• #Ospiti_in_arrivo, la risposta ai bisogni delle persone migranti che raggiungono #Udine

    Lo scorso anno l’associazione ha fornito quasi 1.300 pasti tra persone stabili nella città e altre appena arrivate dalla rotta balcanica e in viaggio verso altre destinazioni. Oltre all’attività in strada, i volontari e le volontarie garantiscono l’apertura di una scuola di italiano, uno sportello per il lavoro e una costante attività di sensibilizzazione

    “Una risposta dal basso che negli anni si è fatta via via sempre più articolata e puntuale”. Così descrive le sue attività Ospiti in arrivo, associazione di Udine che giorno dopo giorno ha visto crescere l’impegno dei “suoi” soci. Garantisce supporto a chi è in transito dopo essere arrivato dalla “rotta balcanica”, dà modo a chi sceglie di restare di partecipare a una scuola di italiano e accedere a uno sportello di orientamento al lavoro. A questo si aggiungono le iniziative culturali per sensibilizzare la cittadinanza: tante attività che sono confluite in un report pubblicato a fine dicembre. “Racchiudere quanto fatto nel 2023 era fondamentale per diverse ragioni -racconta Davide Castelnovo, attivista dell’associazione nata nel 2014 in risposta all’aumento dei flussi in Friuli-Venezia Giulia delle persone provenienti soprattutto da Afghanistan e Pakistan-. Da un lato informare la cittadinanza sulla nostra attività per far capire meglio di che cosa ci occupiamo, dall’altro avere in mano dati statistici più elaborati sui flussi che interessano la nostra città”.

    Nel 2023 Ospiti in arrivo ha incontrato 762 persone, con il picco più rilevante che è stato registrato nel primo trimestre: i principali Paesi di provenienza dei transitanti sono stati Bangladesh (22,9%), Marocco (18,8%%), Afghanistan (14,9%), Pakistan (10,9%) e India (9,9%). Nel 97% dei casi si è trattato di uomini soli e quasi l’80% di loro era di passaggio. “Un dato molto interessante che sfugge alle statistiche ufficiali di questura e prefettura e non avremmo ottenuto senza il lavoro di raccolta informazioni della nostra équipe di strada”, sottolinea Castelnovo.

    I volontari e le volontarie dell’associazione si recano in diversi punti nevralgici della città, soprattutto in stazione, tre volte alla settimana: offrono un tè, un pasto caldo (in totale 1.298 in un anno) e beni di prima necessità come coperte. Solo il 20% delle persone supportate, come detto, è stabile a Udine e di queste il 14% è di nazionalità italiana. E sotto questo punto di vista, il 2023 è stato un anno di attività intense anche per l’impossibilità di accedere all’accoglienza per chi richiede asilo. “Circa 200 persone vivono per strada per l’assenza di posti e trasferimenti -prosegue l’attivista- con un grosso problema relativo anche alle condizioni di chi vive nella caserma Cavarzerani (ne abbiamo parlato qui). Nei primi mesi dello scorso anno, poi, abbiamo garantito supporto anche a chi dormiva nelle tende all’esterno del centro (Cara) di Gradisca d’Isonzo”.

    Una fetta rilevante delle energie dei circa 50 attivisti è dedicata poi alla la “Refugees public school”, una scuola di italiano gratuita avviata nel 2015 in collaborazione con il circolo Arci MissKappa che mette a disposizione i locali di via Bertaldia. Nel 2023 i numeri sono raddoppiati: 2.250 presenze, per quasi la metà di minorenni. Le lezioni si tengono due volte alla settimana e hanno la durata di due ore ciascuna: una decina di insegnanti volontari segue all’incirca 20-30 allievi che vengono suddivisi in piccoli gruppi. In totale sono state 1.440 le ore di formazione linguistica garantita soprattutto a persone provenienti da Pakistan (36,5%), Albania (23,1%), Egitto (13%), Bangladesh (10,6%) e Kosovo (6,7%).

    In seguito all’arrivo dei profughi ucraini Ospiti in arrivo ha dato avvio, grazie alla collaborazione della Ong Terre des Hommes, a corsi specificamente pensati per donne e bambini: mentre le mamme imparano la lingua italiana, i figli vengono aiutati nei compiti o in attività di gioco se in età non scolare. Sono state 1.319 le presenze in totale: principalmente persone ucraine (30%) ma via via anche di altre nazionalità. Soprattutto sudanese (30%). “Numeri elevati che dimostrano quanto sia importante l’impegno dei nostri volontari”, osserva Castelnovo. Oltre alla scuola, a partire da quest’anno l’associazione ha attivato uno sportello per supportare le persone straniere nella ricerca del lavoro: il sabato mattina, su appuntamento, i richiedenti asilo possono recarsi al circolo MissKappa dove i volontari li aiutano a compilare e inviare il curriculum.

    Ospiti in arrivo non riceve finanziamenti pubblici ma porta avanti le sue attività con l’aiuto di privati, anche coinvolgendo attivamente la cittadinanza. Ogni mercoledì, infatti, presso il circolo Arci MissKappa vengono raccolti beni di prima necessità come coperte e prodotti per l’igiene personale. Ma non solo. Un’altra colonna portante dell’impegno dell’associazione passa attraverso la sensibilizzazione e la formazione. A inizio settembre 2023 si è svolta la quinta edizione di “Diritti in festa”, festival che accende ogni anno i riflettori sul tema dei diritti umani (c’eravamo anche noi di Altreconomia). “Speriamo che il report aiuti ancor di più a capire alla città di che cosa ci occupiamo -conclude Castelnovo- perché lo facciamo e soprattutto quali sono i ‘frutti’ del nostro impegno: ogni anno sempre più intenso”.

    https://altreconomia.it/ospiti-in-arrivo-la-risposta-ai-bisogni-delle-persone-migranti-che-ragg

    #asile #migrations #réfugiés #accueil #solidarité #Italie

  • Un mémoriel pour les mort·es aux frontières (région de l’Evros, Grèce) détruit

    Thread de Lena K. sur X :

    In August 2011, activists of the Welcome to Europe network & solidarians built a memorial for people who died while crossing the #Evros border: a water fountain at the village of Provatonas. The fountain now lies in ruin - visual proof of local hostility to border crossers.

    I found out about the fountain online, by chance. Like many aspects of the past of the local border regime and resistance to it, it’s been forgotten. I didn’t have time to investigate when, how and why it was destroyed (next time!) but one source suggests it was by locals:

    “Here we had built a fountain, as Greek tradition would have it, for travellers. To drink water, wash and rest before continuing their journey. Today this tap has been destroyed, they don’t even want the refugees to pass through here. On the one hand, I understand them

    A lot of people crossed then and never stopped crossing. People are tired. On the other hand, however, with what various people say and do, they have made people lose its humanity. I hope this broken fountain reminds us that we were human."

    https://www.avgi.gr/politiki/344653_ebros-thraysmata-pliroforisis

    The names of people who died crossing the #Evros were inscribed on the fountain. Its destruction erased them, rendering the dead nameless, dehumanising border crossers once again.

    https://athens.indymedia.org/post/1329456

    https://twitter.com/lk2015r/status/1692824778153787769

    #monument #mémoriel #mémoire #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #Grèce #frontières #destruction #Welcome_to_Europe #Provatonas

    • Μια βρύση-μνημείο των χαμένων μεταναστών-ριών στον Προβατώνα/Τυχερό Έβρου

      Όνομα και Αξιοπρέπεια για τους νεκρούς μετανάστες των συνόρων Μια βρύση-μνημείο των χαμένων μεταναστών-ριών στον Προβατώνα Έβρου

      Την Τρίτη 30 Αυγούστου με πρωτοβουλία του πανευρωπαϊκού δικτύου Welcome to Europe και πολλών αλληλέγγυων ανθρώπων, δημιουργήσαμε ένα μνημείο για τους χαμένους μετανάστες στα σύνορα του Έβρου. Για την Τζέιν και τον Μπασίρ που πνίγηκαν τον περασμένο χρόνο στο ποτάμι, αλλά και για τους εκατοντάδες άλλους, ανώνυμους νεκρούς και αγνοούμενους των συνόρων και των ναρκοπεδίων. Θελήσαμε να δώσουμε πίσω το Όνομα και την Αξιοπρέπεια, το σεβασμό που πρέπει σε κάθε νεκρό. Θελήσαμε, σε πείσμα των καιρών, να εκφράσουμε την Φιλοξενία και την αγωνία μας για τις διαστάσεις του εγκλήματος που λαμβάνει χώρα στα ευρωπαϊκά σύνορα. Θελήσαμε να πούμε όχι σε μια Ευρώπη που οχυρώνεται πίσω από το φόβο και χτίζει τείχη, σε μια Ευρώπη που μετατρέπει τους μετανάστες και μετανάστριες σε αποδιοπομπαίους τράγους της κρίσης. Να πούμε όχι σε μια Ευρώπη που μετατρέπει τους χιλιάδες νεκρούς των συνόρων σε αριθμούς και στατιστικές και που εξακολουθεί να τους μεταχειρίζεται ως ανεπιθύμητους ακόμη και μετά θάνατον. Όπως ανακαλύψαμε το 2010, υπάρχει ένας χώρος ταφής στο Σιδηρώ, που σε καμιά περίπτωση δεν μπορεί να χαρακτηριστεί νεκροταφείο, που προσβάλει τους νεκρούς και τους συγγενείς τους που έρχονται να τους αναζητήσουν. Από το 1995 μέχρι και το 2009, 104 άνθρωποι έχασαν τη ζωή τους από νάρκες και 187 ακρωτηριάστηκαν. Μόνο το 2011 έχουν σκοτωθεί στα σύνορα του Έβρου 70 άνθρωποι, 47 από τους οποίους δεν έχουν ταυτοποιηθεί. Λίγες ημέρες πριν, ένας ακόμη μετανάστης έπεφτε νεκρός όταν περιπολία της συνοριοφυλακής και της Frontex άνοιξε πυρ εναντίον ομάδας που διέσχιζε το ποτάμι. Πρόκειται για ένα έγκλημα που μένει ατιμώρητο, για μια βαρβαρότητα που ωστόσο δικαιολογούν και υποθάλπουν κυβερνήσεις και αξιωματούχοι. Στις 30 Αυγούστου βρεθήκαμε μαζί με συγγενείς και αγαπημένους δύο ανθρώπων που έχασαν τη ζωή τους στην περιοχή του Έβρου, με κατοίκους της περιοχής, με αντιρατσιστές-ριες που ήρθαν έπειτα από το Νο Border camp της Βουλγαρίας. Φτιάξαμε μια βρύση και τοποθετήσαμε μια επιγραφή με τα ονόματα των νεκρών, ένα μνημείο για όλους και όλες που έχουν χαθεί άδικα στα σύνορα. Η βρύση βρίσκεται στον Προβατώνα, στο δρόμο για το Τυχερό. Δίκτυο Welcome to Europe

      https://athens.indymedia.org/post/1329456

  • À la frontière italo-slovène, les migrants oubliés de la route balkanique

    L’extrême nord-est de l’Italie est la porte d’entrée dans le pays des migrants qui ont traversé l’Europe par la route des Balkans. Des centaines d’entre eux se retrouvent à survivre dans la rue. Les associations dénoncent un abandon de l’État.

    La Piazza della Libertà s’illumine des halos jaunes des réverbères. À mesure que les heures s’égrènent dans la nuit, de petits groupes d’hommes s’installent près des bancs verts. Ils sont presque tous afghans ou pakistanais, emmitouflés avec les moyens du bord, contraints de vivre à la rue depuis quelques jours pour les plus chanceux, quelques mois pour les autres. Juste en face, c’est la gare et ses promesses de poursuivre la route à bord d’un wagon chaud plutôt qu’à pied.

    S’y croisent ceux qui sont montés à bord à Ljubljana ou à Zagreb, les capitales slovène et croate, direction Trieste, et ceux qui poursuivent leur voyage vers l’Europe du Nord, avec Milan ou Venise comme étapes suivantes.

    Ce soir-là, une quinzaine d’Afghans arrivent tout juste de la frontière slovène, à moins de dix kilomètres du centre-ville de Trieste. Ils sont venus à pied. L’un d’eux, visiblement heureux d’être arrivé, demande à son ami de le prendre en photo, pouces vers le haut, dans l’air gelé des températures à peine positives. Demain ou après-demain, promet-il, il continuera sa route. En attendant, les autres lui indiquent le Silos, un ensemble de grands entrepôts de l’époque austro-hongroise s’étendant derrière la gare et devenus le refuge insalubre et précaire d’environ quatre cents migrants.

    Aziz Akhman est l’un d’eux. Ce Pakistanais de 32 ans a fui les attentats aux voitures piégées, l’insécurité et les rackets qui gangrènent sa région d’origine, à la frontière avec l’Afghanistan. Quand son magasin a été incendié, il est parti. « J’ai mis quatre mois à arriver en Italie, explique-t-il. J’ai déposé une demande d’asile. » Chaque nuit, seule une fine toile de tente le sépare de la nuit glacée qui enveloppe le Silos. Les heures de sommeil sont rares, grignotées par le froid de l’hiver.

    « La vie ici est un désastre », commente Hanif, un Afghan de 25 ans qui passe, lui aussi, ses nuits au Silos. Son rêve, c’est Montbéliard (Doubs), en France. « Tous mes amis et certains membres de ma famille vivent là-bas. J’y ai passé six mois avant d’être renvoyé en Croatie », raconte le jeune homme, qui avait donné ses empreintes dans le pays et y a donc été expulsé en vertu des accords de Dublin. À peine renvoyé en Croatie, vingt jours plus tôt, il a refait le chemin en sens inverse pour revenir en France. Trieste est juste une étape.

    « Ici convergent aussi bien ceux qui sont en transit que ceux qui restent », explique Gian Andrea Franchi. Ce retraité a créé l’association Linea d’Ombra avec sa femme Lorena Fornasir à l’hiver 2019. « On s’est rendu compte que de nombreuses personnes gravitaient autour de la gare et qu’une bonne partie dormait dans les ruines du vieux port autrichien, se remémore-t-il en pointant la direction du Silos. Ils ne recevaient aucune aide et vivaient dans des conditions très difficiles. » Depuis, l’association distribue des vêtements, des couvertures, des tentes, offre des repas et prodigue des soins médicaux.

    Sur l’un des bancs, Lorena Fornasir a déployé une couverture de survie dont les reflets dorés scintillent dans la pénombre. « Quand ces hommes arrivent, ils ont souvent les pieds dans un tel état qu’on dirait qu’ils reviennent des tranchées », explique cette psychothérapeute à la retraite qui panse, soigne, écoute chaque soir ceux qui en ont besoin.

    « Ceux qui dorment au Silos sont tous tombés malades à cause des conditions dans lesquelles ils vivent, c’est une horreur là-bas : ils ont attrapé des bronchites, des pneumonies, des problèmes intestinaux, et beaucoup ont d’énormes abcès dus aux piqûres d’insectes et aux morsures de rats qui s’infectent », poursuit Lorena Fornasir, avant d’aller chercher dans sa voiture quelques poulets rôtis pour les derniers arrivés de la frontière slovène, affamés et engourdis par le froid. Les soirs d’été, lorsque le temps permet de traverser les bois plus facilement, ce sont parfois près de cinq cents personnes qui se retrouvent sur celle que le couple de retraités a rebaptisée « La Place du Monde ».
    Une crise de l’accueil

    Dans les bureaux de l’ICS, Consortium italien de solidarité, Gianfranco Schiavone a ces chiffres parfaitement en tête et ne décolère pas. Derrière l’écran de son ordinateur, il remonte le fil de ses courriels. Devant lui s’ouvre une longue liste de noms. « On a environ 420 demandeurs d’asile qui attendent une place d’hébergement ! », commente le président de l’ICS, fin connaisseur des questions migratoires dans la région. « Depuis un an et demi, ces personnes sont abandonnées à la rue et ce n’est pas à cause de leur nombre, particulièrement élevé… Au contraire, les arrivées sont modestes », explique-t-il en pointant les chiffres publiés dans le rapport « Vies abandonnées ».

    En moyenne, environ quarante-cinq migrants arrivent chaque jour à Trieste. Le chiffre est plutôt stable et pourrait décroître dans les semaines à venir. La neige a souvent ralenti les départs en amont, le long des passages boisés et plus sauvages de la route balkanique.

    Selon les estimations de l’ICS, entre 65 et 75 % des migrants qui arrivent à Trieste repartent. Le quart restant dépose une demande d’asile. Selon les règles en vigueur en Italie, les demandeurs d’asile sont hébergés dans des centres de premier accueil, le temps que les commissions territoriales examinent leur demande. L’ICS gère deux de ces centres, installés à quelques centaines de mètres de la frontière slovène. Les migrants devraient y rester quelques jours puis être redispatchés dans d’autres régions au sein de centres de plus long accueil.

    Faute de redistribution rapide, les centres d’accueil temporaire sont pleins et les nouveaux arrivants se retrouvent à la rue, dépendant uniquement du système d’hébergement d’urgence, déjà sursollicité par les SDF de la ville. À Trieste même, les près de 1 200 places d’hébergement à long terme disponibles pour les demandeurs d’asile sont toutes occupées.

    « On ne se retrouve pas avec quatre cents personnes arrivées en une journée qui ont mis en difficulté le système d’accueil, regrette Gianfranco Schiavone, mais avec de petits groupes volontairement laissés à la rue dont l’accumulation, jour après jour, a fini par donner ce résultat. » Il livre l’analyse suivante : « Ces conditions de vie poussent ces personnes vers la sortie. Le premier objectif est de réduire au maximum le nombre de demandeurs d’asile que l’État doit prendre en charge. Le deuxième, plus politique, est de créer une situation de tension dans l’opinion publique, de donner l’image de centaines de migrants à la rue et d’entretenir l’idée que les migrants sont vraiment trop nombreux et que l’Italie a été abandonnée par l’Europe. »

    Interrogée, la préfecture n’a pas souhaité répondre à nos sollicitations, renvoyant vers le ministère de l’intérieur. Le cabinet du maire, lui, renvoie aux prises de position déjà exprimées dans la presse locale. La position de l’édile de la ville est sans appel : il ne fera rien.
    L’accord Albanie-Italie suspendu

    Récemment, un important dispositif policier a été déployé dans la région. Le 18 octobre, après l’attentat contre des supporteurs suédois à Bruxelles, le gouvernement de Giorgia Meloni a décidé de fermer sa frontière avec la Slovénie. Le traité de Schengen a été provisoirement suspendu pour prévenir d’éventuelles « infiltrations terroristes » via la route balkanique.

    « C’est nécessaire, en raison de l’aggravation de la situation au Moyen-Orient, l’augmentation des flux migratoires le long de la route balkanique et surtout pour des questions de sécurité nationale », a justifié la cheffe du gouvernement. 350 agents ont été déployés dans le Frioul-Vénétie Julienne, le long des 230 kilomètres de la frontière italo-slovène. Initialement prévus pour dix jours, les contrôles aux frontières ont déjà été prolongés deux fois et sont actuellement en vigueur jusqu’au 18 janvier 2024.

    Avec ce tour de vis sur sa frontière orientale, l’Italie tente de maintenir une promesse qu’elle ne parvient pas à tenir sur son front méditerranéen : verrouiller le pays. Car après l’échec de sa stratégie migratoire à Lampedusa en septembre, Giorgia Meloni a redistribué ses cartes vers les Balkans. À la mi-novembre, la cheffe du gouvernement s’est rendue en visite officielle à Zagreb pour discuter, notamment, du dossier migratoire. Mais son dernier coup de poker, c’est l’annonce d’un accord avec l’Albanie pour y délocaliser deux centres d’accueil pour demandeurs d’asile.

    L’idée est d’y emmener jusqu’à 3 000 personnes, immédiatement après leur sauvetage en mer par des navires italiens. Sur place, la police albanaise n’interviendra que pour la sécurité à l’extérieur du centre. Le reste de la gestion reste entièrement de compétence italienne. La mise en service de ces deux structures a été annoncée au printemps. Le dossier semblait clos. À la mi-décembre, la Cour constitutionnelle albanaise a finalement décidé de suspendre la ratification de l’accord. Deux recours ont été déposés au Parlement pour s’assurer que cet accord ne viole pas les conventions internationales dont est signataire l’Albanie. Les discussions devraient reprendre à la mi-janvier.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/080124/la-frontiere-italo-slovene-les-migrants-oublies-de-la-route-balkanique
    #Slovénie #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #route_des_Balkans #Balkans #Trieste #sans-abrisme #SDF #hébergement #réfugiés_pakistanais #réfugiés_afghans #Silos #Linea_d’Ombra #solidarité #ICS

  • Le #lobbying sans #frontières de #Thales
    (publié en 2021, ici pour archivage)

    Pour vendre ses systèmes de surveillance aux confins de l’Union européenne, l’entreprise use de son influence. Indirectement, discrètement, efficacement.

    Ce 23 mai 2017, au sixième étage de l’immense tour vitrée qui héberge les locaux de #Frontex à Varsovie, en Pologne, les rendez-vous sont réglés comme du papier à musique. L’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes reçoit des industriels pour des discussions consacrées à l’utilisation de la biométrie aux confins de l’Union. Leonardo, Safran, Indra… Frontex déroule le tapis rouge aux big boss de la sécurité et de la défense. Juste après la pause-déjeuner, c’est au tour de #Gemalto, qui sera racheté deux ans plus tard par Thales (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), de déballer pendant quarante-cinq minutes ses propositions. Un document PowerPoint de 14 pages sert de support visuel. L’entreprise franco-néerlandaise y développe diverses utilisations de la reconnaissance faciale aux frontières : en collectant un selfie grâce à son téléphone avant de voyager, en plein vol dans un avion ou dans un véhicule qui roule. Oubliant de s’interroger sur la légalité et le cadre juridique de cette technologie, la présentation conclut : « La reconnaissance faciale en mouvement n’a pas été testée dans les essais de “frontières intelligentes” mais devrait. » Une manière à peine voilée de dire que Frontex devrait coupler des logiciels de reconnaissance faciale aux caméras de surveillance qui lorgnent les frontières extérieures de l’Europe, afin de mieux identifier et surveiller ceux qui tentent de pénétrer dans l’UE.

    Ce document est l’un des 138 dévoilés le 5 février dernier par les « Frontex Files », enquête diligentée par la chaîne de télévision publique allemande ZDF, en collaboration avec l’ONG européenne Corporate Europe Observatory. Ce travail lève le voile sur des réunions menées par Frontex avec 125 lobbyistes, reçus entre 2018 et 2019… ainsi que sur leur opacité, puisque 72 % d’entre elles se sont tenues très discrètement, en dehors des règles de transparence édictées par l’Union européenne.

    Depuis 2016, Frontex joue un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Son budget atteint 544 millions en 2021

    Fondée en 2004 pour aider les pays européens à sécuriser leurs frontières, Frontex est devenue une usine à gaz de la traque des réfugiés. Depuis 2016 et un élargissement de ses fonctions, elle joue désormais un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Alors qu’il plafonnait à 6 millions d’euros en 2005, son budget atteint 544 millions en 2021. Pour le prochain cycle budgétaire de l’UE (2021-2027), la Commission européenne a attribué une enveloppe de 12,7 milliards d’euros à la gestion des frontières et de 9,8 milliards à la migration.

    Thales et Gemalto trônent dans le top 10 des entreprises ayant eu le plus d’entretiens avec l’agence européenne : respectivement trois et quatre réunions. Mais les deux sociétés devraient être comptées comme un tout : en rachetant la seconde, la première a logiquement profité des efforts de lobbying que celle-ci avait déployés auparavant. Pour le géant français, l’enjeu des frontières est majeur, ainsi que nous le racontions précédemment (lire l’épisode 6, « Thales police les frontières »). #Murs, #clôtures, #barbelés, #radars, #drones, systèmes de reconnaissance d’#empreintes_digitales biométriques… Chaque année, les marchés attribués se comptent en millions d’euros. L’ONG Transnational Institute parle de « business de l’édification de murs », du nom d’un de ses rapports, publié en novembre 2019. Celui-ci met la lumière sur les trois entreprises qui dévorent la plus grosse part du gâteau : l’espagnole #Leonardo (ex-#Finmeccanica), #Airbus et bien sûr Thales. Un profit fruit de plus de quinze années de lobbying agressif.

    Thales avance à couvert et s’appuie sur l’#European_Organisation_for_Security, un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents

    Flash-back en 2003. Le traumatisme des attentats du 11-Septembre est encore vif. L’Union européenne aborde l’épineuse question de la sécurisation de ses frontières. Elle constitue un « groupe de personnalités », dont la mission est de définir les axes d’un futur programme de recherche européen sur la question. Au milieu des commissaires, chercheurs et représentants des institutions s’immiscent les intérêts privés de sociétés spécialisées dans la défense : Thales, Leonardo, mais aussi l’allemande #Siemens et la suédoise #Ericsson. Un an plus tard, le rapport suggère à l’UE de calquer son budget de recherche sur la sécurité sur celui des États-Unis, soit environ quatre dollars par habitant et par an, raconte la juriste Claire Rodier dans son ouvrage Xénophobie business : à quoi servent les contrôles migratoires ? (La Découverte, 2012). En euros, la somme s’élève à 1,3 milliard par an. La machine est lancée. Les lobbyistes sont dans la place ; ils ne la quitteront pas.

    Au sein du registre de transparence de l’Union européenne, Thales publie les détails de ses actions d’influence : un lobbyiste accrédité au Parlement, entre 300 000 et 400 000 euros de dépenses en 2019 et des réunions avec des commissaires et des membres de cabinets qui concernent avant tout les transports et l’aérospatial. Rien ou presque sur la sécurité. Logique. Thales, comme souvent, avance à couvert (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales ») et s’appuie pour faire valoir ses positions sur l’#European_Organisation_for_Security (EOS), un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents : #Airbus, Leonardo ou les Français d’#Idemia. Bref, un lobby. L’implication de Thales dans #EOS est tout à fait naturelle : l’entreprise en est la créatrice. Un homme a longtemps été le visage de cette filiation, #Luigi_Rebuffi. Diplômé en ingénierie nucléaire à l’université polytechnique de Milan, cet Italien au crâne dégarni et aux lunettes rectangulaires doit beaucoup au géant français. Spécialisé dans la recherche et le développement au niveau européen, il devient en 2003 directeur des affaires européennes de Thales. Quatre ans plus tard, l’homme fonde EOS. Détaché par Thales, il en assure la présidence pendant dix ans avant de rejoindre son conseil d’administration de 2017 à 2019.

    Depuis, il a fondé et est devenu le secrétaire général de l’#European_Cyber_Security_Organisation (#Ecso), représentant d’influence enregistré à Bruxelles, dont fait partie #Thales_SIX_GTS France, la filiale sécurité et #systèmes_d’information du groupe. À la tête d’Ecso, on trouve #Philippe_Vannier, également président de la division #big_data et sécurité du géant français de la sécurité #Atos… dont l’ancien PDG #Thierry_Breton est depuis 2019 commissaire européen au Marché intérieur. Un jeu de chaises musicales où des cadres du privé débattent désormais des décisions publiques.

    Entre 2012 et 2016, Luigi Rebuffi préside l’European Organisation for Security… et conseille la Commission pour ses programmes de recherche en sécurité

    Luigi Rebuffi sait se placer et se montrer utile. Entre 2012 et 2016, il occupe, en parallèle de ses fonctions à l’EOS, celle de conseiller pour les programmes de recherche en sécurité de la Commission européenne, le #Security_Advisory_Group et le #Protection_and_Security_Advisory_Group. « C’est une position privilégiée, analyse Mark Akkerman, chercheur et coauteur du rapport “Le business de l’édification de murs” de l’ONG Transnational Institute. Rebuffi faisait partie de l’organe consultatif le plus influent sur les décisions de financement par l’UE de programmes de recherche et d’innovation dans le domaine de la sécurité. »

    Ce n’est donc pas un hasard si, comme le note le site European Research Ranking, qui compile les données publiées par la Commission européenne, Thales est l’un des principaux bénéficiaires des fonds européens sur la #recherche avec 637 projets menés depuis 2007. La sécurité figure en bonne place des thématiques favorites de la société du PDG #Patrice_Caine, qui marche main dans la main avec ses compères de la défense Leonardo et Airbus, avec lesquels elle a respectivement mené 48 et 109 projets.

    Entre 2008 et 2012, l’Union européenne a, par exemple, attribué une subvention de 2,6 millions d’euros à un consortium mené par Thales, dans le cadre du projet #Aspis. Son objectif ? Identifier des systèmes de #surveillance_autonome dans les #transports_publics. Des recherches menées en collaboration avec la #RATP, qui a dévoilé à Thales les recettes de ses systèmes de sécurité et les coulisses de sa première ligne entièrement automatisée, la ligne 14 du métro parisien. Un projet dont l’un des axes a été le développement de la #vidéosurveillance.

    Thales coordonne le projet #Gambas qui vise à renforcer la #sécurité_maritime et à mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe

    À la même période, Thales s’est impliqué dans le projet #Oparus, financé à hauteur de 1,19 million d’euros par la Commission européenne. À ses côtés pour penser une stratégie européenne de la surveillance terrestre et maritime par #drones, #EADS (ancien nom d’#Airbus) ou #Dassault_Aviation. Depuis le 1er janvier dernier, l’industriel français coordonne aussi le projet Gambas (1,6 million de financement), qui vise à renforcer la sécurité maritime en améliorant le système de surveillance par #radar #Galileo, développé dans le cadre d’un précédent #projet_de_recherche européen pour mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe. Une #technologie installée depuis 2018 aux frontières européennes.

    Des subventions sont rattachées aux derniers programmes de recherche et d’innovation de l’Union européenne : #PR7 (2007-13) et #Horizon_2020 (2014-20). Leur petit frère, qui court jusqu’en 2027, s’intitule, lui, #Horizon_Europe. L’une de ses ambitions : « La sécurité civile pour la société ». Alors que ce programme s’amorce, Thales place ses pions. Le 23 novembre 2020, l’entreprise s’est entretenue avec #Jean-Éric_Paquet, directeur général pour la recherche et l’innovation de la Commission européenne. Sur quels thèmes ? Ont été évoqués les programmes Horizon 2020 et Horizon Europe, et notamment « dans quelles mesures [les] actions [de la Commission] pourraient susciter l’intérêt de Thales, en vue d’un soutien renforcé aux PME mais aussi aux écosystèmes d’innovation au sein desquels les groupes industriels ont un rôle à jouer », nous a répondu par mail Jean-Éric Paquet.

    L’European Organisation for Security s’intéresse aussi directement aux frontières européennes. Un groupe de travail, coprésidé par #Peter_Smallridge, chef des ventes de la division « #borders_and_travel » de Thales et ancien de Gemalto, poursuit notamment l’ambition « d’encourager le financement et le développement de la recherche qui aboutira à une industrie européenne de la sécurité plus forte ». Entre 2014 et 2019, EOS a organisé 226 réunions pour le compte d’Airbus, Leonardo et Thales, dépensant 2,65 millions d’euros pour la seule année 2017. Le chercheur Mark Akkerman est formel : « Toutes les actions de lobbying sur les frontières passent par l’EOS et l’#AeroSpace_and_Defence_Industries_Association_of_Europe (#ASD) », l’autre hydre de l’influence européenne.

    L’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité.
    Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense

    Dans ses derniers comptes publiés, datés de 2018, EOS déclare des dépenses de lobbying en nette baisse : entre 100 000 et 200 000 euros, un peu moins que les 200 000 à 300 000 euros de l’ASD. La liste des interlocuteurs de ces structures en dit beaucoup. Le 12 février 2020, des représentants d’EOS rencontrent à Bruxelles #Despina_Spanou, cheffe de cabinet du Grec #Margarítis_Schinás, vice-président de la Commission européenne chargé des Migrations. Le 11 juin, c’est au tour de l’ASD d’échanger en visioconférence avec Despina Spanou, puis début juillet avec un autre membre du cabinet, #Vangelis_Demiris. Le monde de l’influence européenne est petit puisque le 30 juin, c’est Ecso, le nouveau bébé de Luigi Rebuffi, d’organiser une visioconférence sur la sécurité européenne avec le trio au grand complet : Margarítis Schinás, Despina Spanou et Vangelis Demiris. Pour la seule année 2020, c’est la troisième réunion menée par Ecso avec la cheffe de cabinet.

    Également commissaire chargé de la Promotion du mode de vie européen, Margarítis Schinás a notamment coordonné le rapport sur la « stratégie de l’UE sur l’union de la sécurité ». Publié le 24 juillet 2020, il fixe les priorités sécuritaires de la Commission pour la période 2020-2025. Pour lutter contre le terrorisme et le crime organisé, le texte indique que « des mesures sont en cours pour renforcer la législation sur la sécurité aux frontières et une meilleure utilisation des bases de données existantes ». Des points qui étaient au cœur de la discussion entre l’ASD et son cabinet, comme l’a confirmé aux Jours Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense. « Lors de cette réunion, l’ASD a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité », confie-t-elle. Difficile d’avoir le son de cloche des lobbyistes. Loquaces quand il s’agit d’échanger avec les commissaires et les députés européens, Luigi Rebuffi, ASD, EOS et Thales n’ont pas souhaité répondre à nos questions. Pas plus que l’une des autres cibles principales des lobbyistes de la sécurité, Thierry Breton. Contrairement aux Jours, l’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a décroché deux entretiens avec l’ancien ministre de l’Économie de Jacques Chirac en octobre dernier, pour aborder des sujets aussi vastes que le marché international de l’#aérospatiale, la #défense ou la #sécurité. À Bruxelles, Thales et ses relais d’influence sont comme à la maison.

    https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep7-lobbying-europe

    #complexe_militaro_industriel #surveillance_des_frontières #migrations #réfugiés #contrôles_frontaliers #lobby

    • Thales police les frontières

      De Calais à Algésiras, l’entreprise met ses technologies au service de la politique antimigratoire de l’Europe, contre de juteux contrats.

      Cette journée d’octobre, Calais ne fait pas mentir les préjugés. Le ciel est gris, le vent âpre. La pluie mitraille les vitres de la voiture de Stéphanie. La militante de Calais Research, une ONG qui travaille sur la frontière franco-anglaise, nous promène en périphérie de la ville. Un virage. Elle désigne du doigt un terrain poisseux, marécage artificiel construit afin de décourager les exilés qui veulent rejoindre la Grande-Bretagne. À proximité, des rangées de barbelés brisent l’horizon. Un frisson claustrophobe nous saisit, perdus dans ce labyrinthe de clôtures.

      La pilote de navire marchand connaît bien la région. Son collectif, qui réunit chercheurs et citoyens, effectue un travail d’archiviste. Ses membres collectent minutieusement les informations sur les dispositifs technologiques déployés à la frontière calaisienne et les entreprises qui les produisent. En 2016, ils publiaient les noms d’une quarantaine d’entreprises qui tirent profit de l’afflux de réfugiés dans la ville. Vinci, choisi en septembre 2016 pour construire un mur de 4 mètres de haut interdisant l’accès à l’autoroute depuis la jungle, y figure en bonne place. Tout comme Thales, qui apparaît dans la liste au chapitre « Technologies de frontières ».

      Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer.
      Stéphanie, militante de l’ONG Calais Research

      Stéphanie stoppe sa voiture le long du trottoir, à quelques mètres de l’entrée du port de Calais. Portes tournantes et lecteurs de badges, qui permettent l’accès aux employés, ont été conçus par Thales. Le géant français a aussi déployé des dizaines de caméras le long de la clôture de 8 000 mètres qui encercle le port. « Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, glisse Stéphanie, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer. » Le projet Calais Port 2015 – année initialement fixée pour la livraison –, une extension à 863 millions d’euros, « devrait être achevé le 5 mai 2021 », d’après Jean-Marc Puissesseau, PDG des ports de Calais-Boulogne-sur-Mer, qui n’a même pas pu nous confirmer que Thales en assure bien la sécurité, mais chiffre à 13 millions d’euros les investissements de sécurité liés au Brexit. Difficile d’en savoir plus sur ce port 2.0 : ni Thales ni la ville de Calais n’ont souhaité nous répondre.

      Les technologies sécuritaires de Thales ne se cantonnent pas au port. Depuis la mise en place du Brexit, la société Eurotunnel, qui gère le tunnel sous la Manche, a mis à disposition de la police aux frontières les sas « Parafe » (« passage automatisé rapide aux frontières extérieures ») utilisant la reconnaissance faciale du même nom, conçus par Thales. Là encore, ni Eurotunnel ni la préfecture du Pas-de-Calais n’ont souhaité commenter. L’entreprise française fournit aussi l’armée britannique qui, le 2 septembre 2020, utilisait pour la première fois le drone Watchkeeper produit par Thales. « Nous restons pleinement déterminés à soutenir le ministère de l’Intérieur britannique alors qu’il s’attaque au nombre croissant de petits bateaux traversant la Manche », se félicite alors l’armée britannique dans un communiqué. Pour concevoir ce drone, initialement déployé en Afghanistan, Thales a mis de côté son vernis éthique. Le champion français s’est associé à Elbit, entreprise israélienne connue pour son aéronef de guerre Hermes. En 2018, The Intercept révélait que ce modèle avait été utilisé pour bombarder Gaza, tuant quatre enfants. Si le patron de Thales, Patrice Caine, appelait en 2019 à interdire les robots tueurs, il n’éprouve aucun état d’âme à collaborer avec une entreprise qui en construit.

      Du Rafale à la grande mosquée de la Mecque, Thales s’immisce partout mais reste invisible. L’entreprise cultive la même discrétion aux frontières européennes

      À Calais comme ailleurs, un détail frappe quand on enquête sur Thales. L’entreprise entretient une présence fantôme. Elle s’immisce partout, mais ses six lettres restent invisibles. Elles ne figurent ni sur la carlingue du Rafale dont elle fournit l’électronique, ni sur les caméras de vidéosurveillance qui lorgnent sur la grande mosquée de la Mecque ni les produits informatiques qui assurent la cybersécurité du ministère des Armées. Très loquace sur l’efficacité de sa « Safe City » mexicaine (lire l’épisode 3, « Thales se prend un coup de chaud sous le soleil de Mexico ») ou les bienfaits potentiels de la reconnaissance faciale (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), Thales cultive la même discrétion sur son implication aux frontières européennes. Sur son site francophone, une page internet laconique mentionne l’utilisation par l’armée française de 210 mini-drones Spy Ranger et l’acquisition par la Guardia civil espagnole de caméras Gecko, œil numérique à vision thermique capable d’identifier un bateau à plus de 25 kilomètres. Circulez, il n’y a rien à voir !

      La branche espagnole du groupe est plus bavarde. Un communiqué publié par la filiale ibérique nous apprend que ces caméras seront installées sur des 4x4 de la Guardia civil « pour renforcer la surveillance des côtes et des frontières ». Une simple recherche sur le registre des appels d’offres espagnols nous a permis de retracer le lieu de déploiement de ces dispositifs. La Guardia civil de Melilla, enclave espagnole au Maroc, s’est vue attribuer une caméra thermique, tout comme celle d’Algésiras, ville côtière située à quelques kilomètres de Gibraltar, qui a reçu en complément un logiciel pour contrôler les images depuis son centre de commandement. Dans un autre appel d’offres daté de novembre 2015, la Guardia civil d’Algésiras obtient un des deux lots de caméras thermiques mobiles intégrées directement à un 4x4. Le second revient à la police des Baléares. Montant total de ces marchés : 1,5 million d’euros. Des gadgets estampillés Thales destinés au « Servicio fiscal » de la Guardia civil, une unité dont l’un des rôles principaux est d’assurer la sécurité aux frontières.

      Thales n’a pas attendu 2015 pour vendre ses produits de surveillance en Espagne. D’autres marchés publics de 2014 font mention de l’acquisition par la Guardia civil de Ceuta et Melilla de trois caméras thermiques portables, ainsi que de deux systèmes de surveillance avec caméras thermiques et de quatre caméras thermiques à Cadix et aux Baléares. La gendarmerie espagnole a également obtenu plusieurs caméras thalesiennes « Sophie ». Initialement à usage militaire, ces jumelles thermiques à vision nocturne, dont la portée atteint jusqu’à 5 kilomètres, ont délaissé les champs de bataille et servent désormais à traquer les exilés qui tentent de rejoindre l’Europe. Dans une enquête publiée en juillet dernier, Por Causa, média spécialisé dans les migrations, a analysé plus de 1 600 contrats liant l’État espagnol à des entreprises pour le contrôle des frontières, dont onze attribués à Thales, pour la somme de 3,8 millions d’euros.

      Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe.
      Salva Carnicero, journaliste à « Por Causa »

      Le choix des villes n’est bien sûr pas anodin. « Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe », analyse Salva Carnicero, qui travaille pour Por Causa. Dès 2003, la ville andalouse était équipée d’un dispositif de surveillance européen unique lancé par le gouvernement espagnol pour contrôler sa frontière sud, le Système intégré de surveillance extérieure (SIVE). Caméras thermiques, infrarouges, radars : les côtes ont été mises sous surveillance pour identifier la moindre embarcation à plusieurs dizaines de kilomètres. La gestion de ce système a été attribuée à l’entreprise espagnole Amper, qui continue à en assurer la maintenance et a remporté plusieurs appels d’offres en 2017 pour le déployer à Murcie, Alicante et Valence. Une entreprise que Thales connaît bien, puisqu’elle a acquis en 2014 l’une des branches d’Amper, spécialisée dans la création de systèmes de communication sécurisés pour le secteur de la défense.

      Ceuta et Melilla, villes autonomes espagnoles ayant une frontière directe avec le Maroc, sont considérées comme deux des frontières européennes les plus actives. En plus des caméras thermiques, Thales Espagne y a débuté en septembre 2019, en partenariat avec l’entreprise de sécurité suédoise Gunnebo, l’un des projets de reconnaissance faciale les plus ambitieux au monde. Le logiciel thalesien Live Face Identification System (LFIS) est en effet couplé à 35 caméras disposées aux postes-frontières avec l’Espagne. L’objectif : « Surveiller les personnes entrant et sortant des postes-frontières », et permettre « la mise en place de listes noires lors du contrôle aux frontières », dévoile Gunnebo, qui prédit 40 000 lectures de visages par jour à Ceuta et 85 000 à Melilla. Une technologie de plus qui complète l’immense clôture qui tranche la frontière. « Les deux vont de pair, le concept même de barrière frontalière implique la présence d’un checkpoint pour contrôler les passages », analyse le géographe Stéphane Rosière, spécialisé dans la géopolitique et les frontières.

      Chercheur pour Stop Wapenhandel, association néerlandaise qui milite contre le commerce des armes, Mark Akkerman travaille depuis des années sur la militarisation des frontières. Ses rapports « Border Wars » font figure de référence et mettent en exergue le profit que tirent les industriels de la défense, dont Thales, de la crise migratoire. Un des documents explique qu’à l’été 2015, le gouvernement néerlandais a accordé une licence d’exportation de 34 millions d’euros à Thales Nederland pour des radars et des systèmes C3. Leur destination ? L’Égypte, un pays qui viole régulièrement les droits de l’homme. Pour justifier la licence d’exportation accordée à Thales, le gouvernement néerlandais a évoqué « le rôle que la marine égyptienne joue dans l’arrêt de l’immigration “illégale” vers Europe ».

      De l’Australie aux pays du Golfe, l’ambition de Thales dépasse les frontières européennes

      L’ambition de Thales dépasse l’Europe. L’entreprise veut surveiller aux quatre coins du monde. Les drones Fulmar aident depuis 2016 la Malaisie à faire de la surveillance maritime et les caméras Gecko – encore elles –, lorgnent sur les eaux qui baignent la Jamaïque depuis 2019. En Australie, Thales a travaillé pendant plusieurs années avec l’entreprise publique Ocius, aidée par l’université New South Wales de Sydney, sur le développement de Bluebottle, un bateau autonome équipé d’un radar dont le but est de surveiller l’espace maritime. Au mois d’octobre, le ministère de l’industrie et de la défense australien a octroyé à Thales Australia une subvention de 3,8 millions de dollars pour développer son capteur sous-marin Blue Sentry.

      Une tactique rodée pour Thales qui, depuis une quinzaine d’années, profite des financements européens pour ses projets aux frontières. « L’un des marchés-clés pour ces acteurs sont les pays du Golfe, très riches, qui dépensent énormément dans la sécurité et qui ont parfois des problèmes d’instabilité. L’Arabie saoudite a barriérisé sa frontière avec l’Irak en pleine guerre civile », illustre Stéphane Rosière. En 2009, le royaume saoudien a confié la surveillance électronique de ses 8 000 kilomètres de frontières à EADS, aujourd’hui Airbus. Un marché estimé entre 1,6 milliard et 2,5 milliards d’euros, l’un des plus importants de l’histoire de la sécurité des frontières, dont l’attribution à EADS a été vécue comme un camouflet par Thales.

      Car l’entreprise dirigée par Patrice Caine entretient une influence historique dans le Golfe. Présent aux Émirats Arabes unis depuis 45 ans, l’industriel y emploie 550 personnes, principalement à Abu Dhabi et à Dubaï, où l’entreprise française est chargée de la sécurité d’un des plus grands aéroports du monde. Elle y a notamment installé 2 000 caméras de vidéosurveillance et 1 200 portillons de contrôle d’accès.

      Au Qatar, où elle comptait, en 2017, 310 employés, Thales équipe l’armée depuis plus de trois décennies. Depuis 2014, elle surveille le port de Doha et donc la frontière maritime, utilisant pour cela des systèmes détectant les intrusions et un imposant dispositif de vidéosurveillance. Impossible de quitter le Qatar par la voie des airs sans avoir à faire à Thales : l’entreprise sécurise aussi l’aéroport international d’Hamad avec, entre autres, un dispositif tentaculaire de 13 000 caméras, trois fois plus que pour l’intégralité de la ville de Nice, l’un de ses terrains de jeu favoris (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales »).

      La prochaine grande échéance est la Coupe du monde de football de 2022, qui doit se tenir au Qatar et s’annonce comme l’une des plus sécurisées de l’histoire. Thales participe dans ce cadre à la construction et à la sécurisation du premier métro qatari, à Doha : 241 kilomètres, dont 123 souterrains, et 106 stations. Et combien de milliers de caméras de vidéosurveillance ?

      https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep6-frontieres-europe

    • Loi « immigration » : 200 personnalités appellent à manifester le 21 janvier contre la promulgation

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/07/deux-cents-personnalites-appellent-a-manifester-contre-la-loi-immigration_62

      Les signataires demandent au président de ne pas promulguer le texte rédigé, selon eux « sous la dictée des marchands de haine qui rêvent d’imposer à la France leur projet de “préférence nationale” ».

      [...]

      Ce texte, qui a provoqué une crise ouverte au sein de la majorité présidentielle, a été voté par le Rassemblement national qui y a vu une consécration de « la priorité nationale » qu’il défend. Voté le 19 décembre 2023, il comporte, selon l’exécutif lui-même, plusieurs mesures susceptibles d’être censurées par le Conseil constitutionnel. Saisis par le président de la République, mais aussi par l’opposition de gauche, les neuf juges constitutionnels doivent se prononcer d’ici à la fin du mois de janvier sur sa conformité.

    • L’Appel :

      Marchons pour la Liberté, l’égalité, la fraternité

      Dans notre diversité d’idées, d’engagements, de professions, nous exprimons notre grande inquiétude après le vote de la loi dite « asile-immigration ». C’est un tournant dangereux dans l’histoire de notre République.

      D’abord parce que cette loi ne répond pas aux causes de l’exil forcé d’hommes, de femmes, d’enfants fuyant les guerres ou le réchauffement climatique, ni aux défis de l’accueil dans la dignité, ni au défi de la définition d’une politique digne et humaine d’intégration.

      Ensuite, parce qu’elle a été rédigée sous la dictée des marchands de haine qui rêvent d’imposer à la France leur projet de « préférence nationale ». Elle torpille les piliers porteurs de notre pacte républicain, hérité du Conseil national de la Résistance. Elle s’attaque ainsi au droit du sol autant qu’aux droits fondamentaux proclamés par la Constitution : au travail, à l’éducation, au logement, à la santé… Ce faisant, tous et toutes, Français autant qu’étrangers, nous nous trouvons menacés.

      Victor Hugo écrivait : « Étouffez toutes les haines, éloignez tous les ressentiments, soyez unis, vous serez invincibles. »

      Soucieux de rassemblement et de solidarité plutôt que de division sans fin de notre société, nous demandons au Président de la République de ne pas promulguer cette loi.

      Le dimanche 21 janvier nous appelons à manifester dans notre diversité notre attachement à la devise de la République : « Liberté, égalité, fraternité. »

    • Loi « immigration » : quand le président du Conseil constitutionnel, Laurent Fabius, tance Emmanuel Macron sur l’Etat de droit

      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/01/08/loi-immigration-quand-le-president-du-conseil-constitutionnel-laurent-fabius

      Lors de ses vœux (à huis clos) au président de la République, le président du Conseil constitutionnel a notamment rappelé que celui-ci « n’était ni une chambre d’écho des tendances de l’opinion, ni une chambre d’appel des choix du Parlement », en allusion notamment au texte de loi sur l’immigration.

      [...]

      Apparemment, M. Fabius partage cet avis. « Monsieur le président, je soulignais au début de mon propos que le Conseil constitutionnel n’était ni une chambre d’écho des tendances de l’opinion, ni une chambre d’appel des choix du Parlement, mais le juge de la constitutionnalité des lois, et j’ajoutais que cette définition simple n’était probablement pas ou pas encore intégrée par tous, a ainsi lancé l’ancien chef du gouvernement. Deux mille vingt-trois nous a en effet frappés, mes collègues et moi, par une certaine confusion chez certains entre le droit et la politique. On peut avoir des opinions diverses sur la pertinence d’une loi déférée, on peut l’estimer plus ou moins opportune, plus ou moins justifiée, mais tel n’est pas le rôle du Conseil constitutionnel. La tâche du Conseil est, quel que soit le texte dont il est saisi, de se prononcer en droit. » Et de citer son « prédécesseur et ami Robert Badinter », autre socialiste qui présida le Conseil constitutionnel (1986-1995) : « Une loi inconstitutionnelle est nécessairement mauvaise, mais une loi mauvaise n’est pas nécessairement inconstitutionnelle. »

      « Pacte faustien »

      Une fois ce rappel fait, M. Fabius ne s’est pas arrêté là. « Sauf à prendre le risque d’exposer notre démocratie à de grands périls, ayons à l’esprit que, dans un régime démocratique avancé comme le nôtre, on peut toujours modifier l’Etat du droit mais que, pour ce faire, il faut toujours veiller à respecter l’Etat de droit, qui se définit par un ensemble de principes cardinaux comme la séparation des pouvoirs, le principe de légalité et l’indépendance des juges, a encore insisté M. Fabius. Il y a bientôt cinquante ans que la jurisprudence du Conseil constitutionnel l’affirme en ces termes : c’est dans le respect de la Constitution que la loi exprime la volonté générale. » En clair, le président du Conseil constitutionnel rappelle les bases d’un « Etat de droit » au chef de l’Etat, notamment cette règle : on ne peut pas voter une loi dont on sait que certaines dispositions sont contraires à la loi fondamentale.

      Plus largement, M. Fabius a longuement développé la notion d’Etat de droit aussi bien au niveau national qu’au niveau européen, alors que la liste menée par Jordan Bardella (Rassemblement national) est donnée favorite aux élections européennes de juin. Et il lance un avertissement, cette fois à une partie de la droite et à l’extrême droite, qui dénoncent de concert « le gouvernement des juges », plaident pour le recours systématique au référendum, et pour sortir également de ce qu’ils appellent le « carcan européen ». « Un sophisme se fait entendre selon lequel il faudrait se libérer de l’Etat de droit, soit au plan national, soit au plan européen, soit les deux, pour accomplir la volonté générale », note ainsi M. Fabius, qui évoque même un « pacte faustien ». Et de dénoncer « la “martingale des refus” – refus de la légitimité des juges, refus de plusieurs de nos engagements européens, refus de l’Etat de droit » qui, selon lui, « nous ferait rompre avec l’Europe et mettrait en cause notre démocratie elle-même ».

    • La leçon de François Sureau sur la justice : « Mettons que je n’aie rien dit »

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/09/la-lecon-de-francois-sureau-sur-la-justice-mettons-que-je-n-aie-rien-dit_620

      François Sureau, ancien conseiller d’Etat, puis avocat aux Conseils, écrivain, membre de l’Académie française, a prononcé, lundi 8 janvier, un discours assez vif sur la justice devant l’Académie des sciences morales et politiques, dont « Le Monde » publie ici l’intégralité.

      L’avocat, écrivain et académicien et, par ailleurs, ami du président de la République, François Sureau, a regretté, lundi 8 janvier devant l’Académie des sciences morales et politiques, la multiplication des entorses aux libertés individuelles. Ces critiques s’ajoutent aux reproches formulés le même jour par Laurent Fabius, président du Conseil constitutionnel, après le vote de la « loi immigration ». Voici l’intégralité du discours de François Sureau.

  • Weaponizing the law against the vulnerable: the case of the #El_Hiblu_3

    In March 2019, three teenagers were rescued from a sinking rubber boat in the Mediterranean Sea. Amara was 15 years old and had already travelled from Guinea to Libya before attempting the crossing to Europe. Unknown to him at the time were two other teenagers: Kader was 16, a football enthusiast and from the Ivory Coast; and Abdalla at 19 was also from Guinea and travelling with his wife, Souwa. The three teenagers travelled with 100 other people, and were rescued by an oil tanker, the #El_Hiblu_1, after their boat began to deflate.

    That night, the El Hiblu 1 crew tried to return the travellers to Libya, despite assurances of helping them to reach Europe. In the early hours of the morning, people spotted Tripoli’s coastline and began to protest, terrified at the prospect of being returned to the violence they had known in Libya. Desperation was so high that people were ready to jump overboard. In this tense situation, the first mate called on Amara to translate, having identified him the day before as someone who spoke English. Eventually, the crew also called on the young Kader and Abdalla. The three acted as mediators and translators between frightened travellers and scared crew members.

    The wider group’s protests convinced the captain to change course; he turned the ship north and motored towards Malta. Speaking to the Maltese authorities en route, he claimed his ship was no longer under his control - although testimonies in the subsequent compilation of evidence cast doubt on this claim. Nevertheless, upon arrival in Malta’s Valletta harbour, the three were arrested and immediately charged with nine crimes, including terrorism and confining someone against their will. These charges carry multiple life sentences, and echo the media narrative that took hold before the three even arrived in Malta, a narrative that painted them as pirates and hijackers.

    Abdalla, Amara, and Kader – now also known as the El Hiblu 3 – have never known Malta as free men. Imprisoned for 8 months, initially in the maximum-security wing of the adult prison despite their young age, they were released on bail in November 2019 but required to register with the police every day and restricted in their daily movements. Legal experts and international organisations describe the charges that condition their lives as ‘grossly unjust’, ‘baseless’, and a ‘farce’.

    For almost five years, the three young men have attended court hearings every month. As a whole, the testimonies corroborate what the El Hiblu 3 have always maintained: that they are innocent. Moreover, the compilation of evidence, only the initial stage in the judicial process, has been painfully slow and riddled with failures, silences and erasures. Despite calling numerous people to testify, including crew members and officials from the Armed Forces of Malta, the prosecution failed to call any of the 100 people who travelled with the El Hiblu 3 for two years. They only did so in March 2021 after the defence submitted an application to the court reminding the prosecution of its legal obligation to impartiality and its duty to bring forward all evidence at its disposal. Predictably, many of these key eyewitnesses had already left the island after two years, as secondary movements to other European countries are common.

    Even when a handful were eventually given the opportunity to testify, silencing continued. Requests by some to testify in Bambara, a language widely spoken in West Africa, were denied. Witnesses also questioned the accuracy of the translation occurring in court, with the defence requesting a new translator. Yet, those who did testify confirmed Amara, Abdalla and Kader’s role as translators, and not as ring leaders.

    Over these last years, a vast, transnational solidarity network has developed between local, international and intergovernmental organisations, convinced of the El Hiblu 3’s innocence and motivated by the injustice of pressing such charges against three teenagers. As the compilation of evidence unfolded, anger grew as information emerged that no weapons were found on board and no violence took place, and as people got to know the three. Despite their young age, despite the trial having already stolen much of their youth, they have displayed incredible strength and courage in the face of injustice. They have withstood imprisonment, adhered to strict bail conditions, appeared in court every month, all while building lives in Malta: studying, working, raising children, making friends and building a community.

    As we have explored elsewhere, the solidarity network that has emerged to support and stand with Amara, Abdalla, and Kader reflects a transgressive form of solidarity that resists dominant state narratives and categories, and also creates counter-narratives through direct action. Alongside many protests, concerts, and conferences, the campaign to free the El Hiblu 3 published a book in 2021 which reflects the diverse voices of this network, with central contributions from Abdalla, Amara, and Kader. The El Hiblu case allows us to explore the ways in which transgressive acts—from autonomous migration to solidarity practices that occur at sea and within European territory—connect and challenge our conceptualization of borders, nation-states, and citizenship.

    This case highlights the persistent criminalisation of people on the move in Europe today. The EU and its southern member states have attempted to contain people in Libya: they have turned militias into ‘EU partners’, funded detention centres, and coordinated pushbacks, with complete disregard for severe human rights violations carried out by these actors. In the name of deterrence, people in distress at sea are abandoned and those carrying out search and rescue activities are criminalised. Those who arrive face further punishment. Among other countries, Italy and Greece have used the law to target those they consider ‘boat drivers’. Malta, similarly, has weaponised the law against the El Hiblu 3, using them as political pawns in a spectacle of deterrence. The use of the law, by liberal democratic states, to undermine human rights raises questions of democracy, rule of law, and justice.

    A few weeks ago, in November 2023, the Attorney General issued a bill of indictment formally charging Abdalla, Amara, and Kader with all the original accusations, despite the testimonies heard in the intervening period that point to their innocence and despite condemnation of the judicial process from legal scholars, international organisations and activists. According to Amnesty International, Malta’s Attorney General made the ‘worst possible decision’ when she issued a bill of indictment that could lead to life sentences for the El Hiblu 3. Indeed, many have hailed the three young men as heroes whose mediation helped prevent an illegal pushback to Libya. With countless supporters, in Malta and beyond, we continue to stand with them in their fight for justice.

    https://blogs.law.ox.ac.uk/border-criminologies-blog/blog-post/2024/01/weaponizing-law-against-vulnerable-case-el-hiblu-3
    #migrations #asile #réfugiés #criminalisation #El_Hiblu #Libye #Méditerranée #pull-back #résistance #justice #Malte #Abdalla #Amara #Kader #solidarité #frontières #scafisti #scafista

  • #Home_Office refuses to set up Ukraine-style visa scheme for Palestinians

    The government said it has ‘no plans’ to waive fees or tests to help Palestinians reunite with family in the UK.

    The Home Office is refusing to set up a Ukraine-style visa scheme to help Palestinians stranded in Gaza reunite with family in the UK.

    More than 25,000 people signed a parliamentary petition asking for the government to waive fees, salary thresholds and tests for Palestinians displaced by Israel’s attacks on Gaza.

    But the Home Office rejected the request in December, saying it had “no plans to introduce bespoke arrangements for people arriving from the region”.

    More than 22,000 Palestinians have been killed in Israeli attacks on the Gaza Strip since Hamas killed 1,200 people on 7 October, according to figures from the Gaza health ministry. The United Nations estimates 1.9 million Palestinians in Gaza have been displaced.

    British nationals currently need to apply for visas for their Palestinian relatives through the existing family visa route if they wish to bring them to the UK. Only spouses, partners or children are eligible for visas through the scheme. Relatives such as grandparents, siblings or parents of adult children are not eligible in most cases.

    The Home Office charges £1,846 to apply to bring each family member to the UK, including dependents, and a further £1,560 healthcare surcharge for adults, or £1,175 for children.

    British nationals must also earn at least £18,600 to apply for a visa for a spouse or partner or £24,800 if they also have two children they want to bring over. This minimum income requirement is set to rise to £29,000 in spring. Partners or spouses also need to prove their knowledge of the English language to get a visa.

    The government waived all fees, salary thresholds and language tests under the Ukraine Family Scheme, which was set up within weeks of Russia’s invasion. The scheme allows people fleeing the war in Ukraine to join their family in the UK.

    It is free to apply to the Ukraine Family Scheme and eligibility is extended to parents, grandparents, adult offspring, siblings, and their immediate family members. About 71,400 visas have been issued under the scheme so far.

    Announcing the scheme in the Commons, the former Home Secretary Priti Patel said at the time: “We are striking a blow for democracy and freedom against tyranny. Above all, we are doing right by the courageous people of Ukraine. We will help British nationals and their families to get out of Ukraine safely.”

    Some British-Palestinians have turned to fundraising in desperation to cover the fees for visas needed to bring their relatives to safety.

    Hadil Louz, a PhD student in human rights law at St Andrew’s in Scotland, is fundraising £30,000 to pay for visa and travel costs for her parents, one of whom has cancer, as well as her siblings and their children.

    “On Christmas Day, my family had to evacuate again from the overcrowded house they were staying at, responding to the Israeli evacuation calls in Nusirat, and are currently staying in a tent on a street in Deir Al-Balah, in the cold of the winter.

    “At the moment, their survival without food and shelter in Gaza is a very tangible threat on their lives,” she wrote on the fundraiser.

    A group of 80 British-Palestinian families wrote to foreign secretary David Cameron in December asking him to consider setting up a similar scheme for Palestinians, the BBC reported.

    “While acknowledging the complexities of each conflict, it is disheartening for us, as British citizens and UK residents, to witness the disparity in our government response,” it said.

    The lack of a scheme for Palestinians, the letter said, “stands in stark contrast to the swift and supportive actions taken in similar circumstances, such as in the Ukrainian conflict”.

    Palestinians in the UK “are currently feeling a profound sense of abandonment and neglect” as a result, it said.

    In its response to the petition, the government said its “approach must be considered in the round, rather than on a crisis-by-crisis basis”. It also rejected a second petition signed by more than 16,000 people to create a bespoke immigration route for Palestinian children on the same grounds.

    https://www.opendemocracy.net/en/palestine-family-visa-scheme-petition-home-office-gaza-ukraine
    #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_palestiniens #visas #UK #Angleterre #migrations #asile #réfugiés #inégalité_de_traitement #regroupement_familial #Palestine #Gaza #Ukraine

  • La politique de lutte contre l’#immigration_irrégulière

    À la suite d’une première publication en avril 2020, qui portait sur l’intégration des personnes immigrées en situation régulière et sur l’exercice du droit d’asile, la Cour publie ce jour un rapport consacré à la politique de #lutte_contre_l’immigration_irrégulière, et notamment aux moyens mis en œuvre et aux résultats obtenus au regard des objectifs que se fixe l’État. À ce titre, la Cour a analysé les trois grands volets de cette politique : la #surveillance_des_frontières, la gestion administrative des étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et l’organisation de leur retour dans leur pays d’origine. Il convient de souligner que ce rapport a été inscrit à la programmation des publications de la Cour plusieurs mois avant la présentation du projet de loi au Conseil des ministres puis au Parlement en février 2023, et qu’il a été réalisé et contredit avant la loi immigration de décembre 2023.

    https://www.ccomptes.fr/fr/publications/la-politique-de-lutte-contre-limmigration-irreguliere

    #cour_des_comptes #France #migrations #rapport #frontières #contrôles_frontaliers #efficacité #contrôles_systématiques_aux_frontières #coopération_transfrontalière #Frontex #surveillance_frontalière #force_frontière #sans-papiers #OQTF #éloignement #renvois #expulsions #rétention #détention_administrative #renvois_forcés #laissez-passer_consulaires #aide_au_retour #retour_volontaire #police_aux_frontières (#PAF) #ministère_de_l'intérieur #chiffres #statistiques

    ping @karine4

    • #Pierre_Moscovici s’explique sur le report de la publication de la Cour des comptes sur l’immigration irrégulière : « Je n’ai rien cherché à dissimuler »

      Plusieurs élus ont dénoncé une entrave volontaire au débat démocratique. Auprès de « CheckNews », le président de la Cour des comptes se défend et dit qu’il n’a « rien cherché à dissimuler ».

      Un timing qui interroge. Le 4 janvier, soit deux semaines après la #commission_mixte_paritaire (#CMP) qui s’est réunie pour l’examen de la loi immigration sur fond de crise politique sévère – et qui a finalement abouti à l’adoption d’un texte plus dur que la version initiale proposée par le gouvernement – la Cour des comptes a publié son rapport sur la politique de lutte contre l’immigration irrégulière.

      Ses conclusions dressent notamment le bilan médiocre de la politique migratoire de l’Etat. Et pointent une « stratégie globale illisible et incohérente » de l’Intérieur. Mais au-delà du propos, c’est aujourd’hui le choix de son président, le socialiste Pierre Moscovici, de repousser la publication de ce rapport, qui se retrouve sous le feu des critiques. A l’origine, le texte devait en effet être publié le 13 décembre. C’était sans compter, deux jours plus tôt, sur la motion de rejet de l’Assemblée, qui a ouvert la voie à une CMP.

      Lors de sa présentation du rapport, Moscovici a expliqué qu’il n’avait pas souhaité que ce texte « puisse interférer en quoi que ce soit avec un débat passionné voire passionnel ».

      Le lendemain, il revient sur ce choix, et défend sur LCI une « décision prise personnellement et que j’assume totalement. La Cour publie ses rapports quand elle le veut. Nous avions programmé de le faire le 13 décembre. C’était le surlendemain du vote sur la motion de rejet de la loi sur l’immigration. Je sais pas si vous imaginez un tel rapport qui sort à ce moment-là, trois jours avant la commission mixte paritaire ? Qu’est-ce qu’on aurait dit ? Certains, à droite ou à l’extrême droite, auraient dit : “Quel scandale, rien ne marche, il faut être beaucoup plus dur”. Les autres : “Déjà ça ne marche pas, donc on n’a pas besoin d’une loi”. »
      « Je n’ai pas voulu que ce rapport soit déformé »

      Face au présentateur Darius Rochebin qui lui oppose qu’il s’agit là du fondement du « débat démocratique », Pierre Moscovici répond : « Oui, mais nous étions dans une crise politique, dans un moment où les arguments rationnels se faisaient peu entendre. Je n’ai pas voulu que ce rapport soit déformé et je n’ai pas voulu interférer avec un vote sous pression. »

      Ce dimanche 7 janvier, ils sont nombreux à s’indigner davantage de cette justification. A droite, Laurent Wauquiez appelle à la démission de Pierre Moscovici, dénonçant un « manquement grave à notre démocratie et aux obligations les plus élémentaires qui s’imposent à la Cour des comptes ». De son côté, Rachida Dati estime que « Pierre Moscovici a utilisé son pouvoir personnel pour priver le Parlement d’éléments factuels pour légiférer sur l’immigration ».

      Des critiques auxquelles se joignent certaines voix de gauche. Le député LFI Thomas Portes parle ainsi de « magouilles d’un autre âge » et d’un « mépris profond pour les citoyens et les élus ». Quant à Antoine Léaument, élu insoumis aussi, il déplore des « propos incroyables du président de la Cour des comptes » qui « a décidé de garder cachée une information qui pouvait être d’utilité publique ».

      « Je n’avais pas d’autres choix »

      Pierre Moscovici, joint par CheckNews ce dimanche matin, note que ces critiques ne proviennent ni de « toute la droite, ni de toute la gauche ». Sur le fond, contrairement à sa justification initiale du 4 janvier (où il indiquait qu’il ne souhaitait pas que la publication « puisse interférer en quoi que ce soit avec un débat passionné voire passionnel »), il indique aujourd’hui que le 13 décembre, date à laquelle le rapport devait être initialement publié, « le débat était clos par la motion de rejet ».

      Et de préciser : « Il n’y avait plus de débat parlementaire mais une crise politique, à dénouer par une procédure particulière. Si le rapport avait été publié comme prévu, il y aurait eu un déluge de réactions qui n’auraient pas alimenté le débat mais les passions. L’institution est là pour éclairer les citoyens, pas pour nourrir les controverses entre partis pendant une CMP. Je n’avais pas d’autre choix. Les mêmes qui poussent des cris d’orfraie auraient assuré que la Cour des comptes ne laissait pas le parlement travailler librement, et lui auraient reproché de s’immiscer dans sa souveraineté. Aucune de nos analyses n’aurait été reprise sereinement. Mes raisons sont de bon sens, je n’ai rien cherché à dissimuler : j’ai simplement joué mon rôle en protégeant l’indépendance, la neutralité et l’impartialité de l’institution que je préside. Ces critiques de mauvaise foi montrent aujourd’hui en quoi la publication du rapport le 13 décembre aurait simplement nourri la violence du combat politique. »

      https://www.liberation.fr/checknews/pourquoi-pierre-moscovici-a-t-il-differe-la-publication-du-rapport-de-la-

  • #Loi_immigration : l’accueil des étrangers n’est pas un fardeau mais une nécessité économique

    Contrairement aux discours répétés ad nauseam, le #coût des aides accordées aux immigrés, dont la jeunesse permet de compenser le vieillissement des Français, est extrêmement faible. Le #poids_financier de l’#immigration n’est qu’un #faux_problème brandi pour flatter les plus bas instincts.

    Quand les paroles ne sont plus audibles, écrasées par trop de contre-vérités et de mauvaise foi, il est bon parfois de se référer aux #chiffres. Alors que le débat sur la loi immigration va rebondir dans les semaines à venir, l’idée d’entendre à nouveau les sempiternels discours sur l’étranger qui coûte cher et prend nos emplois nous monte déjà au cerveau. Si l’on regarde concrètement ce qu’il en est, le coût de l’immigration en France, que certains présentent comme bien trop élevé, serait en réalité extrêmement faible selon les économistes. Pour l’OCDE, il est contenu entre -0,5% et +0,5% du PIB selon les pays d’Europe, soit un montant parfaitement supportable. Certes, les immigrés reçoivent davantage d’#aides que les autres (et encore, beaucoup d’entre elles ne sont pas réclamées) car ils sont pour la plupart dans une situation précaire, mais leur #jeunesse permet de compenser le vieillissement de la population française, et donc de booster l’économie.

    Eh oui, il est bien loin ce temps de l’après-guerre où les naissances explosaient : les bébés de cette période ont tous pris leur retraite ou sont en passe de le faire et, bientôt, il n’y aura plus assez de jeunes pour abonder les caisses de #retraite et d’#assurance_sociale. Sans compter que, vu l’allongement de la durée de vie, la question de la dépendance va requérir énormément de main-d’œuvre et, pour le coup, devenir un véritable poids financier. L’immigration, loin d’être un fardeau, est bien une #nécessité si l’on ne veut pas voir imploser notre modèle de société. Les Allemands, eux, l’assument haut et fort : ils ont besoin d’immigrés pour faire tourner le pays, comme l’a clamé le chancelier Olaf Scholz au dernier sommet économique de Davos. Le poids financier de l’immigration est donc un faux problème brandi par des politiques qui ne pensent qu’à flatter les plus bas instincts d’une population qui craint que l’avenir soit pire encore que le présent. On peut la comprendre, mais elle se trompe d’ennemi.

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/editorial/loi-immigration-laccueil-des-etrangers-nest-pas-un-fardeau-mais-une-neces
    #économie #démographie #France #migrations

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    voir aussi cette métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration... des arguments pour détruire l’#idée_reçue : « Les migrants profitent (voire : viennent POUR profiter) du système social des pays européens »...
    https://seenthis.net/messages/971875

    ping @karine4

    • Sur les #prestations_sociales aux étrangers, la #contradiction d’#Emmanuel_Macron

      Le pouvoir exécutif vante une loi « immigration » qui concourt à une meilleure intégration des « travailleurs » et soutient « ceux qui travaillent ». Mais la restriction des droits sociaux pour les non-Européens fragilise le système de #protection_sociale.

      Depuis son adoption au Parlement, la loi relative à l’immigration est présentée par Emmanuel Macron et par le gouvernement comme fidèle à la doctrine du « #en_même_temps ». D’un côté, le texte prétend lutter « contre les #passeurs » et l’entrée illicite d’étrangers dans l’Hexagone. De l’autre, il viserait à « mieux intégrer ceux qui ont vocation à demeurer sur notre sol » : les « réfugiés, étudiants, chercheurs, travailleurs ». En s’exprimant ainsi dans ses vœux à la nation, le 31 décembre 2023, le président de la République a cherché à montrer que la #réforme, fruit d’un compromis avec les élus Les Républicains, et inspirée par endroits du logiciel du Rassemblement national, conciliait #fermeté et #humanisme.

      Mais cette volonté d’#équilibre est contredite par les mesures concernant les prestations sociales. En réalité, le texte pose de nouvelles règles qui durcissent les conditions d’accès à plusieurs droits pour les étrangers non ressortissants de l’Union européenne, en situation régulière, ce qui risque de plonger ces personnes dans le dénuement.

      Un premier régime est créé, qui prévoit que l’étranger devra soit avoir résidé en France depuis au moins cinq ans, soit « justifier d’une durée d’affiliation d’au moins trente mois au titre d’une activité professionnelle » – sachant que cela peut aussi inclure des périodes non travaillées (chômage, arrêt-maladie). Ce « #délai_de_carence » est une nouveauté pour les aides visées : #allocations_familiales, prestation d’accueil du jeune enfant, allocation de rentrée scolaire, complément familial, allocation personnalisée d’autonomie, etc.

      « #Régression considérable »

      Un deuxième régime est mis en place pour les #aides_personnelles_au_logement (#APL) : pour les toucher, l’étranger devra soit être titulaire d’un visa étudiant, soit être établi sur le territoire depuis au moins cinq ans, soit justifier d’une « durée d’affiliation d’au moins trois mois au titre d’une activité professionnelle ». Là aussi, il s’agit d’une innovation. Ces critères plus stricts, précise la loi, ne jouent cependant pas pour ceux qui ont obtenu le statut de réfugié ou détiennent la carte de résident.

      Le 19 décembre 2023, Olivier Dussopt, le ministre du travail, a réfuté la logique d’une #discrimination entre nationaux et étrangers, et fait valoir que le texte établissait une « #différence » entre ceux qui travaillent et ceux qui ne travaillent pas, « qu’on soit français ou qu’on soit étranger ». « Nous voulons que celles et ceux qui travaillent soient mieux accompagnés », a-t-il ajouté, en faisant allusion au délai de carence moins long pour les étrangers en emploi que pour les autres. Une présentation qui omet que le nouveau régime ne s’applique qu’aux résidents non européens, et laisse penser que certains étrangers mériteraient plus que d’autres d’être couverts par notre #Etat-providence.

      Alors que la loi est censée faciliter – sous certaines conditions – l’#intégration de ressortissants d’autres pays, des spécialistes de la protection sociale considèrent que les mesures sur les prestations tournent le dos à cet objectif. « Les délais de carence vont totalement à l’encontre de l’intégration que l’on prétend viser », estime Michel Borgetto, professeur émérite de l’université Paris Panthéon-Assas. Ils risquent, d’une part, de « précipiter dans la #précarité des personnes confrontées déjà à des #conditions_de_vie difficiles, ce qui aura pour effet d’accroître le nombre de #travailleurs_pauvres et de #mal-logés, voire de #sans-abri, relève-t-il. Ils sont, d’autre part, susceptibles de se révéler largement contre-productifs et terriblement néfastes, poursuit le spécialiste du droit de la #sécurité_sociale, dans la mesure où les étrangers en situation régulière se voient privés des aides et accompagnements nécessaires à leur insertion durable dans la société, dans les premiers mois ou années de leur vie en France. C’est-à-dire, en fait, au moment même où ils en ont précisément le plus besoin… »

      Maîtresse de conférences en droit social à l’université Lyon-II, Laure Camaji tient à rappeler que les prestations visées constituent des « #droits_universels, attribués depuis des décennies en raison de la résidence sur le territoire ». « Cela fait bien longtemps – depuis une loi de 1975 – que le droit aux #prestations_familiales n’est plus lié à l’exercice d’une #activité_professionnelle, souligne-t-elle. C’est un principe fondamental de notre système de sécurité sociale, un #acquis majeur qui forme le socle de notre #pacte_social, tout comme l’est l’#universalité de la #couverture_maladie, de la prise en charge du #handicap et de la #dépendance, du droit au logement et à l’#hébergement_d’urgence. »

      A ses yeux, le texte entraîne une « régression considérable » en instaurant une « #dualité de régimes entre les Français et les Européens d’un côté, les personnes non ressortissantes de l’Union de l’autre ». L’intégralité du système de protection sociale est fragilisée, « pour tous, quelle que soit la nationalité, l’origine, la situation familiale, puisque l’universalité n’est plus le principe », analyse-t-elle.

      Motivation « idéologique »

      Francis Kessler, maître de conférences à l’université Paris-I Panthéon-Sorbonne, ne comprend pas « la logique à l’œuvre dans cette loi, sauf à considérer qu’il est illégitime de verser certaines prestations à une catégorie de la population, au motif qu’elle n’a pas la nationalité française, ou que les étrangers viennent en France pour toucher des aides – ce qu’aucune étude n’a démontré ». En réalité, complète-t-il, la seule motivation de cette loi est « idéologique » : « Elle repose très clairement sur une idée de “#préférence_nationale” et place notre pays sur une pente extrêmement dangereuse. »

      Toute la question, maintenant, est de savoir si les dispositions en cause seront validées par le #Conseil_constitutionnel. L’institution de la rue de Montpensier a été saisie par la présidente de l’Assemblée nationale, Yaël Braun-Pivet, ainsi que par des députés et sénateurs de gauche, notamment sur les restrictions des #aides_financières aux étrangers. Les parlementaires d’opposition ont mis en avant le fait que les délais de carence violaient – entre autres – le #principe_d’égalité. Plusieurs membres du gouvernement, dont la première ministre, Elisabeth Borne, ont reconnu que des articles du texte, comme celui sur les APL, pouvaient être jugés contraires à la Loi fondamentale. Le Conseil constitutionnel rendra sa décision avant la fin du mois de janvier.

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2024/01/05/sur-les-prestations-sociales-aux-etrangers-la-contradiction-d-emmanuel-macro
      #Macron #loi_immigration #accès_aux_droits

  • I processi farsa che in Marocco trasformano i migranti in trafficanti

    Quasi 70 persone in transito sono state accusate di reati legati all’immigrazione irregolare in seguito al “massacro di Melilla” del 24 giugno 2022. Una strategia, con il benestare dell’Ue, per scoraggiare le partenze e gli arrivi nel Paese.

    Ange Dajbo si trova a oltre quattromila chilometri da casa sua ma a meno di dieci minuti di strada in auto dalla destinazione finale del suo viaggio. Nonostante non sia mai stata così vicina all’enclave spagnola di Melilla (assieme a Ceuta le uniche frontiere terrestri dell’Unione europea con l’Africa) la donna ivoriana di 31 anni è più lontana che mai dalla Spagna. Non ci sono soltanto decine di chilometri di filo spinato, rilevatori di movimento, droni, e numerose squadre della polizia marocchina e spagnola a separarla dall’Europa. A fine settembre scorso, Ange Dajbo e suo marito Alphonse, genitori di un bambino di un anno, sono stati processati dal giudice di Nador, città nel Nord del Paese, entrambi accusati di reati legati all’immigrazione irregolare.

    Le autorità marocchine accusano i Dajbo di essere la catena di trasmissione tra la comunità subsahariana e una rete di trafficanti, sulla base di una deposizione alla polizia giudiziaria che la famiglia racconta essergli stata estorta con la violenza. “Ero venuto in Marocco per emigrare irregolarmente -si legge nel documento- ma poi ho iniziato questo business e con i 500 dirham (46 euro, ndr) a persona che guadagnavo mantenevo me e mia moglie”. Questo impianto accusatorio è valso ad Alphonse Dajbo la condanna a un anno di carcere, una pena che potrebbe salire in appello. Sua moglie è stata assolta. “Noi non parliamo neanche arabo -ricorda Ange Dajbo- non capivamo di cosa ci accusavano e non sappiamo cosa ci hanno fatto firmare”.

    Il 18 ottobre 2022, pochi giorni dopo la nascita di suo figlio, 470 migranti tentano in massa l’attraversamento della frontiera di Melilla. Una settimana dopo la polizia marocchina, di notte, sfonda la porta del loro appartamento e li arresta. “Abbiamo vissuto mesi nascosti in una foresta. Quando ho scoperto di essere incinta abbiamo trovato una camera in affitto per accudire il bambino, mentre mio marito faceva qualche lavoretto come carrozziere o garzone al mercato”, racconta la donna mentre discute la strategia difensiva con l’avvocato Mbarek Bouirig, che si è fatto carico probono della difesa della famiglia.

    Città del Nord del Marocco come Nador, Tangeri e Fnidaq sono diventate magneti per i candidati all’emigrazione. A migliaia si nascondono nelle foreste in periferia nel timore di essere arrestati, processati o deportati verso il Sud del Regno dove c’è richiesta di manodopera agricola a basso costo.

    L’avvocato, che assiste altri dieci migranti coinvolti in processi simili a Nador, ritiene che l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri “risenta dell’influenza della politica migratoria dello Stato”. In altre parole, secondo Bouirig, il processo alla famiglia Dajbo è soltanto uno dei tasselli della strategia del governo, volta scoraggiare i migranti subsahariani non solo dal tentare il passaggio, ma anche dal sostare nelle città frontaliere in attesa della notte giusta per partire in gommone per la Spagna o tentare di oltrepassare il confine terrestre con Melilla. Nel 2023 circa 15mila migranti sono arrivati in Spagna dal Nord del Marocco e altri 35mila si sono diretti alle Canarie partendo dal Sud del Regno: numeri che si avvicinano a quelli degli arrivi in Grecia (43mila) e non erano così cospicui dal 2018, su una rotta che ha fatto più di 950 vittime secondo l’Ong Caminando Fronteras.

    Il 24 giugno 2022, Ange e Alphonse Dajbo si trovavano a Casablanca quando circa duemila migranti, principalmente sudanesi, attaccarono in massa la barriera dell’enclave in quello che è passato alle cronache come “il massacro di Melilla”. La reazione violenta della Guardia Civil spagnola e della Gendarmerie marocchina ha causato la morte di almeno 37 persone, mentre 77 risultano tutt’oggi scomparse.

    Nonostante entrambi i Paesi abbiano aperto dei fascicoli per indagare sulle responsabilità delle autorità, i soli colpevoli a essere individuati dai giudici marocchini sono stati 33 migranti, di cui 18 hanno visto triplicare la pena in appello arrivando a condanne anche di tre anni in carcere. Altri 32 sono tutt’ora in giudizio con l’accusa di appartenere a reti criminali. “A partire da quella data abbiamo riscontrato un aumento dei procedimenti giudiziari a carico dei migranti subsahariani”, spiega Omar Naji, responsabile dell’Association marocaine des droits de l’homme (Amdh).

    Da allora analizza l’attività dei tribunali della regione per la controversa pratica di perseguire le persone in transito come trafficanti, una strategia apparentemente progettata per scoraggiare ulteriori flussi migratori. Benché non sia disponibile nessun dato statistico sui procedimenti aperti nei confronti dei migranti subsahariani, Omar Naji è convinto che i numeri di quella che definisce “repressione giudiziaria delle migrazioni” siano in costante aumento.

    Sono 1.221 i morti registrati nel 2022 lungo la rotta, sia di terra sia di mare, tra il Marocco e l’Unione europea a fronte di 30mila arrivi. Nel 2015 erano decedute 67 persone su 17mila che erano riuscite a raggiungere il territorio europeo. È il tragico costo della “gestione dei flussi” dell’Ue

    “Un processo non lascia cicatrici sul corpo -osserva nel suo ufficio a Nador- ma allarma l’intera comunità con la minaccia della privazione della libertà, una delle poche gioie della vita che resta ai migranti”. Il Marocco è considerato un partner strategico per il controllo dell’immigrazione e la sua collaborazione con l’Ue illustra ciò che potrebbe accadere anche in Tunisia, da dove sono già partiti più di 95mila migranti nel 2023. Anche se i numeri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) non distinguono tra i morti via mare lungo la rotta delle Isole Canarie e quelli lungo la frontiera terrestre con Ceuta e Melilla, secondo l’Amdh i dati restano indicativi del fatto che ci sia una correlazione tra l’aumento dei fondi europei e l’aumento delle persone che muoiono.

    “Addobbato con la retorica del voler salvare vite umane e del combattere le reti criminali, il denaro europeo ha reso il passaggio più remunerativo per i trafficanti e più rischioso per i migranti”, spiega Omar Naji, che sottolinea anche come il Marocco renda più o meno porose le sue frontiere per rinforzare la propria posizione nello scacchiere diplomatico. A fronte di 234 milioni di euro stanziati dal 2015, di cui quasi quattro quinti spesi per la gestione dei confini, e di ulteriori 500 milioni fino al 2027, il numero dei migranti che hanno perso la vita nel tragitto dal Marocco all’Europa è salito vertiginosamente: da 67 morti su circa 17mila arrivi nel 2015, a 1.221 su 30mila nel 2022.

    L’Europa riconosce il Marocco come un “Paese sicuro”, ma poche persone più di Aboubacar Wann Diallo sanno che la realtà è più ombreggiata delle categorie del diritto. Esce dalla prigione di Nador dopo aver visitato uno dei sopravvissuti alla strage del 24 giugno, oggi in galera. “Come sta?”, crepita una voce all’altro capo del telefono, in Sudan. “Abdallah è triste, ma sta bene. Vi manda un abbraccio”, risponde Aboubacar alla madre del condannato.

    Dopo esser fuggito dalle persecuzioni politiche nel suo Paese, il guineano laureato in giurisprudenza è arrivato in Marocco nel 2013 dove oggi lavora per un’associazione locale: accompagna i migranti di passaggio nella regione, ma soprattutto trascorre le sue giornate tra l’obitorio, il tribunale e il carcere, occupato nel reperire informazioni sui migranti arrestati e nel riconoscimento dei morti in mare o alla frontiera terrestre. “Cerco di restare professionale -spiega-. Ma vacillo quando ascolto la voce in pena della madre di un fratello condannato ingiustamente o deceduto”.

    Racconta che i pubblici ministeri richiedono condanne dure per i migranti, a volte senza conoscere il dossier: “Sembra che ci sia una volontà politica di mandare un messaggio alla comunità nera: se attraversate, andate in prigione”. Aboubacar è diventato una figura rispettata in città e ha saputo costruire stretti legami con le autorità politiche, giudiziarie e di pubblica sicurezza di Nador, superando le discriminazioni quotidiane contro i neri subsahariani. Ma non tutti hanno la stessa fortuna.

    A Oujda, città frontaliera con l’Algeria a circa due ore di macchina da Nador, due famiglie di quattro persone della Costa d’Avorio vivono in un appartamento di trenta metri quadrati in un quartiere periferico. Ritenendo la rotta marocchina troppo rischiosa, stanno preparando le valige per attraversare l’Algeria e raggiungere l’Europa dalla Tunisia. “Preferiamo attraversare il deserto piuttosto che essere obbligati a vivere nascosti per paura di finire in galera”, afferma Karen Jospeh, trentacinquenne camerunense. Come loro, secondo un volontario locale di Alarm Phone, circa 200 persone al giorno stanno facendo la stessa scelta.

    https://altreconomia.it/i-processi-farsa-che-in-marocco-trasformano-i-migranti-in-trafficanti

    #Maroc #migrations #criminalisation_de_la_migration #justice (well...) #procès #dissuasion #Melilla #24_juin_2022 #trafiquants_d'êtres_humains #répression #répression_judiciaire #externalisation

  • UK Migrant GPS Tracking Challenges

    PI filed witness evidence in two cases brought by migrants against their GPS tracking by the UK immigration authorities.

    Privacy International provided witness evidence in two cases (ADL & others v SSHD, and Nelson v SSHD) in support of the Claimants’ claim for judicial review.
    What these cases are about
    ADL & others v Secretary of State for the Home Department

    This case is the first in the UK to get permission before the Administrative Court for judicial review of the Home Office’s GPS tagging of migrants. The Claimants are challenging the decisions of the Secretary of State for the Home Department ("Home Office") to subject them to Electronic Monitoring immigration bail conditions.

    The monitoring is carried out through Global Positioning System ("GPS") ankle trackers. These GPS tracking conditions are highly intrusive surveillance measures. They enable the Home Office to track anyone without immigration status in real time and on a 24/7 basis. The Home Office also states in its Immigration Bail guidance that it will retain the location data generated by the devices for a period of 6 years after they are removed, and may use historical trail data to assess people’s claims to a right to be in the UK on the basis of their right to private and family life.

    The claim challenges the imposition of GPS tracking and the retention of location data on the basis that it fails to comply with Article 8 of the European Convention on Human Rights.
    Nelson v Secretary of State for the Home Department

    This case was brought by Mark Nelson, a car mechanic and father of five. The claim will be heard in the Upper Tribunal. The Claimant is also challenging the imposition of GPS tagging as a disproportionate and unlawful breach of his right to a private and family life under Article 8 of the ECHR. He is further claiming that the government has no lawful authority to require people to wear broken tag (the Claimant’s tag has been malfunctioning for months), amounting to an undemocratic and arbitrary exercise of power.
    What PI argued in its evidence

    PI’s witness evidence in the ADL case demonstrated the particularly invasive nature of GPS technology and the intrusive ways it has been rolled out by the Home Office. It also explained how tracking an individual at all times can reveal highly sensitive data about them including information relating to their sexuality, political opinion, and even their ethnic origin. The evidence highlighted the frequency with which inaccuracies can arise in the location data collected by the devices with reference to research carried out by PI’s technologists. It also underlined the significant consequences inaccurate location data could have for an individual’s immigration proceedings. In these ways, PI’s witness evidence built on the ongoing complaints before the Information Commissioner’s Office and the Forensic Science Regulator, which challenge both the quality of the devices used by the Home Office and their compliance with data protection laws.

    PI’s witness evidence in the Nelson case similarly explained the the GPS tags’ functioning and data collection relying on the research conducted by PI’s technologists, and exposed data reliability concerns. It also questioned the Home Office’s explanation of the malfunctioning of the Claimant’s tag.
    Case updates

    On 28 March 2023 the ADL & others claim was granted permission to proceed to a final hearing by the Administrative Court.

    The Nelson case is listed to be heard on 10 and 13 November 2023 in the Upper Tribunal.

    https://privacyinternational.org/legal-action/uk-migrant-gps-tracking-challenges
    #tracking #GPS #géolocalisation #surveillance #migrations #réfugiés #Angleterre #UK #justice

  • Le Pain de silence

    « “Sans doute n’as-tu jamais été un enfant ” dit ma mère sans remuer les lèvres, sans prononcer une syllabe ni un mot, avec ces yeux tristes, en veilleuse que je lui ai toujours vus, comme si elle avait en permanence tiré le rideau sur sa vie, comme si elle avait pu bien sûr être là face à moi, avec son corps et sans pouvoir exprimer ce qui l’habitait, nulle syllabe, aucun mot, depuis tant de temps, un temps qui me dépassait, me submergeait… »

    https://www.editionszoe.ch/auteur/adrien-pasquali
    #livre #Adrien_Pasquali #silence #migrations #Suisse #migrants_italiens #émigration_italienne

    • #Adrien_Pasquali, constructeur d’une maison de mots, a été vaincu par le silence

      L’écrivain suisse d’origine italienne Adrien Pasquali s’est donné la mort mardi à Paris. Il a récemment publié son dernier livre, « Le Pain de silence », aux Editions Zoé à Genève. Romancier, traducteur et brillant universitaire, Pasquali était chargé de cours en littérature romande aux Universités de Lausanne et de Genève. Hommage

      A 40 ans, Adrien Pasquali a choisi de mettre fin à ses jours. La nouvelle est brutale, la stupeur, l’émotion, la consternation sont vives chez tous ses amis et collègues. Le Pain de silence, son dernier roman, vient de paraître (Samedi Culturel du 13 mars) : force nous est aujourd’hui de déchiffrer dans ce récit haletant le testament d’un écrivain pris dans un étau implacable. Le silence, qu’il attaque, qu’il conjure, qu’il apprivoise, a été le plus fort, et il n’aura plus été possible à l’écrivain de différer le point final.

      Romancier, traducteur et brillant universitaire, Adrien Pasquali, né en 1958 à Bagnes, appartenait aux immigrés de la « seconde génération », celle qu’on dit parfois maudite, déracinée, sans lieu ni langue. Après le Collège de St-Maurice, Pasquali fait ses études à l’Université de Fribourg. Sa thèse de doctorat, dirigée par Jean Roudaut, porte sur Adam et Eve de Ramuz. Lecteur de français aux Universités de Saint-Gall, puis de Zurich, Pasquali vivait à Paris depuis plusieurs années, près de ses deux fils, qui comptaient pour lui plus que tout. Depuis 1997, il était chargé de cours en littérature romande aux Universités de Lausanne et Genève. Pasquali était associé au projet d’édition des romans de Ramuz en Pléiade.

      Si la déchirure de l’émigration est omniprésente dans l’univers de Pasquali, ce n’est pas sur le mode de la dénonciation ou de l’analyse : elle aura été une toute-puissante incitation à se construire, dans le langage, une maison de mots. La littérature aura été pour lui une façon d’opposer les formes et la fiction au non-être, une façon de rendre éloquent un silence originel. L’impressionnante bibliographie d’Adrien Pasquali témoigne du rempart qu’il a tenté de construire. A relire l’œuvre à la lumière du dernier livre, et du regard douloureusement lucide qu’il porte sur l’incompatibilité, vécue dans l’enfance, d’une langue et d’un monde irréel parce que non transmis, on est frappé par la constance des thèmes et la cohérence obstinée de l’interrogation pathétique reprise de livre en livre, selon des stratégies, un raffinement et un savoir-faire toujours renouvelés.

      En automne 1982, Ecriture publie le premier texte de Pasquali, lauréat du concours « Qui je lis ? » lancé par la revue. Ce texte, avec une sincérité sans équivoque, fait entendre la voix du futur écrivain : il y rend hommage à ses parents, originaires de la région de Gênes, venus en Valais pour y travailler : « Ils n’emportaient que leur statut, leur condition, une image de laggiù et l’amour qui est le leur ». Cette tendresse ne sera jamais démentie. Le premier récit, Eloge du migrant, est d’ailleurs dédié à ses parents. Le thème de la filiation et des origines hante toute l’œuvre, sans acrimonie. La référence à l’Italie est constante, terre de migration, terre d’enfance et de paysages lumineux. En rapport sans doute avec cette quête des origines, la passion de Pasquali pour la critique génétique.

      Dans son texte de 1982, l’écrivain évoque sa passion pour la littérature romande, dans laquelle il va trouver une forme d’identité. Lisant Corinna Bille, Crisinel, Haldas ou, surtout, Ramuz : « Je découvrais le pays de cet autre qui me forçait bien obligeamment à découvrir le mien ». Dans un récit, L’Histoire dérobée, la narration progressera de pastiche en pastiche, imitant successivement le style de sept « grands intercesseurs » romands. Ce premier texte de 1982 conjure aussi « le miracle de l’inachèvement » : de textes fragmentaires et discontinus aux romans en compositions cycliques, d’énigmes en quêtes irrésolues, et jusqu’à la longue phrase éperdue du dernier récit, ou dans les essais qu’il a consacrés à l’inachèvement, on constate chez Pasquali la hantise de la clôture et du point final.

      Le « silence éloquent »

      La plupart des romans contiennent une réflexion sur leur propre statut, sur leur propre dispositif narratif. Après les audaces expérimentales des premiers livres, les deux derniers récits, La Matta et Le Pain de silence, atteignent une transparence et une force d’évocation poétique à la fois plus puissantes et plus souveraines. Autoréflexion et narration s’harmonisent ici grâce à une langue maîtresse de tous ses enjeux.

      La traduction a été une autre manière, pour Pasquali, de pratiquer un « silence éloquent » : il a été le traducteur d’Alice Ceresa et de Giovanni Orelli, de Mario Lavaggetto et tout récemment, d’Aurelio Buletti (Ed. Empreintes, 1998). A l’impossible inscription dans un seul moule linguistique aura fait place, ici, une invitation à habiter dans la diversité des langues.

      Les sections de français des Universités de Lausanne et Genève rendront hommage à l’œuvre d’Adrien Pasquali lors d’une manifestation dans le courant du mois de mai.

      https://www.letemps.ch/culture/adrien-pasquali-constructeur-dune-maison-mots-vaincu-silence

  • Au niveau européen, un pacte migratoire « dangereux » et « déconnecté de la réalité »

    Sara Prestianni, du réseau EuroMed Droits, et Tania Racho, chercheuse spécialiste du droit européen et de l’asile, alertent, dans un entretien à deux voix, sur les #risques de l’accord trouvé au niveau européen et qui sera voté au printemps prochain.

    Après trois années de discussions, un accord a été trouvé par les États membres sur le #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile la semaine dernière. En France, cet événement n’a trouvé que peu d’écho, émoussé par la loi immigration votée au même moment et dont les effets sur les étrangers pourraient être dramatiques.

    Pourtant, le pacte migratoire européen comporte lui aussi son lot de mesures dangereuses pour les migrant·es, entre renforcement des contrôles aux frontières, tri express des demandeurs d’asile, expulsions facilitées des « indésirables » et sous-traitance de la gestion des frontières à des pays tiers. Sara Prestianni, responsable du plaidoyer au sein du réseau EuroMed Droits, estime que des violations de #droits_humains seront inévitables et invite à la création de voies légales qui permettraient de protéger les demandeurs d’asile.

    La chercheuse Tania Racho, spécialiste du droit européen et de l’asile et membre du réseau Désinfox-Migrations, répond qu’à aucun moment les institutions européennes « ne prennent en compte les personnes exilées », préférant répondre à des « objectifs de gestion des migrations ». Dans un entretien croisé, elles alertent sur les risques d’une approche purement « sécuritaire », qui renforcera la vulnérabilité des concernés et les mettra « à l’écart ».

    Mediapart : Le pacte migratoire avait été annoncé par la Commission européenne en septembre 2020. Il aura fait l’objet de longues tergiversations et de blocages. Était-ce si difficile de se mettre d’accord à 27 ?

    Tania Racho : Dans l’état d’esprit de l’Union européenne (UE), il fallait impérativement démontrer qu’il y a une gestion des migrations aux #frontières_extérieures pour rassurer les États membres. Mais il a été difficile d’aboutir à un accord. Au départ, il y avait des mesures pour des voies sécurisées d’accès à l’Union avec plus de titres économiques : ils ont disparu au bénéfice d’une crispation autour des personnes en situation irrégulière.

    Sara Prestianni : La complexité pour aboutir à un accord n’est pas due à la réalité des migrations mais à l’#instrumentalisation du dossier par beaucoup d’États. On l’a bien vu durant ces trois années de négociations autour du pacte : bien que les chiffres ne le justifiaient pas, le sujet a été fortement instrumentalisé. Le résultat, qui à nos yeux est très négatif, est le reflet de ces stratégies : cette réforme ne donne pas de réponse au phénomène en soi, mais répond aux luttes intestines des différents États.

    La répartition des demandeurs d’asile sur le sol européen a beaucoup clivé lors des débats. Pourquoi ?

    Sara Prestianni : D’abord, parce qu’il y a la fameuse réforme du #règlement_Dublin [qui impose aux exilés de demander l’asile dans le pays par lequel ils sont entrés dans l’UE - ndlr]. Ursula von der Leyen [présidente de la Commission – ndlr] avait promis de « #dépasser_Dublin ». Il est aujourd’hui renforcé. Ensuite, il y a la question de la #solidarité. La #redistribution va finalement se faire à la carte, alors que le Parlement avait tenté de revenir là-dessus. On laisse le choix du paiement, du support des murs et des barbelés aux frontières internes, et du financement de la dimension externe. On est bien loin du concept même de solidarité.

    Tania Racho : L’idée de Dublin est à mettre à la poubelle. Pour les Ukrainiens, ce règlement n’a pas été appliqué et la répartition s’est faite naturellement. La logique de Dublin, c’est qu’une personne qui trouve refuge dans un État membre ne peut pas circuler dans l’UE (sans autorisation en tout cas). Et si elle n’obtient pas l’asile, elle n’est pas censée pouvoir le demander ailleurs. Mais dans les faits, quelqu’un qui voit sa demande d’asile rejetée dans un pays peut déposer une demande en France, et même obtenir une protection, parce que les considérations ne sont pas les mêmes selon les pays. On s’interroge donc sur l’utilité de faire subir des transferts, d’enfermer les gens et de les priver de leurs droits, de faire peser le coût de ces transferts sur les États… Financièrement, ce n’est pas intéressant pour les États, et ça n’a pas de sens pour les demandeurs d’asile.

    D’ailleurs, faut-il les répartir ou leur laisser le libre #choix dans leur installation ?

    Tania Racho : Cela n’a jamais été évoqué sous cet angle. Cela a du sens de pouvoir les laisser choisir, parce que quand il y a un pays de destination, des attaches, une communauté, l’#intégration se fait mieux. Du point de vue des États, c’est avant tout une question d’#efficacité. Mais là encore on ne la voit pas. La Cour européenne des droits de l’homme a constaté, de manière régulière, que l’Italie ou la Grèce étaient des États défaillants concernant les demandeurs d’asile, et c’est vers ces pays qu’on persiste à vouloir renvoyer les personnes dublinées.

    Sara Prestianni : Le règlement de Dublin ne fonctionne pas, il est très coûteux et produit une #errance continue. On a à nouveau un #échec total sur ce sujet, puisqu’on reproduit Dublin avec la responsabilité des pays de première entrée, qui dans certaines situations va se prolonger à vingt mois. Même les #liens_familiaux (un frère, une sœur), qui devaient permettre d’échapper à ce règlement, sont finalement tombés dans les négociations.

    En quoi consiste le pacte pour lequel un accord a été trouvé la semaine dernière ?

    Sara Prestianni : Il comporte plusieurs documents législatifs, c’est donc une #réforme importante. On peut évoquer l’approche renforcée des #hotspots aux #frontières, qui a pourtant déjà démontré toutes ses limites, l’#enfermement à ciel ouvert, l’ouverture de #centres_de_détention, la #procédure_d’asile_accélérée, le concept de #pays-tiers_sûr que nous rejetons (la Tunisie étant l’exemple cruel des conséquences que cela peut avoir), la solidarité à la carte ou encore la directive sur l’« instrumentalisation » des migrants et le concept de #force_majeure en cas d’« #arrivées_massives », qui permet de déroger au respect des droits. L’ensemble de cette logique, qui vise à l’utilisation massive de la #détention, à l’#expulsion et au #tri des êtres humains, va engendrer des violations de droits, l’#exclusion et la #mise_à_l’écart des personnes.

    Tania Racho : On met en place des #centres_de_tri des gens aux frontières. C’est d’une #violence sans nom, et cette violence est passée sous silence. La justification du tri se fait par ailleurs sur la nationalité, en fonction du taux de protection moyen de l’UE, ce qui est absurde car le taux moyen de protection varie d’un pays à l’autre sur ce critère. Cela porte aussi une idée fausse selon laquelle seule la nationalité prévaudrait pour obtenir l’asile, alors qu’il y a un paquet de motifs, comme l’orientation sexuelle, le mariage forcé ou les mutilations génitales féminines. Difficile de livrer son récit sur de tels aspects après un parcours migratoire long de plusieurs mois dans le cadre d’une #procédure_accélérée.

    Comment peut-on opérer un #tri_aux_frontières tout en garantissant le respect des droits des personnes, du droit international et de la Convention de Genève relative aux réfugiés ?

    Tania Racho : Aucune idée. La Commission européenne parle d’arrivées mixtes et veut pouvoir distinguer réfugiés et migrants économiques. Les premiers pourraient être accueillis dignement, les seconds devraient être expulsés. Le rush dans le traitement des demandes n’aidera pas à clarifier la situation des personnes.

    Sara Prestianni : Ils veulent accélérer les procédures, quitte à les appliquer en détention, avec l’argument de dire « Plus jamais Moria » [un camp de migrants en Grèce incendié – ndlr]. Mais, ce qui est reproduit ici, c’est du pur Moria. En septembre, quand Lampedusa a connu 12 000 arrivées en quelques jours, ce pacte a été vendu comme la solution. Or tel qu’il est proposé aujourd’hui, il ne présente aucune garantie quant au respect du droit européen et de la Convention de Genève.

    Quels sont les dangers de l’#externalisation, qui consiste à sous-traiter la gestion des frontières ?

    Sara Prestianni : Alors que se négociait le pacte, on a observé une accélération des accords signés avec la #Tunisie, l’#Égypte ou le #Maroc. Il y a donc un lien très fort avec l’externalisation, même si le concept n’apparaît pas toujours dans le pacte. Là où il est très présent, c’est dans la notion de pays tiers sûr, qui facilite l’expulsion vers des pays où les migrants pourraient avoir des liens.

    On a tout de même l’impression que ceux qui ont façonné ce pacte ne sont pas très proches du terrain. Prenons l’exemple des Ivoiriens qui, à la suite des discours de haine en Tunisie, ont fui pour l’Europe. Les États membres seront en mesure de les y renvoyer car ils auront a priori un lien avec ce pays, alors même qu’ils risquent d’y subir des violences. L’Italie négocie avec l’#Albanie, le Royaume-Uni tente coûte que coûte de maintenir son accord avec le #Rwanda… Le risque, c’est que l’externalisation soit un jour intégrée à la procédure l’asile.

    Tania Racho : J’ai appris récemment que le pacte avait été rédigé par des communicants, pas par des juristes. Cela explique combien il est déconnecté de la réalité. Sur l’externalisation, le #non-refoulement est prévu par le traité sur le fonctionnement de l’UE, noir sur blanc. La Commission peut poursuivre l’Italie, qui refoule des personnes en mer ou signe ce type d’accord, mais elle ne le fait pas.

    Quel a été le rôle de l’Italie dans les discussions ?

    Sara Prestianni : L’Italie a joué un rôle central, menaçant de faire blocage pour l’accord, et en faisant passer d’autres dossiers importants à ses yeux. Cette question permet de souligner combien le pacte n’est pas une solution aux enjeux migratoires, mais le fruit d’un #rapport_de_force entre les États membres. L’#Italie a su instrumentaliser le pacte, en faisant du #chantage.

    Le pacte n’est pas dans son intérêt, ni dans celui des pays de premier accueil, qui vont devoir multiplier les enfermements et continuer à composer avec le règlement Dublin. Mais d’une certaine manière, elle l’a accepté avec la condition que la Commission et le Conseil la suivent, ou en tout cas gardent le silence, sur l’accord formulé avec la Tunisie, et plus récemment avec l’Albanie, alors même que ce dernier viole le droit européen.

    Tania Racho : Tout cela va aussi avoir un #coût – les centres de tri, leur construction, leur fonctionnement –, y compris pour l’Italie. Il y a dans ce pays une forme de #double_discours, où on veut d’un côté dérouter des bateaux avec une centaine de personnes à bord, et de l’autre délivrer près de 450 000 visas pour des travailleurs d’ici à 2025. Il y a une forme illogique à mettre autant d’énergie et d’argent à combattre autant les migrations irrégulières tout en distribuant des visas parce qu’il y a besoin de #travailleurs_étrangers.

    Le texte avait été présenté, au départ, comme une réponse à la « crise migratoire » de 2015 et devait permettre aux États membres d’être prêts en cas de situation similaire à l’avenir. Pensez-vous qu’il tient cet objectif ?

    Tania Racho : Pas du tout. Et puisqu’on parle des Syriens, rappelons que le nombre de personnes accueillies est ridicule (un million depuis 2011 à l’échelle de l’UE), surtout lorsqu’on le compare aux Ukrainiens (10 millions accueillis à ce jour). Il est assez étonnant que la comparaison ne soit pas audible pour certains. Le pacte ne résoudra rien, si ce n’est dans le narratif de la Commission européenne, qui pense pouvoir faire face à des arrivées mixtes.

    On a les bons et mauvais exilés, on ne prend pas du tout en compte les personnes exilées, on s’arrête à des objectifs de #gestion alors que d’autres solutions existent, comme la délivrance de #visas_humanitaires. Elles sont totalement ignorées. On s’enfonce dans des situations dramatiques qui ne feront qu’augmenter le tarif des passeurs et le nombre de morts en mer.

    Sara Prestianni : Si une telle situation se présente de nouveau, le règlement « crise » sera appliqué et permettra aux États membres de tout passer en procédure accélérée. On sera donc dans un cas de figure bien pire, car les entraves à l’accès aux droits seront institutionnalisées. C’est en cela que le pacte est dangereux. Il légitime toute une série de violations, déjà commises par la Grèce ou l’Italie, et normalise des pratiques illégales. Il occulte les mesures harmonisées d’asile, d’accueil et d’intégration. Et au lieu de pousser les États à négocier avec les pays de la rive sud, non pas pour renvoyer des migrants ou financer des barbelés mais pour ouvrir des voies légales et sûres, il mise sur une logique sécuritaire et excluante.

    Cela résonne fortement avec la loi immigration votée en France, supposée concilier « #humanité » et « #fermeté » (le pacte européen, lui, prétend concilier « #responsabilité » et « #solidarité »), et qui mise finalement tout sur le répressif. Un accord a été trouvé sur les deux textes au même moment, peut-on lier les deux ?

    Tania Racho : Dans les deux cas, la seule satisfaction a été d’avoir un accord, dans la précipitation et dans une forme assez particulière, entre la commission mixte paritaire en France et le trilogue au niveau européen. Ce qui est intéressant, c’est que l’adoption du pacte va probablement nécessiter des adaptations françaises. On peut lier les deux sur le fond : l’idée est de devoir gérer les personnes, dans le cas français avec un accent particulier sur la #criminalisation_des_étrangers, qu’on retrouve aussi dans le pacte, où de nombreux outils visent à lutter contre le terrorisme et l’immigration irrégulière. Il y a donc une même direction, une même teinte criminalisant la migration et allant dans le sens d’une fermeture.

    Sara Prestianni : Les États membres ont présenté l’adoption du pacte comme une grande victoire, alors que dans le détail ce n’est pas tout à fait évident. Paradoxalement, il y a eu une forme d’unanimité pour dire que c’était la solution. La loi immigration en France a créé plus de clivages au sein de la classe politique. Le pacte pas tellement, parce qu’après tant d’années à la recherche d’un accord sur le sujet, le simple fait d’avoir trouvé un deal a été perçu comme une victoire, y compris par des groupes plus progressistes. Mais plus de cinquante ONG, toutes présentes sur le terrain depuis des années, sont unanimes pour en dénoncer le fond.

    Le vote du pacte aura lieu au printemps 2024, dans le contexte des élections européennes. Risque-t-il de déteindre sur les débats sur l’immigration ?

    Tania Racho : Il y aura sans doute des débats sur les migrations durant les élections. Tout risque d’être mélangé, entre la loi immigration en France, le pacte européen, et le fait de dire qu’il faut débattre des migrations parce que c’est un sujet important. En réalité, on n’en débat jamais correctement. Et à chaque élection européenne, on voit que le fonctionnement de l’UE n’est pas compris.

    Sara Prestianni : Le pacte sera voté avant les élections, mais il ne sera pas un sujet du débat. Il y aura en revanche une instrumentalisation des migrations et de l’asile, comme un outil de #propagande, loin de la réalité du terrain. Notre bataille, au sein de la société civile, est de continuer notre travail de veille et de dénoncer les violations des #droits_fondamentaux que cette réforme, comme d’autres par le passé, va engendrer.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/au-niveau-europeen-un-pacte-migratoire-dangereux-et-deconnecte-de-la-reali
    #pacte #Europe #pacte_migratoire #asile #migrations #réfugiés

  • #Loi_immigration : après l’arrestation de livreurs en situation irrégulière, la colère d’#Éric_Piolle et d’élus de gauche

    Le maire de Grenoble et des représentants EELV et PS critiquent l’#opération_de_police de ce mercredi en Isère, et au passage la loi immigration.

    Le gouvernement voudrait passer à autre chose, la gauche s’y refuse. La loi immigration est revenue à toute vitesse dans les débats en cette fin décembre, conséquence de l’#arrestation d’une dizaine de #livreurs de repas en situation irrégulière mercredi 27 en #Isère, une information rapportée par Le Dauphiné Libéré. Le maire de #Grenoble, Éric Piolle, suivi par d’autres élus de gauche, a dénoncé « une #indignité » pendant que la CGT parlait de « #rafle ».

    L’édile écologiste a directement interpellé le ministre de l’Intérieur #Gérald_Darmanin, déplorant que « ces personnes seraient donc suffisamment ’régulières’ pour attendre dans le froid de vous livrer vos repas, mais pas pour vivre dignement avec nous ».

    « Voici le vrai visage de ce gouvernement »

    Éric Piolle veut ainsi relancer les discussions autour de la #régularisation des #travailleurs_sans_papiers dans les secteurs en tension. Une mesure ardemment défendue par la gauche pendant les débats sur la loi immigration, mais qui a finalement été écartée de la version du texte adoptée par le Parlement.

    https://twitter.com/EricPiolle/status/1740413156227182760

    Dans le sillage du maire, le secrétaire général du PS, #Olivier_Faure, s’est également exprimé les réseaux sociaux : « Si tous les étrangers en situation régulière ou irrégulière se mettaient en grève une journée, chacun se rendrait compte qu’ils sont dans tous les métiers de la seconde ligne, livreurs, auxiliaires de vie, caristes, assistantes maternelles… loués pendant la crise Covid et puis… ».

    Autre élue EELV, la présidente du groupe écologiste à l’Assemblée #Cyrielle_Chatelain a elle aussi dénoncé l’opération de police, et entre les lignes la loi immigration adoptée définitivement le 19 décembre dernier. « Voici le vrai visage de ce gouvernement : être méchant avec tous les étrangers, même s’ils travaillent, même s’ils s’intègrent », a-t-elle fustigé, là encore sur X (anciennement Twitter).

    Et pour cause : l’opération baptisée « #Uber_Eats », menée simultanément dans plusieurs localités iséroises (Grenoble, #Voiron, #Vienne…), a conduit à l’#interpellation de nombreux livreurs. Des ressortissants algériens, burkinabés, guinéens ou tunisiens qui ont été placés en #garde_à_vue à Lyon et Grenoble après la saisie de leur vélo, et qui ont été libérés après s’être vu notifier des #obligations_de_quitter_le_territoire_français (#OQTF) et des #interdictions_de_retour_sur_le_territoire (#IRTF), comme l’a expliqué #Mohamed_Fofana, responsable CGT des livreurs du département lors d’un point presse organisé ce vendredi.

    Piolle invité à « aimer les policiers »

    « Nous dénonçons cette opération de police (...) dans une période de fêtes où les associations de défense des migrants et beaucoup d’avocats sont en congé et les recours compliqués », a insisté ce responsable. « Nous sommes des travailleurs, pas des délinquants », a-t-il ajouté, rappelant que beaucoup de livreurs travaillent dans des conditions précaires et pour des « rémunérations scandaleusement basses ». « La place Victor Hugo (à Grenoble) a été complètement fermée par des camions de police. C’était une #nasse. Cela s’appelle une rafle quand cela vise une catégorie particulière de personnes », s’est indigné de son côté un responsable de l’Union locale de la CGT, Alain Lavi.

    Le procureur de la République de Grenoble, #Éric_Vaillant, a répondu à Éric Piolle et aux critiques ayant ciblé l’opération : « Ces #contrôles ont été opérés à ma demande. Ils ont aussi permis de constater que les livreurs en situation irrégulière étaient gravement exploités par ceux qui leur sous-louaient leur #licence. Des enquêtes sont engagées », a-t-il indiqué. La préfecture de l’Isère a pour sa part souligné être garante « de l’application des lois de la République ».

    Le ministre de l’Intérieur Gérald #Darmanin, interrogé à ce propos alors qu’il présentait le dispositif de sécurité pour la Saint-Sylvestre, s’est pour sa part contenté de lancer à Éric Piolle : « J’invite le maire de Grenoble à aimer les policiers et à soutenir la loi de la République ».

    https://twitter.com/BFMTV/status/1740687346364739605

    Quelques heures plus heures, l’élu EELV a répondu au ministre dans un tweet, en énumérant « les cinq actes » de la « #tragédie_macroniste : « laisser les #plateformes créer des situations d’#esclavage, voter la loi immigration avec le RN, imposer la politique du chiffre à la police, arrêter des personnes sans défense, inviter à aimer la police ».

    https://twitter.com/EricPiolle/status/1740738174350143880

    https://www.huffingtonpost.fr/politique/article/loi-immigration-apres-l-arrestation-de-livreurs-en-situation-irreguli
    #Eric_Piolle #résistance #migrations #sans-papiers #Eric_Vaillant

  • Nel Mediterraneo non esistono stragi minori

    Mem.Med sul naufragio del 27 ottobre 2023 a #Marinella_di_Selinunte.

    Ahmed, Kousay, Bilel, Wael, Oussema, Souhé, Yassine, Sabrin, Fethi, Ridha, Yezin, Bilel, Mahdi questi sono i nomi di alcune delle persone scomparse a seguito del naufragio avvenuto a Marinella Selinunte in Sicilia (TP) il 27 ottobre 2023.
    Non numeri: erano circa 60 persone partite con un peschereccio da una spiaggia poco lontana da Mahdia, città costiera della Tunisia nord orientale. Sulla rotta per la Sicilia, verso Mazara, avevano viaggiato per alcuni giorni, uomini, donne e minori, tuttə di nazionalità tunisina. Poi, proprio poco prima di arrivare, il viaggio si è arrestato improvvisamente. Alcune persone sono riuscite a sopravvivere e a nuotare fino alla riva, altre hanno perso la vita, non soccorse in tempo, in una dinamica che ricorda molto quella che ha caratterizzato il massacro avvenuto a Steccato di Cutro il 26 febbraio 2023.

    L’indagine è ancora in corso, i fatti non sono chiari ma, da quanto ricostruito, sembrerebbe che a poca distanza dalla riva della spiaggia di Marinella di Selinunte, il peschereccio si sarebbe incagliato in una secca e questo avrebbe provocato il ribaltamento dell’imbarcazione e il successivo annegamento di diverse persone cadute in acqua.

    Nei giorni successivi 6 corpi sono stati recuperati dalla capitaneria di Porto, dalla Guardia Costiera e dai Vigili del fuoco: 5 corpi rinvenuti sulla spiaggia di Marinella di Selinunte e 1 sulla spiaggia di Triscina. Le persone disperse sarebbero almeno 10. Perciò il totale delle persone rimaste uccise sono tra le 15 e le 20.

    Le persone sopravvissute, minori e adulte, sono le uniche a conoscere le dinamiche dell’evento: hanno visto i corpi dellə loro compagnə galleggiare a pochi metri dalla riva e hanno dichiarato che moltə di loro sono rimastə in acqua mentre i soccorsi hanno tardato ad arrivare.
    Nonostante fossero decine le persone disperse, le ricerche dei corpi si sono fermate tre giorni dopo il tragico evento. Le persone sopravvissute sono state ricollocate nei centri siciliani di Porto Empedocle, Milo e Castelvetrano o sono partite in autonomia verso altre mete europee.
    La ricerca di verità

    La procura di Marsala sta conducendo un’inchiesta sull’accaduto. I 6 corpi, tutti maschili, sono stati inizialmente trasferiti a Palermo e sottoposti ad autopsia, nonché a prelievo del DNA e a raccolta dei dati post mortem per l’eventuale identificazione. Dopodiché sono stati riportati a Castelvetrano, 5 sono stati collocati nell’obitorio dell’ospedale locale e 1 al cimitero.

    A pochi giorni dall’accaduto ci siamo recate nel luogo della strage dove, sulla spiaggia deserta e bagnata dalla pioggia, giaceva riverso su un fianco il peschereccio di legno tunisino, semi abbattuto dalla mareggiata.
    Sulla battigia, tutto intorno al relitto, giacevano i resti dell’imbarcazione in pezzi e decine di indumenti delle persone che viaggiavano su quel peschereccio, alcuni oggetti personali e cibo. Uno scenario di guerra. Una guerra senza indignazione, senza riflettori. Consumata nel silenzio assoluto rotto solo dalle onde del mare e dalla pioggia.
    Sappiamo che capita spesso che gli oggetti delle persone in viaggio finiscono in fondo al mare o restano perduti nella sabbia. Quasi sempre le autorità non predispongono la loro conservazione e spesso le famiglie o le comunità di appartenenza non sono in loco per poterli recuperare per tempo. Così quegli oggetti così preziosi si trasformano in pezzi di una memoria mossa via dalle onde.


    Diverse sono le famiglie che nel corso delle settimane passate ci hanno contattato per avere supporto nella ricerca dellə parenti ancora dispersə nella strage del 27.10.2023. Ancora una volta, in mancanza di un efficace sistema di raccolta delle richieste, a livello locale e internazionale, le famiglie sperimentano un non riconoscimento di quella violenza e una delegittimazione delle perdite e del lutto: non se ne parla mediaticamente, le grandi organizzazioni non si attivano, le istituzioni tardano a rispondere, nonostante le famiglie rivendichino con forza verità e giustizia.
    Anche in questa circostanza, i tempi necessari all’identificazione delle salme sono lunghi e incerti, proprio in ragione del fatto che non c’è un lavoro coordinato e le procedure sono frammentate tra più attori: Procura, Medicina legale, Polizia giudiziaria, Consolato tunisino.

    Tra le segnalazioni che ci sono arrivate ci sono quelle delle famiglie di Adem e Kousay, giovani rispettivamente di 20 e 16 anni, originari di Teboulba e Mahdia.

    Adem, Kousay e la lotta delle famiglie

    Qualche settimana fa, in una giornata di novembre, ci siamo recate a Teboulba nella casa tunisina della famiglia di Adem. Sedute in cerchio nel cortile, mentre calava il tramonto, abbiamo ripercorso i fatti dell’evento e abbiamo aggiornato le famiglie delle informazioni raccolte in Sicilia.
    A partecipare all’incontro non c’erano solo la madre, la sorella, il padre e i parenti prossimi di Adem, ma anche tutta la comunità di quartiere, che da settimane vive con angoscia e rabbia questa sparizione.

    Omaima, la sorella di Adem, era seduta al centro del cerchio e pronunciava i nomi delle persone disperse, contandole sulla punta delle dita, come in una preghiera ripetuta.
    Tante sono state le domande poste: Perché non sono stati soccorsi? Erano arrivati, erano a pochi metri da terra! Le autorità hanno continuato a cercarli? È possibile che ci voglia tanto tempo per sapere se Adem è tra quei corpi? Lo vogliamo indietro, lo vogliamo vedere, vogliamo sapere.

    La famiglia ci ha raccontato anche che le autorità tunisine hanno fatto pressione sui genitori dellə giovani accusandoli di essere responsabili del viaggio in mare. Uno dei familiari è stato più volte convocato presso gli uffici di polizia locali per difendersi da queste accuse. Non hanno trovato un colpevole tra i sopravvissuti allora incolpano noi! ha detto il padre di Adem.

    Non è la prima volta che questo accade. Il processo di criminalizzazione della migrazione dal sud al nord del Mediterraneo, se non può colpire i cosiddetti presunti scafisti tra coloro che sopravvivono, scarica sulle famiglie delle persone disperse responsabilità da cui queste sono chiamate a difendersi in un momento tanto violento come quello che caratterizza la scomparsa di unə familiare in mare.
    Sappiamo bene che il silenzio permea le conseguenze di queste necropolitiche che si muovono verso un indirizzo sempre più securitario nella gestione delle migrazioni: il nuovo Patto UE sulla Migrazione legittima abusi e respingimenti che renderanno ancora più mortali le frontiere. Le morti in aumento sono strumentalizzate ai fini di implementare politiche di maggior chiusura, condannando inoltre chi sopravvive alle frontiere a essere reclusə e detenutə e chi cerca di fare luce sulla violenza ad essere destinatariə di una repressione feroce.
    Non è normale morire in frontiera

    Il naufragio di Selinunte è uno di quelli che non destano attenzione, che non infiammano i programmi televisivi, che non fanno scalpore. Sono morte “solo” 6 persone e ci sono “solo” una decina di persone disperse. Non si parla di morte violenta o di strage, si è parlato di incidente: è un naufragio “minore”. Avvenuto nello stesso mese in cui si celebra la Giornata nazionale della memoria per non dimenticare le vittime della migrazione, questo evento – come moltissimi altri – non ha però goduto della stessa attenzione dei “grandi” naufragi e la sua visibilità è dipesa solo grazie al lavoro di alcune brave giornaliste.
    Eppure questa strage, come le altre, interpella responsabilità politiche e collettive: è avvenuta a poche centinaia di metri dalle coste siciliane, a causa della negazione del diritto a muoversi e per assenza di soccorso di persone in difficoltà che prendono la via del mare. Come è avvenuto anche pochi giorni fa al largo della Libia, dove hanno perso la vita almeno 61 persone.
    Come Cutro e Lampedusa, anche questa è una strage da ricordare, una strage che si somma a tante altre sconosciute o rimosse, che insieme fanno migliaia di vite barbaramente spezzate.

    La stessa indifferenza ha colpito le morti delle persone i cui corpi nelle ultime settimane hanno raggiunto l’Isola di Lampedusa, come ha raccontato l’associazione Maldusa che opera sull’isola. Tra il 10 e il 17 novembre sono stati almeno 4 i naufragi e almeno 4 le persone che risultano disperse. Il 20 novembre un altro naufragio ha causato la morte di almeno una bimba di 2 anni e altri dispersi. Il 22 novembre un’altra barca di ferro è naufragata provocando la morte di almeno una donna ivoriana di 26 anni.

    La lotta dellə sopravvissutə e dellə familiarə ci ricorda che non esistano naufragi o stragi “minori”. Con loro ci opponiamo all’idea di una gerarchia delle vite determinata da privilegi attribuiti arbitrariamente ma accettati e normalizzati dall’opinione pubblica.

    Adem, Kousay e le altre 20 persone disperse partite il 26 ottobre da Mahdia non ci sono più e forse non torneranno. Sono ancora in corso gli accertamenti per determinare l’identità delle salme e, attraverso l’esame del DNA, attestare con certezza se Adem e Kousay sono tra i cadaveri recuperati.
    Ci sono però i loro nomi, le loro storie e, soprattutto, c’è la lotta delle loro famiglie: la madre di Adem, di cui suo figlio porta inciso il nome nel tatuaggio sul petto. Il padre di Adem che deve difendersi dai tentativi di criminalizzazione.

    Voglio sapere se il corpo appartiene a mio fratello. E poi voglio che si faccia giustizia, ha detto la sorella Oumaima guardandoci negli occhi, prima che lasciassimo il cortile della loro casa di Teboulba. Il suo volto infervorato non ci ha lasciato dubbi:

    Il loro dolore e la loro rabbia non sono minori a nessuno.

    https://www.meltingpot.org/2023/12/nel-mediterraneo-non-esistono-stragi-minori
    #27_octobre_2023 #Italie #naufrage #décès #migrations #réfugiés #mourir_en_mer #morts_en_mer #Sicile #identification #ceux_qui_restent #Selinunte

  • Trieste capolinea: diventare adulti lungo la rotta balcanica
    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Trieste-capolinea-diventare-adulti-lungo-la-rotta-balcanica-229074

    Trieste, città di frontiera, è l’ultima fermata della rotta balcanica. Nel 2023 i dati hanno registrato un incremento degli arrivi dei minori non accompagnati. Cosa vuol dire crescere lungo la rotta balcanica? Cosa succede una volta arrivati a Trieste? Un’analisi

  • Finland: Concern over right to seek asylum and need for human rights safeguards after full closure of Eastern land border

    In a letter addressed to the Minister of Interior of Finland, #Mari_Rantanen, published today, the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović, raises concerns about the rights of refugees, asylum seekers and migrants following the temporary closure of Finland’s Eastern land border.

    While acknowledging concerns about the potential instrumentalisation by the Russian Federation of the movement of asylum seekers and migrants, “it is crucial that Council of Europe member states, even when dealing with challenging situations at their borders, react in a manner that fully aligns with their human rights obligations”, writes the Commissioner.

    The Commissioner expresses her concern that decisions to restrict and subsequently close access to the border may impact notably on the right to seek asylum, as well as the principle of non-refoulement and prohibition of collective expulsion. She asks for several clarifications on safeguards implemented and measures taken to ensure human rights protection, and to prevent a humanitarian crisis from unfolding in the context of worsening weather conditions at the border.

    The letter follows up on previous dialogue regarding legislative amendments allowing the Finnish government to restrict access to the border and concentrate applications for international protection at one or more crossing points.

    Read the Commissioner’s letter addressed to the Minister of Interior of Finland: https://rm.coe.int/letter-to-the-minister-of-interior-of-finland-concerning-the-human-rig/1680adab75

    https://www.coe.int/en/web/commissioner/-/finland-concern-over-right-to-seek-asylum-and-need-for-human-rights-safeguards-

    #Finlande #frontières #migrations #asile #réfugiés #fermeture_des_frontières #lettre #Russie

    • Il confine tra Russia e Finlandia è «un inferno fatto di ghiaccio».

      Il governo finlandese chiude i valichi di frontiera fino al 14 gennaio.

      Il 14 dicembre 2023, in una sessione straordinaria, il governo finlandese ha deciso la chiusura dell’intero confine orientale della Finlandia con la Russia. I valichi di frontiera di #Imatra, #Kuusamo, #Niirala, #Nuijamaa, #Raja-Jooseppi, #Salla, #Vaalimaa e #Vartius sono stati chiusi e lo saranno fino al 14 gennaio 2024. «Di conseguenza, le domande di protezione internazionale alle frontiere esterne della Finlandia saranno ricevute solo dai valichi di frontiera degli aeroporti e dei porti marittimi» ha comunicato il governo guidato da Petteri Orpo, entrato in carica il 20 giugno scorso.

      La decisione, motivata dalla difesa della sicurezza nazionale e l’ordine pubblico in Finlandia, è avvenuta nello stesso giorno in cui si erano riaperti due valichi di frontiera, dopo una prima chiusura di tutto il confine iniziata il 18 novembre 2023.

      Il governo di Helsinki accusa il governo russo di aver orchestrato l’arrivo dei richiedenti asilo ai valichi di frontiera come ritorsione per l’adesione del Paese nordico all’alleanza militare della NATO, formalizzata il 4 aprile scorso.

      «Questo è un segno che le autorità russe stanno continuando la loro operazione ibrida contro la Finlandia. È una cosa che non tollereremo», ha dichiarato la ministra dell’Interno Mari Rantanen.

      Intanto anche la Lettonia e la Lituania 2 stanno prendendo in considerazione l’idea di chiudere le loro frontiere.

      Per far fronte alla situazione sul confine orientale la guardia di frontiera ha chiesto supporto a Frontex (Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), che aveva già inviato personale alla fine di novembre in Carelia settentrionale (una regione storica, la parte più orientale della Finlandia).

      Oltre alla sorveglianza del territorio, l’adesione della Finlandia alla Nato porterà alla costruzione di una recinzione sul confine con la Russia che è lungo 1.340 chilometri. L’opera richiede circa 380 milioni di euro e dai tre ai quattro anni di tempo per essere completata. Rappresenterà la struttura fisica di “protezione” più lunga tra il blocco dell’alleanza atlantica e la Federazione russa.

      I lavori di costruzione della barriera, che sarà situata sul confine sud-orientale per una lunghezza complessiva di circa 200 km, sono partiti con una prima recinzione pilota di circa 3 chilometri che è stata costruita a Pelkola.

      https://www.youtube.com/watch?v=8d_qVqN3yUo&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.meltingpot.org%

      Ora è iniziata l’implementazione della fase successiva, che prevede la costruzione di circa 70 chilometri di barriera ai valichi di frontiera e nell’area circostante nel periodo 2024-2025. La barriera, secondo quanto riporta la guardia di frontiera, è una combinazione di una recinzione, una strada adiacente, un’apertura libera da alberi e un sistema di sorveglianza tecnica. Quest’ultimo è definito come uno strumento importante per il controllo delle frontiere.

      In occasione della prima chiusura dei valichi di frontiera, avvenuta nel mese di novembre, diverse istituzioni e ONG hanno criticato questa scelta che compromette il diritto a chiedere asilo. Da Amnesty international all’UNHCR fino al Commissario per l’uguaglianza finlandese.

      Fra le prese di posizione anche quella della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, che in una lettera alla Ministra degli Interni finlandese, Mari Rantanen, ha ricordato che «è fondamentale che gli Stati membri del Consiglio d’Europa, anche in situazioni difficili alle loro frontiere, reagiscono in modo pienamente conforme ai loro obblighi in materia di diritti umani». Ha, inoltre, chiesto chiarimenti sulle salvaguardie attuate e sulle misure adottate per garantire la tutela dei diritti umani e per evitare che si verifichi una crisi umanitaria a causa del peggioramento delle condizioni meteorologiche.

      In un comunicato del mese di dicembre, Amnesty International 3 ha affermato che «chiedere asilo è un diritto umano. Il Ministro degli Interni Rantanen sta ignorando i richiedenti asilo e la loro situazione in modo disumano. Nel mondo ci sono più persone che sono state costrette a lasciare le loro case che mai, e limitare il diritto di chiedere asilo non è la risposta».

      L’organizzazione per i diritti umani ha sottolineato che dalle loro precedenti ricerche si è dimostrato che la chiusura delle frontiere ha aumentato la violenza e spinto le persone in cerca di asilo su rotte ancora più pericolose.

      «Nel profondo sono davvero disperato e spero solo che arrivino giorni migliori, il prima possibile. Mi sento come se vivessi in un inferno fatto di ghiaccio, dove la mia vita è arrivata a un punto in cui non c’è via d’uscita, la fine del mio lungo cammino da quando ho lasciato il mio Paese, la Siria». E’ la testimonianza di Nasser, siriano di 43 anni, raccolta da InfoMigrants 4.

      Secondo le informazioni diffuse dal governo finlandese la chiusura dei valichi di frontiera è prevista fino al 14 gennaio. Sarà da capire se questa decisione verrà prorogata e cosa ne è del diritto di asilo in Finlandia.

      1. Studentessa di lettere moderne a Padova. Proseguirò i miei studi con una magistrale in relazioni internazionali in quanto sono molto interessata alla politica, internazionale e al sociale
      2. Border Closure Raises Fears Among Latvia, Lithuania and Estonia, Ecre (15 dicembre 2023)
      3. Il comunicato stampa (finlandese)
      4. Stuck at the Russian-Finnish border: ‘I feel that I will die here, in the cold’, Michaël Da Costa – InfoMigrants (4 dicembre 2023)

      https://www.meltingpot.org/2024/01/il-confine-tra-russia-e-finlandia-e-un-inferno-fatto-di-ghiaccio

      #sécurité_nationale #ordre_public #Frontex #murs #barrières_frontalières #Pelkola #technologie #asile #droit_d'asile

    • Entre 2 000 et 3 000 migrants massés à la frontière russo-finlandaise, toujours fermée

      Entre 2 000 et 3 000 exilés sont actuellement bloqués à la frontière russo-finlandaise, fermée totalement depuis décembre 2023 et jusqu’en février prochain. Helsinki accuse Moscou d’avoir orchestré cet afflux de migrants pour déstabiliser la Finlande, après son adhésion à l’OTAN en avril dernier. Les relations diplomatiques entre les deux pays n’ont cessé de se dégrader depuis l’offensive russe en Ukraine en 2022.

      La pression migratoire s’accroît à la frontière russo-finlandaise. Entre 2 000 et 3 000 migrants sont actuellement bloqués dans la zone frontalière, depuis la fermeture totale de la frontière finlandaise orientale en décembre 2023.

      Le pays scandinave reproche à la Russie de laisser passer délibérément un flux de migrants sur le sol finlandais, à des fins politiques, pour ébranler l’Union européenne (UE). De son côté, le Kremlin nie et rejette ces accusations.

      Selon Le Monde, la plupart des migrants sont entrés légalement en Russie avant de bénéficier de la complicité d’agents de police russes pour les déposer à la frontière finlandaise qu’ils franchissent en vélo, le franchissement à pied étant interdit.

      D’après Euronews, les exilés payent jusqu’à 6 000 euros les passeurs pour atteindre la frontière finlandaise. Dans un témoignage aux Observateurs de France 24, un passeur a également expliqué soudoyer des garde-frontières finlandais pour laisser passer les migrants : « On donne 500 dollars [457 euros, ndlr] aux garde-frontières par migrant ». Depuis la fermeture de la frontière, les passages réussis sont cependant plus rares - voire impossibles. La semaine dernière, quatre migrants ont été interpellés par les garde-frontières finlandais à Parikkala, en Carélie du Sud, alors qu’ils tentaient de franchir la frontière.
      Volume inhabituel de demandeurs d’asile

      Depuis début août 2023, les autorités finlandaises assure que près de 1 000 demandeurs d’asile sans-papiers, originaires de Somalie, du Yémen ou encore d’Irak, se sont présentés aux postes-frontières séparant les deux pays, pour entrer en Finlande. Un volume inhabituel pour le petit pays nordique de 5,5 millions d’habitants, qui comptabilise d’ordinaire plutôt une dizaine de demandeurs d’asile chaque mois à cette frontière.

      En réponse à ces mouvements de population, la Finlande a renforcé ses patrouilles le long de sa frontière. Elle a fait état sur X (ex-Twitter) de « plus de patrouilles que d’habitude, un contrôle technique plus étendu et un équipement plus polyvalent que d’habitude pour les patrouilles ». L’agence des garde-côtes européenne Frontex a également déployé 55 agents à la frontière finlandaise début décembre.

      https://twitter.com/rajavartijat/status/1747196574554349673

      La Finlande a, par ailleurs, entamé en février 2023 la construction d’une clôture de trois mètres de hauteur sur 200 km à sa frontière avec la Russie, longue de 1 340 km, pour anticiper les futurs mouvements de populations.
      Détérioration des relations entre la Finlande et la Russie

      Helsinki accuse aussi le Kremlin de lui faire payer le prix de sa coopération militaire avec les États-Unis. Le 18 décembre dernier, Washington a signé un accord lui permettant d’accéder à 15 bases militaires en Finlande, et d’y prépositionner du matériel.

      Pendant des années, la Finlande a refusé de rejoindre l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN) pour éviter de contrarier son voisin russe. Mais les relations entre les deux pays se sont progressivement dégradées depuis l’invasion russe en l’Ukraine, en février 2022. En avril 2023, la Finlande a finalement rejoint l’OTAN, craignant que l’offensive russe ne s’étende à d’autres pays limitrophes. De son côté, Vladimir Poutine a accusé les Occidentaux d’avoir « entraîné la Finlande dans l’Otan » et affirmé que cette adhésion allait créer des « problèmes » là où il n’y « en avait pas ».


      https://www.infomigrants.net/fr/post/54531/entre-2-000-et-3-000-migrants-masses-a-la-frontiere-russofinlandaise-t

    • Finland extended the closure of crossing points at the border with Russia until at least mid-April yesterday.

      This also means that no asylum applications can be submitted there.

      🇫🇮 first started closing the border in November, after the arrival of hundreds of asylum seekers.

      https://twitter.com/InfoMigrants/status/1755974773224378457

    • Face à la menace russe, le virage vers l’ouest de la Finlande

      Helsinki accuse Moscou d’envoyer des migrants à la frontière entre les deux pays, une « #attaque_hybride » en réponse à son adhésion à l’Otan. La fin des échanges, amorcée dès l’épidémie de Covid, transforme la vie locale, mais le pays reste décidé à regarder vers l’Ouest.

      Le capitaine Jyrki Karhunen marche seul au milieu d’une nationale enneigée du sud-est de la Finlande. Celle-ci mène au poste-frontière d’Imatra, désert, dans la région de Carélie du Sud. La Russie n’est qu’à quelques kilomètres, cachée derrière les vastes forêts de pins, de sapins et de bouleaux.

      « Aujourd’hui, il ne se passe plus rien ici, c’est paisible », explique Jyrki Karhunen. Ce matin de février, seul un SUV de touristes s’introduit dans le paysage figé. « Il est impossible de passer côté russe », indique le capitaine à ces Finlandais en doudoune et lunettes de soleil miroirs. Pour cela, il faut maintenant transiter par l’Estonie ou la Turquie, à plus de 2 000 kilomètres.

      En novembre, le gouvernement d’Helsinki a en effet fermé la totalité de sa frontière orientale avec la Russie, longue de 1 340 kilomètres. Ses points de passage resteront fermés au moins jusqu’au 14 avril, à l’exception d’une entrée ouverte au fret. La Finlande, voisine de la Norvège et de la Suède au nord, ouverte sur la mer Baltique à l’ouest et au sud, se coupe ainsi totalement de la Russie, son unique voisine à l’est.

      Avant la pandémie de Covid et l’invasion de l’Ukraine par Moscou en 2022, 9 millions de personnes franchissaient chaque année cette longue frontière peu habitée où règne la taïga. Les commerciaux y transportaient le bois des riches forêts et ses produits dérivés. Les 90 000 Russes de Finlande retournaient voir leurs proches. Les touristes russes affluaient sur les rives du grand lac Saimaa, dépensant chaque jour 1 million d’euros dans la région de Carélie du Sud.

      Mais l’attaque russe en Ukraine a progressivement affecté ces passages. La Finlande a cessé d’octroyer des visas touristiques aux Russes. Les entreprises locales et russes ont cessé leurs collaborations.
      Un pays neutre jusqu’en 2022

      La fermeture totale de la frontière est finalement tombée fin 2023, en raison d’une « attaque hybride » de Moscou, selon les termes du gouvernement finlandais. La Russie envoie volontairement des migrants à la frontière, accuse Helsinki. L’opération « hybride » serait une réponse de Moscou à l’entrée de la Finlande dans l’Otan, en avril 2023.

      La Finlande, officiellement neutre militairement jusqu’en 2022, était une zone stratégique manquante sur le flanc oriental de l’Alliance atlantique. L’adhésion du pays le plus septentrional de l’UE bouscule la donne militaire de la Baltique à l’Arctique. Le Kremlin avait vite annoncé qu’il prendrait des « contre-mesures ».

      Marko Saareks, adjoint à la direction opérationnelle des gardes-frontières, ne « croi[t] pas à une intervention armée russe à la frontière dans l’immédiat ». Mais « la déstabilisation migratoire » est la principale pression, dit-il.

      Entre août et novembre 2023, environ 1 300 exilés irakiens, syriens, afghans, yéménites ou d’autres pays d’Asie ou d’Afrique sont arrivés via la Russie, des hommes pour la plupart et quelques familles. Ils ont été « aidés et escortés ou transportés jusqu’à la frontière par les gardes-frontières russes », affirme le premier ministre, Petteri Orpo.

      Les arrivées « restent faibles », concèdent les autorités finlandaises, proportionnellement à celles d’autres pays aux frontières externes de l’UE, comme la Grèce. Mais elles sont « inhabituelles » dans ce pays nordique de 5,5 millions d’habitant·es, loin d’être situé sur une route migratoire fréquentée.
      La crainte de l’espionnage

      « Des migrants attendent de l’autre côté. Ils viendront très probablement dès que nous ouvrirons la frontière. Notre crainte est qu’il y ait des espions parmi eux, précise Marko Saareks. Des migrants sont surveillés par Moscou. Les services de renseignement des consulats russes ont quitté la Finlande. Nous soupçonnons Moscou de vouloir renvoyer des agents. »

      Pour être sûre de « contrôler les flux migratoires », poursuit-il, la Finlande construit également une barrière antimigrants de 200 kilomètres de long. Dissimulés derrière les hauts arbres près du poste-frontière d’Imatra, des poteaux d’acier hauts de 3 mètres sortent de la terre gelée. Le chantier, à l’arrêt pendant l’hiver, où le mercure descend jusqu’à − 25 °C, ne doit s’achever qu’en 2026.

      Aujourd’hui, rares sont les exilés qui franchissent la frontière fermée. Un seul y est parvenu, frigorifié, mi-février. Il a été envoyé dans l’un des centres de rétention ou d’accueil du pays. Celui de Joutseno, une ancienne prison rénovée perdue entre les bouleaux, à une quinzaine de kilomètres de la frontière, héberge une centaine de réfugié·es.

      « Nous ne sommes pas utilisés comme armes par Moscou, personne ne m’a poussé vers la Finlande, c’est mon choix, se défend Moayad Salami, un Syrien venu en novembre, qui parle ouvertement à la presse. C’était pour moi le chemin le plus accessible pour rejoindre l’UE. » Pour cet avocat, « depuis que cette frontière est fermée, les réfugiés tentent leur chance ailleurs ». Mais lui raconte une traversée « facile ».

      Il a d’abord acheté un visa russe 2 700 euros à des passeurs pour rejoindre la Russie. Il envisageait de tenter un passage en Pologne via le Bélarus, « mais c’était trop dangereux » au Bélarus, dit-il. Moayad a alors payé des passeurs pour rejoindre la frontière finlandaise en taxi depuis Saint-Pétersbourg, à 160 kilomètres d’ici.

      Avant 2022, un filtrage aux postes-frontières était censé être opéré selon un accord tacite entre la Russie et la Finlande. « Les gardes-frontières russes m’ont laissé partir sans problème, relate Moayad. Mais ils m’ont forcé à leur acheter un vélo à 270 euros pour traverser. » Il ajoute : « Des gardes-frontières russes m’ont ensuite suivi en voiture à distance, pour être sûrs, j’imagine, que je partais bien du pays. »

      Comme lui, plusieurs exilés interrogés assurent avoir été contraints d’acheter à un prix trop élevé des vélos « de mauvaise qualité, qui ne valaient même pas 15-20 euros », à des gardes-frontières ou à leurs « complices ».

      D’autres réfugiés expliquent être restés quelque temps en Russie avant de rejoindre la Finlande. Viku*, un ressortissant pakistanais qui ne souhaite pas donner son nom, a ainsi vécu deux ans à Saint-Pétersbourg. « J’ai étudié les technologies de l’information, je ne trouvais pas d’emploi dans mon secteur et je me sentais harcelé par les autorités. Alors je suis venu en Finlande pour travailler. On dit que c’est le pays où l’on est le plus heureux au monde ! », sourit-il.

      Samir*, un Afghan de 23 ans, en doute, tant le temps s’écoule lentement dans le centre isolé. Étudiant en Russie, il a fui après l’expiration de son visa, « de peur d’être renvoyé en Afghanistan sous la coupe des talibans ». Comme la majorité des réfugiés ici, il attend un entretien qui ne vient pas pour sa demande d’asile.

      « Ces personnes viennent de pays en tension, ou en guerre, comme le Yémen et la Syrie, et sont pour la plupart éligibles à l’asile. Il est absurde de les considérer soudain comme les armes d’une opération hybride, déplore Pia Lindfors, directrice du Centre finlandais de conseil pour les réfugiés, à Helsinki. S’ils étaient des espions, comme l’ont suggéré certaines autorités et hommes politiques, ils ne seraient pas arrivés en tant que demandeurs d’asile. Ils ne seraient pas isolés dans des camps comme ils le sont actuellement. »

      Pia Lindfors déplore la fermeture de cette frontière, contraire au droit d’asile. Tout comme le discours radicalement antimigrants, porté par le Parti des Finlandais, qui gagne du terrain. Cette force politique d’extrême droite a placé ses membres à des postes clés du gouvernement de Petteri Orpo, formé en juin 2023. Celui-ci comprend des membres de quatre partis : la Coalition nationale, présidée par Petteri Orpo, le Parti populaire suédois de Finlande, les chrétiens-démocrates et le Parti des Finlandais. Ce dernier parti extrémiste affiche de longue date son hostilité à l’immigration, qu’il juge « préjudiciable aux finances et à la sécurité ».

      La politique de défense se mélange aujourd’hui à la politique migratoire, au nom de la « sécurité nationale ». La tendance se retrouve dans d’autres pays de l’UE. La Pologne, à titre d’exemple, est accusée de bafouer les droits des demandeurs et demandeuses d’asile à sa frontière avec le Bélarus, qu’elle accuse aussi de « guerre hybride ». Mais ces dérogations d’accès à l’asile pourraient devenir légales à l’échelle européenne, alertent des ONG : la Commission européenne discute de mesures exceptionnelles à mettre en place en cas de « situations d’instrumentalisation de l’immigration ».
      Une logique de « dissuasion »

      La pression migratoire est-elle la seule « menace russe » qui pousse à la fermeture totale de la frontière ? La Baltique, qui borde la Finlande, est un point de tension. Le sabotage des gazoducs Nord Stream, en 2022, n’a toujours pas été élucidé. La Russie a lancé en août des manœuvres navales et aériennes dans cette vaste mer, baptisées « Bouclier océanique 2023 ». Enfin, en décembre, Vladimir Poutine a déclaré : « Il n’y avait aucun problème [à la frontière finlandaise], mais il y en aura maintenant, car nous allons créer le district militaire de Léningrad et y concentrer un certain nombre d’unités. »

      « En Finlande, nous n’avons pas peur de Poutine, mais nous surveillons de près ses actions, déclare avec assurance Pekka Toveri, un député du parti de la Coalition nationale. Comme lui, six anciens militaires siègent aujourd’hui dans l’hémicycle de 200 député·es, un nombre inédit.

      Pekka Toveri étale les atouts militaires d’une Finlande « qui est prête » en cas d’attaque. « Nous avons une bonne armée, 12 000 soldats et quelque 870 000 réservistes, nos entreprises sont prêtes à contribuer à l’effort de guerre », expose l’ancien officier qui veut maintenant « participer au défi d’adhésion à l’Otan ». Environ 60 à 65 % de la population y était réticente avant le conflit ukrainien, « mais la grande majorité y est favorable depuis la guerre en Ukraine », plaide-t-il.

      Partisan d’un engagement sans limite dans l’Alliance atlantique, le président élu en février et investi le 1er mars, Alexander Stubb, est maintenant prêt à autoriser le stockage et le transport d’armes nucléaires sur le territoire. Parallèlement, Helsinki a renforcé sa coopération militaire avec les États-Unis, autorisant l’armée américaine à accéder à quinze installations et zones finlandaises.

      Le virage vers l’ouest est indispensable, considère Pekka Toveri. « Nous connaissons bien les Russes, nous savons que la technique du bâton est celle qui fonctionne le mieux. Il faut rester ferme, la plainte ne fonctionne pas », détaille-t-il, basant son analyse sur un siècle de relations avec le voisin russe.

      La Finlande a fait partie de l’empire russe jusqu’en 1917, avant d’être indépendante. Elle n’a jamais appartenu à l’Union des républiques socialistes soviétiques (URSS). Mais l’attaque de la Finlande par les Soviétiques en 1939, dite guerre d’hiver, a marqué les esprits. « Nous savions que Moscou était capable de nous menacer. Notre principe de neutralité [revendiqué depuis la fin des années 1940 – ndlr] était comme une politique du Yin et du Yang, estime Pekka Toveri. Nous avions une politique de bon voisinage mais nous étions prudents et avions une bonne défense. Nous avons par exemple construit des bunkers capables d’abriter 900 000 personnes depuis le début de la guerre froide. »

      Pour Heikki Patomaki, professeur de relations internationales à l’université d’Helsinki, une mentalité basée sur une « croyance presque exclusive dans la dissuasion et à travers la militarisation rapide de la société » s’intensifie depuis 2022.

      À la chute de l’URSS, surtout, les liens des deux pays s’étaient réchauffés : « Le non-alignement militaire persistant et les nombreuses formes de commerce et de coopération avec la Russie ont facilité de bonnes relations, au moins jusqu’à l’invasion de la Crimée en 2014 et, d’une certaine manière, jusqu’en 2021-2022, note-t-il. Rompre tout dialogue et continuer dans cette logique pourrait être dangereux. Nous avons une longue histoire avec la Russie et ne pouvons pas appliquer cette solution simple à une relation complexe. La Russie ne va pas disparaître et nous avons également un futur avec elle. »

      Signe que la situation est incertaine, les officiels l’accordent : la fermeture de la frontière ne peut être définitive. « Ce n’est pas notre but. Nous avons des échanges commerciaux et une diaspora russe, souligne l’adjoint à la direction opérationnelle des gardes-frontières, Marko Saareks. Mais nous cherchons encore les solutions pour l’ouvrir sans risques. »

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010324/face-la-menace-russe-le-virage-vers-l-ouest-de-la-finlande

      #Joutseno #Imatra

  • Expulsion vers le #Rwanda. La #Suisse, pionnière d’une externalisation illégale ?

    Alors que la Cour suprême britannique a jugé illégal le plan du gouvernement britannique de délocaliser ses procédures d’asile au Rwanda, la Suisse doit examiner, lors de la prochaine session d’hiver, une #motion du Conseiller aux Etats #Damian_Müller (PLR) demandant d’y renvoyer les réfugié·es érythréen·nes débouté·es. Le contenu de la motion est truffée d’approximations et d’informations erronées quant à la légalité de la mesure qui devraient questionner les parlementaires sur le sérieux de la démarche. La réponse du Conseil fédéral apporte certains éléments factuels. Nous proposons ci-dessous des compléments utiles au débat public.

    La tentation de l’externalisation… et ses écueils

    La question de l’externalisation de tout ou partie des procédures d’asile est régulièrement thématisée par les gouvernements européens. Leur objectif vise généralement avant tout à donner un « signal » dissuasif à l’extérieur. Au Danemark, les tractations avec le Rwanda annoncées en grande pompe en 2021 ont été abandonnées en janvier 2023. L’annonce récente d’un accord par le gouvernement italien de Georgia Meloni avec l’Albanie suscite l’inquiétude du Haut Commissariat des Nations Unies pour les réfugié-es (HCR), qui rappelle sa position sur la question de l’externalisation. Le HCR a du reste salué l’arrêt de la Cour suprême britannique.
    Une motion suisse illégale, coûteuse et à la portée réduite

    C’est dans ce contexte que le Conseil national devra examiner la motion 23.3176 déposée en mars 2023 par le Conseiller aux Etats PLR Damian Müller. Sa visée électorale ne fait aucun doute, pas plus que les motivations des membres du Conseil des États. Ceux-ci l’ont acceptée lors de la session d’été en dépit de son caractère manifestement illégal, coûteux et à la portée pratique réduite, comme le soulignait le Conseil fédéral dans sa réponse. Le coût d’image, pour la Suisse, n’avait alors pas été considéré. Il devrait, néanmoins, aussi être mis dans la balance par les membres du Conseil national lorsqu’ils devront voter en décembre. Ceux-ci devraient notamment considérer les points suivants :

    - Le nombre très restreint de personnes concernées par cette motion (300 personnes en Suisse)
    - Le coût de la mesure, incertain. Londres a déboursé plus de 120 millions de livres sterling dans le cadre de son accord, qui vient d’être jugé illégal.
    - Ce qu’implique de se lier les mains avec un État tiers dans le cadre de ces accords d’externalisation. Les précédents dans l’histoire récente européenne sont la Libye et la Turquie, pays qui n’ont pas manqué d’instrumentaliser le dossier migratoire dans le cadre de crises politiques. La volonté active du Rwanda auprès des États européens de jouer ce rôle de gestion migratoire doit être comprise à travers le prisme de ces enjeux géostratégiques.
    - Le Rwanda n’est pas un pays sûr : les risques de refoulements vers le pays d’origine des requérant·es sont présents et ont été documentés dans le cadre d’accords avec d’autres pays par le passé. C’est ce qu’a conclu la Haute cour de justice britannique et c’est aussi ce qu’a reproché le HCR à cet accord.
    - L’illégalité de la mesure : pour procéder à un renvoi forcé vers un État tiers, la Suisse est tenue d’examiner le lien des personnes concernées avec le pays en question selon la loi. Elle devrait aussi garantir le respect des normes de droits humains par l’Etat tiers, ici le Rwanda, et devrait pour cela obtenir des garanties de Kigali. Or l’approche des élections rwandaises en 2024 a été marquée par des violations des droits humains.

    La « légalité » de la délocalisation. Une argumentation factuellement fausse
    Que dit la motion ?

    Le 15 mars 2023, le Conseiller aux États Damian Müller, a déposé une motion invitant le Conseil fédéral à lancer un projet pilote visant à renvoyer les personnes déboutées dans un État tiers. Le projet s’attaque aux ressortissant·es érythréen·nes débouté·es. Il rappelle que les concerné·es ne peuvent pas être renvoyés sous la contrainte en Érythrée, le gouvernement érythréen refusant de telles expulsions. Damian Müller demande d’identifier rapidement un pays prêt à accueillir les ressortissant·es érythréen·nes débouté·es et cite le Rwanda en exemple. Un mécanisme comprenant une compensation financière serait à mettre en place, ainsi qu’une évaluation.

    Concernant l’externalisation que prône la motion, à savoir le renvoi vers un État tiers de personnes déboutées, et en particulier le Rwanda, l’auteur de la motion estime que ces mesures sont légales, s’appuyant sur deux éléments factuellement faux. La formulation de Damian Müller montre qu’il n’a lui-même aucune idée de la légalité ou non de la mesure !

    Affirmation fausse #1 – L’exemple erroné du HCR au Rwanda

    L’auteur de la motion affirme qu’il serait légal de mener l’ensemble de la procédure d’asile à l’étranger, citant en exemple le HCR qui « externalise déjà au Niger et au Rwanda les procédures d’asile des requérants en provenance de Libye ».

    - Pourquoi c’est faux – Le HCR a utilisé ces deux pays pour évacuer les réfugié·es vulnérables de Libye en raison des conditions de violence et de détention dans lesquelles elles étaient plongées. Il s’agissait d’une solution transitoire de mise à l’abri. L’Emergency Transit Mechanism vise à pouvoir traiter leur cas et trouver ainsi une solution durable pour elles, notamment un lieu de réinstallation. Evacuees from Libya – Emergency Transit Mechanism – UNHCR Rwanda. Lire aussi la fiche d’information sur la situation dans les deux ETM (juin 2023) : Document – UNHCR Flash Update ETM Niger and Rwanda

    Affirmation fausse #2 – L’accord avec le Sénégal de 2003

    L’auteur de la motion s’appuie sur une tentative d’accord de transit avec le Sénégal de 2003 pour estimer pouvoir « part[ir] donc du principe que la légalité du renvoi des requérants d’asile vers des pays tiers a déjà été examinée ».

    - Pourquoi c’est faux – Le Conseil fédéral rappelle dans sa réponse que l’accord en question visait au « transit » des personnes déboutées qui ne pouvaient rentrer directement dans leur pays d’origine, et que l’accord en question stipulait un retour en Suisse en cas d’impossibilité pour ces personnes de poursuivre leur voyage. La motion en question « irait beaucoup plus loin » puisqu’il s’agirait d’une relocalisation dans un Etat tiers, « pratique qui n’est suivie par aucun Etat européen ».

    La délocalisation au Rwanda est illégale selon la Cour suprême britannique

    Le plan Rwanda du gouvernement britannique a été enterré par la Cour suprême du Royaume-Uni le 15 novembre 2023. Le projet phare de Rishi Sunak visant à délocaliser la procédure d’asile au Rwanda pour les personnes entrant par voie irrégulière dans le pays a été jugée illégale. Le Rwanda n’est pas un pays sûr confirment les juges et le risque de renvoi vers leur pays d’origine des personnes expulsées violerait le principe de non-refoulement consacré par le droit international. Les 120 millions de livres sterling déjà versés par Londres à Kigali dans le cadre de cet accord ne serviront pas les objectifs du gouvernement anglais. Si celui-ci a déjà annoncé vouloir passer outre la décision de la Haute cour (!), il collectionne pour l’heure les déboires judiciaires, avec la Cour européenne des droits de l’homme qui a ordonné la suspension du vol collectif organisé par Londres en juin 2022 puis l’annulation par la Haute cour des décisions de refoulement individuelles en décembre de la même année.

    https://asile.ch/2023/11/27/la-suisse-pionniere-dune-externalisation-illegale

    #externalisation #réfugiés #asile #migrations #réfugiés_érythréens #procédure_d'asile #externalisation_de_la_procédure #modèle_australien

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    ajouté à la métaliste sur les tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers (►https://seenthis.net/messages/731749), mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

  • CARTOGRAPHIE DES VIOLATIONS SUBIES PAR LES PERSONNES EN DEPLACEMENT EN TUNISIE

    L’#OMCT publie aujourd’hui un rapport, « Les routes de la torture : Cartographie des violations subies par les personnes en déplacement en Tunisie » qui met en lumière l’ampleur et la nature des violations des #droits_humains commises en Tunisie entre juillet et octobre 2023 à l’encontre de migrant-e-s, réfugié-e-s et demandeurs d’asile.

    Depuis octobre 2022, la Tunisie a connu une intensification progressive des violations à l’encontre des personnes en déplacement essentiellement d’origine subsaharienne, sur fond de #discrimination_raciale. Le discours présidentiel du 21 février 2023 les a rendues encore plus vulnérables, et le mois de juillet 2023 a représenté un tournant dans l’échelle et le type des violations des #droits_humains commises, avec une recrudescence des #arrestations et des #détentions_arbitraires, des #déplacements_arbitraire et forcés, ayant donné lieu à des #mauvais_traitement, des #tortures, des #disparitions et, dans plusieurs cas, des #décès. Ce cycle d’#abus commence avec une situation d’irrégularité qui accroît leur #vulnérabilité et qui les expose au risque de violations supplémentaires.

    Cependant, malgré l’ampleur des violations infligées, celles-ci ont été très largement passées sous silence, invisibilisant encore davantage une population déjà marginalisée. A traves les voix de victimes directes de violations ayant voulu partager leurs souffrances avec l’OMCT, ce rapport veut contribuer à contrer cette dynamique d’#invisibilisation des migrant-e-s, refugié-e-s et demandeurs d’asile résidant en Tunisie, qui favorise la perpétuation des violations et un climat d’#impunité.

    Le rapport s’appuie notamment sur plus de 30 entretiens avec des représentant-e-s d’organisations partenaires et activistes travaillant sur tout le territoire tunisien et une vingtaine de témoignages directes de victimes de violence documentés par l’OMCT et ses partenaires. Il dresse une cartographie des violations infligées aux migrants, parmi lesquelles les expulsions forcées des logements, les #violences physiques et psychologiques exercées aussi bien par des citoyens que par des agents sécuritaires, le déni d’#accès_aux_soins, les arrestations et détentions arbitraires, les déplacements arbitraires et forcés sur le territoire tunisien, notamment vers les zones frontalières et les #déportations vers l’Algérie et la Libye. Les interactions avec les forces de l’ordre sont généralement assorties de torture et mauvais traitements tandis que les victimes sont privées, dans les faits, du droit d’exercer un recours contre ce qu’elles subissent.

    Cette #violence institutionnelle touche indistinctement les personnes en déplacement, indépendamment de leur statut, qu’elles soient en situation régulière ou non, y compris les réfugié-e-s et demandeurs d’asile. Les victimes, hommes, femmes, enfants, se comptent aujourd’hui par milliers. A la date de publication de ce rapport, les violations se poursuivent avec une intensité et une gravité croissante, sous couvert de lutte contre l’immigration clandestine et les réseaux criminels de trafic d’êtres humains. La Tunisie, en conséquence, ne peut être considérée comme un pays sûr pour les personnes en déplacement.

    Ce rapport souhaite informer les politiques migratoires des décideurs tunisiens, européens et africains vers une prise en compte décisive de l’impact humain dramatique et contre-productif des politiques actuelles.

    https://omct-tunisie.org/2023/12/18/les-routes-de-la-torture

    #migrations #asile #réfugiés #Tunisie #rapport

    ping @_kg_

  • Repackaging Imperialism. The EU – IOM border regime in the Balkans

    In November 2023, European Commission President #Ursula_von_der_Leyen concluded a Balkan tour, emphasizing EU enlargement’s priority for peace and prosperity. However, scrutiny intensified over EU practices, especially in the Balkans, where border policies, implemented by the International Organization for Migration (IOM), reflect an imperialist approach. This report exposes the consequences – restricted migration, erosion of international norms, and deadly conditions along migrant routes. The EU’s ’carrot and stick’ strategy in the Balkans raises concerns about perpetual pre-accession status and accountability for human rights abuses.

    https://www.tni.org/en/publication/repackaging-imperialism

    #migrations #asile #réfugiés #IOM #OIM #impérialisme #frontières #rapport #tni #paix #prospérité #droits_humains #militarisation_des_frontières #route_des_Balkans #humanitarisme #sécurisation #sécurité #violence #Bosnie #Bosnie-Herzégovine #hotspot #renvois #retours_volontaires #joint_coordination_plateform #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #décès

  • Au Royaume-Uni, les députés adoptent le projet de loi permettant d’expulser des migrants au Rwanda

    Cette nouvelle mouture du texte votée au Parlement visait à répondre aux objections de la Cour suprême britannique, qui a bloqué le mois dernier une précédente version du projet.

    Le projet de loi du premier ministre britannique, Rishi Sunak, permettant l’expulsions de migrants vers le Rwanda a été adopté lors d’un vote au Parlement, mardi 12 décembre. Il s’agit du texte considéré comme « le plus dur » jamais présenté contre l’immigration illégale, selon les mots du chef du gouvernement conservateur.

    Lors d’un premier vote à la Chambre des communes, 313 députés se sont prononcés pour le texte, 269 ont voté contre, laissant pour l’heure au chef du gouvernement un répit, alors qu’il risquait de voir son autorité sérieusement ébranlée.

    Cette mouture du texte votée au Parlement visait à répondre aux objections de la Cour suprême britannique, qui a bloqué le mois dernier une précédente version du projet. La plus haute instance juridique du Royaume-Uni avait déclaré le texte illégal, estimant que le risque était « réel », pour les personnes concernées, d’être refoulées vers leur pays d’origine par les autorités rwandaises, même si leur demande de protection était justifiée.

    Une loi jamais appliquée

    Signé en avril 2022 entre le gouvernement de Boris Johnson et celui de Paul Kagame, le « partenariat Rwanda » n’avait alors jamais été mis en œuvre. De fait, en juin 2022, un premier vol qui devait emmener un certain nombre de migrants à Kigali avait été annulé in extremis après une injonction de la Cour européenne des droits de l’homme.

    Ce nouveau texte définit le Rwanda comme un pays tiers sûr et empêche le renvoi des migrants vers leur pays d’origine. Il propose également de ne pas appliquer aux expulsions certaines dispositions de la loi britannique sur les droits humains, pour limiter les recours en justice.

    « Le nouveau traité que j’ai signé avec le Rwanda et le projet de loi qui l’accompagne changent la donne », a déclaré à l’ouverture des débats le ministre de l’intérieur britannique, James Cleverly, assurant que le texte est « conforme aux termes de la convention sur les réfugiés ».

    Insatisfaction de l’aile droite des conservateurs

    Toutefois, ce texte avait été jugé insuffisant pour l’aile droite du parti conservateur. Certains estiment que Londres devrait se retirer de la Convention européenne des droits de l’homme et d’autres conventions internationales sur les droits humains, pour empêcher tous les recours légaux d’aboutir.

    Lundi, les Brexiters radicaux de l’European Reaserch Group (ERG) ont jugé que le projet n’apportait qu’une « solution partielle et incomplète » pour empêcher les recours devant les tribunaux, et nécessitait « des amendements très importants ».

    Lors du débat mardi, le député d’opposition Chris Bryant (travailliste) a jugé que « l’idée que quelqu’un qui n’est pas dissuadé par une dangereuse traversée sur un canot dans l’une des voies maritimes les plus fréquentées du monde le soit par cette absurdité fragile est simplement risible ». Et « on ne peut pas rendre le Rwanda sûr juste en le disant », a-t-il ajouté.

    La semaine dernière, le ministre de l’immigration, Robert Jenrick, a démissionné, refusant de soutenir un texte qui ne va pas « assez loin » selon lui. La pression était telle que le secrétaire d’Etat au climat, Graham Stuart, est revenu à Londres depuis la COP28 à Dubaï pour participer au vote.

    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/12/au-royaume-uni-les-deputes-adoptent-le-projet-de-loi-permettant-d-expulser-d

    #Rwanda #Angleterre #UK #asile #migrations #réfugiés #offshore_asylum_processing #externalisation

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    ajouté à cette métaliste sur la mise en place de l’#externalisation des #procédures_d'asile au #Rwanda par l’#Angleterre
    https://seenthis.net/messages/966443

    • Le Royaume-Uni signe un nouveau traité avec le Rwanda pour durcir sa politique migratoire

      Un premier accord entre les deux pays avait été jugé illégal, le 15 novembre, par la Cour suprême britannique.

      Trois semaines après le rejet par la Cour suprême britannique d’un premier accord, Londres et Kigali ont signé un nouveau traité, mardi 5 décembre, visant à expulser vers le Rwanda les migrants arrivés illégalement au Royaume-Uni. Ce nouvel accord a été signé à Kigali par le ministre de l’intérieur britannique, James Cleverly, et le ministre des affaires étrangères rwandais, Vincent Biruta.

      Ce traité « répondra aux préoccupations de la Cour suprême en garantissant entre autres que le Rwanda n’expulsera pas vers un autre pays les personnes transférées dans le cadre du partenariat », a assuré mardi le ministère de l’intérieur britannique dans un communiqué.

      Signé en avril 2022 entre le gouvernement de Boris Johnson et celui de Paul Kagame, ce partenariat Rwanda constituait la mesure phare de la politique migratoire britannique. Cet accord prévoyait que les demandeurs d’asile arrivés au Royaume-Uni en small boats (bateaux pneumatiques) soient transférés au Rwanda, où leurs demandes d’asiles étaient ensuite évaluées. Le premier ministre, Rishi Sunak, qui avait repris le projet de M. Johnson, souhaitait ainsi dissuader les migrants de traverser la Manche sur ces embarcations de fortune – 46 000 personnes sont arrivées par ce moyen sur les côtes britanniques en 2022.

      Camouflet juridique

      Cette mesure n’a toutefois jamais pu être mise en œuvre, ayant été jugé illégale par la cour d’appel en juin, puis par la Cour suprême britannique le 15 novembre. Pour les cinq juges de la plus haute instance juridique britannique qui se sont penchés sur l’affaire, le risque était « réel » pour ces personnes d’être renvoyées vers leur pays d’origine par les autorités rwandaises, alors que leur demande aurait eu de bonnes chances d’être acceptée si elle était traitée au Royaume-Uni. Pour la cour d’appel, comme pour la Cour suprême, le Rwanda ne pouvait être considéré comme un pays tiers sûr pour les migrants.

      « Nous avons poursuivi ce partenariat avec le Royaume-Uni parce que nous pensons que nous avons un rôle à jouer dans cette crise de l’immigration clandestine », a défendu mardi, depuis Kigali, Vincent Biruta lors d’une conférence de presse. A ses côtés, le ministre de l’intérieur britannique, James Cleverly, a déclaré avoir « une immense admiration pour le gouvernement rwandais, qui a reçu de nombreuses critiques ». Ce nouvel accord comprend la création « d’un tribunal conjoint avec des juges rwandais et britanniques à Kigali pour garantir que la sécurité des migrants est assurée et qu’aucun des migrants envoyés au Rwanda ne soit expulsé vers son pays », a affirmé lors de la conférence de presse le porte-parole adjoint du gouvernement rwandais, Alain Mukuralinda. « Et il veillera également à écouter toutes les plaintes des migrants », a-t-il poursuivi. Une fois signé, ce texte devra être ratifié par les Parlements britannique et rwandais.

      Pour éviter un nouveau camouflet juridique, le gouvernement britannique compte aussi programmer au Parlement l’examen d’une « législation d’urgence » pour désigner le Rwanda comme un pays sûr et ainsi « mettre fin à ce manège », a annoncé lundi soir M. Sunak, dans une interview au Sun. Au-delà de ce partenariat avec le Rwanda, le gouvernement britannique a dévoilé lundi de nouvelles mesures pour diminuer l’immigration légale dans le pays.

      Le ministre de l’intérieur a par exemple annoncé un relèvement du plancher de ressources annuelles nécessaires pour venir s’établir au Royaume-Uni, le passant de 26 200 livres sterling (environ 30 500 euros) à plus de 38 700 livres (environ 45 100 euros). Les non-Britanniques travaillant dans le secteur de l’aide sociale ne pourront plus faire venir leur famille et la possibilité pour les employeurs de recruter des étrangers à des salaires 20 % inférieurs aux salaires minimaux dans les secteurs sous tension (construction, éducation, etc.) sera supprimée.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/12/05/le-royaume-uni-signe-un-nouveau-traite-avec-le-rwanda-pour-durcir-sa-politiq

  • When the Coast Guard Intercepts Unaccompanied Kids

    A Haitian boy arrived on Florida’s maritime border. His next five days detained at sea illuminate the crisis facing children traveling to the U.S. alone and the crews forced to send them back.

    Tcherry’s mother could see that her 10-year-old son was not being taken care of. When he appeared on their video calls, his clothes were dirty. She asked who in the house was washing his shirts, the white Nike T-shirt and the yellow one with a handprint that he wore in rotation. He said nobody was, but he had tried his best to wash them by hand in the tub. His hair, which was buzzed short when he lived with his grandmother in Haiti, had now grown long and matted. He had already been thin, but by January, after three months in the smuggler’s house, he was beginning to look gaunt. Tcherry told his mother that there was not enough food. He said he felt “empty inside.”

    More strangers, most of them Haitian like Tcherry, continued to arrive at the house in the Bahamas on their way to the United States. One day police officers came with guns, and Tcherry hid in a corner; they left when a man gave them money. The next time he and his mother talked, Tcherry lowered his bright, wide-set eyes and spoke to her in a quieter voice. “It was like he was hiding,” his mother, Stephania LaFortune, says. “He was scared.” Tcherry told her he didn’t want to spend another night on the thin mattress in the front room with scuffed pink walls. She assured him it would be over soon. A boat would take him to Florida, and then he would join her in Canada, where she was applying for asylum. LaFortune texted Tcherry photos of the city where she lived. The leaves had turned brown and fallen from the trees. Still, she was there, and that’s where Tcherry wanted to be. He waited another week, then two, then three.

    Tcherry didn’t laugh or play for months on end, until one day in February, when two sisters, both Haitian citizens, were delivered to the house. One was a 4-year-old named Beana. She wore a pink shirt and cried a lot. The other, Claire, was 8. She had a round face and a burn on her hand; she said that at the last house they’d stayed in, a girl threw hot oil on her. Claire did everything for her sister, helping her eat, bathe and use the bathroom. Like Tcherry, the girls were traveling to join their mother, who was working at a Michigan auto plant on a temporary legal status that did not allow her to bring her children from abroad. Their clothes were as dirty as his. Sometimes Tcherry and Claire watched videos on his phone. They talked about their mothers. “I am thinking about you,” Tcherry said in a message to his mother in early February. “It has been a long time.”

    Finally, nearly four months after Tcherry arrived at the house, one of the men in charge of the smuggling operation woke him and the two girls early in the morning. “He told us to get ready,” Tcherry recalls. With nothing but the clothes they wore, no breakfast or ID, they were loaded into a van and were dropped off at a trash-lined canal just outside Freeport, Bahamas. In the muck and garbage, more than 50 people stood waiting as a boat motored toward them. “Not a good boat,” Tcherry told me, “a raggedy boat.” But nobody complained. The 40-foot vessel tilted from the weight as people climbed aboard and pushed into the two dank cabins, sitting shoulder to shoulder or standing because there was no more space. Tcherry felt the boat speeding up, taking them out to sea.

    For almost 12 hours they traveled west, packed together in cabins that now smelled of vomit and urine. In the lower cabin, a baby was crying incessantly. A heavily pregnant woman offered up the last of her package of cookies to the child’s mother to help soothe the infant. Tcherry was thirsty and exhausted. Not far from him, he heard a woman say that the children’s parents must be wicked for sending them alone into the sea.

    The passengers had been promised they would reach U.S. shores hours earlier. People were starting to panic, sure that they were lost, when passengers sitting near the windows saw lights, at first flickering and then bright — the lights of cars and buildings. “That is Florida,” a young man said as the boat sped toward shore. Tcherry pulled on his sneakers. “If I make it,” he thought, “I will spend Christmas with my family.”

    But as quickly as the lights of Florida came into view, police lights burst upon them. A siren wailed. People screamed, a helicopter circled overhead and an officer on a sheriff’s boat pointed a long gun toward them. Uniformed men climbed on board, yelled orders and handed out life jackets. The group of 54 people was transferred to a small Coast Guard cutter. As the sun rose over Florida just beyond them, a man with a tattoo on his arm of a hand making the sign of the benediction began recording a video on his phone. “As you can see, we are in Miami,” he said. “As you can see, we are on a boat with a bunch of small children.” He intended to send the video to relatives waiting for him on land, and he urged them to contact lawyers. But his phone was confiscated, and the video was never sent.

    The Coast Guard frames its operations in the sea as lifesaving work: Crews rescue people from boats at risk of capsizing and pull them from the water. But the agency, which is an arm of the Department of Homeland Security, also operates as a maritime border patrol, its ships as floating holding facilities. Since the summer of 2021, the Coast Guard has detained more than 27,000 people, a number larger than in any similar period in nearly three decades. On a single day in January, the agency’s fleet of ships off the Florida coast collectively held more than 1,000 people. The public has no way of knowing what happens on board. Unlike at the U.S.-Mexico border, which is closely monitored by advocates, the courts and the press, immigration enforcement at sea takes place out of public view.

    The Coast Guard routinely denies journalists’ requests to witness immigration patrols, but in early March, I learned that several days earlier, a boat carrying dozens of Haitians had been stopped so close to land that they were first chased down by the Palm Beach County sheriff’s marine unit. Among them were three unaccompanied children: two young sisters and a 10-year-old boy. In the months afterward, I obtained a trove of internal Coast Guard documents, including emails and a database of the agency’s immigration interdictions, and I tracked down Tcherry, Claire and Beana and 18 people traveling with them. Many of them told me about the five days they spent detained on Coast Guard ships — an experience, one man said, “that will remain a scar in each person’s mind.”

    People intercepted at sea, even in U.S. waters, have fewer rights than those who come by land. “Asylum does not apply at sea,” a Coast Guard spokesperson told me. Even people who are fleeing violence, rape and death, who on land would be likely to pass an initial asylum screening, are routinely sent back to the countries they’ve fled. To try to get through, people held on Coast Guard ships have occasionally taken to harming themselves — swallowing sharp objects, stabbing themselves with smuggled knives — in the hope that they’ll be rushed to emergency rooms on land where they can try to claim asylum.

    The restrictions, combined with the nearly 30-year spike in maritime migration, created a crisis for the Coast Guard too, leading to what one senior Coast Guard official described in an internal email in February as “war-fighting levels of stress and fatigue.” Coast Guard crew members described to me their distress at having to reject desperate person after desperate person, but the worst part of the job, several said, was turning away the children who were traveling alone. From July 2021 to September 2023, the number of children without parents or guardians held by the Coast Guard spiked, a nearly tenfold increase over the prior two years. Most of them were Haitian. “The hardest ones for me are the unaccompanied minors,” one crew member told me. “They’re put on this boat to try to come to America, and they have no one.”

    The treatment of children is perhaps the starkest difference between immigration policy on land and at sea. At land borders, unaccompanied minors from countries other than Mexico and Canada cannot simply be turned back. They are assigned government caseworkers and are often placed in shelters, then with family members, on track to gain legal status. That system has its own serious failings, but the principle is that children must be protected. Not so at sea. U.S. courts have not determined what protections should extend to minors held on U.S. ships, even those detained well within U.S. waters. The Coast Guard says that its crew members screen children to identify “human-trafficking indicators and protection concerns including fear of return.” A spokesperson told me that “migrants who indicate a fear of return receive further screening” by Homeland Security officials.

    But of the almost 500 unaccompanied children held on the agency’s cutters in the Caribbean and the Straits of Florida between July 2021 and early September 2023, five were allowed into the U.S. because federal agencies believed they would face persecution at home, even amid escalating violence in Haiti, including the documented murder and rape of children. One other child was medically evacuated to a hospital in Florida, and six were brought to land for reasons that the internal Coast Guard records do not explain. The rest were delivered back to the countries they left, and it’s often unclear where they go once they return. Some have nowhere to stay and no one to take care of them. On occasion, they are so young that they don’t know the names of their parents or the country where they were born. One official from an agency involved in processing people delivered by the U.S. Coast Guard to Haiti told me “it is an open secret” that the process can be dangerously inconsistent. “Children leave the port,” the official said, “and what happens to them after they leave, no one knows.”

    Stephania LaFortune had not wanted to send her 10-year-old son on a boat by himself. She knew firsthand how perilous the journey could be. In May 2021, before the boat she had boarded made it to a Florida beach, some of the passengers jumped into the water to wade through the heavy waves. “They almost drowned,” she told me when I met her in Toronto. LaFortune waited on the beached vessel until U.S. Border Patrol officials came to detain her. In detention, she claimed asylum and was soon released. For months, she searched for other ways to bring Tcherry to her, but LaFortune ultimately determined she had no alternative.

    The first time LaFortune left Tcherry, he was 3 years old. Her husband, a police cadet, had been shot in his uniform and left to die in a ditch outside Port-au-Prince, and LaFortune, fearing for her life, departed for the Bahamas. Tcherry stayed behind with his grandmother. Four years later, as violence began to flare again, Tcherry’s mother finally made good on her promise to send for him. She arranged for him to fly to the Bahamas, where she had remarried and had a baby girl. But Tcherry was in the Bahamas not even a year when LaFortune told him that she would be leaving again — not because she wanted to, she assured her sobbing son, but because she had seen how Haitians were harassed and deported, and she simply didn’t believe there was real opportunity there. Tcherry’s stepfather and his younger half sister, who were Bahamian citizens, joined LaFortune months later. She arranged for Tcherry to live with relatives, promising to send for him as soon as she could.

    LaFortune’s asylum case in Florida dragged on, so she and her husband and daughter traveled over land to Canada, where they hoped they could get legal status more quickly. While they waited for a decision in their asylum case, the relative Tcherry was staying with said he could no longer take care of a growing boy by himself. After begging others to take her son, LaFortune found a woman she knew back in Haiti who said she was planning to make the trip to Florida herself with her own children. For $3,000, the woman said, she could take Tcherry with them. LaFortune sent the money. The woman took Tcherry to the smuggler’s house and did not return for him.

    That house, and the one where Tcherry was moved next, were filled with Haitians fleeing the crisis that began in July 2021, when President Jovenel Moïse was assassinated by a team of mostly Colombian mercenaries hired through a Miami-area security company. The U.S. Justice Department has accused nearly a dozen people, some based in the United States, of setting the assassination in motion. As the Haitian state crumbled, proliferating gangs, many with ties to the country’s political elite, burst from the neighborhoods they’d long controlled and began terrorizing Port-au-Prince and swaths of the rest of the country. Kidnapping, extortion, the rape of women and children, and the torching of homes and neighborhoods became routine weapons of fear. Thousands have been murdered, and in June the United Nations estimated that nearly 200,000 have been internally displaced. Haitians able to gather the resources have left however they can. Many have traveled over land to the Dominican Republic or by air to South and Central America. And thousands have boarded boats bound for the beaches of Florida.

    The people on the vessel with Tcherry had reasons, each as urgent as the next, for being there. There was a 31-year-old street vendor whose Port-au-Prince neighborhood had been taken over by gangs; she said that when she tried to flee north by bus, men with guns forced her and other women off the bus and raped them. A man from a district in the north said he’d been beaten more than once by thugs sent by a political boss he’d opposed; both times they threatened to kill him. A man who worked as a Vodou priest in Port-au-Prince said he left because he needed money for his sick daughter, and gangs were confiscating his wages. The pregnant woman who helped comfort the crying baby said she had been kidnapped and raped; she was released only after her family sold land and collected donations to pay for her ransom. Two women were traveling with their daughters, but Tcherry, Claire and Beana were the only young children traveling alone.

    Tcherry sat on the deck of a Coast Guard cutter called the Manowar along with the rest of the group, exhausted, scared and confused. Nobody had explained to him what would happen next. Crew members in blue uniforms finally gave them food, small plates of rice and beans, and began to search their belongings and run their photos and fingerprints through federal immigration and criminal databases. Tcherry and the sisters followed the orders of a crew member with blond hair, cut like the soldiers in movies Tcherry had seen, to sit in the shaded spot under the stairs to the bridge.

    On the stern of the cutter, a man in his early 30s named Peterson sat watching the children. He had crossed paths with them weeks earlier in one of the houses; seeing they were hungry, he had brought them extra slices of bread and even cut Tcherry’s hair. Claire reminded him of his own young daughter in Haiti. Peterson had not wanted to leave his child, but gangs had recently taken control of roadways not far from his home in the coastal city of Saint-Marc. He had not earned a decent wage for many months, not since he lost his job as a driver at a missionary organization. He had decided to leave for the United States so he could send money back to Haiti for his daughter, who remained behind with her mother.

    Now it occurred to Peterson that his connection to Tcherry and the girls could work to his advantage. Surely the Coast Guard wouldn’t return children to Haiti, he thought. Surely they wouldn’t separate a family. “I thought that there might be an opportunity for me to get to the U.S.,” he told me. He approached Tcherry, Claire and Beana and told them they should tell the crew he was their uncle.

    Peterson’s small kindness in the smuggler’s house had given Tcherry reason to trust him. When it came time for the blond-haired crew member, Petty Officer Timothy James, to interview the children, Peterson stood close behind. With the help of another Haitian man who spoke some English, Peterson told James that he was their uncle. James asked the children if it was true. Tcherry and Claire, both timid, their eyes lowered, said it was. Beana was too young to understand. James handed her a brown teddy bear, which the crew of the Manowar keeps on board because of the growing number of children they detain, and sent the children back to the stern.

    But no more than a couple of hours later, Peterson changed his mind. He’d noticed that the pregnant woman had been evaluated by Florida EMTs, and he moved over to offer her a deal: If she would tell the crew he was her husband and let him join her if they brought her to land, his brother in Florida, who already paid $6,000 for his place on this boat, would make sure she was compensated. “I helped her understand that that is something she could profit from,” he says. The woman agreed, and Peterson, who now needed to tell the truth about the children, divulged to a crew member that he was not their uncle. “I was just trying to help if I could,” he said.

    James crouched down beside the children again and told them not to lie. “Why did you leave your home to go to the United States,” he read off a questionnaire. “To go to my parents,” Tcherry replied. To Tcherry, the questions seemed like a good sign. He was unsure whether he could trust these crew members after the officer on the sheriff boat pointed a long gun at them the night before. “I thought they were going to shoot me,” Tcherry says. But James calmly directed the children to sit in the one shaded place on the boat, and gave them cookies and slices of apple. “He was nice,” Tcherry says — the nicest anyone had been since Peterson brought them bread in the house.

    James kept reading the form. “What will happen when you get there?” he asked. Tcherry looked up. He latched onto the words “when you get there” and took them as a promise. He asked James when they would be on land. James said the same thing he told everyone on the boat: that the decision was not up to him, that he was just doing his job. Tcherry was convinced James would send him and Claire and Beana to their mothers. He thought of the story his mother had told him about his father’s murder, his body in a ditch by the road, and of his last memory of Haiti, when he passed through a gang checkpoint on the way to the airport. “I saw bandits approaching toward us, and he had a gun pulled,” Tcherry told me. “My heart started beating fast, and I thought he was going to shoot.” He was overwhelmed with relief that he would never have to go back there.

    A boat came to bring someone to land. But it was not there to pick up Tcherry or the other children. A Coast Guard medical officer had reviewed the pregnant woman’s vitals and made a decision that because she “may go into labor at any moment,” she would be brought to a hospital in Palm Beach County accompanied by U.S. Customs and Border Protection. Before she was taken away, Peterson said the woman told him she would not claim to be married to him after all. She didn’t want a stranger on her baby’s birth certificate. She offered to say she was his cousin. “I knew that being the cousin would not be enough,” Peterson recalls, “and I have to say that I lost hope.”

    The pregnant woman disappeared on a small boat toward land. Those left on the stern began to talk among themselves, asking why the baby, who had barely stopped crying, and the other children had been left aboard the cutter. They said they could not keep going like this, eating only small portions of scarcely cooked and saltless rice and beans, unable to bathe and forced to urinate and defecate in a toilet seat attached to a metal box with a tube off the side of the open deck. They decided they would rise in unison and protest, and they passed the word from one to the next. At around 9 p.m., dozens of people began to yell toward the bridge demanding interpreters, lawyers or just to know what would become of them. From the bow where he stood, James heard faint yelling, and then the voice of the officer in charge over the loudspeaker. “They’re starting an uprising on the fantail,” he said. “I need you back there.”

    Timothy James came from a conservative family in a conservative little town in the mountains of North Carolina. He and his wife held handguns aloft in their wedding photos, and his first job after dropping out of college was as a sheriff’s deputy at the jail. James joined the Coast Guard in 2015. “My main goal,” he told me, “was to chase down drug runners and catch migrants” — two groups that were more or less the same, as far as he understood.

    He’d been on the job no more than a few weeks before his expectations were upended. “I had no idea what I was talking about,” he told me. There was much less “running and gunning, catching bad guys” than he’d anticipated. Instead, the people he detained would tell him their stories, sometimes with the help of Google Translate on his phone, about violence and deprivation like he had never contemplated. People described what it was like to live on $12 a month. There were children and grandmothers who could have been his own, and young men not so unlike him. They were not trying to infiltrate the country as he’d thought. They were running because “they didn’t have another option,” he says.

    James and his colleagues learned the lengths people would go to try to get to land. Since last fall, people detained on cutters have pulled jagged metal cotter pins, bolts and screws from the rigging and swallowed them, apparently trying to cause such severe injury that they’d be taken to a hospital. Last August, near the Florida Keys, three Cuban men were reported to the Coast Guard by a passing towboat operator; most likely fearing they would be brought back to Cuba, they stabbed and slashed their legs with blades and were found in puddles of blood. In January, a man plunged a five-inch buck-style knife that he’d carried onto a cutter into the side of his torso and slashed it down his rib cage. The crew taped the knife to the wound to stop him from bleeding out as he fell unconscious. Most of these people were delivered to Customs and Border Protection and rushed to hospitals on land, where they probably intended to claim asylum. By the time James began working as operations officer on the Manowar last summer, he and other crew members started every leg at sea by scouring the decks for anything that people might use to harm themselves. (According to a DHS spokesperson, “medical evacuations do not mean that migrants have a greater chance of remaining in the United States.”)

    People detained on cutters have in rare cases threatened to harm Coast Guard members or others they’re traveling with. In January, a group the Coast Guard detained pushed crew members and locked arms to stop their removal to another cutter, according to an internal record. That same month, a group of Haitians held children over the side of a boat, “threatening to throw them overboard and set them on fire” if the Coast Guard came closer. Weeks later, a group of Cubans brandished poles with nails hammered into them and tried to attack an approaching Coast Guard boat. Conflicts between crew and those they detain have escalated to the point that Coast Guard members have shot people with pepper balls and subdued others with stun maneuvers.

    James tensed as he heard the order over the loudspeaker. He thought of the crowd-control techniques he’d learned to immobilize someone, and stepped down the side walkway toward the stern. In front of him were dozens of angry men and a few women, yelling in Haitian Creole. James hesitated and then walked forcefully up to the group, his hands pulled into his sides as if he were ready to throw a punch. Instead, he took a knee. He gestured to the men around him to come join him. He spoke into a cellphone in English, and on the screen he showed them the Google Translate app: “You’ve got to tell everybody to calm down,” it read in Creole. “I can’t help you if I don’t know what’s going on.”

    Before they could respond, five other crew members came down the stairs, plastic zip ties and batons hanging from their belts. Tcherry was sitting under the stairs, beside Claire and Beana, who had not let go of the teddy bear. “Shut up, shut up,” one of the crew told the protesters as he stepped in front of Tcherry. “One of them said he was going to pepper-spray their eyes and handcuff them,” Tcherry says. James told his colleagues to wait. The yelling in English and Creole grew louder. A man to Tcherry’s left began to scream and roll on the ground, and then he rolled partway under the handrail. A crew member grabbed the man by the back of the pants and hauled him up. James secured his wrist to a post on the deck. “Nobody’s dying on my boat today,” James said.

    Above Tcherry, another crew member stepped onto the landing at the top of the stairs. He held a shotgun and cocked it. James claims that the gun was not loaded, but the threat of violence had its intended effect. The protesters stepped back and went quiet.

    James kept speaking into the phone. “What do you want?” he asked the men.

    “If we go back, we’re dead,” one man replied. They said they could not endure being on the boat much longer.

    “If it were up to me, we’d be taking you to land,” James said. “But it is not up to us.” There was a process to seek protection, he told them. “But what you’re doing now is not that process.”

    Coast Guard crews do not decide who will be offered protection and who will be sent back. Their responsibility is only to document what the agency calls “manifestation of fear” (MOF) claims. The Coast Guard instructs them to make note of such claims only when people proactively assert them or when they observe people exhibiting signs of fear, such as shaking or crying. They are not supposed to ask. That may help explain why the agency has logged only 1,900 claims from more than 27,000 people detained in this region between July 2021 and September 2023. Fewer than 300 of those came from Haitians, even though they make up about a third of people held on cutters. Officials in the Coast Guard and in U.S. Citizenship and Immigration Services told me that Haitians face a systemic disadvantage in making a successful claim for protection: Almost no one working on Coast Guard boats can speak or understand Creole. (The Coast Guard told me it has access to contracted Creole interpreters aboard cutters.)

    Regardless of the person’s nationality, the process is nearly always a dead end. Each person who makes a claim for protection is supposed to be referred to a U.S. Citizenship and Immigration Services officer, who conducts a “credible fear” screening by phone or in person on a cutter. Between July 2021 and early September 2023, USCIS approved about 60 of the approximately 1,900 claims — around 3%. By contrast, about 60% of asylum applicants on land passed a credible-fear screening over roughly the same period. Unlike on land, people who are denied on ships have no access to courts or lawyers to appeal the decision. And the few who are approved are not sent to the United States at all. Should they choose to proceed with their claims, they are delivered to an immigration holding facility at the U.S. naval base at Guantánamo Bay, where they are evaluated again. They’re told they should be prepared to wait for two years or more, until another country agrees to take them as refugees. Only 36 of the people with approved claims agreed to be sent to Guantánamo. The State Department says there are currently no unaccompanied minors held at the Migrant Operations Center at Guantánamo, but a recent federal contract document says that the facility is prepared to accept them.

    The Manowar crew had been tasked by the local Coast Guard office with logging any requests for protection. But the night after the protest had been too chaotic and exhausting for them to do so. In the morning, a larger cutter with more supplies arrived. The people detained on the Manowar would be transferred to that boat. Before they departed, James told them that anyone who intended to seek protection should seek help from the crew on the next boat. “Tell them, ‘I’m in fear for my life,’ just like you told me,” he said. “You tell whoever is processing you that specific thing.”

    But subsequent crews logged no such claims, according to records I obtained. One man told me that, in response to his plea for protection, an officer on the next boat wrote a note on a piece of paper, but nobody ever followed up. Another said that an officer told him their claims would be heard later. But there were no more interviews. “We had no opportunity,” a woman in the group says. When I asked the Coast Guard about this, a spokesperson told me the agency meticulously documents all claims. “Since we do not have a record of any of those migrants communicating that they feared for their lives if returned to Haiti, I cannot say that they made MOF claims while aboard,” he said.

    Tcherry fell asleep on the larger cutter and woke at around dawn to commotion. He saw an EMT pressing on the chest of a middle-aged woman who lay several yards away from him. She had been moaning in pain the night before. The crew member keeping watch had found her dead, her nose and mouth covered in blood. Another Haitian woman began to sing a hymn as the EMT performing CPR cried. A small boat took the woman’s body away and then returned for another man who had been complaining of pain and could not urinate. “I thought they would take us to land after the woman had died,” Tcherry says. “I thought they would let us go.” But that afternoon, he was transferred to yet another cutter that pulled away from Florida and into the high seas. Tcherry finally understood he was being sent back.

    The Coast Guard was first deployed as a maritime border-patrol agency to stop an earlier surge of migration from Haiti. In 1981, President Ronald Reagan made a deal with Jean-Claude Duvalier, the Haitian dictator, that allowed the Coast Guard to stop and board Haitian boats and deliver those detained directly back to Haiti. They would be processed on Coast Guard cutters, far from lawyers who could review their cases. The order, advocates argued at the time, undermined U.N. refugee protections and a U.S. refugee-and-asylum law that Congress passed just the year before. “This effort to push borders into the world’s oceans was new, and it marked a perverse paradigm shift,” Jeffrey Kahn, a legal scholar at the University of California, Davis, wrote recently.

    A decade after the Reagan agreement, as Haitians again departed en masse following a military coup, the George H.W. Bush administration further buttressed the sea wall. Bush signed an order that said federal agencies had no obligation to consider asylum claims from Haitians caught in international waters, no matter the evidence of danger or persecution. Lawyers and activists protested, calling the maritime regime a wholesale abdication of human rights doctrine. But the Bush order still stands. By the mid-1990s, its reach expanded to nearly anyone of any nationality caught in the sea, whether out in international waters or a couple of hundred feet from the beach.

    Pushing migrants and refugees away from the land borders to avoid obligations under law has now become common practice. In the United States, consecutive policies under Presidents Barack Obama, Donald Trump and Joe Biden have attempted to cast whole swaths of the land south of the border as a legal no-man’s land like the ocean. They have outsourced deterrence, detention and deportation to Mexico and Central America. Trump and Biden have sought to bar people from seeking asylum if they don’t first try to apply for protection in countries they pass through on their way to the United States. Europe, for its part, has pushed people coming by boat through the Mediterranean back to North African shores, where countries have imposed brutal regimes of deterrence.

    None of those measures have prevented the latest wave of migration from the Caribbean. In January, amid a generational spike in Haitians and Cubans held on their cutters, the Coast Guard acknowledged that crew members were reaching a breaking point. “We are in extremis,” a senior official wrote to colleagues in a widely circulated internal email in January. “I know you and your teams are pushed beyond limits.” The head of the Coast Guard for the eastern half of the United States, Vice Adm. Kevin Lunday, wrote in February to colleagues that two outside experts had told him their crews were under extreme stress similar to the levels experienced in “sustained combat operations.”

    Coast Guard members told me they had become accustomed to retrieving corpses from capsized boats, worn down by water or gnawed on by sharks. It was not uncommon to walk down a stairway or into a bunk room and come upon a crew member sobbing. Crew members waited months for mental health appointments, and the agency was talking openly about suicide prevention. “I don’t see how the current level of operations is sustainable,” Capt. Chris Cederholm, the commander of U.S. Coast Guard Sector Miami, wrote to colleagues, “without the breaking of several of our people.” Some were struggling with what one former crew member called a “moral dilemma,” because they had begun to understand that the job required them to inflict suffering on others. “We hear their stories, people who say they’d rather we shoot them right here than send them back to what they’re running from,” one Coast Guard member says. “And then we send them all back.”

    Tim James told me he tried to take his mind off the job by lifting weights and frequenting a cigar bar where service members and cops go to talk about “the suck,” but he soon realized he needed more than weights or whiskey to reckon with the mounting stress, even despair. “I go home, and I feel guilty,” he told me, “because I don’t have to worry about somebody kicking in my front door, you know, I don’t have to worry about the military roaming the streets.” He sought mental health support from a new “resiliency support team” the agency created. But James had not been able to shake the memories of the children he detained, particularly one 7-year-old Haitian girl with small braids. She’d been wearing shorts and a tank top, her feet were bare and she smiled at James whenever their eyes caught. “My mom is dead,” she told James with the help of an older child who spoke a little English. “I want to go to my auntie in Miami.”

    In the girl’s belongings the crew found a piece of paper with a phone number she said was her aunt’s. After James interviewed her, they sent her unaccompanied-minor questionnaire to the district office in Florida, and they waited for instructions on what to do with her. Out on the deck, James couldn’t help hoping she’d be taken to shore, to her aunt. But late in the morning the next day, the crew received a list from an office in Washington, D.C., of the people to be sent back. The girl was on the list. James cried on the return trip to port. One of his own daughters was about the girl’s age. “I can’t imagine sending my 7-year-old little kid across an ocean that is unforgiving,” James told me, nearly in tears. “I can’t imagine what my life would be like to have to do that.”

    That was just weeks before he encountered Tcherry, Claire and Beana. So when Peterson admitted the children were alone, the news came as a blow. “It’s a pretty hard hit when you think the kids have somebody and then it turns out that they really don’t,” James told me. He could see that Tcherry thought he would be making it to shore. “To see the hope on his face and then have to kind of turn around and destroy that is tough,” James told me. He never learns what becomes of the people he transfers off his cutter: that the pregnant woman gave birth in a hospital to a healthy boy and has an asylum case pending; that the body of Guerline Tulus, the woman who died on the cutter of what the medical examiner concluded was an embolism, remains in a Miami morgue, and that authorities have not identified any next of kin. He does not know what happened to the three children after they were sent back, but many months later, he says, he still wonders about them.

    Tcherry followed Claire and Beana up a rickety ramp in the port of Cap-Haïtien, Haiti, past a seized blue and yellow cargo ship into the Haitian Coast Guard station. The ground was littered with plastic U.S. Coast Guard bracelets that previous groups of people had pulled off and thrown to the ground. Officials from the Haitian child-protection authority and the U.N.’s International Organization for Migration watched as Tcherry and the rest of the group disembarked. “They looked scared and they said they were hungry,” a veteran official at IBESR, the Haitian child-protection agency, who was working at the port that day told me. “As a Haitian, I feel humiliated,” he says, “but we can’t really do anything about it. We’ve resigned ourselves.” To him, the people the Americans offloaded in Haiti always looked half dead. “It seems to me that when those children fall in their hands, they should know how to treat them. But that’s not the case.”

    Tcherry’s throat hurt and his legs were weak. He had never felt such tiredness. He ate as much as he could from the warm plate of food the UN provided. Slumped over on a bench, he waited for his turn to use the shower in a white and blue wash shed on the edge of a fenced lot behind the Haitian Coast Guard station. The officials brought several people to a hospital and got to work figuring out what to do with the unaccompanied children.

    The U.S. Coast Guard and State Department say that the children they send back are transferred into the hands of local authorities responsible for the care of children. “When we have custodial protection of those children, we want to make sure that the necessary steps are taken,” Lt. Cmdr. John Beal, a Coast Guard spokesperson, told me, “to ensure that when we repatriate those migrants, they don’t end up in some nefarious actor’s custody or something.” But no U.S. agency would explain the actual precautions the U.S. government takes to keep children from ending up in the wrong hands, beyond initial screenings aboard cutters. Last year, the Coast Guard stopped tracking the “reception agency” in each country, because according to the Department of Homeland Security, the U.S. government has set up rules establishing which agencies take these children and no longer needs to track them on a case-by-case basis.

    Haitian child-protection officials in Cap-Haïtien say their agency always finds relatives to take children, though sometimes after weeks or months. But the official with one of the other agencies involved in the processing of returned and deported Haitians at the Cap-Haïtien port said this claim is simply not true. The official said that children have departed the port with adults and with older children without any agency confirming they have an actual relationship or connection. “This is a serious concern in terms of trafficking,” the official told me. IBESR said those claims were unfounded. “According to the procedure, every child who leaves the port is accompanied by someone,” the IBESR official said, adding that when possible, the agency follows up with families to make sure children arrive safely. But the agency acknowledged there are limits to the support it can provide because of a lack of resources.
    Before they left the cutter, Peterson told Tcherry and the sisters that he would take care of them until they could contact their parents, who would figure out where they needed to go. Tcherry agreed. Peterson later told me he’d thought carefully about whether he wanted to get involved in the kids’ affairs once they were off the boat. He’d talked to other adults onboard, and they all agreed that someone needed to step up, that the Haitian government was surely not to be trusted. “If I didn’t do it,” Peterson says, “they would remain with the Haitian state, with all the risks that they could’ve faced, including kidnapping.”

    Peterson told the child-protection agency that he was the children’s guardian. The officials said they would need to contact the parents to confirm, so Peterson did the only thing he could think to do: He called the man who had been his conduit to the boat out of the Bahamas. The man sent him photos of the children’s IDs and put Peterson in touch with Claire and Beana’s mother, Inose Jean, in Michigan. She screamed and cried with relief upon learning her daughters were alive. Peterson explained that he’d taken care of the girls at sea and he asked her what to do with them. She said she would call back. Two hours later, she instructed Peterson to take the girls to her friend’s house in Cap-Haïtien.

    But Peterson still had no number for Tcherry’s mother. So he told the officials that Tcherry was Claire and Beana’s cousin, and that he’d gotten the image of Tcherry’s ID from Inose Jean. At dusk, Peterson walked with the three children through the metal gate of the Haitian Coast Guard station, at once incensed and relieved that he’d been allowed to take them. “The Haitian authorities didn’t talk to the children’s mothers,” Peterson says. “There was not enough evidence to actually prove I was who I was, or to prove a relationship.” They took a taxi to Jean’s friend’s house, and Claire, who recognized the woman from years earlier, rushed into her arms.

    The woman agreed to let Tcherry spend a night there. Peterson went to a cheap hotel with spotty electricity and a dirty pool. The man in the Bahamas finally sent Peterson Tcherry’s mother’s number. “I am the person who stood up to care for Tcherry on the boat,” Peterson told LaFortune. She collapsed onto the bed in her room, the only piece of furniture in the Toronto apartment she shared with her husband and her daughter. She had spent the last six days in a terrified daze, calling the people in the Bahamas she’d paid, begging for any news and fighting images in her mind of her son sinking into the sea. The next morning, after Tcherry woke, Peterson called LaFortune again. Tcherry looked weak and his voice was frail and hoarse. “When will I be with you, Mommy?” he asked.

    LaFortune did not for a moment consider trying to put Tcherry on another boat. She told him she would wait until she got asylum in Canada and send for him legally. But Haiti was even more dangerous for Tcherry than when he’d left. One man who was detained with Tcherry, whom I interviewed in Haiti two weeks after he returned there, said he feared he would be killed if he left Cap-Haïtien for his home in Port-au-Prince. After he ran through the roughly $50 the U.N. agency gave each of the returnees, which he used for a hotel, he did go back and was attacked on the street as he traveled to a hospital, he said, to get medicine for his daughter. He sent me photographs of gashes on his body. A second man sent me photos of a deep head wound that he suffered during an attack by the very armed men he had said he was running from. Another woman from the boat who told me she fled because she was raped says she is now “in hiding” in Port-au-Prince, living with relatives and her daughter, whom she does not allow to leave the house.

    Others on the boat have been luckier. In late 2022, the Department of Homeland Security started an unusually broad new legal-immigration program that now allows Haitians and Cubans, along with Venezuelans and Nicaraguans, to apply for two-year entry permits on humanitarian grounds from their countries, rather than traveling by land or sea first. The Department of Homeland Security says that since the program began, it has processed 30,000 people a month. More than 107,000 Haitians and 57,000 Cubans have been approved for entry, including a man who was detained with Tcherry. On Oct. 18, he stepped off a plane in Fort Lauderdale with a legal entry permit. He made it just under the wire, given the timing of his interdiction in February. In late April, DHS added a caveat to the new program: Anyone stopped at sea from then on would be ineligible to apply to the parole program. The Coast Guard says the new program and the accompanying restriction have caused the numbers of Cubans and Haitians departing on boats to fall back down to their pre-2021 level. “People have a safe and lawful alternative,” Beal, the Coast Guard’s spokesperson in Florida, told me, “so they don’t feel their only option is to take to the sea.”

    Tcherry rode a bus with Peterson over the mountains to Saint-Marc. In the stucco house on a quiet street where Peterson lived with his fiancée and her parents, Tcherry struggled to stop thinking about his experience at sea. “When I sleep, when I sit down, I want to cry,” Tcherry told me days after his arrival there. “They had us for five days. We couldn’t eat well, couldn’t sleep well. Couldn’t brush our teeth.” He thought of his body soaked from the sea spray, of the woman who died. Although Peterson assured him it was not true, Tcherry kept wondering if the officers had just thrown her body into the sea. “He is having nightmares about the boats,” Peterson told me a week after their arrival, “reliving the same moment again and again, and he starts crying.”

    LaFortune told Tcherry that she was arranging for him to travel to his grandmother in another part of the country. But it soon became clear to her that the roads were too dangerous, spotted with gang and vigilante checkpoints guarded often by men carrying AK-47s. Peterson told LaFortune that Tcherry could stay with him as long as she needed him to. But as the weeks turned to months, Tcherry felt that Peterson began to change. He said Peterson needed money, and he was asking Tcherry’s mother to send more and more. Peterson was frequently out of the house, working odd jobs, and often could not answer LaFortune’s calls. She grew worried. When she did talk to Tcherry, he was as quiet as he was in the smuggler’s house in the Bahamas.

    Two months passed. LaFortune’s asylum case was denied, and she and her husband appealed. Four more months passed. LaFortune’s husband heard news that gangs were closing in on Saint-Marc. LaFortune decided that they must move Tcherry, that it was time to risk the journey on the roads. In September, she sent an old family friend to collect him. They rode on a bus through a checkpoint where the driver paid a fee to a masked man. “I saw a man holding his gun,” Tcherry says. The man made a sign that they could pass.

    Tcherry arrived at a busy bus station in Port-au-Prince and looked for his grandmother. He saw her in a crowd and remembered her face, her high forehead and wide smile. “That is my grandma,” he said, again and again. His mutters turned to song. “That is my grandmother, tololo, tololo, that is my grandmother.” He sank into her arms. He held her hand as they boarded another bus and passed through another checkpoint, back to where he began.

    https://www.propublica.org/article/when-the-coast-guard-intercepts-unaccompanied-kids

    –—

    Reprise du #modèle_australien et son concept de l’#excision_territoriale :

    “People intercepted at sea, even in U.S. waters, have fewer rights than those who come by land. “Asylum does not apply at sea,” a Coast Guard spokesperson told me. Even people who are fleeing violence, rape and death, who on land would be likely to pass an initial asylum screening, are routinely sent back to the countries they’ve fled.”

    Excision territoriale :

    https://seenthis.net/messages/416996
    #Australie

    #droits #mer #terre #USA #Etats-Unis #asile #migrations #réfugiés #MNA #mineurs_non_accompagnés #enfants #enfance #Haïti #réfugiés_haïtiens

    via @freakonometrics

  • #Royaume-Uni : un migrant décède à bord de la #barge « #Bibby_Stockholm »

    Un exilé est mort, mardi matin, sur la barge « Bibby Stockholm », stationnée dans un port du sud-ouest de l’Angleterre. D’après la presse britannique, l’homme se serait suicidé. La structure, qui accueille des demandeurs d’asile en attente du traitement de leur dossier, est sous le feu des critiques depuis sa mise en place en août dernier.

    Nouvelle polémique à propos de « Bibby Stockholm ». Un demandeur d’asile est décédé mardi 12 décembre à bord de la barge, stationnée à quai dans le port de Portland, au sud-ouest de l’Angleterre. La police du Dorset a indiqué avoir été informée à 06h22, heure locale, de la « mort soudaine d’un résident ».

    Aucun autre détail n’a été rendu public, mais plusieurs sources ont déclaré à la BBC que l’homme décédé se serait suicidé. Le décès est survenu dans l’une des plus de 200 cabines à bord, a indiqué une autre source au média britannique.

    Le porte-parole du Premier ministre a fait savoir au Guardian que « toute personne arrivant à Bibby Stockholm subit une évaluation médicale, est surveillée en permanence pendant son séjour dans l’hébergement et reçoit toute l’assistance nécessaire, à juste titre ». Près de 300 demandeurs d’asile sont actuellement hébergés dans la barge, pour une capacité totale de 500 places.
    « Des conditions » d’hébergement « traumatisantes »

    Le ministre de l’Intérieur James Cleverly a assuré que ce décès ferait l’objet d’une « enquête complète ». « Je suis sûr que les pensées de toute la Chambre, comme la mienne, vont aux personnes concernées », a-t-il ajouté. Richard Drax, député conservateur de South Dorset, a déclaré qu’il s’agissait d’une « tragédie née d’une situation impossible ». « On ne peut qu’imaginer les circonstances désespérées qui ont conduit à ce triste résultat ».

    Le directeur général du Conseil pour les réfugiés Enver Solomon, lui, a demandé qu’une enquête indépendante soit menée afin « d’éviter de nouvelles tragédies de ce type ».

    Steve Smith, président de l’association Care4Calais, pointe également du doigt « le gouvernement britannique » qui « doit assumer la responsabilité de cette tragédie humaine ». « Nous signalons régulièrement des intentions suicidaires parmi les résidents et aucune mesure n’est prise », a-t-il déploré sur X.

    https://twitter.com/FreefromTorture/status/1734552685506875393

    « Cette dernière tragédie nous rappelle une fois de plus que les politiques punitives du gouvernement à l’égard des réfugiés sont non seulement cruelles, mais qu’elles coûtent également des vies », a martelé Ann Salter de l’ONG Freedom from Torture. « D’après les survivants avec lesquels je travaille chaque jour, je sais que les conditions exiguës et dangereuses à bord du Bibby peuvent être profondément choquantes pour ceux qui ont survécu à la torture et à la persécution, en plus des expériences traumatisantes qu’ils ont vécues en route vers le Royaume-Uni ».
    Contamination à la légionellose

    La plateforme de trois étages est utilisée depuis quelques mois pour héberger des migrants malgré de vives critiques. Le recours à cette barge, dénoncé par de nombreuses associations d’aide aux migrants, est destiné à réduire la facture de l’hébergement des demandeurs d’asile. Il figure parmi les nombreuses mesures controversées du gouvernement conservateur en matière d’immigration.

    Les premiers migrants sont arrivés sur le « Bibby Stockholm », lancée par l’ex-ministre de l’Intérieur Suella Braverman, en août dernier. Mais l’embarcation avait dû être évacuée en raison d’une contamination du réseau hydraulique à la légionellose. En octobre, la barge avait pu être de nouveau utilisée.

    D’après le Guardian, le ministère de l’Intérieur a depuis fourni un financement supplémentaire au port de Dorset pour la création d’un centre médical à bord. Un infirmier praticien ou un ambulancier sont présents sur la barge quatre ou cinq jours par semaine et un médecin généraliste, une fois par semaine, avec des services de traduction disponibles, a déclaré l’administration du Dorset en octobre.

    Insuffisant, pour les associations, qui ne cessent de tirer la sonnette d’alarme sur la détérioration de la santé mentale des résidents à bord, exacerbée par l’emplacement isolé de la barge. Suite au décès ce matin, un demandeur d’asile hébergé dans la structure a fait savoir au Guardian « ne pas être surpris » par cette annonce. « C’est un résultat prévisible de la politique appliquée par le ministère de l’Intérieur. Plus il y a de gens ici, plus l’attente est longue, et plus la santé mentale de chacun se détériore », a-t-il soufflé.

    « J’ai un message simple pour le ministère de l’Intérieur : combien de personnes doivent mourir avant que vous ne réalisiez les erreurs que vous avez commises dans la façon dont vous traitez les demandeurs d’asile ? »

    https://www.infomigrants.net/fr/post/53837/royaumeuni--un-migrant-decede-a-bord-de-la-barge-bibby-stockholm
    #UK #Angleterre #décès #mort #migrations #asile #réfugiés #hébergement #accueil #suicide

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    ajouté à la métaliste sur le Bibby Stockholm :
    https://seenthis.net/messages/1016683

  • Migranti, la Corte costituzionale albanese sospende la ratifica dell’accordo con l’Italia

    L’intervento dopo due ricorsi presentati dal Partito democratico di Tirana e da deputati vicini all’ex premier Berisha. Fonti di Palazzo Chigi: “Nessuna preoccupazione”

    ROMA - Rinunciare alla sovranità nei due territori che il premier Edi Rama ha offerto all’Italia per la realizzazione di centri di accoglienza per migranti è un atto che avrebbe dovuto essere preventivamente autorizzato dal presidente della Repubblica. Si basa su questa contestazione il ricorso presentato dalle opposizioni al governo di Tirana, col quale è stato bloccato in extremis l’accordo che oggi avrebbe dovuto essere ratificato dal parlamento.

    (#paywall)
    https://www.repubblica.it/politica/2023/12/13/news/accordo_italia_albania_sui_migranti_sospeso_dallalta_corte_albanese-42165

    #suspension #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    • Albania: la Corte Costituzionale sospende l’accordo Rama-Meloni

      La Corte Costituzionale albanese ha sospeso la ratifica del controverso accordo tra Edi Rama e la premier italiana Giorgia Meloni sulla creazione di centri di accoglienza e rimpatrio per migranti sul suolo albanese, finanziati e gestiti dall’Italia. Le reazioni della politica albanese

      Con una decisione lampo, la Corte Costituzionale albanese ha sospeso la ratifica del protocollo sul trasferimento dei migranti stipulato tra il premier Edi Rama e l’omologa italiana Giorgia Meloni del 6 novembre scorso. La procedura di ratifica, prevista per giovedì 14 dicembre, era stata inserita nell’agenda del parlamento con procedura accelerata dalla maggioranza socialista al governo.

      Nell’esame preliminare, i tre giudici della Corte Costituzionale hanno ritenuto ammissibile il ricorso presentato dall’opposizione di centro destra, sottoponendo il caso alla decisione della seduta plenaria prevista per il 18 gennaio prossimo. La Corte dovrà pronunciare la decisione finale entro tre mesi dalla data di presentazione del ricorso, ossia entro il 6 marzo 2024.

      Immediate sono state le reazioni dei due schieramenti politici contrapposti. Mentre gli esponenti del Partito Socialista hanno ribadito il rispetto di tutte le procedure vigenti per la stipula dell’accordo, l’opposizione ha esultato per la parziale vittoria.

      Al suo rientro dal summit Ue-Balcani Occidentali, il premier Rama ha tagliato corto sulla questione durante la conferenza stampa . “È un diritto della Corte Costituzionale [...] quello di esaminare un accordo con uno stato estero. Non ho nulla da aggiungere riguardo ai miei compiti”.
      Fronte comune contro l’accordo

      28 deputati della frazione “Rifondazione” del Partito Democratico (PD), guidata dall’ex premier Sali Berisha, e due del Partito della Libertà dell’ex presidente Ilir Meta hanno presentato il 6 dicembre scorso un ricorso per incostituzionalità del protocollo bilaterale sul trasferimento dei migranti.

      Il gruppo di deputati sostiene che non sia stata rispettata la procedura per la negoziazione e la stipula dell’accordo, in quanto il suo oggetto rientra nelle categorie di accordi che necessitano dell’autorizzazione preventiva del Presidente della Repubblica.

      Oltre alla questione della cessazione temporanea della sovranità territoriale del Porto di Shëngjin e dell’area di Gjadër all’Italia (dove era previsto che arrivassero i migranti), i ricorrenti evidenziano una violazione di almeno due articoli della Costituzione, rispettivamente l’Art. 16 sul principio di uguaglianza tra i cittadini stranieri presenti in Albania e i cittadini albanesi, e l’Art. 27 sulla limitazione ingiusta delle libertà personali, considerato che i migranti verranno detenuti in un’area confinata per un periodo fino a 18 mesi senza un giusto motivo.

      “Abbiamo intentato la causa per proteggere gli interessi dei cittadini. Non si può decidere il destino del nostro Paese violando i diritti umani. Siamo grati al popolo italiano, ma questo non lo riguarda”, ha dichiarato per i media Lindita Metaliaj, deputata del PD.

      Nel suo comunicato stampa, la Corte Costituzionale ha ribadito che i ricorrenti hanno presentato tre richieste consecutive per la sospensione della procedura di ratifica parlamentare dell’accordo.

      Nella mattina del 6 dicembre scorso, oltre al ricorso di Rifondazione, è stato presentato anche un secondo ricorso da parte della frazione moderata che rappresenta ufficialmente il Partito Democratico, guidata da Lulzim Basha.

      In un comunicato stampa, il vicepresidente Kreshnik Çollaku ha dichiarato che “l’accordo [con l’Italia] è stato annunciato in modo strano, senza preavviso, suscitando una logica reazione di preoccupazione, e diventando oggetto di profondo dibattito pubblico sia in [Albania] che in Italia”, ed ha precisato: “In Albania c’è stata mancanza di trasparenza da parte del primo ministro. Rama è riuscito più volte a nascondersi sfruttando il caos parlamentare, evitando il dibattito pubblico”.

      I moderati del PD chiedono alla Corte Costituzionale la dichiarazione di incostituzionalità dell’accordo Rama-Meloni, la sospensione della procedura di ratifica in parlamento e la sua incompatibilità con gli Art. 3, 4 e 7 della Costituzione albanese.

      Uno dei primi “effetti” dell’accordo sui migranti è stato quello di placare lo scontro tra le due frazioni del PD, profondamente diviso e frammentato negli ultimi due anni.
      La maggioranza compatta

      L’opposizione ha tentato in diversi modi di bloccare i lavori delle commissioni parlamentari nelle quali era prevista l’approvazione in prima lettura dell’accordo con l’Italia. Per contrastare le resistenze, le commissioni parlamentari si sono riunite online approvando l’accordo con i soli voti della maggioranza.

      Nel suo intervento il ministro degli Interni Taulant Balla ha sottolineato che attraverso il protocollo si mette a disposizione del governo italiano una superficie di territorio per la realizzazione delle strutture ospitanti degli immigrati irregolari. “Non si tratta di alcuna forma di cessione dei territori, poiché restano territori della Repubblica d’Albania, ma concediamo il diritto all’uso temporaneo di una superficie precedentemente determinata nell’accordo”.

      Dal canto suo il presidente della commissione sicurezza Nasip Naço ha definito le reazioni dell’opposizione come tentativi di protagonismo personale da parte di coloro che hanno perso il senso della politica.

      In seguito alla sospensione dell’accordo, il presidente del gruppo parlamentare socialista, Bledar Çuçi, ha dichiarato che la maggioranza attuerà ogni decisione della Corte Costituzionale, ritenendo che l’accordo sia molto importante “per dimostrare che siamo un paese europeo”.

      Nel corso delle ultime settimane, il premier Rama ha affrontato la questione dell’intesa con l’Italia in diverse occasioni, ribadendo la tesi della solidarietà, seppur riconoscendo il contributo limitato che l’Albania può fornire alla sfida migratoria con cui si sta scontrando l’Ue.

      “L’Albania non può essere la soluzione per risolvere questo problema, ma possiamo dare un aiuto”, ha sottolineato Rama in una intervista per i media albanesi. “Accettando l’accordo agiamo semplicemente come un paese europeo che condivide questa preoccupazione. Sotto l’aspetto politico, aumenta la reputazione dell’Albania”.
      Le reazioni della società civile

      Diversi attivisti della società civile hanno condiviso pubblicamente il proprio scetticismo sull’attuazione pratica dell’accordo, ribadendo la tendenza diffusa tra i paesi Ue di voler esternalizzare le questioni migratorie a scapito del rispetto dei diritti umani. Si teme che la costruzione di due centri nella provincia di Lezha possa avere una ricaduta negativa sul turismo, oltre che un potenziale serio problema per la sicurezza nazionale.

      Un’alleanza di 29 organizzazioni non governative ha rivolto una lettera aperta al governo domandando il suo ritiro dall’accordo con l’Italia. Le organizzazioni esprimono la loro preoccupazione per la mancanza di trasparenza e di consultazioni con i gruppi di interesse.

      Nei primi giorni successivi all’annuncio dell’accordo, hanno avuto luogo alcune sporadiche proteste civiche a bassa partecipazione a Lezha e a Tirana. A favore dell’organizzazione di proteste nazionali si è inizialmente espresso anche il leader di Rifondazione Berisha, obbligato poi a fare dietrofront in seguito alla chiamata del ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani.
      Voci fuori dal coro

      Con un effetto a sorpresa, dei 7 comuni guidati dal centro destra, due sindaci - uno del comune di Fushë Arrëz nel nord e l’altro di Memaliaj nel sud del paese - hanno chiesto pubblicamente al premier di ospitare un determinato numero di migranti negli spazi a messi a disposizione nei rispettivi comuni, come previsto dall’intesa con il governo italiano.

      “È il momento di mostrare la nostra ospitalità, basata sull’esperienza e sull’ospitalità che noi immigrati stessi abbiamo trovato da molti anni nei paesi europei”, ha ribadito Albert Malaj , sindaco di Memaliaj, nella sua lettera aperta.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-la-Corte-Costituzionale-sospende-l-accordo-Rama-Meloni-22902

    • En Albanie, la Cour constitutionnelle suspend l’accord avec l’Italie sur l’externalisation des demandes d’asile

      La Cour constitutionnelle de Tirana a annoncé mercredi la suspension des procédures parlementaires, censées valider l’accord avec Rome sur l’externalisation des demandeurs d’asile. La Haute Cour estime que le texte viole la Constitution albanaise et les conventions internationales, une circonstance qui nécessite l’arrêt de la ratification parlementaire jusqu’au prochain verdict de la Cour.

      Premier revers pour l’accord entre l’Albanie et l’Italie. La Cour constitutionnelle de Tirana a annoncé mercredi 13 décembre la suspension des procédures parlementaires, qui doivent valider le texte, initialement prévu ce jeudi.

      Le partenariat entre ces deux pays, signé le 6 novembre par la Première ministre italienne Giorgia Meloni et son homologue albanais Edi Rama, prévoit d’envoyer une partie des demandeurs d’asile secourus en Méditerranée centrale dans ce pays, non membre de l’Union européenne (UE). Au total, 30 000 personnes seront envoyées en Albanie sur une période d’un an.

      Le 6 décembre, le Conseil des ministres italiens avait approuvé cet accord, ouvrant la voie à la construction de deux centres en Albanie, pour accueillir les demandeurs d’asile et y examiner leurs dossiers.

      Mais la Haute Cour albanaise a mis un coup d’arrêt au projet. La justice a accepté deux appels, déposés séparément par le Parti démocratique albanais et 28 autres députés alignés aux côtés de l’ancien Premier ministre de centre-droit Sali Berisha, qui suspend automatiquement le texte.

      Les conclusions de la Cour affirment que l’accord viole la Constitution albanaise et les conventions internationales signées par Tirana, une circonstance qui nécessite l’arrêt de la ratification parlementaire jusqu’au prochain verdict de la Cour.

      Le tribunal doit se prononcer dans les trois mois suivant le dépôt du recours, soit le 6 mars 2024. Sa première séance plénière est attendue le 18 janvier.
      « Nous ne vendons pas un morceau de terre albanaise »

      Mercredi, le ministre albanais de l’Intérieur, Taulant Balla, avait défendu son partenariat, estimant qu’il avait « le droit de négocier de tels accords au nom de la République d’Albanie », ajoutant que celui-ci était « entièrement conforme à la constitution ». Le ministre a également répondu aux opposants du projet en affirmant que « nous ne vendons pas un morceau de terre albanaise » à l’Italie. « Nous offrons cette terre à l’Italie comme nous le faisons habituellement, par exemple lorsque nous installons une ambassade », a insisté Taulant Balla.

      La juridiction à l’intérieur du camp sera italienne, mais la terre restera albanaise, a-t-il assuré. L’Italie prendra en charge les coûts du projet, ainsi que les dépenses supplémentaires engagées par la police albanaise pour assurer la sécurité en dehors du périmètre du camp.

      En Italie aussi, cet accord est vivement critiqué. Lors de l’annonce du texte début novembre, le député et secrétaire du parti d’opposition Più Europa, Riccardo Magi, avait déclaré : « On crée une sorte de Guantanamo italien, en dehors de toute norme internationale, en dehors de l’UE, sans la possibilité de contrôler la détention des personnes enfermées dans ces centres ».

      L’ONG Amnesty international évoquait de son côté un partenariat « illégal et irréalisable ». « Il s’agit d’un accord de refoulement, une pratique interdite par les normes européennes et internationales et pour laquelle l’Italie a déjà été condamnée par la Cour européenne des droits de l’Homme », avait déploré Elisa de Pieri d’Amnesty international.

      Du côté de la Commission européenne, en revanche, on se félicite d’un tel accord, jugé conforme aux obligations de l’UE. Dans une lettre adressée aux États membres, la présidente Ursula von der Leyen estime qu’il « s’agit d’un exemple de réflexion originale, basée sur un partage équitable des responsabilités avec les pays tiers ».


      https://www.infomigrants.net/fr/post/53894/en-albanie-la-cour-constitutionnelle-suspend-laccord-avec-litalie-sur-

  • #Frontex and the pirate ship

    The EU’s border agency Frontex and the Maltese government are systematically sharing coordinates of refugee boats trying to escape Libya with a vessel operated by a militia linked to Russia, human trafficking, war crimes and smuggling.

    Tareq Bin Zeyad (TBZ) is one of the most dangerous militia groups in the world. It is run by Saddam Haftar, the powerful son of East Libyan warlord Khalifa Haftar. The group has been operating a vessel, also called TBZ, in the Central Mediterranean since May, during which it has intercepted more than 1,000 people at sea off the coasts of Libya and Malta and returned them to Libya.

    Experts say the militia would not have been able to find the refugee boats without help from surveillance planes. We analysed several interceptions carried out by the TBZ boat in Maltese waters. These are known as ‘pullbacks’ and are illegal according to Maritime experts. We found that TBZ receives coordinates from EU planes in three ways:

    – Direct communication through a Frontex mayday alert. On 26 July, a Frontex plane issued a mayday (a radio alert to all vessels within range used in cases of immediate distress) in relation to a refugee boat. TBZ answered within minutes. Frontex only informed the nearby rescue authorities of Italy, Libya and Malta after issuing the mayday. They did not intervene. Frontex admitted the plane had to leave the area after an hour, leaving the fate of the refugees in the hands of a militia. It would take TBZ another six hours to reach the boat and drag people back to Libya.

    https://www.youtube.com/watch?v=4LE0sq_RKY0&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.lighthouserepor

    – Indirect communication through Tripoli. Frontex routinely shares refugee vessel coordinates with the Libyan authorities. In Frontex’s own system, they recorded that on 16 August the coordinates they shared with Tripoli were handed over to TBZ and led to an interception.

    – Direct communication with Malta’s Armed forces. On 2 August, a pilot with a Maltese accent was recorded giving coordinates to TBZ. Hours later, the TBZ vessel was spotted by NGOs near the coordinates. Malta’s armed forces did not deny the incident.

    https://www.youtube.com/watch?v=3zaFlaXtS4c

    Both Frontex and Malta say their aim when sharing the coordinates is to help people in distress.

    Responding to our questions on the 26 July mayday, Frontex said its experts decided to issue the alert because “the vessel was far away from the shoreline, it was overcrowded, and there was no life-saving equipment visible.”

    However, in all of the cases we analysed there were safer options: merchant ships were sailing nearby -– much closer than the TBZ ship – and NGO vessels or the Maltese or Italian coast guards could have assisted.

    According to international law expert Nora Markard “Frontex should have ensured that someone else took over the rescue after the distress call – for example one of the merchant ships, which would have been on site much faster anyway.”

    Markard added: “Frontex knows that this situation is more of a kidnapping than a rescue. You only have to imagine pirates announcing that they will deal with a distress case. That wouldn’t be right either.”

    The TBZ is described by the EU as a militia group affiliated with warlord Khalifa Haftar’s Libyan National Army in confidential documents obtained by this investigation. We also found confidential reports showing that EU states are aware of the illicit nature of many of TBZ’s activities – including human trafficking. The group was described in an EU report as being supported by Russian private military group PCM-Wagner.

    Frontex declined to comment on whether TBZ was an appropriate partner.
    METHODS

    We obtained confidential EU documents, tracked position data from European surveillance aircraft and cargo ships, monitored social media of militia members on board the TBZ vessel, spoke to insider sources in EU and Libya institutions and reached out to linguistic experts to analyse a radio communication.

    We were able to speak to seven refugees who were dragged back to Libya by the TBZ and gave harrowing accounts of mistreatment.
    STORYLINES

    All the refugees we spoke to reported abuse at the hands of the militia, including torture, forced labour and ransom payment. One of them, Syrian Bassel Nahas*, described a three-week ordeal that he did not think he would survive.

    He said TBZ crew shaved his eyebrows and lashes and mutilated his head. “They beat us until our bodies turned black,” he said. “Then they threw our bodies in the water”.

    Bassel said he and other refugees were left in the Benghazi harbour next to the docked vessel for hours overnight, the salt burning their wounds, before they took him out at 4am and beat him more.

    Finally, Bassel recounts, the armed men made him wear an orange prisoner suit and stand against a wall. They opened fire, laughing as he collapsed. It was only when he regained consciousness and checked his body for blood that he realised the bullets hadn’t hit him.

    A Frontex drone was filming Bassel’s boat while it was intercepted by TBZ several days before, on 18 August. Bassel recounts the moment the militia approached: “We told them to leave us alone, that we had children and women on board. But they accused us of having weapons and drugs and opened fire on our boat.”

    Frontex claims that due to poor visibility on that day “detailed observations were challenging”. The same drone spotted Bassel’s vessel two days before its interception by TBZ and shared coordinates with Malta and Greece.

    Frontex declined to comment on whether its coordinates were used to intercept Bassel’s vessel and on allegations of torture and human rights abuses by TBZ.

    Jamal*, a Syrian from the southwestern province of Deraa, recalls that after being intercepted at sea on 25 May he was taken “to a big prison” where they were beaten “with sticks and iron” and all their belongings – “[their] passports, [their] cell phones” – were confiscated. “There was no water available in the prison. We drank in the bathroom. They fed us rice, soup or pasta in small quantities. We were held for 20 days by the Tariq bin Ziyad brigade,” he said.

    Several people report that they were forced to work to earn their freedom. “What this brigade did to us was not authorised, it was slavery. They sold us to businessmen so that we would work for them for free,” said Hasni, who was intercepted on 7 July by the TBZ.

    https://www.lighthousereports.com/investigation/frontex-and-the-pirate-ship

    #Malte #frontières #contrôles_frontaliers #migrations #réfugiés #Russie #Libye #Tareq_Bin_Zeyad (#TBZ) #milices #collaboration #Saddam_Haftar #Khalifa_Haftar #Méditerranée #mer_Méditerranée #pull-backs #sauvetage (well...) #PCM-Wagner #drones