Ventimiglia, alcune note sull’operazione “Pantografo”
La guerra mediatica ai trafficanti come strategia assolutoria degli Stati-nazione
Un elicottero della polizia sorvola il cielo di Ventimiglia, squadroni in tenuta anti-sommossa sotto il ponte delle Gianchette, unità cinofile dislocate lungo il fiume Roja. Questo il culmine dell’Operazione Pantografo, condotta dalle procure di Imperia e Nizza in collaborazione con la polizia di frontiera italiana e la Paf (Police aux Frontières) francese, con l’obiettivo “di ricostruire […] i contatti con i migranti a Ventimiglia ovvero il modo con cui venivano reclutati; le modalità con cui venivano fatti salire sui treni” (Alberto Lari, procuratore di Imperia).
Secondo le informazioni diffuse dalla stampa (le ultime datate al 29 marzo 2023) sono sedici le persone fermate con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, delle quali tredici sono colpite da misure cautelari. Tuttavia, secondo le osservazioni dellə attivistə in frontiera, resta forte il sospetto che i dati relativi agli arresti siano gonfiati in ragione di una celebrazione dell’operato delle forze dell’ordine e di una legittimazione pubblica della cospicua mobilitazione di mezzi e risorse.
Basta guardare il video pubblicato dalla polizia a promozione dell’operazione: la messa in scena della potenza muscolare delle forze dell’ordine, e l’allestimento di un glorioso dispiegamento di mezzi atti a stanare loschi personaggi che si nascondono nel buio dei loro covi malsani. Il tutto montato come fosse il trailer dell’ultima stagione di CSI. Il ritmo delle immagini, le dichiarazioni più pubblicitarie che pubbliche delle autorità, riproducono la vecchia retorica del migrante come “pericolo per lo Stato”, e chi guarda da casa non ha tempo di chiedersi perché uomini e donne siano costrettə a vivere sotto un ponte, cosa aspettino nascostə in case abbandonate, perché indossino vestiti lisi e stracciati, perché siano dispostə a rischiare la vita aggrappandosi al pantografo di un treno per attraversare un confine.
Per chi conosce quel territorio l’operazione condotta dalla procura è chiara: più che ricostruire i fatti si tratta di aggiornare la narrazione che vede i trafficanti come la piaga in suppurazione che infetta la limpidezza dei nostri confini, additare pubblicamente gli smugglers come i soli responsabili della morte delle persone in transito. Questa sceneggiatura militaresca non esibisce tanto una sicurezza raggiunta, ma finisce per legittimare il processo di securitizzazione dei confini; è una giustificazione pubblica per l’investimento militare a protezione dell’integrità nazionale. Il meccanismo così innescato si alimenta circolarmente riproducendo se stesso. La responsabilità delle morti, del fatto di trovarsi intrappolati al confine, è delle persone che hanno il vizio di mettersi nei pasticci da sole.
Di fronte alla risonanza mediatica di cui è investita la figura dello smuggler, sovrapposta a quella del trafficante di esseri umani, pensiamo sia urgente iniziare un processo di decostruzione del reato di favoreggiamento, sempre più utilizzato come parola magica per deresponsabilizzare l’operato dello Stato sulle frontiere di mare e di terra. Decostruire la narrazione e la retorica sulla figura del cattivo scafista o passeur diventa perciò urgente per restituire la complessità del reale.
Durante gli sbarchi, anche quelli più tragici come quello di Cutro del 26 marzo 2023, ancor prima di concludere le operazioni di salvataggio, si inizia la caccia allo scafista, spesso identificato con chi conduceva la barca. Il “chi stava al timone?” ancora prima del “siete tuttə vivə?” è alquanto significativo.
Scafista, trafficante, contrabbandiere, in italiano. Smuggler, trafficker, in inglese; passeur in francese. I termini per designare questi fenomeni sono molteplici – ognuno con le sue accezioni e sfumature – ma nel linguaggio mediatico le loro differenze vengono appiattite e i loro significati omologati.
Il meccanismo in atto è chiaro: c’è necessità di eleggere il cattivo, il capro espiatorio della storia e addossargli la responsabilità delle morti di frontiera.
Questo meccanismo (mediatico, giudiziario, politico) permette una deresponsabilizzazione degli Stati e l’attribuzione di colpa a chi, spesso, non ha modo di difendersi. A questi viene ascritta anche la forma di disumanità più assoluta: l’aguzzino senza scrupoli che sfrutta e uccide i propri fratelli e le proprie sorelle, lə proprie connazionali.
Quella che il governo Meloni sta utilizzando come grimaldello retorico rispetto alle questioni migratorie è la stessa narrazione che esiste a livello europeo, recentemente inserita nel nuovo patto sulla migrazione e l’asilo della Commissione europea: “dobbiamo fermare i trafficanti” il nuovo mantra. Se provi a ripetere la frase cento volte va a finire che ci credi. O, almeno, finisce a crederci chi viene bombardato di immagini-cartoline e parole-slogan dagli schermi televisivi.
Se guardiamo ai numeri delle persone in carcere per reati di favoreggiamento e di traffico di esseri umani a livello italiano ed europeo, il dato è sbalorditivo. In Grecia, ad esempio, secondo i dati portati alla luce da “Kathimerini”, il 20,8% dei detenuti nelle carceri sovraffollate del Paese è sotto processo o condannato per traffico di migranti. Il loro numero ammonta a 2.223 su un totale di 10.678 detenuti. Quasi eguagliano il numero di coloro che scontano pene detentive per traffico di droga (2.508), che storicamente rappresenta la categoria di detenuti più numerosa.
Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai detenuti per “traffico di essere umani” negli ultimi anni non sono pubblicamente accessibili. E questo potrebbe dirci già qualcosa a proposito della trasparenza delle indagini. Tuttavia, in riferimento al report “Dal Mare al Carcere” 1 l’indicazione di incidenza dei fermi rispetto al totale degli arrivi per il biennio 2018-2019 risulta essere 1:100. Tenendo a mente questo dato potremmo anche sospettare che, in ragione dell’investimento mediatico sulla criminalizzazione dei trafficanti – preludio all’inasprimento delle pene previste per tale reato dal decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20 – e dell’aumento dei numeri di persone in transito arrivate via terra e via mare, i fermi per reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina siano migliaia.
Così, dati alla mano, vale la pena chiederci ancora “quale reato si imputa al trafficante, quale colpa?”. La risposta è tanto banale quanto poco scontata: la violazione della sovranità statale.
Il bene giuridico tutelato dall’art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, che inquadra il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è il mero interesse dello stato a regolamentare i flussi migratori. Le elevatissime sanzioni penali previste, variabili a seconda delle aggravanti che si applicano nel caso concreto, pongono non pochi problemi di legittimità costituzionale. Eppure l’art. 12 TUI continua ad essere modificato dai governi in senso repressivo, da ultimo con il decreto adottato all’indomani del naufragio di Cutro. E questo sulla base di una narrazione politica e mediatica che da anni volutamente confonde il “il favoreggiamento dell’attraversamento illegale dei confini” (smuggling) con la “tratta di essere umani” (trafficking), creando una figura dai contorni sfumati che assume il ruolo di nemico collettivo, cui addossare tutte le responsabilità e condannare a pene esemplari.
Sappiamo però che la frontiera è un business e che le narrazioni sui migranti illegali contribuiscono a mantenerla attiva e produttiva. Sappiamo anche come la frontiera sia diventata un luogo di sperimentazione di tecnologie biometriche, di affinamento di tecniche di identificazione, spazio in cui si ridefiniscono i negoziati e le gerarchie di potere tra gli Stati Nazione: la fluidità per l’importazione e l’esportazione delle merci si paga al prezzo di un aumento di controllo sul movimento delle persone senza documenti. Così, più la frontiera diventa impermeabile al passaggio di persone più il prezzo da pagare è alto, misurabile in quantità di denaro speso, in ore di lavoro in regime di sfruttamento, in prestazioni sessuali (eppure, della tratta non si parla mai, guarda caso: non dovrebbe far parte anch’essa delle pratiche di traffico? Della loro forma più brutale e violenta?).
Eppure, nonostante la frontiera sia organizzata come un dispositivo di controllo del movimento, le persone sono passate e continuano a passare. Sullo sfondo di una frontiera che alimenta dispositivi di morte dellə indesideratə si continuano a ricamare vie di fuga: brecce nel muro aperte in modo rocambolesco o reti più strutturate, create per soddisfare un bisogno, che è allo stesso tempo desiderio di vita e rifiuto di essere rifiutatə.
La frontiera così diventa anche un mercato del passaggio, e la conseguenza della crescente militarizzazione, del rafforzamento dei dispositivi di controllo del movimento, si traduce in una professionalizzazione delle persone che aiutano ad attraversarla. Gli smugglers.
Nel nostro tentativo di controcondurre la narrazione sui trafficanti non intendiamo invertire la loro criminalizzazione per farne una romanticizzazione che sa di rimozione. Sappiamo bene che ci sono uomini e donne che vendono “passaggi” attuando meccanismi coercitivi e di violenza, di vero e proprio traffico umano, ma ci sono molte persone che diventano esperte nel sapersi muovere nello space in beetween tra gli Stati Nazione – spesso per aver tentato di attraversarlo più volte senza riuscirvi -, che offrono la possibilità di andare da una parte all’altra a costi equivalenti al biglietto del treno che pagherebbe un normale cittadino europeo (i “passeur” arrestati a Ventimiglia il 28 marzo sono accusati di aver riscosso cifre che vanno da 30 ai 200 euro). Il punto non è criticare la narrazione omologante dell’UE in materia di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per decriminalizzare lo smuggler e ridisegnarlo come eroe del confine, ma far emergere la frontiera come processo in continua ridefinizione, come spazio di riterritorializzazione politica tra violenza istituzionale e pratiche di soggettivazione.
In riferimento al territorio di Ventimiglia, l’attraversamento del confine sotto pagamento è una pratica che si avvia in modo quasi spontaneo, per poi diventare, parallelamente ai processi di border reinforcing, una rete strutturata di economia del traffico, che si innesta sulle reti della ‘ndrangheta, entra in conflitto coi gruppi solidali, e riscrive le tracce che altri passaggi hanno lasciato nella storia di quel confine. Dal 2015 ad oggi, il passaggio diventa pratica sempre più individuale e quindi monetizzabile; questo processo avviene parallelamente alla criminalizzazione e allo sgombero delle forme di vita auto-organizzate da migranti e solidali, dove fra mille contraddizioni, gli attraversamenti venivano pensati e agiti collettivamente, anche come pratica politica di contestazione del regime di frontiera europeo.
Vista la complessità di contrari compresenti che abitano la frontiera possiamo pensarla come spazio vivente e vissuto piuttosto che linea da attraversare; o se si vuole, come un campo di battaglia in cui molti attori – trafficanti, poliziotti, sfruttatori, persone in transito e gruppi solidali – giocano il loro ruolo, inventano tattiche, entrano in conflitto e immaginano strategie in reciproca ridefinizione.
Alla luce di queste considerazioni, è urgente la necessità di ribaltare la narrazione che gli Stati fanno degli smugglers, invertendo l’attribuzione di responsabilità su chi sia causa di morte delle persone in transito, tanto in mare quanto in terra. Potremmo infatti chiederci chi costringe le persone a rischiare la vita per passare una frontiera? Chi nega il loro diritto al movimento? Cosa vincola le persone in transito a logiche di sfruttamento per racimolare i soldi necessari a passare? Se i cosiddetti smugglers hanno tutto l’interesse a che i loro clienti giungano a destinazione dall’altra parte, chi crea gli ostacoli al loro passaggio? Forse, se le persone muoiono fulminate sul pantografo di un treno diretto a Mentone, chi è davvero sanzionabile non è lo smuggler che ha dato la “dritta”, ma chi condanna le persone a doversi servire di quel passaggio come unica via per attraversare la frontiera.
▻https://www.meltingpot.org/2023/04/ventimiglia-alcune-note-sulloperazione-pantografo
#operazione_pantografo #Vintimille #frontière_sud-alpine #Italie #France #frontières #PAF #opération_policière #militarisation_de_la_frontière #spectacle #hélicoptère #pantografo #propagande #vidéo
Vidéo «operazione pantografo»:
▻https://www.youtube.com/watch?v=QwwEICCw2OQ
Nous, les exilés (sur Briançon et la situation dans les #Hautes-Alpes)
–-> série : Là où se cristallisent les questions d’aujourd’hui
#Didier_Fassin (interviewé aux Terrasses solidaires, où il exerce bénévolement en tant que médecin et est présent en tant que chercheur) :
(à retranscrire :-))
–-
Didier Fassin :
« Des visages fatigués, épuisés. Des regards qui contiennent presque toujours au moins une lueur d’espoir. Malgré les épreuves déjà traversées. Elles et ils … sont environ 80 millions. 80 millions, soit un peu plus d’1% de la population mondiale. Eux, ce sont les exilés d’aujourd’hui. Dans un monde sous haute tension, personne n’est à l’abri. Vous, moi, nous serons peut-être les exilés de demain. En attendant, là maintenant : comment accueillir ces personnes qui arrivent dans nos régions ? Quelle hospitalité sommes-nous prêts à leur réserver ? Quels dispositifs établir aux frontières ? Et faut-il craindre le fameux appel d’air ? Ces questions, nous allons les déplier en altitude, du côté de Briançon, là où des exilés traversent la montagne au péril de leur vie. »
Avec Isabelle Lorre (la coordinatrice du programme « migrations frontière transalpine » à Médecins du Monde sur Briançon), Sylvain Eymard (gestionnaire de l’association « Les Terrasses solidaires »), Didier Fassin (anthropologue, sociologue et médecin français. Il est professeur à l’Institute for Advanced Study de Princeton et directeur d’études à l’École des hautes études en sciences sociales à Paris), Jean Gaboriau (l’un des responsables de « Refuges solidaires »), Stéphanie Besson (cofondatrice du mouvement citoyens « Tous migrants » et autrice de « Trouver refuge : histoires vécues par-delà les frontières » chez Glénat), Agnès Antoine ( membre de “Tous migrants”), deux gendarmes et quelques exilés.
▻https://www.rtbf.be/auvio/detail_passe-montagne-la-ou-se-cristallisent-les-questions-d-aujourd-hui?id=291
#podcast #audio #asile #migrations #réfugiés #montagne #Alpes #Briançon #hospitalité #Briançonnais #Hautes-Alpes #Terrasses_solidaires #militarisation_de_la_frontière #risques #chasse_à_l'homme #chutes #traque #tiers-lieu #santé #blessures #efficacité #non-efficacité #spectacle #Didier_Fassin #spectacularisation #performance #inhumanité #inhumanité_institutionnalisée #inhumanité_d'Etat
ping @_kg_
À la frontière franco-espagnole, le renforcement des contrôles conduit les migrants à prendre toujours plus de #risques
Au #Pays_basque, après que trois Algériens sont morts fauchés par un train à Saint-Jean-de-Luz/Ciboure le 12 octobre, associations et militants dénoncent le « #harcèlement » subi par les migrants tentant de traverser la frontière franco-espagnole. Face à l’inaction de l’État, des réseaux citoyens se mobilisent pour « sécuriser » leur parcours et éviter de nouveaux drames.
Saint-Jean-de-Luz (Pyrénées-Atlantiques).– Attablés en terrasse d’un café, mardi 26 octobre, sous un ciel gris prêt à déverser son crachin, Line et Peio peinent toujours à y croire. « On n’imagine pas le niveau de fatigue, l’épuisement moral, l’état de détresse dans lequel ils devaient se trouver pour décider de se reposer là un moment », constatent-ils les sourcils froncés, comme pour marquer leur peine.
Le 12 octobre dernier, trois migrants algériens étaient fauchés par un train, au petit matin, à 500 mètres de la gare de Saint-Jean-de-Luz/Ciboure. Un quatrième homme, blessé mais désormais hors de danger, a confirmé aux enquêteurs que le groupe avait privilégié la voie ferrée pour éviter les contrôles de police, puis s’était arrêté pour se reposer, avant de s’assoupir.
Un cinquième homme, dont les documents d’identité avaient été retrouvés sur les lieux, avait pris la fuite avant d’être retrouvé deux jours plus tard à Bayonne.
« Ceux qui partent de nuit tentent de passer la frontière vers 23 heures et arrivent ici à 3 ou 4 heures du matin. La #voie_ferrée est une voie logique quand on sait que les contrôles de police sont quasi quotidiens aux ronds-points entre #Hendaye et #Saint-Jean-de-Luz », souligne Line, qui préside l’association #Elkartasuna_Larruna (Solidarité autour de la Rhune, en basque) créée en 2018 pour accompagner et « sécuriser » l’arrivée importante de migrants subsahariens dans la région.
Peio Etcheverry-Ainchart, qui a participé à la création de l’association, est depuis élu, dans l’opposition, à Saint-Jean-de-Luz. Pour lui, le drame reflète la réalité du quotidien des migrants au Pays basque. « Ils n’iraient pas sur la voie ferrée s’ils se sentaient en sécurité dans les transports ou sur les axes routiers », dénonce-t-il en pointant du doigt le manque d’action politique au niveau local.
« Ils continueront à passer par là car ils n’ont pas le choix et ce genre de drame va se reproduire. La #responsabilité politique des élus de la majorité est immense, c’est une honte. » Trois cents personnes se sont réunies au lendemain du drame pour rendre hommage aux victimes, sans la présence du maire de Saint-Jean-de-Luz. « La ville refuse toutes nos demandes de subvention, peste Line. Pour la majorité, les migrants ne passent pas par ici et le centre d’accueil créé à #Bayonne, #Pausa, est suffisant. »
Un manque de soutien, à la fois moral et financier, qui n’encourage pas, selon elle, les locaux à se mobiliser auprès de l’association, qui compte une trentaine de bénévoles. Son inquiétude ? « Que les gens s’habituent à ce que des jeunes meurent et que l’on n’en parle plus, comme à Calais ou à la frontière franco-italienne. Il faut faire de la résistance. »
Samedi dernier, j’en ai récupéré deux tard le soir, épuisés et frigorifiés
Guillaume, un « aidant »
Ce mardi midi à Saint-Jean-de-Luz, un migrant marocain avance d’un pas sûr vers la halte routière, puis se met en retrait, en gardant un œil sur l’arrêt de bus. Dix minutes plus tard, le bus en direction de Bayonne s’arrête et le trentenaire court pour s’y engouffrer avant que les portes ne se referment.
Guillaume, qui travaille dans le quartier de la gare, fait partie de ces « aidants » qui refusent de laisser porte close. « Samedi dernier, j’en ai récupéré deux tard le soir, qui étaient arrivés à Saint-Jean en fin d’après-midi. Ils étaient épuisés et frigorifiés. » Après les avoir accueillis et leur avoir offert à manger, il les achemine ensuite jusqu’à Pausa à 2 heures du matin, où il constate qu’il n’est pas le seul à avoir fait la navette.
La semaine dernière, un chauffeur de bus a même appelé la police quand des migrants sont montés à bord
Guillaume, un citoyen vivant à Saint-Jean-de-Luz
« Il m’est arrivé de gérer 10 ou 40 personnes d’un coup. Des femmes avec des bébés, des enfants, des jeunes qui avaient marché des heures et me racontaient leur périple. J’allais parfois m’isoler pour pleurer avant de m’occuper d’eux », confie celui qui ne cache pas sa tristesse face à tant d’« inhumanité ». Chaque jour, rapporte-t-il, la police sillonne les alentours, procède à des #contrôles_au_faciès à l’arrêt de bus en direction de Bayonne et embarque les migrants, comme en témoigne cette vidéo publiée sur Facebook en août 2019 (▻https://www.facebook.com/100000553678281/posts/2871341412894286/?d=n).
« La semaine dernière, un #chauffeur_de_bus a même appelé la #police quand des migrants sont montés à bord. Ça rappelle une époque à vomir. » Face à ce « harcèlement » et cette « pression folle », Guillaume n’est pas étonné que les Algériens aient pris le risque de longer la voie ferrée. « Les habitants et commerçants voient régulièrement des personnes passer par là. Les gens sont prêts à tout. »
À la frontière franco-espagnole aussi, en gare de Hendaye, la police est partout. Un véhicule se gare, deux agents en rejoignent un autre, situé à l’entrée du « topo » (train régional qui relie Hendaye à la ville espagnole de Saint-Sébastien), qui leur tend des documents. Il leur remet un jeune homme, arabophone, qu’ils embarquent.
« Ils vont le laisser de l’autre côté du pont. Ils font tout le temps ça, soupire Miren*, qui observe la scène sans pouvoir intervenir. Les policiers connaissent les horaires d’arrivée du topo et des trains venant d’#Irun (côté espagnol). Ils viennent donc dix minutes avant et se postent ici pour faire du contrôle au faciès. » Depuis près de trois ans, le réseau citoyen auquel elle appartient, Bidasoa Etorkinekin, accueille et accompagne les personnes en migration qui ont réussi à passer la frontière, en les acheminant jusqu’à Bayonne.
La bénévole monte à bord de sa voiture en direction des entrepôts de la SNCF. Là, un pont flambant neuf, barricadé, apparaît. « Il a été fermé peu après son inauguration pour empêcher les migrants de passer. » Des #grilles ont été disposées, tel un château de cartes, d’autres ont été ajoutées sur les côtés. En contrebas, des promeneurs marchent le long de la baie.
Miren observe le pont de Santiago et le petit chapiteau blanc marquant le #barrage_de_police à la frontière entre Hendaye et #Irun. « Par définition, un #pont est censé faire le lien, pas séparer... » Selon un militant, il y aurait à ce pont et au pont de #Behobia « quatre fois plus de forces de l’ordre » qu’avant. Chaque bus est arrêté et les passagers contrôlés. « C’est cela qui pousse les personnes à prendre toujours plus de risques », estime-t-il, à l’instar de #Yaya_Karamoko, mort noyé dans la Bidassoa en mai dernier.
On ne peut pas en même temps organiser l’accueil des personnes à Bayonne et mettre des moyens énormes pour faire cette chasse aux sorcières
Eñaut, responsable de la section nord du syndicat basque LAB
Le 12 juin, à l’initiative du #LAB, syndicat socio-politique basque, une manifestation s’est tenue entre Irun et Hendaye pour dénoncer la « militarisation » de la frontière dans ce qui a « toujours été une terre d’accueil ». « Ça s’est inscrit dans une démarche de #désobéissance_civile et on a décidé de faire entrer six migrants parmi une centaine de manifestants, revendique Eñaut, responsable du Pays basque nord. On ne peut pas en même temps organiser l’accueil des personnes à Bayonne et mettre des moyens énormes pour faire cette #chasse_aux_sorcières, avec les morts que cela engendre. L’accident de Saint-Jean-de-Luz est le résultat d’une politique migratoire raciste. » L’organisation syndicale espère, en développant l’action sociale, sensibiliser toutes les branches de la société – patronat, salariés, État – à la question migratoire.
Des citoyens mobilisés pour « sécuriser » le parcours des migrants
À 22 heures mardi, côté espagnol, Maite, Arantza et Jaiona approchent lentement de l’arrêt de bus de la gare routière d’Irun. Toutes trois sont volontaires auprès du réseau citoyen #Gau_Txori (les « Oiseaux de nuit »). Depuis plus de trois ans, lorsque les cars se vident le soir, elles repèrent d’éventuels exilés désorientés en vue de les acheminer au centre d’accueil géré par la Cruz Roja (Croix-Rouge espagnole), situé à deux kilomètres de là. En journée, des marques de pas, dessinées sur le sol à intervalle régulier et accompagnées d’une croix rouge, doivent guider les migrants tout juste arrivés à Irun. Mais, à la nuit tombée, difficile de les distinguer sur le bitume et de s’orienter.
« En hiver, c’est terrible, souffle Arantza. Cette gare est désolante. Il n’y a rien, pas même les horaires de bus. On leur vient en aide parce qu’on ne supporte pas l’injustice. On ne peut pas rester sans rien faire en sachant ce qu’il se passe. » Et Maite d’enchaîner : « Pour moi, tout le monde devrait pouvoir passer au nom de la liberté de la circulation. » « La semaine dernière, il y avait beaucoup de migrants dans les rues d’Irun. La Croix-Rouge était dépassée. Déjà, en temps normal, le centre ne peut accueillir que 100 personnes pour une durée maximale de trois jours. Quand on leur ramène des gens, il arrive que certains restent à la porte et qu’on doive les installer dans des tentes à l’extérieur », rapporte, blasée, Jaiona.
À mesure qu’elles dénoncent les effets mortifères des politiques migratoires européennes, un bus s’arrête, puis un second. « Je crois que ce soir, on n’aura personne », sourit Arantza. Le trio se dirige vers le dernier bus, qui stationne en gare à 23 h 10. Un homme extirpe ses bagages et ceux d’une jeune fille des entrailles du car. Les bénévoles tournent les talons, pensant qu’ils sont ensemble. C’est Jaiona, restée en arrière-plan, qui comprend combien l’adolescente a le regard perdu, désespérée de voir les seules femmes présentes s’éloigner. « Cruz Roja ? », chuchote l’une des volontaires à l’oreille de Mariem, qui hoche la tête, apaisée de comprendre que ces inconnues sont là pour elle.
Ni une ni deux, Maite la soulage d’un sac et lui indique le véhicule garé un peu plus loin. « No te preocupes, somos voluntarios » (« Ne t’inquiète pas, nous sommes des bénévoles »), lui dit Jaiona en espagnol. « On ne te veut aucun mal. On t’emmène à la Croix-Rouge et on attendra d’être sûres que tu aies une place avant de partir », ajoute Maite dans un français torturé.
Visage juvénile, yeux en amande, Mariem n’a que 15 ans. Elle arrive de Madrid, un bonnet à pompon sur la tête, où elle a passé un mois après avoir été transférée par avion de Fuerteventura (îles Canaries) dans l’Espagne continentale, comme beaucoup d’autres ces dernières semaines, qui ont ensuite poursuivi leur route vers le nord. Les bénévoles toquent à la porte de la Cruz Roja, un agent prend en charge Mariem. Au-dehors, les phares de la voiture illuminent deux tentes servant d’abris à des exilés non admis.
J’avais réussi à passer la frontière mais la police m’a arrêtée dans le #bus et m’a renvoyée en Espagne
Fatima*, une exilée subsaharienne refoulée après avoir franchi la frontière
Le lendemain matin, dès 9 heures, plusieurs exilés occupent les bancs de la place de la mairie à Irun. Chaque jour, entre 10 heures et midi, c’est ici que le réseau citoyen Irungo Harrera Sarea les accueille pour leur donner des conseils. « Qui veut rester en Espagne ici ? », demande Ion, l’un des membres du collectif. Aucune main ne se lève. Ion s’y attendait. Fatima*, la seule femme parmi les 10 exilés, a passé la nuit dehors, ignorant l’existence du centre d’accueil. « J’avais réussi à passer la frontière mais la police m’a arrêtée dans le bus et m’a renvoyée en Espagne », relate-t-elle, vêtue d’une tenue de sport, un sac de couchage déplié sur les genoux. Le « record », selon Ion, est détenu par un homme qui a tenté de passer à huit reprises et a été refoulé à chaque fois. « Il a fini par réussir. »
Éviter de se déplacer en groupe, ne pas être trop repérable. « Vous êtes noirs », leur lance-t-il, pragmatique, les rappelant à une triste réalité : la frontière est une passoire pour quiconque a la peau suffisamment claire pour ne pas être contrôlé. « La migration n’est pas une honte, il n’y a pas de raison de la cacher », clame-t-il pour justifier le fait de s’être installés en plein centre-ville.
Ion voit une majorité de Subsahariens. Peu de Marocains et d’Algériens, qui auraient « leurs propres réseaux d’entraide ». « On dit aux gens de ne pas traverser la Bidassoa ou longer la voie ferrée. On fait le sale boulot en les aidant à poursuivre leur chemin, ce qui arrange la municipalité d’Irun et le gouvernement basque car on les débarrasse des migrants, regrette-t-il. En voulant les empêcher de passer, les États ne font que garantir leur souffrance et nourrir les trafiquants. »
L’un des exilés se lève et suit une bénévole, avant de s’infiltrer, à quelques mètres de là, dans un immeuble de la vieille ville. Il est invité par Karmele, une retraitée aux cheveux grisonnants, à entrer dans une pièce dont les murs sont fournis d’étagères à vêtements.
Dans ce vestiaire solidaire, tout a été pensé pour faire vite et bien : Karmele scrute la morphologie du jeune homme, puis pioche dans l’une des rangées, où le linge, selon sa nature – doudounes, pulls, polaires, pantalons – est soigneusement plié. « Tu es long [grand], ça devrait t’aller, ça », dit-elle en lui tendant une veste. À sa droite, une affiche placardée sous des cartons étiquetés « bébé » vient rappeler aux Africaines qu’elles sont des « femmes de pouvoir ».
Le groupe d’exilés retourne au centre d’accueil pour se reposer avant de tenter le passage dans la journée. Mariem, l’adolescente, a choisi de ne pas se rendre place de la mairie à 10 heures, influencée par des camarades du centre. « On m’a dit qu’un homme pouvait nous faire passer, qu’on le paierait à notre arrivée à Bayonne. Mais je suis à la frontière et il ne répond pas au téléphone. Il nous a dit plus tôt qu’il y avait trop de contrôles et qu’on ne pourrait pas passer pour l’instant », confie-t-elle, dépitée, en fin de matinée. Elle restera bloquée jusqu’en fin d’après-midi à Behobia, le deuxième pont, avant de se résoudre à retourner à la Cruz Roja pour la nuit.
L’exil nous détruit, je me dis des fois qu’on aurait mieux fait de rester auprès des nôtres
Mokhtar*, un migrant algérien
Au même moment, sur le parking précédant le pont de Santiago, de jeunes Maghrébins tuent le temps, allongés dans l’herbe ou assis sur un banc. Tous ont des parcours de vie en pointillés, bousillés par « el ghorba » (« l’exil »), qui n’a pas eu pitié d’eux, passés par différents pays européens sans parvenir à s’établir. « Huit ans que je suis en Europe et je n’ai toujours pas les papiers », lâche Younes*, un jeune Marocain vivant depuis un mois dans un foyer à Irun. Mokhtar*, un harraga (migrant parti clandestinement depuis les côtes algériennes) originaire d’Oran, abonde : « L’exil nous détruit, je me dis des fois qu’on aurait mieux fait de rester auprès des nôtres. Mais aujourd’hui, c’est impossible de rentrer sans avoir construit quelque chose... » La notion « d’échec », le regard des autres seraient insoutenables.
Chaque jour, Mokhtar et ses amis voient des dizaines de migrants tenter le passage du pont qui matérialise la frontière. « Les Algériens qui sont morts étaient passés par ici. Ils sont même restés un temps dans notre foyer. Avant qu’ils ne passent la frontière, je leur ai filé quatre cigarettes. Ils sont partis de nuit, en longeant les rails de train depuis cet endroit, pointe-t-il du doigt au loin. Paix à leur âme. Cette frontière est l’une des plus difficiles à franchir en Europe. » L’autre drame humain est celui des proches des victimes, ravagés par l’incertitude faute d’informations émanant des autorités françaises.
Les proches des victimes plongés dans l’incertitude
« Les familles ne sont pas prévenues, c’est de la torture. On a des certitudes sur deux personnes. La mère de l’un des garçons a appelé l’hôpital, le commissariat… Sans obtenir d’informations. Or elle n’a plus de nouvelles depuis le jour du drame et les amis qui l’ont connu sont sûrs d’eux », expliquait une militante vendredi 22 octobre. Selon le procureur de Bayonne, contacté cette semaine par Mediapart, les victimes ont depuis été identifiées, à la fois grâce à l’enquête ouverte mais aussi grâce aux proches qui se sont signalés.
La mosquée d’Irun a également joué un rôle primordial pour remonter la trace des harragas décédés. « On a été plusieurs à participer, dont des associations. J’ai été en contact avec les familles des victimes et le consulat d’Algérie, qui a presque tout géré. Les corps ont été rapatriés en Algérie samedi 30 octobre, le rescapé tient le coup moralement », détaille Mohamed, un membre actif du lieu de culte. Dès le 18 octobre, la page Facebook Les Algériens en France dévoilait le nom de deux des trois victimes, Faisal Hamdouche, 23 ans, et Mohamed Kamal, 21 ans.
À quelques mètres de Mokhtar, sur un banc, deux jeunes Syriens se sont vu notifier un refus d’entrée, au motif qu’ils n’avaient pas de documents d’identité : « Ça fait quatre fois qu’on essaie de passer et qu’on nous refoule », s’époumone l’aîné, 20 ans, quatre tickets de « topo » à la main. Son petit frère, âgé de 14 ans, ne cesse de l’interroger. « On ne va pas pouvoir passer ? » Leur mère et leur sœur, toutes deux réfugiées, les attendent à Paris depuis deux ans ; l’impatience les gagne.
Jeudi midi, les Syriens, mais aussi le groupe d’exilés renseignés par Irungo Harrera Sarea, sont tous à Pausa, à Bayonne. Certains se reposent, d’autres se détendent dans la cour du lieu d’accueil, où le soleil cogne. « C’était un peu difficile mais on a réussi, confie Fofana, un jeune Ivoirien, devant le portail, quai de Lesseps. Ça me fait tellement bizarre de voir les gens circuler librement, alors que nous, on doit faire attention. Je préfère en rire plutôt qu’en pleurer. »
Si les exilés ont le droit de sortir, ils ne doivent pas s’éloigner pour éviter d’être contrôlés par la police. « On attend le car pour aller à Paris ce soir », ajoute M., le Syrien, tandis que son petit frère se cache derrière le parcmètre pour jouer, à l’abri du soleil, sur un téléphone. Une dernière étape, qui comporte elle aussi son lot de risques : certains chauffeurs des cars « Macron » réclament un document d’identité à la montée, d’autres pas.
▻https://www.mediapart.fr/journal/international/311021/la-frontiere-franco-espagnole-le-renforcement-des-controles-conduit-les-mi
#frontières #migrations #réfugiés #France #Espagne #Pyrénées #contrôles_frontaliers #frontières #délation #morts #morts_aux_frontières #mourir_aux_frontières #décès #militarisation_de_la_frontière #refoulements #push-backs #solidarité
–—
voir aussi :
#métaliste sur les personnes en migration décédées à la frontière entre l’#Espagne et la #France, #Pays_basque :
►https://seenthis.net/messages/932889
La #Pologne érigera une clôture en barbelés à sa frontière avec le #Bélarus
La Pologne a annoncé lundi qu’elle allait ériger une « solide #clôture » de barbelés, haute de 2,5 mètres, à la frontière polono-bélarusse et y augmenter ses effectifs militaires pour empêcher les migrants de pénétrer sur son sol.
La Pologne a annoncé lundi qu’elle allait ériger une « solide clôture » de barbelés, haute de 2,5 mètres, à la frontière polono-bélarusse et y augmenter ses effectifs militaires pour empêcher les migrants de pénétrer sur son sol.
Varsovie et les trois pays baltes (la Lituanie, la Lettonie et l’Estonie) dénoncent ensemble une « attaque hybride » organisée par le Bélarus qui, selon eux, encourage les migrants à passer illégalement sur le territoire de l’Union européenne.
Le ministre polonais de la Défense, Mariusz Blaszczak, a précisé lundi qu’une nouvelle clôture « à l’instar de celle qui a fait ses preuves à la frontière serbo-hongroise », composée de quelques spirales superposées de fils barbelés, doublerait la première barrière à fil unique qui s’étend déjà sur environ 130 kilomètres, soit sur près d’un tiers de la longueur de la frontière entre les deux pays.
« Les travaux commenceront dès la semaine prochaine », a déclaré M. Blaszczak à la presse.
Le ministre a annoncé que les effectifs militaires à la frontière allaient prochainement doubler, pour atteindre environ 2.000 soldats dépêchés sur place afin de soutenir la police des frontières.
« Nous nous opposerons à la naissance d’une nouvelle voie de trafic d’immigrés, via le territoire polonais », a-t-il insisté.
Les quatre pays de la partie orientale de l’Union européenne ont exhorté lundi l’Organisation des Nations unies à prendre des mesures à l’encontre du Bélarus.
Les Premiers ministres d’Estonie, de Lettonie, de Lituanie et de Pologne ont assuré dans une déclaration commune que l’afflux des migrants avait été « planifié et systématiquement organisé par le régime d’Alexandre Loukachenko ».
Des milliers de migrants, pour la plupart originaires du Moyen-Orient, ont franchi la frontière bélarusso-européenne ces derniers mois, ce que l’Union européenne considère comme une forme de représailles du régime bélarusse face aux sanctions de plus en plus sévères que l’UE lui impose.
« Il est grand temps de porter la question du mauvais traitement infligé aux migrants sur le territoire bélarusse à l’attention des Nations unies, notamment du Conseil de sécurité des Nations unies », peut-on lire dans la déclaration.
Les quatre pays affirment qu’ils accorderont toute la protection nécessaire aux réfugiés traversant la frontière, conformément au droit international, mais ils demandent également d’« éventuelles nouvelles mesures restrictives de la part de l’UE pour empêcher toute nouvelle immigration illégale organisée par l’Etat bélarusse ».
Dans de nombreux cas, les autorités de Minsk repoussent les migrants vers la frontière de l’UE, ce qui a déjà conduit à des situations inextricables.
Un groupe de migrants afghans reste ainsi bloqué depuis deux semaines sur une section de la frontière entre la Pologne et le Bélarus.
Des organisations polonaises des droits de l’Homme et l’opposition libérale accusent le gouvernement nationaliste-conservateur polonais de refuser de secourir les personnes ayant besoin d’aide et d’ainsi violer le droit international.
▻https://www.mediapart.fr/journal/fil-dactualites/230821/la-pologne-erigera-une-cloture-en-barbeles-sa-frontiere-avec-le-belarus
#frontières #murs #barrières_frontalières #asile #migrations #réfugiés #Biélorussie #militarisation_de_la_frontière
–-
voir aussi la métaliste sur la situation à la frontière entre la #Pologne et la #Biélorussie (2021) :
►https://seenthis.net/messages/935860
Jews on knees beg Netherlands entry
Migranti, vertice al Viminale dei ministri dell’Interno di Italia, Ciad, Libia e Niger
Una cooperazione congiunta per il contrasto al terrorismo e alla tratta di esseri umani. Istituita una cabina di regia che opererà per monitorare sui temi oggetto dell’incontro
Clingendael report : EU external migration policies misaligned with reality
On the February 1, Dutch think tank #Clingendael released a report on the relationship between irregular migration and conflict and stability in Mali, Niger and Libya. The report’s main finding is that current EU policies are misaligned with the reality of trans-Saharan migration.
The report argues that European external migration policies fail to take into account the diverse socio-political dynamics of intra-African migration. EU policies focus on stemming migration flows through securitised measures as a means to stop human smuggling. However, it disregards local actors such as transportation companies facilitating irregular movements, local security forces gaining income by bribery and road taxes, political elites facilitating irregular migration in exchange for money and local population offering to sell food and lodging to earn a living. Ignoring such essential local dynamics prevents the establishment of effective migration management policies. A worrying mistake given the EU’s increased focus on the external dimension of migration in the context of the Partnership Framework.
The report encourages the EU to focus on peace building processes and invest in both conflict- and politically sensitive state building as well as regional cooperation.
▻http://www.ecre.org/clingendael-report-eu-external-migration-policies-misaligned-with-reality
#rapport #externalisation #asile #migrations #réfugiés #Libye #Sahel #Gao #Agadez #Niger #routes_migratoires #Mali #Tamanrasset #Niamey #Sebba #Arlit #Séguédine #Algérie #Murzuq #Ghadames #Ghat #Tripoli #EU #UE #Union_européenne #détention_administrative #rétention #passeurs #trafiquants #trafic_d'êtres_humains #gardes-côtes
Lien vers le rapport :