#mazara_del_vallo

  • La corsa ai suoli agricoli italiani dei nuovi “lupi solari”: una speculazione da fermare

    Mediatori immobiliari senza troppi scrupoli vanno alla caccia di terreni assediando agricoltori, meglio se vecchi, stanchi o indebitati, offrendo loro cifre più alte del valore di mercato. È il risultato di una transizione energetica impostata male e gestita peggio. E che favorisce i ricchi a scapito dei poveri. L’analisi-appello di Paolo Pileri.

    “Professore, come comportarsi quando aziende del fotovoltaico contattano offrendo cifre parecchio allettanti per acquisire suoli agricoli per installarci pannelli (non “agrivoltaico”)? Grazie”. È il messaggio che ho ricevuto una mattina di marzo alle dieci. Non è il primo che ricevo e temo non sarà l’ultimo.

    Diciamo però che sono la minima parte della minima parte dei casi che ci saranno in giro per le nostre campagne, letteralmente assaltate da mediatori immobiliari senza troppi scrupoli che vanno alla caccia di terreni assediando agricoltori, meglio se vecchi o stanchi o indebitati, così sono più facili da convincere a vendere offrendo loro cifre più alte del valore di mercato dei terreni agricoli.

    È quanto abbiamo sempre temuto e detto fin dall’inizio delle prime versioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza. È il risultato di una transizione energetica fatta partire sgommando e sbandando alla prima curva. Una corsa partita sciaguratamente senza regole (ma probabilmente hanno voluto così) che ha fatto drizzare le antenne a tutti gli speculatori dell’energia che hanno a loro volta sguinzagliato mediatori, geometri, architetti e perfino sindaci a cercare terre da comprare.

    Per convincere gli agricoltori stanno usando la leva della fretta. Mostrano tanti soldi e gli dicono che è questo e solo questo il momento giusto per vendere, inducendo il proprietario a decidere senza pensarci troppo. Questo sarebbe il libero mercato? Ho saputo di funzionari di società energetiche che si sono presentati negli uffici di piccoli Comuni facendo pressione per ottenere segnalazioni di terreni e di possibili persone facilmente convincibili a vendere. Pazzesco, eppure accade. E continuerà ad accadere dappertutto.

    Il messaggio di stamattina arrivava dal Friuli. Quando tutti questi speculatori solari avranno acquistato terre per fare i loro comodi, cominceranno a bussare minacciosi alle porte delle Regioni e del governo (che nel frattempo hanno emesso solo leggi deboli e regolamenti colabrodo) per chiedere facilitazioni e norme che deroghino alle poche regole che esistono, che non mettano loro i bastoni tra le ruote così da poter mettere a terra i pannelli che vogliono nel tempo che vogliono. Loro vogliono metterli a terra, non gli interessa l’agrivoltaico che, comunque (e lo ribadisco) è un dramma lo stesso per l’agricoltura, il paesaggio e il suolo.

    Agli speculatori solari non basta massimizzare i loro guadagni, vorranno anche essere celebrati come eroi green: non mi stupirà vederli sponsorizzare il prossimo festival di Sanremo o il campionato di calcio o magari le Olimpiadi 2026. E puntualmente la politica li porterà in trionfo.

    Possibile che non riusciamo in questo Paese a fare una cosa bene e nell’interesse di tutti e dell’ambiente? Possibile che non riusciamo a proteggere i deboli e frenare quelli che tirano fuori sempre le unghie per graffiare? Qui ci vuole poco. Essendo in clamoroso ritardo sulla pannellizzazione, avevamo (e forse abbiamo ancora) il vantaggio di costruire una regia pubblica forte, intelligente e senza stupidi compromessi, in grado di orientare il mercato nella direzione zero impattante e zero esclusiva. Già perché questo far west della caccia alle terre solari è tutto a vantaggio dei ricchi che hanno i soldi contanti contro i poveri cristi agricoltori che, alla fine, cederanno. Non sono i piccoli e poveri risparmiatori che stanno cercando terre per mettere pannelli. Non siamo davanti a una transizione energetica che sta proteggendo i più poveri.

    Per non parlare delle lunghe mani delle mafie, della ‘ndrangheta. Chissà che non stia già accadendo. Il governo e i governi regionali stanno monitorando? Oppure sono presi dal dare la caccia ai lupi che si aggirano per Courmayeur o nel Monferrato o in Val Seriana? Perché questo fa notizia anche se quei lupi naturali non fanno alcun male, se non a qualche gallina o pecora (che puntualmente mamma Stato ripaga), mentre i lupi solari non fanno notizia eppure sono pericolosissimi, famelici e ridurranno in brandelli paesaggi e agricolture.

    Dobbiamo tutti insieme stanare questi lupi solari e non smettere di denunciare questa assurda pratica che inoltre spopolerà le terre agricole più di quanto già sono spopolate. Dobbiamo chiedere ai governi, regionali e statale, di intervenire per disciplinare la questione una volta per tutte e in modo uniforme sul territorio nazionale. Non possiamo permetterci consumi di suolo solari, né possiamo permetterci di ferire mortalmente l’agricoltura, non possiamo permettere di perdere produzione alimentare, non possiamo perdere agricoltori. I pannelli solari vanno posizionati sui tetti dei capannoni logistici, commerciali e industriali prima di tutto, su tettoie da realizzare in tutti i posteggi pubblici con più di 50 auto, sopra gli impianti di depurazione, nelle stazioni di rifornimento carburanti, lungo le autostrade, e così via. Solo quando avremo finito di piazzarli da quelle parti, potremo pensare a nuove superfici. Ma non l’inverso. Non è possibile che in questo Paese si opti sempre per il “vincere facile”, aprendo sempre nuovi fronti alle speculazioni e alla insostenibilità. Bisogna opporsi. Bisogna parlarne. Bisogna stanare queste pratiche.

    https://altreconomia.it/la-corsa-ai-suoli-agricoli-italiani-dei-nuovi-lupi-solari-una-speculazi
    #spéculation #terres #énergie #transition_énergétique #compétition #agriculture #photovoltaïque #énergie_solaire #panneaux_solaires #sol #agrivoltaico #fermes_solaires #ferme_solaire

    • Le tante zone d’ombra lasciate dal boom dell’agri-fotovoltaico

      La transizione verso le energie rinnovabili è una necessità globale, ma non per questo esente da scelte. In Sicilia i progetti di una multinazionale sono l’occasione per chiedersi se la direzione presa sia quella giusta.

      Verde in primavera, dorato d’estate, l’entroterra della Sicilia offre panorami a perdita d’occhio. Agrumeti, campi di grano, colline lasciate a foraggio. Spostarsi da Catania a Trapani significa attraversare l’isola da una parte all’altra: la prima con le sue testimonianze greco-romane, la seconda che risuona ancora oggi delle influenze arabe. A collegarle c’è un’autostrada che sembra tutt’altro, tra cantieri infiniti, cambi di corsia e lunghi tratti in cui non ci si sente granché sicuri. L’andatura forzatamente lenta permette di accorgersi di come questi territori stiano a poco a poco cambiando. Bianche pale eoliche a incoronare le colline e scintillanti pannelli solari che costeggiano il guard rail sono una presenza a cui, con il passare dei chilometri, l’occhio si abitua.

      D’altra parte non è un mistero che la Sicilia stia vivendo un nuovo boom legato alle energie rinnovabili: a inizio anni Duemila a farla da padrone furono gli investimenti nell’eolico, con tanto di tentativi di lucrarci sopra da parte di Cosa nostra; da qualche tempo, invece, è diventata terra d’elezione per i campi solari.

      Le emergenze internazionali legate alla crisi climatica e i riflessi geopolitici del conflitto russo-ucraino costituiscono la cornice entro cui, oggi, le istituzioni sono chiamate a definire le strategie energetiche. L’impegno dell’Ue sul fronte delle rinnovabili è forte: il Pnrr prevede miliardi di euro di finanziamento per la produzione di energia verde. In quest’ottica – regioni come la Sicilia – diventano ricettori naturali degli investimenti: l’isola è terra di vento e, soprattutto, di sole.

      Ma quali sono le conseguenze a livello territoriale dei crescenti interessi legati alle rinnovabili e ai fondi stanziati per la loro promozione?

      IrpiMedia, con il supporto di Journalismfund Europe, ha deciso di andare sui territori, nel tentativo di capire meglio gli impatti sociali di un fenomeno destinato a segnare il futuro dei luoghi che viviamo. Per farlo abbiamo scelto di concentrare l’attenzione su due progetti – uno in fase di realizzazione a #Paternò, in provincia di Catania, e l’altro a #Mazara_del_Vallo (Trapani) – che nell’ultimo anno hanno attirato l’interesse dell’opinione pubblica.

      A realizzarli è #Engie, multinazionale del settore che ha da poco chiuso un accordo con #Amazon. Il colosso dell’e-commerce da tempo è impegnato a portare avanti, a livello internazionale, un programma di finanziamento degli impianti di produzione di energia rinnovabile. «Questi con Engie rappresentano i nostri primi progetti su larga scala in Italia, ci daranno una mano nel percorso che ci porterà a usare il cento per cento di energia rinnovabile entro il 2030», ha detto, a fine 2020, il direttore di #Amazon_Energy #Nat_Sahlstrom. La dichiarazione, a una prima lettura, potrebbe far pensare che tra qualche anno le attività di Amazon in tutto il pianeta saranno alimentate direttamente da energia verde. In realtà tra la multinazionale che fa capo a #Jeff_Bezos e le aziende produttrici, come Engie, sono stati sottoscritti dei #power_purchase_agreement (#Ppa).

      Un mare di silicio

      Carcitella è il nome di una contrada che si trova al confine tra i comuni di Mazara del Vallo e Marsala. Immersa nelle campagne trapanesi, è solcata da un reticolo di piccole strade provinciali. È da queste parti che si trova uno degli impianti realizzati da Engie. Dietro una recinzione metallica, ci sono filari e filari di pannelli solari: 122 mila moduli fotovoltaici per una potenza complessiva di 66 megawatt.

      «Sole, énergie». La voce – un italiano stentato che ripiega presto nel francese – arriva dalle nostre spalle. Un uomo ci viene incontro, pochi passi per distaccarsi dalle decine di pecore che lo attorniano. Si chiama Mohamed ed è arrivato in gommone dalla Tunisia, l’Africa da qui dista poche ore. Non ha ancora quarant’anni, ma ne dimostra molti di più: Mohamed è arrivato in Italia sperando di spostarsi in Francia e fare il cuoco, ma si è ritrovato a fare il pastore. «Neuf euros par jour. La casa? Petite», spiega, descrivendo il misero compenso ricevuto in cambio della disponibilità di portare al pascolo le pecore dall’alba al tramonto. Mohamed è uno dei tanti che hanno assistito al lento cambiamento di #contrada_Carcitella.

      L’impianto di Mazara del Vallo è stato inaugurato a fine maggio da Engie alla presenza delle autorità. La notizia, che ha trovato spazio sui media nazionali, è di quelle che colpiscono: «Avviato il più grande impianto agrovoltaico d’Italia». Oltre alla partnership con Amazon e alle dimensioni – sommando i progetti su Mazara e Paternò si superano i 200 mila moduli solari su una superficie di 185 ettari – il principale motivo che ha attirato l’attenzione generale sta infatti nella tecnologia utilizzata da Engie. L’agrovoltaico (o agri-fotovoltaico) prevede l’installazione dei pannelli su terreni agricoli, con accorgimenti tali – a partire dalla loro altezza rispetto al suolo – da dare la possibilità di impiantare colture nella parte sottostante. Nel caso di Mazara e Paternò si parla di piante officinali e per fienagioni e l’uso di alberi di mandorlo e ulivo per delimitare i perimetri dell’impianto. «I nostri progetti – fa sapere Engie a IrpiMedia – puntano a valorizzare i terreni mediante l’attuazione del piano agronomico che ha accompagnato il progetto autorizzato dalla Regione».

      L’obiettivo dichiarato è quello di salvaguardare il consumo di suolo e ottimizzare le aree utilizzate. «La Sicilia vanta le maggiori superfici coltivate a biologico in Italia e gli impianti con tecnologia agro-fotovoltaica soddisfano la strategia regionale per lo sviluppo sostenibile», ha dichiarato nella primavera del 2021 Nello Musumeci, oggi ministro del governo Meloni ma all’epoca presidente della Regione Siciliana.

      Ma per quanto le parole di Musumeci potrebbero portare a pensare a un ruolo centrale delle istituzioni nella gestione della transizione verso le rinnovabili, la realtà è che mentre a livello sovranazionale l’Ue ha definito le risorse a disposizione per intraprendere il percorso, fino a oggi l’Italia ha rinunciato alla possibilità di governare il fenomeno. Legiferando, semmai, nella direzione opposta: verso una normativa che renda ancora più libera l’iniziativa imprenditoriale dei leader di settore, lasciando al mercato l’onere della pianificazione. Ma ciò, così come accaduto tante altre volte in passato e in molti altri campi, comporta il rischio di vedere affermarsi le logiche della massimizzazione del profitto, a discapito di aspetti fondamentali per il benessere collettivo a medio-lungo termine.
      Tra maglie sempre più larghe e rinunce

      Le richieste di autorizzazione che hanno portato alla costruzione degli impianti di Paternò e Mazara del Vallo sono state presentate alla Regione, nel 2018, dalla FW Turna, società successivamente acquisita da Engie. Entrambi i progetti sono stati sottoposti al vaglio della commissione chiamata a valutare l’impatto ambientale, ottenendo il via libera condizionato al rispetto di alcune modifiche da apportare.

      A partire dal 2019, al vertice della commissione Via-Vas c’è stato #Aurelio_Angelini. Professore ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Enna, Angelini è stato incaricato dal governatore Musumeci in seguito a uno scandalo che aveva travolto i precedenti vertici della commissione, accusati di avere piegato il proprio operato agli interessi di #Vito_Nicastri e #Paolo_Arata. Il primo è un trapanese accusato di essere uno dei principali volti imprenditoriali del boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, l’altro un ex parlamentare nazionale di Forza Italia e successivamente consulente della Lega. In coppia, Nicastri e Arata avrebbero pagato mazzette per corrompere funzionari regionali e ottenere vantaggi su progetti per la realizzazione di impianti per biometano, mini-eolico e fotovoltaico.

      Angelini ha guidato la commissione fino a dicembre scorso, quando è stato rimosso dal nuovo governatore Renato Schifani. Una decisione arrivata dopo mesi di frizioni, con il docente che era stato accusato di fare da tappo agli investimenti sulle rinnovabili in Sicilia per i troppi no dati dalla commissione. «Sono stato vittima di una campagna diffamatoria partita con alcune dichiarazioni di Confindustria e divulgando numeri di fantasia», commenta Angelini.

      «Hanno raccontato frottole a ripetizione. Uno studio indipendente di Public Affairs Advisors e Elemens ma anche il rapporto Fer di Terna – continua – hanno dimostrato che in questi anni la Sicilia è stata in vetta alle classifiche sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni per il rilascio delle autorizzazioni ambientali».

      Una cosa è certa: a essere interessati alla Sicilia per la realizzazione di parchi solari sono tanti. Per accorgersene basta navigare nel portale che raccoglie le richieste di autorizzazione. Sono centinaia i progetti finiti sui tavoli della Regione. Un flusso costante interrotto soltanto dalla modifica alla normativa che per gli impianti di una certa dimensione ha disposto che le valutazioni ambientali vengano fatte non più dalle Regioni, ma dal ministero.

      Tra i proponenti si trovano società spagnole, tedesche, ma anche altre con sedi in Cina e nelle isole Cayman. L’obiettivo della Regione è quello di passare dalla potenza di 1,8 gigawatt del 2018 a 4 gigawatt entro il 2030. «Il percorso verso la decarbonizzazione è obbligatorio a meno di non voler pregiudicare definitivamente il futuro del pianeta, ma ciò non può prescindere dalla considerazione di altri fattori», mette in guardia Angelini. Il riferimento va in primo luogo alla localizzazione degli impianti, che il più delle volte interessano aree a destinazione agricola, e chiama in causa direttamente il ruolo delle istituzioni. «La terra serve innanzitutto a produrre cibo – commenta -. Viviamo in un’epoca in cui gli effetti dei cambiamenti climatici, come la siccità e la desertificazione, sono destinati a determinare una drastica riduzione delle produzioni. Per questo – sottolinea – bisognerebbe capire che non possiamo permetterci di ipotecare i terreni per la produzione di energia. E questo non significa rinunciare alla transizione ecologica. Le alternative esistono, serve la volontà di adottarle».

      A inizio 2022, la Regione Siciliana ha approvato il nuovo piano energetico che delinea le strategie per lo sviluppo delle rinnovabili. In precedenza, la commissione guidata da Angelini, esaminando la bozza di piano, aveva dato una serie di prescrizioni rimaste però inattuate. Tra queste c’era la definizione delle aree non idonee all’installazione degli impianti. «L’indirizzo era quello di garantire maggiori tutele per le aree agricole di pregio, ma la politica ha deciso di non raccogliere le nostre indicazioni – commenta l’ex presidente della Cts – Questa non è l’unica stortura: il piano dice chiaramente che la localizzazione degli impianti debba avvenire privilegiando le discariche e le cave dismesse, i siti già compromessi dal punto di vista ambientale e le aree industriali e artigianali. Invece assistiamo alla continua presentazione di progetti fotovoltaici su zone agricole».

      Parlando della grandezza dei progetti – quelli di Engie non sono neanche i più vasti – Angelini ne fa anche una questione socio-economica. «Dovremmo ragionare sul tipo di futuro che vogliamo. Parlare genericamente di rinnovabili non basta. La storia ci dice che l’energia, la sua produzione, è legata a doppio filo con la libertà. Si fanno le guerre per garantirsi l’autonomia energetica. Siamo certi che la scelta migliore sia quella di andare verso un futuro con nuovi monopolisti dell’energia, anziché favorire lo sviluppo delle comunità energetiche?»

      Le comunità energetiche e l’autoconsumo collettivo sono pratiche che permettono a soggetti privati e pubblici di costruire e gestire impianti di produzione di energia rinnovabile pensati principalmente per uno “in loco”. In particolare l’autoconsumo collettivo è portato avanti dagli abitanti di un unico edificio mentre le comunità energetiche sono delle entità più ampie, solitamente un complesso di condomini, piccole e medie imprese ed enti pubblici, purché siano allacciati alla stessa cabina di trasformazione d’energia. In pratica la comunità energetica investe nella costruzione di un impianto, come ad esempio un fotovoltaico sui tetti dei condomini, così da iniziare l’autoproduzione e l’autoconsumo dell’energia rinnovabile.

      «Queste collettività sono pensate per produrre e consumare energia da fonti rinnovabili in loco, così da ridurre le bollette, e non per scopi di lucro, ecco perché la legge dispone che per poter prendere parte alle comunità energetiche sia necessario dimostrare che la produzione e la commercializzazione di energia non sia la fonte principale di guadagno», puntualizza Gianni Girotto, che da parlamentare nazionale del Movimento 5 Stelle è stato il promotore delle comunità energetiche in Italia.

      Il concetto alla base delle comunità energetiche è la produzione di energia diffusa e distribuita su un territorio molto più vasto ma allo stesso tempo molto meno impattante rispetto alle classiche centrali o ai campi eolici e fotovoltaici. I benefici principali, oltre ad una riduzione delle bollette, riguardano anche le spese nazionali del trasporto di energia. Produrre e condurre l’energia da un luogo a un altro ha dei costi ingenti per lo Stato e avere più comunità energetiche sparse in tutto il territorio alleggerirebbe la rete nazionale. Secondo i dati aggiornati a fine 2022, esistono solo 46 attività di autoconsumo collettivo e 21 comunità energetiche. «Un risultato ancora scarso – ammette Girotto – in parte dovuto al Covid che ha cancellato l’argomento dalle discussioni, in parte da una mancanza di reale volontà politica di promuovere le comunità».

      Ad oggi infatti si aspettano ancora i decreti attuativi per definire alcuni che regolamentano, ad esempio, le comunità energetiche più grandi. Per ora sono possibili comunità energetiche basate sulle cabine di trasformazione secondarie, che sono circa 600 mila in tutta Italia, su cui si possono costituire comunità grandi quanto un piccolo isolato o una via per le città più grandi. «Ma se si regolamentassero le comunità energetiche che si allacciano alle cabine primarie, si potrebbero formare comunità grandi quanto diversi comuni così da contribuire significativamente alla riduzione delle necessità di importazioni energetiche che sono più costose ed estremamente più inquinanti», conclude Girotti.

      Quale futuro spetterà alle comunità energetiche è un capitolo ancora tutto da scrivere. Quel che finora pare evidente è che a dettare legge sono ancora i colossi del settore. Aziende che, per loro natura, hanno come obiettivo primario quello di sfruttare economicamente al meglio le opportunità offerte dalle leggi.

      Da questo punto di vista, uno dei primi effetti lo si è notato sul mercato immobiliare dei terreni. Le aziende, infatti, preferiscono trattare con i privati. «Rinunciando ad avere un ruolo centrale nella pianificazione dello sviluppo energetico dell’isola, la Regione sta perdendo l’opportunità di avere introiti da questi investimenti – spiega il professore Aurelio Angelini -. Se si lavorasse alla promozione della realizzazione degli impianti nelle discariche pubbliche o nelle cave dismesse, si potrebbero indire gare per l’affidamento di queste aree ai privati, ottenendo in cambio un canone annuale». Così, però, non sta avvenendo e ad accorgersene è innanzitutto chi con la compravendita degli immobili ci lavora.

      «Fino a qualche anno fa, da queste parti un ettaro di terreno agricolo veniva venduto intorno ai 15 mila euro a ettaro. Oggi per meno di 35 mila non lo si trova», racconta un professionista del settore. Lo incontriamo nel suo studio di Mazara del Vallo, a meno di dieci chilometri dall’impianto di Engie. Ha accettato di parlarci soltanto a condizione di mantenere l’anonimato. «La domanda di terreni per installare pannelli solari è cresciuta in maniera spropositata e l’innalzamento dei prezzi è stata la naturale conseguenza – spiega – Per molti proprietari si tratta di cifre che difficilmente guadagnerebbero lavorando la terra».

      Si potrebbe pensare che per gli immobiliaristi siano periodi di vacche grasse. «Ma non è così, io negli ultimi anni sono riuscito a vendere soltanto un terreno destinato a fotovoltaico. Chi ci guadagna davvero sono i sensali». La senseria è l’attività di mediazione portata avanti spesso in maniera informale da soggetti non qualificati. «Per le società che arrivano da fuori, magari dal Nord Italia o dall’estero, sono dei veri procacciatori di affari e non importa se non siano professionisti del settore, si sanno muovere». Quando gli chiediamo in cosa consista tale capacità, chiarisce: «Spesso sono allevatori, conoscono molto bene le campagne e chi sono i proprietari. Come guadagnano? Si dice che prendano una percentuale dal venditore».

      Ancora oggi in Sicilia il legame con la terra è forte. Può capitare per esempio che un terreno, passando di generazione in generazione nelle mani di sempre più eredi, resti incolto ma comunque ben saldo all’interno del patrimonio di famiglia. La nuova propensione a cederli, e il coinvolgimento di intermediari di fortuna, è un fenomeno che non è passato inosservato anche negli ambienti investigativi. Inevitabile chiedersi se dietro l’attività dei procacciatori possa esserci anche il peso della criminalità: «A oggi non sono emerse evidenze che portino a sostenere un coinvolgimento delle famiglie mafiose nella fase di individuazione dei terreni da destinare alle rinnovabili, ma è chiaro – sottolinea – che quella del sensale è una figura ambigua. Si tratta spesso di soggetti che si muovono in zone grigie. D’altra parte storicamente la mafia siciliana ha avuto un legame forte con la terra, basti pensare al ruolo dei campieri, che si occupavano della guardiania».
      Di chi sono le aree utilizzate da Engie

      «I terreni sono stati acquisiti direttamente dai proprietari». A negare il coinvolgimento di intermediari di fortuna nelle trattative per l’acquisizione delle aree su cui realizzare gli impianti di Mazara del Vallo e Paternò è la stessa Engie. «Nel primo caso il terreno è stato in larga parte acquistato da una singola proprietà, mentre i terreni di Paternò erano frazionati su pochi proprietari terrieri locali», specificano dagli uffici della multinazionale.

      Una versione che trova conferma anche nelle parole di Francesca Adragna, 54enne originaria di Trapani ma residente in Toscana che, insieme al fratello, era la proprietaria dei terreni scelti da Engie per installare i pannelli. «Non abbiamo avuto sensali che si sono interessati alla trattativa, so bene che in Sicilia girano molti sedicenti intermediatori, ma nel nostro caso non è accaduto». Dai documenti visionati da IrpiMedia risulta che a chiedere al Comune di Mazara del Vallo la certificazione di destinazione urbanistica da presentare alla Regione è stata una terza persona. «È stato incaricato da mio fratello, ritengo sia un tecnico», chiosa la donna. Per poi specificare di avere deciso «di vendere questi terreni perché si tratta di un’eredità e, vivendo io fuori dalla Sicilia, occuparsene era sempre più complicato».

      Continuando a scorrere le centinaia di pagine di documenti che accompagnano il progetto presentato alla Regione, ci si imbatte anche su un’altra serie di proprietari. I loro terreni vengono tirati in ballo nella parte riguardante i lavori per la stazione elettrica e i relativi raccordi alla rete di trasmissione nazionale (Rtn) al servizio del campo fotovoltaico. Anche in questo caso sono nomi che per motivi diversi, in alcuni casi legati a passate vicende giudiziarie che nulla hanno a che vedere con l’iter che ha portato alla realizzazione dell’impianto di Engie, sono noti all’opinione pubblica.

      Tra loro ci sono Maria e Pietro Maggio. I due sono discendenti della famiglia Poiatti, rinomati industriali della pasta. Maria attualmente è presidente del consiglio d’amministrazione della società. A loro sono intestate due vaste particelle indicate come vigneti e terreni seminativi utilizzate per la realizzazione della stazione elettrica e per i raccordi alla Rtn. Dai documenti emerge che quest’ultima parte ha interessato anche alcuni terreni di proprietà di Marina Scimemi. La donna, 47 anni, è figlia di Baldassarre Scimemi, l’ex presidente della Banca Agraria di Marsala e vicepresidente dell’Istituto Bancario Siciliano che a inizio anni Novanta venne accusato di essere a disposizione di Cosa nostra. Gli inquirenti accusavano l’uomo di avere elargito crediti a condizioni di favore e fornito una sponda per il riciclaggio del denaro. Per quelle vicende, Scimemi è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

      Nei documenti presentati da Engie compare anche il nome del 41enne Francesco Giammarinaro. Il padre, Pino, è stato deputato regionale della Democrazia Cristiana nella prima metà degli anni Novanta. Una carriera politica costruita all’ombra della corrente andreottiana e vicino a Nino e Ignazio Salvo, i cugini di Salemi – lo stesso paese di Giammarinaro – che per decenni hanno avuto in mano la riscossione dei tributi in Sicilia, grazie anche ai legami con Cosa nostra. Anche per Pino Giammarinaro i problemi con la giustizia non sono mancati: arrestato nel 1994, ha patteggiato i reati di concussione e corruzione, mentre è stato assolto dall’accusa di concorso esterno. A partire dagli anni Duemila, il suo patrimonio è stato sottoposto a misure di prevenzione che hanno portato alla confisca. Tra i beni su cui sono stati posti i sigilli c’è anche il terreno di contrada San Nicola di Corsone. Nel progetto presentato da Engie si menziona l’appezzamento quando si fa riferimento al tracciato dell’elettrodotto aereo; area che per questo sarebbe stata sottoposta a vincolo preordinato all’esproprio.

      «Non ne so nulla, quel terreno ormai non è né di mio figlio né tantomeno mio. Rientra tra quelli sequestrati, da oltre dieci anni non ci appartiene», taglia corto Pino Giammarinaro, raggiunto telefonicamente da IrpiMedia. Sul punto, però, fa chiarezza Engie specificando che, per quanto nella documentazione presentata alla Regione si menzioni la particella 4, «il terreno confina con la nuova stazione elettrica ma non è interessato dalla nostra opera».

      Uva pregiata a basso costo

      Girare per la provincia di Trapani senza imbattersi in qualche vigneto è praticamente impossibile. Rosso, bianco o rosè, da queste parti si beve bene. Tuttavia, chi la terra la lavora praticamente da sempre si è accorto che qualcosa sta cambiando. Anzi, che forse è già cambiato. «Un tempo questa era una delle zone con più vigneti al mondo. Di questo passo, invece, continuare a coltivare viti non varrà più la pena». A parlare è il titolare di una delle tante aziende agricole che hanno sede nell’estremità occidentale della Sicilia. Ci accoglie in un ampio salone per parlare di come in meno di un decennio la redditività delle produzioni sia crollata. «Non è una sensazione, lo dicono i numeri e i bilanci – spiega l’uomo – Chi produce uva da vino da queste parti guadagna molto meno che altrove. Io non so se c’entri qualcosa, ma questo problema è coinciso con il periodo in cui hanno iniziato a costruire impianti per le rinnovabili. Prima c’è stato il boom dell’eolico, adesso sembra che tutti vogliano fare parchi fotovoltaici».

      L’imprenditore suggerisce di confrontare i listini delle cantine sociali. In provincia di Trapani ce ne sono tante, c’è chi lavora con proprie etichette e chi vende il vino sfuso ad altre aziende. Una delle più affermate è Cantine Ermes, attiva non solo nell’isola. Guardando il bilancio del 2022, in cui sono contenuti i dati relativi agli acconti pagati ai soci per i conferimenti effettuati nel corso della vendemmia 2021, si legge che l’uva Chardonnay è stata pagata da 10 a 38 euro al quintale, mentre chi ha portato uva Frappato ha incassato come acconto un massimo di 40 euro al quintale. Per le stesse tipologie di vitigno, una cantina di Riesi, in provincia di Caltanissetta, nella stessa annata ha elargito ai propri soci 60 euro al quintale per lo Chardonnay e da 47 a 52 euro per il Frappato. Le differenze sono marcate anche se si confrontano altri vitigni.

      Stabilire una diretta correlazione tra la bassa redditività dell’uva trapanese e il boom del fotovoltaico non è semplice, ma il calo dei profitti ha fatto crescere il numero di produttori che si chiedono se sia il caso andare avanti. A pensarla così è Giovanni Di Dia, segretario Flai Cgil in provincia di Trapani e a sua volta piccolo produttore. «La specificità del caso trapanese rende difficile pensare che sia determinata soltanto da logiche di mercato – afferma – La tentazione di pensare all’influenza di fattori esterni c’è, perché davvero non si capisce come in altre province si possano liquidare decine di euro in più a quintale. Non si tratta di fare confronti con l’altra parte del Paese, ma di spostarsi di un centinaio di chilometri».

      Quella dei produttori di uva è solo una delle tante perplessità che accompagnano, non solo in Sicilia e non solo in Italia, la corsa al fotovoltaico. E come in tutte le occasioni in cui bisogna fare di fretta, i rischi di perdersi qualcosa per strada sono alti. Chiedersi cosa ne sarà di aree come contrada Carcitella da qui in avanti è fondamentale, perché ne va del modo in cui immaginiamo il futuro e il rapporto con i luoghi che viviamo. In questo senso, il caso Engie dimostra come a essere favoriti, anche sul fronte della remunerazione dei terreni ceduti alle multinazionali, siano spesso grossi proprietari terrieri. Famiglie che in qualche modo ancora oggi rappresentano il volto del latifondo. Per il professore Angelini il discorso, dunque, va oltre la scelta tra rinnovabili – in questo caso il fotovoltaico – e fonti fossili. «Vogliamo sostituire i padroni dell’energia con nuovi monopolisti o vogliamo una società di produttori più equa e democratica?»

      #Sicile #corruption

      voir aussi:
      https://seenthis.net/messages/1007935

  • Tunisian fishermen await trial after ’saving hundreds of migrants’

    Friends and colleagues have rallied to the defence of six Tunisian men awaiting trial in Italy on people smuggling charges, saying they are fishermen who have saved hundreds of migrants and refugees over the years who risked drowning in the Mediterranean.

    The men were arrested at sea at the weekend after their trawler released a small vessel it had been towing with 14 migrants onboard, 24 miles from the coast of the Italian island of Lampedusa.

    Italian authorities said an aeroplane crew from the European border agency Frontex had first located the trawler almost 80 nautical miles from Lampedusa and decided to monitor the situation.They alerted the Italian police after the migrant vessel was released, who then arrested all crew members at sea.

    According to their lawyers, the Tunisians maintain that they saw a migrant vessel in distress and a common decision was made to tow it to safety in Italian waters. They claim they called the Italian coastguard so it could intervene and take them to shore.

    Prosecutors have accused the men of illegally escorting the boat into Italian waters and say they have no evidence of an SOS sent by either the migrant boat or by the fishermen’s vessel.

    Among those arrested were 45-year-old Chamseddine Ben Alì Bourassine, who is known in his native city, Zarzis, which lies close to the Libyan border, for saving migrants and bringing human remains caught in his nets back to shore to give the often anonymous dead a dignified burial.

    Immediately following the arrests, hundreds of Tunisians gathered in Zarzis to protest and the Tunisian Fishermen Association of Zarzis sent a letter to the Italian embassy in Tunis in support of the men.

    “Captain Bourassine and his crew are hardworking fishermen whose human values exceed the risks they face every day,” it said. “When we meet boats in distress at sea, we do not think about their colour or their religion.”

    According to his colleagues in Zarzis, Bourassine is an advocate for dissuading young Tunisians from illegal migration. In 2015 he participated in a sea rescue drill organised by Médecins Sans Frontières (Msf) in Zarzis.

    Giulia Bertoluzzi, an Italian filmmaker and journalist who directed the documentary Strange Fish, about Bourassine, said the men were well known in their home town.

    “In Zarzis, Bourassine and his crew are known as anonymous heroes”, Bertoluzzi told the Guardian. “Some time ago a petition was circulated to nominate him for the Nobel peace prize. He saved thousands of lives since.”

    The six Tunisians who are now being held in prison in the Sicilian town of Agrigento pending their trial. If convicted, they could face up to 15 years in prison.

    The Italian police said in a statement: “We acted according to our protocol. After the fishing boat released the vessel, it returned south of the Pelagie Islands where other fishing boats were active in an attempt to shield itself.”

    It is not the first time that Italian authorities have arrested fishermen and charged them with aiding illegal immigration. On 8 August 2007, police arrested two Tunisian fishermen for having guided into Italian waters 44 migrants. The trial lasted four years and both men were acquitted of all criminal charges.

    Leonardo Marino, a lawyer in Agrigento who had defended dozens of Tunisian fishermen accused of enabling smuggling, told the Guardian: “The truth is that migrants are perceived as enemies and instead of welcoming them we have decided to fight with repressive laws anyone who is trying to help them.”


    https://www.theguardian.com/world/2018/sep/05/tunisian-fishermen-await-trial-after-saving-hundreds-of-migrants?CMP=sh
    #Tunisie #pêcheurs #solidarité #mourir_en_mer #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #pêcheurs_tunisiens #délit_de_solidarité
    Accusation: #smuggling #passeurs

    cc @_kg_

    • Commentaires de Charles Heller sur FB :

      Last year these Tunisian fishermen prevented the identitarian C-Star - chartered to prevent solidarity at sea - from docking in Zarzis. Now they have been arrested for exercising that solidarity.

      Back to the bad old days of criminalising Tunisian fishermen who rescue migrants at sea. Lets make some noise and express our support and solidarity in all imaginable ways!

    • Des pêcheurs tunisiens poursuivis pour avoir tracté des migrants jusqu’en Italie

      Surpris en train de tirer une embarcation de migrants vers l’Italie, des pêcheurs tunisiens -dont un militant connu localement- ont été écroués en Sicile. Une manifestation de soutien a eu lieu en Tunisie et une ONG essaie actuellement de leur venir en aide.

      Des citoyens tunisiens sont descendus dans la rue lundi 3 septembre à Zarzis, dans le sud du pays, pour protester contre l’arrestation, par les autorités italiennes, de six pêcheurs locaux. Ces derniers sont soupçonnés d’être des passeurs car ils ont été "surpris en train de tirer une barque avec 14 migrants à bord en direction de [l’île italienne de] Lampedusa", indique la police financière et douanière italienne.

      La contestation s’empare également des réseaux sociaux, notamment avec des messages publiés demandant la libération des six membres d’équipage parmi lesquels figurent Chamseddine Bourassine, président de l’association des pêcheurs de Zarzis. “Toute ma solidarité avec un militant et ami, le doyen des pêcheurs Chamseddine Bourassine. Nous appelons les autorités tunisiennes à intervenir immédiatement avec les autorités italiennes afin de le relâcher ainsi que son équipage”, a écrit lundi le jeune militant originaire de Zarzis Anis Belhiba sur Facebook. Une publication reprise et partagée par Chamesddine Marzoug, un pêcheur retraité et autre militant connu en Tunisie pour enterrer lui-même les corps des migrants rejetés par la mer.

      Sans nouvelles depuis quatre jours

      Un appel similaire a été lancé par le Forum tunisien pour les droits économiques et sociaux, par la voix de Romdhane Ben Amor, chargé de communication de cette ONG basée à Tunis. Contacté par InfoMigrants, il affirme n’avoir reçu aucune nouvelle des pêcheurs depuis près de quatre jours. “On ne sait pas comment ils vont. Tout ce que l’on sait c’est qu’ils sont encore incarcérés à Agrigente en Sicile. On essaie d’activer tous nos réseaux et de communiquer avec nos partenaires italiens pour leur fournir une assistance juridique”, explique-t-il.

      Les six pêcheurs ont été arrêtés le 29 août car leur bateau de pêche, qui tractait une embarcation de fortune avec 14 migrants à son bord, a été repéré -vidéo à l’appui- par un avion de Frontex, l’Agence européenne de garde-côtes et garde-frontières.

      Selon une source policière italienne citée par l’AFP, les pêcheurs ont été arrêtés pour “aide à l’immigration clandestine” et écroués. Le bateau a été repéré en train de tirer des migrants, puis de larguer la barque près des eaux italiennes, à moins de 24 milles de Lampedusa, indique la même source.

      Mais pour Romdhane Ben Amor, “la vidéo de Frontex ne prouve rien”. Et de poursuivre : “#Chamseddine_Bourassine, on le connaît bien. Il participe aux opérations de sauvetage en Méditerranée depuis 2008, il a aussi coordonné l’action contre le C-Star [navire anti-migrants affrété par des militant d’un groupe d’extrême droite]”. Selon Romdhane Ben Amor, il est fort probable que le pêcheur ait reçu l’appel de détresse des migrants, qu’il ait ensuite tenté de les convaincre de faire demi-tour et de regagner la Tunisie. N’y parvenant pas, le pêcheur aurait alors remorqué l’embarcation vers l’Italie, la météo se faisant de plus en plus menaçante.

      La Tunisie, pays d’origine le plus représenté en Italie

      Un nombre croissant de Tunisiens en quête d’emploi et de perspectives d’avenir tentent de se rendre illégalement en Italie via la Méditerranée. D’ailleurs, avec 3 300 migrants arrivés entre janvier et juillet 2018, la Tunisie est le pays d’origine le plus représenté en Italie, selon un rapport du Haut commissariat de l’ONU aux réfugiés (HCR) publié lundi.

      La Méditerranée a été "plus mortelle que jamais" début 2018, indique également le HCR, estimant qu’une personne sur 18 tentant la traversée meurt ou disparaît en mer.


      http://www.infomigrants.net/fr/post/11752/des-pecheurs-tunisiens-poursuivis-pour-avoir-tracte-des-migrants-jusqu

    • Lampedusa, in cella ad Agrigento il pescatore tunisino che salva i migranti

      Insieme al suo equipaggio #Chameseddine_Bourassine è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale. La Tunisia chiede il rilascio dei sei arrestati. L’appello per la liberazione del figlio di uno dei pescatori e del fratello di Bourassine

      Per la Tunisia Chameseddine Bourassine è il pescatore che salva i migranti. Protagonista anche del film documentario «Strange Fish» di Giulia Bertoluzzi. Dal 29 agosto Chameseddine e il suo equipaggio sono nel carcere di Agrigento, perchè filmati mentre trainavano un barchino con 14 migranti fino a 24 miglia da Lampedusa. Il peschereccio è stato sequestrato e rischiano molti anni di carcere per favoreggiamento aggravato dell’immigrazione illegale. Da Palermo alcuni parenti giunti da Parigi lanciano un appello per la loro liberazione.

      Ramzi Lihiba, figlio di uno dei pescatori arrestati: «Mio padre è scioccato perchè è la prima volta che ha guai con la giustizia. Mi ha detto che hanno incontrato una barca in pericolo e hanno fatto solo il loro dovere. Non è la prima volta. Chameseddine ha fatto centinaia di salvataggi, portando la gente verso la costa più vicina. Prima ha chiamato la guardia costiera di Lampedusa e di Malta senza avere risposta».

      Mohamed Bourassine, fratello di Chameseddine: «Chameseddine l’ha detto anche alla guardia costiera italiana, se trovassi altre persone in pericolo in mare, lo rifarei».
      La Tunisia ha chiesto il rilascio dei sei pescatori di Zarzis. Sit in per loro davanti alle ambasciate italiane di Tunisi e Parigi. Da anni i pescatori delle due sponde soccorrono migranti con molti rischi. Ramzi Lihiba: «Anche io ho fatto la traversata nel 2008 e sono stato salvato dai pescatori italiani, altrimenti non sarei qui oggi».

      https://www.rainews.it/tgr/sicilia/video/2018/09/sic-lampedusa-carcere-pescatore-tunisino-salva-migranti-8f4b62a7-b103-48c0-8

    • Posté par Charles Heller sur FB :

      Yesterday, people demonstrated in the streets of Zarzis in solidarity with the Tunisian fishermen arrested by Italian authorities for exercising their solidarity with migrants crossing the sea. Tomorrow, they will be heard in front of a court in Sicily. While rescue NGOs have done an extraordinary job, its important to underline that European citizens do not have the monopoly over solidarity with migrants, and neither are they the only ones being criminalised. The Tunisian fishermen deserve our full support.


      https://www.facebook.com/charles.heller.507/posts/2207659576116549

    • I pescatori, eroi di Zarzis, in galera

      Il 29 agosto 2018 sei pescatori tunisini sono stati arrestati ad Agrigento, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato punibile fino a quindici anni di carcere. Il loro racconto e quello dei migranti soccorsi parla invece di una barca in panne che prendeva acqua, del tentativo di contattare la Guardia Costiera italiana e infine - dopo una lunga attesa – del trasporto del barchino verso Lampedusa, per aiutare le autorità nelle operazioni di soccorso. Mentre le indagini preliminari sono in corso, vi raccontiamo chi sono questi pescatori. Lo facciamo con Giulia Bertoluzzi, che ha girato il film “Strange Fish” – vincitore al premio BNP e menzione speciale della giuria al festival Visioni dal Mondo - di cui Bourassine è il protagonista, e Valentina Zagaria, che ha vissuto oltre due anni a Zarzis per un dottorato in antropologia.

      Capitano, presidente, eroe. Ecco tre appellativi che potrebbero stare a pennello a Chamseddine Bourassine, presidente della Rete Nazionale della Pesca Artigianale nonché dell’associazione di Zarzis “Le Pêcheur” pour le Développement et l’Environnement, nominata al Premio Nobel per la Pace 2018 per il continuo impegno nel salvare vite nel Mediterraneo. I pescatori di Zarzis infatti, lavorando nel mare aperto tra la Libia e la Sicilia, si trovano da più di quindici anni in prima linea nei soccorsi a causa della graduale chiusura ermetica delle vie legali per l’Europa, che ha avuto come conseguenza l’inizio di traversate con mezzi sempre più di fortuna.
      I frutti della rivoluzione

      Sebbene la legge del mare abbia sempre prevalso per Chamseddine e i pescatori di Zarzis, prima della rivoluzione tunisina del 2011 i pescatori venivano continuamente minacciati dalla polizia del regime di Ben Ali, stretto collaboratore sia dell’Italia che dell’Unione europea in materia di controlli alle frontiere. “Ci dicevano di lasciarli in mare e che ci avrebbero messo tutti in prigione”, spiegava Bourassine, “ma un uomo in mare è un uomo morto, e alla polizia abbiamo sempre risposto che piuttosto saremmo andati in prigione”. In prigione finivano anche i cittadini tunisini che tentavano la traversata e che venivano duramente puniti dal loro stesso governo.

      Tutto è cambiato con la rivoluzione. Oltre 25.000 tunisini si erano imbarcati verso l’Italia, di cui tanti proprio dalle coste di Zarzis. “Non c’erano più né stato né polizia, era il caos assoluto” ricorda Anis Souei, segretario generale dell’Associazione. Alcuni pescatori non lasciavano le barche nemmeno di notte perché avevano paura che venissero rubate, i più indebitati invece tentavano di venderle, mentre alcuni abitanti di Zarzis, approfittando del vuoto di potere, si improvvisavano ‘agenti di viaggi’, cercando di fare affari sulle spalle degli harraga – parola nel dialetto arabo nord africano per le persone che ‘bruciano’ passaporti e frontiera attraversando il Mediterraneo. Chamseddine Bourassine e i suoi colleghi, invece, hanno stretto un patto morale, stabilendo di non vendere le proprie barche per la harga. Si sono rimboccati le maniche e hanno fondato un’associazione per migliorare le condizioni di lavoro del settore, per sensibilizzare sulla preservazione dell’ambiente – condizione imprescindibile per la pesca – e dare una possibilità di futuro ai giovani.

      E proprio verso i più giovani, quelli che più continuano a soffrire dell’alto tasso di disoccupazione, l’associazione ha dedicato diverse campagne di sensibilizzazione. “Andiamo nelle scuole per raccontare quello che vediamo e mostriamo ai ragazzi le foto dei corpi che troviamo in mare, perché si rendano conto del reale pericolo della traversata”, racconta Anis. Inoltre hanno organizzato formazioni di meccanica, riparazione delle reti e pesca subacquea, collaborando anche con diversi progetti internazionali, come NEMO, organizzato dal CIHEAM-Bari e finanziato dalla Cooperazione Italiana. Proprio all’interno di questo progetto è nato il museo di Zarzis della pesca artigianale, dove tra nodi e anforette per la pesca del polipo, c’è una mostra fotografica dei salvataggi in mare intitolata “Gli eroi anonimi di Zarzis”.

      La guerra civile libica

      Con l’inasprirsi della guerra civile libica e l’inizio di veri e propri traffici di esseri umani, le frontiere marittime si sono trasformate in zone al di fuori della legge.
      “I pescatori tunisini vengono regolarmente rapiti dalle milizie o dalle autorità libiche” diceva Bourassine. Queste, una volta sequestrata la barca e rubato il materiale tecnico, chiedevano alle autorità tunisine un riscatto per il rilascio, cosa peraltro successa anche a pescatori siciliani. Sebbene le acque di fronte alla Libia siano le più ricche, soprattutto per il gambero rosso, e per anni siano state zone di pesca per siciliani, tunisini, libici e anche egiziani, ad oggi i pescatori di Zarzis si sono visti obbligati a lasciare l’eldorado dei tonni rossi e dei gamberi rossi, per andare più a ovest.

      “Io pesco nelle zone della rotta delle migrazioni, quindi è possibile che veda migranti ogni volta che esco” diceva Bourassine, indicando sul monitor della sala comandi del suo peschereccio l’est di Lampedusa, durante le riprese del film.

      Con scarso sostegno delle guardie costiere tunisine, a cui non era permesso operare oltre le proprie acque territoriali, i pescatori per anni si sono barcamenati tra il lavoro e la responsabilità di soccorrere le persone in difficoltà che, con l’avanzare del conflitto in Libia, partivano su imbarcazioni sempre più pericolose.

      “Ma quando in mare vedi 100 o 120 persone cosa fai?” si chiede Slaheddine Mcharek, anche lui membro dell’Associazione, “pensi solo a salvare loro la vita, ma non è facile”. Chi ha visto un’operazione di soccorso in mare infatti può immaginare i pericoli di organizzare un trasbordo su un piccolo peschereccio che non metta a repentaglio la stabilità della barca, soprattutto quando ci sono persone che non sanno nuotare. Allo stesso tempo non pescare significa non lavorare e perdere soldi sia per il capitano che per l’equipaggio.
      ONG e salvataggio

      Quando nell’estate del 2015 le navi di ricerca e soccorso delle ONG hanno cominciato ad operare nel Mediterraneo, Chamseddine e tutti i pescatori si sono sentiti sollevati, perché le loro barche non erano attrezzate per centinaia di persone e le autorità tunisine post-rivoluzionarie non avevano i mezzi per aiutarli. Quell’estate, l’allora direttore di Medici Senza Frontiere Foued Gammoudi organizzò una formazione di primo soccorso in mare per sostenere i pescatori. Dopo questa formazione MSF fornì all’associazione kit di pronto soccorso, giubbotti e zattere di salvataggio per poter assistere meglio i rifugiati in mare. L’ONG ha anche dato ai pescatori le traduzioni in italiano e inglese dei messaggi di soccorso e di tutti i numeri collegati al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (MRCC) a Roma, che coordina i salvataggi tra le imbarcazioni nei paraggi pronte ad intervenire, fossero mercantili, navi delle ONG, imbarcazioni militari o della guardia costiera, e quelle dei pescatori di entrambe le sponde del mare. Da quel momento i pescatori potevano coordinarsi a livello internazionale e aspettare che le navi più grandi arrivassero, per poi riprendere il loro lavoro. Solo una settimana dopo la formazione, Gammoudi andò a congratularsi con Chamseddine al porto di Zarzis per aver collaborato con la nave Bourbon-Argos di MSF nel salvataggio di 550 persone.

      Oltre al primo soccorso, MSF ha offerto ai membri dell’associazione una formazione sulla gestione dei cadaveri, fornendo sacchi mortuari, disinfettanti e guanti. C’è stato un periodo durato vari mesi, prima dell’arrivo delle ONG, in cui i pescatori avevano quasi la certezza di vedere dei morti in mare. Nell’assenza di altre imbarcazioni in prossimità della Libia, pronte ad aiutare barche in difficoltà, i naufragi non facevano che aumentare. Proprio come sta succedendo in queste settimane, durante le quali il tasso di mortalità in proporzione agli arrivi in Italia è cresciuto del 5,6%. Dal 26 agosto, nessuna ONG ha operato in SAR libica, e questo a causa delle politiche anti-migranti di Salvini e dei suoi omologhi europei.

      Criminalizzazione della solidarietà

      La situazione però è peggiorata di nuovo nell’estate del 2017, quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti stringeva accordi con le milizie e la guardia costiera libica per bloccare i rifugiati nei centri di detenzione in Libia, mentre approvava leggi che criminalizzano e limitano l’attività delle ONG in Italia.

      Le campagne di diffamazione contro atti di solidarietà e contro le ONG non hanno fatto altro che versare ancora più benzina sui sentimenti anti-immigrazione che infiammano l’Europa. Nel bel mezzo di questo clima, il 6 agosto 2017, i pescatori di Zarzis si erano trovati in un faccia a faccia con la nave noleggiata da Generazione Identitaria, la C-Star, che attraversava il Mediterraneo per ostacolare le operazioni di soccorso e riportare i migranti in Africa.

      Armati di pennarelli rossi, neri e blu, hanno appeso striscioni sulle barche in una mescolanza di arabo, italiano, francese e inglese: “No Racists!”, “Dégage!”, “C-Star: No gasolio? No acqua? No mangiaro?“.

      Chamseddine Bourassine, con pesanti occhiaie da cinque giorni di lavoro in mare, appena appresa la notizia ha organizzato un sit-in con tanto di media internazionali al porto di Zarzis. I loro sforzi erano stati incoraggiati dalle reti antirazziste in Sicilia, che a loro volta avevano impedito alla C-Star di attraccare nel porto di Catania solo un paio di giorni prima.
      La reazione tunisina dopo l’arresto di Bourassine

      Non c’è quindi da sorprendersi se dopo l’arresto di Chamseddine, Salem, Farhat, Lotfi, Ammar e Bachir l’associazione, le famiglie, gli amici e i colleghi hanno riempito tre pullman da Zarzis per protestare davanti all’ambasciata italiana di Tunisi. La Terre Pour Tous, associazione di famiglie di tunisini dispersi, e il Forum economico e sociale (FTDES) si sono uniti alla protesta per chiedere l’immediato rilascio dei pescatori. Una protesta gemella è stata organizzata anche dalla diaspora di Zarzis davanti all’ambasciata italiana a Parigi, mentre reti di pescatori provenienti dal Marocco e dalla Mauritania hanno rilasciato dichiarazioni di sostegno. Il Segretario di Stato tunisino per l’immigrazione, Adel Jarboui, ha esortato le autorità italiane a liberare i pescatori.

      Nel frattempo Bourassine racconta dalla prigione al fratello: “stavo solo aiutando delle persone in difficoltà in mare. Lo rifarei”.


      http://openmigration.org/analisi/i-pescatori-eroi-di-zarzis-in-galera

    • When rescue at sea becomes a crime: who the Tunisian fishermen arrested in Italy really are

      Fishermen networks from Morocco and Mauritania have released statements of support, and the Tunisian State Secretary for Immigration, Adel Jarboui, urged Italian authorities to release the fishermen, considered heroes in Tunisia.

      On the night of Wednesday, August 29, 2018, six Tunisian fishermen were arrested in Italy. Earlier that day, they had set off from their hometown of Zarzis, the last important Tunisian port before Libya, to cast their nets in the open sea between North Africa and Sicily. The fishermen then sighted a small vessel whose engine had broken, and that had started taking in water. After giving the fourteen passengers water, milk and bread – which the fishermen carry in abundance, knowing they might encounter refugee boats in distress – they tried making contact with the Italian coastguard.

      After hours of waiting for a response, though, the men decided to tow the smaller boat in the direction of Lampedusa – Italy’s southernmost island, to help Italian authorities in their rescue operations. At around 24 miles from Lampedusa, the Guardia di Finanza (customs police) took the fourteen people on board, and then proceeded to violently arrest the six fishermen. According to the precautionary custody order issued by the judge in Agrigento (Sicily), the men stand accused of smuggling, a crime that could get them up to fifteen years in jail if the case goes to trial. The fishermen have since been held in Agrigento prison, and their boat has been seized.

      This arrest comes after a summer of Italian politicians closing their ports to NGO rescue boats, and only a week after far-right Interior Minister Matteo Salvini[1] prevented for ten days the disembarkation of 177 Eritrean and Somali asylum seekers from the Italian coastguard ship Diciotti. It is yet another step towards dissuading anyone – be it Italian or Tunisian citizens, NGO or coastguard ships – from coming to the aid of refugee boats in danger at sea. Criminalising rescue, a process that has been pushed by different Italian governments since 2016, will continue to have tragic consequences for people on the move in the Mediterranean Sea.
      The fishermen of Zarzis

      Among those arrested is Chamseddine Bourassine, the president of the Association “Le Pêcheur” pour le Développement et l’Environnement, which was nominated for the Nobel Peace Prize this year for the Zarzis fishermen’s continuous engagement in saving lives in the Mediterranean.

      Chamseddine, a fishing boat captain in his mid-40s, was one of the first people I met in Zarzis when, in the summer of 2015, I moved to this southern Tunisian town to start fieldwork for my PhD. On a sleepy late-August afternoon, my interview with Foued Gammoudi, the then Médecins Sans Frontières (MSF) Head of Mission for Tunisia and Libya, was interrupted by an urgent phone call. “The fishermen have just returned, they saved 550 people, let’s go to the port to thank them.” Just a week earlier, Chamseddine Bourassine had been among the 116 fishermen from Zarzis to have received rescue at sea training with MSF. Gammoudi was proud that the fishermen had already started collaborating with the MSF Bourbon Argos ship to save hundreds of people. We hurried to the port to greet Chamseddine and his crew, as they returned from a three-day fishing expedition which involved, as it so often had done lately, a lives-saving operation.

      The fishermen of Zarzis have been on the frontline of rescue in the Central Mediterranean for over fifteen years. Their fishing grounds lying between Libya – the place from which most people making their way undocumented to Europe leave – and Sicily, they were often the first to come to the aid of refugee boats in distress. “The fishermen have never really had a choice: they work here, they encounter refugee boats regularly, so over the years they learnt to do rescue at sea”, explained Gammoudi. For years, fishermen from both sides of the Mediterranean were virtually alone in this endeavour.
      Rescue before and after the revolution

      Before the Tunisian revolution of 2011, Ben Ali threatened the fishermen with imprisonment for helping migrants in danger at sea – the regime having been a close collaborator of both Italy and the European Union in border control matters. During that time, Tunisian nationals attempting to do the harga – the North African Arabic dialect term for the crossing of the Sicilian Channel by boat – were also heavily sanctioned by their own government.

      Everything changed though with the revolution. “It was chaos here in 2011. You cannot imagine what the word chaos means if you didn’t live it”, recalled Anis Souei, the secretary general of the “Le Pêcheur” association. In the months following the revolution, hundreds of boats left from Zarzis taking Tunisians from all over the country to Lampedusa. Several members of the fishermen’s association remember having to sleep on their fishing boats at night to prevent them from being stolen for the harga. Other fishermen instead, especially those who were indebted, decided to sell their boats, while some inhabitants of Zarzis took advantage of the power vacuum left by the revolution and made considerable profit by organising harga crossings. “At that time there was no police, no state, and even more misery. If you wanted Lampedusa, you could have it”, rationalised another fisherman. But Chamseddine Bourassine and his colleagues saw no future in moving to Europe, and made a moral pact not to sell their boats for migration.

      They instead remained in Zarzis, and in 2013 founded their association to create a network of support to ameliorate the working conditions of small and artisanal fisheries. The priority when they started organising was to try and secure basic social security – something they are still struggling to sustain today. With time, though, the association also got involved in alerting the youth to the dangers of boat migration, as they regularly witnessed the risks involved and felt compelled to do something for younger generations hit hard by staggering unemployment rates. In this optic, they organised training for the local youth in boat mechanics, nets mending, and diving, and collaborated in different international projects, such as NEMO, organised by the CIHEAM-Bari and funded by the Italian Ministry of Foreign Affairs Directorate General for Cooperation Development. This project also helped the fishermen build a museum to explain traditional fishing methods, the first floor of which is dedicated to pictures and citations from the fishermen’s long-term voluntary involvement in coming to the rescue of refugees in danger at sea.

      This role was proving increasingly vital as the Libyan civil war dragged on, since refugees were being forced onto boats in Libya that were not fit for travel, making the journey even more hazardous. With little support from Tunisian coastguards, who were not allowed to operate beyond Tunisian waters, the fishermen juggled their responsibility to bring money home to their families and their commitment to rescuing people in distress at sea. Anis remembers that once in 2013, three fishermen boats were out and received an SOS from a vessel carrying roughly one hundred people. It was their first day out, and going back to Zarzis would have meant losing petrol money and precious days of work, which they simply couldn’t afford. After having ensured that nobody was ill, the three boats took twenty people on board each, and continued working for another two days, sharing food and water with their guests.

      Sometimes, though, the situation on board got tense with so many people, food wasn’t enough for everybody, and fights broke out. Some fishermen recall incidents during which they truly feared for their safety, when occasionally they came across boats with armed men from Libyan militias. It was hard for them to provide medical assistance as well. Once a woman gave birth on Chamseddine’s boat – that same boat that has now been seized in Italy – thankfully there had been no complications.
      NGO ships and the criminalisation of rescue

      During the summer of 2015, therefore, Chamseddine felt relieved that NGO search and rescue boats were starting to operate in the Mediterranean. The fishermen’s boats were not equipped to take hundreds of people on board, and the post-revolutionary Tunisian authorities didn’t have the means to support them. MSF had provided the association with first aid kits, life jackets, and rescue rafts to be able to better assist refugees at sea, and had given them a list of channels and numbers linked to the Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) in Rome for when they encountered boats in distress.

      They also offered training in dead body management, and provided the association with body bags, disinfectant and gloves. “When we see people at sea we rescue them. It’s not only because we follow the laws of the sea or of religion: we do it because it’s human”, said Chamseddine. But sometimes rescue came too late, and bringing the dead back to shore was all the fishermen could do.[2] During 2015 the fishermen at least felt that with more ships in the Mediterranean doing rescue, the duty dear to all seafarers of helping people in need at sea didn’t only fall on their shoulders, and they could go back to their fishing.

      The situation deteriorated again though in the summer of 2017, as Italian Interior Minister Minniti struck deals with Libyan militias and coastguards to bring back and detain refugees in detention centres in Libya, while simultaneously passing laws criminalising and restricting the activity of NGO rescue boats in Italy.

      Media smear campaigns directed against acts of solidarity with migrants and refugees and against the work of rescue vessels in the Mediterranean poured even more fuel on already inflamed anti-immigration sentiments in Europe.

      In the midst of this, on 6 August 2017, the fishermen of Zarzis came face to face with a far-right vessel rented by Generazione Identitaria, the C-Star, cruising the Mediterranean allegedly on a “Defend Europe” mission to hamper rescue operations and bring migrants back to Africa. The C-Star was hovering in front of Zarzis port, and although it had not officially asked port authorities whether it could dock to refuel – which the port authorities assured locals it would refuse – the fishermen of Zarzis took the opportunity to let these alt-right groups know how they felt about their mission.

      Armed with red, black and blue felt tip pens, they wrote in a mixture of Arabic, Italian, French and English slogans such as “No Racists!”, “Dégage!” (Get our of here!), “C-Star: No gasoil? No acqua? No mangiato?” ?” (C-Star: No fuel? No water? Not eaten?), which they proceeded to hang on their boats, ready to take to sea were the C-Star to approach. Chamseddine Bourassine, who had returned just a couple of hours prior to the impending C-Star arrival from five days of work at sea, called other members of the fishermen association to come to the port and join in the peaceful protest.[3] He told the journalists present that the fishermen opposed wholeheartedly the racism propagated by the C-Star members, and that having seen the death of fellow Africans at sea, they couldn’t but condemn these politics. Their efforts were cheered on by anti-racist networks in Sicily, who had in turn prevented the C-Star from docking in Catania port just a couple of days earlier.

      It is members from these same networks in Sicily together with friends of the fishermen in Tunisia and internationally that are now engaged in finding lawyers for Chamseddine and his five colleagues.

      Their counterparts in Tunisia joined the fishermen’s families and friends on Thursday morning to protest in front of the Italian embassy in Tunis. Three busloads arrived from Zarzis after an 8-hour night-time journey for the occasion, and many others had come from other Tunisian towns to show their solidarity. Gathered there too were members of La Terre Pour Tous, an association of families of missing Tunisian migrants, who joined in to demand the immediate release of the fishermen. A sister protest was organised by the Zarzis diaspora in front of the Italian embassy in Paris on Saturday afternoon. Fishermen networks from Morocco and Mauritania also released statements of support, and the Tunisian State Secretary for Immigration Adel Jarboui urged Italian authorities to release the fishermen, who are considered heroes in Tunisia.

      The fishermen’s arrest is the latest in a chain of actions taken by the Italian Lega and Five Star government to further criminalise rescue in the Mediterranean Sea, and to dissuade people from all acts of solidarity and basic compliance with international norms. This has alarmingly resulted in the number of deaths in 2018 increasing exponentially despite a drop in arrivals to Italy’s southern shores. While Chamseddine’s lawyer hasn’t yet been able to visit him in prison, his brother and cousin managed to go see him on Saturday. As for telling them about what happened on August 29, Chamseddine simply says that he was assisting people in distress at sea: he’d do it again.

      https://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/valentina-zagaria/when-rescue-at-sea-becomes-crime-who-tunisian-fishermen-arrested-in-i

    • Les pêcheurs de Zarzis, ces héros que l’Italie préfère voir en prison

      Leurs noms ont été proposés pour le prix Nobel de la paix mais ils risquent jusqu’à quinze ans de prison : six pêcheurs tunisiens se retrouvent dans le collimateur des autorités italiennes pour avoir aidé des migrants en Méditerranée.

      https://www.middleeasteye.net/fr/reportages/les-p-cheurs-de-zarzis-ces-h-ros-que-l-italie-pr-f-re-voir-en-prison-

    • Les pêcheurs tunisiens incarcérés depuis fin août en Sicile sont libres

      Arrêtés après avoir tracté une embarcation de quatorze migrants jusqu’au large de Lampedusa, un capitaine tunisien et son équipage sont soupçonnés d’être des passeurs. Alors qu’en Tunisie, ils sont salués comme des sauveurs.

      Les six pêcheurs ont pu reprendre la mer afin de regagner Zarzis, dans le sud tunisien. Les familles n’ont pas caché leur soulagement. Un accueil triomphal, par des dizaines de bateaux au large du port, va être organisé, afin de saluer le courage de ces sauveteurs de migrants à la dérive.

      Et peu importe si l’acte est dénoncé par l’Italie. Leurs amis et collègues ne changeront pas leurs habitudes de secourir toute embarcation en danger.

      A l’image de Rya, la cinquantaine, marin pêcheur à Zarzis qui a déjà sauvé des migrants en perdition et ne s’arrêtera pas : « Il y a des immigrés, tous les jours il y en a. De Libye, de partout. Nous on est des pêcheurs, on essaie de sauver les gens. C’est tout, c’est très simple. Nous on ne va pas s’arrêter, on va sauver d’autres personnes. Ils vont nous mettre en prison, on est là, pas de problème. »

      Au-delà du soulagement de voir rentrer les marins au pays, des voix s’élèvent pour crier leur incompréhension. Pour Halima Aissa, présidente de l’Association de recherche des disparus tunisiens à l’étranger, l’action de ce capitaine de pêche ne souffre d’aucune légitimité : « C’est un pêcheur tunisien, mais en tant qu’humaniste, si on trouve des gens qui vont couler en mer, notre droit c’est de les sauver. C’est inhumain de voir des gens mourir et de ne pas les sauver, ça c’est criminel. »

      Ces arrestations, certes suivies de libérations, illustrent pourtant la politique du nouveau gouvernement italien, à en croire Romdhane Ben Amor, du Forum tunisien des droits économiques et sociaux qui s’inquiète de cette nouvelle orientation politique : « Ça a commencé par les ONG qui font des opérations de sauvetage dans la Méditerranée et maintenant ça va vers les pêcheurs. C’est un message pour tous ceux qui vont participer aux opérations de sauvetage. Donc on aura plus de danger dans la mer, plus de tragédie dans la mer. » Pendant ce temps, l’enquête devrait se poursuivre encore plusieurs semaines en Italie.

      ■ Dénoncés par Frontex

      Détenus dans une prison d’Agrigente depuis le 29 août, les six pêcheurs tunisiens qui étaient soupçonnés d’aide à l’immigration illégale ont retrouvé leur liberté grâce à la décision du tribunal de réexamen de Palerme. L’équivalent italien du juge des libertés dans le système français.

      Le commandant du bateau de pêche, Chamseddine Bourassine, président de l’association des pêcheurs de Zarzis, ville du sud de la Tunisie, avait été arrêté avec les 5 membres d’équipage pour avoir secouru au large de l’île de Lampedusa une embarcation transportant 14 migrants.

      C’est un #avion_de_reconnaissance, opérant pour l’agence européenne #Frontex, qui avait repéré leur bateau tractant une barque et averti les autorités italiennes, précise notre correspondante à Rome, Anne Le Nir.

      http://www.rfi.fr/afrique/20180923-pecheurs-tunisiens-incarceres-depuis-fin-aout-sicile-sont-libres

    • A Zarzis, les pêcheurs sauveurs de migrants menacés par l’Italie

      Après l’arrestation le 29 août de six pêcheurs tunisiens à Lampedusa, accusés d’être des passeurs alors qu’ils avaient secouru des migrants, les marins de la petite ville de Zarzis au sud de la Tunisie ont peur des conséquences du sauvetage en mer.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/121118/zarzis-les-pecheurs-sauveurs-de-migrants-menaces-par-l-italie
      #pêcheurs_tunisiens

    • Migrants : quand les pêcheurs tunisiens deviennent sauveteurs

      En Méditerranée, le sauvetage des candidats à l’exil et les politiques européennes de protection des frontières ont un impact direct sur le village de pêcheurs de #Zarzis, dans le sud de la Tunisie. Dans le code de la mer, les pêcheurs tout comme les gardes nationaux ont l’obligation de sauver les personnes en détresse en mer. Aujourd’hui, ce devoir moral pousse les pêcheurs à prendre des risques, et à se confronter aux autorités européennes.

      Chemssedine Bourassine a été arrêté fin août 2018 avec son équipage par les autorités italiennes. Ce pêcheur était accusé d’avoir fait le passeur de migrants car il avait remorqué un canot de 14 personnes en détresse au large de Lampedusa. Lui arguait qu’il ne faisait que son devoir en les aidant, le canot étant à la dérive, en train de couler, lorsqu’il l’avait trouvé.

      Revenu à bon port après trois mois sans son navire, confisqué par les autorités italiennes, cet épisode pèse lourd sur lui et ses compères. Nos reporters Lilia Blaise et Hamdi Tlili sont allés à la rencontre de ces pêcheurs, pour qui la mer est devenue une source d’inquiétudes.

      https://www.france24.com/fr/20190306-focus-tunisie-migrants-mediterranee-mer-sauvetage-pecheurs

      https://www.youtube.com/watch?v=vKpxQxiJCSc

    • Les pêcheurs tunisiens, sauveurs d’hommes en Méditerranée

      Lorsque Chamseddine Bourassine a vu l’embarcation de 69 migrants à la dérive au large de la Tunisie, il a appelé les secours et continué à pêcher. Mais deux jours plus tard, au moment de quitter la zone, il a bien fallu les embarquer.

      Les pêcheurs tunisiens se retrouvent de plus en plus seuls pour secourir les embarcations clandestines quittant la Libye voisine vers l’Italie, en raison des difficultés des ONG en Méditerranée orientale et du désengagement des navires militaires européens.

      Le 11 mai, les équipages de M. Bourassine et de trois autres pêcheurs ont ramené à terre les 69 migrants partis cinq jours plus tôt de Zouara dans l’ouest libyen.

      « La zone où nous pêchons est un point de passage » entre Zouara et l’île italienne de Lampedusa, souligne Badreddine Mecherek, un patron de pêche de Zarzis (sud), port voisin de la Libye plongée dans le chaos et plaque tournante pour les migrants d’Afrique, mais aussi d’Asie.

      Au fil des ans, la plupart des pêcheurs de Zarzis ont ramené des migrants, sauvant des centaines de vies.

      Avec la multiplication de départs après l’hiver, les pêcheurs croisent les doigts pour ne être confrontés à des tragédies.

      « On prévient d’abord les autorités, mais au final on les sauve nous-mêmes », soupire M. Mecherek, quinquagénaire bougonnant, en bricolant le Asil, son sardinier.

      La marine tunisienne, aux moyens limités, se charge surtout d’intercepter les embarcations clandestines dans ses seules eaux territoriales.

      Contactées par l’AFP pour commenter, les autorités tunisiennes n’ont pas souhaité s’exprimer. Celles-ci interdisent depuis le 31 mai le débarquement de 75 migrants sauvés de la noyade dans les eaux internationales, sans avancer de raisons.

      – « Comme un ange » -

      « Tout le monde s’est désengagé », déplore M. Mecherek.

      « Si nous trouvons des migrants au deuxième jour (de notre sortie en mer), nous avons pu travailler une nuit, mais si nous tombons sur eux dès la première nuit, il faut rentrer », ajoute-t-il. « C’est très compliqué de terminer le travail avec des gens à bord ».

      La situation est particulièrement complexe quand les pêcheurs tombent sur des migrants à proximité de l’Italie.

      M. Bourassine, qui a voulu rapprocher des côtes italiennes une embarcation en détresse mi-2018 au large de Lampedusa, a été emprisonné quatre semaines avec son équipage en Sicile et son bateau confisqué pendant de longs mois.

      Ces dernières années, les navires des ONG et ceux de l’opération antipasseurs européenne Sophia étaient intervenus pour secourir les migrants. Mais les opérations ont pâti en 2019 de la réduction du champ d’action de Sophia et des démarches contre les ONG des Etats européens cherchant à limiter l’arrivée des migrants.

      « Avec leurs moyens, c’était eux qui sauvaient les gens, on arrivait en deuxième ligne. Maintenant le plus souvent on est les premiers, et si on n’est pas là, les migrants meurent », affirme M. Mecherek.

      C’est ce qui est arrivé le 10 mai. Un chalutier a repêché de justesse 16 migrants ayant passé huit heures dans l’eau. Une soixantaine s’étaient noyés avant son arrivée.

      Ahmed Sijur, l’un des miraculés, se souvient de l’arrivée du bateau, comme « un ange ».

      « J’étais en train d’abandonner mais Dieu a envoyé des pêcheurs pour nous sauver. S’ils étaient arrivés dix minutes plus tard, je crois que j’aurais lâché », explique ce Bangladais de 30 ans.

      – « Pas des gens » ! -

      M. Mecherek est fier mais inquiet. « On aimerait ne plus voir tous ces cadavres. On va pêcher du poisson, pas des gens » !.

      « J’ai 20 marins à bord, il disent +qui va faire manger nos familles, les clandestins ?+ Et ils ont peur des maladies, parfois des migrants ont passé 15-20 jours en mer, ils ne se sont pas douchés, il y a des odeurs, c’est compliqué ». « Mais nos pêcheurs ne laisseront jamais des gens mourir ».

      Pour Mongi Slim, responsable du Croissant-Rouge tunisien, « les pêcheurs font pratiquement les gendarmes de la mer et peuvent alerter. Des migrants nous disent que certains gros bateaux passent » sans leur porter secours.

      Même les gros thoniers de Zarzis, sous pression pour pêcher leur quota en une sortie annuelle, reconnaissent éviter parfois d’embarquer les migrants mais assurent qu’ils ne les abandonnent pas sans secours.

      « On signale les migrants, mais on ne peut pas les ramener à terre : on n’a que quelques semaines pour pêcher notre quota », souligne un membre d’équipage.

      Double peine pour les sardiniers : les meilleurs coins de pêche au large de l’ouest libyen leur sont inaccessibles car les gardes-côtes et les groupes armés les tiennent à l’écart.

      « Ils sont armés et ils ne rigolent pas », explique M. Mecherek. « Des pêcheurs se sont fait arrêter », ajoute-t-il, « nous sommes des témoins gênants ».

      Pour M. Bourassine « l’été s’annonce difficile : avec la reprise des combats en Libye, les trafiquants sont de nouveau libres de travailler, il risque d’y avoir beaucoup de naufrages ».


      https://www.courrierinternational.com/depeche/les-pecheurs-tunisiens-sauveurs-dhommes-en-mediterranee.afp.c

    • Les pêcheurs tunisiens, désormais en première ligne pour sauver les migrants en Méditerranée

      Les embarcations en péril sont quasiment vouées à l’abandon avec le recul forcé des opérations de sauvetage des ONG et de la lutte contre les passeurs.

      Lorsque Chamseddine Bourassine a vu l’embarcation de 69 migrants à la dérive au large de la Tunisie, il a appelé les secours et continué à pêcher. Mais, deux jours plus tard, au moment de quitter la zone, il a bien fallu les embarquer puisque personne ne leur était venu en aide.

      Les pêcheurs tunisiens se retrouvent de plus en plus seuls pour secourir les embarcations clandestines quittant la Libye voisine vers l’Italie, en raison des difficultés des ONG en Méditerranée orientale et du désengagement des navires militaires européens.

      Le 11 mai, les équipages de M. Bourassine et de trois autres pêcheurs ont ramené à terre les 69 migrants partis cinq jours plus tôt de Zouara, dans l’Ouest libyen. « La zone où nous pêchons est un point de passage » entre Zouara et l’île italienne de Lampedusa, explique Badreddine Mecherek, un patron de pêche de Zarzis (sud). Le port est voisin de la Libye, plongée dans le chaos et plaque tournante pour les migrants d’Afrique, mais aussi d’Asie.
      « Tout le monde s’est désengagé »

      Au fil des ans, la plupart des pêcheurs de Zarzis ont ramené des migrants, sauvant des centaines de vies. Avec la multiplication de départs après l’hiver, les pêcheurs croisent les doigts pour ne pas être confrontés à des tragédies. « On prévient d’abord les autorités, mais au final on les sauve nous-mêmes », soupire M. Mecherek, quinquagénaire bougonnant, en bricolant le Asil, son sardinier.

      La marine tunisienne, aux moyens limités, se charge surtout d’intercepter les embarcations clandestines dans ses seules eaux territoriales. Contactées par l’AFP pour commenter, les autorités tunisiennes n’ont pas souhaité s’exprimer. Celles-ci interdisent depuis le 31 mai le débarquement de 75 migrants sauvés de la noyade dans les eaux internationales, sans avancer de raisons.

      « Tout le monde s’est désengagé, déplore M. Mecherek. Si nous trouvons des migrants au deuxième jour de notre sortie en mer, cela nous laisse le temps de travailler une nuit. Mais si nous tombons sur eux dès la première nuit, il faut rentrer. C’est très compliqué de terminer le travail avec des gens à bord. »

      La situation est particulièrement complexe quand les pêcheurs tombent sur des migrants à proximité de l’Italie. M. Bourassine, qui avait voulu rapprocher des côtes italiennes une embarcation en détresse mi-2018 au large de Lampedusa, a été emprisonné quatre semaines en Sicile avec son équipage et son bateau, confisqué pendant de longs mois.
      « Un ange »

      Ces dernières années, les navires des ONG et ceux de l’opération européenne antipasseurs Sophia intervenaient pour secourir les migrants. Mais ces manœuvres de sauvetage ont pâti en 2019 de la réduction du champ d’action de Sophia et des démarches engagées contre les ONG par des Etats européens qui cherchent à limiter l’arrivée des migrants.

      « Avec leurs moyens, c’était eux qui sauvaient les gens, on arrivait en deuxième ligne. Maintenant, le plus souvent, on est les premiers, et si on n’est pas là, les migrants meurent », affirme M. Mecherek.

      C’est ce qui est arrivé le 10 mai. Un chalutier a repêché de justesse 16 migrants ayant passé huit heures dans l’eau. Une soixantaine d’entre eux s’étaient noyés avant son arrivée.

      Ahmed Sijur, l’un des miraculés, se souvient de l’arrivée du bateau, comme d’« un ange ». « J’étais en train d’abandonner, mais Dieu a envoyé des pêcheurs pour nous sauver. S’ils étaient arrivés dix minutes plus tard, je crois que j’aurais lâché », explique ce Bangladais de 30 ans.

      M. Mecherek est fier mais inquiet : « On aimerait ne plus voir tous ces cadavres. On va pêcher du poisson, pas des gens ! ». « J’ai vingt marins à bord, explique-t-il encore. Ils disent “Qui va faire manger nos familles, les clandestins ?” Et ils ont peur des maladies, parfois des migrants ont passé quinze à vingt jours en mer, ils ne se sont pas douchés. C’est compliqué, mais nos pêcheurs ne laisseront jamais des gens mourir. » Les petits chalutiers ont donc pris l’habitude d’emporter de nombreux gilets de sauvetage avant leur départ en mer.
      « L’été s’annonce difficile »

      Pour Mongi Slim, responsable du Croissant-Rouge tunisien, « les pêcheurs sont devenus en pratique les gendarmes de la mer et peuvent alerter. Des migrants nous disent que certains gros bateaux passent » sans leur porter secours.

      Les gros thoniers de Zarzis, sous pression pour pêcher leur quota en une seule sortie annuelle, reconnaissent éviter parfois d’embarquer les migrants, mais assurent qu’ils ne les abandonnent pas sans secours. « On signale les migrants, mais on ne peut pas les ramener à terre : on n’a que quelques semaines pour pêcher notre quota », explique un membre d’équipage.

      Double peine pour les sardiniers : les meilleurs coins de pêche au large de l’Ouest libyen leur sont devenus inaccessibles, car les garde-côtes et les groupes armés les tiennent à l’écart. « Ils sont armés et ils ne rigolent pas, témoigne M. Mecherek. Des pêcheurs se sont fait arrêter. Nous sommes des témoins gênants. »

      Pour M. Bourassine, « l’été s’annonce difficile : avec la reprise des combats en Libye, les trafiquants sont de nouveau libres de travailler, il risque d’y avoir beaucoup de naufrages ».

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2019/06/17/les-pecheurs-tunisiens-desormais-en-premiere-ligne-pour-sauver-les-migrants-

  • RTS, Détours | Ces anonymes qui rendent #hommage aux migrants

    Des milliers de migrants clandestins ont perdu la vie en Méditerranée. Les naufrages se succèdent et se résument à des chiffres vite recouverts par d’autres informations.

    Premier épisode

    Avec Saida Zha aux pompes funèbres de Los Barrios en Andalousie, Ildefonso Sena, journaliste à Tarifa, Efi Latsoudi, fondatrice de l’association d’aide aux migrants « Le village de tous » à #Mytilène en #Grèce, et Lino Tumbiolo, responsable d’une des principales coopératives de pêche en haute mer à #Mazara_del_Vallo en #Sicile.

    Deuxième épisode

    Avec Domenico Asaro, dit Mimmo, pêcheur à Mazara del Vallo en Sicile, Roberto Ingarciola, armateur capitaine, Christos Manolelis, agent administratif et pêcheur amateur sur l’île de #Lesbos, et #Pavlos_Pavlidis, médecin légiste à #Alexandroupolis, en #Grèce.

    Troisième épisode

    Avec Mehmet Serif Damatoglou, imam de #Sidero près de la frontière gréco-turque, Marili Stroux, membre du collectif « Welcome To Europe » près de #Thermi, Annalisa D’Ancona, Gianpiero Caldarella, Giacomo Sferlazzo et Luca Vitale à #Lampedusa où le collectif #Askavusa – « Pieds nus » en sicilien – a créé le Porto M, un musée autogéré dédié aux migrants.

    http://www.asile.ch/vivre-ensemble/2015/05/09/rts-detours-ces-anonymes-qui-rendent-hommage-aux-migrants
    #cadavres #tombes #mourir_en_mer #asile #réfugiés #Méditerranée #solidarité #enterrement #Grèce #Italie #Espagne