Croatie : le président #Zoran_Milanović appelle à la haine contre les migrants
21 mars - 7h50 : Le président Zoran Milanović, officiellement non candidat aux élections législatives du 17 avril, mais qui mène, de fait, la campagne du Parti social-démocrate (SDP), accélère sa transformation en « Trump croate ». Il a publié trois posts sur Facebook, évoquant respectivement la guerre en Ukraine, les fonds européens et la crise des migrants.
A ce sujet, il écrit : « La Croatie est confrontée au problème de la migration. Mais aujourd’hui, il ne s’agit plus des migrants comme en 2015, lorsque nous avions une approche humaine et ouverte, mais aussi calculée de ce problème, lorsque moi-même, en tant que Premier ministre, cherchais comment aider ces gens. Aujourd’hui, tout est différent parce que les migrants arrivent ici avec une stratégie et veulent seulement bénéficier de l’aide sociale. Certes, ceux qui fuient les persécutions, la guerre ou le génocide doivent être protégés, mais les migrants d’aujourd’hui ne fuient pas pour cela. Ces personnes sont ici illégalement et doivent être traitées comme telles. Continuons à être honnêtes et sympathiques à leur égard, mais ne soyons pas idiots. La frontière croate est sacrée, des gens sont morts pour elle pendant la guerre, des gens se sont soulevés pour résister, des brigades ont été formées - pour que l’on sache ce qui nous appartenait. Aidons ceux qui en ont besoin, mais protégeons avant tout le peuple croate ! »
#anti-migrants #anti-réfugiés #appel_à_la_haine #Croatie #racisme #xénophobie #migrations #réfugiés #Milanović #Milanovic
]]>A Milano più #smog in periferia che in centro, tassi di decesso doppi
La concentrazione di inquinamento è maggiore in confronto al passato in periferia rispetto al centro e questo sta comportando anche un aumento considerevole dei decessi tra i residenti, visto che i quartieri limitrofi a quelli centrali sono in media anche quelli più popolati soprattutto tra gli over 65.
I tassi di decesso nelle aree periferiche sono in particolare raddoppiati, con Milano caso esemplare dei grandi centri urbani italiani dove in media sono più alti fino al 60% nei quartieri lontani dal centro con meno verde, ad alta densità di traffico di traffico e di abitanti over 65.
A determinare questa nuova tendenza sono il mix smog-condizioni socio-economiche più sfavorevoli, che inducono stili di vita peggiori come fumo, obesità e minore attività fisica con effetto moltiplicativo della mortalità, rispetto alle aree più centrali delle città. Questa l’allerta lanciata dai circa 200 scienziati da tutto il mondo, riuniti a Milano nella conferenza ’RespiraMi: Recent Advances on Air Pollution and Health 2024’, co-organizzata dalla Fondazione Menarini in collaborazione con Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, e dall’Imperial College di Londra. E gli esperti studiano il modello londinese. La capitale britannica ha deciso di estendere il divieto di circolazione dei veicoli più inquinanti a tutta l’area metropolitana (suscitando non poche polemiche).
L’allerta arriva a pochi giorni dal varo della nuova direttiva europea sulla qualità dell’aria e alla luce dei dati di una indagine condotta dall’Agenzia per la tutela della salute di Milano (Ats-Mi) recentemente pubblicata sulla rivista Epidemiologia&Prevenzione, la rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia. La ricerca dimostra che nei quartieri di periferia dove passano le tangenziali, con meno verde e più densamente abitate, con molti cittadini over 65, il tasso di decessi attribuibile a biossido di azoto e polveri sottili può aumentare molto rispetto a quello registrato nelle aree limitrofe al centro, meno urbanizzate o più ricche di verde e nei quartieri centrali dove il traffico è solitamente soggetto a limitazioni.
Con una popolazione di quasi 1,4 milioni di abitanti, ricorda la ricerca, Milano è la seconda città metropolitana d’Italia, storicamente afflitta dal problema dello smog sia per le numerose fonti di emissione che la accomunano alla Pianura Padana (industriali, residenziali, da traffico e da allevamenti intensivi) che, aggiunte al ristagno dell’alta pressione e alle particolari condizioni orografiche, non favoriscono la dispersione degli inquinanti atmosferici. Per valutare gli effetti sanitari a lungo termine sulla popolazione, l’Agenzia per la Tutela della Salute di Milano (Ats-Mi) ha condotto uno studio con cui ha stimato i livelli di concentrazione media degli inquinanti (No2, Pm10 e Pm2.5) per il 2019 con una risoluzione spaziale senza precedenti, pari a 25 metri quadrati. I dati sono stati poi incrociati con le informazioni sanitarie e anagrafiche. «I risultati - dichiara Sergio Harari, co-presidente del congresso, della Divisione di Malattie dell’Apparato Respiratorio e Divisione di Medicina Interna dell’Ospedale San Giuseppe MultiMedica IRCSS e dell’Università di Milano - permettono di definire una vera e propria mappa dell’inquinamento e dei suoi effetti, quartiere per quartiere e rivelano, per la prima volta, che biossido di azoto e polveri sottili hanno tassi di decesso per 100.000 abitanti che possono arrivare fino al 60% in più in alcune zone della periferia milanese rispetto al centro città». Tra i vari inquinanti l’impatto maggiore nel capoluogo lombardo lo ha avuto «il Pm2,5, responsabile del 13% delle morti per cause naturali (160 su 100mila abitanti) e del 18% dei decessi per tumore al polmone - ha spiegato Pier Mannuccio Mannucci, della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico -. Per quanto riguarda Le conseguenze più pesanti si hanno in zone periferiche come Mecenate, Lorenteggio e Bande Nere dove i tassi di decesso superano i 200 per 100mila abitanti, mentre in pieno centro i tassi si assestano attorno a 130». A ’salvare’ le zone centrali, secondo la ricerca, sono le zone a traffico limitato (Ztl) che giocano un ruolo molto importante nel ridurre inquinanti ed effetti deleteri sulla salute.
▻https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2024/03/01/piu-smog-in-periferia-che-in-centro-tassi-di-decesso-doppi_88aa7f71-0797-48cc-9
#pollution #pollution_de_l'air #air #Milan #Italie #rapport #étude #santé #centre-ville #périphérie #mortalité
pyrites abunda in oculis stultorum
▻https://resistenzeincirenaica.com/2024/02/20/pyrites-abunda-in-oculis-stultorum
Riprende l’operazione pirite a Milano. Strada per strada, zona per zona, le “medaglie d’oro” non smettono di saltare all’occhio per il loro arrogante luccichìo. Non sono patrioti, definizione per lo più legata al periodo risorgimentale; non sono partigiani, per quel poco che Milano ha celebrato nella toponomastica, nascosti ogni tanto dalle professioni che hanno svolto... Continua a leggere
#La_Federazione
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Presentazione pubblica della mappa sull’odonomastica coloniale di Milano
La ricerca storico archivistica commissionata dall’Area Museo delle Culture, Progetti Interculturali e Arte nello Spazio Pubblico e condotta dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri si è focalizzata sulle denominazioni e le intitolazioni con riferimenti alle campagne coloniali, di alcune strade e piazze della città: attraverso lo studio delle delibere del Consiglio comunale di Milano e delle delibere di Giunta è stato possibile ricostruire il periodo storico in cui queste sono state denominate dall’amministrazione cittadina. Con questa ricerca sono state individuate circa centocinquanta strade e piazze intitolate a militari, esploratori, battaglie, città e altre località o persone connesse alla storia coloniale italiana. L’elenco comprende anche quegli istituti culturali e monumenti che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito sul colonialismo italiano.
La mappa che viene presentata è quindi uno strumento utile per avere una maggiore consapevolezza della storia coloniale italiana e sulla sua ricaduta sul tessuto urbano. Il lavoro svolto viene inquadrato all’interno di un panorama più ampio di riflessione sulle memorie coloniali. Il Mudec ha riattivato il dialogo con alcune personalità delle comunità Habesha presenti a Milano, già coinvolta nel progetto di museologia partecipata intrapreso per l’allestimento della sezione dedicata al colonialismo italiano all’interno di Milano Globale. Il mondo visto da qui, percorso permanente del museo. Nell’ottica di un processo di rilettura della nostra storia coloniale e di risignificazione del patrimonio ma anche dei luoghi della città marcati dalla presenza di odonimi coloniali, il Mudec ha aperto un confronto che si desidera costante e permanente sulle tematiche del colonialismo con cittadine e cittadini anche con origini diasporiche. Il lavoro realizzato fino ad oggi viene presentato a Palazzo Marino in una settimana fortemente simbolica che vuole ricordare Yekatit 12 (12 febbraio secondo il calendario etiopico, equivalente al 19 febbraio nel calendario gregoriano) data della strage di Addis Abeba del 19 febbraio 1937 a opera dell’esercito italiano.
▻https://www.reteparri.it/eventi/pagine-rimosse-lesperienza-coloniale-nelle-vie-milano-nei-racconti-dalleti
–-> j’espère pouvoir récupérer la carte...
#toponymie #carte #Milan #Italie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #passé_colonial #colonialisme #cartographie #visualisation #noms_de_rue
]]>Le barche dei migranti diventano un’orchestra. Alla Scala il primo concerto
Dal legno delle imbarcazioni arrivate a Lampedusa violini, viole, violoncelli e contrabbassi. Il 12 febbraio suoneranno Bach e Vivaldi a Milano, in uno teatri più prestigiosi del mondo
E alla fine approdano alla Scala di Milano. Sono violini, viole, violoncelli e contrabbassi costruiti con i legni delle barche dei migranti, arrivate a Lampedusa cariche di vite e di speranze, ma anche di morte e di lamenti. È l’Orchestra del Mare, quella che lunedì 12 febbraio suonerà per la prima volta, e lo farà nel teatro più famoso al mondo, con i suoi strumenti ancora verdi e azzurri e gialli come le assi dei gozzi che erano pochi mesi fa. Legni ben diversi dai pregiati abeti e aceri utilizzati nella liuteria, legni crepati, intrisi di gasolio e di salsedine, eppure casse armoniche in grado di suonare Bach e Vivaldi…
Così come crepate sono le mani che hanno saputo trasformare le barche in orchestra, mani di uomini detenuti nel penitenziario milanese di Opera – i loro nomi sono Claudio, Nicolae, Andrea, Zurab –, diventati liutai sotto la guida di maestri esperti.
Non poteva allora che chiamarsi Metamorfosi il progetto che ha dato vita a tutto questo, ideato dalla “Casa dello spirito e delle arti”, la fondazione creata nel 2012 per offrire all’umanità scartata un’opportunità di riscatto attraverso la forza inesauribile della bellezza e i talenti che ciascuno ha, anche in un carcere. «L’idea è nata come nella parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci – sorride Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione –: nel carcere di Opera da dieci anni funzionava la liuteria, dove il maestro liutaio Enrico Allorto e le persone detenute realizzavano i violini da donare ai ragazzini rom che al Conservatorio di musica non potevano permettersi uno strumento. Ma nel dicembre del 2021 portai nel laboratorio quattro legni delle barche di Lampedusa per fare un presepe e loro invece ne fecero un violino. Rimasi stupefatto, la loro idea si poteva moltiplicare, già mi immaginavo un’intera orchestra, poi – dissi loro – suonerà alla Scala».
L’unico a credere subito a quella follia è stato Andrea, anni di carcere pesante in Tunisia e poi in Italia, nome d’arte Spaccabarche, perché lui e Claudio smontano i gozzi, Nicolae e Zurab li “rimontano” in violini e violoncelli. «Fu Andrea a darmi l’idea di rivolgermi all’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e chiedere che quegli scafi, fino a quel momento sotto sequestro per essere polverizzati e poi bruciati, venissero invece dati a noi e da “rifiuti speciali” diventassero memoria viva – continua Mosca Mondadori –. I Tir ne hanno trasportate in carcere un centinaio, così com’erano…».
«Con all’interno scarpe, biberon, vestiti, salvagenti, tutine da neonato – racconta Andrea “Spaccabarche” –, allora ti chiedi chi era quella gente, se si sono salvati, da quale disperazione dovevano scappare, e rifletti su te stesso: c’è qualcuno che sta molto peggio di me e questo ti dà quel po’ di umiltà che nella vita non fa mai male, anche perché è quella che ti consente di continuare a imparare, quindi di cambiare».
Metamorfosi, appunto. «Si tratta soprattutto di legni di conifere, che usiamo per il fasciame degli strumenti», spiega Enrico Allorto, che con Carlo Chiesa è il maestro liutaio, «mentre per lo scheletro utilizziamo un altro legno più duro di cui non conosco il nome. Sono alberi africani oppure, chissà, di importazione, non sappiamo quelle barche da dove arrivassero. Ovviamente non hanno la resa dei veri legni di liuteria, ma cerco i pezzi più adatti: i più leggeri per simulare l’abete rosso e i più pesanti per imitare l’acero di cui è fatto il fondo. È chiaro che sono legni difficili, hanno addosso la vernice delle barche, le crepe, i buchi: mentre costruiamo gli strumenti ripariamo i danni, ma c’è una sofferenza in questi difetti e il fatto che riescano comunque a suonare scuote emotivamente. Da quei violini esce un Sos, “non lasciateci morire”, anche i musicisti suonando si commuovono».
E a suonarli alla Scala saranno alcuni tra i più grandi al mondo: i violoncellisti Mario Brunello e Giovanni Sollima e il violinista francese Gills Apap “dialogheranno” con i tredici strumentisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, mentre l’installazione scenografica sarà un dono di Mimmo Paladino, artista di fama internazionale. «Il suono di questi strumenti viene da lontano: lontano al di là del Mediterraneo, e lontano nel tempo, forse di secoli», commenta Mario Brunello, solista abituato ad esibirsi con le orchestre più prestigiose con il suo prezioso violoncello “Maggini” dei primi del ‘600. «Quel legno che ha attraversato il mare ora suona il Terzo Concerto Brandeburghese di Bach e L’Inverno di Vivaldi, poi una pagina di virtuosismo violinistico come il celebre Preludio di Kreisler o l’affascinante White Man Sleeps di Kevin Volans, compositore sudafricano. Chiude il programma Violoncellos Vibrez di Giovanni Sollima», violoncellista che nei teatri si esibisce con il suo “Francesco Ruggeri” del XVII secolo ed è il compositore italiano contemporaneo più eseguito nel mondo.
In ouverture lo scrittore Paolo Rumiz, triestino che ha nel sangue la poetica della frontiera e del viaggio, leggerà “La memoria del legno”, testo crudo e tagliente in cui l’albero racconta in prima persona le sue metamorfosi, dalla crescita in Africa come patriarca venerabile abitato dalle anime dei trapassati, a quando viene abbattuto da una scure senz’anima e attraverso il deserto arriva al mare. Lì trova mani delicate che lo trasformano in barca per pescatori. Dimenticato sulla spiaggia, è poi violentato da mani di trafficanti e in mare aperto ode le voci del suo carico umano. All’approdo finale è marchiato a fuoco come corpo del reato e verrebbe bruciato se altre mani delicate non lo trasformassero invece in violini. «L’ho scritto in metrica rigorosamente dispari, endecasillabi e settenari – spiega Rumiz – perché il ritmo pari è quello usato per far marciare gli eserciti». “Voi non mi riconoscerete – comincia l’albero – perché quando sono arrivato puzzavo di vomito e salsedine, ma ora vi racconto la mia storia…”.
Tutti gli artisti prestano gratuitamente i loro talenti per il progetto Metamorfosi: «L’articolo 27 porta il Vangelo nella Costituzione, dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato – ricorda Mosca Mondadori – e niente come un lavoro ricostruisce la dignità delle persone». Tra le carceri di Opera a Milano), Secondigliano a Napoli, Monza e Rebibbia a Roma «diamo lavoro a venti persone con contratti a tempo indeterminato. Le persone cambiano per davvero, ne ho viste passare tante e tutte ce l’hanno fatta grazie al lavoro, sia in carcere che dopo: la misericordia supera i tempi della giustizia». Sembrano sogni, ma sono realtà imprenditoriali che richiedono grande concretezza, «i conti a fine anno devono tornare e ogni mese abbiamo stipendi da pagare, ci sostengono Intesa Sanpaolo e Confcommercio insieme a generose Fondazioni (Cariplo, Peppino Vismara, Santo Versace, Alberto e Franca Riva, Comunità di Monza e Brianza): non sono idee astratte, sono persone, e tu le vedi rinascere».
Ne sa qualcosa Nicolae, il liutaio che “rimonta” le barche in viole e contrabbassi: «In liuteria mi dimentico di essere in carcere e mi sento utile, se sono in grado di costruire, allora non sono così scarso da non poter fare niente, solo che non ho avuto fortuna né ho trovato i riferimenti giusti nella vita. Non cerco giustificazioni per ciò che ho fatto, dico solo che ho capito che il mondo non è soldi e bella vita, ci sono tante cose piccole che possiamo dare l’uno all’altro – dice accarezzando il pezzo colorato del futuro violino che sta lavorando –. Io do il mio contributo qui dentro, in silenzio, ma poi quando qualcuno suonerà questo violino io spero che muoverà qualcosa nel mondo», assicura commosso. «A rovinarci è la sete di potere, invece la terra è di tutti e alla fine di nessuno: siamo solo di passaggio».
L’Orchestra del Mare non si ferma qui, presto si aggiungeranno un clavicembalo, percussioni, chitarre, il liuto arabo, vari strumenti del mondo mediterraneo, «tutto ciò che si può costruire con le barche», e magari dopo la Scala arriveranno altri grandi teatri. Dal carcere di Secondigliano escono già mandolini e chitarre, la prima è stata suonata da Sting in persona l’aprile scorso nel carcere napoletano. «Il mio tormento d’amore è sempre stato la necessità di comunicare il mistero dell’Eucarestia, cioè la presenza del Crocefisso e Risorto nell’Ostia – riprende Mosca Mondadori – e questi sono strumenti eucaristici, perché hanno dentro la morte ma anche la speranza, e il loro suono arriva a tutti i cuori, anche se non credenti». Arriverà certamente ai 1.850 spettatori che hanno già fatto il “tutto esaurito” per il 12 febbraio e ai detenuti delle quattro carceri, gli unici che potranno vedere lo spettacolo in streaming nei loro auditorium.
Solo i detenuti liutai saranno alla Scala ad ascoltare i “loro” strumenti, come fossero figli loro, due addirittura saranno in palco reale assieme al sindaco Beppe Sala, al cardinale Josè Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione, alla vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone, al capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Giovanni Russo, al direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio, tutti lì alla pari. Il perché lo ha spiegato papa Francesco, per il quale nel 2022 ha suonato il primo violino costruito con le barche, quello del presepe mancato: «Quando entro in carcere mi faccio sempre una domanda: perché loro e non io? Avrei potuto agire peggio di loro», che forse sono stati sfortunati, o deboli, o hanno avuto una famiglia difficile. Aiutare i carcerati, ha ricordato Francesco ai volontari della Casa dello Spirito e delle Arti, «è una delle cose che Gesù dice che ci farà entrare in Cielo, ero carcerato e siete venuti a trovarmi. Ma resta quella domanda: perché loro e non io?».
È la stessa domanda che vale per chi partì su quelle barche diventate orchestra, fossi nato nella loro guerra, piegato dalla loro miseria, non sarei partito anch’io?, conclude Arnoldo Mosca Mondadori. «Se ci fosse mio figlio su quel gozzo, vorrei che fosse rimpatriato in Libia in un campo di concentramento o pregherei perché venisse accolto con umanità nel Paese in cui è arrivato? Questa è la domanda dirimente che, chiunque noi siamo, dobbiamo onestamente farci. Tutta Metamorfosi si riassume in questo unico interrogativo».
▻https://www.avvenire.it/attualita/pagine/se-le-barche-diventano-un-orchestraalla-scala-lo-s
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Un anno di osservazione sul CPR di Via Corelli, Milano
Il report-denuncia di Naga e Rete Mai più Lager - No ai CPR
«Al di là di quella porta. Un anno di osservazione dal buco della serratura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano» è il titolo del report 1 realizzato dall’associazione Naga e della Rete Mai Più Lager – No ai CPR (di qui in avanti “Rete”).
Il risultato di un monitoraggio multi livello 2 durato un anno che tuttavia, lascia l’impressione di aver giusto sbirciato “dal buco della serratura” di quel CPR.
La diversità di fonti e metodi riflette infatti la difficoltà che si riscontra quando si vuole rompere il muro di oscurità che avvolge via Corelli e tutti gli altri centri d’Italia. La maggior parte delle informazioni raccolte sono infatti il frutto delle segnalazioni arrivate al centralino telefonico “SOS CPR Naga” o alle pagine social di Naga e Rete dai cellulari personali dei trattenuti.
Un monitoraggio che solleva l’angosciante interrogativo su quanto accade negli altri Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) d’Italia.
Il CPR di Milano infatti è l’unico, insieme a quello di Gradisca d’Isonzo, in cui, grazie a una sentenza sul ricorso ASGI del 20213, i trattenuti possono detenere i propri telefoni cellulari. Questa possibilità, a garanzia del diritto alla libera corrispondenza di fatto negata negli altri CPR, ha plausibilmente l’effetto di limitare gli abusi da parte di forze dell’”ordine” e operatorə del centro, consapevoli inoltre della presenza di associazioni e reti di solidali ben radicate sul territorio.
Se le atrocità osservate a Milano sono il frutto di un relativo contegno che le autorità si impongono in Via Corelli, qual è invece la realtà quotidiana degli altri CPR, esclusi da un accorto e costante monitoraggio? Il titolo infatti rende perfettamente idea di quanto è nascosto agli occhi quando si cerca di osservare la totalità di una stanza dal piccolo spiraglio della serratura.
“Accedere al CPR: una lunga storia”
Naga accede regolarmente alle carceri ordinarie, mentre nei Centri di permanenza per i rimpatri la Prefettura nega l’autorizzazione in modo quasi sistematico e spesso senza neanche fornire una motivazione dettagliata. Eppure la possibilità di accesso è formalmente prevista dalla Direttiva Lamorgese e spesso viene fatta valere solo in seguito a un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale. Non prima, dunque, di spendere tempo, energie e risorse per fare ricorso contro il diniego.
“La battaglia per visitare il CPR è durata oltre un anno, ha visto impegnati due avvocati e una decina tra attiviste e attivisti. Istanze, memorie, accessi agli atti, un’ordinanza e una sentenza” 4. Tutta questa fatica per due ore di sopralluogo all’interno del centro, in cui la delegazione è stata accompagnata – o, per meglio dire, scortata – lungo tutto il tragitto.
Gli accessi civici agli atti e i dati quantitativi del report
Un intero capitolo del dossier è dedicato a dettagliare le richieste di accesso civico generalizzato agli atti 5 che hanno spesso ottenuto dinieghi, risposte glissate, parziali, contraddittorie 6, a volte nessuna risposta affatto. Dalle risposte ottenute il rapporto riesce a ricostruire qualche dato quantitativo.
In un anno sono state deportate da via Corelli verso il paese d’origine 7 238 persone, ovvero il 44% dei trattenuti (dove la media nazionale si attesta tra il 49 e il 50%).
“L’82% dei rimpatriati proviene dal nord Africa. Del resto, il 65% dei trattenimenti ha riguardato persone provenienti da Egitto, Marocco e Tunisia. I dati della Prefettura confermano che sono soprattutto tunisini a popolare il CPR.” (Naga, 2023, p.137)
In assenza di dati ufficiali sui motivi di rilascio diversi dalla deportazione nel paese di origine, Naga e Rete riportano a tal proposito i dati in loro possesso. Dei 24 casi di rilasci ottenuti grazie all’assistenza legale Naga, la maggior parte erano motivati dalle condizioni di salute dei trattenuti.
Secondo l’ATS (Agenzia di Tutela della Salute), dal 1°marzo 2022 al 28 marzo 2023 sono stati emessi 203 codici STP. (Naga, 2023, p.167).
A tutti i trattenuti però dovrebbe essere assegnato un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) al momento dell’ingresso. Considerando che il numero di trattenuti per lo stesso periodo è di 544, lo scarto è di ben 341 codici. Sul perché a questi individui non sia stato assegnato alcun codice STP non è dato avere spiegazione.
Sul numero di trattenuti sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), l’ATS non ha fornito alcuna risposta. La Prefettura sostiene di non avere tale informazione e, anche avendola, non la comunicherebbe in quanto relativa a dati “sensibilissimi”. Invece il Comune di Milano, che sotto la firma del suo Sindaco Giuseppe Sala dispone i TSO, ha riferito che nel periodo di riferimento dell’istanza ci sono stati due TSO sullo stesso cittadino. Risulta poi che questi trattamenti si riferiscono a due distinti periodi di trattenimento in CPR: questo significa, ancora una volta, che nonostante i gravi problemi psichiatrici è stato dichiarato idoneo al trattenimento ed è finito poi per subire un ulteriore TSO.
La visita d’idoneità
Una visita medica deve accertare l’idoneità alla vita in comunità ristretta entro le 48h dall’ingresso della persona in un CPR. Secondo la normativa, la visita d’idoneità deve svolgersi all’esterno del Centro e dev’essere obiettiva. Secondo le raccomandazioni del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (di qui in avanti abbreviato “Garante Nazionale”), per essere obiettiva la visita dev’essere svolta da medici del Servizio Sanitario Pubblico in una struttura pubblica.
Invece, sin dalla sua apertura e con l’eccezione di una sola breve parentesi, le visite di idoneità per l’ingresso nel CPR di Via Corelli sono state svolte sempre dagli stessi due medici. Non si tratta di dipendenti dell’ASL, ma di medici in libera professione vincitori di concorsi che sembrano istituiti ad-hoc per affidare loro le visite d’idoneità. Inoltre, nel primo anno di apertura del centro, questi due medici lavoravano anche privatamente per l’ente gestore dell’epoca, la R.T.I. Luna S.c.s. – Versoprobo S.c.s. (oggi a gestire il Centro di Via Corelli è Martinina S.r.l.) in evidente conflitto d’interesse.
Alcuni trattenuti riferiscono di non essere mai stati visitati al di fuori del centro o di aver svolto la visita in Questura. Tutti ad ogni modo sono stati visitati in presenza di agenti di polizia e le visite consistono nella compilazione di un modulo a crocette, nella somministrazione di un test COVID, nella dichiarazione di assenza di sintomi da Tubercolosi, ma senza disponibilità di strumenti diagnostici né la previsione di esami di approfondimento. Dunque si è idonei solo se si è ritenuti approssimativamente e a vista d’occhio “sani”.
“Nel periodo tra maggio 2022 e marzo 2023 sono pervenute al centralino SOS CPR del Naga diverse segnalazioni di problematiche sanitarie che potrebbero porre qualche dubbio sulle idoneità rilasciate. Ricordiamo almeno 4 casi di trattenuti affetti da epilessia, 8 con gravi problemi psichiatrici e psicologici, diverse decine di persone che praticavano autolesionismo, 9 portatori di malattie croniche, gravi o comunque difficilmente compatibili con le modalità di trattenimento (sempre che queste si possano considerare compatibili con qualsiasi essere umano)” – Naga, 2023 (p. 84)
“Il battesimo d’ingresso”
Una volta all’interno del CPR, i trattenuti sono sottoposti a una seconda “visita”, quella di presa in carico 8. I neo arrivati vengono portati in infermeria, denudati integralmente di fronte a medici e, anche qui, ad agenti di polizia e obbligati a fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano.
“Un trattamento umiliante dalla dubbia utilità pratica, stigmatizzato in infinite occasioni dai tribunali perché riservato, per legge, ai soggetti più pericolosi solo in caso di estrema necessità. Questo trattamento viene risparmiato solo ai soggetti provenienti direttamente dal carcere, quindi “puliti” in ragione della loro provenienza. A volte neanche a loro.” – Naga, 2023 (p.26)
Al termine di questa visita viene refertata una scheda medica di ingresso, senza data e con la sezione “anamnesi” quasi sempre barrata. Nessun accertamento dettagliato sulla salute psichica dei trattenuti, seppur previsto dall’offerta tecnica con la quale Martinina S.r.l. vince l’appalto.
Finita questa umiliante prassi di sottomissione, i trattenuti vengono spogliati anche della loro stessa umanità e identità personale. Viene loro consegnato un cartellino identificativo con un codice numerico progressivo (arrivato il 28 luglio 2023 al numero 1566) che di lì in avanti sostituirà il loro nome nelle interazioni con il personale all’interno del centro.
Uno spettro agghiacciante dei metodi nazisti, in cui la deumanizzazione degli internati era funzionale al loro soggiogamento e all’annientamento di ogni guizzo di resistenza attiva alle ingiustizie e violenze subite.
La vita nei blocchi: squallore e “zombizzazione”
Secondo il monitoraggio di Naga e Rete, nel CPR di Via Corelli risultano agibili solo due moduli abitativi – spesso definiti “blocchi” dai trattenuti – ciascuno per 28 persone.
“Per ogni trattenuto il gestore percepisce, come da appalto, un compenso di 40,16 euro al giorno. A loro disposizione un “kit di ingresso” (per il quale il gestore percepisce un compenso a parte) miserrimo e un cambio di vestiti (biancheria intima compresa) già usati da altri, che nella maggioranza dei casi vengono rifiutati.” – Naga, 2023 (p. 26)
Le squallide condizioni di vita all’interno dei CPR sono ormai largamente documentate. Le pagine social della Rete pubblicano quasi quotidianamente foto e video inviati dai trattenuti raffiguranti locali non idonei, sporcizia, degrado, sangue, violenze e sofferenza diffusa.
Uno scenario post-apocalittico all’interno del quale gli avvocati e le avvocate Naga raccontano di una veloce degenerazione psicofisica dei loro clienti, che colloquio dopo colloquio, vedono progressivamente diventare come zombie.
“Giovani sani e forti si trasformano in poche settimane in zombie scoloriti e disorientati dagli psicofarmaci, drogati di e per disperazione, o più semplicemente per mantenere l’ordine all’interno del centro senza alcun dispendio di forze, energie e personale: sedandoli” – Naga, 2023 (p.28)
Mai più distante dalla realtà: il capitolato d’appalto di Martinina S.r.l. tra servizi non erogati e protocolli falsi
Nel CPR di Milano, come negli altri CPR d’Italia, i trattenuti non hanno la possibilità di svolgere alcuna attività ricreativa. Eppure Martinina S.r.l. avrebbe ottenuto in gestione via Corelli – con un appalto di 1,2 milioni di euro! – sulla base delle “proposte migliorative” dell’offerta tecnica.
Il rapporto di Naga e Rete documenta dettagliatamente come quanto formalmente previsto dal capitolato non corrisponde a un servizio effettivo e/o di qualità 9. Ma ancor più grave è quanto emerso dalla recente inchiesta di Luca Rondi e Lorenzo Figoni per Altraeconomia: «Inchiesta sul gestore del Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati».
Interpellando le associazioni e Ong iscritte negli accordi che Martinina S.r.l. ha presentato in gara d’appalto hanno scoperto che questi protocolli d’intesa sono falsi. Altri ancora sono siglati con soggetti che non risultano da nessuna parte online, di cui di fatto non è possibile verificare la veridicità. Un accordo è addirittura firmato dal solo ente gestore, Martinina S.r.l. Tra questi le società che dovrebbero provvedere alla realizzazioni di attività ricreative e migliorative del tempo trascorso dai trattenuti all’interno del Centro.
i trattenuti nei CPR non hanno nemmeno la possibilità di tenersi carta e penna. La giustificazione? La prima perché infiammabile e la seconda perché passibile di uso improprio. Il divieto di circolazione di carta tra i detenuti però inficia gravemente anche sul loro diritto all’informazione legale e di reclamo diretto al Garante Nazionale.
Secondo l’offerta tecnica, Martinina S.r.l. fornisce consulenti legali interni che dovrebbero consegnare una “carta dei diritti dei trattenuti”, che però non può circolare nel CPR perché, appunto, di carta. Senza carta e penna é inoltre inverosimile che i trattenuti possano scrivere reclami diretti al Garante Nazionale. In occasione dell’accesso fisico la delegazione Naga ha potuto constatare inoltre che il vademecum che dovrebbe informarli sulle modalità di invio riporta informazioni errate: istruiscono per l’invio di reclami al Garante territoriale, che a Milano manca. Esiste un Garante Comunale che tuttavia non segue il CPR di Via Corelli per mancanze di risorse e personale e che consiglia di riferirsi alla Procura della Repubblica o al Garante Nazionale, per cui le modalità d’invio, tuttavia, richiedono procedure differenti. A queste mancanze cercano di sopperire Naga e Rete mandando costanti segnalazioni al Garante. Nel rapporto forniscono qualche dato sulle segnalazioni inviate.
“Quale difesa?”
Ai trattenuti viene sistematicamente limitato il diritto alla difesa. La nomina di unə avvocatə di fiducia è condizionata alle risorse economiche disponibili: quando sono scarse o ormai esaurite, non resta che l’avvocatə di ufficio. I detenuti dovrebbero poterne scegliere unə da una lista fornita dall’ente gestore. Questa, in quanto cartacea, non può circolare all’interno del CPR e quindi di fatto l’assegnazione avviene in maniera casuale. Anche quando un detenuto è assistito da unə avvocatə di fiducia, questə viene convocatə in ore serali, tarde o non viene convocatə affatto.
Lə rappresentante legale spesso non conosce il caso, non ha avuto accesso al fascicolo, non ha nemmeno mai visto o parlato con il trattenuto. Se d’ufficio, poi, il suo incarico si limita a una singola udienza. Le udienze durano in media 6 minuti e sono svolte online: oltre alla pessima connessione internet, l’avvocatə deve decidere se presenziare di fronte al giudice o collegarsi online con la persona assistita, con ulteriori gravi implicazioni sulla qualità della difesa.
L’impedimento al diritto di difesa viene esercitato anche in occasione dei colloqui individuali. A differenza del carcere ordinario, nei CPR questi avvengono alla presenza degli agenti di polizia. Il rapporto riporta un episodio particolarmente grave del 3 agosto 2023, in cui all’avv. Simona Stefanelli e all’interprete di fiducia che l’accompagnava, é stato inizialmente negato negato l’accesso al CPR, nonostante regolare nomina di incarico per diversi assistiti. È stato poi concesso alla sola avvocata di parlare con un solo assistito e per 30 minuti, dopodiché è stata fatta uscire sul pretesto che ci sarebbero stati altri appuntamenti per i quali doveva essere lasciata libera la stanza. Il direttore avrebbe inoltre sequestrato alcuni documenti dell’assistito impedendole di fatto di preparare un’adeguata difesa.
L’interprete
Fino a giugno 2022 l’interprete di fiducia poteva accedere al CPR, previa comunicazione del nominativo all’ente gestore, come anche presenziare alle udienze presso il Giudice di pace. Ora invece serve l’autorizzazione della Prefettura, che oppone dinieghi ostinati e strumentali anche in presenza di professionistə competenti e qualificatə.
All’interprete che accompagnava l’avv. Stefanelli è stato opposto un diniego perché non aveva presentato documentazione atta a dimostrare la sua qualifica di mediatrice culturale. Quando questa è stata presentata, le si è opposto che la qualifica di per sé non fosse sufficiente, ma doveva dimostrare di svolgere “ordinariamente attività come traduttrice o mediatrice culturale a supporto di studi legali, o comunque in contesti peculiari come quello dei CPR” 10. Nel diniego si aggiungeva inoltre che l’interprete di fiducia risultava superfluo data la presenza di personale di mediazione professionista garantita dall’ente gestore.
Non solo dal rapporto emerge come l’unico mediatore “professionista” di Martinina S.r.l. mai incontrato abbia candidamente ammesso di essere un autodidatta. In base ai protocolli presentati in gara d’appalto sarebbe Ala Milano Onlus a fornire servizi di mediazione linguistico-culturale nel CPR di Milano. Peccato che il suo presidente, intervistato da Luca Rondi e Lorenzo Figoni nell’ambito della già citata inchiesta su Altraeconomia, dichiara di non aver mai siglato quell’accordo.
Il diritto alla salute e gli “scheletri nell’armadio”
Il grosso del dossier riguarda i dati medici e parla di un vero e proprio ostruzionismo da parte di Prefettura ed ente gestore, vinto ancora una volta soltanto in sede di ricorso. L’ostruzionismo viene esercitato su voluti fraintendimenti tra le “cartelle cliniche” e i “diari clinici” dei trattenuti.
Quando lə avvocatə chiede per iscritto “le cartelle cliniche” dell’assistito, l’ente gestore invia le cartelle cliniche refertate da ospedali qualora si siano verificati dei ricoveri, ma non quello che loro chiamano il “diario clinico”. Quest’ultimo è un fascicolo che l’ente gestore dovrebbe aggiornare lungo tutto il periodo di trattenimento, tra l’altro avvalendosi di un software gestionale online che comunicherebbe alla prefettura ogni aggiornamento su base quotidiana. Questo diario non viene rilasciato, come ricostruisce dettagliatamente il rapporto, neanche quando esplicitamente ordinato da sentenza del giudice su ricorso.
Non è chiaro poi se questo software gestionale esista davvero: la documentazione ottenuta risulta scritta a mano, spesso in maniera illeggibile; inoltre anche il “registro degli eventi critici”, che da offerta tecnica dovrebbero essere registrati e comunicati informaticamente, è un quaderno da cartoleria ad anelli, “dal quale possono essere agilmente strappati fogli scomodi, non numerati né tanto meno vidimati” – Naga, 2023 (p.147)
Quando si è riusciti ad ottenere la documentazione sanitaria di alcuni trattenuti sono emersi dei veri e propri “scheletri nell’armadio”. Ne è un esempio la storia di J.M., dettagliata nel rapporto.
Lamentando gravi mal di testa, J.M. viene visitato in ospedale perché non era disponibile un medico nel centro; il suo referto medico viene sequestrato al rientro nel centro e il suo compagno di stanza chiama il centralino del Naga perché lo vede fortemente turbato. Lə attivistə di Naga e Rete riescono a risalire all’Ospedale dov’era stato ricoverato e scoprono che una TAC aveva rilevato una neoplasia cerebrale. Viene invece dimesso con diagnosi di crisi da verosimile astinenza da cocaina e riportato nel CPR come se nulla fosse. Il legale fa allora richiesta ufficiale della sua cartella clinica e soltanto allora J.M. viene rilasciato dal centro: più precisamente, viene abbandonato in mezzo alla strada, nonostante non fosse nemmeno in grado di camminare, e senza ricevere la sua cartella clinica.
La non-assistenza psico-sociale in Via Corelli
L’offerta tecnica di Martinina S.r.l prevede personale e locali adibiti ai colloqui psicologici, che però si svolgono in presenza degli agenti di polizia, in totale violazione della privacy necessaria. Nell’accesso fisico alla struttura, la delegazione Naga ha constatato che a tale servizio sarebbero incaricate due persone, di cui una si è presentata come coordinatrice del servizio. Interrogata su tecniche e modalità impiegate nel suo lavoro dimostrava gravi mancanze e ammetteva di non affiancarsi di personale di mediazione linguistico-culturale.
Il suo nome é stato poi nominato da svariati trattenuti, che però la identificavano come l’operatrice che si occupa dei cartellini identificativi con il numero progressivo. Lə avvocatə che collaborano con Naga riportano inoltre che sarebbe sempre lei a rispondere alle email di nomina di legali di fiducia. Mansioni che non sembrano c’entrare nulla con l’incarico di psicologa.
In assenza di un supporto psicologico adeguato la prassi è una diffusa somministrazione di psicofarmaci a fini sedativi 11, così che le condizioni psicofisiche dei trattenuti deteriorano progressivamente e velocemente. Uno non-luogo di abbandono e brutalizzazione costante.
La storia di H.B.
Nessuna legge vieta un ulteriore periodo di detenzione, rendendone i “termini massimi” stabiliti per legge meno effettivi. Dalle testimonianze delle persone che si sono rivolte al centralino “SOS CPR Naga”, è evidente poi che il trattenimento viene imposto e reiterato anche quando la deportazione non è attuabile, in completa violazione del Testo Unico Immigrazione 12. Inoltre, spesso vengono trasferite da un CPR a un altro in ottica punitiva e strumentale.
Tutte queste dimensioni discriminanti possono verificarsi per una stessa persona con effetti devastanti, come esemplificato nella storia di H.B., dettagliata nel report di Naga e Rete.
H.B. non è registrato all’anagrafe del paese di origine e dunque, poiché quest’ultimo non lo riconosce come proprio cittadino, non è deportabile. Per questo stesso motivo era stato rilasciato dal suo primo trattenimento nel CPT di Bologna, salvo poi venir messo dentro a Via Corelli a Milano. Da qui, salito sul tetto in atto di protesta contro la convocazione di un avvocato sconosciuto per la sua udienza 13, viene trasferito per punizione al CPR di Ponte Galeria a Roma, ma solo dopo due episodi di violenza da parte di almeno 6 agenti di polizia, che gli causano una ferita aperta in testa, perdite di sangue e siero da orecchie e bocca, vista offuscata e torsione del braccio.
Perché a Ponte Galeria? Per recidere i suoi rapporti e contatti con lə attivistə di Milano, non potendo nel CPR di Roma tenere il suo cellulare personale. Invece lə avvocatə NAGA hanno continuato a seguirlo, e l’hanno poi fatto rilasciare da Ponte Galeria, proprio perché le gravi lesioni inflittegli in Via Corelli lo rendevano evidentemente inidoneo al trattenimento in CPR 14.
Anche nel caso di H.B. il rilascio ha equivalso a un abbandono in mezzo alla strada. Lə attivistə NAGA perdono le sue tracce per un certo periodo e lo ritrovano nuovamente rinchiuso, questa volta al CPR di Gradisca d’Isonzo. Non sapendo che fare, era tornato a Bologna dove si era presentato in Questura per domandare protezione internazionale in ragione della sua apolidia. Qui non solo gli viene negato l’accesso alla domanda 15, ma nuovamente lo rinchiudono nel Centro nonostante l’ingessatura al braccio per la quale doveva risultare inidoneo. Nuovamente lə avvocatə NAGA ottengono il suo rilascio, questa volta sulla base del comprovato tentativo di domandare la protezione internazionale e presentano una denuncia per tortura, lesioni, omissione di soccorso e falso nei confronti di agenti, direttore e medico del CPR di Milano e Roma, di cui seguiamo con ansia gli esiti.
Pratiche di deportazione, morti di Stato e morti invisibili
Sulla base delle testimonianze di ex-trattenuti deportati e dell’ultima relazione del Garante Nazionale 16, le modalità di esecuzione delle deportazioni implicano regolarmente l’uso della violenza e dell’inganno.
Le forze di polizia fanno irruzione nella stanza di notte, mentre tutti dormono; immobilizzano e prelevano di forza il deportando, se serve lo sedano contro la sua volontà o a sua insaputa. In alternativa usano la “trappola dell’infermeria” 17, la bugia del trasferimento in un altro centro, o ancora si fa loro credere che verranno portati dal console a cui in ultimo spetta la decisione, quando invece tutto è ormai definitivo.
Lo stesso Garante Nazionale evidenzia gli abusi della forza da parte degli agenti, in media tre per ogni deportato: a prescindere dall’eventuale resistenza opposta dai deportandi, questi vengono immobilizzati con fascette di velcro o altri dispositivi “con modalità considerate eccezionali anche nell’ambito del regime penitenziario con il rischio di incidere fortemente sulla dignità delle persone straniere” (…) “In talune occasioni i monitor hanno constatato che i dispositivi non sono stati levati nemmeno per consentire la consumazione del pasto e durante la fruizione dei servizi igienici” 18.
Di questo sistema di violenza e razzismo istituzionale, amministrativa e fisica le persone ci muoiono: nascosti negli impenetrabili CPR o lontano dagli occhi e dai confini territoriali.
Naga ha domandato al Dipartimento di Pubblica Sicurezza, che fa capo al Ministero dell’Interno, quante morti fossero avventue nei CPR d’Italia negli ultimi 5 anni: sono 14, età media di 33 anni.
Vittime immolate in nome del culto dei confini, del razzismo, del profitto senza scrupoli che riduce le persone in corpi senza storia e senza identità, solo numeri.
Numeri a cui Naga cerca di dare un nome, che qui riportiamo per rispetto della loro dignità, confidando che ci legge non ce ne vorrà se anche il resoconto del rapporto risulta molto lungo.
• Donna – 46 anni – Ucraina – CPR di Ponte Galeria (Roma) il 13 novembre 2018. Di lei il Naga e la Rete Mai più Lager – No ai CPR non sanno nulla, nemmeno il suo nome.
• Harry – 20 anni – Nigeria – CPR di Brindisi Restinco – 2 giugno 2019
• Hossain Faisal – 31 anni – Bangladesh – CPR di Torino – 8 luglio 2019
• Ayman Mekni – 33 anni – Tunisia – CPR di Pian del Lago – Caltanissetta – 12 gennaio 2020
• Vakthange Enukidze – 39 anni – Georgia – CPR di Gradisca d’Isonzo – gennaio 2020
• Orgest Turia – 29 anni – Albania – CPR di Gradisca d’Isonzo – 14 luglio 2020
• Moussa Balde – 23 anni – Nuova Guinea – CPR di Torino – maggio 2021
• Wissem Abdel Latif – 26 anni – Tunisia – CPR di Ponte Galeria – 28 novembre 2021
• Ezzedine Anani – 41 anni – Marocco – CPR di Gradisca di Isonzo – 6 dicembre 2021
• Uomo: – 36 anni – Nigeria – CPR di Brindisi Restinco – 4 agosto 2022.
• Uomo – 34 anni – Bangladesh – CPR di Ponte Galeria – 22 agosto 2022.
• Arshad Jahangir – 28 anni – Pakistan- CPR di Gradisca d’Isonzo – 31 agosto 2022
• Uomo – 44 anni – Nigeria – CPR di Palazzo San Gervasio – 7 ottobre 2022.
• Nome non trapelato – 38 anni – Marocco – CPR di Brindisi Restinco – 19 dicembre 2022 (Naga, 2023, pp.175-176)
Di questi 14 morti di stato, 5 rimangono senza nome. Morti invisibili, o meglio invisibilizzate. Le loro morti come anche le loro vite: costrette, negate, taciute. Così nella depredazione dell’Occidente a danno dei paesi resi a basso reddito, ma in realtà di estremo valore estrattivo e umano; così nel Mar Mediterraneo, ormai stabilmente rotta migratoria più mortale sul pianeta; così anche sul territorio italiano, nei campi di sfruttamento, nelle carceri, nei CPR. E di quanti morti ancora non è dato sapere, una volta che queste persone vengono espulse e allontanate dagli occhi e dalla nostra coscienza.
Vite di cui Naga, come le altre realtà sul territorio italiano, cercano di ricostruire l’identità, per rispetto, per dignità, ma anche per offrire un’occasione a eventuali familiari delle vittime di reclamare giustizia – se davvero così può essere chiamata – sistematicamente violata nel sistema CPR d’Italia.
▻https://www.meltingpot.org/2023/11/un-anno-di-osservazione-sul-cpr-di-via-corelli-milano
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]]>Inchiesta sul gestore del #Cpr di Milano: tra falsi protocolli e servizi non erogati
Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura in #via_Corelli: alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti non sarebbero autentici
Lenzuola non distribuite, raro utilizzo dei mediatori culturali, tutela legale inesistente, assistenza sanitaria carente. Ma soprattutto falsi protocolli d’intesa “siglati” per svolgere servizi e attività all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli a Milano.
Altreconomia ha potuto visionare l’offerta tecnica presentata dalla società Martinina Srl alla prefettura di Milano per aggiudicarsi l’appalto da oltre 1,2 milioni di euro per la gestione della struttura: oltre alla discordanza tra quanto scritto nei documenti e la realtà nella struttura di reclusione, alcuni degli accordi stretti con associazioni e Ong “esterne” per migliorare la vita dei trattenuti sarebbero falsi.
Altri invece sarebbero stati siglati con soggetti di cui non è stato possibile trovare alcuna traccia online. “Viene da chiedersi in che cosa consista il controllo effettuato dalla prefettura, essendo risultata evidente l’assenza di servizi all’interno del centro oltre che palesi le incongruenze negli atti e nei documenti versati nella gara di appalto”, osserva l’avvocato Nicola Datena dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha visionato la documentazione insieme a chi scrive.
Alcuni snodi temporali. Martinina Srl nell’ottobre 2022 si è aggiudicata l’appalto per un anno (scadenza il 31 ottobre 2023, rinnovabile di un anno in assenza di nuove gare pubbliche) indetto dalla prefettura di Milano presentando un’offerta in cui garantiva, tra le altre cose, la collaborazione con diverse associazioni e società profit, finalizzata ad assicurare l’erogazione di “servizi” da integrare nella gestione del Cpr.
L’offerta tecnica consiste nella documentazione da presentare in sede di gara d’appalto che descrive come l’impresa intende eseguire il lavoro per l’ente che richiede la prestazione, ovvero il piano di lavoro, le fasi e le risorse impiegate, la durata e le ore di lavoro previste, eventuali migliorie richieste o proposte
Protocolli forniti in sede di gara ed esaminati dalla Commissione giudicatrice, la quale, nella decisione di assegnare l’appalto alla società domiciliata in provincia di Salerno, sottolinea l’importanza del “valore delle proposte migliorative dell’offerta tecnica”. Un “dettaglio” sfugge però ai funzionari della prefettura: almeno otto sarebbero falsi. Eccoli.
Secondo la documentazione contrattuale, il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo), una delle più importanti organizzazioni del Terzo settore del nostro Paese, avrebbe firmato un protocollo con Martinina l’8 agosto 2022 volto alla formazione del personale del Cpr. Il nome del responsabile legale non corrisponde però ad alcun referente dell’organizzazione: “Ribadiamo l’assoluta estraneità del Vis e l’assenza di qualsiasi tipo di contatto o accordo, passato e presente, relativo alla gestione del Cpr di via Corelli. E ci tengo a precisare che come Ong salesiana abbiamo una visione della migrazione fondata sui diritti umani, distante dall’approccio applicato nei Cpr, con cui in ogni caso le nostre policy ci impedirebbero di collaborare”, spiega ad Altreconomia Michela Vallarino, presidente del Vis.
Sono 59 invece le pagine dell’accordo tra Martinina e la cooperativa sociale BeFree, uno dei più importanti enti antitratta italiani con sede a Roma, per la realizzazione del progetto “Inter/rotte” per l’assistenza per vittime di tratta e violenza. “Non avremmo mai potuto firmare un simile protocollo -spiega Francesca De Masi (qui la sua presa di posizione integrale)- perché siamo fortemente critiche nei confronti della stessa esistenza dei Cpr”. Il presunto protocollo è talmente grossolano che il nome del legale rappresentante è sbagliato e di conseguenza anche il codice fiscale generato.
Ala Milano Onlus secondo l’accordo dovrebbe invece garantire “prestazioni di natura di mediazione linguistica/culturale”. Il presidente, contattato da Altreconomia, dichiara però di non aver mai siglato quel protocollo. Così come Don Stefano Venturini, l’allora parroco della comunità pastorale delle parrocchie di San Martino in Lambrate e SS Nome di Maria, che si sarebbe impegnato, secondo le carte consultate, “a orientare, aiutare gli ospiti prestando attenzione specifica a quanto le persone esprimono”. “Ho incontrato una volta chi gestisce la struttura ma non ho mai siglato un protocollo”, spiega Venturini ad Altreconomia, aggiungendo, tra l’altro, come sia di competenza della curia diocesana un eventuale accordo formale. Nell’offerta inviata alla prefettura, Martinina ha allegato il decreto di nomina di Venturini emesso dall’arcivescovo Mario Enrico Delpini. “Non so come abbiano fatto ad averlo”, spiega ancora l’interessato.
L’accordo con la società sportiva Scarioni 1925 risulta stipulato il 24 agosto 2022 dall’ex presidente, che però è morto nel febbraio 2020: un post sulla pagina Facebook della società stessa, datato 31 marzo 2020, porge le condoglianze alla famiglia per la sua scomparsa. Il Centro islamico di Milano e Lombardia avrebbe siglato un accordo con Martinina per garantire il sostegno spirituale all’interno del centro. “La carta intestata è di un centro di Roma, la firma del protocollo di un centro di Cologno Monzese -spiega il presidente Ali Abu Shwaima-. Noi non abbiamo mai visto quel protocollo”. L’associazione Dianova Onlus garantirebbe assistenza per i trattenuti con tossicodipendenza: la prefettura sembra non essersi accorta però che il protocollo risulta firmato nell’agosto 2022 solo da Martinina Srl. “Non ho mai sentito questa società -spiega il presidente Pierangelo Buzzo, a cui è intestato l’accordo- e tra l’altro dal febbraio 2021 siamo cooperativa sociale, non più associazione. Il protocollo è falso”.
Diverso è il caso della Associazione di Volontariato “Il Paniere Alimentare”, dell’Organizzazione “Musica e Teatro” e dell’Associazione “Fiore di Donna”, dei quali non solo non è stato possibile riscontrare alcun riferimento online, ma di cui i codici fiscali inseriti nei protocolli risultano inesistenti, così come gli indirizzi mail di riferimento. La “Bondon grocery” dovrebbe riconoscere “agli ospiti del Cas e agli operatori della Martinina Srl che acquistano per conto delle persone trattenute nel Cpr uno sconto del 5% sulla spesa effettuata”: il protocollo firmato nell’agosto 2022 reca in intestazione la denominazione della società, che ha però cessato l’attività il primo luglio 2021.
Dianova, BeFree, l’Organizzazione “Musica e Teatro” vengono citati tra i protocolli di intesa presentati anche nell’offerta tecnica presentata da Engel Srl il 26 maggio 2021 per l’aggiudicazione del bando precedente a quello in essere. La prefettura di Milano ha pubblicato i documenti integrali -contratto siglato dalla società e offerta tecnica- il 10 novembre 2023.
Tornando ai protocolli siglati da Martinina Srl, questi danno uno spaccato della vita nel centro che appare molto distante della realtà. Attività ludico-ricreative, per “impegnare le giornate degli ospiti e rendere più piacevole il trascorrere del tempo”, cineforum, laboratori di teatro, musicali, sport. Addirittura “campagne di prevenzione della salute”. Ma niente di tutto questo si sarebbe mai verificato nella struttura. Sia per i numerosi report prodotti nel tempo da diversi soggetti, dall’Asgi al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, fino agli stessi verbali delle visite di monitoraggio redatti proprio dalla prefettura.
Così l’accesso ai servizi di mediazione linguistica-culturale, previsto nell’offerta, non si riscontra affatto nella realtà: in questo caso è l’Asgi, durante una delle visite d’accesso, a non incontrare alcun mediatore e dal Naga, che ha recentemente pubblicato un dettagliato report sulla situazione all’interno del centro. Oppure l’orientamento legale, anche questo assicurato sulla carta da Martinina Srl, addirittura con la “diffusione di materiale informativo tradotto nelle principali lingue parlate dagli stranieri presenti nel centro” ma che non trova riscontri. È il Garante, questa volta, a scrivere nel febbraio 2023 che l’informativa cartacea “non viene consegnata alle persone trattenute”. Problematico anche l’accesso ai servizi sanitari: nell’offerta tecnica si assicura “al ricorrere delle esigenze la somministrazione di farmaci e altre spese mediche” ma al di fuori degli psicofarmaci -che, come raccontato da Altreconomia nell’inchiesta “Rinchiusi e sedati”, su cinque mesi di spesa rappresentano il 60% degli acquisti in farmaci- sempre il Garante scrive che “l’assistenza sanitaria in caso di bisogno si limita alla distribuzione della tachipirina”. E c’è uno scarso accesso alle visite specialistiche. Emergono poi acquisti di distributori di tabacchi non presenti nel centro, colloqui con lo psicologo non documentati, addirittura la fornitura di “cestini da viaggio” in caso di trasferimenti da un Cpr all’altro, discrepanze anche relative alla qualità del cibo distribuito.
All’impatto sulla vita delle persone se ne aggiunge uno di natura economica. Secondo dati inediti consultati Altreconomia, infatti, la prefettura di Milano avrebbe già versato a Martinina Srl oltre 943mila euro per la gestione della struttura di via Corelli. Ed è rilevante anche l’avvicendamento delle società gestite dall’imprenditore Alessandro Forlenza. Lui, nel 2012 fonda la Engel Italia Srl, ex gestore del “Corelli” di Milano e del Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: oggi quella società non esiste più perché il 20 ottobre 2023 è stata definitivamente “inglobata” nella Martinina Srl, a cui inizialmente era stato ceduto il ramo d’azienda che si occupava della detenzione amministrativa. La società è formalmente in mano a Paola Cianciulli, moglie di Forlenza, che è attualmente l’amministratrice unica dopo l’uscita di scena di Consiglia Caruso (la firmataria di tutti i protocolli d’intesa sopra citati), che il 31 agosto 2023 ha ceduto i mille euro di capitale sociale. A lei restano intestate due società con sede a Milano: l’Edil Coranimo Srl, che si occupa di costruzioni, e dal febbraio 2023 l’Allupo Srl che ha sede proprio in via Corelli, nel numero civico successivo al Centro per il rimpatrio. Una dinamica che desta interesse: l’oggetto sociale della Allupo Srl è molto diversificato e oltre alla ristorazione in diverse forme (da asporto o somministrazione diretta) è inclusa anche la possibilità di “gestione di case di riposo per anziani, case famiglia per minori, Cas, Sprar, Cara e Cpr”.
La Martinina Srl ha altre due sedi attive: una a Palazzo San Gervasio, a Potenza, dove è arrivata seconda nella gara di assegnazione della nuova gestione del Cpr precedentemente dalla Engel, vinto da Officine Solidali nel marzo 2023, un’altra a Taranto, per la gestione del Cas Mondelli che accoglie minori stranieri non accompagnati. L’ultimo bilancio disponibile è del 31 dicembre 2021 con importi ridottissimi: appena 2.327 euro di utili “portati a nuovo”. A quella data ancora non era attivo il Cpr di via Corelli. C’è un terzo soggetto, però, nella “sfera Martinina” con ben altri risultati: si tratta della Engel Family Srl nata nell’ottobre 2020 con in “dotazione” 250mila euro derivanti da Engel Srl. Paola Cianciulli è nuovamente amministratrice e socia unica della società che si occupa di “locazione immobiliare di beni propri o in leasing” che al 31 dicembre 2021 (l’ultimo disponibile) conta un valore della produzione complessivo di poco superiore a 372mila euro.
Ai milioni di euro per la gestione se ne aggiungono altri (ne hanno parlato anche ActionAid e l’Università degli studi di Bari nel recente dettagliato rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri”) se si prende in considerazione, documenti ottenuti da Altreconomia alla mano, anche l’esborso dovuto alla costante manutenzione che si rende necessaria anche a causa delle ricorrenti proteste dei trattenuti. Da inizio 2020 al marzo 2023 in totale sono stati spesi più di 3,3 milioni di euro di cui il 58% è stato impiegato per lavori di adeguamento della struttura, manutenzione o interventi di ripristino dei luoghi danneggiati. Anche perché, spesso, le strutture già in partenza sono spesso fatiscenti: il 15 settembre 2021 Invitalia, l’Agenzia nazionale di proprietà del ministero dell’Economia (già attiva nel campo delle migrazioni sul “fronte libico”), ha pubblicato un bando da 11,3 milioni di euro su mandato del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, in seno al ministero dell’Interno, proprio per la manutenzione straordinaria dei Centri di permanenza per il rimpatrio di tutta Italia. Ad aggiudicarsi i lavori del Cpr di Milano in via Corelli -di cui abbiamo inserito le foto inserite nel progetto di ristrutturazione- è stata la Tek Infrastructure, società con sede a Palermo da 1,6 milioni di euro di fatturato nel 2021, con un ribasso del 20%. Ma tra i pagamenti effettuati dalla prefettura fino al marzo 2023 a fare da “padrona” sulle manutenzioni è la Masteri Srl -non è possibile escludere perciò un subappalto- con quasi 620mila euro ricevuti in tre anni.
Fiumi di denaro pubblico che richiederebbero controlli estremamente approfonditi. Dai verbali delle ispezioni prefettizie, però, non emerge una verifica dettagliata di quanto avviene nella struttura. In uno dei verbali, infatti, alla domanda “La fornitura degli effetti letterecci avviene regolarmente e secondo le tempistiche e modalità previste dallo Schema di Capitolato vigente?”, il funzionario della prefettura barra “Sì”. Ma nella nota integrativa sottostante, riportata in calce al verbale, si legge che “ai 25 trattenuti non viene richiesto di firmare la consegna/ritiro degli effetti letterecci”. Risultano perciò incomprensibili le basi su cui viene affermata l’effettiva consegna di questi oggetti.
Assente qualsiasi considerazione sul rispetto dei diritti fondamentali e sulla corretta esecuzione dei servizi presenti nell’offerta tecnica. “Il monitoraggio da parte della società civile si conferma essere uno strumento fondamentale. Se quanto emerso verrà confermato nelle sedi opportune viene da chiedersi chi controlla i controllori”, conclude l’avvocato Datena. Intanto, le claudicanti promesse di Martinina Srl hanno potuto circolare a piede libero, a differenza dei reclusi. Con il rischio che alla sofferenza si sia aggiunta la beffa del racconto di una quotidianità inesistente.
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Migranti, i sindaci delle grandi città contro il governo: «Scelte sbagliate che ledono i diritti: non si cancelli la protezione speciale»
I sindaci delle maggiori città italiane (di centrosinistra) di nuovo contro il governo Meloni. Oggetto della discussione, ma anche (e soprattutto) di preoccupazione: la gestione dell’immigrazione, in particolare, il sistema di accoglienza e la cancellazione della protezione speciale per i migranti. «Come sindaci, come amministratori, come cittadini che quotidianamente si impegnano nei territori per cercare di garantire le migliori risposte alle criticità che le nostre Comunità esplicitano, siamo molto preoccupati per le proposte in discussione relative alle modifiche all’unico sistema di accoglienza migranti effettivamente pubblico, strutturato, non emergenziale che abbiamo in Italia», si legge in un documento congiunto sul decreto Cutro che porta le firme dei sindaci di #Roma, #Roberto_Gualtieri, di #Milano #Beppe_Sala, di #Napoli #Gaetano_Manfredi, di #Torino #Stefano_Lorusso, di #Bologna, #Matteo_Lepore e di #Firenze, #Dario_Nardella. «La preoccupazione delle città – si legge nel documento – è massima a fronte di emendamenti proposti da alcuni partiti al DL 591 dopo le tante evidenze a cui il nostro ordinamento ha dovuto porre rimedio in questi anni». Secondo il fronte dei sindaci dem, l’esecutivo non deve «ragionare in ottima emergenziale: è sbagliato immaginare l’esclusione dei richiedenti asilo dal Sai, precludendo loro qualunque percorso di integrazione e una reale possibilità di inclusione ed emancipazione nelle nostre comunità».
«No alla cancellazione della #protezione_speciale»
Sala, Gualtieri, Manfredi, Lo Russo, Lepore e Nardella non condividono la cancellazione della protezione speciale, confermata anche ieri, sabato 15 aprile, dalla stessa premier Meloni durante il suo viaggio in Etiopia. Per i sindaci delle maggiori città si tratta, infatti, di «una misura presente in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, mentre circa il 50% dei migranti presenta vulnerabilità ed è in parte significativa costituito da nuclei familiari. Queste scelte, qualora adottate, non potrebbero che procurare infatti una costante lesione dei diritti individuali e innumerevoli difficoltà che le nostre comunità hanno già dovuto affrontare negli anni scorsi, a fronte di un importante aumento di cittadini stranieri condannati appunto all’invisibilità», si legge nel documento congiunto. Tutto questo – scrivono i primi cittadini – «mentre il sistema dei Cas, mai uscito da un assetto emergenziale, è saturo e purtroppo inadeguato ad accogliere già oggi chi proviene dai flussi della rotta mediterranea come da quella balcanica. Insufficiente, sia per numeri sia per le modalità d’accoglienza sia per i servizi di accompagnamento, protezione ed inclusione, assenti. E in questo quadro occorre ripensare anche il sistema di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati cui occorre applicare logiche distributive che evitino la concentrazione nelle sole grandi città», prosegue il documento dei sindaci.
«Le nostre città sono infatti impegnate già oggi, spesso con sforzi oltre i propri limiti e frequentemente oltre le proprie funzioni e competenze, a porre rimedio con risorse proprie alle manchevolezze di un sistema nazionale adeguato. La soppressione della possibilità di costruire un unico sistema di accoglienza pubblico, trasparente e professionale (come il Sai), garantendo percorsi dignitosi e tutelanti anche per le persone richiedenti protezione internazionale, non può comportare la nascita di nuovi grandi centri di accoglienza o detenzione nei nostri territori. La storia degli ultimi vent’anni di accoglienza in Italia dimostra chiaramente come modelli emergenziali, con standard qualitativi minimi e volti al mero “vitto e alloggio” abbiano procurato ferite enormi nelle nostre comunità e non abbiano garantito diritti esigibili alla popolazione rifugiata. E soprattutto abbiano fallito processi di inclusione efficaci e duraturi», prosegue il documento.
Le proposte
Dopo questa lunga premessa, i sindaci dem hanno poi avanzato delle proposte sul tema. «1. Sia rinforzata l’unitarietà del Sistema di Accoglienza italiano, valorizzando l’esperienza virtuosa del Sai, ovvero supportando attivamente la rete dei Comuni che quotidianamente affrontano in prima persona le sfide che i movimenti migratori in ingresso sottopongono ai nostri servizi, ai nostri territori e alle nostre comunità. Con un solo obiettivo: garantire percorsi di effettiva inclusione e tutela compatibili con i territori, evitando grandi centri di accoglienza, senza servizi e senza tutele, per tutti», scrivono. «2. Il Sai rimanga accessibile a richiedenti protezione e rifugiati». I primi cittadini chiedono poi che i Cas, ovvero i centri di accoglienza straordinari, vengano trasformati «in hub di prima accoglienza, dedicati alle procedure di identificazione e di screening sanitario per poi procedere a trasferimenti rapidi nel sistema di seconda accoglienza ed inclusione, appunto il Sai».
Al punto 4, i sei amministratori chiedono inoltre che «vengano ripristinati i criteri di riparto che il Piano nazionale di accoglienza aveva indicato. In assenza di azioni positive mirate o, peggio, con azioni sbagliate, le ricadute saranno infatti l’irregolarità diffusa o lunghi percorsi di ricorsi giudiziari che paralizzeranno le vite di molte persone inabilitandole e rendendole facili prede del lavoro nero, che invece non manca». Infine, «ci auspichiamo – continuano – che ancora una volta l’Italia non si contraddistingua per una regressione relativa al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: da troppi anni questo tema necessita di una riforma importante e strutturale, che miri ad un equilibrio nazionale del sistema di accoglienza imprescindibile dal coinvolgimento dei Comuni e dagli obiettivi di inclusione, protezione e con una diffusione omogenea a livello nazionale. Siamo convinti, insieme ad altre voci autorevoli, che dopo circa vent’anni e anche alla luce di alcuni temi di strutturale cambiamento demografico e sociale non si debba continuare a parlare di emergenza e che proprio in questo momento occorra la lungimiranza di aprire una discussione per scegliere una via legale all’immigrazione e alla regolarizzazione degli immigrati già presenti in Italia, anche attraverso il ricorso allo ius scholae, premessa a comunità solidali, capaci di proporre percorsi di vera emancipazione e autonomia alle persone nel pieno interesse del nostro Paese», concludono i sindaci.
▻https://www.open.online/2023/04/16/immigrazione-sindaci-grandi-citta-vs-governo-meloni
#Italie #villes-refuge #decreto_Cutro #villes #Naples #Turin #Milan #Rome #Florence #Bologne #résistance #protection_spéciale
]]>12 décembre 1969, Italie : l’attentat de Piazza Fontana, massacre d’État
▻https://journal.lutte-ouvriere.org/2020/01/07/italie-lattentat-de-piazza-fontana-massacre-detat_139356.htm
[...] Giuseppe Pinelli, un cheminot anarchiste, fut arrêté et interrogé pendant trois jours dans les bureaux de la préfecture de police de Milan. Il y mourut en tombant d’une fenêtre du cinquième étage, la police prétendant contre toute vraisemblance qu’il s’était suicidé. Un autre militant anarchiste, Pietro Valpreda, accusé d’avoir déposé la bombe, était inculpé.
Un mois plus tard cependant, la version de la police accusant les anarchistes était remise en cause. Guido Lorenzon, secrétaire d’une section de la très respectable Démocratie chrétienne, pilier du gouvernement et du système parlementaire, se présenta en effet aux carabiniers pour rapporter ce que l’un de ses amis, militant d’extrême droite, lui avait confié. Le groupe auquel celui-ci appartenait envisageait une série d’attentats afin de créer un climat politique propice à un tournant autoritaire et à l’instauration d’une dictature militaire.
Il fallut plusieurs mois pour que son témoignage soit pris en compte et que Giovanni Ventura, le néofasciste qu’il dénonçait, soit arrêté avec un complice, pour avoir organisé l’attentat. Et ce n’est que le 23 février 1972 que s’ouvrit le procès, où comparaissait, aux côtés des militants néofascistes, un agent des services secrets, démontrant l’implication d’une partie de l’appareil d’État dans l’attentat.
Et c’est bien cette implication de l’appareil d’État qui explique le parcours particulièrement tortueux que prit la justice. Le procès, prévu à Rome, fut d’abord déplacé à Catanzaro, au sud du pays. Les accusés y furent acquittés pour insuffisance de preuves. Un second procès les condamna, avant qu’un troisième ne les acquitte à nouveau. Entre deux verdicts, les néofascistes réussirent à fuir le pays. En 1987, l’anarchiste Valpreda fut finalement définitivement acquitté, mais aussi les néofascistes Freda et Ventura, ainsi que l’agent des services secrets. En 2005, 36 ans après l’attentat, la Cour de cassation classa définitivement l’affaire, tout en l’attribuant officiellement à l’organisation fasciste Ordine Nuovo. [...]
Nella città delle piattaforme
Sullo sfondo del lavoro precario del #delivery ci sono parchi, piazze e marciapiedi: i luoghi di lavoro dei rider. Dimostrano la colonizzazione urbana operata dalle piattaforme
Non ci sono i dati di quanti siano i rider, né a Milano, né in altre città italiane ed europee. L’indagine della Procura di Milano che nel 2021 ha portato alla condanna per caporalato di Uber Eats ha fornito una prima stima: gli inquirenti, nel 2019, avevano contato circa 60mila fattorini, di cui la maggioranza migranti che difficilmente possono ottenere un altro lavoro. Ma è solo una stima, ormai per altro vecchia. Da allora i rider hanno ottenuto qualche piccola conquista sul piano dei contratti, ma per quanto riguarda il riconoscimento di uno spazio per riposarsi, per attendere gli ordini, per andare in bagno o scambiare quattro chiacchiere con i colleghi, la città continua a escluderli. Eppure i rider sembrano i lavoratori e le lavoratrici che più attraversano i centri urbani, di giorno come di notte, soprattutto a partire dalla pandemia. Dentro i loro borsoni e tra le ruote delle loro bici si racchiudono molte delle criticità del mercato del lavoro odierno, precario e sempre meno tutelato.
Esigenze di base vs “capitalismo di piattaforma”
Per i giganti del delivery concedere uno spazio urbano sembra una minaccia. Legittimerebbe, infatti, i fattorini come “normali” dipendenti, categoria sociale che non ha posto nel “capitalismo di piattaforma”. Questa formula definisce l’ultima evoluzione del modello economico dominante, secondo cui clienti e lavoratori fruiscono dei servizi e forniscono manodopera solo attraverso un’intermediazione tecnologica.
L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi “più efficienti”. Per esempio – in base al fatto che i rider si muovono per lo più con biciclette dalla pedalata assistita, riconducibili a un motorino – le app di delivery suggeriscono strade che non sempre rispondono davvero alle esigenze dei rider. Sono percorsi scollati dalla città “reale”, nei confronti dei quali ogni giorno i lavoratori oppongono una resistenza silenziosa, fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti.
Le piattaforme non generano valore nelle città unicamente offrendo servizi, utilizzando tecnologie digitali o producendo e rivendendo dati e informazioni, ma anche organizzando e trasformando lo spazio urbano, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare, in una sorta di area Schengen delle consegne. Fanno in modo che gli spazi pubblici della città rispondano sempre di più a un fine privato. Si è arrivati a questo punto grazie alla proliferazione incontrollata di queste società, che hanno potuto disegnare incontrastate le regole alle quali adeguarsi.
Come esclude la città
Sono quasi le 19, orario di punta di un normale lunedì sera in piazza Cinque Giornate, quadrante est di Milano. Il traffico è incessante, rumoroso e costeggia le due aiuole pubbliche con panchine dove tre rider si stanno riposando. «Siamo in attesa che ci inviino un nuovo ordine da consegnare», dicono a IrpiMedia in un inglese accidentato. «Stiamo qui perché ci sono alberi che coprono dal sole e fa meno caldo. Se ci fosse un posto per noi ci andremmo», raccontano. Lavorano per Glovo e Deliveroo, senza un vero contratto, garanzie né un posto dove andare quando non sono in sella alla loro bici. Parchi, aiuole, marciapiedi e piazze sono il loro luogo di lavoro. Gli spazi pubblici, pensati per altri scopi, sono l’ufficio dei rider, in mancanza di altro, a Milano come in qualunque altra città.
In via Melchiorre Gioia, poco lontano dalla stazione Centrale, c’è una delle cloud kitchen di Kuiri. È una delle società che fornisce esercizi commerciali slegati dalle piattaforme: cucine a nolo. Lo spazio è diviso in sei parti al fine di ospitare altrettante cucine impegnate a produrre pietanze diverse. I ristoratori che decidono di affittare una cucina al suo interno spesso hanno dovuto chiudere la loro attività durante o dopo la pandemia, perché tenerla in piedi comportava costi eccessivi. Nella cloud kitchen l’investimento iniziale è di soli 10mila euro, una quantità molto minore rispetto a quella che serve per aprire un ristorante. Poi una quota mensile sui profitti e per pagare la pubblicità e il marketing del proprio ristorante, attività garantite dall’imprenditore. Non si ha una precisa stima di quante siano queste cucine a Milano, forse venti o trenta, anche se i brand che le aprono in varie zone della città continuano ad aumentare.
Una persona addetta apre una finestrella, chiede ai rider il codice dell’ordine e gli dice di aspettare. Siccome la cloud kitchen non è un “luogo di lavoro” dei rider, questi ultimi non possono entrare. Aspettano di intravedere il loro pacchetto sulle sedie del dehors riservate ai pochi clienti che ordinano da asporto, gli unici che possono entrare nella cucina. I rider sono esclusi anche dai dark store, quelli che Glovo chiama “magazzini urbani”: vetrate intere oscurate alla vista davanti alle quali i rider si stipano ad attendere la loro consegna, sfrecciando via una volta ottenuta. Nemmeno di questi si conosce il reale numero, anche se una stima realistica potrebbe aggirarsi sulla ventina in tutta la città.
Un posto «dal quale partire e tornare»
Luca, nome di fantasia, è un rider milanese di JustEat con un contratto part time di venti ore settimanali e uno stipendio mensile assicurato. La piattaforma olandese ha infatti contrattualizzato i rider come dipendenti non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi europei. Il luogo più importante nella città per lui è lo “starting point” (punto d’inizio), dal quale parte dopo il messaggio della app che gli notifica una nuova consegna da effettuare. Il turno di lavoro per Luca inizia lì: non all’interno di un edificio, ma nel parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana; uno spazio trasformato dalla presenza dei rider: «È un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario», dice.
Nel giardino pubblico di via Thaon de Revel, con un dito che scorre sul telefono e il braccio sulla panchina, c’è un rider pakistano che lavora nel quartiere. L’Isola negli anni è stata ribattezzata da molti «ristorante a cielo aperto»: negli ultimi 15 anni il quartiere ha subìto un’ingente riqualificazione urbana, che ha aumentato i prezzi degli immobili portando con sé un repentino cambiamento sociodemografico. Un tempo quartiere di estrazione popolare, ormai Isola offre unicamente divertimento e servizi. Il rider pakistano è arrivato in Italia dopo un mese di cammino tra Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia e Ungheria, «dove sono stato accompagnato alla frontiera perché è un paese razzista, motivo per cui sono venuto in Italia», racconta. Vive nel quartiere con altri quattro rider che lavorano per Deliveroo e UberEats. I giardini pubblici all’angolo di via Revel, dice uno di loro che parla bene italiano, sono «il nostro posto» e per questo motivo ogni giorno si incontrano lì. «Sarebbe grandioso se Deliveroo pensasse a un posto per noi, ma la verità è che se gli chiedi qualunque cosa rispondono dopo tre o quattro giorni, e quindi il lavoro è questo, prendere o lasciare», spiega.
Girando lo schermo del telefono mostra i suoi guadagni della serata: otto euro e qualche spicciolo. Guadagnare abbastanza soldi è ormai difficile perché i rider che consegnano gli ordini sono sempre di più e le piattaforme non limitano in nessun modo l’afflusso crescente di manodopera. È frequente quindi vedere rider che si aggirano per la città fino alle tre o le quattro del mattino, soprattutto per consegnare panini di grandi catene come McDonald’s o Burger King: ma a quell’ora la città può essere pericolosa, motivo per il quale i parchi e i luoghi pubblici pensati per l’attività diurna sono un luogo insicuro per molti di loro. Sono molte le aggressioni riportate dalla stampa locale di Milano ai danni di rider in servizio, una delle più recenti avvenuta a febbraio 2022 all’angolo tra piazza IV Novembre e piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Sul livello di insicurezza di questi lavoratori, ancora una volta, nessuna stima ufficiale.
I gradini della grande scalinata di marmo, all’ingresso della stazione, cominciano a popolarsi di rider verso le nove di sera. Due di loro iniziano e svolgono il turno sempre insieme: «Siamo una coppia e preferiamo così – confessano -. Certo, un luogo per riposarsi e dove andare soprattutto quando fa caldo o freddo sarebbe molto utile, ma soprattutto perché stare la sera qui ad aspettare che ti arrivi qualcosa da fare non è molto sicuro».
La mozione del consiglio comunale
Nel marzo 2022 alcuni consiglieri comunali di maggioranza hanno presentato una mozione per garantire ai rider alcuni servizi necessari allo svolgimento del loro lavoro, come ad esempio corsi di lingua italiana, di sicurezza stradale e, appunto, un luogo a loro dedicato. La mozione è stata approvata e il suo inserimento all’interno del Documento Unico Programmatico (DUP) 2020/2022, ossia il testo che guida dal punto di vista strategico e operativo l’amministrazione del Comune, è in via di definizione.
La sua inclusione nel DUP sarebbe «una presa in carico politica dell’amministrazione», commenta Francesco Melis responsabile Nidil (Nuove Identità di Lavoro) di CGIL, il sindacato che dal 1998 rappresenta i lavoratori atipici, partite Iva e lavoratori parasubordinati precari. Melis ha preso parte alla commissione ideatrice della mozione. Durante il consiglio comunale del 30 marzo è parso chiaro come il punto centrale della questione fosse decidere chi dovesse effettivamente farsi carico di un luogo per i rider: «È vero che dovrebbe esserci una responsabilità da parte delle aziende di delivery, posizione che abbiamo sempre avuto nel sindacato, ma è anche vero che in mancanza di una loro risposta concreta il Comune, in quanto amministrazione pubblica, deve essere coinvolto perché il posto di lavoro dei rider è la città», ragiona Melis. Questo punto unisce la maggioranza ma la minoranza pone un freno: per loro sarebbe necessario dialogare con le aziende. Eppure la presa di responsabilità delle piattaforme di delivery sembra un miraggio, dopo anni di appropriazione del mercato urbano. «Il welfare metropolitano è un elemento politico importante nella pianificazione territoriale. Non esiste però che l’amministrazione e i contribuenti debbano prendersi carico dei lavoratori delle piattaforme perché le società di delivery non si assumono la responsabilità sociale della loro iniziativa d’impresa», replica Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano. L’auspicio in questo momento sembra comunque essere la difficile strada della collaborazione tra aziende e amministrazione.
Tra la primavera e l’autunno 2020, momento in cui è diventato sempre più necessario parlare di sicurezza dei lavoratori del delivery in città, la precedente amministrazione comunale aveva iniziato alcune interlocuzioni con CGIL e Assodelivery, l’associazione italiana che raggruppa le aziende del settore. Interlocuzioni che Melis racconta come prolifiche e che avevano fatto intendere una certa sensibilità al tema da parte di alcune piattaforme. Di diverso avviso era invece l’associazione di categoria. In quel frangente «si era tra l’altro individuato un luogo per i rider in città: una palazzina di proprietà di Ferrovie dello Stato, all’interno dello scalo ferroviario di Porta Genova, che sarebbe stata data in gestione al Comune», ricorda Melis. La scommessa del Comune, un po’ azzardata, era che le piattaforme avrebbero deciso finanziare lo sviluppo e l’utilizzo dello spazio, una volta messo a bando. «Al piano terra si era immaginata un’area ristoro con docce e bagni, all’esterno tensostrutture per permettere lo stazionamento dei rider all’aperto, al piano di sopra invece si era pensato di inserire sportelli sindacali», conclude Melis. Lo spazio sarebbe stato a disposizione di tutti i lavoratori delle piattaforme, a prescindere da quale fosse quella di appartenenza. Per ora sembra tutto fermo, nonostante le richieste di CGIL e dei consiglieri comunali. La proposta potrebbe avere dei risvolti interessanti anche per la società che ne prenderà parte: la piattaforma che affiggerà alle pareti della palazzina il proprio logo potrebbe prendersi il merito di essere stata la prima, con i vantaggi che ne conseguono sul piano della reputazione. Sarebbe però anche ammettere che i rider sono dipendenti e questo non è proprio nei piani delle multinazionali del settore. Alla fine dei conti, sembra che amministrazione e piattaforme si muovano su binari paralleli e a velocità diverse, circostanza che non fa ben sperare sul futuro delle trattative. Creare uno spazio in città, inoltre, sarebbe sì un primo traguardo, ma parziale. Il lavoro del rider è in continuo movimento e stanno già nascendo esigenze nuove. Il rischio che non sia un luogo per tutti , poi, è concreto: molti di coloro che lavorano nelle altre zone di Milano rischiano di esserne esclusi. Ancora una volta.
▻https://irpimedia.irpi.eu/nella-citta-delle-piattaforme
#ubérisation #uber #géographie_urbaine #urbanisme #villes #urban_matters #espace_public #plateformes_numériques #Milan #travail #caporalato #uber_eats #riders #algorithme #colonisation_urbaine #espace_urbain #Glovo #Deliveroo #cloud_kitchen #Kuiri #dark_store #magazzini_urbani #JustEat #starting_point
]]>Enfants dans l’espace public : enquête sur une disparition - URBIS le mag
▻https://www.urbislemag.fr/enfants-dans-l-espace-public-enquete-sur-une-disparition-billet-642-urbis
Où sont passés les enfants ? Dans les rues de nos villes, combien en croise-t-on, cartables sur le dos, et rentrant de l’école ? Combien sont-ils à avoir l’autorisation parentale de jouer dans la rue ? De faire quelques courses dans un magasin proche de leur domicile ? Bien peu. Et même, de moins en moins. Clément Rivière, maître de conférences en sociologie à l’université de Lille, s’est penché sur la façon dont les parents du début du 21ème siècle encadrent les pratiques de leurs enfants dans l’espace public. Récemment publié aux Presses universitaires de Lyon, son travail met en lumière les mécanismes à l’œuvre dans la fabrication des « enfants d’intérieur ». De quoi donner à réfléchir aux urbanistes et plus largement, à tous ceux qui travaillent à la conception et à l’aménagement d’espaces publics pour tous.
]]>Présidentielle 2022 : Débrief Macron - LePen avec Olivier Delamarche / Sylvain TIGER
▻https://www.crashdebug.fr/presidentielle-2022-debrief-macron-lepen-avec-olivier-delamarche-sylvain-
Bonsoir, 25 avril, ’The Day After’, et les debriefings commencent à tomber, et on écoute ici Olivier Delamarche et Sylvain Tiger, cela ne vas pas forcément calmer vos nerfs, mais ça fait du bien de voir qu’on est d’accord avec d’autres qui tirent les mêmes conclusions, et qu’in fine nous ne sommes pas si isolés..........
la #france annonce la livraison de canon #Cesar et de missiles anti-chars #Milan à l’#Ukraine️ 2mn pour comprendre sur @franceinfo avec @MartinBaumer @armeedeterre #artillery pic.twitter.com/vwobBnZXGY — Jean Chamoulaud (@jeanchamoulaud) April 23, 2022
Le débrief du deuxième tour des élections présidentielles 2022 avec Olivier Delamarche et Sylvain TIGER a été explosif !
Emmanuel Macron a remporté les élections face à Marine Le Pen. Nos 2 compères (...)
]]>▻https://www.franceinter.fr/emissions/l-invite-de-6h20/l-invite-de-6h20-du-mardi-28-septembre-2021
Le sommet des jeunes pour le climat posé sur la scène climatique depuis Milan vient souligner un lourd clivage entre l’expérience et les formes jeunistes de l’imagination prospective au service de l’avenir - est ce un rapport de force ? . Nathan Metenier , conseiller climat du secrétariat Onu , organisateur de l’événement milanais, l’avoue sans vergogne dans ses raisons d’être à France inter : l’ong qu’il préside Youth & environment Europe à travers 50 associations a pour objectif d « aider les jeunes à se battre contre le gouvernement » .
N’a t il réellement rien de mieux à faire ?
#precop 26 #Milan #Méténier
Escalope à la milanaise
▻https://www.cuisine-libre.org/escalope-a-la-milanaise
Préparer la chapelure : sur une planche à découper en bois casser les biscottes (2 ou 3 pour commencer) en petits morceaux puis écraser à l’aide d’une bouteille en verre en la faisant rouler dessus tout en appuyant. Battre l’œuf dans une assiette creuse. Répartir la farine sur une autre assiette. Prendre une escalope, la passer (des 2 côtés) dans la farine, la passer dans l’œuf puis l’allonger d’un coté sur la chapelure. Pour que la chapelure colle bien à l’escalope, appuyer sur celle-ci avec la paume de la…
#Veau, #Biscotte, #Steaks, #Lombardie / #Sans lactose, Sauté
#Sauté #milan
The weekend COVID-19 came to AIPAC – and changed the Jewish World forever - Haaretz
▻https://www.haaretz.com/us-news/EXT.premium.EXT-STATIC-the-weekend-covid-19-changed-the-jewish-world-foreve
On March 1, 2020, the coronavirus was barely making headlines in the United States and Israel. Both countries had more pressing matters. In Israel, which counted just 10 confirmed cases, the media was focused on the next day’s general election. In Washington, D.C. it was the Super Tuesday primary, not America’s 65 confirmed COVID-19 cases, that dominated the headlines. The virus was far away and the American capital felt safe – safe enough to host a gathering of more than 18,000 people, including dozens of members of Congress, in the largest annual Jewish event in the United States. But it would be two other, unheralded guests who would prove the most influential.
Every year, supporters of Israel locally and globally gather for three days in Washington’s main convention center for the AIPAC Policy Conference – a display of political force just a stone’s throw away from Capitol Hill. The 2020 conference featured speeches by then-Vice President Mike Pence, House Majority Leader Steny Hoyer and a video address from Prime Minister Benjamin Netanyahu, who stayed home because of the election.
Two anonymous participants from a suburb of New York, attending the event as part of a small synagogue delegation, managed to dramatically change the agenda of the American Jewish community within days. It wasn’t what they did at the event, but what they unknowingly brought with them: the virus.
suivi, avec animation grand format, d’un des premiers événements disséminateurs états-uniens, il y a un an : la conférence annuelle de l’AIPAC
]]>Seeing the city with #Nausicaa_Pezzoni, on mapping perceptions of European cities
1. Could you describe your project on mapping perceptions of European cities by people with migration backgrounds, and what motivated you to initiate these projects?
The project of mapping the city through the hand drawings of migrants aims at exploring an emerging issue in the contemporary governance of a city that is increasingly inhabited by transitory populations, namely, how its new inhabitants relate to the urban landscape. I have chosen to focus on people with migration backgrounds as exemplary of this transitory living, and of a relationship with the city more characterized by assigning meaning to urban spaces rather than appropriating them.
In anthropology and sociology, the literature on the meaning of life as related to movement and instability is extensive and by now consolidated. From Bauman’s liquid modernity to Sennett’s exile man, to Attalì’s nomadic man, some descriptions have taken on the role of mapping our era.
In urban planning, however, movement and temporariness remain under explored. Planning tools are still oriented towards permanence. Moving populations urge urban planning to update this consolidated paradigm based on permanence. The first motivation to initiate my research sprang from this consideration.
2. What motivated you to choose the medium of cognitive maps to open up a dialogue with research participants?
I started from the hypothesis that rethinking the city, and any attempt to consider temporary living in urban planning, cannot be separated from the observation and experience of people who live under the condition of transiency. How migrants represent the city also provides an opportunity to listen to people who are at the same time “guests” of the new city and are architects of its transformation.
I have chosen the medium of cognitive maps as the most adept instrument to bring to the surface the lived space of a transitory living, both in the mind of those who draw and in the resulting drawings.
Giving the pencil to the newcomers means giving them the possibility to propose their ideas of the city through its representation, as the representation itself is expected to produce a particular vision of reality, in contrast to a scientific, objectifying vision, which sees the map as a reflection of reality. It is a reason linked to the need to introduce new tools in order to read the contemporary city, as well as to expand the audience of subjects who can express an idea about the city.
Starting from the question asked by Kevin Lynch sixty years ago to deepen his study on “The image of the city” (Lynch, 1960), “How does a stranger build an image of a new city?”, I have proposed an empirical research using and adapting the medium of mental maps first introduced by Lynch. Indeed, the question suggested by Lynch seemed to be very current in the city nowadays and had never been answered since it was asked.
3. Based on your research, what do European cities represent for migrants?
European cities represent the landfall territory, the threshold to cross and a place to live in. They also represent a place to build a new idea of the city itself, and of the society that could be. In the framework of an epochal migration crisis, my research took on an ethical aspect within urban policies. Maps become, in this context, tools to try and describe European cities differently from how they have always been represented and conceived. A migratory phenomenon of unthinkable proportions until ten years ago found in Europe inhospitable land, unable not only to host the populations that press on its borders, but also to see their possible contribution in the wider horizon of ideation and planning. As such, maps represent a city knowledge device in terms of building of a new awareness of the city itself.
A new project was conceived, “Migrants mapping Europe”, aimed at applying the method introduced in Milan to other Italian and European cities, starting with the exploration of Bologna and Rovereto. This is the second phase of research, aimed at incrementally building a European map of the present time that brings to surface the meaning and forms of the first landing and of the transitory living conditions in the territories of contemporaneity.
4. What were your expectations at the beginning of your project? Have they changed whilst carrying out research? If so, how?
At the beginning of the research project, I did not expect the reaction received from of almost all the participants who were asked to draw their cognitive maps. However, the initial disorientation, disbelief, incomprehension, and often the interviewee’s resistance to draw, progressively disappeared. It was replaced by the surprising acceptance of that improbable challenge, which induced 150 migrants to a creative observation of the city, fully participating in a project that had no purpose that was immediately evident.
What I understood and changed whilst carrying out my research is the necessity to project the interviewee into the current experience within the landing city, without looking back towards their past experiences, but rather focussing on their immanent condition.
When, at the beginning of the survey, some participants were asked to speak about their backgrounds, their migration journey, their past, before drawing the map, those migrants found it impossible to draw any map, at all. Looking at the city they currently live in was actually the only way for them to be able to draw. It has proved to be a determining factor for the actual creation of the maps, and it has further convinced me that it was much more critical to invite participants to think about their current living conditions, rather than asking them to look back to their personal history.
5. How do you ensure inclusion and participation in your projects? And how do you create a safe space for individuals to share their connection to the city as well as their personal history?
I try to speak about the kind of participation involved in this experiment, and about its significance from the newcomers’ point of view. Amidst widespread and growing efforts to conduct participatory research, this survey has a particular goal, that is to offer a possibility for migrants to appropriate the city by recognizing their relationship to the urban space. Through their drawings of the map, they develop their sense of belonging to the city. The representation of the urban landscape drawn by migrants who are trying to find their bearings in the city is an act of self-organization within the landscape. The action of imagining and drawing the urban geography corresponds to the act of mentally inhabiting the city and in this way taking possession and transforming it from a space of estrangement into a space which is more articulated and complex, where even a person who has recently arrived can conceptualize and live within it. This is the reason why it is important for migrants to look at the city and not to look back at their history. We can say that the exercise of mapping makes explicit the act of taking to oneself to a space which, no longer about an estranging experience, becomes a space open to unpredictable inhabiting conditions.
There is an ethical reason for this kind of participatory process. It is the opportunity to listen to participants’ point of view with the intention of building a level of equality between the expert and the disorientated gaze: It is an attempt to overcome the prerogative of power over the other that has always divided those who belong—to a territory, to a right, to a system—from those who are excluded.
6. Could you share three maps that convey a particularly strong visualisation of how people with migration backgrounds perceive cities of transit?
I chose one map of Bologna, one of Rovereto and one of Milan, which are the first three Italian cities included into the project “Migrants mapping Europe”. These surveys are going to be published in the second edition of my book with the title “La città sradicata. L’idea di città attraverso lo sguardo e il segno dell’altro” [The Uprooted City] (2020, O barra O edizioni, Milano)
http://journal.urbantranscripts.org/wp-content/uploads/2020/05/in_np_bologna_mahamadou_mali_750px.jpg http://journal.urbantranscripts.org/wp-content/uploads/2020/05/in_np_rovereto_masane_750px.jpg http://journal.urbantranscripts.org/wp-content/uploads/2020/05/in_np_milano_ako_togo_750px.jpg 7. Your projects have investigated and voiced migrants’ perceptions of several cities, how were these settings similar and different from one another?
In all the cities so far involved, the sample of interviewees included people from all over the world and who had not yet settled in the city. Thus, they had a mobile point of view, characterized mainly by instability.
The instruments used for each interview were a sheet of A4 paper, pens, crayons and markers, which were left on the table available to the interviewees to choose the most appropriate graphical tools to draw their map. On the back of the map, newcomers were asked to write their name, age, country of origin, the location of their hometown, and duration of stay in that city.
The interview also included information, if participants were willing to share, on the migratory path and the current working situation, to build a more complex picture of their condition. However, as I was saying earlier, the survey did not focus on the reasons for migration, nor the living conditions in the original country; the idea was to bring the newcomer directly to his current condition, to open up a reflection on the arrival city.
The locations of interviews were different in the various cities, depending on the context in which the research originated. While in Milan they were chosen to reflect the heterogeneity of places where newcomers have their main activities, in the other Italian cities, interviews took place where the group of participants involved lived (Bologna) or where they attended school (Rovereto). In Paris, a group of people with migration backgrounds was interviewed at the École Normale Supérieure where they were attending an integration program with local associations.
8. Who would you say is the target audience of your work and how has your work been received so far?
At the beginning I thought I would address my work to urban planners. In fact, I used an interdisciplinary method to investigate the city, other disciplines were interested in opening up a dialogue with my research. Serveral discussions, in Italy and abroad, found food for thought and fertile ground for cross pollination in the areas of geography, anthropology, sociology, and the sciences of representation, in addition to the field of urban planning. The workshops I developed in the different cities are the results of these cross-pollinations . Recently, I took part in a seminar of postcolonial studies and it was on this occasion that I conducted the last workshop with migrants in Paris.
9. What are going to be the next developments of your projects?
The next developments of “The Uprooted City” are to map new cities, with the idea of changing the point of view on Europe as a whole. My hypothesis now is to propose an idea of Europe whose identity is not predefined. It is the possibility that its representation could be transformed by the observation of migrants, and it is the idea and the wish that Europe may be able to transform itself in relation to the foreigner who is coming. It is a hope that migrants could induce each city to represent itself with another map, in a framework oriented not to speak in the name of the other, but to allow the other to lead the narrative of the city.
▻http://journal.urbantranscripts.org/article/seeing-the-city-with-nausicaa-pezzoni-on-mapping-perceptio
#urbanisme #villes #géographie_urbaine #visualisation #cartes_mentales #cartographie #migrations #instabilité #planification_urbaine #permanence #mobilité #expérience #représentations #Kevin_Lynch #Milan #cartographie_participative #appartenance #dessin #Bologna #Rovereto
–-> la référence à l’afflux sans précédent de migrants en Europe et la « crise migratoire » semblent vraiment ne pas réussir à s’effacer, même pour les personnes avec les meilleures intentions du monde :
In the framework of an epochal migration crisis, my research took on an ethical aspect within urban policies. Maps become, in this context, tools to try and describe European cities differently from how they have always been represented and conceived. A migratory phenomenon of unthinkable proportions until ten years ago found in Europe inhospitable land, unable not only to host the populations that press on its borders, but also to see their possible contribution in the wider horizon of ideation and planning.
ping @reka
«Come eri vestita? » Gli abiti delle vittime di stupro in mostra - Tiscali Milleunadonna
_La mostra «What Were You Wearing?» è stata organizzata in una scuola del Kansas dal Centro prevenzione e formazione sessual_ e
▻https://www.milleunadonna.it/attualita/articoli/abiti-vittime-stupro-mostra-stereotipi
A nessuna vittima di un reato si chiede cosa indossasse al momento dell’offesa, solo alle donne stuprate. Una delle prime domande che le sventurate si sentono porgere da chi raccoglie le loro testimonianze è “com’era vestita?”. E proprio questo assurda richiesta è diventata il titolo di una mostra allestita dagli studenti dell’Università del Kansas, nel Midwest degli Stati Uniti. Ma “What Were You Wearing?” è un tale cazzotto allo stomaco che sta facendo il giro del mondo. Le immagini di quegli abiti “da stupro” stanno colpendo la coscienza di tanti anche grazie alle condivisioni sui social.
I racconti raccolti dagli studenti
Si tratta di 18 vestiti, esposti ognuno accanto a un pannello con una storia (vera) di poche righe raccontata da una donna che ha subito abusi sessuali e che indossava un vestito proprio simile a quello quand’è successo. La mostra, voluta dalla direttrice dell’Istituto universitario per la prevenzione e l’educazione sessuale Jen Brockman, è fatta di pantaloni, maglioni, vestiti, magliette di uso comune. Non sono i «reperti» dei casi di violenze indossati davvero dalle vittime, li hanno portati gli studenti sulla base dei racconti raccolti, in alcuni casi, parlando direttamente con le vittime.
I cartelli a fianco agli abiti
«T-shirt e jeans. È successo tre volte nella mia vita, con tre persone diverse. E ogni volta avevo addosso t-shirt e jeans», racconta uno dei cartelli. «Un vestitino carino. Mi è piaciuto appena l’ho visto (...) volevo solo divertirmi quella notte (...) Mi ricordo di come strisciavo sul pavimento cercando quello stupido vestito», è la storia legata a un abitino rosso. «Un prendisole. Mesi dopo mia madre, in piedi davanti al mio armadio, si sarebbe lamentata del fatto che non lo avevo più messo. Avevo sei anni», rivela un’ex bambina dall’infanzia violata.
Il pregiudizio che non muore
Dicono tanto quei 18 vestiti e prima di tutto dicono che l’abito non conta nulla, che non importa cosa indossi: lo stupratore abusa di te a prescindere da cosa tu abbia messo su quel giorno maledetto. Potevi avere la tuta ed essere coperta dalla testa ai piedi perché stavi andando a correre al parco, potevi avere la minigonna perché stavi andando a ballare, potevi avere i jeans e una maglietta perché stavi semplicemente andando a farti i fatti tuoi. Oppure potevi avere un prendisole sbracciato perché eri una bambina di sei anni e quel giorno faceva caldo. La mostra parla di questo: di uno stereotipo duro a morire secondo il quale la vittima di uno stupro potrebbe avere provocato il suo aguzzino con un atteggiamento equivoco, con una abbigliamento “invitante”: una delle tante versione del “te la sei cercata” che ancora vige soprattutto nelle aule dei tribunali dove, immancabilmente, la linea difensiva dei legali degli stupratori è sempre la stessa: la vittima era consenziente.
]]>France attacks religion secularism radicalism blasphemy
–-> article retiré:
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Copié ici:
Another string of jihadist attacks has shaken France. The most recent, at a church in Nice, left three people dead, only two weeks after a teacher was beheaded on the outskirts of Paris after he displayed cartoons of the prophet Mohammed in his classroom.
Why is France targeted, over and over again, by violent extremists? Germany, England, Italy and even Denmark — where cartoons of controversial Mohammed were first published — have not seen comparable violence.
The reason is simple: France’s extreme form of secularism and its embrace of blasphemy, which has fueled radicalism among a marginalized minority.
Specifically, the latest round of violence follows the decision earlier this month by the satirical newspaper Charlie Hebdo to mark the beginning of a trial over a murderous attack on its newsroom in 2015 by republishing the blasphemous cartoons of Mohammed that prompted the original assault.
This duo — radical secularism and religious radicalism — have been engaged in a deadly dance ever since.
Traditionally, French secularism requires the state to be neutral and calls for respect for religions in the public space, in order to avoid the rise of religious intolerance.
In modern times, however, it has become something far more extreme. The moderate secularism that prevailed as recently as the 1970s has been replaced with something more like a civil religion.
It’s a belief system that has its own priests (government ministers), its pontiff (the president of the republic), its acolytes (intellectuals) and its heretics (anyone who calls for a less antagonistic attitude toward Islam is rejected and branded an “Islamo-leftist”).
One of the defining features of this new secularism is the promotion of religious blasphemy — and, in particular, its extreme expression in the form of caricatures like those of Mohammed.
This embrace was on full display following the murder of the teacher who showed cartoons of Mohammed in his classes, when many French intellectuals came out in praise of blasphemy and defended the government’s unequivocal defense of the right to free expression.
They should have considered their words more carefully.
In Western Europe the right to blaspheme is legally recognized. But it is one thing to protect the freedom to blaspheme and another to enthusiastically exhort blasphemy, as is the case in France.
Blasphemy is a non-argumentative and sarcastic form of free speech. It should be used, at best, with moderation in a country where between 6 percent and 8 percent of the population is Muslim, most of whose parents or grandparents emigrated from French colonies in North Africa.
Defenders of blasphemy invoke freedom of expression, but what blasphemy does, in fact, is trap France in a vicious cycle of reactivity to jihadist terror that makes it less free and less autonomous.
The immoderate use of caricatures in name of the right to blaspheme ultimately undermines public debate: It stigmatizes and humiliates even the most moderate or secular Muslims, many of whom do not understand French secularists’ obsessive focus on Islam, the veil, daily prayers or Islamic teachings.
The result is a harmful cycle: provocation, counter-provocation, and a society’s descent into hell. As French secularism has become radicalized, the number of jihadist attacks in the country has multiplied.
French secularists claim to be fighting for freedom of expression. As they do so, innocent people are dying, Muslims around the world are rejecting French values and boycotting the country’s products, and French Muslims are facing restrictions on their freedom of expression in the name of thwarting Islamist propaganda.
France is paying a heavy price for its fundamentalist secularism, both inside and outside its own borders.
▻https://www.1news.info/european-news/france-s-dangerous-religion-of-secularism-798875
#Farhad_Khosrokhavar #terrorisme #religion #sécularisme #blasphème #extrémisme #France #violence #minorité_marginalisée #radicalisme #radicalisation #Charlie_Hebdo #radicalisme_religieux #sécularisme_radical #religion_civile #islamo-gauchisme #caricatures #liberté_d'expression #débat_public #provocation #contre-provocation #sécularisme_fondamentaliste
Fil de discussion autour de #ORS en #Italie
#privatisation #business #migrations #hébergement #logement #multinationale #accueil (well...) #réfugiés #demandeurs_d'asile #asile #CPR #rétention #détention_administrative
Ajouté à la métaliste sur ORS :
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Sous-#métaliste sur les #villes-refuge en #Europe...
#ville-refuge #migrations #asile #réfugiés #solidarité
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#Paris-Milan : Carla extradée, une première lettre
▻https://fr.squat.net/2020/08/26/paris-milan-carla-extradee-une-premiere-lettre
Mardi 25 août 2020, Carla, arrêtée le 26 juillet dernier, a finalement été extradée en #Italie. Elle est désormais incarcérée à la #prison de Vigevano, près de #Milan, en module AS3 (alta sicurezza 3). Cette section d’isolement haute sécurité est initialement réservée aux détenu-es qui sont accusé-es d’appartenir à la mafia. Depuis la fermeture de […]
]]>#Etats-Unis : un seul événement à l’origine de l’épidémie de #Covid-19 à travers le pays ? - L’Express
▻https://www.lexpress.fr/actualite/monde/amerique-nord/etats-unis-un-seul-evenement-a-l-origine-de-l-epidemie-de-covid-19-a-traver
Une réunion annuelle des dirigeants de la société pharmaceutique Biogen serait le point de départ de la diffusion du coronavirus aux Etats-Unis.
[...] Cette réunion annuelle des dirigeants de la société pharmaceutique Biogen, où des individus du monde entier se sont retrouvés, semble être l’évènement responsable de la diffusion de la Covid-19 aux Etats-Unis.
Si une seule personne pourrait en être à l’origine, comme l’explique le Washington Post, à la fin de la réunion, le 27 février, l’infection en avait contaminé bien d’autres : un directeur de recherche, un photographe, le directeur général de la division Est de l’entreprise. Et toutes ces personnes contaminées ont ramené le virus chez elles, dans la banlieue de Boston, dans l’Indiana, en Caroline du Nord, ou encore en Slovaquie, en Australie et à Singapour.
]]>Pandémie de Sars-cov-2 Générale
Ligue des champions : les préfectures de Paris et des Bouches-du-Rhône réfléchissent à l’instauration de petites fan zones à Paris et Marseille
▻https://www.francetvinfo.fr/sports/foot/ligue-des-champions/ligue-des-champions-les-prefectures-de-paris-et-des-bouches-du-rhone-re
Gentrification and vigilantism in Milan’s Central train Station
Mireanu’s paper studies a far-right vigilante group, #City_Angels, in Milan, Italy. As he illustrates, the City Angels have helped instigate urban renewal of the city’s Central train Station by targeting marginalized residents living near the station. While these vigilantes are not part of the state, they give the illusion that they are. Their securitization of the central train station then enables the state and real estate developers to enter and gentrify the area.
#gentrification #solidarité #Milan #gare
ping @albertocampiphoto
Coronavirus : À Milan, comment les corps des victimes non réclamés sont enterrés
▻https://www.seneweb.com/news/Video/coronavirus-a-milan-comment-les-corps-de_n_315721.html
Cities must act
40,000 people are currently trapped on the Aegean islands, forced to live in overcrowded camps with limited medical services and inadequate sanitation.
#Glasgow, sign this petition from @ActMust
@ScotlandMustAct
demanding relocation from the islands.
▻https://twitter.com/scotrefcouncil/status/1253348493332267009
#Ecosse #UK #villes-refuge #Glasgow #migrations #asile #réfugiés #Grèce #relocalisation #pétition
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Milano e i migranti dall’Unità a oggi
Milano città d’immigrazione, polo d’attrazione per chi è alla ricerca di nuove opportunità di vita. Un fenomeno per nulla nuovo che affonda le sue radici nel passato, si definisce e acquista nuove forme nel corso del tempo, cambia il volto di una città attenta e pragmatica, che ha sempre cercato un dialogo con chi ha scelto di farne la sua nuova casa, per superare le inevitabili tensioni e asprezze della quotidianità e insieme ottenere il meglio dall’indispensabile immigrante.
Ricostruire storicamente le vicende dell’immigrazione milanese non è quindi un esercizio ozioso, né un mero, per quanto doveroso, omaggio reso a donne e uomini che si sono spesi per elaborare soluzioni concrete alle più disparate urgenze sociali scaturite dall’incontro con genti nuove e diverse, ma è soprattutto un’occasione per riannodare le fila di questo dialogo e preparare risposte inclusive adeguate al presente.
L’indispensabile immigrante. Così uno dei più grandi storici del secolo scorso, il francese Fernand Braudel, nella sua famosa thèse del 1949 dedicata al Mediterraneo nell’età di Filippo II introduce il tema del rapporto tra la città e l’immigrazione. La questione ritornerà nel 1967 nel volume Capitalismo e civiltà materiale: “Le città sono come dei trasformatori elettrici: esse aumentano le tensioni, precipitano gli scambi, rimescolano all’infinito la vita degli uomini”. Ma sono anche dei magneti che attirano incessantemente gente nuova dal contado, talvolta da località più remote e non sempre solo dalla campagna. “Il reclutamento è forzato, ininterrotto”. Per una ragione molto semplice: “Biologicamente, prima del secolo XVIII la città quasi non conosce eccedenze di nascite sui decessi. […] Se aumenta, non può farlo da sola”. Anche socialmente, “lascia i lavori più umili e pesanti ai nuovi arrivati: le occorrono, come nelle nostre economie survoltate d’oggi, il nordafricano o il portoricano di servizio, un proletariato che si consuma rapidamente per essa e dev’essere rapidamente rinnovato. L’esistenza di questo basso proletariato miserabile è il tratto dominante di ogni grande città”. Attenzione, aggiunge Braudel: “Questi indispensabili migranti non sempre sono uomini di fatica o di qualità mediocre: spesso recano tecniche nuove, tecniche non meno indispensabili alla vita urbana delle loro persone. […] Tutto serve per costruire un mondo urbano, anche i ricchi. La città li attira quanto i proletari, sebbene per altre ragioni”. In conclusione: “Probabilmente una città cesserebbe di vivere se non si assicurasse un rifornimento di uomini nuovi”.
Milano. Ho voluto richiamare in apertura queste osservazioni perché credo che solo uno sguardo diacronico permetta di distinguere e storicizzare un fenomeno come l’immigrazione, che altrimenti rischia di rimanere confinato in una lettura fenomenologica, inevitabilmente condizionata dalla cronaca, spesso drammatica, di condizioni di esasperato disagio sociale. In queste note non si parlerà però dell’oggi e dei termini nuovi in cui si pongono i problemi dell’emigrazione. Questione di bruciante attualità. Come storici possiamo sottolineare come l’immigrazione sia un fenomeno nuovo, nei termini in cui si presenta oggi, e insieme antico. Se teniamo presente quanto ci ricorda Braudel, non stupirà rilevare che ancor prima di diventare un centro industriale Milano fosse un “porto di mare” frequentato da genti diverse.
A metà Ottocento, Milano, ancora racchiusa nel circuito delle mura spagnola, era una città di circa 150.000 abitanti. Di questi quasi il 10% era formato dalla cosiddetta popolazione fluttuante, “gente povera, rozza, importuna, non civilmente educata”. Gente che intratteneva con la città un rapporto stagionale, vivendo spesso nei suoi immediati sobborghi, fino al 1873 Comune separato, dormendo in alloggi di fortuna quando non in semplici fienili. In città, allora come in seguito, era più facile trovare lavoro che una stabile residenza.
Nei decenni successivi all’Unità non si registrano. sotto questo profilo, novità di rilievo. La città cresce, cambia, si dilata continuando a richiamare gente da fuori. Più numerosa di un tempo, ma spinta sempre dalla ricerca di una prospettiva di vita migliore per sé e i propri figli.
Nell’intervallo 1881-1911, periodo segnato da una sensibile crescita del tessuto industriale, il numero dei residenti passa da 321.839 a 599.200 abitanti. Superata la Grande guerra la popolazione continua a crescere. Nel 1921 gli abitanti superano i 700.000 per portarsi alle soglie del milione dieci anni più tardi, grazie anche all’aggregazione di undici piccoli comuni della cintura metropolitana. Come in passato, il contributo maggiore all’attivo demografico era dato dall’immigrazione. Ma ora erano nuove le dimensioni – si trattava di migliaia d’individui ogni anno – e le caratteristiche. Era infatti cambiato il destino occupazionale di molti dei nuovi arrivati: accanto ai servizi vari e all’edilizia, naturale approdo per lavoratori della terra senza qualifica, le fabbriche erano diventate un polo di attrazione molto forte. Ora “gens de peine” non significava come in passato servitori, facchini e “giornalieri” dai mille mestieri, ma sempre più spesso operai di fabbrica.
1910. Una donna con sei bambini appena sbarcati a New York (da “Storia dell’emigrazione italiana”, Donzelli 2001)
L’industrializzazione del capoluogo, la presenza di grandi fabbriche con migliaia di dipendenti (Pirelli, Breda, De Angeli, Officine Meccaniche ecc.) la crescita di una nuova periferia industriale riproponevano in termini nuovi la questione delle abitazioni operaie e di un mercato immobiliare poco interessato a soddisfarne le necessità. Nei primi anni del Novecento, il problema delle condizioni di vita e di alloggio dei ceti popolari aveva trovato a Milano una classe dirigente attenta e capace di ascolto, come attesta l’impegno del Comune nel settore dell’edilizia popolare, ancora prima che il Parlamento approvasse la legge sulla municipalizzazione dei pubblici servizi. Si trattava naturalmente d’interventi largamente inferiori al bisogno, ma indicativi di una volontà politica d’intervento nel governo della città e delle sue contraddizioni. A quest’orientamento contribuirono un vasto arco di forze, in prima linea quelli riconducibili al grande alveo del socialismo, e l’azione di organismi quali la Camera del Lavoro e la Società Umanitaria, il cui Ufficio del lavoro svolse un’opera preziosa d’indagine sociale, di cui resta notevole esempio il volume sulle Condizioni generali della classe operaia in Milano pubblicato nel 1907. Da essa, così come dalla precedente indagine di Giovanni Montemartini sulla Questione delle case operaie a Milano (1903) erano emerse tanto le dimensioni del fenomeno migratorio, quanto le sue interne sfaccettature. Notevole, ad esempio, il rilievo della componente cosiddetta “borghese”, che mostrava la tendenza a farsi più consistente, non solo in termini proporzionali. Un segno della complessità dei fenomeni migratori, che sarebbe semplicistico immaginare come originati unicamente dall’arretratezza e dalla povertà delle campagne italiane. Accanto a questo, che rimaneva pur sempre l’elemento principale, esisteva un’emigrazione dei talenti e della ricchezza che sceglieva Milano come luogo per realizzare al meglio le proprie aspirazioni di vita e di lavoro. Una tendenza, questa, che confermava la natura dirompente della grande industria che anziché semplificare la composizione sociale della città, polarizzandola, la arricchiva e articolava con l’offerta di nuovi servizi e professioni. Non meno interessante era la constatazione che l’emigrazione era un fenomeno a due facce: alle correnti in entrata si contrapponevano quelle in uscita. Milano attraeva migliaia di persone ogni anno, ma ne respingeva un numero assai cospicuo. Purtroppo Montemartini non ritenne di approfondire i termini di questo processo di selezione e ricambio della popolazione urbana, come non si pose il problema di dove andassero ad abitare quanti a vario titolo decidevano di abbandonare la città.
Qualche indizio in proposito è offerto però da un articolo di Francesco Coletti sul “Corriere economico” di Roma del 14 giugno 1917. In esso, sulla base delle risultanze censuarie del 1911, lo studioso dava conto dell’”addensarsi rapido ed ingente di tutta una popolazione nuova, mista, grigia nella vasta periferia della città”, evidenziando come in parallelo alla crescita del capoluogo si era registrata, con cadenze ancora più marcate, quella di alcuni borghi limitrofi come Turro, Greco, Lambrate, Crescenzago, oramai appendici esterne della città, così come si avviava a divenirlo la stessa Sesto San Giovanni, dove avevano portato i loro impianti alcune della maggiore imprese milanesi come Breda, Marelli e Falck.
Studioso antiveggente e aggiornato, Coletti segnalava il formarsi di quella che poi si sarebbe chiamata l’area metropolitana milanese. “Sotto il dilagare possente della marea dei nuovi venuti”, scriveva, i confini comunali, “della grande metropoli come dei comuni minori”, tendono quasi a scomparire, originando un tessuto urbano uniforme simile a quello delle banlieu francesi, dell’outer ring di Londra o dei Vororte delle città tedesche. Si veniva disegnando una città nuova, “incarnazione di cemento della struttura di classe” avrebbe detto Ottieri alcuni decenni più tardi, annotando nei suoi taccuini: “intorno al nocciolo centrale di Milano, con cerchi concentrici, si allargano circonvallazioni sempre più vaste, segnano fasce di redditi e di anime”. Prima di lui Coletti aveva rilevato, con il corredo delle cifre, come passando dal “centro urbano alla zona rurale, il reddito accertato per abitante ai fini dell’imp. di famiglia più che scemare precipita (da L. 872 a 77)”, mentre crescevano il numero di inquilini per locale e “raddoppia il numero dei figli per 100 censiti (da 1,59 a 3,09)”.La tendenza centrifuga di popolazione e industrie si sarebbe rafforzata nel periodo tra le due guerre quando l’intreccio tra politiche antiurbane e gentrificazione e terziarizzazione del centro storico avrebbero determinato un’accelerazione del processo di formazione dell’area metropolitana, accentuando lo sviluppo demografico dei comuni a nord-nordest del capoluogo.
Nel corso degli anni Cinquanta, superata l’emergenza dell’immediato dopoguerra, i flussi migratori in direzione di Milano e più in generale delle città del triangolo industriale ripresero con forte intensità. Le tradizionali motivazioni di tutte le migrazioni – le condizioni di endemica povertà di molte campagne e la ricerca di un diverso stile di vita – erano amplificate da un’offerta di lavoro da parte dell’industria che sembrava inesauribile. Arrivando a Milano trovare un lavoro non era difficile. Ruggero C. raccontava così, nel suo italiano stentato, il primo incontro con la città: “Quando sono arrivato, il viaggio sbadato, non sapere dove poggiare perché andavo così senza nessun appoggio, senza niente, perché ho venuto qui e arrivai con le valigie in mano. Arrivai a Milano e poi mi recai a Sesto perché sapevo che il centro era Sesto per la siderurgia. A Sesto c’erano quelle fabbriche erano famose, c’era la Breda, la Falck e io cercai di intrufolarmi, poi c’era il Laminatoio Nazionale. Però io riuscii a occuparmi presso la ditta Breda”. Spesso la fabbrica era l’approdo di una trafila di esperienze lavorative grazie al passaparola dei paesani o di famigliari già immigrati, alla mediazione dei caporali, al filtro dell’edilizia. Racconta a Franco Alasia un immigrato giunto in città dal Polesine: “L’è sta il 18 gennaio ‘55, e son arrivà a Milano con vento e neve, e ho cominciato a cercà lavoro con vento e neve. Ho fatto 5 o 6 imprese e tutti mi hanno detto di ripassare tra 15 giorni (…) Comunque, dopo, al terzo giorno lavoro sotto la ditta Ing. R. di Milano; e qua tutto a posto, in regola come che marcia el mondo (…). Dopo le otto ore diceva ‘Volete lavorare a contratto?’ ‘Sicuro’ tanto io ero abituato a lavorare dalla mattina alla sera”.
Trainata dalla domanda, interna e internazionale, e favorita dal basso costo del lavoro l’economia italiana stava allora vivendo i suoi “trent’anni gloriosi”, mentre il settore agricolo conosceva un drammatico ridimensionamento. Un fenomeno verificatosi anche “in altri paesi di più antica civiltà industriale, però mai con tanto affanno e disordine”, rilevava nel 1963 Giorgio Bocca, registrando l’improvviso smottamento del mondo contadino e l’avvio di processi migratori di grande intensità. “Intanto le continue correnti di migrazione interna scuotono e arano l’Italia”, annota Ottieri.
Tra il 1951 e il 1971 sono oltre 9 milioni gli italiani coinvolti nei processi di migrazione interregionale. Nello stesso intervallo, si registra una generalizzata riduzione degli occupati in agricoltura. Nel decennio 1951-1961, a fronte di un aumento complessivo della popolazione attiva, al Nord l’agricoltura perde ovunque addetti: 165.000 in Piemonte, 230.000 in Lombardia, 300.000 in Emilia e 320.000 nel Veneto. Era l’esito inevitabile di un processo di marginalizzazione del settore primario avviato da tempo nelle province di più antica tradizione industriale del Nordovest, mentre in Veneto e in Emilia gli addetti all’industria superavano, per la prima volta, quelli occupati in agricoltura.
Dal 1951 al 1961 arrivano a Milano circa 300.00 immigrati, con cadenze che tendono a farsi più intense avvicinandosi agli anni Sessanta: 32.619 nel 1955, 36.970 nel 1956, 41.416 nel 1957, 55.860 nel 1958, 58.856 nel 1959, 66.930 nel 1960. Nel 1962 gli immigrati (ma il dato andrebbe depurato dalle registazioni di quanti erano già a Milano ma avevano atteso l’abolizione della vecchia legge sulla residenza per regolarizzare la loro posizione) furono oltre centomila. La popolazione del capoluogo in vent’anni anni (1951-1971) aumenta di oltre 450.000 unità, passando da 1.275.726 a 1.733.490 abitanti. Incrementi ancora più marcati avevano fatto registrare molti centri della cintura industriale, tanto che nel suo insieme la provincia era passata da 2.505.153 a 3.903.685 residenti nello stesso intervallo.
Si è parlato in anni recenti di “megalopoli padana” o di “città infinita” per indicare un processo di crescita e di saturazione del territorio urbanizzato che non sembra conoscere soste e fratture. Un fenomeno che per quanto riguarda Milano si era venuto evidenziando già nei primi anni Sessanta. Sempre Giorgio Bocca a proposito della “nuova periferia industriale” nel 1963 scriveva: “Qui nel Milanese sta nascendo qualcosa di sconosciuto in Italia, la prima regione industriale vera e propria; fabbriche per decine e decine di chilometri; una sola città fino alle Prealpi”. E aggiungeva: “La grande città industriale liquida le ultime differenze del sangue; i discendenti dei longobardi, liguri, galli, romani, sabelli, svevi, normanni, greci, arabi, etruschi, giunti da ogni contada, vi creano, in rapida mescolanza, il milanese nuovo”. Parole da rileggere e ricordare oggi, in tempi di rivendicazione di identità.
A inizio Novecento, oltre un terzo di quanti erano emigrati a Milano proveniva dalla stessa provincia e una buona parte del rimanente era originario delle altre province lombarde. In seguito il raggio di attrazione della città si era ampliato ad altre regioni. I flussi interregionali dapprima si erano mossi prevalentemente in direzione nordest-nordovest: tra gli anni Trenta e i Cinquanta oltre due terzi degli immigrati a Milano provengono dalle regioni settentrionali. Poi si evidenzieranno in misura sempre più marcata gli spostamenti lungo la direttrice sud-nord, con un’incidenza percentuale sul totale, per l’area milanese, che passa dal 17% del periodo 1952-1957, a un massimo vicino al 30% circa degli anni 1958-1963. Saranno questi flussi, all’inizio degli anni Sessanta, a connotare in termini radicalmente nuovi gli spostamenti della popolazione, sia per le dimensioni assunte dal fenomeno sia per i problemi d’integrazione e inserimento che questo determina sulle strutture urbane e sul mercato del lavoro. Va tenuto comunque presente che contrariamente a una percezione diffusa, e ripresa dai media, gran parte degli immigrati non veniva dal Sud. Evidentemente, come spesso accade, la percezione del fenomeno è più forte della realtà delle cifre.
Precedentemente all’arrivo, negli anni Ottanta, dei primi flussi di cittadini extracomunitari, ricorda Gianfranco Petrillo, dire immigrati equivaleva a dire meridionali, e questo in virtù della loro “diversità: somatica, etica, culturale”. Una diversità che anche quando non si presentava nelle forme del rifiuto esplicito suscitava comunque una certa diffidenza. “I meridionali non sono malvisti, sono loro che a volte si mettono in condizioni tali da essere malvisti: non sanno trattare con la gente”.
Nelle parole raccolte da Leone Diena nel corso della sua indagine su Cologno Monzese del 1962, par di risentire quel parroco milanese che cento anni prima parlava degli immigrati come di “gente povera, rozza, importuna, non civilmente educata”. Con l’aggiunta però di un nuovo elemento: “sono nati per lamentarsi sempre senza mai essere riconoscenti per quel che si fa per loro. Vengono qua con le valige vuote, senza soldi […] qui i meridionali hanno trovato la superamerica”.
Stereotipi e atteggiamenti che si ritrovavano perfino all’interno dei luoghi di lavoro, anche se la fabbrica è stato un formidabile veicolo di integrazione. Tuttavia gli inizi erano difficili per chi vi entrava senza avere alle spalle tradizione e cultura operaia. Ripensando ai suoi primi giorni in Pirelli, Mario Mosca ha voluto “smitizzare un po’ la classe operaia”, ricordando di aver sentito proprio in fabbrica “i discorsi più reazionari, razzisti e qualunquisti”. “Del meridionale, disponibile a fare tutto, a fare più degli altri, si diceva – Va a ca’ tua terun…”.
Del resto non vi è dubbio che, strappati agli affetti e alle abitudini domestiche, per gli emigrati l’arrivo nelle città dell’industria fosse un’esperienza traumatica, dolorosa, talvolta fonte di umiliazione, comunque segnata da ristrettezze economiche, ansia e fatica. Come sempre, erano la casa e l’assenza di legami comunitari il grande problema dei nuovi arrivati, costretti a vivere spesso in condizioni di grave sovraffollamento all’interno del vecchio tessuto edilizio o, più spesso, in anonimi caseggiati periferici, nelle coree dell’hinterland, in cascinali se non addirittura sul luogo di lavoro. “Per dormire dormivo in cantina nelle case in costruzione – ricorda Vito – L’impresa mi dava il permesso, e per mangiare mi facevo da mangiare con una macchinetta a spirito, così da solo”.
Secondo molti, in particolare a sinistra, l’immigrazione era figlia da un lato della gracilità del capitalismo italiano, incapace di garantire un equilibrato sviluppo alle regioni del Mezzogiorno, e dall’altro della rapacità di una “borghesia monopolistica industriale” ad aumentare la produttività attraverso “un maggiore sfruttamento del lavoro” e la compressione dei salari. Una interpretazione viziata da un’evidente fraintendimento della natura delle trasformazioni in atto nel paese e della vitalità di un capitalismo caratterizzato da una molteplicità di attori e da un fortissimo legame tra famiglie e imprese, a dispetto del peso dei monopoli e dello stretto intreccio tra finanza e grande industria. Ma che soprattutto non aveva colto fino in fondo la portata liberatoria della fuoriuscita da una condizione rurale che per molti era sinonimo di povertà e per tutti di estraneità da un sogno di modernità che, seppure in maniera confusa e contraddittoria, si stava appalesando. A spingere le persone verso le città non era solo l’evidenza di condizioni di vita meno disagiate. “Questa gente mangiava molto più bene delle nostre abitudini, che noi mangiavamo pane e pomodoro o pane e catalogna. Invece qui il mangiare era tutto differente perché quello che là lo mangiavamo una volta all’anno qua lo mangiavano tutti i giorni”.
Nelle parole di Ruggero C. si avverte la meraviglia per una realtà che pareva inimmaginabile vivendo al paese. Atteggiamento non dissimile da quello di Gijkola Pellumb, un giovane emigrante giunto in Italia nel marzo 1991, che alla domanda “Che cosa ti piace di Milano?”, rispondeva senza esitazione “Macchine, case alte, negozi, puoi trovare tutte cose e fare bela vita come voi”. Dove per “bela vita” bisognava intendere anche una vita più libera, meno soggetta all’autorità della famiglia e al controllo della comunità. In fondo cos’altro era quella “disperata smania di assimilazione” alla quale facevano riferimento due giovani sociologi dell’Università Cattolica, Francesco Alberoni e Guido Baglioni, vedendovi la spiegazione della rapida integrazione dei nuovi arrivati? Ora senza voler entrare in una questione scivolosa come quella dell’integrazione, mi sembra che gli studi più recenti e avvertiti sul fenomeno migratorio – penso ai lavori di Gianfranco Petrillo e di John Foot – abbiano confermato, rimodulando un antico detto tedesco, che “l’aria di città rende liberi”, liberi quantomeno di cercare di inventarsi un futuro diverso da quello delle generazioni precedenti. Essere miserabili in campagna significava condannare sé e i propri figli a rimanere tali. Rompere con quel mondo, se nell’immediato aggiungeva alla fatica di vivere il dolore dalla lacerazione dagli affetti e dai luoghi, offriva però una prospettiva di cambiamento. Il miraggio – che per molti si sarebbe fatto concreto – di raggiungere un giorno un modesto benessere. Perciò nessun ripensamento: “Se tornassi giù, io morirei ormai ho visto come è diverso Milano”.
Non si trattava solo di lasciarsi alle spalle il ricordo della fame – un tema che ritorna spesso nelle storie di vita degli immigrati. Vivere in città, grazie al contatto con quell’“ordine inferiore d’instituzioni” che innervava la società industriale: parrocchie, cooperative, sindacati, partiti, significava acquisire una diversa consapevolezza dei propri diritti. È anche grazie all’azione di queste agenzie se gli immigrati hanno potuto inserirsi nel nuovo ambiente in un numero relativamente breve di anni.
Vi è infine da osservare come parlando di immigrazione l’accento in genere finisca per cadere sulla durezza delle condizioni di vita dei nuovi arrivati in città, trascurando un aspetto che penso vada tenuto invece presente se si vuole avere una immagine complessiva del fenomeno.
Di fronte a un processo giunto a scaricare a Milano negli anni di massima espansione del fenomeno anche 100.000 persone in un anno era inevitabile che si registrasse una tensione intollerabile sul fronte della casa e più in generale della domanda di servizi per una popolazione priva di adeguati mezzi di sostentamento. Appare dunque evidente che la lettura del fenomeno dell’immigrazione è fortemente influenzata dalla scala temporale che si assume. I bisogni delle persone vivono nell’urgenza del presente, ma le risposte non possono che avere un respiro diverso. Una discrasia che può essere drammatica per chi la sperimenta sulla propria pelle, ma difficilmente evitabile. L’aver privilegiato il primo aspetto, per la sua valenza politica e per il suo più forte impatto emotivo, ha fatto sì che siano diventate memoria comune le immagini del dolore e della protesta, mentre poco o nulla viene ricordato a proposito delle politiche urbane e sociali allora adottate, che pur con limiti e lacune furono in grado di avviare a soluzione, in un arco di anni relativamente breve, un problema altrimenti destinato a esplodere con ben più drammatica virulenza. Per questo auspico una maggiore consapevolezza dell’importante ruolo giocato nella storia della città dalle politiche di welfare che il Comune, rifacendosi a una tradizione che come detto risaliva almeno ai primi del Novecento ha messo in campo tanto sul piano dell’edilizia popolare, agendo attraverso lo Iacp, quanto su quello della scuola, della sanità e dei servizi sociali. Penso sarebbe un doveroso riconoscimento alle competenze tecniche ed amministrative capaci, per un tempo breve, di cooperare con politiche inclusive all’obiettivo di rendere sostanziali i diritti sanciti dalla Costituzione. Una lezione da non lasciar cadere.
▻https://www.milanoattraverso.it/migrazione
#Milan #histoire #Italie #photographie #migrations #immigration
ping @albertocampiphoto @wizo @reka
Rapport actualisé sur la situation en #Italie des personnes requérantes d’asile et des bénéficiaires d’une protection, en particulier des personnes renvoyées dans le cadre de #Dublin
#Suisse #asile #migrations #réfugiés #renvois_Dublin #COI #rapport #Italie #Milan #Rome #Dublin #réadmissions #chiffres #statistiques #procédure_accélérée #questura #hébergement #CARA #CAS #conditions_d'accueil #SPRAR #SIPROIMI #mineurs #système_social #revenu_de_base #revenu_universel #logement_social #emploi #travail #intégration #exploitation #sans-abrisme #SDF #santé #soins_de_santé #accès_aux_soins #vulnérabilité #procédure_d'asile
Milan, épicentre de la pandémie de Covid-19. #Minuit c’est l’heure où les invisibles deviennent visibles. Le métro désert, à part quelques dizaines de jeunes et de moins jeunes livreurs qui rentrent chez eux. C’est ça, le confinement à deux vitesses. C’est ça, le #digital_labor.
Avec ce commentaire de Alexis Kauffmann :
Incroyable image ! Les rats dans les caves qui nourrissent les chats qui chantent au balcon.
]]>Covid-19 en Italie : une réanimatrice témoigne du coeur de la tourmente – L’Avventura
▻https://www.lemonde.fr/blog/lavventura/2020/04/09/covid-19-en-italie-une-reanimatrice-temoigne-du-coeur-de-la-tourmente
Irene, réanimatrice, prend son poste à #Milan en janvier #2020, peu avant l’éclatement du foyer du #Coronavirus en #Italie. Elle raconte comment le #Covid-19 explose dans l’impréparation et la désorganisation du système de santé. Le retard dans la distribution des équipements, la décentralisation du système de santé, la confusion engendrée par une pluie de mesures parfois contradictoires de communes, régions et état seront parmi les causes d’un taux de mortalité parmi les plus élevés du monde : à ce jour plus de 17.000 morts dont 120 #médecins et #infirmiers. Entre-temps, le confinement grippe le moteur économique du pays : l’aide alimentaire n’est pas nécessaire que dans les banlieues.
L’ AUTEUR DE L’ AVVENTURA
Je suis un auteur de BD indépendant et pas une journaliste du Monde, si ce blog vous plaît, partagez-le ! Vous pouvez me suivre sur Twitter, Facebook, Instagram, Linkedin . La femme qui prenait son mari pour un chapeau est mon dernier livre (disponible sur ►https://www.lalibrairie.com qui paie ses impôts et livre à domicile même pendant le confinement parce que le livre est un bien de première nécessité !
]]>Est-ce que le #covid-19 sauve des vies ?
▻http://carfree.fr/index.php/2020/04/06/est-ce-que-le-covid-19-sauve-des-vies
Question polémique sans doute à l’heure où de nombreuses personnes meurent de ce virus, mais qui mérite d’être posée quand on constate la chute drastique de la #pollution de l’air Lire la suite...
#Fin_de_l'automobile #Pollution_automobile #air #chine #los_angeles #microparticules #milan #NO2 #paris #santé #trafic
]]>La menace du coronavirus est plus grande dans les villes polluées
▻http://carfree.fr/index.php/2020/03/25/la-menace-du-coronavirus-est-plus-grande-dans-les-villes-polluees
Les personnes vivant dans des villes polluées sont plus exposées au risque de Covid-19, a mis en garde le 16 mars 2020 l’Alliance européenne pour la santé publique (EPHA), une Lire la suite...
#Pollution_automobile #air #diesel #italie #milan #pollution #recherche #santé
]]>#Palermo, nella notte cambiano i nomi alle strade: la «guerriglia odonomastica» - 1 di 1 - Palermo - la Repubblica
▻https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/03/06/foto/palermo_nella_notte_cambiano_i_nomi_alle_strade_la_guerriglia_odonomastica_-250456533/1
#sicile #toponymie #colonialisme #Éthiopie #
@cdb_77 #indro_montanelli #montanelli
L’attente dans l’espace réservé aux migrants près de la gare de Milan fut plus longue que prévue...
Source : #livre « Les cueilleurs de pierres » de Conchettine Perli sorti probablement en 2019, auto-produit.
L’#industrie_du_tabac à l’#aéroport de #Malpensa (#Milan)
Je pensais avoir mis ces #photos sur seenthis, mais apparemment pas... et alors les voilà... je les ai prises en juillet 2018 :
c’est incroyable comme ça ressemble à une place de #jeux... et comment les #enfants y sont donc attirés...
ping @reka
Le ciel de #Marignan
#1515... Date mythique synonyme de défaite pour les soldats suisses sur le champ de #bataille_de_Marignan. L’historiographie a longtemps glorifié l’héroïsme des #Confédérés. Mais que s’est-il passé, au juste ? Que faisaient les soldats suisses à #Milan ? Pourquoi sont-ils allés se battre dans les plaines lombardes ?
▻https://www.rts.ch/play/tv/histoire-vivante/video/le-ciel-de-marignan?id=7237338
#histoire #Suisse #mercenariat #mercenaires #guerre #Jean-Jacques_de_Trivulse #Français #Col_de_l'Arche #neutralité #Zwingli #film #documentaire #François_1er
« Histoire de la colonne infâme », ou comment faire face à la peste du mal
▻https://www.mediapart.fr/journal/culture-idees/250619/histoire-de-la-colonne-infame-ou-comment-faire-face-la-peste-du-mal
À Milan en 1630, des hommes sont accusés d’avoir volontairement répandu la peste : ils sont atrocement torturés et mis à mort ; une colonne est érigée pour marquer leur infamie. Deux siècles après, Alessandro Manzoni, le plus célèbre romancier italien du XIXe siècle, contre-enquête. Son texte est réédité chez Zones sensibles.
#LIVRES #Milan,_Littérature,_peste,_Histoire_de_la_colonne_infâme,_Alessandro_Manzoni
Manifesti shock nelle strade di #Varese per il centenario del fascismo
Hanno tappezzato piazza Montegrappa, il salotto di Varese, con striscioni e manifesti inneggianti al fascismo e allo squadrismo. Una coreografia dedicata al «Centenario», per usare la definizione adottata in questi giorni dall’estrema destra. Iniziativa shock dei neonazisti della Comunità militante dei dodici raggi di Varese. La scorsa notte i Do.ra. - acronimo della formazione nazionalsocialista, da tempo sotto inchiesta per tentata ricostituzione del partito fascista - sono entrati in azione nel centro cittadino: due striscioni con le scritte «San Sepolcro Patria nostra» e «Fasci italiani di combattimento». E poi una lunga serie di manifesti con i motti del fascismo e i volti e i nomi dei protagonisti e degli «eroi» del ventennio, da Benito Mussolini a Tommaso Marinetti, da Italo Balbo a Antonio Locatelli, e poi Farinacci e D’Annunzio.
I cartelli neri con scritta bianca affissi dai #Do.ra. riportano gli #slogan e i concetti chiave del fascismo: arditismo, anticomunismo, diciannovismo, rivoluzione, lotta, squadrismo, futurismo, nazionalismo. Altre immagini mostrano pistole, pugnali, moschetti e baionette. «Iniziativa vergognosa e oltraggiosa» commentano Osservatorio sulle nuove destre e Anpi. Gli striscioni e i manifesti sono stati rimossi all’alba dalla Digos di Varese. Ricordiamo che i Do.ra. - per simbolo il sole a dodici raggi già utilizzato dalle SS naziste per la loro sede operativa - sono sotto indagine dalla procura di Busto Arsizio. A dicembre 2017 la sede di Caidate e stata sequestrata e per decine di membri dell’organizzazione è stato chiesto il rinvio a giudizio.
▻https://milano.repubblica.it/cronaca/2019/03/24/news/manifesti_shock_nelle_strade_di_varese_per_il_centenario_del_fasci
#it_has_begun #fascisme #back_to_fascism #Italie #espace_public #Varèse #San_Sepolcro #Dodici_Raggi #néo-nazisme #extrême_droite
ping @albertocampiphoto @wizo @marty
#Italie : solidarité offensive contre l’opération Étincelle et l’expulsion de l’Asilo
▻https://fr.squat.net/2019/02/26/italie-solidarite-offensive-contre-l-operation-etincelle
Bologne : cortège en solidarité avec les arrêtés de #Turin Jeudi 7 février au soir, un cortège composé d’une trentaine de personnes « solidaires avec les personnes arrêtées à Turin et avec l’Asilo en cours d’expulsion » (texte de la banderole de tête) a traversé les rues du quartier de Bolognina avec des interventions au mégaphone, tags […]
#actions_directes #anti-terrorisme #Asilo_occupato #Athènes #Bologne #Crémone #émeutes #manifestation #Milan #opération_Étincelle #Patras #prison #Rovereto #Thessalonique #Trente #Venise
]]>Migranti, ora il business si chiama detenzione e rimpatrio (e a fare i soldi sono i francesi)
La prefettura di Milano pubblica i bandi di gara per affidare centri e strutture per migranti e mette nero su bianco una realtà: punita economicamente la piccola accoglienza. Spariti i celebri 35 euro. Ma non per tutti: chi si occupa di centri per i rimpatri, detenzione amministrativa e #hotspot vede.
È ufficiale: i famosi 35 euro per migrante sono stati cancellati. È finita la mangiatoia, direbbe qualcuno. Ma non per tutti. Si sapeva che sarebbe accaduto. A metterlo nero su bianco è ora la Prefettura di Milano. Prima fra le più grandi città italiane (dietro invece a Udine, Gorizia, Chieti, Biella, Catanzaro e Venezia) a pubblicare i bandi per l’accoglienza dei richiedenti asilo nel 2019 e 2020. Lo ha fatto tenendo conto del #decreto_Salvini e sopratutto del nuovo capitolato d’#appalto stilato dal Dipartimento centrale del ministero dell’Interno.
Le basi d’asta per i 3.200 posti letto complessivi su Milano e area metropolitana, che vengono messi a gara da oggi fino al 15 marzo, racchiudono i timori che negli scorsi mesi hanno invaso la testa di cooperative, onlus, associazioni e i vari attori dediti all’accoglienza degli stranieri. In sintesi: spariscono corsi di lingua, formazione professionale, accompagnamento all’inserimento sociale o lavorativo, avvocati, psicologi. Vengono tagliati i trasporti. Per le strutture da 50 a 300 posti letto sono previsti 21,90 euro per persona al giorno; per le strutture fino a 50 posti 23 euro, mentre per gli appartamenti 18 euro. «Si punisce qualunque struttura che non sia un mero parcheggio – commenta il giurista Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) – Il messaggio politico che si vuole mandare è chiaro: con queste persone non è necessario parlare, non hanno bisogno di muoversi».
«Penalizzata l’accoglienza diffusa, il contrario di ciò che andava fatto – gli fa eco Alberto Sinigallia, Presidente di Fondazione Progetto Arca, colosso lombardo e nazionale del terzo settore e dell’accoglienza, che annuncia la dismissione di circa metà dei centri/posti letto e il mancato rinnovo del contratto di lavoro a tempo determinato per 30 operatori a partire da fine aprile su Milano, Varese e Lecco. L’unica logica che ci sta dietro è quella della sicurezza: vogliono tenere le persone nelle grandi strutture, non negli appartamenti e nei paesini, per poterle controllare meglio».
Per gli ex centri di identificazione ed espulsione (Cie) reintrodotti nel 2017 dal ministro Marco Minniti sono stati estesi i tempi di permanenza fino a 180 giorni. Si chiama detenzione amministrativa: il carcere che non è carcere, dove le persone possono essere trattenute paradossalmente senza le tutele giuridiche dei detenuti
La “punizione” economica, però, è per molti ma non per tutti. Le uniche strutture per cui i soldi rimangono quasi invariati, se non più alti, sono gli hotspot e #Centri_di_permanenza_per_il_rimpatrio (Cpr). Si tratta degli ex centri di identificazione ed espulsione (Cie) reintrodotti nel 2017 dal ministro Marco Minniti. Qui la maggioranza giallo-verde in Parlamento ha esteso, con il decreto Salvini, i tempi di permanenza fino a 180 giorni. Sei mesi. Si chiama detenzione amministrativa: il carcere che non è carcere, dove le persone possono essere trattenute paradossalmente senza le tutele giuridiche dei detenuti e senza aver commesso reati contro persone o cose ma solo in quanto irregolari.
A Milano apre il Cpr di via Corelli, estrema periferia orientale della città. Dal primo maggio – scrive la prefettura – saranno disponibili 140 posti. Che non vengono pagati 18 euro ciascuno. Ma 32,15 euro, comprensivi del kit di primo ingresso (cuscini, lenzuola etc.) e in qualche caso scheda telefonica da cinque euro, rilasciati una tantum. Altro paradosso: nel Cpr il gestore deve offrire il “servizio di assistenza psicologica” dal momento dell’ingresso e durante la permanenza nel centro e “il sostegno in considerazione della condizione di privazione della libertà”. Lo psicologo c’è quindi in luoghi dove al 99 per cento delle possibilità le persone recluse vengono poi espulse dall’Italia. Non è previsto invece nei centri di accoglienza con donne vittime di stupri in Libia o malati psichiatrici.
Nei centri di espulsione infati il costo del personale sale a più del doppio di quello per strutture con all’interno richiedenti asilo. Non è tutto: perché i 32,15 euro non sono comprensivi di spese per sicurezza e vigilanza del centro di detenzione. Queste sono conteggiate a parte. Un’altra fetta di torta che andrà quantificata in futuro. Va ancora meglio a chi dovrà decidere di gestire gli hotspot, cioè dove vengono collocati i migranti appena sbarcati. Non riguarda Milano ma molte aree del sud Italia: si arriva fino a 41,83 euro giornalieri, recitano le tabelle ministeriali, se si ha la fortuna di avere meno di 50 persone all’interno. Le cifre scendono all’aumentare delle presenze, per le economie di scala, fino a 29,63 euro quando si hanno in carico fra 301 e i 600 migranti.
Chi li prende i Cpr in Italia? Quello di Milano muoverà un giro d’affari da 3,9 milioni di euro, ma questi sono luoghi complicati: molte persone all’interno, arrabbiate, tanto che via Corelli venne chiuso come Cie nel 2014 per le rivolte e gli incendi appiccati dai reclusi in protesta. Avvengono suicidi e atti di autolesionismo. Realtà come Caritas e similari non li gestiscono, e mai si candiderebbero a farlo per ragioni etiche oltre che organizzative. Le piccole cooperative non hanno gli strumenti per prenderli in mano, anche ci fosse la volontà.
L’unica logica che ci sta dietro è quella della sicurezza: vogliono tenere le persone nelle grandi strutture, non negli appartamenti e nei paesini, per poterle controllare meglio
I Cpr vengono messi a bando, certo, ma “il business della detenzione amministrativa” nella penisola è stato più simile a un monopolio di fatto. Così a giungere in soccorso dell’Italia è stata in questi anni una società francese. Si chiama #Gepsa, multinazionale del gruppo #Engie – la ex #Gdf_Suez che con le sue società controllate si occupa di energia, gas, rinnovabili, ingegneria, infrastrutture – e che tramite #Gepsa_Oltralpe è specializzata in gestione e logistica di carceri e strutture detentive. Ha in mano 16 prigioni transalpine e presta i suoi servizi in dieci centri di detenzione amministrativa. Suo è anche il Cpr di Corso Brunelleschi a Torino, dopo aver avuto per anni tra le mani quello di Ponte Galeria, a Roma, Brindisi e numerosi altri centri.
Per il capoluogo piemontese, alla gara d’appalto di settembre 2014, Gepsa si presentò come mandatario in un raggruppamento temporaneo d’impresa con l’associazione culturale Acuarinto come mandante, una realtà del terzo settore di Agrigento che da 26 anni lavora in sei diverse regioni d’Italia. Questi ultimi gestivano la mediazione culturale e quei servizi che devono esserci anche in un carcere che non è carcere. A Gepsa invece va in mano la sicurezza e la logistica. Furono gli unici a partecipare, offrendo il prezzo di 37,86 euro giornalieri più Iva a persona trattenuta, su una base d’asta di 40 euro con procedura al ribasso. Così si è aggiudicata la gestione del centro. E proprio da Torino è arrivato tre mesi fa a Milano il prefetto Renato Saccone, insediatosi in corso Monforte a novembre 2018.
Potrebbero non avere vita facile a questa tornata i francesi. Perché gli affari dietro rimpatri e espulsioni ora fanno gola a molti. La gara milanese è europea, la concorrenza pure. Un lungo dossier di articoli pubblicato da Valori, testata giornalistica di Fondazione Finanza Etica, prova a raccontare le conseguenze economiche del decreto Salvini e delle politiche migratorie sovraniste. A chi fanno gola i nuovi affari? Ad esempio c’è la svizzera #ORS – ipotizza Valori – con il suo giro di fondi di investimento da tutto il mondo che conducono dritti nel cuore della City di Londra e al mondo dell’alta finanza. Proprio il 25 luglio scorso ORS ha deciso di registrare la propria filiale italiana alla Camera di Commercio di Roma, nelle settimane in cui il governo dell’Austria, dove la società operava da anni con un vasto mercato, annuncia di cambiare rotta per chiudere il sistema degli appalti privati e dare il là a una nuova agenzia pubblica per l’assistenza ai rifugiati. È solo un esempio. Se ne vedranno altri. Perché gli affari, come la natura, detestano il vuoto e non guardano al colore della pelle.
▻https://www.linkiesta.it/it/article/2019/02/14/migranti-ora-il-business-si-chiama-detenzione-e-rimpatrio-e-a-fare-i-s/41082
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