• I dati reali. Dove migrano gli africani ? Solo il 2% di chi si muove va verso l’Europa

    I numeri smentiscono la retorica allarmistica che spesso prevale in Europa . Un fenomeno vasto e anche trascurato. Se violenza e ingiustizia dilagano la situazione peggiora

    Le migrazioni interne all’Africa quanto quelle al di fuori del continente hanno lo stesso obiettivo: cercare un futuro migliore per se stessi e la propria famiglia. Con lo scopo di raccogliere voti, slogan del tipo: “Non possiamo accogliere tutta l’Africa” o “I migranti africani ci stanno invadendo”, non si fa altro che promuove la disinformazione rispetto alla realtà di un fenomeno migratorio di grandi proporzioni ma che va inquadrato diversamente.

    Ci si focalizza sul singolo albero, perché ci riguarda direttamente, senza però osservare l’intera foresta. Sebbene sia difficile ottenere cifre precise, si stima che meno del 2 per cento dei migranti africani più poveri viaggi verso l’Europa dopo anni di riflessione e complicati tentativi attraverso le vie legali. Un’altra parte migra verso Stati Uniti e Canada, sebbene Medio Oriente e Asia siano ormai le destinazioni più favorite. La stragrande maggioranza dei migranti, oltre 40 milioni nel 2022, migra all’interno del continente. In generale, circa l’80 per cento degli africani si muove all’interno del suo Stato d’origine.

    «La migrazione interna africana avviene prevalentemente dai villaggi verso le zone urbane – sottolinea Muhammad Baba Bello, economista all’università Bayero di Kano, in Nigeria –. I poveri delle campagne fluiscono regolarmente verso le capitali o città relativamente più ricche». I dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) mostrano inoltre che la migrazione della manodopera in Africa «è in gran parte interregionale, circa l’80 per cento».

    Escludendo quindi i milioni di migranti che fuggono a causa di conflitti o del cambiamento climatico, e omettendo quelli “qualificati” che si spostano internamente all’Africa per ragioni di carriera, sono decine di milioni i migranti che vivono con pochi dollari al giorno spostandosi tra Stati e regioni del continente africano.

    Nel 2000, prima del conflitto civile, la Costa d’Avorio era la destinazione principale della migrazione interna all’Africa, sostituita poi dal 2017 dal Sudafrica. Nel quartiere di Nyekonakpoé, dove vivo a Lomé, capitale di un piccolo Paese come il Togo, a meno di 200 metri dal confine con il Ghana, sono i nigeriani la comunità più folta. Le strade della zona brulicano di modesti negozi di alimentari e abbigliamento, locande, baretti e atelier di artigiani di vario tipo.

    Molti di loro fanno parte della comunità Yoruba, originaria della Nigeria occidentale. Uno dei residenti più famosi del quartiere è l’ex calciatore Emmanuel Adebayor (ha giocato anche nel Real Madrid), uno yoruba nato da una famiglia nigeriana immigrata in Togo. Famiglie che devono accontentarsi di vivere con meno di due dollari al giorno.

    Gli yoruba sono 37 milioni e solo un milione vive fuori dall’Africa. Questa etnia è nota per essere una delle più feconde al mondo per i gemelli eterozigoti, con un tasso del 4,4 per cento rispetto alle nascite. Gli yoruba da sempre migrano soprattutto verso Benin, Ghana, Togo, e Costa d’Avorio. Nei mercati centrali delle capitali di questi Paesi costieri che si affacciano sul Golfo di Guinea, sono sempre più numerose anche le comunità di migranti provenienti da Stati saheliani come Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Commercianti nei settori agricolo, alimentare, tessile e artigianale. Anche i porti africani, sempre più trafficati e sofisticati, rappresentano un polo di attrazione importante per la forza lavoro regionale, non richiedendo particolari competenze professionali.

    Centinaia di migliaia di migranti dell’Africa occidentale vivono in Nord Africa. Molti di essi risiedevano in Libia da decenni prima che scoppiasse la guerra civile. «Ho vissuto a Tripoli per molti anni lavorando come muratore – spiega Kojo, tornato ad Accra, capitale del Ghana, per lavorare come guardiano di un palazzo –. Guadagnavo mille dollari al mese, dieci volte tanto rispetto a quello che mi danno in Ghana per la stessa professione».

    Il Senegal è un altro importante hub per la migrazione interna. Nella capitale, Dakar, impieghi come addetti alle pulizie di abitazioni e uffici, babysitter, tassisti, cuochi, e operai per le costruzioni sono spesso occupati da migranti non-senegalesi. Per costruire la nuova città di Diamniadio sono stati assunti migliaia di migranti da Sierra Leone, Liberia, Gambia, Guinea Conakry, Mali, ma anche da Nigeria e Congo Brazzaville. Nel crescente settore minerario africano, vengono occupati soprattutto migranti burkinabé, maliani, sudafricani, zambiani, e guineani. Anch’essi, come tutti gli altri, spediscono ogni mese gran parte dello stipendio verso il loro Paese d’origine.

    Tanto in Europa quanto in Africa i flussi migratori possono avere conseguenze molto complesse da gestire. L’esempio più lampante è il Sudafrica, dove il tasso di disoccupazione supera attualmente il 32 per cento. Migranti che una volta provenivano quasi esclusivamente dai Paesi limitrofi, ora arrivano da Kenya, Congo, Etiopia, Sudan e Somalia in cerca di un’occupazione che però si fatica sempre di più a trovare.

    Da anni sono però regolari le violenze e discriminazioni dei sudafricani contro i migranti e persino tra le stesse comunità. «Le politiche migratorie in Sudafrica sollevano molti interrogativi – spiegano alcuni esperti del tema -. Le autorità vogliono favorire l’attrazione di manodopera qualificata invece di quella poco qualificata».

    Secondo la Banca mondiale, sono tre i Paesi dell’Africa sub-sahariana dove è più facile avviare un’impresa: Mauritius, Ruanda, e Kenya. Altri studi affermano che tra le principali nazioni che stanno sviluppando buone condizioni di lavoro ci sono Malawi, Nigeria, Zambia, Capo Verde e Eswatini (ex Swaziland), mentre l’ambiente imprenditoriale è «migliorato in modo significativo in Zimbabwe, Congo, Gabon, Niger (prima del colpo di Stato) e Senegal».

    Con la relativa crescita di Juba, capitale del Sud Sudan diventato indipendente nel 2011, folte comunità di ugandesi e keniani si sono riversate oltre confine per fare business investendo quel poco che avevano. Per le stesse ragioni molti sudsudanesi hanno messo radici in Kenya, Uganda e Sudan (prima del colpo di Stato).

    Sudafrica, Costa d’Avorio e Nigeria sono quindi tra le prime cinque destinazioni. Ad eccezione della Costa d’Avorio, con la più grande comunità estera proveniente dal vicino Burkina Faso, i migranti africani rappresentano comunque meno del 5% della popolazione locale. Sono molti anche gli “studenti-migranti” provenienti da modeste famiglie africane che lavorano per finanziare gli studi dei loro figli in università come la Cheikh Anta Diop a Dakar, la Makerere University a Kampala, capitale dell’Uganda, la Nairobi University in Kenya e molti altri aenei in Sudafrica, Costa d’Avorio, Nigeria, Togo, Ghana, e Tanzania.

    Gli studenti hanno pochi soldi, vivono nei dormitori e cercano di lavorare part-time per guadagnare qualcosa. Nel contesto della prematura de-industrializzazione dell’Africa e dell’impatto crescente dell’intelligenza artificiale, la migrazione interna al continente continua a crescere notevolmente. Questo fenomeno, rispetto alle spesso drammatiche migrazioni verso l’Europa, non fa però notizia.

    https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/i-dati-smentiscono-la-retorica-allarmistica-che-sp

    #migrations #réfugiés #migrations_intra-africaines #statistiques #chiffres #Afrique

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    ajouté à la métaliste de documents (surtout cartes et visualisations) qui traitent des #migrations_intra-africaines et qui peuvent servir à combattre les #préjugés de la #ruée vers l’Europe de migrants d’#Afrique subsaharienne...
    https://seenthis.net/messages/817279

  • #Cartographie. #Al-Zaatari, le #camp_de_réfugiés devenu la douzième ville de #Jordanie

    Il y a onze ans, près de la frontière syrienne, ce camp commençait à accueillir des réfugiés syriens. Aujourd’hui, il compte toujours plus de 80 000 habitants, dont près de 60 % ont moins de 18 ans. Voici le #plan de cette véritable ville, avec ses écoles et ses marchés. Un plan à retrouver dans notre hors-série “L’Atlas des migrations”, en vente chez votre marchand de journaux.

    https://www.courrierinternational.com/grand-format/cartographie-al-zaatari-le-camp-de-refugies-devenu-la-douziem

    #réfugiés #migrations #asile #villes #urban_refugees #camps_de_réfugiés #visualisation

  • Sylvie Bredeloup : « Les routes de la migration africaine mènent rarement à l’Europe »

    Les migrations africaines sont bien plus diverses et complexes qu’on ne pourrait le penser. Non seulement la proportion d’Africains qui décident de tenter l’aventure vers l’étranger est relativement faible, mais la plupart des migrants ne cherchent pas à aller vers l’Europe : ils restent sur le continent. Les Presses Universitaires du Québec viennent de publier un ouvrage collectif qui s’éloigne des approches réductrices sur ce sujet. Il s’intitule Migrations et gouvernance en Afrique et ailleurs. La chercheuse Sylvie Bredeloup est l’un de ses auteurs. Elle est notre invitée.

    RFI : On va tout de suite faire tomber deux mythes avec vous, le premier mythe c’est celui selon lequel l’Afrique serait une terre d’immigration, en tout cas plus que le reste du monde.

    Sylvie Bredeloup : Oui, d’abord, contrairement aux idées reçues, la migration n’est pas un phénomène massif, puisque la migration internationale ne concerne que 3,2% de la population mondiale. Et quant aux Africains, ils ne sont pas plus grands voyageurs que les autres, voire peut-être moins que les autres, puisque selon les sources des Nations unies, notamment en 2015, ces migrants ouest-africains ne représentaient que 2,9% de l’ensemble de la population ouest-africaine.

    Donc c’est vraiment un phénomène minoritaire ?

    Oui, c’est un phénomène minoritaire.

    Quand les populations africaines émigrent, elles ne vont pas vers l’Europe, elles vont plutôt vers d’autres pays du continent…

    Oui, tout à fait. Contrairement à ce mythe tenace qui est répandu, les routes de la migration africaine mènent rarement en Europe. Plus des deux tiers, voire les trois quarts des Africains, restent à l’intérieur du continent.

    Est-ce qu’à l’intérieur du continent africain, certains pays attirent plus particulièrement les migrants que d’autres ?

    Oui, on parle de cinq pôles récepteurs. D’abord le Nigeria et la Côte d’Ivoire, en Afrique de l’Ouest. Le premier, avec ses champs de pétrole et ses mines de pierres semi-précieuses… le second, avec ses plantations de café et cacao attirent une population africaine importante. Troisième pôle, cette fois en Afrique centrale : le Gabon, pays beaucoup moins peuplé, avec ses chantiers de construction, mais aussi ses hydrocarbures… à l’instar de la Libye, en Afrique du nord, qui a continué aussi à attirer des populations des pays voisins. Tout cela, en dépit des exactions et des expulsions répétées. Puis, dernier pôle récepteur : l’Afrique du Sud, dont les mines d’or et de diamant continuent d’attirer aussi une multitude d’ouvriers : Zimbabwéens, Mozambicains… Et depuis la fin de l’apartheid, l’Afrique du Sud a aussi accueilli un nombre croissant de migrants ouest-africains, ou encore de République démocratique du Congo, qui eux travaillent plutôt dans les zones urbaines, dans le commerce et l’artisanat.

    Ce que vous expliquez dans votre texte, c’est que, jusque dans les années 1980, on était globalement en Afrique dans un régime que l’on pourrait décrire comme un régime « de laisser faire », avec une circulation assez libre des personnes, mais que dans les années 1980, justement, se sont mises en place progressivement des politiques de contrôle plus restrictives.

    Oui, il se trouve que la crise économique mondiale a aussi contribué à redessiner la carte des mouvements intra-africains. Et les textes qui pendant longtemps n’avaient pas été appliqués, ont fini par l’être. Les cartes de séjour et visas d’entrée et de sortie ont été instaurés. Les tarifs de ces cartes et de ces visas ont augmenté aussi notablement. L’accueil des étrangers au travail salarié a également été restreint. Je renvoie à la politique généralisée que l’on a appelée d’« ivoirisation », de « zairisation » de « gabonisation » des cadres et ensuite du commerce. À partir des années 1980, dans les pays d’accueil, ces mesures ont eu pour effet de plonger les communautés étrangères dans une vulnérabilité accrue, incitant certains d’entre eux à reprendre la route.

    Ce qui est particulièrement intéressant dans le chapitre que vous avez rédigé, c’est que vous revenez sur la façon dont se déroule concrètement cette migration pour les migrants africains. Et vous expliquez notamment que la migration par étapes est un scénario qui est fréquent pour les migrants africains. Comment se passe concrètement, cette migration par étapes ?

    Il se trouve que l’Afrique devient autant une terre d’écueil qu’une terre d’accueil. Les conditions d’hospitalité n’étant plus réunies, les migrants ne peuvent plus tabler sur les solidarités traditionnelles, sur la famille, sur les compatriotes… Donc même si ceux qui partent ne sont pas les plus pauvres, le passage des frontières a un coût important et les économies faites avant de partir sont vites liquidées. Les migrants sont donc conduits à travailler en chemin pour se renflouer. Ce qui est sûr, dans tous les cas, c’est que leur voyage s’étale dans le temps et effectivement se mesure dorénavant en années. Donc non seulement le nombre d’étapes se multiplie, mais l’attente à ces étapes s’éternise aussi. Une collègue -Claire Escoffier- a montré que cela faisait en moyenne dix-neuf mois que des migrants subsahariens qu’elle avait rencontrés au Maroc, avaient quitté leur pays d’origine. Un autre collègue -Mohamed Saïd Musette- dans une recherche conduite en Algérie, a montré que si dans les années 2000, le temps passé dans les lieux de transit ne dépassait pas six mois, en 2006 les migrants y restaient deux années et plus. Moi-même, en Libye, j’ai rencontré deux migrants camerounais qui ne se souvenaient plus depuis combien d’années ils s’étaient arrêtés à Sebha, qui se trouve aux portes du grand désert. Ils se disaient en panne. Et en fait, ils avaient perdu la notion du temps, comme si leur horloge interne s’était détraquée. Et c’est seulement en asseyant de faire coïncider le moment de leur arrivée dans la ville avec des événements importants qui s’étaient déroulés dans le monde, qu’ils ont réalisé que leur séjour en Libye pouvait se mesurer objectivement en années.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/invit%C3%A9-afrique/20210301-sylvie-bredeloup-les-routes-de-la-migration-africaine-m%C3%A8nent-rarem
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    ajouté à la métaliste de documents (surtout cartes et visualisations) qui traitent des #migrations_intra-africaines et qui peuvent servir à combattre les #préjugés de la #ruée vers l’Europe de migrants d’#Afrique subsaharienne...

    https://seenthis.net/messages/817279

    ping @reka @karine4 @isskein

  • Places of residence of Sahelian emigrants, 2015

    Sahelian migration within the region: Burkina Faso and Mali alone are responsible for over 28% of West African emigrants. Along with Niger and Chad, they are the countries whose migration trajectories are most centered on neighbouring and nearby countries. Emigrants from Senegal and Mauritania are more oriented towards the rest of the world. Cabo Verde has proportionately the largest number of emigrants; its diaspora is larger than its resident population. Seasonal migration during the lean season in Sahelian countries is impossible to accurately assess, but is probably in the millions. It is an important factor in food security since seasonal migrants generate additional income and relieve pressure on the environment.

    http://www.west-africa-brief.org/content/en/places-residence-sahelian-emigrants-2015
    #migrations #asile #réfugiés #Afrique_de_l'Ouest #cartographie #visualisation #Sahel #migrations_intra-africaines #Afrique #émigration

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    Ajouté à cette métaliste sur de documents (surtout cartes et visualisations) qui traitent des #migrations_intra-africaines et qui peuvent servir à combattre le #préjugés de la #ruée vers l’Europe de migrants d’#Afrique subsaharienne...
    https://seenthis.net/messages/817279

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  • #métaliste de documents (surtout cartes et visualisations) qui traitent des #migrations_intra-africaines et qui peuvent servir à combattre les #préjugés de la #ruée vers l’Europe de migrants d’#Afrique subsaharienne...

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    Voir notamment le livre de #Stephen_Smith qui entretien ce #mythe :
    La #ruée vers l’#Europe. La jeune #Afrique en route pour le Vieux Continent


    https://seenthis.net/messages/673774

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    Les documents pour contrer ce mythe...

    Le #développement en #Afrique à l’aune des #bassins_de_migrations


    https://seenthis.net/messages/817277

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    Les migrations au service de la transformation structurelle


    https://seenthis.net/messages/698976

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    Many more to come ? Migration from and within Africa


    https://seenthis.net/messages/698976#message699366

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    #Infographie : tout ce qu’il faut savoir sur les migrants intra-africains


    https://seenthis.net/messages/615305

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    Une population en pleine expansion, fuyant les régions sous tension


    https://seenthis.net/messages/615305#message763880

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    Les #migrations_internes vont-elles recomposer l’Afrique ?


    https://seenthis.net/messages/615305#message800883

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    African migration : is the continent really on the move ?


    https://seenthis.net/messages/605693

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    Africa : International migration, emigration 2015


    https://seenthis.net/messages/526083#message691033

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    Un premier atlas sur les #migrations_rurales en Afrique subsaharienne - CIRAD


    https://seenthis.net/messages/647634

    #cartographie #visualisation #ressources_pédagogiques

    ping @reka @karine4 @fil

  • Le #développement en #Afrique à l’aune des #bassins_de_migrations

    Sur le continent africain, les migrations sont organisées autour de #pôles_d’attraction_régionale qui constituent des bassins de migrations. Une réalité qu’il convient de prendre davantage en compte dans les politiques de développement.

    Quelques chiffres pour commencer. La planète compte 272 millions de migrants internationaux en 2019, soit 3,5 % de la population mondiale. En 2017, 36,3 millions d’Africains vivaient hors de leur pays de résidence habituelle, représentant environ 15 % des migrants internationaux. Alors que les migrations africaines vers l’Europe captent régulièrement l’attention médiatique, il faut rappeler que les mouvements de populations ont majoritairement lieu à l’intérieur même du continent africain (https://unctad.org/fr/pages/PublicationWebflyer.aspx?publicationid=2118). Ainsi, 7 migrants subsahariens sur 10 demeurent en Afrique. Seules les migrations nord-africaines sont majoritairement extracontinentales : 9 migrants nord-africains sur 10 résident en effet hors du continent. Des mobilités avant tout sur le continent Pour l’essentiel intracontinentales, les migrations subsahariennes sont organisées autour de pôles d’attraction régionale. Les principaux pays d’immigration en Afrique sont l’Afrique du Sud (4 millions d’immigrants sur une population de 56,7 millions), la Côte d’Ivoire (2,3 sur 24,3 millions), l’Ouganda (1,7 sur 42,9 millions), le Nigeria (1,5 sur 191 millions), le Kenya (1,3 sur 49,7 millions) et l’Éthiopie (1,2 sur 105 millions). Ces États voient converger en leur sein des migrants issus de pays limitrophes, pour des durées plus ou moins longues.

    Le Kenya, par exemple, héberge une majorité de migrants ougandais et somaliens. L’Éthiopie accueille essentiellement des ressortissants érythréens, somaliens et sud-soudanais. En Afrique du Sud, les migrants sont principalement issus du Mozambique, du Zimbabwe, du Lesotho et de Namibie, etc. Ces sous-ensembles migratoires régionaux, regroupant à chaque fois plusieurs pays d’émission autour d’un même pôle d’attraction, constituent ce que l’on appelle des « bassins de migrations ». Les migrations s’effectuent généralement à l’intérieur d’une même région car migrer loin implique de posséder un capital économique, social et culturel. Dans certaines régions, la porosité des frontières, l’existence de dynamiques migratoires traditionnelles et la mise en place progressive d’espaces de libre circulation des personnes tendent à renforcer ce phénomène. À rebours des discours alarmistes qui prédisent une « ruée » de la jeune Afrique vers le Vieux Continent, le caractère intrarégional des migrations subsahariennes est un état de fait, un schéma dominant et structurel des mobilités humaines en Afrique. Les déterminants des mobilités intrarégionales : des bassins de migrations diversifiés Le phénomène des bassins de migrations est récurrent, mais les motivations des personnes qui se déplacent et les contextes migratoires sont divers. Bien que la décision de migrer soit toujours multifactorielle et inscrite dans un contexte spécifique, la recherche de sécurité et la quête d’emploi sont les deux déterminants principaux des migrations vers ces pôles d’attraction régionale. Ainsi, l’Ouganda, troisième pays d’accueil des réfugiés après la Turquie et le Pakistan, héberge 1,2 million de réfugiés sur une population immigrée de 1,7 million : il s’agit principalement de personnes ayant fui les conflits voisins au Soudan du Sud et en République démocratique du Congo. Ces migrants ont cherché refuge en Ouganda et se sont établis, généralement pour de longues durées, dans les camps du nord et de l’ouest du pays. Les migrations intrarégionales vers la Côte d’Ivoire sont, quant à elles, fortement déterminées par la demande en main-d’œuvre peu qualifiée dans plusieurs secteurs tels que l’agriculture, la construction et les industries extractives. Le dynamisme économique relatif du pays et ses salaires plus avantageux expliquent que de nombreux Burkinabès, Maliens, Guinéens, Libériens et Nigériens s’y rendent pour travailler, à plus de 90 % dans le secteur informel (soit 10 % de plus que les nationaux). Sur ces territoires, différentes temporalités migratoires peuvent se côtoyer : ainsi, certains Burkinabès cultivent le cacao dans les forêts ivoiriennes depuis plusieurs décennies, d’autres s’y rendent de manière saisonnière en fonction du calendrier agricole. Les migrants, potentiels facteurs de développement économique Jeunes (31 ans en moyenne), les migrants africains, dont 47 % sont des femmes, sont autant de potentiels contributeurs au développement des pays de départ et d’installation. Dans ces bassins de migrations, les mobilités humaines contribuent au tissage de réseaux et à l’établissement de relations entre les territoires.

    En Côte d’Ivoire, par exemple, l’activité économique de la population immigrée contribue à 19 % du PIB. Les migrants représentent donc un facteur de développement économique pour le pays d’installation. En outre, ils soutiennent le développement de leur pays d’origine, notamment via leurs transferts de fonds, qui peuvent être des sources d’épargne, d’investissement productif ou de complément de revenus pour les ménages restés sur place. En 2017, la Côte d’Ivoire a ainsi reçu 307 millions de dollars de la part de sa diaspora, tandis que les immigrés sur son sol ont envoyé 845 millions de dollars vers leurs pays d’origine. Intégrer davantage les migrations intrarégionales dans les politiques de développement Facteur de développement, les migrations sont un enjeu à part entière pour les pays africains, autant que le changement climatique, le développement socio-économique et territorial, la gouvernance, l’urbanisation, l’accès aux services de santé et d’éducation, etc. L’approche par les bassins de migrations implique une analyse intersectorielle et multipays, et une prise en compte des mobilités intrarégionales. Au niveau opérationnel, il s’agit d’adopter une démarche décloisonnée et d’intégrer davantage les migrations dans les projets sectoriels. Des exemples d’une telle démarche existent déjà. En matière de santé, citons le projet Réseau de surveillance et d’investigation épidémiologique (RSIE), initié par la Commission de l’océan Indien. Ce réseau regroupe les Comores, Madagascar, Maurice, la France au titre de la Réunion (y associant Mayotte) et les Seychelles. Financé par l’AFD, il permet une veille régionale et un système d’alerte aux épidémies dans les îles de l’ouest de l’océan Indien (Réseau Sega One Health), espace caractérisé par des migrations intrarégionales fortes. Basé sur le paradigme One Health qui associe la santé à un bien-être global partagé par les humains, les animaux et les écosystèmes, le projet RSIE illustre bien cet intérêt d’intégrer les mobilités humaines et animales intrarégionales à un projet sectoriel. C’est une logique qu’il s’agit désormais d’élargir à d’autres régions et domaines d’action. La migration est inhérente à la dynamique des sociétés et les populations continueront de migrer, comme elles l’ont toujours fait. La question, finalement, est de savoir dans quelles conditions.

    https://ideas4development.org/developpement-africain-bassins-de-migrations

    #migrations #asile #réfugiés #migrations_intra-africaines #visualisation #cartographie #chiffres #statistiques #migrations_subsahariennes #Afrique_du_Sud #Ouganda #Nigeria #Kenya #Ethiopie #capital_économique #capital_social #capital_culturel #préjugés #invasion #afflux #développement_économique #ressources_pédagogiques #remittances #diaspora

    signalé par @fil

  • Les migrations au service de la transformation structurelle

    Les images de milliers de jeunes Africains se noyant dans la Méditerranée, après avoir été poussés par la pauvreté et la guerre à quitter leur pays et avoir été attirés à l’étranger par l’espoir de trouver un emploi, ont nourri l’idée trompeuse que les migrations étaient plus un mal qu’un bien pour le continent africain. La dernière livraison de la publication phare de la #CNUCED.
    Le #développement_économique en Afrique s’attaque à ce préjugé et, par l’observation des faits, met en évidence des stratégies qui permettront de tirer parti des migrations africaines et d’atténuer leurs effets négatifs.

    En cette année 2018, la communauté internationale a l’occasion exceptionnelle de conclure le premier pacte mondial pour des migrations sûres, ordonnées et régulières. Le Rapport 2018 sur le développement économique en Afrique : « Les migrations au service de la transformation structurelle » est la contribution de la CNUCED à l’élaboration de cet accord intergouvernemental historique, en cours de négociation sous les auspices de l’Organisation des Nations Unies.

    Les migrations sont bénéfiques à la fois aux pays d’origine et aux pays de destination. Comme il ressort du rapport, elles peuvent jouer un rôle clef dans la transformation structurelle du continent africain. Bien gérées, elles sont aussi un bon moyen de faciliter la réalisation des objectifs de développement durable, en Afrique et dans le reste du monde.

    Par une mise en récit innovante et centrée sur l’être humain, le rapport de la CNUCED cherche à déterminer comment les migrants favorisent la transformation structurelle et recense les possibilités pour cette #main-d'œuvre excédentaire d’être absorbée par les différents secteurs économiques à l’échelle du continent. Les migrants africains comptent des personnes de tout niveau de qualification, qui quittent leur pays par des voies légales ou par d’autres moyens. Non seulement ils remédient au déficit de #compétences dans leurs pays de destination, mais aussi ils contribuent au #développement dans leurs pays d’origine.

    Grâce à leur parent migrant, les enfants restés au pays reçoivent souvent une meilleure #éducation que leurs camarades. Les liens créés par les migrants entre leur pays d’origine et leur pays de destination ont permis l’apparition de diasporas prospères. Ils ont aussi ouvert de nouvelles perspectives de #commerce et d’#investissement qui peuvent aider les pays de destination et les pays d’origine à diversifier leur économie et à s’orienter vers des activités productives à plus grande valeur ajoutée.

    Contrairement à ce que certains pensent, la plupart des flux migratoires africains sont circonscrits à l’intérieur du continent. Selon le présent rapport, ces #migrations_intra-africaines sont indispensables au renforcement de l’intégration de la région et du continent. Dans le même temps, les grands schémas des migrations extracontinentales confirment que les migrants concourent à la transformation structurelle des pays d’origine.

    Nous avons la conviction que le présent rapport propose des axes de réflexion nouveaux et innovants, pertinents à la fois pour l’élaboration de politiques à long terme et pour la conception de projets de coopération technique axés sur la demande et à plus court terme, et qu’il aidera les pouvoirs publics et les autres parties prenantes à décider en connaissance de cause des politiques migratoires à appliquer dans le cadre du processus africain d’intégration régionale.


    http://unctad.org/fr/pages/PublicationWebflyer.aspx?publicationid=2118
    #PIB #Afrique #économie #migrations_internes #rapport #migrations_intra-africaines #circulation #mobilité #croissance_économique #migrations_sud-sud #urbanisation #réfugiés #asile #migrations #travail #diaspora #remittances #statistiques #chiffres

    Quelques infographies intéressantes :

    Pour télécharger le rapport :
    http://unctad.org/fr/PublicationsLibrary/aldcafrica2018_fr.pdf

    signalé par @emouaten
    cc @reka @isskein

  • #Infographie : tout ce qu’il faut savoir sur les migrants intra-africains

    Alors que l’Europe s’alarme face à l’afflux de migrants – 2017 pourrait être l’une des années les plus meurtrières en Méditerranée pour les candidats à l’exil –, le phénomène touche aussi l’Afrique, où le nombre de personnes vivant hors de leur pays, qu’elles soient expatriées ou réfugiées, est l’un des plus importants au monde.

    –-> j’espère que les données sont un peu plus fiables que l’intro qui mélange « afflux » de migrants (arrgghh !) en Europe et taux de mortalité en Méditerranée...


    http://www.jeuneafrique.com/mag/455503/politique/infographie-quil-faut-savoir-migrants-intra-africains
    #visualisation #migrations #Afrique #migrations_intra-africaines
    cc @reka

    • Les #migrations_internes vont-elles recomposer l’Afrique ?

      En 2018, quelque 19 millions de personnes ont bougé à l’intérieur du continent, des mouvements aux grandes conséquences.

      Les Africains sont nettement plus nombreux à migrer, une tendance qui ne cesse de s’accélérer depuis le début des années 1990. Cette hausse est néanmoins plus liée à la forte croissance démographique, à la jeunesse de la population, qu’à une réelle augmentation. Une étude de l’International Migration Institut de l’université d’Oxford a même démontré que les mouvements avaient fortement baissé entre 1960 et 2000. Ils ont toutefois repris au cours des deux dernières décennies. Pour autant, ces migrations sont pour l’essentiel des mouvements internes au continent, et non à destination de l’Europe ou des États-Unis. Si les images des migrants clandestins traversant la Méditerranée marquent les esprits, ces dangereux voyages sont en réalité des exceptions. Selon une étude de Forum économique mondial, en 2017, 19 millions de personnes ont quitté leur pays pour un autre pays d’Afrique (contre seulement 16 millions en 2015) et 17 millions sont partis vers un autre continent, dans leur immense majorité de manière légale. Ils ont rejoint l’Europe pour 60 %, puis l’Asie, l’Amérique du Nord et enfin l’Océanie. Cependant, ces données sont contestées par l’Union africaine (UA), pour qui les mouvements intra-africains, bien plus difficiles à comptabiliser, seraient plus nombreux. Pour l’organisation, environ 20 % des migrants africains seulement quitteraient le continent. « S’il existe une crise de la migration, c’est une crise africaine » , souligne Peter Mudungwe, le conseiller sur les mouvements de population à l’UA. Les raisons de cette hausse des migrations sont nombreuses. Les études démontrent que ce sont avant tout des motivations économiques qui poussent les peuples sur les routes. Et les guerres. La moitié des dix plus grands camps de réfugiés au monde se trouvent ainsi en Afrique, notamment Dadaab au Kenya et ses 240 000 personnes. Le Cameroun accueille, par exemple, 280 000 réfugiés de Centrafrique, d’après le HCR, et plus de 100 000 venus du Nigeria.

      Où vont les migrants internes ?

      Au plus près de chez eux, de manière assez logique. Les migrants demeurent le plus souvent dans leur sous-région. Ainsi, les Ouest-Africains restent de préférence en Afrique de l’Ouest ; ceux de la Corne, dans la Corne ; l’Afrique australe en Afrique australe, etc. Ces trois régions représentent d’ailleurs les zones les plus en mouvement. La seule exception est l’Afrique du Nord. Les habitants des pays du Maghreb, tournés vers une culture méditerranéenne, partent en grande majorité hors du continent. Une tendance qui s’est accentuée depuis la plongée dans la guerre civile de la Libye, qui fut le pôle d’attraction régionale. Chaque région dispose en effet d’un tel pôle. En Afrique de l’Ouest, la Côte d’Ivoire, économie la plus dynamique de la région, attire massivement les migrants. Désormais, le pays compte au moins 10 % d’étrangers, soit plus de 2 millions de personnes. Les raisons pour lesquelles les migrations sont dans cette région clairement plus importantes qu’ailleurs tiennent à plusieurs facteurs. Une tradition de migrations, notamment au Mali ou au Burkina Faso, un passé colonial commun sous domination française, des liens ethniques qui passent par-delà les frontières et, surtout, la quasi libre circulation des personnes au sein de la Communauté économique des États d’Afrique de l’Ouest (Cédéao). À l’autre bout du continent, c’est l’Afrique du Sud, première économie d’Afrique, qui sert de réceptacle pour les habitants de la région (Mozambique, Zimbabwe), mais aussi de l’Afrique centrale. Elle compterait 7 % d’étrangers, un chiffre sans doute très sous-estimé, car de nombreux clandestins y vivent. À l’est, le Kenya et l’Éthiopie accueillent des personnes de la région et, dans une moindre mesure, Djibouti.

      Qui sont ces migrants, pourquoi partent-ils ?

      Que ce soit en Afrique ou hors d’Afrique, le profil des migrants est le même. Et comme souvent sur les questions de migrations, les idées reçues sont fausses. En dehors des cas de guerre, la pauvreté et la misère, que l’on imagine souvent comme des causes majeures, ne sont en réalité que secondaires. Les pauvres sont précisément trop pauvres pour tenter l’aventure. Il s’agit d’abord des jeunes issus des petites classes moyennes urbaines. Des hommes essentiellement, pour les migrations intra-africaines. Une étude du Sahel Research Group de l’université de Floride montre que ces mouvements sont assez contraints, même si on note de fortes disparités. Ainsi, au Niger, l’un des pays les plus pauvres du monde et très rural, 89 % des habitants disent souhaiter rester chez eux, tandis qu’au Nigeria, pays doté de perspectives économiques plus sereines, 50 % avouent rêver de départ, une proportion qui monte à 82 % dans la capitale économique, Lagos. Les raisons invoquées pour partir sont néanmoins et sans surprises économiques. La recherche d’un travail mieux payé est avancée par près de 50 % des migrants, tandis qu’un tiers assurent vouloir avant tout aider leur famille.

      Ces mouvements ont-ils des conséquences politiques ?

      Si ce sujet est rarement abordé, l’impact des migrations dans certains pays est tout de même évident. Comme en Europe, l’arrivée de travailleurs étrangers est parfois vue par les populations locales comme une menace, et cette peur est politiquement utilisée. Les deux pays à plus forte population étrangère, l’Afrique du Sud et la Côte d’Ivoire, illustrent ce phénomène. Ainsi, le week-end dernier, la province de Gauteng, qui comprend Johannesburg et la capitale Pretoria, a été le théâtre d’émeutes xénophobes, visant plus spécifiquement les Zimbabwéens et surtout les Nigérians, victimes régulières de clichés péjoratifs. En deux jours de troubles, des centaines de commerces ont été pillés et au moins dix personnes ont trouvé la mort. Ce cycle de violence n’est pas surprenant. Les tensions avec les étrangers, excitées par des disparités économiques immenses et un taux de chômage à 29 %, sont régulières. Cependant, pour la première fois, ce cycle de violences a entraîné des protestations officielles de la part du Nigeria. En Côte d’Ivoire, le clivage entre « autochtones » et « halogènes » , pour reprendre la terminologie locale, est ancien. Dans les années 1990, le président Henri Konan Bédié prône le concept d’ « ivoirité » pour contrer l’influence de son rival Alassane Ouattara, accusé à tort d’être Burkinabé. Ce nationalisme va perdurer sous la présidence de Laurent Gbagbo et conduire à huit années de guerre civile. Aujourd’hui, les rivalités sont contenues, mais toujours bien présentes, au point de menacer la stabilité du pays. Des frictions traversent aussi le Kenya à l’encontre de la grande communauté somalienne. Parfois, la présence d’ « étrangers » , même en petit nombre, peut nourrir de sérieuses haines. En Centrafrique, la crise à Bangui est en partie née du ressentiment des habitants vis-à-vis des commerçants, accusés d’être « tchadiens » .

      Les frontières coloniales seront-elles remises en question ?

      La question des frontières est régulièrement évoquée, mais jamais de manière très sérieuse. Leur tracé, imposé en grande partie par les puissances coloniales lors de la conférence de Berlin en 1885, est certes critiquable. Mais, à peine les indépendances acquises, les nouveaux États décidaient de graver dans le marbre ces limites irrationnelles lors d’une autre conférence, cette fois au Caire, en 1964. Cette décision a globalement tenu, à l’exception des sécessions de l’Érythrée en 1993 et du Soudan du Sud en 2012. Mais cette intangibilité a également conduit à des tensions entre États et surtout à éparpiller des peuples ou des ethnies entre plusieurs pays. Ils seraient 177 dans ce cas. Ces groupes transfrontaliers entraînent des migrations de masse et de dangereuses jalousies. Pour les apaiser, les pays africains ont le plus souvent choisi d’abaisser les contrôles aux frontières. En Afrique de l’Ouest, ils existent peu. Le Kenya et l’Ouganda ont eux aussi assoupli leur politique migratoire avec leur voisin. L’Union africaine encourage de son côté la libre circulation, qu’elle rêve totale, pour bloquer les frictions nées des mouvements de populations. Reste à savoir si cela suffira alors que tous les analystes prévoient que les migrations africaines, et donc avant tout celles qui se passeront au sein de l’Afrique, vont considérablement croître dans les années à venir.

      http://www.lefigaro.fr/international/les-migrations-internes-vont-elles-recomposer-l-afrique-20190908
      Article illustré par cette #carte, déjà sur seenthis :

      NB : le Figaro n’alimente pas dans cet article le préjugé de l’invasion... Une fois n’est pas coutume, mais c’est bien de le souligner...

  • African migration : is the continent really on the move ?*
    –-> La migration africaine : s’agit-il vraiment d’un « continent en
    mouvement » ?*

    African migration is often perceived as massive and increasing, mainly directed toward Europe, and driven by poverty and violence (Lessault and Beauchemin 2009). However, these assumptions are not based on empirical evidence. We now have a much better ability to assess the volume and geographical orientation of African emigration, thanks to the Global Bilateral Migration Database (GBMD) on the presence of emigrants abroad (migration stocks; World Bank and University of Sussex ).¹ African migration is first and foremost intra-continental. In 2000, 75 percent of all African migrants lived in another African country, while 16 percent were in Europe, 5 percent in America, 4 percent in Oceania and 0.3 per cent in Asia. In fact, African extra-continental emigrant rates seem to be the lowest of all world regions.

    http://www.niussp.org/article/639
    #Afrique #migrations #statistiques #chiffres #émigration #cartographie #visualisation #migrations_intra-africaines #circulation #mobilité
    cc @reka

  • Does Development Reduce Migration ?

    The most basic economic theory suggests that rising incomes in developing countries will deter emigration from those countries, an idea that captivates policymakers in international aid and trade diplomacy. A lengthy literature and recent data suggest something quite different: that over the course of a “mobility transition”, emigration generally rises with economic development until countries reach upper-middle income, and only thereafter falls. This note quantifies the shape of the mobility transition in every decade since 1960. It then briefly surveys 45 years of research, which has yielded six classes of theory to explain the mobility transition and numerous tests of its existence and characteristics in both macro- and micro-level data. The note concludes by suggesting five questions that require further study.


    http://www.iza.org/en/webcontent/publications/papers/viewAbstract?dp_id=8592

    #développement #migrations #émigration #statistiques
    cc @reka @isskein

    • Can Development Assistance Deter Emigration ?

      As waves of migrants have crossed the Mediterranean and the US Southwest border, development agencies have received a de facto mandate: to deter migration from poor countries. The European Union, for example, has pledged €3 billion in development assistance to address the “root causes” of migration from Africa. The United States has made deterring migration a centerpiece of its development assistance to Central America.

      Will it work? Here we review the evidence on whether foreign aid has been directed toward these “root causes” in the past, whether it has deterred migration from poor countries, and whether it can do so. Development aid can only deter migration if it causes specific large changes in the countries migrants come from, and those changes must cause fewer people to move.

      Key findings:

      Economic development in low-income countries typically raises migration. Evidence suggests that greater youth employment may deter migration in the short term for countries that remain poor. But such deterrence is overwhelmed when sustained overall development shapes income, education, aspirations, and demographic structure in ways that encourage emigration.

      This will continue for generations. Emigration tends to slow and then fall as countries develop past middle-income. But most of today’s low-income countries will not approach that point for several decades at any plausible rate of growth.

      Aid has an important role in positively shaping migration flows. Realizing that potential requires massive innovation. Because successful development goes hand in hand with greater migration, aid agencies seeking to affect migration must move beyond deterrence. They must invest in new tools to change the terms on which migration happens.


      https://www.cgdev.org/publication/can-development-assistance-deter-emigration

    • Quel lien entre migrations internationales et développement ?

      Le développement, la lutte contre la pauvreté, des freins migratoires ? Sans doute pas. Aux politiques d’être vigilants et d’assumer une réalité qui échappe malgré tout à la force des logiques économiques, à l’efficacité des contrôles frontaliers. Le Nord attire, il a besoin de main-d’œuvre. Comment concilier ses intérêts avec ceux du Sud, avec les droits de l’homme des migrants ?

      http://www.revue-projet.com/articles/2002-4-quel-lien-entre-migrations-internationales-et-developpement

    • #Root_Causes’ Development Aid: The False Panacea for Lower Migration

      Migration is a positive side effect of development, and aid should not be spent in pursuit of keeping people where they are. Development economist #Michael_Clemens sorts the evidence from the politics in conversation with Refugees Deeply.

      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/02/23/root-causes-development-aid-the-false-panacea-for-lower-migration
      #aide_du_développement

    • #Aiutiamoli_a_casa_loro”: è una strategia efficace?

      Ricerche recenti hanno dimostrato che c’è una relazione tra il livello di sviluppo economico di un paese e il suo tasso di emigrazione netta. Ma non sempre questa relazione va a sostegno di chi pensa che per arginare i flussi migratori basti aiutare i paesi più poveri a svilupparsi. Gli esperti parlano infatti di “gobba migratoria”: man mano che il PIL pro capite di un paese povero aumenta, il tasso di emigrazione dei suoi abitanti cresce, toccando un massimo nel momento in cui il paese raggiunge un reddito medio pro capite di circa 5.000 dollari annui (a parità di potere d’acquisto - PPA). Solo una volta superato quel livello di reddito, il tasso di emigrazione torna a scendere.

      Nel 2016 i paesi dell’Africa subsahariana avevano un reddito pro capite medio inferiore a 3.500 dollari annui PPA e, nonostante quest’ultimo sia cresciuto del 38% tra il 2003 e il 2014, negli ultimi anni questa crescita si è interrotta e rischia addirittura di invertirsi. I paesi dell’Africa subsahariana si trovano quindi ancora a un livello di sviluppo economico coerente con un tasso di emigrazione in crescita, ed è difficile immaginare che riusciranno a raggiungere (e superare) la “gobba” dei 5.000 dollari pro capite PPA nel futuro più prossimo.

      È tuttavia vero che, se si sviluppano insieme tutti i paesi africani, ciò potrebbe favorire una ripresa delle migrazioni intra-regionali, ovvero da paesi dell’Africa subsahariana verso altri paesi dell’area. Sarebbe un’inversione di tendenza rispetto a quanto verificatosi negli ultimi 25 anni, un periodo in cui le migrazioni extra-regionali (quindi verso Europa, Golfo, America del Nord, ecc.) sono quadruplicate.

      Infine va sottolineato che per “aiutarli a casa loro” attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415

      Dans cet article, on cite cette étude de Michael A. Clemens:
      Does Development Reduce Migration?
      http://ftp.iza.org/dp8592.pdf

    • Povertà, migrazioni, sviluppo: un nesso problematico

      È proprio vero che sono i più poveri a migrare? E cosa succede se prevale la visione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo come antidoto all’immigrazione? Il professor Maurizio Ambrosini mette a confronto la retorica dell’”aiutiamoli a casa loro” con i fatti.

      Uno dei luoghi comuni più inossidabili nel dibattito sulle migrazioni riguarda il rapporto tra immigrazione e povertà. Convergono sul punto sia i sostenitori della retorica dell’emergenza (“la povertà dell’Africa si riversa sulle nostre coste”), sia i paladini dell’accoglienza (“siamo responsabili della povertà del Terzo Mondo e dobbiamo farcene carico”). Il corollario più logico di questa visione patologica delle migrazioni è inevitabilmente lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”. Mi propongo di porre a confronto questa visione con una serie di dati, al fine di valutare la pertinenza dell’idea dell’aiuto allo sviluppo come alternativa all’immigrazione.
      Non la povertà, ma le disuguaglianze

      Come vedremo, la povertà in termini assoluti non ha un rapporto stretto con le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze. È vero invece che le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa. Questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.

      L’enfasi sulla povertà come molla scatenante delle migrazioni si scontra invece con un primo dato: nel complesso i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: secondo i dati più recenti contenuti nel Dossier statistico Idos 2017, intorno ai 247 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani, pari al 3,3 per cento. Se i numeri sono cresciuti (erano 175 milioni nel 2000), la percentuale rimane invece stabile da parecchi anni, essendo cresciuta anche la popolazione mondiale.

      Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87 per cento nel caso della mobilità dell’Africa sub-sahariana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. Per di più, dall’interno dell’Africa partono soprattutto persone istruite.

      Ne consegue un secondo importante assunto: la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. I migranti, come regola generale, non provengono dai paesi più poveri del mondo. La connessione diretta tra povertà e migrazioni non ha basi statistiche. Certo, i migranti partono soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Questo miglioramento però è appunto comparativo, e ha come base uno zoccolo di risorse di vario tipo.
      Chi è poverissimo non riesce a partire

      Le migrazioni sono processi intrinsecamente selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani di cui spesso non si conosce neanche la lingua, e di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Pertanto la popolazione in Africa potrà anche aumentare ma, senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non si vede come possa arrivare fino alle nostre coste.

      Se invece di fissare lo sguardo sugli sbarchi guardiamo ai dati sulle nazionalità degli immigrati che risiedono in Italia, ci accorgiamo che i grandi numeri non provengono dai paesi più derelitti dell’Africa. L’immigrazione insediata in Italia è prevalentemente europea, femminile, proveniente da paesi di tradizione culturale cristiana. La graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’Onu: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. Su scala globale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico, in Svizzera sono europei per oltre l’80 per cento, in Germania in due casi su tre.

      Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Raramente troviamo immigrati provenienti da molto lontano (cinesi, filippini, latino-americani…) nei dormitori per i senza dimora, nelle mense dei poveri, precariamente accampati sotto i portici, o anche in carcere. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.
      Mostra «La Terra Inquieta», Triennale di Milano, 2017 (foto: Marina Petrillo)

      La cattiva gestione dell’asilo ha in parte incrinato questa logica: i rischi sono tali che a volte arriva anche chi non ha niente da perdere e ha l’incoscienza di provare a partire. Se viene riconosciuto come rifugiato, in Italia il più delle volte viene lasciato in mezzo alla strada. Incontra severe difficoltà anche nello spostarsi verso altri paesi europei, come avveniva più agevolmente nel passato. In modo particolare, i beneficiari dell’Emergenza Nord Africa dell’ultimo governo Berlusconi sono stati gestiti con un approccio emergenziale che non ha favorito la loro integrazione socio-economica. Ma pur tenendo conto di questa variabile, la logica complessiva non cambia: le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze non sono un effetto della povertà, ma dell’accesso ad alcune risorse decisive.
      A proposito dei “migranti ambientali”

      Una valutazione analoga riguarda un altro tema oggi dibattuto, quello dei cosiddetti “rifugiati ambientali”. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. È una spiegazione affascinante della mobilità umana, e anche politicamente spendibile. Ora, è senz’altro vero che nel mondo si moltiplicano i problemi ambientali, direttamente indotti come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocati da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque.

      Tuttavia, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. Anzitutto, le migrazioni difficilmente hanno un’unica causa: i danni ambientali semmai aggravano altri fattori di fragilità, tanto che hanno un impatto diverso su gruppi diversi di popolazione che abitano negli stessi territori. Entrano in relazione con altri fattori, come per esempio l’insediamento in altri territori di parenti che si spera possano fornire una base di appoggio. È più probabile poi che eventualmente i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa, sempre per la ragione prima considerata: dove trovano le risorse per affrontare viaggi così lunghi e necessariamente costosi? Va inoltre ricordato che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50 per cento dell’occupazione complessiva. Neppure la Cina ci riesce, pur avendo trattato a lungo i contadini inurbati senza permesso alla stessa stregua degli immigrati stranieri considerati illegali nei nostri paesi, tanto che ha dovuto negli ultimi anni ammorbidire la sua politica in materia.
      Gli aiuti allo sviluppo non risolvono la questione

      Questa analisi ha inevitabili ripercussioni sull’idea della promozione dello sviluppo come alternativa all’emigrazione. Ossia l’idea sintetizzabile nel noto slogan “aiutiamoli a casa loro”.

      Si tratta di un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica, ma in realtà fallace. Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma abbiamo visto che questo è meno vero di quanto si pensi. Se gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi, i soggetti istruiti anziché i meno alfabetizzati, le classi medie anziché quelle più povere.

      In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che in una prima, non breve fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare. Cresce anzitutto il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere inoltre aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze, soprattutto agli inizi. Possiamo dire che lo sviluppo si lega ad altri fattori di cambiamento sociale, mette in movimento le società, semina speranze e sogni che spingono altre persone a partire. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che regioni e paesi in precedenza luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano meno sviluppati.

      Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita alla primazia di quelli in entrata. In tutti i casi fin qui conosciuti sono occorsi decenni di sviluppo prima di osservare un calo significativo dell’emigrazione.
      Le rimesse degli emigranti

      L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta.

      A livello macro, vari paesi hanno le rimesse come prima voce attiva negli scambi con l’estero, e 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10 per cento. A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi che pure non mancano. Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia. Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare tuttavia che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono. Il sostegno allo sviluppo dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, ma un simile effetto nel breve periodo è praticamente impossibile.

      Dunque le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari. Ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano oggi finanziare i governi dei paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro conto.

      Da ultimo, il presunto buon senso dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti. Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da scongiurare le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, più arretrati di quelli che attualmente ce le forniscono.

      Concludendo, il nesso diretto tra migrazioni, povertà e sviluppo è una delle tante semplificazioni di un dibattito che prescinde dai dati, si basa sulle percezioni e rifugge dalla fatica dell’approfondimento dei fenomeni.

      http://openmigration.org/analisi/poverta-migrazioni-sviluppo-un-nesso-problematico

    • #Codéveloppement : un marché de dupes

      Née du souci d’un partage équitable des richesses et d’une volonté de coopération entre la France et les pays d’émigration, la notion de codéveloppement a été rapidement dévoyée. Au lieu de considérer que migrations et développement sont deux phénomènes complémentaires, les unes apportant à l’autre l’aide la plus conséquente et la plus efficace, on assiste aujourd’hui, derrière un discours d’un cynisme affiché prétendant mener une politique qui répond aux intérêts de tous, à un contrôle accru et une diminution des migrations. À l’inverse des incantations officielles, cette politique ne bénéficie ni aux migrants, ni aux pays de destination, ni aux pays d’origine.


      https://www.gisti.org/spip.php?article1799

    • Immigration : l’échec de la méthode Sami Nair. Le « codéveloppement » du chevènementiste ne démarre pas.

      Les uns parlent de fiasco, rigolent en douce : « C’était couru

      d’avance. » Les autres maintiennent que l’idée est révolutionnaire. Au Quai d’Orsay, certains assurent que le codéveloppement est enterré. A Matignon, d’autres affirment que l’aventure ne fait que commencer. Ces divergences, même radicales, seraient banales s’il ne s’agissait pas d’une approche totalement différente de la gestion des flux migratoires. Mais, un an après le lancement de la délégation interministérielle au codéveloppement, le démarrage est poussif : aucune convention n’a encore été signée avec les trois pays concernés (Maroc, Mali, Sénégal), et le contrat de réinsertion dans le pays d’origine (CRPO), proposé aux immigrés, n’a attiré que 27 personnes. « Normal, c’est un projet à long terme », assure-t-on à l’Office des migrations internationales (OMI, rattaché au ministère de l’Emploi et de la Solidarité). Il n’empêche, les chiffres sont rudes : Sami Naïr, père du concept, ancien délégué au codéveloppement et nouveau député européen (MDC), tablait sur des milliers de demandes. « Le codéveloppement, ça marche », persiste-t-il. Ces résultats décevants, voire piteux, signent-ils la mort du projet ?

      Marotte. Au départ, il y a cette idée, séduisante comme une évidence : transformer les émigrés en acteurs mobiles du développement de leur pays. En pratique, il s’agit de proposer, sur place, des conditions suffisamment attrayantes pour garder et/ou faire revenir les immigrés. Et, in fine, de substituer des flux transitoires aux flux permanents d’immigration irrégulière.

      Le codéveloppement a toujours été la marotte de Sami Naïr. Universitaire, très proche de Chevènement, rencontré dans sa jeunesse belfortaine, Naïr séduit les uns, excède les autres. « C’est un faux-jeton », assurent ces derniers, l’accusant d’avoir troqué ses convictions et son passé de pourfendeur des lois Pasqua (1) contre un bureau de conseiller place Beauvau. D’autres vantent son enthousiasme, sa vision de l’immigration et des rapports Nord-Sud. « On croirait qu’il va déplacer des montagnes », expliquent ses adversaires pour justifier son influence.

      Signe du climat passionnel qui règne autour de Jean-Pierre Chevènement, les détracteurs et même les partisans préfèrent garder l’anonymat. Mais tous, ou presque, reconnaissent sa compétence en matière de flux migratoires. « Je ne crois pas à une Europe-forteresse, mais à une Europe forte, qui intègre et dynamise les flux migratoires », dit-il malgré son appartenance au MDC, qui n’en fait pas un européen convaincu.

      Jospin séduit. Fin 1997, Sami Naïr remet à Jospin son rapport sur le codéveloppement. « La France ne peut plus, dans le contexte actuel, accueillir de nouveaux flux migratoires. Le codéveloppement n’a pas pour but de favoriser le retour des immigrés chez eux s’ils n’en ont pas la volonté », mais de « favoriser la solidarité active avec les pays d’origine », lit-on dans ce rapport. Jospin est très séduit, comme Martine Aubry, ainsi, bien sûr, que Chevènement. Le ministère de la Coopération n’y croit pas, des spécialistes dénoncent « une vieille idée des années 50 » et jugent impossible de renvoyer des gens contre leur gré. « La coopération avec les pays du Sud est un acte de solidarité, la gestion des entrées sur le territoire relève de la police. On ne peut associer les deux », estime le président du groupe de travail Migrations-développement, structure de réflexion qui regroupe des représentants de l’Etat et des ONG.

      Habiller les restrictions. Mais le contexte politique sert Naïr. Alors que s’achève l’opération de régularisation des sans-papiers, qui laisse 60 000 irréguliers sur le carreau, le conseiller de Chevènement devient le premier délégué interministériel au codéveloppement et aux flux migratoires. « Il fallait que Chevènement habille sa politique restrictionniste, explique aujourd’hui un anti-Naïr de la première heure. Si Chevènement avait mis pour les sans-papiers 10% de l’énergie consacrée au projet de Sami Naïr, on n’en serait pas là. C’est les avions renifleurs de l’immigration. » Le jugement est sévère. Car la délégation, finalement installée boulevard Diderot à Paris dans un local appartenant aux Finances, est bien modeste et n’a quasiment aucun fonds propre.

      Le Quai accusé. Les négociations des décrets sont agitées. « C’était un dossier très chaud. La Coopération n’a pas voulu jouer le jeu. Ils n’étaient pas contents qu’on leur enlève des budgets », se souvient-on à Matignon où on loue, sans réserve, le « travail remarquable de Sami, compte tenu des difficultés ». « Faux. On était demandeurs », se défend un haut fonctionnaire du Quai d’Orsay, auquel le ministère de la Coopération est rattaché. En fait, les adversaires du projet sont divisés. Aux Affaires sociales, le cabinet refuse qu’on dépense de l’argent pour former des immigrés en situation irrégulière. « Je me suis battu comme un chien, et Martine Aubry m’a soutenu », rétorque Sami Naïr. A la Coopération et aux Affaires étrangères, on juge le projet trop imprégné du fantasme de l’immigration zéro cher à Pasqua, qui avait déjà tenté ­ sans suite ­ une politique de codéveloppement : « Ça marche si le type n’est pas encore parti. Parce qu’une fois qu’il a goûté à l’Occident, même dans une banlieue pauvre, il connaît vraiment la différence, et il faut payer très cher pour qu’il reparte. »

      « Politique réac ». L’échec du contrat de réinsertion dans le pays d’origine affecte moins Sami Naïr que les commentaires désobligeants qui l’accompagnent. « Le CRPO n’est qu’un petit dossier de la politique de codéveloppement et il n’a pas été pris en charge », explique-t-il, visant l’OMI, pourtant riche des 1 300 francs ponctionnés à chacun des 70 000 régularisés de la circulaire Chevènement (visite médicale plus « taxe de chancellerie »).

      Les détracteurs du codéveloppement ne désarment pas quand on en vient au principal volet, nettement plus complexe : les conventions proposées au Maroc, au Mali et au Sénégal, prévoyant des investissements français en échange d’une limitation des flux migratoires. Le Maroc refuse de signer la convention. Le Mali et le Sénégal, d’abord réticents, ont été convaincus par les arguments de Naïr, et les accords devraient être signés à la rentrée. « La gaugauche s’est fait avoir. C’est une politique très réac enrobée de tiers-mondisme. Le colonialisme et les quotas, c’est fini, on ne dispose plus des gens contre leur gré », s’énerve un spécialiste, pourtant proche de Chevènement, qui s’appuie sur vingt ans d’échecs répétés de tous les systèmes d’aide au retour des immigrés. Ailleurs, on reconnaît que ce genre de politique se juge sur le long terme. Encore faut-il y mettre des moyens et une volonté politique. Et si, effectivement, le codéveloppement a été seulement perçu comme un habillage de la politique d’immigration, il est très probable qu’on en restera là.

      (1) Sami Naïr est l’auteur de Contre les lois Pasqua (1997).

      http://www.liberation.fr/societe/1999/07/08/immigration-l-echec-de-la-methode-sami-nair-le-codeveloppement-du-chevene

    • Codéveloppement et flux migratoires

      Je crois que le mieux pour comprendre ce que j’ai essayé de faire en matière de codéveloppement lié aux flux migratoires à la fin des années 90, c’est encore de résumer, brièvement, comment cette idée de codéveloppement a été élaborée et pourquoi elle reste d’actualité. On pardonnera une implication plus personnelle du propos, mais il se trouve que grâce à Jean-Pierre Chevènement, ministre de l’Intérieur à partir de juin 1997, j’ai été associé à la politique gouvernementale en matière d’immigration.

      https://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=MIGRA_117_0071

    • Je transcris ici les propos de Murat Julian Alder, avocat, député au Grand Conseil genevois, prononcés lors d’un débat à Infrarouge (autour de la minute 53) :

      « Il est temps qu’on pose la question sur la table avec les pays d’émigration. Au PLR on a la conviction qu’on est en droit, en tant qu’Etat qui malheureusement subit une partie de cette migration, d’exiger une contre-partie des pays à qui nous versons chaque année des centaines de millions de francs au titre de l’#aide_au_développement. Lorsqu’on est au pouvoir dans un pays, on en défend ses intérêts. Et la défense des intérêts de notre pays implique que nos gouvernants explique aux pays d’émigration que cette aide au développement est à bien plaire, mais qu’on peut faire davantage pour autant qu’il y ait une contrepartie. Et cette contrepartie c’est la conclusion d’#accords_de_réadmission, c’est aussi une aide davantage ciblée sur place dans les pays d’émigration au lieu de la politique de l’arrosoir que nous connaissons actuellement »

      #accords_bilatéraux