations et des syndicats – des députés européens, le NPA (Nouveau parti anticapitaliste), la CGT et Solidaires sont également présents – on trouve aussi des gens des environs, secoués par l’« éco-anxiété », choqués par l’impasse dans laquelle nous conduit l’agro-industrie.

    C’est le cas de Pascale et Clara Niveau, mère et fille présentes depuis le début du mouvement. « Mes grands-parents étaient de petits paysans à quelques kilomètres d’ici, je suis attachée à cette paysannerie, ça fait de la peine de voir ce que devient la terre... », déplore Pascale. Clara, étudiante aux Beaux-Arts à Poitiers, porte dans son dos un panneau composé de tissus de récup’ avec les mots « eau voleur ». « J’essaie d’allier mon travail artistique avec ces sujets, dit-elle. Cela me préoccupe beaucoup... »

    Aïssate Ba, elle, est venue de plus loin avec un petit groupe militant originaire des Vosges. C’est la première fois que la chanteuse participe à une mobilisation contre les mégabassines. « Nous nous battons contre Vittel et ses déchets plastiques qui polluent les nappes phréatiques vosgiennes, raconte-t-elle à Mediapart. C’est tout aussi injuste que ce qui se passe ici. »

    Au cours de la marche vers la mégabassine, cible de nombreuses bombes lacrymogènes lancées dans les airs par les forces de police, de bombes assourdissantes, de grenades de désencerclement et de tirs de LBD planait la mort de Rémi Fraisse sous un tir de grenade, il y a précisément huit ans au cours de la contestation du barrage de Sivens. Hier, 50 personnes ont été blessées dans le cortège, parmi lesquelles cinq sont hospitalisées, indique la coordination de Bassines non merci. La police, de son côté, fait état de 61 blessés.

    Cette mobilisation grandissante et rejointe par de nombreux politiques finira-t-elle par être entendue ? Pour l’heure, le conseil régional de Nouvelle-Aquitaine, présidé par le socialiste Alain Rousset, continue de soutenir le modèle des mégabassines, qui bénéficie d’importants financements publics.

    Quelques heures avant le début de la marche, Christophe Béchu, le ministre de la transition écologique, enfonçait le clou, avançant que les bassines étaient une solution face à la sécheresse. « On a la moitié des départements de France encore en situation de sécheresse. L’agriculture est en première ligne, et il nous faut des alternatives pour continuer à nourrir les Français », déclarait-il samedi matin sur France Inter.

    https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/301022/dans-les-deux-sevres-la-mobilisation-contre-les-megabassines-atteint-ses-o
    #résistance #industrie_agro-alimentaire #eau #agriculture #cortèges #maïs #nappe_phréatique #extractivisme #manifestation #Soulèvements_de_la_Terre #Bassines_non_merci #sécheresse #gestion_de_l'eau #lutte #privatisation #agro-industrie #irrigation #répression

  • Life in soil: The psychology of soil in California

    Isabelle Legeron travels to California, a part of the world whose soil holds a complex history. She meets the indigenous Californians reviving ancestral methods of tending to the land, and the soil scientists exploring the impact of colonisation and agriculture on the soil of the Golden State.

    With indigenous Californian land steward Redbird (Pomo/Paiute/Wailaki/Wintu), director of the California Indian museum Nicole Lim (Pomo), indigenous ecologist Dr Melissa Nelson (Anishinaabe/Métis/Norwegian), indigenous educator Sara Moncada (Yaqui/Irish), professor Paul Starrs (USA) and soil scientists Suzanne Pierre (India/Haiti/USA), Kenzo Esquivel (Japanese/Mexican/USA) and Yvonne Socolar (USA).

    https://www.bbc.co.uk/sounds/play/w3ct43cn

    #sol #terre #Californie #peuples_autochtones #colonisation #colonialisme #géographie_du_vide #paysage #agriculture #maïs #USA #Etats-Unis #végétation
    #podcast #audio

    ping @_kg_

  • #Vivarium

    Gemma et Tom s’aiment et souhaitent une maison bien à eux pour fonder une famille. C’est alors qu’un agent immobilier leur fait miroiter la maison de leurs rêves, située dans un nouveau lotissement. Le couple suit le bonimenteur en voiture jusqu’au lieu dit. Là, ils découvrent une maison sans charme et semblable à toutes ses voisines. Mais au moment de s’en aller, l’agent à disparu. Au milieu de toutes ces rues identiques, ils ne parviennent plus à retrouver leur chemin. Epuisés après des heures de trajet, ils se résignent alors à loger dans « leur » nouvelle maison. Le cauchemar ne fait que commencer. Une excellente critique de la bulle immobilière dans un thriller fantastique inventif et glauque à souhait.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Vivarium_(film)

    #film #lotissement #maison_de_rêve #urbanisme #cauchemar #labyrinthe #bulle_immobilière #villes #suburbanisation #rêve

  • De mauvais traitements dénoncés en Autriche
    https://www.lessentiel.lu/fr/story/de-mauvais-traitements-denonces-en-autriche-980752325376

    Le Défenseur des droits autrichien dénonce dans un rapport les mauvais traitements subis par les résidents d’une maison de retraite en Autriche appartenant au groupe privé français Orpea, déjà au cœur d’un scandale en France.


    Le groupe privé français Orpea a exprimé « son profond regret aux familles concernées ». AFP

    Le Défenseur des droits autrichien dénonce dans un rapport les mauvais traitements subis par les résidents d’une maison de retraite en Autriche appartenant au groupe privé français Orpea, déjà au cœur d’un scandale en France. « Les résidents souffraient de malnutrition et étaient déshydratés, le soin des plaies était si médiocre qu’une odeur nauséabonde s’en échappait », a décrit sur la radio publique autrichienne Ö1, Bernhard Achitz, le Défenseur des droits.

    Il a dénoncé un criant manque de personnel dans cet établissement Orpea, situé à Salzbourg. Le rapport, rédigé après une visite inopinée le 21 avril, relève le cas d’une femme restant au lit toute la journée et souffrant de fortes douleurs. « Lors d’un changement de pansement, une odeur de putréfaction s’échappait de la plaie. On ne lui administrait aucun médicament ». Jugeant sa vie menacée, les rapporteurs ont préconisé son transfert immédiat à l’hôpital où elle est morte peu de temps après.

    Dans la tourmente depuis janvier
    Le rapport dénonce également le manque de réaction des autorités de la province de Salzbourg. Ce n’est qu’après de multiples avertissements du Défenseur des droits qu’elles ont décidé de prendre des mesures, dénonce-t-il. Dans un communiqué publié jeudi soir, le groupe privé français Orpea a exprimé « son profond regret aux familles concernées » et a assuré « tout » mettre « en œuvre pour comprendre et prendre des mesures correctives ». Le groupe a diligenté un audit, confié à une équipe chargée de produire un rapport « dans les plus brefs délais ».

    Présent dans 23 pays, Orpea est plongé dans la tourmente depuis la publication en janvier d’un livre-enquête intitulé « Les Fossoyeurs », dénonçant ses pratiques en France. Soupçonné de maltraitance institutionnelle et d’infractions financières, il y fait l’objet d’une enquête judiciaire.

    #or_gris #orpea #Autriche #ehpad #vielles #vieux #korian #retraite #vieillesse #fin_de_vie #hospice #civilisation #capitalisme #maisons_de_retraite #maltraitance

  • Où pomper l’eau ? Le dilemme des céréaliers de la plaine de l’#Ain

    Pour continuer d’irriguer leur #maïs même en période de #sécheresse, des agriculteurs prélèvent l’eau du Rhône. Une sécurité vitale aux yeux de beaucoup d’exploitants, une « fuite en avant » selon d’autres.

    Par la fenêtre de son pick-up, Éric Viollet balaie d’un geste ses épis de maïs. « Ils commencent à fleurir, pourtant cette année ils ont souffert ! » Au milieu de ses 170 hectares de céréales, dans la commune de Leyment (Ain), l’agriculteur est serein.

    Quelques jours plus tôt, au milieu du mois de juin, la température approchait ici les 35 degrés. Une canicule particulièrement précoce, doublée de tensions sur la ressource en eau, qui a conduit les services de l’État à placer le bassin de la plaine de l’Ain en alerte sécheresse. Une décision couperet pour les quelque 180 céréaliers de ce territoire situé au nord-est de Lyon, interdits d’arroser leurs cultures pendant les week-ends.

    Pas de quoi troubler Éric Viollet, posté devant un « enrouleur », sorte de grand tuyau d’arrosage. Sécheresse ou pas, cette année son maïs devrait être irrigué environ huit fois. « Les restrictions d’eau ne nous concernent pas », résume-t-il. Car les arrêtés préfectoraux s’appliquent uniquement aux agriculteurs qui prélèvent leur eau dans la nappe d’accompagnement de la rivière d’Ain. Mais depuis plusieurs années, des dizaines d’exploitants du secteur se sont tournés vers une autre source, beaucoup plus abondante : le Rhône, qui coule à quelques kilomètres du champ d’Éric Viollet.

    Aujourd’hui, plus de la moitié des 8 000 hectares irrigués par les 250 kilomètres de canalisations de l’Association syndicale d’irrigation de l’Ain (Asia) le sont grâce à l’eau du fleuve. « C’est très sécurisant, ça nous enlève beaucoup de stress », résume Éric Viollet.

    La bascule s’est faite progressivement. Créée après la sécheresse historique de 1976, l’Asia a d’abord compté sur des dizaines de captages dans les nappes pour approvisionner ses adhérents. « Mon père n’arrosait pas ses maïs. J’ai créé trois forages après avoir repris l’exploitation en 1985 », raconte Éric Viollet.

    Une première station de pompage dans le Rhône voit le jour en 1992. Trois autres suivront. La dernière, inaugurée en 2018 à Lagnieu, est capable de prélever près de 4 millions de mètres cubes d’eau par an et approvisionne une vingtaine d’agriculteurs installés à proximité.

    Dans ce grand hangar en bordure du fleuve, Fabien Thomazet veille sur une dizaine de pompes, de gros tuyaux bleus et quelques voyants de contrôle. Salarié de la chambre d’agriculture de l’Ain mis à disposition de l’Asia, il est tranquille ce matin-là : de grosses averses battent le secteur depuis deux jours. « Pour nous, cette pluie vaut de l’or », déclare-t-il dans un sourire.

    En 48 heures, presque 100 millimètres d’eau sont tombés sur la plaine de l’Ain. Les agriculteurs n’auront pas besoin de ses services, pour quelques jours en tout cas. Mais les sols caillouteux du secteur ne permettent pas de stocker beaucoup d’eau. Si la chaleur revient, il faudra à nouveau irriguer.
    Réseau collectif

    L’Ain est fragile. En temps normal, la nappe joue un rôle de soutien d’étiage, en rendant de l’eau à la rivière lorsque son niveau est bas en été. Mais, depuis les années 2000, le bassin versant de la Basse-Vallée de l’Ain a été identifié comme étant en déficit quantitatif dans le schéma directeur d’aménagement et de gestion des eaux (Sdage), le document de référence en matière de gestion des eaux.

    En 2014, une étude a montré que les prélèvements dans la nappe réduisaient l’apport d’eau fraîche dans la rivière pendant l’été. Tous les usagers sont appelés à diminuer leur consommation. Les agriculteurs, qui représentent près de la moitié des prélèvements, sont en première ligne.

    « On a vite compris qu’on allait nous demander de moins taper dans la nappe, raconte Fabien Thomazet. Soit on acceptait de réduire nos capacités d’irrigation et donc nos rendements, soit on ne faisait rien et on allait au conflit permanent avec les instances de gestion de l’eau, soit on proposait une solution. » Rapidement émerge l’idée de concentrer les efforts sur une seule zone de quatre communes, en pompant dans le Rhône.

    Le chantier est colossal : il faut bâtir une station au bord du fleuve et poser 38 nouveaux kilomètres de canalisations pour amener l’eau jusqu’aux champs. Une vingtaine d’exploitants acceptent de reboucher une quarantaine de puits et de basculer sur le réseau collectif.

    Au total, le projet coûte près de 13 millions d’euros, financé à 80 % par l’Agence de l’eau et des subventions publiques. Il reste environ deux millions d’euros à la charge des agriculteurs. « Il a fallu les convaincre d’investir, alors que beaucoup avaient déjà amorti leurs équipements », se souvient Fabien Thomazet.

    Éric Viollet a fait le calcul. Entre ces nouveaux investissements et les volumes d’eau facturés, l’irrigation lui coûte près de 340 euros par hectare et par an. « En gros, sur 125 quintaux de maïs produits, 25 servent à payer l’arrosage. C’est cher mais c’est une assurance. C’est 100 quintaux que je suis sûr de faire chaque année. »

    Avec ce système, 4 millions de mètres cubes sont désormais prélevés dans le Rhône et non plus dans la nappe. Mais le fleuve lui-même ne sera pas épargné par le changement climatique. L’Agence de l’eau Rhône-Méditerranée-Corse, qui gère la ressource pour le quart sud-est de la France, mène actuellement une étude sur le sujet. Selon ses premières projections, le débit du Rhône pourrait diminuer de 25 à 30 % d’ici à 2050.

    Mais le fleuve reste « de très loin » celui qui a les débits d’étiage les plus élevés en France, grâce au « château d’eau des Alpes », nuance Laurent Roy, directeur général de l’agence. « Pendant l’été, la consommation nette liée aux prélèvements dans le Rhône représente 15 % de son débit. Ça laisse 85 % qu’on ne touche pas. On a encore une grosse marge », précise-t-il.

    Mais tous les agriculteurs de l’Ain ne partagent pas cet optimisme. « On ne peut pas utiliser toujours plus d’eau comme si c’était illimité », regrette Geoffrey Levrat, installé dans la commune de Sainte-Croix. Cet éleveur de 28 ans gère une trentaine d’hectares anciennement cultivés en maïs par son père, qu’il a convertis en prairies pour ses 150 brebis. « Dans la plaine de l’Ain, une grosse partie du maïs irrigué est utilisé pour nourrir le bétail. Pour moi, ce n’est pas tenable », estime-t-il. « Pomper de l’eau dans le Rhône, ça donne l’impression d’une fuite en avant. C’est comme les mégabassines, on cherche à prendre toujours plus d’eau, sans se poser de questions sur le modèle de départ », poursuit le jeune agriculteur.
    Accès inégal aux subventions publiques

    Dans ce secteur du sud de la Dombes, les sécheresses sont particulièrement intenses. Durant l’été 2020, le village voisin de Pizay a dû être réapprovisionné par un camion-citerne. Le puits qui assure l’alimentation en eau potable de la commune ne produisait plus assez d’eau pour remplir le réservoir. Cette année, Geoffrey Levrat a mis ses brebis au foin dès le mois de mai, faute d’herbe suffisante sur ses prairies. « Du jamais-vu. »

    En parallèle, le cycle naturel de l’eau s’est modifié. « Au fil des ans, on a supprimé beaucoup de zones humides qui permettaient à l’eau de s’infiltrer, en les drainant pour faire des céréales, c’est une approche qui ne fonctionne plus », décrit Geoffrey Levrat, qui suit le sujet de l’eau pour la Confédération paysanne de l’Ain. À ses yeux, la station de pompage de Lagnieu illustre aussi l’accès inégal aux subventions publiques.

    « Ici, j’ai fait un petit forage pour abreuver mes bêtes, explique-t-il. Je n’ai eu aucun financement. Si cela avait été pour irriguer des céréales, 40 % du coût auraient été pris en charge. » Selon lui, le système actuel « concentre les aides » sur un petit nombre d’agriculteurs. « La majorité des céréaliers du coin n’irriguent pas. Mais c’est sûr qu’ils n’ont pas les mêmes rendements ! »

    Sur ses terres, Geoffrey Levrat s’est lancé dans l’agroforesterie. Une technique qui consiste à planter des arbres au milieu de ses prairies. « L’ombre permet au sol de gagner en fraîcheur et en humidité », assure-t-il. Quant aux céréaliers, « ils pourraient peut-être passer à d’autres cultures moins gourmandes en eau que le maïs », suggère-t-il.

    « Certains ont essayé de planter du sorgho, qui demande beaucoup moins d’eau. Mais il n’y a pas de débouchés pour l’instant, pondère Fabien Thomazet. Beaucoup de gens voient les agriculteurs comme des curés au service des habitants, mais ce sont d’abord des chefs d’entreprise. Ils produisent ce qu’ils peuvent vendre ! » Au passage, le responsable de l’irrigation pointe la part de l’eau potable dans les prélèvements locaux, qui n’aurait pas diminué depuis plusieurs années. La faute à une croissance démographique synonyme de hausse de la consommation et d’imperméabilisation des sols, souligne-t-il. « Dans mon petit village, 50 maisons ont été construites en trois ans. On ne peut pas continuer comme ça. »

    En attendant un changement de cap, d’autres agriculteurs continuent de puiser dans la nappe. À l’image de l’EARL (Exploitation agricole à responsabilité limitée) de Lormet, plus au nord. L’exploitation peut prélever en théorie jusqu’à un million de mètres cubes d’eau par an dans ses six puits pour irriguer près de 700 hectares. Une énorme machine fragilisée par les sécheresses. Il y a quelques années, l’entreprise avait étudié la possibilité de pomper dans l’Ain mais les instances locales ont refusé le projet, raconte Mathieu Fournier, l’un des gérants. Le raccordement au réseau d’irrigation en provenance du Rhône serait trop coûteux.

    Depuis vingt ans, l’agriculteur assure avoir changé ses pratiques pour s’adapter aux restrictions d’eau. « On ne fait plus n’importe quoi, nous sommes sensibles au sujet », plaide Mathieu Fournier. « Mais on ne peut pas nous demander au dernier moment de nous restreindre », prévient-il. Mi-juin, il a décidé d’arroser le week-end, alors que l’alerte sécheresse avait été décrétée la veille par la préfecture. « On a préféré risquer l’amende plutôt que de ne pas irriguer à un moment aussi crucial pour nos cultures. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/060822/ou-pomper-l-eau-le-dilemme-des-cerealiers-de-la-plaine-de-l-ain

    #irrigation #France #agriculture #alerte_sécheresse #Rhône #pompage #fleuve #nappe_phréatique #canalisations #céréaliculture #subventions_publiques

    • Et le 2e épisode
      Petits #canaux contre « idéologie du #tuyau », une guerre de l’irrigation

      Très ancrés dans les territoires montagneux du sud de la France, prisés par les habitants, les #béals sont encore vitaux pour de nombreux agriculteurs. Mais cette gestion collective et traditionnelle de l’eau se heurte à la logique de #rationalisation de la ressource des services de l’État.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/080822/petits-canaux-contre-ideologie-du-tuyau-une-guerre-de-l-irrigation
      #tuyaux

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    • Dans les #fontaines_publiques, l’eau ne coule plus à flots

      Faute de moyens pour passer à des systèmes moins consommateurs en eau en période de sécheresse, de plus en plus de fontaines publiques sont fermées. Des Vosges à la Bretagne en passant par les Alpes-Maritimes, leur disparition marque la fin de « l’illusion de la disponibilité infinie de l’eau ».

      Sur la place Stanislas, au cœur de Nancy, vendredi 1er juillet, les terrasses sont bien remplies. Les touristes défilent pour prendre des selfies devant les imposantes fontaines du XVIIIe siècle, sans se soucier de ce qui se joue à l’intérieur des somptueux édifices. Depuis longtemps, l’eau n’y coule plus en continu mais en circuit fermé. Autrement dit, elle est recyclée.

      « Depuis toujours, l’eau fédère les gens, apporte de la vie », commente Étienne Martin, docteur en géographie historique. Mais l’expert a des regrets : « On n’a gardé que les fontaines de patrimoine, beaucoup de petites ont été supprimées. » Dans son ouvrage Les fontaines de Nancy d’hier et d’aujourd’hui, le chercheur recense non seulement les fontaines encore en service, dont la plus ancienne a plus de cinq cents ans, mais aussi un grand nombre de fontaines aujourd’hui effacées de l’espace public.

      Une balade en ville suffit pour en retrouver les traces : ces grandes places quasiment vides, ces jeux d’eau laissés à l’abandon ou cette ancienne esplanade d’eau à moitié couverte de végétation. Martin avoue ne pas trop aimer le dernier modèle en date, une « fontaine sèche » (appelée ainsi à cause de l’absence d’un bassin extérieur) au parc de la Pépinière, un des grands parcs de la ville.

      « Je n’y vois que du ciment avec une grille », grince l’historien local. Il est vrai que l’équipement inauguré fin juin a moins de superbe que son prédécesseur. À la place d’une dizaine de jets d’eau montant jusqu’à douze mètres, ce « nouvel îlot de fraîcheur » est composé, certes, de soixante-dix jets, mais allant seulement « jusqu’à cinq mètres de hauteur de diffusion d’eau ». La ville explique ce choix par « une gestion raisonnée des besoins en eau » et un entretien plus facile.

      D’année en année, les deux tiers des Français sont désormais concernés par des restrictions d’eau. Les fontaines publiques n’y échappent pas. Si elles n’ont pas été transformées en cycle fermé, ce qui est souvent le cas dans les petites communes, le robinet doit rester fermé en cas de sécheresse. Ne disposant pas d’une trésorerie nécessaire pour mettre aux normes environnementales leurs fontaines, certaines communes les désactivent, au moins temporairement, ou les démontent complètement.

      En 2010 déjà, le Conseil d’État s’inquiétait de la disparition des fontaines publiques qui restreint l’accès à l’eau des personnes sans abri. La tendance semble s’accélérer avec le réchauffement climatique. L’été dernier, la démolition d’une vielle fontaine à Nice a fait polémique. Sur Wikipédia, une page est dédiée aux fontaines disparues de Paris, dont la liste ne cesse de croître.
      L’Est très concerné

      « Aujourd’hui, on croit que l’eau a toujours coulé partout », s’étonne Jean-Marie Chevrier, habitant de Valfroicourt, petite commune vosgienne, non loin de Vittel. « Quand j’étais gamin, on avait la chance d’avoir une source qui approvisionnait notre maison et notre ferme. Les gens du quartier allaient au seau pour chercher l’eau à la fontaine publique. » La plus grande fontaine du village, la fontaine du Lion, d’ailleurs encore existante, ravitaillait les gens du quartier en eau potable. Un bassin servait à la lessive, un autre à l’abreuvement des animaux.

      Comme dans le Sud, l’est de la France est désormais particulièrement touché par le manque d’eau. Lors de la sécheresse de 2018, rien que dans le département des Vosges, trente et une communes étaient concernées par une pénurie d’eau ou un risque de pénurie. En Lorraine, douze villages ont dû être alimentés par camion-citerne. En 2022, la situation semble encore pire. Les camions-citernes circulent un peu partout. La ville balnéaire de Gérardmer a fait les gros titres à cause de sa stratégie de pomper l’eau potable depuis son lac.

      Les fontaines, elles aussi, sont victimes de la sécheresse. Un « grand nombre » des fontaines-abreuvoirs des Vosges « n’est aujourd’hui plus en eau, sert de bac à fleurs, a été dénaturé, voire détruit car gênant la circulation », déplore la Région dans un inventaire général.

      « Ces fontaines ont été, pour la plupart, installées au début du XIXe siècle. Aujourd’hui, seulement une infime partie sont encore en service », explique Vanessa Varvenne, historienne du patrimoine responsable de ce recensement de quelque 2 500 fontaines, lavoirs et abreuvoirs, terminé en 2016. Selon l’experte, beaucoup de communes n’auraient pas « les reins assez solides » pour les entretenir.

      Dans la commune vosgienne d’Esley, la solution a été radicale : deux des quatre fontaines ont été récemment supprimées. À Médonville, dans le même secteur, la fontaine Jeanne-d’Arc, à cycle ouvert, coule à un « débit très limité », comme le précise Patricia Pech, la maire. « Financièrement, on ne peut pas réparer les fuites », explique-t-elle.

      Non loin de là, à Dombrot-le-Sec, l’une des communes desservies en 2018 par camion-citerne, la mairie décide régulièrement de fermer les robinets de la fontaine du village. Cette dernière doit encore être mise aux normes, explique le maire, Bernard Salquebre. Il insiste : « Non, l’eau n’est pas abandonnée à Dombrot-le-Sec. » La ville serait seulement « dans la phase de renouvellement de la quasi-totalité des conduites d’eau de distribution et bientôt en fin de mise en place ». La fontaine, elle, sera bientôt remise en service.
      Priorité à l’eau potable

      Dans quelques communes des Alpes-Maritimes, une action symbolique a fait beaucoup parler. Dans une décision jointe, dix-huit communes du pays de Grasse ont coupé en avril dernier l’eau de leurs fontaines. « Dans le Sud, nous avons connu un hiver particulièrement doux, avec peu de précipitations, si bien que la plupart de nos sources, dont la principale, la source de la Pare, n’ont pas bénéficié de recharges hivernales », explique Pierre Bornet, maire de Cabris. « Les giboulées de mars et d’avril n’étaient pas au rendez-vous », si bien que, début avril 2022, « cette source était à son plus bas niveau historique à cette période », explique-t-il.

      Une situation « inquiétante », poursuit le maire. « Partant d’un tel niveau, nous risquons, si la sécheresse continue, de ne plus avoir de ressources en eau dans l’été. Avec les élus des différentes communes, nous avons décidé d’alerter la population, par cette action symbolique de couper l’alimentation des fontaines des villages, qui sont desservies par le réseau d’eau potable. »

      Pour l’élu, certes « l’eau au niveau des fontaines est un élément patrimonial important en Provence, signe de fraîcheur et de vie, mais puisque ces fontaines sont alimentées en eau potable, en tant que responsables de la gestion de l’eau, nous avons aussi un devoir d’exemplarité ». Fin juin, un arrêté de sécheresse confirme cette voie, renforcée encore fin juillet.

      Ce manque d’eau potable commence à prendre de l’ampleur et touche désormais aussi des régions comme la Bretagne. « Dans les années 80, 90, beaucoup de nos fontaines ont fermé à cause de problèmes de qualité. À cela s’ajoute maintenant la sécheresse », explique Thierry Burlot, vice-président du Cercle de l’eau et président du Comité de bassin Loire-Bretagne.

      Dans certaines villes comme Dinard, des fontaines ont été coupées depuis le printemps, à la suite des arrêtés sécheresse. Sur l’île de Groix, où les fontaines publiques, entretenues par une association locale, ne sont plus alimentées depuis le mois de mai, les autorités demandent même aux habitants de « limiter leur consommation d’eau domestique » par crainte de devoir importer de l’eau depuis le continent. Finalement, début août, une solution d’installation d’une unité de dessalement a été privilégiée.
      En attendant, des bacs à fleurs

      Dans beaucoup de communes, des fontaines sont temporairement hors service, parfois pendant des années. À Walbach, dans le Haut-Rhin, la fontaine locale, le « Stockbrunna », a dû rester fermée à plusieurs reprises. La mairie a donc décidé, au printemps 2021, de la transformer en bac à fleurs.

      Malgré l’opposition de quelques conseillers et « plusieurs courriers émanant d’habitants du village qui expriment également leur désaccord », le Stockbrunna attend sa transformation en cycle fermé, annoncée pour le printemps prochain. Même image à Bavans, petite commune dans le Doubs, où un habitant a récolté plus de 400 signatures contre le « changement d’affectation de la fontaine ». N’estimant pas avoir les fonds nécessaires pour réparer les fuites, la municipalité avait rempli sa fontaine de gravier et de terre.

      Une solution a été trouvée à Oyonnax, dans l’Ain, au bout de quatre années de fontaine à sec. En réponse au cri d’alerte d’un collectif de citoyens dans la presse locale, des mécènes se sont occupés de sa réparation.
      Des fontaines à louer

      Faute de moyens, beaucoup de communes se tournent vers le privé, comme à Paris. La place Stravinsky avec sa fameuse fontaine peut être louée, tout comme celle du Trocadéro, pour 400 000 euros, ou le musée Maillol avec sa fontaine des Quatre-Saisons. Régulièrement, des appels à dons sont lancés, récemment pour le restaurant de la place de la Concorde et ses deux fontaines, apparemment une nécessité pour la ville lourdement endettée.

      À Bordeaux, le sujet des fontaines a même fait irruption dans la dernière campagne municipale. Les socialistes avaient réalisé une carte virtuelle pour montrer « la difficulté de trouver de l’eau potable à Bordeaux et pour pousser la ville à remettre en service les fontaines publiques ».

      Le message a été entendu par la nouvelle municipalité, écologiste. « Il y avait du vandalisme et de grosses fuites », se souvient Maxime Ghesquiere, conseiller municipal délégué à la gestion du cycle de l’eau. Une de ses premières décisions : mettre les fontaines en régie et investir dans les réparations.

      Refaire une fontaine ornementale coûterait « des dizaines, voire parfois des centaines de milliers d’euros », explique Régis Taisne, chef du département « cycle de l’eau » de la Fédération nationale des collectivités concédantes et régies (FNCCR). À ses yeux, les petites fontaines en cycle fermé sont le compromis idéal : « Pour un coût limité, elles permettent un côté vivant et le maintien de l’illusion de la disponibilité infinie de l’eau. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/100822/dans-les-fontaines-publiques-l-eau-ne-coule-plus-flots

    • La sécheresse fait craquer de plus en plus de maisons

      Depuis 2015, les périodes de sécheresse s’enchaînent et affectent les sols argileux. Plus de 10 millions de maisons en France sont sur des zones à risque et peuvent se fissurer. Un enjeu à plusieurs dizaines de milliards d’euros pour les assurances.

      Même passé midi, en pleine canicule, des grappes de cyclistes pédalent à tout va en direction du mont Ventoux. Dans les villages des Baronnies provençales, on les retrouve assoiffés dans les bistrots bordés de platanes. Ce jour-là, au tout début de l’été, la Drôme est en alerte orange. Depuis des semaines, un vent sec balaye le domaine de Frédéric Alaïmo, 60 hectares de cultures, à La Penne-sur-l’Ouvèze. « Je fais du raisin de table mais les feuilles commencent à jaunir. Nos oliviers souffrent », montre le propriétaire.

      Sous les pieds, la terre a viré au gris et se fissure de jour en jour. Sa maison aussi.

      Comme des éponges, les sols argileux se rétractent en période de sécheresse et regonflent avec les pluies. La succession et l’intensité de ces phénomènes peuvent créer des mouvements de terrain, des tassements. La bâtisse de Frédéric Alaïmo fait partie des 10,4 millions de maisons moyennement ou fortement exposées à ce phénomène de retrait-gonflement des argiles (RGA), soit 54 % des maisons en France, selon les données du ministère de la transition écologique. Une victime de plus des risques climatiques.

      « J’ai connu la sécheresse de 2003. C’était une première alerte », se remémore-t-il, derrière ses lunettes rondes. Et puis, il y a eu 2019, la pire année pour la commune, reconnue comme catastrophe naturelle en 2020. « Parfois, je me demande ce que je suis venu faire ici », soupire-t-il. Depuis trois ans, cet homme de 60 ans se bat contre son assurance pour faire réparer sa maison, à l’entrée du domaine.

      Comme un bris de glace sur un pare-brise, les fissures se sont étendues à l’étage, aux embrasures des fenêtres. Le carrelage se fend, la porte de la véranda s’ouvre péniblement. Frédéric Alaïmo a fini par déménager chez sa compagne en catastrophe. Depuis, les habits sont restés dans les placards, les photos de famille plaquées aux murs.

      Le 8 décembre 2020, le Drômois a pu déclarer ce sinistre. « J’ai une perte en capital importante », explique-t-il. « Je n’avais jamais vu ça, la maison est disloquée », écrit un représentant de son assurance dans un mail daté du 31 mars 2021. Il reconnaît avoir eu « très peur de visiter cette maison sinistrée ». En juin 2021, le maire, Jérôme Bompard, 50 ans et entrepreneur en travaux publics, atteste que la maison de Frédéric Alaïmo est « devenue totalement inhabitable depuis la sécheresse de 2019 ».

      Le dossier paraissait simple mais depuis rien n’a bougé : les deux experts de l’assurance ne sont pas d’accord sur les zones touchées. Plus encore, l’assurance estime que les fissures ont commencé avant la sécheresse de 2019.

      « Le problème, c’est qu’on a deux sons de cloche des experts envoyés par la même assurance », s’emporte Frédéric. Il a dû payer de sa poche plus de cinq mille euros pour mener des investigations dans le sol et prouver la présence d’argile sensible à ces aléas climatiques. Il doit aussi payer un expert d’assuré pour régler ce conflit avec l’assurance.
      L’état de catastrophe naturelle difficile à obtenir

      De maison en maison, Franck Salaun, ingénieur et associé du cabinet Altaïs, parcourt la France, de la Drôme au Jura, au gré des arrêtés de catastrophe naturelle. Il intervient pour déterminer la pathologie du bâtiment. « Quand il y a des fractures, un médecin fait un diagnostic, un scanner ou un IRM. Nous, c’est pareil avec les investigations techniques », explique-t-il. « Dans le cas de M. Alaïmo, si l’assureur s’entête à ne pas ouvrir la garantie, ça ira au judiciaire », se prépare-t-il.

      Selon la carte d’exposition du Bureau de recherches géologiques et minières (BRGM), la zone présente un risque fort. La rivière provençale l’Ouvèze est au plus bas. « On a des périodes de sécheresse depuis 2016, raconte le maire. On a déjà eu des refus pour les faire reconnaître comme catastrophes naturelles. » Selon le rapport de la Cour des comptes de février 2022, une commune sur deux n’a pas réussi à faire reconnaître l’état de catastrophe naturelle ces neuf dernières années. En 2019, le maire a pris le taureau par les cornes. « On a envoyé un dossier pour six maisons sinistrées à la préfecture. Tout le monde se bat avec les assurances maintenant », raconte-t-il.

      Deux kilomètres plus loin, un autre villageois va bientôt devoir quitter sa maison. « Les façades sont en train de tomber, la baie vitrée ne ferme plus, la dalle est descendue de 4 à 5 centimètres », énumère Eric D., fonctionnaire de 61 ans. Il espère que la sécheresse en 2022 n’aggravera pas les dégâts. Cette fois-ci, l’assurance a accepté la prise en charge. L’installation de micropieux sous la maison, solution pérenne pour renforcer les fondations en profondeur, devrait durer entre six mois et un an. « Le relogement pour la famille, c’est à nos frais. Le gardiennage des meubles aussi », s’inquiète-t-il.
      48 % du territoire exposé

      Tout le pays est concerné, les villes aussi. L’Occitanie fait partie des régions historiquement les plus exposées, avec l’Île-de-France, la PACA ou la Nouvelle Aquitaine. À Montpellier, Philippe subit le même phénomène. « J’ai acheté une maison dans Montpellier en 2001, près d’une rivière, le Lez », raconte-t-il. En 2019, la ville a vécu une sécheresse reconnue comme catastrophe naturelle. « Des morceaux de plafond sont tombés et il y a des fissures nettes sur les cloisons », poursuit-il, encore stupéfait. Après trois ans d’attente, ce cadre technique de 62 ans vient d’obtenir le feu vert de l’assurance pour lancer les travaux. Le devis s’élève à plus de 150 000 euros.

      « On remarque que certains secteurs sont plus touchés que d’autres, mais ça reste très localisé, explique Jeremy Chatal, ingénieur du bureau d’études Determinant, à Nîmes. Dans l’Hérault, à Villeneuve-lès-Maguelone, il y a un quartier où j’ai fait une quinzaine de maisons. Dans mon secteur, c’est généralisé à l’arc méditerranéen, les Pyrénées orientales, le Gard, l’Hérault, le Vaucluse et les Bouches-du-Rhône. Mais nos collègues dans l’Ain et le Jura aussi sont débordés. »

      En France, 48 % du territoire a une exposition moyenne et forte au RGA. « Quand on regarde la carte d’exposition, on a un grand quart sud-ouest touché et tout l’arc méditerranéen qui va ensuite contourner le Massif central par le sud et remonter une partie de la vallée du Rhône. Depuis 2015-2016, ça se décale vers le Nord-Est. Des régions relativement épargnées jusqu’à présent sont touchées maintenant », confirme Sébastien Gourdier, géotechnicien du BRGM. « Les grandes villes du Sud-Ouest, comme Toulouse, sont exposées et ont dû mettre en place des plans de prévention des risques », poursuit-il. Depuis 2018 seulement, la loi Elan établit des règles de construction sur les zones à risque, en imposant une étude de sol pour les nouvelles habitations.

      Parmi les témoignages recueillis, ce ne sont que des récits de vie en pause, plombée par l’endettement ; de boule au ventre à chaque nouvelle fissure ; de dépressions lorsque l’on vit dans une maison où les pièces sont condamnées au fur et à mesure. Les associations de victimes croulent sous les demandes.

      Les Oubliés de la canicule ne compte même plus son nombre d’adhérents. Trente mille à la louche. Leur président a écrit au président Emmanuel Macron, en pleine campagne présidentielle, pour exiger de meilleures conditions d’indemnisation des sinistrés.
      Un coût estimé à 43 milliards d’euros d’ici 2050

      Le régime de catastrophe naturelle est un système d’assurance dit « mixte », mis en œuvre par les sociétés d’assurance et les pouvoirs publics. « On demande que les assureurs jouent le jeu et que les sinistrés puissent avoir des réparations pérennes », martèle Hélène Niktas, référente de l’association dans l’Ain. Elle-même a subi un sinistre dans sa maison de Meillonnas, lors de la sécheresse de 2018. « L’assurance a rétropédalé quand elle a vu le devis de micropieux. Elle a proposé de l’agrafage, mais ce n’est que le cachet d’aspirine qui fait tomber la fièvre, ça ne soigne pas. » Son dossier se réglera au niveau judiciaire.

      À leurs côtés, Me Gwenahel Thirel, avocat aux barreaux de Rouen et Montpellier, en a fait sa spécialité. « J’ai lu les 1 700 décisions de jurisprudence », s’amuse-t-il à rappeler. « Quand j’ai commencé, il y a huit ans, il y avait des arrêtés de catastrophe naturelle pour la sécheresse tous les trois ans. Aujourd’hui, c’est quasiment tous les ans », poursuit-il d’un ton plus grave. Il s’emporte contre l’opacité des assurances qui ne communiquent pas systématiquement les rapports ou les études de sol. « Sur 2018, on a eu un nombre de refus colossal par des experts d’assurance, avec des motifs fallacieux comme la présence de végétaux à proximité », tonne-t-il.

      « Ce que l’on craint, c’est que les assurances réduisent les indemnités pour les dégâts sur les maisons. Il y en a tellement… », souffle Daniela Rodier, présidente de l’Association gardoise d’assistance aux sinistrés des sécheresses, vers Nîmes. « Cette année, je suis débordée avec les sinistres de 2021 ». Le coût des sinistres liés à la sécheresse devrait passer à 43 milliards d’euros en cumulé sur les trente prochaines années, soit trois fois plus que sur la période 1989-2019, selon les projections à horizon 2050 de France Assureurs.

      « La sécheresse est un aléa climatique qui pèse beaucoup dans le régime catastrophe naturelle et qui risque de peser plus à l’avenir, notamment en raison du changement climatique » rajoute Franck Le Vallois, directeur général de France Assureurs, interrogé par Mediapart. « On pense que la sécheresse doit rester dans le régime de catastrophe naturelle », rassure-t-il, pour couper court au débat.

      Une réforme est amorcée depuis la loi du 28 décembre 2021 relative à l’indemnisation des catastrophes naturelles. La fédération des assurances est toujours en discussion avec Bercy pour intégrer les frais de relogement des victimes dans ce régime. Franck Le Vallois prêche pour mettre en place plus d’innovations. « Il faudrait accélérer les expérimentations. Il y en a qui permettent de maintenir l’hydrométrie dans le sol, en l’humidifiant pour éviter la rétractation des sols ». Comprendre : remettre de l’eau sous la terre.


      https://www.mediapart.fr/journal/france/120822/la-secheresse-fait-craquer-de-plus-en-plus-de-maisons

      voir aussi :
      https://seenthis.net/messages/969896

    • Ne pas perdre une goutte d’eau, le combat de #Lyon et de sa région

      Dans le département du Rhône, parmi les plus touchés par les canicules, retenir et économiser l’eau devient urgent. La bataille se joue mètre cube après mètre cube, de la déconnexion des réseaux d’assainissement à la rénovation des trottoirs, de l’arrosage des jardins aux prélèvements par les gros industriels.

      En ce mercredi après-midi de la fin du mois de juin, la lourdeur d’un orage à venir écrase les passants qui s’aventurent dans la rue Garibaldi, artère de quatre kilomètres au cœur de Lyon. Sur trois voies, les voitures vrombissent tandis que les cyclistes accélèrent pour rentrer avant la pluie. Seul Hervé Caltran s’arrête pour admirer la longue rangée de buissons et d’arbres qui longent le boulevard.

      « Pour le grand public, l’eau qui passe dans nos villes est invisible, alors qu’elle est vitale », hoche ce cadre du service de la direction de l’eau à la Métropole de Lyon. S’il nous a donné rendez-vous ici, à deux pas du quartier de la Part-Dieu, ce n’est pas tant pour détailler la quarantaine de plantations – érables, althæas, chênes… – présentes sur ce site, mais plutôt pour ce qui se trouve en dessous.

      Cet espace vert est en réalité une #noue, sorte de fossé, dans le jargon des urbanistes, installée il y a trois ans. En cas de précipitation, l’eau s’écoule sur les trottoirs, est filtrée par un seuil, irrigue les plantes installées légèrement en contrebas, avant de s’enfoncer dans le sol. Un seul mot d’ordre : faire en sorte que l’eau s’infiltre là où elle tombe. En milieu urbain, seulement 5 % des eaux de pluie terminent dans les nappes, cinq fois moins qu’en zone rurale.

      « C’est du bon sens, mais avant les arbres étaient surélevés et ne bénéficiaient pas de la pluie, l’eau partait directement dans les bouches d’égout », explique Hervé Caltran. Il a fallu attendre les vastes travaux commencés depuis presque dix ans pour remodeler entièrement l’écoulement des eaux de la rue.

      D’apparence anodines pour les habitant·es, ces installations sont l’un des piliers de la « #ville_perméable », un modèle de développement urbain plus respectueux du #cycle_de_l’eau. Dans les pas d’Hervé Caltran, la ville se pare de noms mystérieux. Selon les contraintes urbaines, les noues peuvent laisser la place à des « #arbres_de_pluie », des espaces débitumés de la taille d’une place de parking, ou bien à des « #tranchées_de_Stockholm », l’équivalent d’une mininappe alluviale composée de graviers, construite sous les trottoirs.

      Aberration environnementale

      L’affaire se joue dans les détails. Ici des pavés entourant un arbre ont été installés avec des joints en sable et en terre. Un peu plus loin, une ancienne trémie où s’engouffraient hier les automobilistes a été recouverte et transformée en réservoir pour les espaces verts. Mais le principe reste le même : favoriser l’#infiltration et déconnecter les #eaux_de_pluie des #eaux_d’assainissement, qui terminent encore dans le même réseau dans 85 % du territoire de la Métropole de Lyon.

      « La plupart du temps, on prend de l’#eau_de_pluie propre, on la mélange à nos eaux polluées et on l’envoie dans nos stations d’épuration. On se retrouve à payer pour nettoyer une eau qu’on a nous-mêmes salie et déplacée ! », constate Hervé Caltran. Une #aberration environnementale, mais aussi économique. « Pour chaque mètre cube d’eau qu’on n’envoie pas en station, on économise 60 centimes d’euro », précise le fonctionnaire.

      Ces installations jouent aussi un rôle d’#îlots_de_fraîcheur. Un enjeu majeur alors que l’agglomération lyonnaise est l’une de celles où le nombre de canicules augmente le plus. Grâce à la végétation et à la conservation de l’eau dans les sols, la température ressentie peut diminuer de 9 degrés dans certains secteurs, selon des mesures réalisées par la métropole. À la terrasse d’un café, un brumisateur géant asperge les clients assis en terrasse. « Nous, on essaie de le faire naturellement », s’amuse Hervé Caltran.

      « Depuis le XIXe siècle, l’eau a été considérée comme un déchet à évacuer le plus rapidement possible. On a imperméabilisé nos villes, avec des conséquences sur la recharge des nappes, des risques d’inondations et une végétation en souffrance », rappelle Anne Grosperrin, vice-présidente (EELV) de la Métropole de Lyon, déléguée au cycle de l’eau. « C’est toute une manière de construire la ville qu’il faut repenser », estime l’élue.

      D’autant que l’agglomération lyonnaise est en grande partie construite sur la nappe alluviale du Rhône, qui lui fournit 90 % de son eau potable par le captage de Crépieux-Charmy. Selon les projections disponibles, le débit du fleuve pourrait diminuer de 30 % d’ici à 2050.

      #Canalisations parfois vieilles de 70 ans

      En mars 2022, le Grand Lyon s’est donné pour objectif de désimperméabiliser et de déconnecter 400 hectares de son territoire d’ici à 2026, soit le double du précédent mandat. En comparaison, plus de 2 000 hectares ont été imperméabilisés en dix ans dans l’agglomération. « On cavale derrière ! Il faudrait aller trois fois plus vite », pointe Anne Grosperrin. « Quand on part de zéro pour créer un nouveau quartier, c’est facile. La vraie difficulté, c’est de désimperméabiliser la ville existante », estime Hervé Caltran.

      Un bout de trottoir par-ci, un morceau de route par-là. Sur le terrain, les agents chargés de la gestion de l’eau se heurtent parfois aux pratiques des entreprises de BTP, voire à celles des services de la #voirie, « qui gardent une culture très bitume et tuyaux », selon Anne Grosperrin. Derrière la gare de la Part-Dieu, une pelleteuse vient de défoncer un trottoir pour installer des canalisations, sous l’œil inquiet d’Hervé Caltran. « Parfois, ils cassent ce qu’on vient juste d’installer. »

      Pour les plus petites collectivités des environs, la question de l’eau se résume souvent à la gestion des réseaux d’eau potable. Au syndicat mixte des eaux des monts du Lyonnais, à la tête d’un réseau de 2 000 kilomètres desservant 75 communes, la priorité est de faire en sorte que l’eau « ne se perde pas » en renouvelant les canalisations, parfois vieilles de 70 ans. Actuellement, « seulement 72 % de l’eau pompée arrive dans nos maisons », précise l’organisme dans son bulletin d’information.

      Plus au sud, dans le massif du Pilat, la petite commune de Planfoy (Loire) cherche elle aussi à moderniser son réseau. L’approvisionnement du village dépend de trois sources qui ont tendance à faiblir à la fin de l’été. En septembre 2018, le réservoir a dû être rempli par un camion-citerne. Pour éviter de revivre cette crise, la commune mène cet été des travaux pour optimiser son champ de captage, vétuste.

      « La situation était ubuesque : on pataugeait dans l’eau dans le champ de captage mais le réservoir était vide », raconte le maire, Cédric Loubet. Des travaux coûteux : 180 000 euros l’année dernière, à nouveau 100 000 euros cette année. De quoi plomber le budget de la commune. « Et avec ça on refait juste les drains et quelques centaines de mètres de réseau, raconte l’élu. On essaie de faire petit à petit. On espère que ça suffira pour éviter le retour des camions-citernes. »

      Pour ces élus locaux, l’urgence est de garantir de l’eau dans les robinets des habitant·es. « Mais l’eau potable est la partie émergée de l’iceberg », met en garde l’hydrologue Emma Haziza, qui lance l’alerte depuis des années sur ce sujet. « Si on se focalise uniquement dessus, on se trompe de débat et on oublie toute la consommation cachée, les prélèvements agricoles et industriels. »

      Tour aéroréfrigérante

      À Lyon, certains industriels sont eux aussi amenés à réduire leurs prélèvements. À l’image de l’usine historique Renault Trucks de Vénissieux, filiale du groupe Volvo. Un vaste complexe de 170 hectares, « une petite ville de 5 000 habitants », qui possède ses propres captages dans la nappe de l’Est lyonnais, détaille Dominique Bono, référent environnement du site. Pour produire ses camions, l’usine consomme aujourd’hui 300 000 mètres cubes d’eau par an, contre 2,5 millions en 1999. « Nous avons presque divisé par dix », met en avant Dominique Bono.

      En 2021, l’entreprise a bénéficié d’un financement de 160 000 euros de l’Agence de l’eau pour moderniser une tour aéroréfrigérante, qui sert à refroidir les circuits d’air comprimé vitaux pour la chaîne de production. À la clef, une économie supplémentaire de 30 000 mètres cubes d’eau par an. « Ce serait mentir de dire que nous le faisons uniquement pour des raisons environnementales. Nous sommes fiers de diminuer notre consommation en eau, mais il y a aussi un intérêt industriel. En installant du matériel neuf, nous pourrons produire de manière plus sécurisée et moins coûteuse », admet le responsable de Renault Trucks, qui représente aussi les industriels de la région au sein de la commission locale de l’eau.

      Dans l’Ouest de Lyon, le syndicat intercommunal du bassin de l’Yzeron (le Sagyrc), un affluent du Rhône, cherche à réduire les prélèvements de 45 %. Les travaux de déconnexion des eaux pluviales et des eaux d’assainissement représentent le levier le plus important pour atteindre cet objectif. Le syndicat travaille aussi sur les 130 petites retenues collinaires recensées sur la vingtaine de communes, dont la moitié à usage agricole. « Une vingtaine sont en travers de petits cours d’eau, alors qu’elles doivent normalement laisser un débit réservé pour que le ruisseau s’écoule », détaille Katy Cottinet, chargée de mission au Sagyrc.

      Restent tous les particuliers qui puisent, plus ou moins officiellement, dans les nappes et la rivière. Avec près de 2 000 puits, forages ou pompes, « l’arrosage représente 16 % des prélèvements », précise Katy Cottinet. « Mais on a du mal à connaître tous les forages individuels, qui ne sont pas tous déclarés », regrette-t-elle.

      Le syndicat tente de sensibiliser les habitants pour qu’ils réduisent leurs prélèvements, par exemple en installant des goutte-à-goutte. Quitte à hausser le ton en cas d’abus. L’année dernière, un jardin partagé a ainsi écopé d’une amende après un contrôle de la police de l’eau pour avoir pompé dans la rivière pendant une alerte sécheresse. Chaque mètre cube compte.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/150822/ne-pas-perdre-une-goutte-d-eau-le-combat-de-lyon-et-de-sa-region

  • Poivrons farcis au maïs
    https://www.cuisine-libre.org/poivrons-farcis-au-mais

    Ajouter une partie du fromage au maïs et saupoudrer de sel, de poivre et de paprika. Battre les jaunes de 2 œufs ; ajouter et mélanger. Incorporez ensuite les blancs battus en neige. Retirer le dessus des poivrons ; retirer les graines et remplir avec le mélange. Saupoudrer de fromage râpé et de chapelure sur le dessus et cuire à #Four chaud. #Poivron_vert, #États-Unis, #Maïs_doux, #Petits_farcis / #Sans viande, #Sans lactose, #Végétarien, Four

  • La Troisième révolution industrielle des Mulliez artificialise la vie (la vraie) Chez Renard - Tomjo
    https://chez.renart.info/?La-Troisieme-revolution-industrielle-des-Mulliez-artificialise-la-vie

    Après le textile et la grande distribution, la famille roubaisienne réunie autour de Gérard Mulliez investit fort dans le photovoltaïque. Sa multinationale Voltalia transforme déjà, dans vingt pays, la terre des paysans en champs de panneaux solaires. Partout où elle s’implante, du Brésil à l’Aveyron, des voix s’élèvent contre cette « transition énergétique » qui dévore et défigure forêts, bocages et pâturages. A l’artificialisation des terres par ses centres commerciaux et usines renouvelables, la Famille répond par des protéines de laboratoire et des serres automatisées. A chaque problème, sa fuite en avant, pilotée par le fonds d’investissements familial Creadev. Voilà la « Troisième révolution industrielle » initiée dans la région par les Verts il y a dix ans, amplifiée par Xavier Bertrand et Gérard Mulliez à leur suite.


    Centrale agrivoltaïque de Voltalia à Cabanon, France.

    Parmi les méfaits de l’Association familiale Mulliez (Auchan, Decathlon, Norauto, Leroy Merlin, etc), si on ne regarde que le climat, et pour celui-ci uniquement le carbone, le groupe émet trois millions de fois plus de CO2 qu’un ménage moyen [1]. Devant cette mauvaise presse, Auchan et Decathlon multiplient à la hâte les montages techniques et financiers pour ne consommer à terme que des énergies renouvelables, qu’ils font produire par la boîte de leur groupe familial, Voltalia.

    La grande famille de la Transition
    Née en 2005 en Guyanne française, rachetée en 2009 par Mulliez, Voltalia est aujourd’hui présidée par Laurence Mulliez et l’habile André-Paul Leclercq, membre de la Famille. Ce dernier, après trente années au service d’Auchan et Decathlon, est élu en 2015 au Conseil régional des Hauts-de-France près Xavier Bertrand. Il siège en son nom à « Picardie Énergie et Développement durable », un fonds d’investissements pour « l’émergence et le renforcement de filières régionales liées au secteur énergétique » ; il vote pendant six ans les budgets de la Troisième révolution industrielle, dont ceux pour le solaire [2] ; puis il quitte ses fonctions en 2021 pour rejoindre, dans une démarche « people and planet [3] », le conseil d’administration de Voltalia. Une affaire rondement menée.

    Avec la Troisième révolution industrielle, on vous parle d’un temps que les Jeunes pour le climat ne peuvent pas connaître. En ce temps-là, circa 2012, Jean-François Caron et les autres élus Verts de la Région invitent le prophète américain Jeremy Rifkin à élaborer un Plan de transition économique fondé sur le renouvelable et les réseaux électriques intelligents. Libération le présente alors comme le « trait d’union entre les écolos chevelus et les patrons », et le dégarni Caron, toujours maire de Loos-en-Gohelle (62), ajoute que « Ce n’est pas un écolo avec du persil dans les oreilles. Il y a avec lui un effet de séduction et d’efficacité. Il crée du désir. Quand Bouygues fait de l’écoconstruction et EDF des énergies renouvelables, ça me va [4]. »

    Dix ans plus tard, si désir il y a, ce n’est pas dans les campagnes et les forêts où Voltalia pose ses panneaux solaires. En France ou au Brésil, les populations s’élèvent systématiquement contre leurs destructions. En Angleterre, Voltalia parvient presque à se mettre la reine à dos.

    Vendre et partir


    Centrale photovoltaïque Voltalia de Sierra Branca, Brésil

    Voltalia vient d’annoncer la construction de la plus grande usine photovoltaïque et éolienne du monde, dans l’État de Rio Grande do Norte, au Brésil. Cet État au bord de l’océan Atlantique, couvert de 530 000 hectares de forêt primaire, et peuplé de ces communautés autochtones qui font sa richesse, est depuis cinq siècles la proie des colonisateurs. D’abord les Portugais, puis les Français, puis les Hollandais, puis encore les Portugais. C’est pourquoi les paysans dénoncent le « racisme écologique », quand ils voient débarquer Voltalia [5]. L’entreprise arrive d’abord en missionnaire du développement durable. Son cinéma solaire et itinérant trimballe dans les villages sa promotion des énergies renouvelables, et projette Le Roi lion aux gamins. Plus tard, les machines écrasent les champs, éventrent les forets, menacent les oiseaux déjà menacés, en dépit des protestations. « Un homme a parlé à mes frères et m’a demandé si nous voulions vendre. Nous ne pouvons pas vendre parce que c’est là que nous vivons. Si nous vendons, où irions-nous ? », demande une habitante de l’État de Bahia, confrontée à un autre projet de Voltalia [6]. Plusieurs associations tentent aujourd’hui de suspendre les travaux, « indignés par l’attitude et le manque de respect de l’entreprise et de l’agence environnementale de l’État [7]. »

    Autre hémisphère, mêmes pratiques. Voltalia vient d’obtenir en Angleterre un marché des plus symboliques : alimenter en énergie solaire la « City », le quartier d’affaires de Londres, avec ses banques, ses salles de marché, sa bourse, ses compagnies d’assurance. Pour ce faire, 200 km plus au sud, Voltalia s’apprête à défigurer la région paisible et bocagère du Dorset avec 150 000 panneaux solaires étalés sur l’équivalent de 140 terrains de foot. Tant pis pour les cultivateurs. « Les agriculteurs récoltaient autrefois la lumière pour faire pousser des céréales, maintenant ils récoltent la lumière pour produire de l’électricité », analyse un conseiller municipal de Spetisbury [8]. C’est qu’il faut se mettre au niveau des exigences de la #COP26 qui vient de se clôturer à Glasgow ! Le Conseil régional du Dorset a reçu des centaines de lettres pour sauver cette « vallée des petites laiteries », comme on la surnomme depuis le XIX° siècle. Parmi elles, celle de l’honorable Campaign to protect rural England, association de défense des campagnes patronnée par Sa Majesté la Reine elle-même. Elle dénonce le « paysage industriel » qui remplacera la bucolique Blackmore Vale, la privatisation et la destruction des chemins, et la fin de l’agriculture sur la zone. Sans doute n’a-t-elle pas intégré les intérêts supérieurs de la « Transition énergétique ».

    En Aveyron, sur le très calcaire causse Comtal, Voltalia est parvenu à se mettre à dos une quarantaine d’associations, des amis de la Terre et des oiseaux, des défenseurs des paysages et monuments, des paysans, des écolos, des opposants aux nuisances renouvelables. Auchan et Decathlon ont promis d’alimenter leurs magasins depuis des centrales du sud-est de la France. Ils ont déjà trouvé 80 hectares sur ce causse, en partie cultivés par un paysan en fermage, prêt à se faire exploitant agro-électrique. Loïc Santiago, opposant au projet et membre de la Confédération paysanne, nous résume la situation des agriculteurs :
    Un fermage agricole se négocie entre 100 et 150 € l’hectare. Les terres louées pour de l’agrivoltaïsme se négocient jusqu’à 2 500 €, vingt-cinq fois plus. L’ ADEME avance qu’il faudra 120 000 hectares de photovoltaïque en France, ce qui correspond à peu près aux annonces de Macron d’installer 100 Gw. Vu le taux d’endettement général des agriculteurs d’un côté, et la rentabilité des installations électriques de l’autre, ils n’auront pas de difficultés à trouver les terres nécessaires. Sachant que cette solution est plus rentable que d’installer les panneaux sur des toits.

    Le syndicat agricole majoritaire, la productiviste #FNSEA, a donné sa bénédiction au modèle « agrivoltaïque », qui prétend faire paître des ruminants sous des panneaux. Reste a savoir si l’herbe y sera aussi verte, ensoleillée et hydratée. Voltalia prétend que l’ombre des panneaux limite l’évapotranspiration et améliore le bien-être des animaux – ce qu’un arbre fait tout aussi bien. D’autres études démontrent plutôt la perte d’un tiers de la biomasse sous les panneaux [9]. Quoi qu’il en soit, la question demeure du genre de travail agricole, de terres, de paysage, de vie, que l’on souhaite.

    Ce modèle est une attaque de l’agriculture paysanne et de notre autonomie. Avec ces panneaux, tu ajoutes à ta dépendance envers les centrales d’achat une autre envers des industriels de l’énergie. L’ironie est qu’ici, ce sont les mêmes ! », note encore Loïc.

    La Foodtech, ou la malbouffe artificielle


    Piscines de protéines de l’entreprise Kingfish, Pays-Bas

    En résumé de la Troisième révolution industrielle des Mulliez : pour sauver la Terre, il faut détruire des terres. La grande distribution sait mieux que quiconque les tensions qui pèsent sur celles-ci, entre stérilisation chimique, canicules, sécheresses, et artificialisation, sous l’effet de ses zones commerciales et parkings. Mais elle a sa solution aux pénuries qu’elle provoque. La société d’investissements Creadev, propriété des Mulliez, multiplie les prises d’intérêts dans les industries de l’alimentation artificielle - et les Hauts-de-France, grâce aux investissements conjoints du groupe régional #Roquette et aux subventions du Plan « France Relance », dominent déjà le marché des substituts protéiniques [10]. La start-up lilloise NxtFood commercialise des steaks saignants à base de légumineuses ultra-transformées. Ynsect, rachetée en 2018 par Mulliez, bâtit près d’Amiens la plus grande ferme verticale du monde, entièrement automatisée, pour y élever des scarabées communs destinés à devenir des croquettes de protéines pour animaux d’élevage. La boîte vient de racheter le néerlandais Protifarm qui propose des recettes aux humains. A quelques kilomètres de là, leur principal « concurrent » est lui aussi une émanation de Creadev : Innovafeed, à Nesle dans la Somme, produit avec l’américain #Cargill des protéines d’insectes pour poissons d’élevage.

    Cette malbouffe s’accompagne d’investissements dans l’agriculture automatisée, urbaine, hors-sol et sous serre. Mulliez a investi, en 2018, 29 millions de dollars dans la firme new-yorkaise Gotham_Greens. Celle-ci avait posé sa première serre hydroponique sur un toit de Brooklyn en 2011, puis dans le Queens, puis à Chicago, Providence, San Francisco, etc. Ces serres urbaines sont « pilotées par les données et climatisées », toujours plus productives grâce aux progrès de « l’apprentissage automatique et de l’analyse des données » pour offrir au consommateur « un produit plus frais et plus délicieux » [11]. Mulliez investit comme ça dans une dizaine d’entreprises de « Foodtech », la malbouffe high tech, que ce soit pour des steaks végétaux ( Growthwell à Singapour, Jackfruit dans le Colorado), ou les usines de poissons et crevettes ( Kingfish aux Pays-Bas, Noray_Seafood en Espagne), nourris aux farines d’insectes qu’il produit par ailleurs.

    Que ce soit avec des centrales renouvelables ou des entreprises de techno-bouffe, la Troisième révolution industrielle des Mulliez leur permet toujours de s’accaparer les terres et détruire les savoir-faire. Qu’en disent les écologistes ? Rien.

    L’enfer vert des Mulliez
    Il est fréquent d’entendre des leaders écologistes déplorer le manque de « prise de conscience » des élus et patrons, et leur « inaction » face aux enjeux climatiques – scénarios et plans de transition à l’appui. L’action de la famille Mulliez, sixième fortune française, prouve pourtant qu’elle agit en conscience.
La Lettre que Voltalia envoie à ses actionnaires deux fois par an leur rappelle le leitmotiv de l’entreprise : « Améliorer l’environnement mondial en favorisant le développement local ». Puis le démontre, chiffres à l’appui : +10 % de gigawatts renouvelables installés au premier semestre 2021 dans le monde, et +78 % de revenus à se partager.

    Le virage écologique ne sera pas le fait d’une opposition très minoritaire, dépourvue de moyens, mais de la bourgeoisie dirigeante, le jour où elle ne pourra faire autrement. Ce seront les divers responsables de la ruine de la terre qui organiseront le sauvetage du peu qui en restera, et qui après l’abondance géreront la pénurie et la survie. Car ceux-là n’ont aucun préjugé, ils ne croient pas plus au développement qu’à l’écologie ; ils ne croient qu’au pouvoir, qui est celui de faire ce qui ne peut être fait autrement.

    Ce constat de Bernard Charbonneau fut maintes fois cité et réédité depuis 1980 [12]. L’inconscience des leaders écologistes devant la Troisième révolution industrielle du Conseil régional et de la famille Mulliez indique que l’on pourra continuer à rééditer Le Feu vert encore quelques années.

    Tomjo
    Notes
    [1] Selon le rapport de Greenpeace et Oxfam « Les milliardaires font flamber la planète et l’État regarde ailleurs », février 2022.
    [2] 27 millions en 2018, par exemple, dont 12 pour les énergies renouvelables. En 2022, le budget de la « T.R.I. » s’élève à 21 millions. Cf. délibérations « FRATRI » du Conseil régional.
    [3] Eco121, 30 avril 2021.
    [4] Libération, 24 décembre 2012. Cf. L’Enfer vert, Tomjo, L’échappée, 2013.
    [5] Rota de Colisão, racismoambiental.net, 30 mars 2022.
    [6] Idem.
    [7] Ibid.
    [8] The Telegraph, 31 décembre 2021.
    [9] « Combiner panneaux solaire photovoltaïque et cultures pour optimiser les surfaces disponibles : vers des systèmes agrivoltaïques », INRA Montpellier, 2011.
    [10] « Le marché des protéines en Hauts-de-France », Nord France Invest, non daté, vérifié le 7 juillet 2022.
    [11] Voir le site de Gotham Greens.
    [12] Le Feu vert, réédité par L’Échappée, 2022.

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  • Au #Mali, des terres rendues incultivables par le “fléau chinois”

    Des populations rurales maliennes dénoncent l’#exploitation de #sites_aurifères par des sociétés chinoises qui dégradent leurs terres agricoles. Face au silence des autorités, ces populations s’organisent, rapporte le site “Sahélien”. Ce cas malien illustre un phénomène plus large en Afrique, celui de l’accaparement de #terres_arables par des entreprises internationales.

    Dans le champ de Bourama Konaté, c’est l’inquiétude qui se lit sur son visage. À peine après avoir mis en terre quelques semences de #coton, ce jeune cultivateur voit déjà une saison incertaine. “Nous avons commencé à semer le coton ici, mais cette année, nous ne sommes pas assez rassurés. Chaque année, nous travaillons dans la joie et la quiétude mais, cette fois-ci, c’est tout le contraire. Les Chinois sont venus et nos terres agricoles leur sont octroyées pour qu’ils les exploitent, et cela nous rend triste”, déplore-t-il.

    Dans cette commune située à plus de 80 kilomètres de Bamako, l’agriculture est la principale activité économique des habitants. Comme Bourama, Dramane Keita est au bout du désespoir.

    Même avec les premières pluies, il n’a rien semé dans le bas-fond en passe de devenir un site minier. “Nous les avons suppliés de ne pas creuser ces terres, car s’ils le font, […] nous ne pourrons même plus cultiver du #maïs sur ces parcelles parce que l’#eau va stagner et l’on ne pourra non plus cultiver du #riz ici. Déjà cette année, nous n’avons pas pu cultiver du riz. Jusqu’à présent, je n’ai rien fait dans mon champ, alors qu’on est bien dans l’hivernage. Regardez par ici, ce n’est pas encore labouré”, explique-t-il.

    Et de poursuivre : “C’est notre année qui est fichue comme ça. Que le gouvernement nous vienne en aide. Ça me fait tellement mal, je n’ai nulle part où me plaindre. Ils ont emprisonné mon grand frère et tout est gâché chez moi. […] On est trop fatigués.”

    Terres rendues incultivables

    Remontés contre les autorités communales, des jeunes venus des quatre villages touchés par ce qu’ils appellent le “#fléau_chinois” manifestent pour demander l’arrêt des activités minières sur leurs terres. “Nous, la jeunesse, sommes mobilisés et ne comptons plus nous arrêter. On veut qu’ils partent de notre commune, on n’aime pas leur travail. On ne veut pas de polémique ni rien. On ne souhaite pas faire de violences, mais s’ils poussent le bouchon un peu loin, on va rebondir”, affirme Bakary Keïta, un manifestant.

    Fatoumata Traoré, la représentante des femmes, abonde dans le même sens : “Que ce soit nos bas-fonds ou autres parcelles dédiées aux travaux des femmes, tout a été détruit. On n’a plus où cultiver. Ce qu’ils nous ont causé est invivable. Et nos âmes y resteront s’il le faut. Car le seul endroit qui nous reste est aussi dans leur viseur. Nos champs d’orangers, de manguiers ont tous été confisqués. Si tu veux tuer une famille, il faut lui retirer sa terre agricole.”

    Tout a commencé le 24 juillet 2021 lorsque la société [chinoise] #Yi_Yuan_Mines a signé un projet de convention avec le chef du village de #Naréna demandant l’autorisation d’exploiter certains sites en contrepartie de projets de développement dans la commune. “Je pense que c’est des oppositions gratuites. Les permis ont leur valeur. Ce sont des #permis qui sont en bonne et due forme. Il y a un modus vivendi entre les propriétaires terriens et les Chinois quand ils faisaient de la recherche. Ils étaient d’accord pour ça. […] J’ai les écrits des quatre propriétaires terriens et ceux du chef des conseils de Naréna, où tout le monde dit qu’il est d’accord. Alors, qu’est-ce que vous voulez que je fasse ?” répond Nambala Daouda Keita, maire de Naréna.

    À la tête de l’association #Sikida_Lakana, Broulaye Coulibaly indique avoir alerté les autorités locales face aux dangers de l’#exploitation_aurifère. “J’ai appris qu’ils ont commencé à creuser sur un site (#Djolibani) et je m’y suis rendu. Par la suite, j’ai informé le chef du village en lui disant d’y faire un tour pour constater les dégâts. Car, s’ils continuent cette activité, ils nous chasseront d’ici. Sans avoir une suite, j’ai entamé la même démarche chez le sous-préfet, à qui j’ai recommandé l’arrêt des activités pour qu’on discute entre nous d’abord. Ce dernier m’a fait savoir qu’il ne peut pas ordonner l’arrêt des travaux et que je pouvais également leur demander de l’argent s’il arrivait qu’ils aient besoin de mon champ.”

    Accords au sommet, désaccords à la base

    Pour la société Yi Yuan Mines, ce bras de fer ne devrait pas avoir lieu. “La réalité, c’est l’État malien qui a donné le permis à travers le #ministère_des_Mines. Il est dit que l’État est propriétaire de la terre. Alors que les villageois pensent tout à fait le contraire, ils estiment être les propriétaires de la terre. Il n’y a pas de paradoxe parce que ce n’est pas le #permis_de_recherche qu’on a mais un #permis_d’exploitation. Et ç’a été diffusé partout. Mais malgré tout, ils s’opposent”, affirme Boubacar Abdoulaye Diarra, représentant de l’entreprise chinoise.

    Pour ce qui concerne les dégâts causés sur la #biodiversité, Boubacar Abdoulaye Diarra répond : “Le plus souvent, les #orpailleurs traditionnels utilisent des ‘cracheurs’ sur le terrain. Ça, c’est pour broyer la matière. En le faisant, ils sont obligés d’apporter sur le terrain les produits qu’il faut, pour essayer de concentrer un peu l’or, et c’est là où il y a dégâts. Lorsqu’ils utilisent ces produits avec de l’eau, il y a toujours ruissellement, et puisque c’est un produit toxique, ça joue sur la nature. […] Mais les produits que nous utilisons ne vont pas dans la nature.”

    En août 2021, le procès-verbal de constat réalisé par un huissier ainsi qu’un autre rapport de la Direction nationale de l’assainissement et du contrôle des pollutions et des nuisances (DNACPN) indiquent que ces activités, sans études environnementales au préalable, nuisent à l’écosystème.

    Il a donc été recommandé à la sous-préfecture la suspension des travaux pour permettre à ces sociétés de se conformer aux normes requises à travers l’obtention d’un permis environnemental et social, d’un permis d’exploitation de l’or et le paiement des infractions commises.

    C’est le 7 avril 2022, soit un an après la signature du projet de convention d’exploitation, que la société Yi Yuan a obtenu le permis d’exploitation délivré par le ministère des Mines, de l’’Énergie et de l’Eau pour exploiter une superficie de 100 kilomètres. Un permis qui ravive les tensions et les craintes liées à l’#impact_environnemental.

    Sursaut de la société civile

    Face à la dégradation des terres et pour venir en aide aux habitants, une organisation non gouvernementale procède au remblai des fosses d’anciens sites miniers, au reboisement et au curage des rivières.

    Mais aujourd’hui la nouvelle situation n’arrange pas les choses. “Cela impacte également notre projet de #barrage prévu à Lankalen. Ce projet a été annulé à cause des travaux des Chinois. Car les lieux sont proches l’un de l’autre. Ce qui impacte les activités, précisément les cours d’eau. Lorsqu’on analyse, il était impossible de pêcher cette année dans ces rivières, ni d’entretenir les plantes à cause des eaux de ruissellement issues des sites”, souligne Moustapha Berthé, agent de l’ONG Azhar.

    Sur place, la tension était vive le mardi 14 juin 2022. Ce jour-là, une rencontre entre les autorités régionales, communales et coutumières a eu lieu à la mairie de Naréna pour un retour au calme. “Les autorités locales de Kangaba ne cessent de signaler une agitation sociale au niveau de Naréna, précisément dans le village de #Bayan, où une société chinoise du nom de #Yi_Yuan, en partenariat avec des Maliens, s’installe après l’obtention bien sûr d’un permis d’exploitation. Alors par suite de déficit communicationnel, les populations locales ont tenu à montrer leur mécontentement”, a déclaré le colonel Lamine Kapory Sanogo, gouverneur de la région de Koulikoro, à la fin de la rencontre.

    https://www.courrierinternational.com/article/enquete-au-mali-des-terres-rendues-incultivables-par-le-fleau

    #Chine #Chinafrique #accaparement_des_terres #terres #or #extractivisme #terres_agricoles #résistance #mine #mines #orpaillage

  • Nous pouvons (et devons) stopper la crise sur les marchés internationaux – Fondation FARM
    https://fondation-farm.org/crise-alimentaire-securite-mondiale

    Bien sûr, la guerre en Ukraine n’a rien arrangé. Cette région du monde (Ukraine + Russie) produit une part significative du blé et du maïs exporté sur les marchés internationaux (environ 20%) et il en est de même pour les huiles végétales (notamment celle de tournesol) et pour les engrais azotés. Pour l’instant, ce n’est pas tant la production qui est compromise que les exportations (qui se faisaient traditionnellement par les ports de la mer Noire).
    Mais l’essentiel de la hausse des prix s’est produit avant la guerre en Ukraine. Et il ne s’agit pas là d’un détail. Car si les prix alimentaires, notamment ceux du maïs, du blé et des huiles végétales, ont fortement augmenté depuis la mi-2020, c’est parce qu’ils ont été entraînés à la hausse par le prix des énergies fossiles (pétrole et gaz naturel). Ce qui est en cause, c’est donc notre modèle de production agricole basé sur l’utilisation intense de ces énergies : intrants chimiques (notamment les engrais azotés fabriqués avec du gaz naturel), mécanisation, transport à grande distance. Ce qui est en cause, c’est surtout notre utilisation massive de produits alimentaires pour fabriquer du carburant, surtout aux Etats-Unis (maïs) et dans l’Union européenne (colza). Une utilisation qui lie très fortement le prix des céréales (maïs et blé) et des huiles végétales aux prix des énergies fossiles.
    Alors bien sûr la guerre en Ukraine a prolongé et amplifié la crise mais lui en attribuer l’entière responsabilité est factuellement inexact. Nous (Européens et Américains du nord) avons aussi notre (grande) part de responsabilité et il nous revient de l’assumer.

    #marchés_céréales #crise_ukraine #biocarburant

  • Le système alimentaire mondial menace de s’effondrer

    Aux mains de quelques #multinationales et très liée au secteur financier, l’#industrie_agroalimentaire fonctionne en #flux_tendu. Ce qui rend la #production mondiale très vulnérable aux #chocs politiques et climatiques, met en garde l’éditorialiste britannique George Monbiot.

    Depuis quelques années, les scientifiques s’évertuent à alerter les gouvernements, qui font la sourde oreille : le #système_alimentaire_mondial ressemble de plus en plus au système financier mondial à l’approche de 2008.

    Si l’#effondrement de la finance aurait été catastrophique pour le bien-être humain, les conséquences d’un effondrement du #système_alimentaire sont inimaginables. Or les signes inquiétants se multiplient rapidement. La flambée actuelle des #prix des #aliments a tout l’air du dernier indice en date de l’#instabilité_systémique.

    Une alimentation hors de #prix

    Nombreux sont ceux qui supposent que cette crise est la conséquence de la #pandémie, associée à l’#invasion de l’Ukraine. Ces deux facteurs sont cruciaux, mais ils aggravent un problème sous-jacent. Pendant des années, la #faim dans le monde a semblé en voie de disparition. Le nombre de personnes sous-alimentées a chuté de 811 millions en 2005 à 607 millions en 2014. Mais la tendance s’est inversée à partir de 2015, et depuis [selon l’ONU] la faim progresse : elle concernait 650 millions de personnes en 2019 et elle a de nouveau touché 811 millions de personnes en 2020. L’année 2022 s’annonce pire encore.

    Préparez-vous maintenant à une nouvelle bien plus terrible : ce phénomène s’inscrit dans une période de grande #abondance. La #production_alimentaire mondiale est en hausse régulière depuis plus de cinquante ans, à un rythme nettement plus soutenu que la #croissance_démographique. En 2021, la #récolte mondiale de #blé a battu des records. Contre toute attente, plus d’humains ont souffert de #sous-alimentation à mesure que les prix alimentaires mondiaux ont commencé à baisser. En 2014, quand le nombre de #mal_nourris était à son niveau le plus bas, l’indice des #prix_alimentaires [de la FAO] était à 115 points ; il est tombé à 93 en 2015 et il est resté en deçà de 100 jusqu’en 2021.

    Cet indice n’a connu un pic que ces deux dernières années. La flambée des prix alimentaires est maintenant l’un des principaux facteurs de l’#inflation, qui a atteint 9 % au Royaume-Uni en avril 2022 [5,4 % en France pour l’indice harmonisé]. L’alimentation devient hors de prix pour beaucoup d’habitants dans les pays riches ; l’impact dans les pays pauvres est beaucoup plus grave.

    L’#interdépendance rend le système fragile

    Alors, que se passe-t-il ? À l’échelle mondiale, l’alimentation, tout comme la finance, est un système complexe qui évolue spontanément en fonction de milliards d’interactions. Les systèmes complexes ont des fonctionnements contre-intuitifs. Ils tiennent bon dans certains contextes grâce à des caractéristiques d’auto-organisation qui les stabilisent. Mais à mesure que les pressions s’accentuent, ces mêmes caractéristiques infligent des chocs qui se propagent dans tout le réseau. Au bout d’un moment, une perturbation même modeste peut faire basculer l’ensemble au-delà du point de non-retour, provoquant un effondrement brutal et irrésistible.

    Les scientifiques représentent les #systèmes_complexes sous la forme d’un maillage de noeuds et de liens. Les noeuds ressemblent à ceux des filets de pêche ; les liens sont les fils qui les connectent les uns aux autres. Dans le système alimentaire, les noeuds sont les entreprises qui vendent et achètent des céréales, des semences, des produits chimiques agricoles, mais aussi les grands exportateurs et importateurs, et les ports par lesquels les aliments transitent. Les liens sont leurs relations commerciales et institutionnelles.

    Si certains noeuds deviennent prépondérants, fonctionnent tous pareil et sont étroitement liés, alors il est probable que le système soit fragile. À l’approche de la crise de 2008, les grandes banques concevaient les mêmes stratégies et géraient le risque de la même manière, car elles courraient après les mêmes sources de profit. Elles sont devenues extrêmement interdépendantes et les gendarmes financiers comprenaient mal ces liens. Quand [la banque d’affaires] Lehman Brothers a déposé le bilan, elle a failli entraîner tout le monde dans sa chute.

    Quatre groupes contrôlent 90 % du commerce céréalier

    Voici ce qui donne des sueurs froides aux analystes du système alimentaire mondial. Ces dernières années, tout comme dans la finance au début des années 2000, les principaux noeuds du système alimentaire ont gonflé, leurs liens se sont resserrés, les stratégies commerciales ont convergé et se sont synchronisées, et les facteurs susceptibles d’empêcher un #effondrement_systémique (la #redondance, la #modularité, les #disjoncteurs, les #systèmes_auxiliaires) ont été éliminés, ce qui expose le système à des #chocs pouvant entraîner une contagion mondiale.

    Selon une estimation, quatre grands groupes seulement contrôlent 90 % du #commerce_céréalier mondial [#Archer_Daniels_Midland (#ADM), #Bunge, #Cargill et #Louis_Dreyfus]. Ces mêmes entreprises investissent dans les secteurs des #semences, des #produits_chimiques, de la #transformation, du #conditionnement, de la #distribution et de la #vente au détail. Les pays se divisent maintenant en deux catégories : les #super-importateurs et les #super-exportateurs. L’essentiel de ce #commerce_international transite par des goulets d’étranglement vulnérables, comme les détroits turcs (aujourd’hui bloqués par l’invasion russe de l’Ukraine), les canaux de Suez et de Panama, et les détroits d’Ormuz, de Bab El-Mandeb et de Malacca.

    L’une des transitions culturelles les plus rapides dans l’histoire de l’humanité est la convergence vers un #régime_alimentaire standard mondial. Au niveau local, notre alimentation s’est diversifiée mais on peut faire un constat inverse au niveau mondial. Quatre plantes seulement - le #blé, le #riz, le #maïs et le #soja - correspondent à près de 60 % des calories cultivées sur les exploitations. La production est aujourd’hui extrêmement concentrée dans quelques pays, notamment la #Russie et l’#Ukraine. Ce #régime_alimentaire_standard_mondial est cultivé par la #ferme_mondiale_standard, avec les mêmes #semences, #engrais et #machines fournis par le même petit groupe d’entreprises, l’ensemble étant vulnérable aux mêmes chocs environnementaux.

    Des bouleversements environnementaux et politiques

    L’industrie agroalimentaire est étroitement associée au #secteur_financier, ce qui la rend d’autant plus sensible aux échecs en cascade. Partout dans le monde, les #barrières_commerciales ont été levées, les #routes et #ports modernisés, ce qui a optimisé l’ensemble du réseau mondial. On pourrait croire que ce système fluide améliore la #sécurité_alimentaire, mais il a permis aux entreprises d’éliminer des coûts liés aux #entrepôts et #stocks, et de passer à une logique de flux. Dans l’ensemble, cette stratégie du flux tendu fonctionne, mais si les livraisons sont interrompues ou s’il y a un pic soudain de la demande, les rayons peuvent se vider brusquement.

    Aujourd’hui, le système alimentaire mondial doit survive non seulement à ses fragilités inhérentes, mais aussi aux bouleversements environnementaux et politiques susceptibles de s’influencer les uns les autres. Prenons un exemple récent. À la mi-avril, le gouvernement indien a laissé entendre que son pays pourrait compenser la baisse des exportations alimentaires mondiales provoquée par l’invasion russe de l’Ukraine. Un mois plus tard, il interdisait les exportations de blé, car les récoltes avaient énormément souffert d’une #canicule dévastatrice.

    Nous devons de toute urgence diversifier la production alimentaire mondiale, sur le plan géographique mais aussi en matière de cultures et de #techniques_agricoles. Nous devons briser l’#emprise des #multinationales et des spéculateurs. Nous devons prévoir des plans B et produire notre #nourriture autrement. Nous devons donner de la marge à un système menacé par sa propre #efficacité.

    Si tant d’êtres humains ne mangent pas à leur faim dans une période d’abondance inédite, les conséquences de récoltes catastrophiques que pourrait entraîner l’effondrement environnemental dépassent l’entendement. C’est le système qu’il faut changer.

    https://www.courrierinternational.com/article/crise-le-systeme-alimentaire-mondial-menace-de-s-effondrer

    #alimentation #vulnérabilité #fragilité #diversification #globalisation #mondialisation #spéculation

  • Ce week-end à Nantes, le retour du festival Fumetti

    https://www.maisonfumetti.fr/festival-fumetti-2022

    La kermesse graphique de Maison Fumetti réinvestit la Manufacture des tabacs du 10 au 12 juin pour un week-end de rencontres, spectacles, animations… autour de la bande dessinée et de l’illustration. Avec plus de 30 collectifs ou (micro)éditions, et les auteurs·trices Jérôme Dubois, Lisa Blumen, Léa Djeziri, Eponine Cottey, Vincent Pianina, Juliette Mancini, Fabien Vehlmann, Roxane Lumeret, Benjamin Adam et Léa Murawiec.

    Ce n’est pas tout ! Il y aura également une soirée de lancement au Lieu Unique jeudi 02 juin en présence du groupe Kokoko ! et de Djésus Christ pour un set dessiné ; le vernissage de l’exposition Fun girl autour du livre d’Elizabeth Pich, à La Cartouche jeudi 09 juin ainsi que deux journées professionnelles les 08 et 09 juin.

    Cette année enfin, le festival prend une dimension internationale et célébrera dans une exposition la sortie d’un cycle de résidences entre Nantes et Tunis, baptisé Kif Kif.

    Kif Kif كيف كيف : un cycle de création franco-tunisien
    https://www.maisonfumetti.fr/kif-kif-%d9%83%d9%8a%d9%81-%d9%83%d9%8a%d9%81-un-cycle-de-creation-fra

    #maison_fumetti #BD #bande_dessinée #nantes

  • #Canada : Des mauvaises herbes « génétiquement modifiées » Catherine Mercier
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1879912/mauvaises-herbes-genetiquement-modifiees-champ

    L’arrivée de plantes génétiquement modifiées dans les champs a créé un nouveau phénomène de résistance aux herbicides. Mais des pistes de solution existent.

    Dans cette ferme du Centre-du-Québec, des fleurs jaunes parsèment un champ de soya. La moutarde des oiseaux est désormais résistante au glyphosate. Photo : Radio-Canada

    À la ferme Givany au Centre-du-Québec, un champ de soya est constellé de fleurs jaunes. Ici, l’indésirable s’appelle la moutarde des oiseaux. Si cette plante se dresse entre les rangs de #soya en cette fin de juillet, c’est qu’elle a survécu aux herbicides.

    Le producteur Raphaël Vachon a remarqué le problème pour la première fois en 2015. “Après nos passages d’arrosage, la moutarde est restée là. Avec les années [...] le petit rond de vingt pieds s’est agrandi.”

    La moutarde des oiseaux est répertoriée comme #mauvaise_herbe au Québec depuis 1908.

    La plante pique la curiosité de l’agronome Isabelle Bernard. En 2017, elle envoie des échantillons de feuilles au Laboratoire d’expertise et de diagnostic en phytoprotection du MAPAQ.

    « C’est là qu’ils ont découvert que la plante était résistante au glyphosate. Non pas une résistance qui se développe par une mauvaise utilisation, une utilisation répétée d’un produit, mais bien un #gène qui était dans le canola qui s’est transféré dans la moutarde des oiseaux. Donc c’est comme une mauvaise herbe #OGM. »
    -- Une citation de Isabelle Bernard, agronome

    La moutarde des oiseaux (Brassica rapa), à gauche sur l’image, est très semblable au canola (Brassica napus) à droite. - Photo : Radio-Canada

    La moutarde des oiseaux, une plante sauvage, ressemble à s’y méprendre à une autre plante, abondamment cultivée au Canada : le canola. Au milieu des années 90, la compagnie Monsanto obtient le feu vert pour commercialiser du #canola #transgénique au Canada.

    Le canola #RoundUp Ready, d’après son nom commercial, a été modifié génétiquement pour tolérer les arrosages d’herbicide à base de #glyphosate. Quand on pulvérise le produit, toutes les mauvaises herbes meurent et le canola, lui, survit.

    La moutarde des oiseaux à la ferme Givany se comporte exactement de la même manière. “Si on applique seulement un glyphosate, ça ne fait rien : elle est totalement résistante, elle a le #gène de résistance”, explique Isabelle Bernard.

    Comme les deux plantes sont de proches parentes, le canola peut facilement polliniser la moutarde des oiseaux.

    Au #Québec, on a répertorié en 2005 un premier cas de moutarde des oiseaux qui avait intégré le #transgène de résistance au glyphosate. C’était dans la région de Chaudière-Appalaches. Aujourd’hui, 30 populations de cette mauvaise herbe sont connues, surtout au Centre-du-Québec, une région où on cultive pourtant peu de canola.

    Le Québec compte désormais 30 populations de moutarde des oiseaux résistante au glyphosate. Photo : Radio-Canada

    Même des producteurs agricoles qui n’ont jamais semé de canola se retrouvent avec le transgène issu de cette culture chez eux. “La moutarde prend la place du soya, illustre Raphaël Vachon, ça étouffe les plants et quand ça étouffe les plants, il y a moins de rendement.”

    Contrairement à l’amarante tuberculée, il n’existe pas de soutien financier pour les agriculteurs aux prises avec la moutarde des oiseaux. Pour Isabelle Bernard, qui voit de plus en plus de moutarde des oiseaux dans les champs de sa région, la situation est préoccupante : “Là, on a des images d’un champ qui a des lignes avec un peu de moutarde, mais imaginez ce même champ-là, s’il y avait de la moutarde à la grandeur du champ, ça occasionnerait des méchantes pertes de rendement.”

    Qui est responsable ?
    Ironiquement, la propriété intellectuelle du gène de tolérance au glyphosate a déjà fait l’objet d’une longue bataille judiciaire. En 2004, après des années de poursuites, le plus haut tribunal du pays donne raison à Monsanto dans son procès contre un agriculteur de la Saskatchewan https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1116341/20-ans-bataille-juridique-monsanto-percy-schmeiser-fier-canola . Le géant de l’agrochimie accusait Percy Schmeiser, un fermier, d’avoir fait pousser du canola transgénique sans avoir payé les redevances liées à l’utilisation des semences.

    Le fermier a toujours soutenu que ses champs avaient été accidentellement contaminés entre autres par du #pollen de canola génétiquement modifié, transporté par le vent. Très fin, ce pollen peut voyager sur plusieurs kilomètres.

    Alors que ces mêmes gènes se retrouvent dans des plantes qui nuisent aujourd’hui aux agriculteurs, on peut se demander s’ils sont toujours la #propriété du fabricant.

    Professeure à l’Institut des sciences de l’environnement de l’UQAM, Élisabeth Abergel a travaillé pendant de nombreuses années pour les industries pharmaceutiques et biotechnologiques. Elle est catégorique : “Les développeurs devraient continuer à être responsables de ces produits-là quand ils commencent à s’échapper et quand il y a une contamination génétique.”

    L’avocat de Percy Schmeiser, Terry Zakreski, croit aussi que Bayer, qui a racheté Monsanto en 2018, a une responsabilité. “La compagnie devrait-elle nettoyer tout ça ? Bien sûr qu’elle devrait. Le problème consiste à obtenir d’un tribunal qu’il lui ordonne de le faire !”

    L’un des problèmes qu’il soulève, c’est que les droits revendiqués par les compagnies sont des droits de #propriété_intellectuelle, “ce ne sont pas des droits de #propriété_physique. La compagnie revendique le droit de reproduire [les #semences], d’en tirer profit, mais elle ne revendique pas la propriété de l’objet physique, où qu’il apparaisse [...]”

    En 1995, l’Agence canadienne d’inspection des aliments (ACIA) a autorisé la commercialisation des semences de canola génétiquement modifié. Son rapport d’évaluation des risques se basait sur des documents fournis par Monsanto. Déjà à l’époque, l’ACIA envisageait la possibilité que le canola s’hybride avec des plantes sauvages, qui deviendraient à leur tour tolérantes au glyphosate. Mais le rapport concluait que cela “n’aggraverait pas [...] la capacité d’envahissement de ces [mauvaises herbes] (Nouvelle fenêtre)”. https://inspection.canada.ca/varietes-vegetales/vegetaux-a-caracteres-nouveaux/approuves-cours-d-evaluation/documents-des-decisions/dd1995-02/fra/1303706149157/1303751841490#a9

    Selon l’avocat Terry Zakreski, le fait que “le gouvernement ait autorisé la dissémination dans l’environnement donne vraiment une défense à la compagnie. [...] Une fois que cette autorisation est donnée, c’est très difficile pour quelqu’un de poursuivre la compagnie en justice”.

    La compagnie Bayer n’a pas voulu se prononcer sur la propriété du transgène que l’on retrouve dans la moutarde des oiseaux chez les agriculteurs québécois. Dans un échange de courriels, l’un de ses représentants a toutefois invité les producteurs aux prises avec cette mauvaise herbe résistante à contacter #Bayer.

    Le cercle vicieux de l’utilisation des herbicides
    Pour contourner le problème de la résistance, l’industrie propose depuis quelques années de nouvelles semences génétiquement modifiées pour tolérer plus qu’un herbicide. Cette technique s’appelle l’empilement de gènes.

    Dans les catalogues de semences, on peut désormais choisir des cultures qui tolèrent à la fois le glyphosate, par exemple, et d’autres herbicides beaucoup plus toxiques, comme le #dicamba, ou encore le #2-4D, l’une des molécules actives de l’ #agent_orange utilisé comme défoliant lors de la guerre du Vietnam.

    Mais alors que développer ces nouvelles semences peut prendre dix ans, certaines mauvaises herbes sont déjà résistantes à ce cocktail au bout de cinq ans à peine. “On peut faire de l’empilement de gènes avec des variétés qui sont tolérantes à cinq herbicides, explique Élisabeth Abergel, mais à un moment donné, quand ces cinq herbicides n’auront plus aucun effet, il va falloir trouver des molécules encore plus toxiques. Donc ce n’est vraiment pas la solution, ce n’est pas durable.”

    « On sait ce qu’il faut faire pour éviter d’avoir des mauvaises herbes résistantes. Ça prend une rotation, ça prend une agriculture diversifiée le plus possible. Si on reste dans une agriculture qui est simplifiée, la nature va nous rattraper. C’est une question de temps. »
    -- Une citation de David Girardville, agronome

    Des pistes de solutions
    Tous les spécialistes consultés abondent dans le même sens. Pour freiner la résistance aux herbicides, il faut ramener de la biodiversité aux champs et ne plus dépendre seulement de la chimie pour contrôler les mauvaises herbes.

    Cela veut dire, entre autres, ne pas cultiver seulement du #maïs et du #soya. Ces deux plantes rapportent gros et sont de loin les deux plus cultivées dans la province. Mais ces monocultures contribuent à accélérer le phénomène de la résistance.

    L’agronome Stéphanie Mathieu, en Montérégie, rappelle l’importance de sortir de l’alternance maïs-soya. “Le maïs et le soya, ce sont des plantes qui sont semées au même moment, qui ont les mêmes espacements, qui ont des cycles de vie qui se ressemblent beaucoup. Et on travaille avec les mêmes herbicides aussi”. Facile dans ce contexte pour les mauvaises herbes, soumises aux mêmes produits année après année, de développer la résistance.
    . . . . .
    Ajouter des céréales à la rotation est une excellente solution. Elles couvrent rapidement le sol au printemps, ce qui empêche les mauvaises herbes de prendre racine. Et comme on les récolte plus tôt que le maïs et le soya, la moisson permet de faucher aussi la mauvaise herbe avant qu’elle ne puisse monter en graines.

    Entre les engrais verts, les #cultures intercalaires, le foin… les solutions ne manquent pas pour occuper le sol et contrôler les mauvaises herbes autrement qu’avec les seuls traitements chimiques. Et il faudra désormais rester aux aguets, car l’ère des solutions simples et rapides que promettaient les herbicides est bel et bien révolue.

    « Si on ne se questionne pas sur pourquoi il y a tel type de mauvaises herbes dans nos champs et qu’on ne s’y intéresse pas, on va multiplier le problème très, très rapidement. Que ça soit pour les mauvaises herbes ou les insectes ou les maladies, il faut connaître les champs. Il faut savoir à qui on a affaire. »
    -- Une citation de David Girardville

    #Santé #multinationales #agrobusiness #environnement #lobbying #quelle_agriculture_pour_demain_ #lobby

  • How the pandemic is changing home design
    https://www.axios.com/post-pandemic-home-design-open-plan-architecture-4ef06bef-dd4b-457d-a69b-ffda

    What’s next: Dedicated rooms are popping up for video games, golf simulators, Zoom calls or relaxation — so called “Zen rooms.”

    “Metaverse rooms” may be on the horizon, with some designers seeing the need for indoor space where people can wander around in virtual reality, per the Wall Street Journal.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #immobilier #espace #maison #logement #architecture #pandémie #design #métavers #génération_x

  • How Russia’s War In Ukraine Threatens Wheat Shortages, Rising Food Prices - Bloomberg
    https://www.bloomberg.com/news/features/2022-04-05/will-russia-s-war-in-ukraine-cause-wheat-shortages-raise-food-prices-more

    Disruptions in the flows of grains and oilseeds — staples for billions of people and animals across the world — are sending prices soaring. Countries fearing potential food shortages are scrambling to find alternative suppliers and new trades are emerging.

    #ukraine_food via Filou

  • La santé est-elle l’affaire des municipalités ?
    https://laviedesidees.fr/La-sante-est-elle-l-affaire-des-municipalites-5347.html

    Comment les municipalités peuvent-elles se saisir des préoccupations sanitaires ? Quels sont leurs moyens d’actions pour agir sur les questions de santé ? Comment ces structures d’exercice coordonné peuvent-elles constituer l’instrument principal d’une politique de santé locale ?

    #Société #santé
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220215_sante.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220215_sante-2.docx

    • Aujourd’hui, comme l’a illustré le poids pris par l’État dans le traitement de la pandémie de Covid-19, la mobilisation de l’échelon municipal en termes de santé ne semble plus aller de soi. La clause générale de compétence, qui permet depuis 1884 aux municipalités d’intervenir sur toute question présentant à leurs yeux un intérêt public local dès lors que cela n’empiète pas sur les attributions d’un autre échelon d’action publique, a pourtant été confirmée pour les communes par la loi du 7 août 2015 portant Nouvelle organisation territoriale de la République (loi NOTRe) tandis que cette dernière la supprimait pour les départements et les régions.

      Force est de constater que le lien entre santé et localité s’est progressivement distendu au cours du dernier siècle quand il s’est au contraire renforcé sur d’autres sujets, comme en témoigne l’essor des polices municipales. Pourtant, face à la crise sanitaire, les mairies ne sont pas restées passives et ont déployé des actions tous azimuts pour distribuer des masques, organiser la circulation des personnes par voie d’arrêtés ou encore permettre la vaccination sur leur territoire. La question de la pertinence de l’échelon municipal dans la construction et la mise en œuvre des politiques de santé se repose donc aujourd’hui avec acuité. Se « repose » car plusieurs réformes institutionnelles et sociales ont fait, dans les années 1880-1900, de l’aide aux plus vulnérables une ambition municipale forte. De grandes lois d’assistance ont été promulguées en 1893 (pour l’aide médicale), en 1905 (pour les vieillards et infirmes) ou encore en 1913 (pour les femmes en couche) mais, durant les Trente Glorieuses, la substitution de l’« aide sociale » à l’assistance (loi de 1953) a retiré aux municipalités l’essentiel de leur rôle en la matière et la « sanitarisation du social » a alors conduit à différencier de plus en plus interventions médicales et sociales.

      Prenant appui sur plusieurs terrains d’enquêtes ayant trait aux enjeux locaux de santé, et plus particulièrement à des centres et maisons de santé, ce chapitre propose d’ouvrir quelques pistes de réflexion en soulignant les spécificités des actions sanitaires municipales, mais aussi leur dimension éminemment politique, au sens où elles impliquent des choix et des conceptions différentes de l’intérêt sanitaire local. Une attention particulière sera portée aux centres de santé municipaux, qui constituent un instrument privilégié et en constante évolution, mais trop souvent négligé, de ces politiques de santé.

      [...] Lancé au début des années 2000 dans le cadre de la politique de la ville, le dispositif des « ateliers santé-ville » permet le déploiement de moyens humains et budgétaires spécifiques visant tout à la fois à améliorer la connaissance de la santé des habitants à travers la réalisation d’un diagnostic partagé de santé, la participation active de ces derniers dans le pilotage des dispositifs sanitaires, la coordination et la formation des acteurs locaux des secteurs sanitaire et médico-social, l’accès aux droits sociaux, à la prévention et aux soins des populations précarisées, dans une logique d’empowerment non dépourvue de tensions.

      Cet essai est un extrait du livre La santé sociale qui paraît le 16 février

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  • Indemnités prud’homales : des montants en baisse depuis la création du « barème Macron »
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2022/02/14/indemnites-prud-homales-des-montants-en-baisse-depuis-la-creation-du-bareme-

    Selon une étude de deux universitaires qui vient d’être diffusée, la réforme du code du travail de septembre 2017 a entraîné une diminution des dommages-intérêts versés par la justice en cas de licenciement abusif.

    Depuis que le code du travail a été réécrit au début du quinquennat d’Emmanuel Macron, la justice indemnise moins bien les salariés victimes d’un licenciement abusif. C’est ce que montre une étude de deux universitaires dont les résultats ont été dévoilés dans la revue Droit social de février. Si l’on raisonne en moyenne, la diminution observée n’est pas spectaculaire, mais certains actifs y perdent davantage que d’autres, en particulier ceux qui sont employés dans les entreprises d’au moins onze personnes.

    L’enquête en question se penche sur l’une des innovations les plus décriées des « ordonnances Macron » de septembre 2017 : l’encadrement des dommages-intérêts alloués par les conseils de prud’hommes en cas de licenciement « sans cause réelle et sérieuse ». Depuis l’entrée en vigueur de ces textes, les sommes versées obéissent à un barème, avec des planchers et des plafonds en fonction de l’ancienneté du salarié – les montants minimaux pouvant, en outre, être plus faibles pour ceux qui travaillent dans des sociétés comptant moins de onze personnes.

    Promesse de campagne du candidat d’En marche !, cette mesure avait pour but de donner de la visibilité aux patrons sur le coût d’une « séparation » conflictuelle avec un de leurs collaborateurs. Il s’agissait ainsi de lever des incertitudes susceptibles de nourrir une « peur de l’embauche ».

    L’impact du barème a fait l’objet d’une « première évaluation » par Raphaël Dalmasso, maître de conférences en droit à l’université de Lorraine, et Camille Signoretto, maîtresse de conférences en économie à l’Université de Paris. Leur recherche avait été évoquée en quelques lignes dans le dernier rapport du comité d’évaluation des « ordonnances Macron », publié en décembre 2021. Elle est présentée, de manière beaucoup plus détaillée, dans Droit social.
    Lire aussi Article réservé à nos abonnés Ordonnances Macron sur le dialogue social : la « révolution culturelle » n’a pas eu lieu
    6,6 mois de salaires contre 7,9 mois auparavant

    Pour évaluer les incidences de la réforme, M. Dalmasso et Mme Signoretto se sont appuyés sur des arrêts rendus par des cours d’appel, après que le litige a été examiné en première instance par le juge prud’homal. Deux échantillons ont été constitués : l’un contient 192 décisions prononcées en vertu des règles antérieures à septembre 2017 ; dans l’autre, il y en a 94, pour lesquelles « le nouveau droit (…) prévaut ». Ainsi, des comparaisons ont pu être faites.

    Avant la mise en place du barème, les travailleurs congédiés de façon injustifiée touchaient des dédommagements représentant 7,9 mois de salaires, en moyenne. Aujourd’hui, c’est un peu moins : 6,6 mois de salaires. La somme maximale octroyée par le juge est également en baisse : 20 mois de salaires depuis septembre 2017, contre 37,8 mois de salaire à l’époque où s’appliquaient les anciennes dispositions. En revanche, les dommages-intérêts minimaux sont un peu plus élevés avec le nouveau dispositif (0,6 mois, contre 0,2 mois dans l’ancien). La « distribution » des indemnisations est donc « plus resserrée », désormais, puisque l’écart « entre le maximum et le minimum » est moins important qu’avant la réforme.

    Le macronisme est le pire projet de violence sociale jamais porté par un parti sous la Ve République.

  • Comment Françoise Dorin a souffert le martyre avant de mourir dans l’EPHAD le plus cher de France
    A la Résidence des Bords de Seine (groupe Orpea) , à Neuilly-sur-Seine, l’hébergement coûte entre 6 000 et 12 000 euros par mois.

    Extrait du livre Les Fossoyeurs  de Victor Castanet (Fayard) :

    "Chaque soir, Jean Piat, aussi faible et âgé qu’il était, venait rendre visite à son grand amour, à « la Dorin ». Un taxi le déposait devant la résidence des Bords de Seine. Un déambulateur l’attendait derrière l’accueil pour prendre le relais de cette canne qui ne le portait plus. Il se rendait à pas lents à la chambre de sa bien-aimée et y restait des heures durant, jusqu’après la fermeture de l’accueil et l’arrivée de l’équipe de nuit. Il lui prenait la main et écoutait sa respiration, à défaut d’autre chose ; ses mots, après s’être désarticulés, étaient devenus des borborygmes. Le Grand Piat veillait sur elle, ne se plaignant jamais de rien, ayant un mot pour tous, un sourire pour chacun. (…)

    (…) Françoise Dorin a été admise aux Bords de Seine le 24 octobre 2017. Si elle souffrait de troubles cognitifs importants, elle se portait bien physiquement, affichant même un léger embonpoint. Le 12 janvier 2018, soit deux mois et demi plus tard, elle décédera des suites d’un choc septique causé par la dégénérescence d’une escarre. (...)
     
    Une aide-soignante qui passe chaque jour faire la toilette de Françoise Dorin remarque, deux semaines après son admission, l’apparition de rougeurs sur la peau fragile de la résidente et le signale à Amandine [un pseudonyme, à sa demande], la maîtresse de maison [membre du personnel], qui préconise alors l’installation d’un matelas « anti-escarre ». Nous sommes aux alentours du 14 novembre 2017. (…)
     
    [La résidence n’ayant pas de matelas de ce type en stock, il faut attendre quarante-huit heures de plus pour en obtenir un et l’installer.]
     
    Le lendemain de sa mise en place, l’équipe du week-end du deuxième étage, composée d’une maîtresse de maison et d’un infirmier, entre dans la chambre de Mme Dorin et se rend compte que le matelas livré est défectueux. C’est Amandine elle-même (…) qui me fera cette révélation (…) : « Ça bipait dans tous les sens ! Le matelas n’avait pas gonflé. La pauvre Mme Dorin était allongée sur de la ferraille. »
     
    (…) En parallèle, l’état de son escarre, qui se situe au niveau du sacrum, se détériore d’heure en heure ; la plaie devient de plus en plus profonde. Pourtant, durant plus de dix jours, personne aux Bords de Seine ne prendra la peine d’en informer la famille. C’est pourtant une procédure des plus élémentaires. (…)
     
    Vis-à-vis de la famille, c’est le black-out le plus total. Personne ne les tient au courant de l’évolution de l’escarre. Alors même que, chaque jour, l’un d’entre eux est présent à la résidence, que ce soit Thomas et sa compagne, son frère Julien, ou l’ancienne aide à domicile de Françoise Dorin. Sans parler de Jean Piat, qui continue de se rendre tous les jours à la résidence, entre 17 heures et 21 heures, qu’il vente ou qu’il pleuve.
    (...)

    Les jours passent, et le mal devient de plus en plus profond. Le 27 décembre, Françoise Dorin est envoyée par l’équipe médicale des Bords de Seine à l’hôpital Beaujon pour valider la pose d’un pansement VAC, un dispositif qui aspire les impuretés d’une plaie pendant plus d’une heure et nécessite l’intervention d’une infirmière extérieure à l’Ehpad. Sa fille, Sylvie Mitsinkidès, assiste au rendez-vous médical.
     
    Ce qu’elle découvre, ce matin-là, la marquera à vie : « L’infirmière de l’hôpital Beaujon soulève le drap, et là, je vois un trou béant, au niveau du sacrum, plus gros que mon poing. C’était terrible. » (…) Même l’infirmière aura un mouvement de recul. (...)
     
    A son retour aux Bords de Seine, il ne reste plus que deux semaines à vivre à Françoise Dorin. (…) Le 12 janvier, elle décède, après des semaines de souffrances indicibles, à l’âge de 89 ans. Sans un bruit.

    Source : http://bernard-gensane.over-blog.com/2022/02/comment-francoise-dorin-a-souffert-le-martyre-avant-de-mo

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