• Vague après vague | jef klak
    https://www.jefklak.org/vague-apres-vague

    Au début de la pandémie de Covid-19, les initiatives autonomes pour préserver la santé des un·es et des autres ont foisonné : brigades de solidarité populaire pour distribuer des repas aux plus pauvres pendant le confinement, fabrication artisanale de masques, auto-organisation à l’échelle des quartiers. Des paroles et des réflexions ont accompagné ces actions.
    Elles venaient des militant·es de la lutte contre le VIH/Sida (Gwen Fauchois) ; du milieu écolo (Aude Vidal) ; de groupes antivalidistes (le Collectif Luttes et handicaps pour l’égalité et l’émancipation) ; de personnes venues des luttes anticarcérales, antiautoritaires ou antifascistes (Acta.zone).

    Au sortir du confinement, des collectifs ont continué à prendre des mesures pour éviter d’occasionner des clusters, avec des tests, des masques, de l’aération. Mais, en parallèle, les intérêts économiques pesaient de tout leur poids pour inciter à un retour rapide au business as usual, puis l’arrivée des vaccins dans les pays industrialisés a changé la donne. L’attention portée au Covid est peu à peu retombée, même dans les espaces qui y étaient les plus sensibles. Au fur et à mesure que la pandémie se banalisait, avec ses vagues à répétitions, le Covid a cessé d’être perçu comme un problème social urgent dont il fallait s’emparer et les gestes de protection collectives sont tombés en déshérence.

    Je voudrais raconter un bout de l’histoire de ces quatre années de pandémie, celui dont j’ai été témoin, depuis la petite partie du champ politique où je m’inscris, où les gens valorisent le fait de s’auto-organiser, critiquent depuis toujours l’État et ses institutions répressives, sont hostiles au capitalisme et aux destructions qu’il engendre et attentif·ves aux relations de pouvoir qui structurent la société. Depuis 2020, dans ce camp des luttes et du mouvement social, une position a éclos, revendiquant l’importance de se prémunir collectivement de la contagion, indépendamment des directives gouvernementales, pour des raisons politiques.

    #covid_19 #santé #politique #RDR #masque #autodéfense_sanitaire #minorité_de_la_minorité #Cabrioles #darwinisme_social

  • La valle che accoglie

    Viaggio nella più antica chiesa protestante italiana, minoranza un tempo perseguitata, che oggi è in prima linea nell’accoglienza dei migranti e nelle battaglie per i diritti delle donne e delle coppie omosessuali.

    Un corteo composto esce da un edificio giallo e bianco in stile inglese: religiosi e delegati marciano in silenzio. Davanti al gruppo, alcuni indossano delle toghe nere, gli abiti lunghi dei pastori; al collo le facciole, dei fiocchi bianchi, nonostante le temperature proibitive che stanno colpendo le Alpi e le prealpi italiane alla fine di agosto. Il corteo attraversa il giardino, poi la strada, quindi svolta per entrare in un altro edificio che ricorda una chiesa anglicana: il tempio di Torre Pellice, dove si svolgerà il rito che aprirà il sinodo annuale della più antica chiesa protestante italiana, la chiesa valdese, che è anche la più progressista del paese.

    Non è possibile sapere di cosa esattamente discuterà il sinodo prima che cominci, perché perfino l’ordine del giorno è deciso dai 180 delegati che da tutta Italia sono arrivati a Torre Pellice, una cittadina a 55 chilometri da Torino. “Abbiamo una maniera di decidere le cose molto democratica”, spiega la pastora e teologa Daniela Di Carlo, che si definisce “femminista, antispecista, ecologista” e cita più volte la femminista statunitense Donna Haraway e il filosofo spagnolo Paul B. Preciado.

    Un ruolo centrale

    È arrivata nella val Pellice da Milano, la città di cui è la guida spirituale per le chiese protestanti e responsabile dei rapporti con le altre religioni. “Al sinodo dei valdesi non partecipa solo il clero: dei 180 delegati solo novanta sono pastori, gli altri novanta sono fedeli, che sono eletti localmente dalle diverse chiese. Questo significa che l’assemblea può ribaltare i pronostici e non si può mai davvero prevedere quello che succederà durante la riunione. Se non si è d’accordo su qualcosa, si va avanti a discutere a oltranza”, assicura la pastora, seduta nella stanza rossa della Casa valdese, la sede della chiesa valdese e della sala del sinodo, circondata dai quadri che rappresentano i benefattori della chiesa.

    I valdesi hanno consacrato la prima pastora nel 1967 in un paese in cui la chiesa cattolica, che è maggioritaria, non riconosce il sacerdozio femminile. Di Carlo studiava architettura all’università, ma poi ha deciso di dedicare la sua vita alla chiesa negli anni ottanta, dopo un’esperienza di volontariato durante il terremoto in Irpinia. “Mi interessavano più le persone delle case”, scherza. “Nel Vangelo Gesù ha affidato alle donne l’annuncio della sua resurrezione, voleva per le donne un ruolo centrale”, continua.

    “Quando Gesù incontra le sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, è molto chiaro. Marta si lamenta perché la sorella Maria si è messa ad ascoltare le sue parole, invece di aiutarla nelle faccende domestiche, ma Gesù le risponde di lasciarla stare, perché Maria si è seduta ‘nella parte buona, che non le sarà tolta’”, continua Di Carlo, secondo cui la possibilità di diventare pastore per le donne era presente già agli albori della chiesa valdese, addirittura prima che questa aderisse alla riforma protestante nel cinquecento, per essere prima abolita, quindi ripristinata nella seconda metà del novecento. Come guida spirituale della sua comunità non si sente discriminata in quanto donna. “Tranne nei casi in cui partecipo alle cerimonie ecumeniche, specialmente nel rito ortodosso ci sono molti limiti che ancora escludono le donne dalla liturgia”, spiega.

    I valdesi sono stati i primi a benedire le unioni tra persone dello stesso sesso e nel sinodo di quest’anno potrebbero discutere della gestazione per altri (gpa), una pratica riproduttiva che divide anche le femministe e per cui il governo italiano guidato da Giorgia Meloni ha proposto addirittura l’istituzione del “reato universale”. “Abbiamo affidato a una commissione l’indagine sul tema e ne dovremmo discutere. Potrebbero esserci delle divisioni, come avvenne al tempo del riconoscimento delle unioni civili, ma si troverà un accordo”, assicura Di Carlo. Nel sinodo di quest’anno si discuterà anche della mancata presa di distanza dal fascismo nel sinodo del 1943, che si svolse dal 6 al 10 settembre durante i giorni dell’armistizio dell’8 settembre. Nel sinodo, ancora oggi, alcuni vorrebbero che si chiedesse perdono per non aver preso una decisione netta in quell’occasione.

    “Noi siamo una chiesa che include: siamo impegnati contro l’omotransfobia, contro il razzismo, contro la violenza sulle donne”, continua. “Per noi Gesù è inclusione, è accoglienza. Crediamo in un Dio che è diventato uomo per amare e accogliere e la nostra missione è provare a essere come lui”, sottolinea. Proprio per questo motivo, racconta, le capita di incontrare nella chiesa di Milano persone che si convertono al protestantesimo, perché non si sentono accolte in altre chiese: “Arrivano da noi perché sono divorziati, oppure sono omosessuali e non si sentono accettati in altri contesti, ma sono religiosi e vogliono trovare un posto in cui possano esserlo insieme con gli altri”, conclude.

    L’Europa dei valdesi

    I valdesi prendono il loro nome da un mercante di tessuti del dodicesimo secolo chiamato Valdo, che viveva a Lione ed era diventato estremamente ricco con l’usura. “La sua storia è simile a quella di Francesco di Assisi”, assicura Davide Rosso, direttore della fondazione Centro culturale valdese, mentre fa strada, camminando su un sentiero nel villaggio di Angrogna, un paese di montagna a pochi chilometri da Torre Pellice, che nel cinquecento era diventato il centro più esteso nelle valli valdesi.

    Ad Angrogna è conservata una grotta, che è possibile visitare, in cui i valdesi delle origini si riunivano per celebrare il rito domenicale o si nascondevano quando erano perseguitati, la Gheisa d’la tana (la chiesta della tana). “Oggi è possibile visitare questi luoghi a piedi, perché sono stati riconosciuti come percorso turistico dal Consiglio europeo, che li considera costitutivi della storia europea”, spiega Rosso. Nel 2015 papa Francesco ha visitato per la prima volta un tempio valdese a Torino e ha chiesto perdono per le persecuzioni contro i valdesi, condotte dai cattolici nel corso dei secoli. In quell’occasione è stata Alessandra Trotta, moderatrice della Tavola valdese originaria di Palermo, a dare la benedizione finale a cui ha partecipato anche Bergoglio.

    All’inizio i valdesi, chiamati i “poveri di Lione”, furono tollerati dalle gerarchie ecclesiastiche romane: nel 1180 Valdo rinunciò a tutte le sue ricchezze, distribuì i beni ai poveri e cominciò a predicare e a mendicare. Quando gli chiedevano perché lo avesse fatto, rispondeva: “Se vi fosse dato di vedere e credere i tormenti futuri che ho visto e in cui credo, forse anche voi vi comportereste in modo simile”. Da subito ebbe dei seguaci che, come lui, abbandonavano le ricchezze e la vita mondana, per farsi poveri. Inizialmente erano appoggiati dal vescovo di Lione, ma poi furono scomunicati nel 1184 dal papa Lucio III, perché avevano la “presunzione” di predicare in pubblico pur non essendo consacrati e furono considerati eretici dalla chiesa di Roma.

    Molti valdesi dovettero fuggire dalle persecuzioni e si rifugiarono nelle valli delle alpi Cozie, tra l’Italia e la Francia. Quel territorio diventò una base del movimento religioso, durante secoli di pericoli. Nel sinodo valdese del 1532 proprio ad Angrogna la chiesa aderì alla riforma protestante. “Questo diede ai valdesi un appoggio importante dal punto di vista internazionale e anche una maggiore solidità dal punto di vista teologico”, spiega Rosso, mentre mostra il monumento di Chanforan, un obelisco eretto nei campi di Angrogna, che ricorda il luogo in cui si svolse quel sinodo.

    “In quel momento si decise di tradurre la Bibbia in francese e la traduzione fu affidata a Olivetano, con un grande sforzo economico da parte dei valdesi”, racconta Rosso. Con l’adesione alla riforma, i valdesi vennero allo scoperto e cominciarono a costruire anche dei templi, ma questo favorì le persecuzioni nei loro confronti da parte dei Savoia, spesso per ragioni meramente economiche e politiche.

    “Il seicento è stato un secolo particolarmente difficile: nel 1655 il duca di Savoia condusse una campagna, che aveva come obiettivo lo sterminio dei valdesi”, spiega Davide Rosso, mentre cammina tra le stradine di montagna in una giornata caldissima di agosto. “Le loro case furono distrutte, le persone massacrate o imprigionate e i loro beni confiscati. Molti furono costretti a fuggire in Svizzera o in Francia”. Della questione si occuparono anche i britannici Oliver Cromwell, lord protettore del Commonwealth, e il ministro degli affari esteri, il poeta John Milton, che inviò una serie di lettere ai sovrani e ai governi europei per chiedere che si interessassero della causa valdese.

    Cromwell scrisse addirittura al re di Francia, Luigi XIV, minacciando di interrompere le trattative di amicizia in corso con il Regno Unito, se il re francese non avesse fatto pressione sui Savoia per far ottenere ai valdesi la libertà di culto. Ma solo nel 1848 il re Carlo Alberto di Savoia concesse i diritti civili e politici al gruppo. “Tuttavia la libertà di culto vera e propria è arrivata solo nel 1984, con la firma delle intese con lo stato italiano, anche se era già prevista in teoria dall’articolo 8 della costituzione”, spiega Rosso. Fu la prima intesa di questo tipo firmata in Italia con una minoranza religiosa.

    Per lo storico valdese è importante comprendere i legami dei valdesi con le altre chiese protestanti e i loro rapporti internazionali che gli hanno permesso di sopravvivere pur essendo una minoranza perseguitata. Non è un caso, dice Rosso, che “Altiero Spinelli abbia pronunciato a Torre Pellice il suo primo discorso europeista, dopo la scrittura del manifesto di Ventotene”. Il teorico del federalismo europeo era sfollato a Torre Pellice, a casa di una famiglia valdese di Milano, e Rosso sostiene che in parte sia stato influenzato dall’atmosfera cosmopolita di queste valli.

    “Per decenni i valdesi non hanno potuto studiare, frequentare le scuole pubbliche, perché non avevano diritti civili, quindi era normale per loro trasferirsi in altri paesi europei per studiare. Parlavano almeno tre lingue. Per sopravvivere hanno dovuto emigrare, spostarsi. Ma questo li ha resi poliglotti e gli ha permesso di sviluppare uno spirito europeo. Poi l’idea della federazione è tipica del protestantesimo: le chiese protestanti sono sorelle”, continua Rosso, che accompagnerà il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella nel suo viaggio a Torre Pellice, il 31 agosto. In quell’occasione sarà commemorato il discorso di Spinelli sull’Europa. “È interessante guardare alle elezioni europee del prossimo anno e a quel che rimane del progetto europeo da queste valli”, conclude Rosso.

    Dall’Afghanistan alla val Pellice

    Parwana Kebrit apre la porta di un appartamento luminoso al primo piano di un palazzo che ha le porte di ferro battuto. C’è molto caldo, ma l’interno della casa di Kebrit è fresco e in ombra. La donna è arrivata nella val Pellice cinque mesi fa dal Pakistan, insieme al marito Jawan, con un corridoio umanitario. Originaria di un piccolo paese dell’Afghanistan si è rifugiata in Pakistan per la prima volta nel 2001, insieme alla sua famiglia di origine.

    “È lì che io e le mie sorelle siamo andate a scuola per la prima volta, in Afghanistan la maggior parte delle ragazze non poteva studiare. E al di là dei taliban, il 90 per cento degli afgani pensa che per le donne non sia giusto studiare”, racconta. Poi con la famiglia è tornata a Kabul, dove ha frequentato l’università ed è diventata un’attivista per i diritti delle donne. Ma con il ritorno dei taliban nella capitale afgana nell’agosto del 2021, Kebrit e il marito sono stati costretti a scappare di nuovo. “Per noi non era sicuro rimanere nel paese”, racconta.

    Dal Pakistan è arrivata in Piemonte, accolta dalla Diaconia valdese, che la sta aiutando a riprendere gli studi e a imparare l’italiano, oltre che a farsi riconoscere i titoli di studio del paese di origine. Ha una grande passione per il disegno e la pittura e mostra orgogliosa i suoi quadri, esposti uno vicino all’altro. Uno di questi, l’unico dipinto con i colori a olio, l’ha portato con sé nel viaggio dal Pakistan. Mostra delle donne afgane con i pugni alzati che marciano tenendo una bandiera e schiacciano degli uomini. “Sono le donne che combattono per i loro diritti”, spiega. In un disegno che ha realizzato in Italia, invece, si vedono sei gabbie con dentro degli uccelli, una delle gabbie è rossa ed è aperta, l’uccello è volato via. Nel quadro successivo l’uccello rosso vola dopo essersi liberato. Parwana Kebrit si sente così, finalmente libera. La sua intenzione ora è quella di continuare a studiare. Il suo inglese è fluente e i suoi occhi brillano di fiducia.

    “Amo l’Italia, sono stati tutti gentili e disponibili con noi. Voglio rimanere qui”, assicura. Dal 2016 i valdesi sono promotori, insieme alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia e alla comunità di sant’Egidio dei cosiddetti corridoi umanitari, dei ponti aerei che hanno permesso di portare legalmente in Italia 4.244 rifugiati dall’Afghanistan, dal Libano e dalla Libia, in accordo con lo stato italiano. Nove persone arrivate in Italia con i corridoi umanitari sono al momento ospitati nella val Pellice, grazie alla Diaconia valdese. “Si tratta di due famiglie afgane”, spiega Alice Squillace, responsabile dell’accoglienza per la Diaconia. La famiglia di Kebrit e quella di Abdul Mutaleb Hamed, un medico afgano che lavorava con un’ong italiana, il Cospe. “Lavoriamo molto sulla loro inclusione e il rapporto con la comunità ospitante”, assicura. E negli anni non ci sono mai stati grandi problemi.

    “In questo momento in cui si torna a parlare di emergenza migranti in Italia (sono stati superati i centomila arrivi nel 2023, ndr), ci sembra che tutto sia strumentale. Guardare per esempio all’esperienza dei corridoi umanitari mostra che lavorare in maniera umana con piccoli gruppi di persone non produce mai situazioni difficili o ingestibili”, conclude. “Siamo stati rifugiati come valdesi in Svizzera e in Germania e sappiamo quali siano le sofferenze del viaggio e della cattiva accoglienza”, assicura Francesco Sciotto, pastore della chiesa valdese di Messina e presidente della Diaconia valdese, seduto ai tavolini del bar, allestito dalla chiesa valdese durante il sinodo, nel giardino del quartier generale di Torre Pellice. “Per questo i valdesi sono particolarmente impegnati nell’accoglienza e per questo vogliono evitare che altri subiscano le conseguenze di una cattiva accoglienza”.

    Oggi in Italia vivono circa ventimila valdesi e la maggioranza è concentrata nelle tre valli del Piemonte: la val Chisone, la valle Germanasca e la val Pellice. “Come tutte le chiese, anche i valdesi hanno una crisi di fedeli e di vocazioni. Sono sempre di meno i ragazzi e le ragazze che decidono di diventare pastori”, racconta Michel Charbonnier, pastore di Torre Pellice.

    “È una crisi che in larga parte dipende dalla secolarizzazione e che noi vediamo di più in queste valli che nelle chiese delle città in giro per l’Italia”. Secondo Charbonnier, in val Pellice molte persone di famiglia valdese hanno smesso di frequentare la chiesa, ma è un processo che va avanti da decenni.

    “Ne parleremo anche nel sinodo. Ma per certi versi per i valdesi questo è un problema meno urgente che per altre chiese: per noi infatti tutti possono predicare e siamo abituati a essere in pochi”. La chiesa è molto più impegnata nelle questioni di tipo sociale che nelle questioni meramente religiose. “Fermo restando la separazione netta tra lo stato e la chiesa in cui crediamo”, conclude Charbonnier. “Sappiamo che si può incidere, anche se siamo in pochi”.

    https://www.internazionale.it/essenziale/notizie/annalisa-camilli/2023/08/24/valdesi-sinodo-torre-pellice

    #vaudois #église_vaudoise #Italie #protestantisme #sinodo #Val_Pellice #religion #accueil #réfugiés #histoire #Angrogna #réforme_protestante #Olivetano #persécution #extermination #Savoie #minorité_religieuse #minorités #corridor_humanitaire #diaconia_valdese #val_Chisone #valle_Germanasca

    • pas de côté en paca - via Le Ravi

      https://www.leravi.org/social/alternatives/la-region-paca-loin-de-lextreme-droite-est-aussi-une-terre-de-resistance-a-l

      N’est-il pas plus beau pied-de-nez que d’avoir à passer devant le domicile de Christophe Castaner à Forcalquier pour aller à Longo Maï ? Une communauté autonome et autogérée bien implantée dans la région puisque présente aussi dans le Luberon et la Crau.

      Emblématique de cet attrait pour le pas de côté, deux lieux à Marseille (Manifesten et la Déviation) appartiennent au Clip, un réseau de lieux en propriété d’usage, en clair, un système de propriété collective qui permet à une demi-douzaine d’espaces gérés collectivement de « sortir » du marché immobilier ! Et, lors de l’AG annuelle, plusieurs projets en Paca se sont fait connaître, notamment du côté d’Avignon mais aussi dans les départements alpins.

      Comme le disait en rigolant un occupant de la « Zone à patates », cette Zad visant à préserver des terres agricoles de l’extension d’une zone industrielle à Pertuis : « Entre le bocage nantais et une Zad dans le sud, y a pas à hésiter ! » Même si la « Zap » est désormais expulsable à tout moment.

    • Intervention qui m’a un peu laissé dubitatif, par l’écart entre l’ampleur du problème décrit (avec des mots très justes) et la faiblesse de ce qui est mis en avant en conséquence, c’est à dire pas grand chose d’autre que la fuite individuelle. Une référence bienvenue à Terre de Liens qui font un gros boulot pour l’installation des jeunes, mais c’est à peu près tout.
      Ou alors j’ai pas pigé le propos...

    • @koldobika vers quelle alternative organisée pourraient-elles et ils se tourner ? ce qui est frappant, c’est l’émergence parmi les jeunes « éduqués » d’un tel courant exprimant le refus d’entrer « dans le système  » ; refus fondé sur des motivations diverses plus ou moins politiques (de la conscience du caractère destructeur du système, que ce soit social ou écologique, au rejet des perspectives de vie qui s’offrent à elleux). Qui aujourd’hui porte un tel rejet ?

      Par mon bout de lorgnette : j’interviens depuis pas mal de temps en tout de fin de cycle d’une spécialisation dans le domaine de l’énergie destinée à des ingénieurs tout juste sortis d’école ; ça fait 3-4 ans que certains d’entre eux expriment ce refus du système et sortent « ailleurs » que dans les débouchés naturels, les grands du secteur ou les startups variées, les unes comme les autres faisant pourtant miroiter à leur destination un monde nouveau à créer plein d’énergies renouvelables et de consommation maîtrisée par des réseaux intelligents… Je n’ai, hélas, pas la possibilité de suivre ce qu’elles et ils deviennent dans la durée.

    • @simplicissimus Est-ce du fait de l’endroit où j’habite, je m’attendais à ce qu’ils parlent de l’urgence à développer des systèmes nourriciers robustes en dehors de ce système destructeur qu’ils décrivent parfaitement bien. Des chambres d’agricultures issues de la paysannerie comme #EHLG, des associations d’aide à la conversion ou installation en bio, des centres de recherche comme le CREAB dans le Gers, batailler pou une sécurité sociale de l’alimentation, pour des modèles agricoles moins dépendants d’intrants globalisés, des initiatives comme https://www.prommata.org/?lang=fr, comme https://latelierpaysan.org etc. Il existe plein d’initiatives qui ne demandent qu’à être étendues, copiées, propagées, et je m’attendais à ce que ces jeunes agros les connaissent bien mieux que moi, et lancent un appel à reconstruire des agricultures non nuisibles et capables de survivre au bordel qui s’installe. Car malheureusement ce ne sont pas les fuites individuelles qui pourront contrecarrer les famines qui s’annoncent.

    • @latelierpaysan même
      https://www.creabio.org
      https://securite-sociale-alimentation.org

      Des désertions rendues publiques pour des raisons politiques, il y en a toujours eu, au moins depuis les années 70, et on voit bien que ça n’a jamais changé quoi que ce soit. Ce qui change un peu, ce qui est particulier, c’est peut-être la précocité de ces désertions, avant même d’être vraiment incorporés au système (même si les écoles d’ingé c’est déjà en faire partie). Mais même pas sûr si on lit les archives des années post 68, yavait aussi des très jeunes comme ça.

      Donc oui c’est pas ça qui va changer la face du monde, et c’est vrai que publiciser dans une grande salle + dans une vidéo devenue pas mal virale, des initiatives comme l’atelier paysan ou la SSA, ça aurait carrément eu plus de gueule que juste dire « je vais faire du miel à la place ». Une occasion un peu manquée.

    • Il y a un autre phénomène qui n’a pas été soulevé : c’est le nombre important de bac + 5 ou plus qui s’installent en tant qu’agriculteurs. Pour ma part, je n’y vois pas forcément un effet de cette désertion, mais de la complexité de la démarche même de l’installation agricole.

    • Je trouve ça plutôt inquiétant. Dans ma vision idéale du futur, il n’y a pas besoin de faire bac + 5 (avec tout ce que ça suppose à la fois en terme de concurrence pour y accéder à ce niveau que de vision du monde acquise via un tel parcours) pour cultiver la terre et nourrir autrui.
      Je ferai même un lien avec l’influence du réseau salariat dans les alternatives alimentaire et agricoles, lequel propose un salaire à vie dont le montant est fonction de la qualification.

    • @deun Le problème c’est que les études sont vues comme un « bagage », une compétence potentielle. Et on se juge beaucoup plus sur ce qu’on pourrait être que sur ce qu’on est.

      Un bac+5 / 7 / 11 est encore vu comme supérieur à un bac-3 / 0 / 2 / 3 dans l’esprit collectif. Même quand le second fait un truc bien plus utile et nécessaire que le premier (comme ramasser les poubelles, faire pousser des légumes ou faire du pain). Et le salaire, n’en parlons même pas, va en proportion des études. Souvent indexé sur les « responsabilités », qui est un synonyme de domination des autres (combien de personne tu encadres) ou les capitaux engagés (combien de fric tu brasses, alors qu’en général, c’est pas le tiens).

      Donc les études, c’est un peu un pare-chocs social, un badge que tu brandis quand on est un peu trop condescendant envers toi : « Je pues le poireau et le lisier de porc ? Mais j’ai fait des études, je sais écrire et parler, je maitrise la rhétorique aussi bien que l’algèbre, alors viens pas me chercher sur l’échelle sociale ! »

      Bon, ça ne rend pas confiant en soi pendant des décennies quand tu fais un boulot chiant et nul ou éco-destructeur à te maudire sur 13 générations, et ça rendrait même un peu schizophrène. Et puis c’est un peu une reproduction du système qu’on refuse tant.

    • Partie 2, c’est peut etre aussi pour cela que le syndicalisme ne reprend pas de membres ou se divise en petits syndicats.
      Et oui, les salariés étant plus instruits, ils se sentent aussi plus apte à se défendre individuellement, là où d’autres complétaient leurs lacunes en s’unissant.

  • Sur la frontière gréco-turque, à l’épicentre des tensions

    L’Union européenne entend sanctionner la politique de plus en plus expansionniste de la Turquie, qui ravive en Grèce les souvenirs des conflits du passé. Ligne de rupture, mais aussi d’échanges entre Orient et Occident, la frontière gréco-turque ne respire plus depuis la crise sanitaire. De #Kastellorizo à la #Thrace en passant par #Lesbos, les deux pays ont pourtant tant de choses en commun, autour de cette démarcation qui fut mouvante et rarement étanche.

    Petite île aux confins orientaux de la Grèce, Kastellorizo touche presque la #Turquie. Le temps s’écoule lentement dans l’unique village, logé dans une baie profonde. En cette fin septembre, de vieux pêcheurs jouent aux cartes près des enfants qui appâtent des tortues dans les eaux cristallines. Devant son café froid, M. Konstantinos Papoutsis observe, placide, l’immense côte turque, à guère plus de deux kilomètres, et la ville de Kaş, son seul horizon. « Nous sommes une île touristique tranquille, assure cet homme affable qui gère une agence de voyages. Je l’ai répété aux touristes tout l’été. » Attablée autour de lui, la poignée d’élus de cette commune de cinq cents âmes reprend ses propos d’un air débonnaire : « Il n’y a aucun danger à Kastellorizo ! »

    Un imposant ferry, qui paraît gigantesque dans ce petit port méditerranéen, vient animer le paysage. Parti d’Athènes vingt-quatre heures plus tôt, il manœuvre difficilement pour débarquer ses passagers, parmi lesquels une cinquantaine d’hommes en treillis et chapeaux de brousse. Les soldats traversent la baie d’un pas vif avant de rejoindre les falaises inhabitées qui la dominent. « C’est une simple relève, comme il y en a tous les mois », commente M. Papoutsis, habitué à cette présence.

    Selon le #traité_de_Paris de février 1947 (article 14), et du fait de la cession par l’Italie à la Grèce du Dodécanèse, les îles dont fait partie Kastellorizo sont censées être démilitarisées. Dans les faits, les troupes helléniques y guettent le rivage turc depuis l’occupation par Ankara de la partie nord de Chypre, en 1974, précisent plusieurs historiens (1). Cette défense a été renforcée après la crise gréco-turque autour des îlots disputés d’Imia, en 1996. La municipalité de Kastellorizo refuse de révéler le nombre d’hommes postés sur ses hauteurs. Et si les villageois affichent un air de décontraction pour ne pas effrayer les visiteurs — rares en cette période de Covid-19 —, ils n’ignorent pas l’ombre qui plane sur leur petit paradis.

    Un poste avancé d’Athènes en Méditerranée

    Kastellorizo se trouve en première ligne face aux menaces du président turc Recep Tayyip Erdoğan, qui veut redessiner les cartes et imposer son propre #partage_des_eaux. Depuis les années 1970, les #îles du #Dodécanèse font l’objet d’un #conflit larvé entre ces deux pays membres de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN). La Turquie conteste la souveraineté grecque sur plusieurs îles, îlots et rochers le long de sa côte. Surtout, elle est l’un des rares pays, avec notamment les États-Unis, à ne pas avoir signé la convention des Nations unies sur le droit de la mer (dite #convention_de_Montego_Bay, et entrée en vigueur en 1994), et ne reconnaît pas la revendication par la Grèce d’un plateau continental autour de ses îles. Athènes justifie dès lors leur #militarisation au nom de la #légitime_défense (2), en particulier depuis l’occupation turque de Chypre et en raison d’une importante présence militaire à proximité : la marine et l’armée de l’air turques de l’Égée sont basées à İzmir, sur la côte occidentale de l’Asie Mineure.

    Si proche de la Turquie, Kastellorizo se trouve à 120 kilomètres de la première autre île grecque — Rhodes — et à plus de 520 kilomètres du continent grec. Alors que l’essentiel de la #mer_Egée pourrait être revendiqué par Athènes comme #zone_économique_exclusive (#ZEE) (3) au titre de la convention de Montego Bay (voir la carte ci-contre), ce lointain îlot de neuf kilomètres carrés lui permet de facto de jouir d’une large extension de plusieurs centaines de kilomètres carrés en Méditerranée orientale. Or, faute d’accord bilatéral, cette ZEE n’est pas formellement établie pour Ankara, qui revendique d’y avoir librement accès, surtout depuis la découverte en Méditerranée orientale de gisements d’#hydrocarbures potentiellement exploitables. À plusieurs reprises ces derniers mois, la Turquie a envoyé dans le secteur un bateau de recherche sismique baptisé #Oruç_Reis, du nom d’un corsaire ottoman du XVIe siècle — surnommé « #Barberousse » — né à Lesbos et devenu sultan d’Alger.

    Ces manœuvres navales font écho à l’idéologie de la « #patrie_bleue » (#Mavi_Vatan). Soutenue par les nationalistes et les islamistes, cette doctrine, conçue par l’ancien amiral #Cem_Gürdeniz, encourage la Turquie à imposer sa #souveraineté sur des #zones_disputées en #mer_Noire, en mer Égée et en #Méditerranée. Ces derniers mois, M. Erdoğan a multiplié les discours martiaux. Le 26 août, à l’occasion de l’anniversaire de la bataille de Manzikert, en 1071, dans l’est de la Turquie, où les Turcs Seldjoukides mirent en déroute l’armée byzantine, il avertissait la Grèce que toute « erreur » mènerait à sa « ruine ». Quelques semaines plus tard, le 21 octobre, lors d’une rencontre avec les présidents chypriote et égyptien à Nicosie, M. Kyriakos Mitsotakis, le premier ministre grec conservateur, accusait la Turquie de « fantasmes impérialistes assortis d’actions agressives ».

    Sous pression en août dernier, Athènes a pu compter sur le soutien de la République de Chypre, de l’Italie et de la France, avec lesquelles elle a organisé des manœuvres communes. Ou encore de l’Égypte, avec laquelle elle vient de signer un accord de partage des #zones_maritimes. Déjà en conflit ouvert avec son homologue turc sur la Syrie, la Libye et le Caucase, le président français Emmanuel Macron s’est résolument rangé aux côtés d’Athènes. « C’est un allié précieux que l’on voudrait inviter à venir sur notre île », déclare l’adjoint à la municipalité de Kastellorizo, M. Stratos Amygdalos, partisan de Nouvelle Démocratie, le parti au pouvoir. À la mi-septembre 2020, la Grèce annonçait l’acquisition de dix-huit Rafale, l’avion de combat de Dassault Aviation.

    « Erdoğan se prend pour Soliman le Magnifique. Mais il perd du crédit dans son pays, la livre turque s’effondre. Alors il essaie de redorer son image avec des idées de conquêtes, de rêve national… », maugrée de son côté M. Konstantinos Raftis, guide touristique à Kastellorizo. La comparaison entre le sultan de la Sublime Porte et l’actuel président turc revient fréquemment dans ce pays qui fit partie de l’Empire ottoman durant quatre siècles (de 1430, date de la chute de Salonique, à l’indépendance de 1830). La résistance hellénique a forgé l’identité de l’État grec moderne, où l’on conserve une profonde suspicion à l’égard d’un voisin encombrant, quatre fois plus riche, six fois plus grand et huit fois plus peuplé. Cette méfiance transcende les clivages politiques, tant le #nationalisme irrigue tous les partis grecs. Athènes voit aujourd’hui dans la doctrine de la « patrie bleue » une politique expansionniste néo-ottomane, qui fait écho à l’impérialisme passé.

    À l’embouchure du port de Kastellorizo, la silhouette d’une mosquée transformée en musée — rare vestige de la présence ottomane — fait de l’ombre à un bar à cocktails. L’édifice trône seul face aux vingt-six églises orthodoxes. La Constitution précise que l’orthodoxie est la « religion dominante » dans le pays, et, jusqu’en 2000, la confession était inscrite sur les cartes d’identité nationales. La suppression de cette mention, à la demande du gouvernement socialiste, a provoqué l’ire de la puissante Église orthodoxe, plus de 95 % des Grecs se revendiquant alors de cette religion. « Pendant toute la période du joug ottoman, nous restions des Grecs. Nos ancêtres ont défendu Kastellorizo pour qu’elle garde son identité. Nous nous battrons aussi pour qu’elle la conserve », s’emballe soudainement M. Raftis.

    Son île a dû résister plus longtemps que le reste du pays, insiste le sexagénaire. Après le départ des Ottomans, Kastellorizo, convoitée par les nations étrangères pour sa position géographique aux portes de l’Orient, a été occupée ou annexée par les Français (1915-1921), les Italiens (1921-1944), les Britanniques (1944-1945)… L’îlot n’est devenu complètement grec qu’en 1948, comme l’ensemble des îles du Dodécanèse. Depuis, il arbore fièrement ses couleurs. Dans la baie, plusieurs étendards bleu et blanc flottent sur les balcons en encorbellement orientés vers la ville turque de Kaş (huit mille habitants). Le nombre de ces drapeaux augmente quand la tension s’accroît.

    Trois autres grands étendards nationaux ont été peints sur les falaises par des militaires. En serrant les poings, M. Raftis raconte un épisode qui a « mis les nerfs de tout le monde à vif ». À la fin septembre 2020, un drone d’origine inconnue a diffusé des chants militaires turcs avant d’asperger ces bannières d’une peinture rouge vif, évoquant la couleur du drapeau turc. « C’est une attaque impardonnable, qui sera punie », peste l’enfant de l’île, tout en scrutant les quelques visages inconnus sur la promenade. Il redoute que des espions viennent de Turquie.

    « Les #tensions durent depuis quarante ans ; tout a toujours fini par se régler. Il faut laisser la Turquie et la Grèce dialoguer entre elles », relativise pour sa part M. Tsikos Magiafis, patron avenant d’une taverne bâtie sur un rocher inhabité, avec une vue imprenable sur Kaş. « Les querelles sont affaire de diplomates. Les habitants de cette ville sont nos frères, nous avons grandi ensemble », jure ce trentenaire marié à une Turque originaire de cette cité balnéaire. Adolescent, déjà, il délaissait les troquets de Kastellorizo pour profiter du bazar de Kaş, du dentiste ou des médecins spécialisés qui manquent au village. Les Turcs, eux, ont compté parmi les premiers touristes de l’île, avant que la frontière ne ferme totalement en mars 2020, en raison du Covid-19.

    À Lesbos, les réfugiés comme « #arme_diplomatique »

    À 450 kilomètres plus au nord-ouest, au large de l’île de Lesbos, ce ne sont pas les navires de recherche d’hydrocarbures envoyés par Ankara que guettent les Grecs, mais les fragiles bateaux pneumatiques en provenance de la côte turque, à une dizaine de kilomètres seulement. Cette île montagneuse de la taille de la Guadeloupe, qui compte 85’000 habitants, constitue un autre point de friction, dont les migrants sont l’instrument.

    Depuis une décennie, Lesbos est l’une des principales portes d’entrée dans l’Union européenne pour des centaines de milliers d’exilés. Afghans, Syriens, Irakiens ou encore Congolais transitent par la Turquie, qui accueille de son côté environ quatre millions de réfugiés. En face, le rivage turc se compose de plages peu touristiques et désertes, prisées des passeurs car permettant des départs discrets. Les migrants restent toutefois bloqués à Lesbos, le temps du traitement de leur demande d’asile en Grèce et dans l’espoir de rejoindre d’autres pays de l’espace Schengen par des voies légales. Le principal camp de réfugiés, Moria, a brûlé dans des conditions obscures le 8 septembre, sans faire de victime grave parmi ses treize mille occupants.

    Pour M. Konstantinos Moutzouris, le gouverneur des îles égéennes du Nord, ces arrivées résultent d’un calcul stratégique d’Ankara. « Erdoğan utilise les réfugiés comme arme diplomatique, il les envoie lorsqu’il veut négocier. Il a une attitude très agressive, comme aucun autre dirigeant turc avant lui », accuse cette figure conservatrice locale, connue pour ses positions tranchées sur les migrants, qu’il souhaite « dissuader de venir ».

    Il en veut pour preuve l’épisode de tension de mars 2020. Mécontent des critiques de l’Union européenne lors de son offensive contre les Kurdes dans le nord de la Syrie, le président turc a annoncé l’ouverture de ses frontières aux migrants voulant rejoindre l’Europe, malgré l’accord sur le contrôle de l’immigration qu’il a passé avec Bruxelles en mars 2016. Plusieurs milliers de personnes se sont alors massées aux portes de la Grèce, à la frontière terrestre du Nord-Est, suscitant un renforcement des troupes militaires grecques dans ce secteur. Dans le même temps, à Lesbos, une dizaine de bateaux chargés de réfugiés atteignaient les côtes en quelques jours, déclenchant la fureur d’extrémistes locaux. « Nous ne communiquons plus du tout avec les autorités turques depuis », affirme M. Moutzouris.

    Athènes assume désormais une ligne dure, quitte à fermer une partie de sa frontière commune avec la Turquie aux demandeurs d’asile, en dépit des conventions internationales que la Grèce a signées. Le gouvernement a ainsi annoncé mi-octobre la construction d’un nouveau #mur de 27 kilomètres sur la frontière terrestre. Au début de l’année 2020, il avait déjà déclaré vouloir ériger un #barrage_flottant de 2,7 kilomètres au large de Lesbos. Un ouvrage très critiqué et jugé illégal par les organisations non gouvernementales (ONG) de défense des droits humains. Un projet « absurde », juge M. Georgios Pallis, pharmacien de l’île et ancien député Syriza (gauche). Plusieurs sources locales évoquent une suspension de la construction de ce barrage. Le gouvernement, lui, ne communique pas à ce sujet.

    « Les réfugiés payent la rupture du dialogue gréco-turc », déplore M. Pallis entre deux mezze arrosés de l’ouzo local, près du port bruyant de Mytilène, dans le sud de l’île. « Des retours forcés de migrants sont organisés par les gardes-côtes grecs. » En septembre, le ministre de la marine se targuait, au cours d’une conférence de presse, d’avoir « empêché » quelque dix mille migrants d’entrer en 2020. Un mois plus tard, le ministre de l’immigration tentait, lui, de rectifier le tir en niant tout retour forcé. À Lesbos, ces images de réfugiés rejetés ravivent un douloureux souvenir, analyse M. Pallis : « Celui de l’exil des réfugiés d’Asie Mineure. » Appelé aussi en Grèce la « #grande_catastrophe », cet événement a fondé l’actuelle relation gréco-turque.

    Au terme du déclin de l’Empire ottoman, lors de la première guerre mondiale, puis de la guerre gréco-turque (1919-1922), les Grecs d’Asie Mineure firent l’objet de #persécutions et de #massacres qui, selon de nombreux historiens, relèvent d’un #génocide (4). En 1923, les deux pays signèrent le #traité_de_Lausanne, qui fixait les frontières quasi définitives de la Turquie moderne et mettait fin à l’administration par la Grèce de la région d’İzmir-Smyrne telle que l’avait décidée le #traité_de_Sèvres de 1920 (5). Cet accord a aussi imposé un brutal #échange_de_populations, fondé sur des critères religieux, au nom de l’« #homogénéité_nationale ». Plus de 500 000 musulmans de Grèce prirent ainsi le chemin de l’Asie Mineure — soit 6,5 % des résidents de Lesbos, selon un recensement de 1920 (6). En parallèle, le traité a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs ».

    « Ils étaient chrétiens orthodoxes, ils parlaient le grec, mais ils étaient très mal perçus des insulaires. Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”. Il a fallu attendre deux générations pour que les relations s’apaisent », raconte M. Pallis, lui-même descendant de réfugiés d’Asie Mineure. « Ma grand-mère est arrivée ici à l’âge de 8 ans. Pour s’intégrer, elle a dû apprendre à détester les Turcs. Il ne fallait pas être amie avec “l’autre côté”. Elle n’a pas remis les pieds en Turquie avant ses 80 ans. »

    Enfourchant sa Vespa sous une chaleur accablante, M. Pallis s’arrête devant quelques ruines qui se dressent dans les artères de #Mytilène : d’anciennes mosquées abandonnées. L’une n’est plus qu’un bâtiment éventré où errent des chatons faméliques ; une autre a été reconvertie en boutique de fleuriste. « Les autorités n’assument pas ce passé ottoman, regrette l’ancien député. L’État devrait financer la reconstruction de ces monuments et le développement du tourisme avec la Turquie. Ce genre d’investissements rendrait la région plus sûre que l’acquisition de Rafale. »

    En #Thrace_occidentale, une population musulmane ballottée

    Dans le nord-est du pays, près de la frontière avec la Turquie et la Bulgarie, ce passé ottoman reste tangible. En Thrace occidentale, les #mosquées en activité dominent les villages qui s’élèvent au milieu des champs de coton, de tournesols et de tabac. La #minorité_musulmane de Grèce vit non loin du massif montagneux des #Rhodopes, dont les sommets culminent en Bulgarie. Forte d’entre 100 000 et 150 000 personnes selon les autorités, elle se compose de #Roms, de #Pomaks — une population d’origine slave et de langue bulgare convertie à l’#islam sous la #domination_ottomane — et, majoritairement, d’habitants aux racines turques.

    « Nous sommes des citoyens grecs, mais nous sommes aussi turcs. Nous l’étions avant même que la Turquie moderne existe. Nous parlons le turc et nous avons la même #religion », explique M. Moustafa Moustafa, biologiste et ancien député Syriza. En quelques mots, il illustre toute la complexité d’une #identité façonnée, une fois de plus, par le passé impérial régional. Et qui se trouve elle aussi au cœur d’une bataille d’influence entre Athènes et Ankara.

    Rescapée de l’#Empire_ottoman, la minorité musulmane a vu les frontières de la Grèce moderne se dessiner autour d’elle au XXe siècle. Elle fut épargnée par l’échange forcé de populations du traité de Lausanne, en contrepartie du maintien d’un patriarcat œcuménique à Istanbul ainsi que d’une diaspora grecque orthodoxe en Turquie. Principalement turcophone, elle évolue dans un État-nation dont les fondamentaux sont la langue grecque et la religion orthodoxe.

    Elle a le droit de pratiquer sa religion et d’utiliser le turc dans l’enseignement primaire. La région compte une centaine d’écoles minoritaires bilingues. « Nous vivons ensemble, chrétiens et musulmans, sans heurts. Mais les mariages mixtes ne sont pas encore tolérés », ajoute M. Moustafa, dans son laboratoire de la ville de #Komotini — aussi appelée #Gümülcine en turc. Les quelque 55 000 habitants vivent ici dans des quartiers chrétiens et musulmans érigés autour d’une rivière méandreuse, aujourd’hui enfouie sous le béton. M. Moustafa n’a presque jamais quitté la Thrace occidentale. « Notre minorité n’est pas cosmopolite, nous sommes des villageois attachés à cette région. Nous voulons juste que nos descendants vivent ici en paix », explique-t-il. Comme de nombreux musulmans de la région, il a seulement fait ses études supérieures en Turquie, avant de revenir, comme aimanté par la terre de ses ancêtres.

    À cent kilomètres de Komotini, la Turquie demeure l’« État parrain » de ces musulmans, selon le traité de Lausanne. Mais l’influence de celle que certains nomment la « mère patrie » n’est pas toujours du goût de la Grèce. Les plus nationalistes craignent que la minorité musulmane ne se rapproche trop du voisin turc et ne manifeste des velléités d’indépendance. Son statut est au cœur de la discorde. La Turquie plaide pour la reconnaissance d’une « #minorité_turque ». La Grèce refuse, elle, toute référence ethnique reliée à une appartenance religieuse.

    La bataille se joue sur deux terrains : l’#éducation et la religion. À la fin des années 1990, Athènes a voulu intégrer la minorité dans le système d’éducation publique grec, appliquant notamment une politique de #discrimination_positive et offrant un accès facilité à l’université. Les musulmans proturcs plaident, eux, pour la création de davantage d’établissements minoritaires bilingues. Sur le plan religieux, chaque partie nomme des muftis, qui ne se reconnaissent pas mutuellement. Trois représentants officiels sont désignés par la Grèce pour la région. Deux autres, officieux, le sont par les musulmans de Thrace occidentale soutenus par Ankara, qui refuse qu’un État chrétien désigne des religieux.

    « Nous subissons toujours les conséquences des #crises_diplomatiques. Nous sommes les pions de leur jeu d’échecs », regrette d’une voix lasse M. Moustafa. Le sexagénaire évoque la période qui a suivi le #pogrom dirigé principalement contre les Grecs d’Istanbul, qui avait fait une quinzaine de morts en 1955. Puis les années qui ont suivi l’occupation du nord de #Chypre par la Turquie, en 1974. « Notre minorité a alors subi une violation de ses droits par l’État grec, dénonce-t-il. Nous ne pouvions plus passer le permis de conduire. On nous empêchait d’acheter des terres. » En parallèle, de l’autre côté de la frontière, la #peur a progressivement poussé la communauté grecque de Turquie à l’exil. Aujourd’hui, les Grecs ne sont plus que quelques milliers à Istanbul.

    Ces conflits pèsent encore sur l’évolution de la Thrace occidentale. « La situation s’est améliorée dans les années 1990. Mais, maltraités par le passé en Grèce, certains membres de la minorité musulmane se sont rapprochés de la Turquie, alimentant une méfiance dans l’imaginaire national grec. Beaucoup de chrétiens les considèrent comme des agents du pays voisin », constate M. Georgios Mavrommatis, spécialiste des minorités et professeur associé à l’université Démocrite de Thrace, à Komotini.
    « Ankara compte des milliers d’#espions dans la région »

    Une atmosphère de #suspicion plane sur cette ville, sous l’emprise de deux discours nationalistes concurrents. « Les gens de l’extrême droite grecque nous perçoivent comme des janissaires [soldats de l’Empire ottoman]. Erdoğan, lui, nous qualifie de soydas [« parents », en turc] », détaille d’une voix forte Mme Pervin Hayrullah, attablée dans un café animé. Directrice de la Fondation pour la culture et l’éducation en Thrace occidentale, elle se souvient aussi du passage du président turc dans la région, fin 2017. M. Erdoğan avait dénoncé les « discriminations » pratiquées par l’État grec à l’égard de cette communauté d’origine turque.

    Une chrétienne qui souhaite rester anonyme murmure, elle, que « les autorités grecques sont dépassées. La Turquie, qui est bien plus présente sur le terrain, a davantage de pouvoir. Ankara compte des milliers d’espions dans la région et donne des millions d’euros de budget chaque année au consulat turc de Komotini ». Pour Mme Hayrullah, qui est proche de cette institution, « le consulat ne fait que remplir une mission diplomatique, au même titre que le consulat grec d’Edirne [ville turque à quelque deux cents kilomètres, à la frontière] ». L’allure du consulat turc tranche avec les façades abîmées de Komotini. Surveillé par des caméras et par des gardes en noir, l’édifice est cerné de hautes barrières vertes.

    « La Grèce nous traite bien. Elle s’intéresse au développement de notre communauté et nous laisse exercer notre religion », vante de son côté M. Selim Isa, dans son bureau calme. Le président du comité de gestion des biens musulmans — désigné par l’État grec — est fier de montrer les beaux lustres et les salles lumineuses et rénovées d’une des vingt mosquées de Komotini. « Mais plus les relations avec la Turquie se détériorent et plus le consulat étend son influence, plus il revendique la reconnaissance d’une minorité turque », ajoute M. Isa, regard alerte, alors que l’appel du muezzin résonne dans la ville.

    À l’issue du sommet européen des 10 et 11 décembre, l’Union européenne a annoncé un premier volet de #sanctions contre la Turquie en raison de ses opérations d’exploration. Des mesures individuelles devraient cibler des responsables liés à ces activités. Athènes plaidait pour des mesures plus fortes, comme un embargo sur les armes, pour l’heure écarté. « C’était une proposition-clé. Nous craignons que la Turquie s’arme davantage. Sur le plan naval, elle est par exemple en train de se doter de six #sous-marins de type #214T fournis par l’#Allemagne, explique le diplomate grec Georgios Kaklikis, consul à Istanbul de 1986 à 1989. M. Erdoğan se réjouit de ces sanctions, qui sont en réalité minimes. » Le président turc a réagi par des #rodomontades, se félicitant que des pays « dotés de bon sens » aient adopté une « approche positive ». Bruxelles assure que d’autres mesures pourraient tomber en mars 2021 si Ankara ne cesse pas ces actions « illégales et agressives ».

    https://www.monde-diplomatique.fr/2021/01/PERRIGUEUR/62666
    #Grèce #Turquie #frontière #asile #migrations #réfugiés
    #Oruc_Reis #murs #Evros #barrières_frontalières #histoire

    ping @reka

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    #terminologie #mots #vocabulaire :
    – "Le traité (de Lausanne) a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs »."
    – "Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”."

    –-> ajoutés à la métaliste sur la terminologie de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

    ping @sinehebdo

  • France attacks religion secularism radicalism blasphemy
    –-> article retiré:


    https://www.politico.eu/article/france-attacks-religion-secularism-radicalism-blasphemy-islam

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    Copié ici:

    Another string of jihadist attacks has shaken France. The most recent, at a church in Nice, left three people dead, only two weeks after a teacher was beheaded on the outskirts of Paris after he displayed cartoons of the prophet Mohammed in his classroom.

    Why is France targeted, over and over again, by violent extremists? Germany, England, Italy and even Denmark — where cartoons of controversial Mohammed were first published — have not seen comparable violence.

    The reason is simple: France’s extreme form of secularism and its embrace of blasphemy, which has fueled radicalism among a marginalized minority.

    Specifically, the latest round of violence follows the decision earlier this month by the satirical newspaper Charlie Hebdo to mark the beginning of a trial over a murderous attack on its newsroom in 2015 by republishing the blasphemous cartoons of Mohammed that prompted the original assault.

    This duo — radical secularism and religious radicalism — have been engaged in a deadly dance ever since.

    Traditionally, French secularism requires the state to be neutral and calls for respect for religions in the public space, in order to avoid the rise of religious intolerance.

    In modern times, however, it has become something far more extreme. The moderate secularism that prevailed as recently as the 1970s has been replaced with something more like a civil religion.

    It’s a belief system that has its own priests (government ministers), its pontiff (the president of the republic), its acolytes (intellectuals) and its heretics (anyone who calls for a less antagonistic attitude toward Islam is rejected and branded an “Islamo-leftist”).

    One of the defining features of this new secularism is the promotion of religious blasphemy — and, in particular, its extreme expression in the form of caricatures like those of Mohammed.

    This embrace was on full display following the murder of the teacher who showed cartoons of Mohammed in his classes, when many French intellectuals came out in praise of blasphemy and defended the government’s unequivocal defense of the right to free expression.

    They should have considered their words more carefully.

    In Western Europe the right to blaspheme is legally recognized. But it is one thing to protect the freedom to blaspheme and another to enthusiastically exhort blasphemy, as is the case in France.

    Blasphemy is a non-argumentative and sarcastic form of free speech. It should be used, at best, with moderation in a country where between 6 percent and 8 percent of the population is Muslim, most of whose parents or grandparents emigrated from French colonies in North Africa.

    Defenders of blasphemy invoke freedom of expression, but what blasphemy does, in fact, is trap France in a vicious cycle of reactivity to jihadist terror that makes it less free and less autonomous.

    The immoderate use of caricatures in name of the right to blaspheme ultimately undermines public debate: It stigmatizes and humiliates even the most moderate or secular Muslims, many of whom do not understand French secularists’ obsessive focus on Islam, the veil, daily prayers or Islamic teachings.

    The result is a harmful cycle: provocation, counter-provocation, and a society’s descent into hell. As French secularism has become radicalized, the number of jihadist attacks in the country has multiplied.

    French secularists claim to be fighting for freedom of expression. As they do so, innocent people are dying, Muslims around the world are rejecting French values and boycotting the country’s products, and French Muslims are facing restrictions on their freedom of expression in the name of thwarting Islamist propaganda.

    France is paying a heavy price for its fundamentalist secularism, both inside and outside its own borders.

    https://www.1news.info/european-news/france-s-dangerous-religion-of-secularism-798875

    #Farhad_Khosrokhavar #terrorisme #religion #sécularisme #blasphème #extrémisme #France #violence #minorité_marginalisée #radicalisme #radicalisation #Charlie_Hebdo #radicalisme_religieux #sécularisme_radical #religion_civile #islamo-gauchisme #caricatures #liberté_d'expression #débat_public #provocation #contre-provocation #sécularisme_fondamentaliste

    ping @karine4 @cede @isskein

    • « On a oublié le rôle de l’#humiliation dans l’Histoire », par #Olivier_Abel

      Pour le philosophe, « en sacralisant les #caricatures, nous sommes devenus incapables de percevoir ce que les Grecs anciens désignaient par le #tragique ».

      Quel rapport entre les crimes abjects des djihadistes, le danger que représentent à certains égards les « réseaux sociaux » pour la démocratie et la civilité, la question de la liberté d’expression et du blasphème, le durcissement quasi-guerrier de la laïcité, les gilets jaunes, les majorités dangereuses qui ont porté Trump ou Erdogan au pouvoir, et qui poussent à nos portes ? Nous ne comprenons pas ce qui nous arrive, ces colères qui montent en miroir sans plus rien chercher à comprendre, nous ne savons et sentons plus ce que nous faisons. Je voudrais proposer ici une hypothèse.

      Nous avons globalement fait fausse route. Le drame des caricatures n’est que la partie visible d’un énorme problème. Nous nous sommes enfoncés dans le #déni de l’humiliation, de son importance, de sa gravité, de son existence même. Nous sommes sensibles aux #violences, comme aux #inégalités, mais insensibles à l’humiliation qui les empoisonne. Comme l’observait le philosophe israélien Avishaï Margalit, nous n’imaginons même pas ce que serait une société dont les institutions (police, préfectures, administrations, prisons, hôpitaux, écoles, etc.) seraient non-humiliantes. Dans l’état actuel de rétrécissement des ressources planétaires, on aura beaucoup de mal à faire une société plus juste, mais pourquoi déjà ne pas essayer une société moins humiliante ?

      Ni quantifiable, ni mesurable

      Il faut dire que l’humiliation est une notion – et une réalité - compliquée. L’#offense est subjective, et dépend au moins autant de ceux qui la reçoivent que de ceux qui l’émettent. Ce qui humiliera l’un laissera l’autre indifférent, et cela dépend même du moment où ça tombe. L’humiliation n’est pas quantifiable, mesurable, comme le sont les coups et blessures. D’où la tentation de dire que là où il n’y a pas de #dommage ni #préjudice il n’y a pas de #tort. Ce n’est pas une affaire de #droit mais seulement de #sentiment ou de #morale personnelle, donc circulez, il n’y a rien à dire.

      Et pourtant… Si les violences s’attaquent au #corps de l’autre, dans ses capacités et sa #vulnérabilité, l’humiliation fait encore pire : elle s’attaque au visage de l’autre, dans son #estime et son #respect_de_soi : elle le fait blanchir ou rougir, et souvent les deux en même temps.

      Car l’humiliation se présente de deux façons, en apparence contradictoires. Par un côté, elle porte atteinte à l’estime de soi, en faisant #honte à l’individu de son expression, de ce qu’il voudrait montrer et faire valoir, elle le rabroue et l’exclut du cercle de ceux qui sont autorisés à parler. Mais, par un autre côté, elle porte atteinte également au #respect et à la #pudeur, en dévoilant ce qui voulait se cacher, en forçant l’individu à montrer ce qui constitue sa réserve, en le surexposant au #regard_public, en lui interdisant de se retirer.

      L’humiliation s’attaque au sujet parlant. Les humains ne se nourrissent pas de pain et de cirques seulement, mais de #paroles_vives en vis-à-vis : ils n’existent qu’à se reconnaître mutuellement comme des sujets parlants, crédités comme tels, et reconnus dans leur crédibilité. L’humiliation fait taire le sujet parlant, elle lui fait honte de son expression, elle ruine sa confiance en soi.

      Quand le faible est trop faible

      Elle peut également atteindre des formes de vie, des minorités langagières, sexuelles, raciales, religieuses, sociales, etc. Il peut même arriver qu’une majorité endormie dans sa complaisance soit humiliée par une minorité active. Elle devient ce que j’appelais plus haut une majorité « dangereuse », pour elle-même et pour les autres.

      Une #parole_humiliée devient sujette à ces deux maladies du langage que sont la #dévalorisation ou la #survalorisation de soi. Ou, pour le dire autrement : la #dérision ou le #fanatisme. Commençons par la genèse du fanatisme. Simone Weil avait proposé d’expliquer les affaires humaines par cette loi : « on est toujours #barbares avec les faibles ». Il faudrait donc que nul ne soit laissé trop faible et sans aucun #contre-pouvoir, et que le plus fort soit suffisamment « déprotégé » pour rester sensible au faible, bon gagnant si je puis dire, et conscient qu’il ne sera pas toujours le plus fort.

      Mais quand le faible est trop faible pour infliger quelque tort que ce soit au plus fort, le pacte politique posé par Hobbes est rompu. Les faibles n’ont plus rien à perdre, ne sont plus tenus par le souci de la sécurité des biens et des corps, il ne leur reste que l’au-delà et ils basculent dans le #sacrifice_de_soi, dans une parole portée à la folie. Ici la #religion vient juste au dernier moment pour habiller, nommer, justifier cette mutation terrible.

      « C’est à l’humiliation que répond la #barbarie »

      La violence appelle la violence, dans un échange réciproque qui devrait rester à peu près proportionné, même si bien souvent la #violence s’exerce elle-même de manière humiliante, et nous ne savons pas ce que serait une violence vraiment non-humiliante. Avec l’humiliation cependant, le cercle des échanges devient vicieux, les retours sont longuement différés, comme sans rapport, et ils ont quelque chose de démesuré. Ils sont parallèles, mais en négatif, aux circuits de la #reconnaissance dont on sait qu’ils prennent du temps.

      C’est pourquoi les effets de l’humiliation sont si dévastateurs. Ils courent dans le temps, car les humiliés seront humiliants au centuple. Comme le remarquait #Ariane_Bazan, ils peuvent aller jusqu’à détruire méthodiquement toute scène de reconnaissance possible, toute réparation possible : la mère tuera tous ses enfants, comme le fait Médée rejetée par Jason. Lisant Euripide, elle concluait : « c’est à l’humiliation que répond la barbarie ». Les grandes tragédies sont des scènes de la reconnaissance non seulement manquée, mais écrabouillée.

      Pourquoi nos sociétés occidentales sont-elles collectivement aussi insensibles à l’humiliation ? Est-ce la différence avec ce qu’on a appelé les sociétés de honte, le Japon, le monde arabe ? Sans doute est-ce d’abord aujourd’hui parce que nous sommes une société managée par des unités de mesure quantifiable, la monnaie, l’audimat, et par une juridicisation qui ne reconnaît que les torts mesurables, compensables, sinon monnayables.

      Cette évolution a été accélérée par une #morale_libérale, qui est une #morale_minimale, où tout est permis si l’autre est consentant : or on n’a pas besoin du #consentement de l’autre pour afficher sa #liberté, tant que son expression n’est ni violente ni discriminante à l’égard des personnes, et ne porte aucun dommage objectif — les croyances n’existent pas, on peut en faire ce qu’on veut. Le facteur aggravant de l’humiliation, dans une société de réseaux, c’est la diffusion immédiate et sans écrans ralentisseurs des atteintes à la réputation : la #calomnie, la #moquerie, le #harcèlement.

      L’angle mort de notre civilisation

      Mais plus profondément encore, plus anciennement, notre insensibilité à l’humiliation est due à l’entrecroisement, dans nos sociétés, d’une morale stoïcienne de la #modestie, et d’une morale chrétienne de l’#humilité. Celle-ci, en rupture avec les religions de l’imperium, de la victoire, propose en modèle un divin abaissé et humilié dans l’ignominie du supplice de la croix, réservé aux esclaves. Le #stoïcisme est une sagesse dont la stratégie consiste à décomposer l’opinion d’autrui en des énoncés creux dont aucun ne saurait nous atteindre : l’esclave stoïcien n’est pas plus humiliable que l’empereur stoïcien.

      La dialectique hégélienne du maître et de l’esclave est d’ailleurs héritière de ces deux traditions mêlées, quand il fait de l’expérience de l’esclavage une étape nécessaire sur le chemin de la liberté. Cette vertu d’humilité a paradoxalement creusé dans le monde de la chevalerie médiévale, puis dans la société française de cour, et finalement dans le dévouement de l’idéal scientifique, un sillon profond, qui est comme l’angle mort de notre civilisation.

      Et cet angle mort nous a empêchés de voir le rôle de l’humiliation dans l’histoire : c’est l’humiliation du Traité de Versailles qui prépare la venue d’Hitler au pouvoir, celle de la Russie ou de la Turquie qui y maintient Poutine et Erdogan, c’est la manipulation du sentiment d’humiliation qui a propulsé la figure de Trump. Et cette histoire n’est pas finie. Les manipulations machiavéliques des sentiments de peur et les politiques du #ressentiment n’ont jamais atteint, dans tous nos pays simultanément, un tel niveau de dangerosité. Les djihadistes ici jouent sur du velours, car à l’humiliation ancienne de la #colonisation militaire, économique, et culturelle, s’est ajoutée celle des #banlieues et du #chômage, et maintenant les caricatures du prophète, répétées à l’envi.

      #Fanatisme et #dérision

      Car la genèse de la dérision est non moins importante, et concomitante à celle du fanatisme. On a beaucoup entendu parler du #droit_de_blasphémer : curieuse expression, de la part de tous ceux (et j’en suis) qui ne croient pas au #blasphème ! Réclamer le droit de blasphémer, s’acharner à blasphémer, n’est-ce pas encore y croire, y attacher de l’importance ? N’est-ce pas comme les bandes iconoclastes de la Réforme ou de la Révolution qui saccagent les églises, dans une sorte de superstition anti-superstitieuse ?

      Tout le tragique de l’affaire tient justement au fait que ce qui est important pour les uns est négligeable pour les autres. Il faudrait que les uns apprennent à ne pas accorder tant d’importance à de telles #satires, et que les autres apprennent à mesurer l’importance de ce qu’ils font et disent. Ce qui m’inquiète aujourd’hui c’est le sentiment qu’il n’y a plus rien d’important, sauf le droit de dire que rien n’est important.

      Une société où tout est « cool » et « fun » est une société insensible à l’humiliation, immunisée à l’égard de tout scandale, puisqu’il n’y reste rien à transgresser, rien à profaner. Or la fonction du #scandale est vitale pour briser la complaisance d’une société à elle-même. Pire, lorsque l’ironiste adopte un point de vue en surplomb, pointant l’idiotie des autres, il interrompt toute possibilité de #conversation. On peut rire, mais encore faut-il que cela puisse relancer la conversation !

      Sacralisation des caricatures ?

      Le différend tient peut-être aussi au fait que nous ne disposons pas exactement des mêmes genres littéraires. #Salman_Rushdie et #Milan_Kundera observaient que le monde musulman a du mal à comprendre ce que c’est qu’un « roman », comme une forme littéraire typique d’une certaine époque européenne, et qui met en suspens le jugement moral. Nous aussi, nous avons un problème : on dirait parfois que le genre littéraire éminent qui fonde notre culture est la caricature, la dérision, le #comique.

      Ce qui est proprement caricatural, c’est que les caricatures, le #droit_de_rire, soient devenues notre seul sacré. Serions-nous devenus incapables de percevoir ce que les Grecs anciens désignaient par le tragique ? N’avons-nous pas perdu aussi le sens de l’#épopée véritable (celle qui honore les ennemis), et le sens de quoi que ce soit qui nous dépasse nos gentilles libertés bien protégées ?

      Aujourd’hui, aux manipulations de la peur et de la xénophobie par les néonationalistes français, qui sacralisent la #laïcité comme si elle n’était plus le cadre neutre d’une #liberté_d’expression capable de cohabiter paisiblement avec celle des autres, mais la substance même de l’#identité française (une identité aussi moniste et exclusive que jadis l’était le catholicisme pour l’Action française), répond la manipulation cynique du sentiment d’humiliation des musulmans français par les prédicateurs-guerriers du djihadisme, qui n’ont de cesse d’instrumentaliser le ressentiment, dans le monde et en France.

      Liberté d’abjurer et laïcité réelle

      Aux organisations musulmanes françaises, nous dirons : demandez aux pays dominés par l’islam politique d’accorder à leurs minorités les mêmes libertés réelles qui sont celles des musulmans de France, et accordez solennellement à toutes les musulmanes et à tous les musulmans le droit d’abjurer, de se convertir, ou simplement de se marier en dehors de leur communauté.

      Aux néonationalistes, nous dirons : si la laïcité n’est plus que cette identité sacrée, c’est-à-dire le contraire de ce qu’elle a été dans l’histoire réelle (oui, enseignons d’abord l’histoire réelle dans son long cours, ses compromis complexes, et pas les histoires simplistes que nous nous racontons !), le #pacte_laïque sera rompu, et nous ferons sécession, il faudra tout recommencer, ensemble et avec les nouveaux venus.

      Car ce pacte est ce qui, au nom de notre histoire commune, et inachevée, autorise, au sens fort, la #reconnaissance_mutuelle. Il cherche à instituer un théâtre commun d’apparition qui fasse pleinement crédit à la parole des uns et des autres. C’est bien ce qui nous manque le plus aujourd’hui.

      https://www.nouvelobs.com/idees/20201122.OBS36427/on-a-oublie-le-role-de-l-humiliation-dans-l-histoire-par-olivier-abel.htm

  • Palestinien fais-toi naturaliser ouïghour !
    https://www.legrandsoir.info/palestinien-fais-toi-naturaliser-ouighour.html

    La campagne actuellement conduite par les Etats-Unis, et ses idiots utiles, pour nous inquiéter sur le sort des Ouïghours est détestable car elle nous oblige à rejoindre le coin, celui des méchants. Ne pas accepter sans preuves les propos tenus par les chargés de propagande de Trump devient une complicité de crime. Pourtant, pour avoir été le témoin de tant de faux drames, inventés pour le seul maintien du monopole colonialiste étasunien sur le monde, que je me sens obligé de faire part de mon expérience du mensonge.

    Surprenante cette campagne « en soutien au peuple Ouïghour » le jour où, avec l’approbation de Falstaff-Dupond, l’aigle qui couve le nid de la Justice depuis la colonne Vendôme, l’Assemblée vient de voter une sorte d’annulation à vie des droits de tout condamné pour terrorisme. Libéré, peine purgée, l’abruti de vingt ans qui a cru libérer la Syrie en rejoignant Daech, restera à jamais un homme sans liberté. Mais remarquons que les députés qui viennent de voter ce texte, réhabilitant la « relègue » et la double peine, sont par ailleurs des amis de la liberté. Liberté pour la minorité ouïghoure essentiellement de culture musulmane chinoise, mais pas de liberté possible en France pour celui que la justice qualifie de « terroriste ». Si Pékin a la fasciste audace de demander des comptes aux très nombreux Ouïghours qui ont rejoint, eux aussi, Daech et al Nosra en Syrie, puis sont rentrés à la maison : c’est un crime contre l’humanité. En revanche, quand Dupond-Moretti et ses amis sécuritaires applaudissent à leur loi toute neuve et honteuse, c’est l’expression « d’une avancée du droit ». Bon : le Chinois est jaune et très méchant, le Français est blanc et très gentil. D’ailleurs ce n’est pas lui qui crèverait des yeux à coup de LBD.


    Longtemps la désignation officielle, par les EU ou l’OTAN, d’une minorité opprimée m’a bien énervé. J’étais surpris que des citoyens généreux et intelligents, ne soient pas étonnés que des humanistes du calibre de Nixon, Reagan, les deux Bush, puis Trump et Netanyahou leur désignent un ennemi à combattre, un oppresseur de minorités. Dans ma vie prolongée, il m’est assez facile, pour l’avoir constaté, de compter ce genre d’utilisation de la misère et de l’oppression comme un outil de guerre de l’impérialisme.

    La dernière mouture remonte à la supercherie des « Printemps Arabes ». C’est dans un entretien avec le New York Times , qu’un haut diplomate EU en a livré le secret : « Plutôt que de dépenser des milliards en cadeaux et en armement, il suffit d’investir 500 millions auprès d’internautes d’un pays dont on veut changer le régime pour que monte en force une révolte, souvent légitime. C’est une grosse économie en dollars et en sang versé. » La recette ? Former des jeunes (arabes par exemple), ou des « ONG », à toutes les subtilités de l’Internet et à celles aussi des réseaux sociaux. Actuellement la pendule étasunienne est donc calée à l’heure de Pékin. Très bien. Mais retrouvons la mémoire pour nous rappeler que l’opposant maximo à la Chine, avant les JO de 2008, n’était autre que Robert Ménard et sa déshonorante association Reporters Sans Frontières. Une engeance recevant des fonds de la NED, instrument de propagande de Washington.

    Repartons plus loin dans le temps. Qui se souvient des petits Biafrais atrocement maigres, montrés (déjà) aux journaux par Kouchner qui, aidé d’intellectuels espions du SDECE, mettait au point une idéologie qui allait conduire à la fin des guerres de libérations, non oblitérées par l’Occident : « Le droit d’Ingérence ». Ah les Biafrais ! Cette ethnie englobée dans l’odieux Nigéria ! S’ériger en république autonome était tout à fait légitime. Pourtant le nerf de la révolte n’était pas la liberté mais le pétrole, le sous-sol biafrais est d’un noir d’huile. Faute de derricks à Colombey, De Gaulle ne s’est pas honoré en activant là-bas une sécession conduite par des généraux corrompus. Et nous avons pleuré ces enfants mourant pour « la liberté de leur peuple ». Alors qu’on les faisait crever pour obtenir de terribles photos qui, au bout de l’horreur entraîneraient la baisse du prix du litre de « super ». De 1962 à 1975, Johnson et Nixon ont soutenu la liberté des Méos et de leurs combattants, armés (par eux). Coincés entre Chine, Vietnam et Laos, ces royalistes étaient très utiles pour lutter contre le communisme. Le Vietnam tombé, cette cause naguère essentielle, celle des Méos a disparu des programmes. En Afghanistan viendra, plus tard, la déification de l’islamiste puis le soutien apporté à un incontestable combattant de la démocratie : Ben Laden.

    La recette reste bonne, activer une ethnie comme on met une bûche au feu. Cette pratique marche d’autant mieux qu’entre-temps le droit-de-l’hommisme, concept néo-libéral, a été forgé sous le marteau de Kouchner. Avec une telle arme le scrupule de détruire un État disparaît. Au nom du droit, le leur, les démolisseurs peuvent bombarder sans mauvaise conscience, comme ils le firent en Serbie. L’épisode historique des valeureux « rebelles tchétchènes », dont on nous a longuement loué mérites et qualités dans les journaux, au tournant de 1990, a finalement érigé la charia en 1999. Ce qui indique un amour sans murailles pour la démocratie et la liberté. Des journalistes ont alors crapahuté dans les montagnes, de concert avec ces fous de Dieu, mais en oubliant de prévenir les lecteurs de leur véritable but : le califat. Nous avons donc pleuré là aussi. Constater la nature mortifère de ces rebelles justifie-t-il les crimes de guerre commis contre eux ou contre la population ? Atrocités commises par des Russes ou par le dictateur Bassaïev ? Non. Mais que l’on vienne alors nous expliquer pourquoi la France est en guerre pour préserver l’Afrique de l’ouest des mains de Daech... Alors que Poutine, lui, était prié de faire bon ménage avec la charia, dans un état de la Fédération de Russie ?

    Mon métier a voulu que, pour un temps plus ou moins long, mais toujours « sur le terrain », j’ai vu l’Occident dénoncer les crimes des autres sans jamais regarder les siens. Deux exemples de massacres, utilisés comme arme de propagande, ont été pour moi l’objet de reportages éclairants sur la puissance du mensonge. Le premier se déroule en février 1991 dans le Kurdistan irakien. Sous l’effroyable feu de « la coalition internationale », Saddam Hussein se retire du Koweït. Dans le nord de l’Irak les peshmergas, combattants kurdes, prennent en main la population et parviennent aisément à convaincre les familles que l’heure du crime est de retour : Saddam va se venger sur leur peuple. En liaison avec Washington, avec James Baker, mais aussi l’immanquable Kouchner et la naïve Danielle Mitterrand, les peshmergas poussent la population vers les montagnes. Puis la confinent là-haut dans des conditions de survie difficiles. Ainsi créé, l’abcès de fixation qui est un « drame humanitaire » justifie une zone d’interdiction de vol pour les avions du raïs et un opprobre international. Heureusement « le génocide » annoncé n’a jamais eu lieu et, selon de dignes témoins, jamais envisagé par Saddam. Les Kurdes, une fois de plus dans leur interminable errance, ont été utilisés comme un argument cynique de géopolitique. Le fond n’étant pas de leur donner un meilleur avenir. C’est depuis Bagdad, Erbil, Kirkouk, Souleymanieh que j’ai vécu, les yeux ouverts, ce moment où l’on faisande l’histoire.

    Un ultime exemple avec l’escroquerie médatico-politique, celle du Kosovo. En 1999, le « monde libre » nous annonce que le Kosovo, province serbe majoritairement peuplée d’Albanais, est un lieu de martyre. Avec tueries de masse, camps de concentration et toutes horreurs de la barbarie. Edwy Plenel, alors directeur du quotidien Le Monde , nous annonce « 700 000 fantômes » au Kosovo. Pour parler sans métaphore, 700 000 morts. Selon le porte-parole de l’Otan le stade de Pristina, la capitale de la province, a été transformé en camp comme Santiago sous Pinochet. La propagande se nourrit de clichés.

    Arrivant par miracle jusqu’à ce Stadium, j’ai la surprise de le voir éclairé par des phares de voitures, avec des joueurs de foot à l’entrainement. Pendant des jours, du matin au soir, j’ai cherché les 700 000 morts de Plenel. Pas de trace. L’essentiel des victimes étaient mortes sous les bombes et missiles de l’Otan, tirés par des avions de chasse confondant des files de tracteurs avec des colonnes de chars serbes. Qui n’existaient d’ailleurs pas.

    En dehors de leur mortelle incursion au sein de Daech en Syrie, je ne connais rien des Ouïghours, je n’en dirai donc rien. Au contraire de ceux qui parlent mais ne savent rien. Je rappelle seulement la litanie de quelques mensonges, forgés à Washington au nom de l’America First. Un maître du monde soucieux de ne rien perdre de sa force coloniale bétonnée par le mensonge démocratique. Pour conclure, comment peut-on croire en une rumeur mondialisée, celle des Ouïghours martyrisés alors que les Palestiniens, niés, volés, bafoués, emprisonnés, torturés, continuent de l’être dans l’indifférence de ceux qui attaquent aujourd’hui Pékin. Nous laissant croire que démocratie et liberté ne sont pas leur objectif premier. Souvenez-vous enfin d’une autre offensive, avec BHL, Clooney et toute la troupe d’Hollywood sur le « drame du Darfour », l’objectif étant de détourner la douleur de l’opinion de la Palestine vers un morceau du Soudan. Que les amis droit-de-l’hommistes se souviennent, s’ils sont en panne de noble cause : en 1982 l’ONU a déclaré que le massacre de Sabra et Chatila était un "acte de génocide"... et rien n’est c’est passé après ce crime imprescriptible. Si j’étais un citoyen de Gaza je demanderais ma naturalisation ouïghoure, et mon sort intéresserait enfin le monde. Celui qui compte.

    
Tant qu’elle reste sélective l’indignation n’est rien.

    Jacques-Marie BOURGET

    #minorité #minorité_opprimée #oppression #ouïghours #ouïghour #minorités #Palestine #Palestiniens #Gaza #Daech e#al_nosra #Printemps_Arabes #internautes #ong #robert ménard #RSF #NED #Biafra #bernard_kouchner #Vietnam #Afghanistan #ben_laden #droit-de-l’hommisme #Serbie #daech #Irak #danielle_mitterrand #Kosovo #edwy_plenel #bhl #Darfour #propagande #enfumage #manipulation #histoire #médias

  • Rohingya : L’autre crise des réfugiés - CQFD, mensuel de critique et d’expérimentation sociales
    http://cqfd-journal.org/Rohingya-L-autre-crise-des

    2015 a marqué le début officiel d’une « crise des réfugiés » en Europe. En Asie du Sud-Est, des bateaux continuent à traverser le golfe du Bengale, bondés de #réfugiés_Rohingya. Cette #minorité_musulmane de #Birmanie fuit les violentes persécutions dont elle est victime dans son pays. Reportage en #Malaisie où les #Rohingya sont tant bien que mal accueillis malgré l’hostilité farouche des autorités locales.

    @cqfd @visionscarto https://seenthis.net/messages/635158

  • Le Premier ministre roumain Mihai Tudose à propos de la minorité hongroise de son pays : « S’ils pendent leur drapeau quelque part, on les pendra juste à côté. » Un appel au lynchage lancé par un « social-démocrate » féru de « valeurs européennes ».

    Rumänien: Regierungschef Mihai Tudose hetzt gegen ungarische Minderheit - SPIEGEL ONLINE
    http://www.spiegel.de/politik/ausland/rumaenien-regierungschef-mihai-tudose-hetzt-gegen-ungarische-minderheit-a-11

    Auf Tudoses Drohung folgten heftige Debatten und diplomatische Spannungen - die bis heute anhalten: Rumänische Nationalisten jubeln, die Kritik an der Aussage hält sich sogar unter gemäßigten Politikern und Kommentatoren in Grenzen. Die Orbán-Regierung im benachbarten Ungarn protestiert dagegen scharf, Außenminister Péter Szijjártó bestellte den rumänischen Botschafter ein.

    Doch nur vordergründig geht es um die Minderheitenrechte, vor allem für die 1,4 Millionen Ungarn in Siebenbürgen, das bis 1918 zum ungarischen Königreich gehörte. Der Eklat ist umso bemerkenswerter, da der rumänische Staat im Zuge seiner EU-Integration eine Abkehr von der jahrzehntelangen Rumänisierungspolitik vollzogen und gesetzliche Minderheitenrechte verankert hat. Diese gehen über die Standards in vielen europäischen Ländern hinaus. So können die Ungarn etwa vom Kindergarten bis zur Universität durchgehend in Ungarisch lernen. In Gebieten mit mehr als 20 Prozent Minderheitenanteil ist deren Sprache zweite Amtssprache. Dies gilt auch für die 1,4 Millionen Ungarn in Siebenbürgen, das bis 1918 zum ungarischen Königreich gehörte.

  • Designating ‘Vulnerability’: The asylum claims of women and sexual minorities

    The Refugee Convention was not designed with the persecution of women and sexual minorities in mind. But times change and today most would agree that women at risk of Female Genital Mutilation and LGBT people threatened with the death penalty in their countries of origin should be granted asylum. The problem is these individuals do not obviously fit the Convention definition of a refugee based on persecution due to race, religion, nationality or political opinion, leaving identification as members of a ‘particular social group’ the only option available. Advocates then struggle to define the parameters of that group. Is it as broad as women in Pakistan or as narrow as gay men who frequent a certain park in the centre of Tirana?

    https://rli.blogs.sas.ac.uk/2017/06/19/designating-vulnerability-the-asylum-claims-of-women-and-sexual-min
    #vulnérabilité #genre #minorité_sexuelles #LGBT #homosexualité #asile #migrations #réfugiés #mutilations_génitales #femmes

    • Migrating with Special Needs? Projections of Flows of Migrant Women with Female Genital Mutilation/Cutting Toward Europe 2016–2030

      Female genital mutilation/cutting (FGM/C) is a rising issue in western societies as a consequence of international migration. Our paper presents demography-driven projections of female flows with FGM/C from each practicing country to each EU28 member state for the 3 sub-periods 2016–2020, 2021–2025, and 2026–2030, with the aim of supporting resource planning and policy making. According to our projections, the EU28 countries will receive a flow of around 400,000 female migrants between 2016 and 2020, and around 1.3 million female migrants between 2016 and 2030 from FGM/C practicing countries. About one-third of them, corresponding to an estimated 127,000 between 2016 and 2020, and more than 400,000 between 2016 and 2030 will have undergone FGM/C before migration. Among these female flows, slightly more than 20% is expected to be made up of girls aged 0–14. According to the expected age at arrival, 20% of these girls are expected to have already undergone FGM/C, while slightly less than 10% are to be considered potentially at risk of undergoing FGM/C after migration. As the number of women with FGM/C in Europe is expected to rise at quite a fast rate, it is important to act timely by designing targeted interventions and policies at the national and at the European level to assist cut women and protect children. Such measures are particularly compelling in France, Italy, Spain, UK, and Sweden that are expected to be the most affected countries by migration from FGM/C practicing countries.

      https://link.springer.com/article/10.1007/s10680-017-9426-4

  • Au Nagaland, le combat de la mémoire et de l’oubli
    https://www.mediapart.fr/journal/international/010417/au-nagaland-le-combat-de-la-memoire-et-de-l-oubli

    © GD Soixante-dix ans après l’indépendance de l’Inde, le petit État du nord-est, frontalier de la Birmanie, continue de se battre pour la préservation de son identité et de ses traditions tribales. Des émeutes l’ont secoué cet hiver à propos de la place des femmes dans les institutions. Premier volet de notre reportage.

    #International #démocratie #Inde #minorité_ethnique

  • Sur le plan idéologique, nous vivons sous l’empire des déconstructeurs. Depuis au moins trois décennies, dans tous les domaines, nous subissons leur action dissolvante. Politique, médias, luttes sociales, tout y passe. « L’effet de ce ‘’déconstructivisme’’ frénétique est d’ouvrir par force sur un complet chaos de la pensée où rien ne demeure des anciens concepts admis et discutés – ni le réel (si contradictoire qu’il se révélerait inassimilable), ni le pouvoir (si multiple qu’il en deviendrait insaisissable), ni la nature humaine (si floue que sa seule réalité relèverait de la fiction), ni la vérité (si conditionnée qu’il serait, par avance, vain de distinguer le vrai du faux), ni le langage (si normé qu’il tiendrait de la prison), ni le corps (si biologiquement indéfinissable qu’il n’aurait d’existence possible que dans le transgenre). »

    Dans le débat public d’aujourd’hui, les questions identitaires occupent désormais le premier plan, surtout lorsqu’elles sont le fait des minorités. Comme l’a dit Deleuze, « C’est ça, être de gauche : savoir que la minorité, c’est tout le monde. » (Abécédaire, cité par Garcia (dorénavant G.), p. 47) Le social est « marqué par la prolifération, le surgissement imprévisible de nouveaux motifs de discrimination, d’exclusion, de ‘’stigmatisation’’ ou d’ ‘’invisibilisation’’ » (G., p. 23).

    Encyclopédie de L’Agora | Renaud Garcia : une critique de gauche de la déconstruction
    http://agora.qc.ca/documents/renaud_garcia_une_critique_de_gauche_de_la_deconstruction
    #Penser #Société #Politique #2017

    • @Aude

      Ce passage me sembletout de même résumer assez bien le côté « tour de passe-passe » de son argumentaire :

      , si ce qui est a été construit et peut être déconstruit, il devient alors possible de le reconstruire. Cette métaphore aboutit à faire de la technique l’instrument de cette reconstruction. La technique est alors au service de désirs individualistes qui ne trouvent plus comme limite qu’une éthique minimaliste : faire tout ce que l’on désir sans nuire à autrui.

      Prétendre que « déconstruire » mène à servir sur un plateau à « la technique » un monde à reconstruire fait de désirs individualistes me semble instruire un faux procès - et relever d’un regard pour le moins surplombant et chargé de mépris vis à vis des personnes qui ont recours à cet outil critique dans les luttes qu’elles mènent. Et, de fait, il me semble difficile de garder grand chose de vivant de la critique si l’on jette la déconstruction - un genre de critique sans lame, à laquelle manquerait le manche. Il resterait à s’accrocher à l’idée !

      Quant à sa prétention (que je trouve assez extravagante) à ramener contre les luttes des minorités la notion de « limite » à la vie humaine (non que le présent ne foisonne de perspectives de fuites en avant sans limites : mais en imputer la cause, comme la faiblesse de l’idéologie libertaire, aux « déconstructeurs » et, à travers eux, aux luttes menées à l’extérieur du mouvement libertaire, sans lui, me semble tout simplement malhonnête)... je peine un peu à la juxtaposer avec son attachement à l’illusion (qui pour moi signe tout simplement la position de privilégié) de disposer d’un point absolu ou enraciner une révolte et une critique universelles.
      D’un côté les limites, surtout pour les autres qui critiquent mal, de l’autre l’universalisme pour lui et les siens. Cherchez l’erreur !

      D’autant plus que je ne vois pas en quoi le renoncement à cet universalisme déjà là, produit historique masculin et occidental, qu’il insiste pour présenter comme une catastrophe, interdirait de concevoir un projet, à produire ensemble sur un pied d’égalité - qui mériterait peut être bien le nom d’universel, pour le coup, ou un autre.

      En passant, sa compréhension d’une notion comme celle d’intersectionnalité - telle qu’il l’explique lors d’une interview à Radio libertaire - m’a paru des plus fantaisistes, et propre à rendre incompréhensible le simple fait que ce concept permet par exemple - mais peut-être que je me trompe - d’exprimer le fait que les individus se trouvent pour la plupart au carrefour de plusieurs oppressions, et que les oppressions se co-construisent, ce qui implique d’envisager les oppressions dans la complexité leurs interactions. Lui semble curieusement n’y voir que le germe d’un particularisme infini et diviseur pour les individus...

      Certes, Renaud Garcia n’a pas l’arrogance grossière d’un Escudero, et sa culture libertaire scolaire en impose un peu plus. (je n’ai pas lu son livre : j’ai lu et écouté les interview de lui disponible sur le net, et je suppose qu’il essaie d’en rendre compte honnêtement) Mais son propos bien que plus policé et moins outrancièrement falsifiant, ne cesse à mes yeux de trahir à quel point il parle depuis le même point de vue, et défend le même refus obstiné de se dessiller le regard.

      En l’écoutant, j’ai repensé à une fameuse phrase de Brice Hortefeux sur les auvergnats :
      « Quand il n’y en a qu’une, ça va. Le problème, avec les minorités, c’est quand il y en a plusieurs. »

    • Nous évoquions plus haut le rejet, par les pensées décontructionnistes, des grands concepts de la modernité, notamment la notion de vérité. Pour Foucault, par exemple, « un savoir n’est jamais en définitive ni vrai ni faux, mais qu’il se manifeste davantage comme un certain ‘’ régime de vérité’’ qui découpe dans la réalité, à un certain moment, des objets intelligibles » (G., p. 21). « Selon Foucault, ce que l’on appelle la ‘’vérité’’ n’est pas vraiment lié, comme on pourrait le penser selon une définition classique (aristotélicienne), au rapport de concordance entre un énoncé et des faits qui existent indépendamment de l’énonciateur. La vérité est davantage conçue comme un système de règles, toujours instable, intriqué dans un réseau complexe de pratiques et de discours, qui s’alimentent l’un l’autre. » (G., p. 20-21)

      Pour avoir lu Baudrillard (peut-être pas la référence la plus classieuse du post-modernisme...) quand j’étais encore bien jeune, je ne peux qu’abonder dans ce sens. Alors même que j’étais ébahi par le style, je ne pouvais m’empêcher d’être très chiffonné par ce rapport très spécial à la vérité (de manière triviale, je dirais qu’il s’agissait tout simplement d’un « je m’en foutisme » plus ou moins assumé). Quant aux conséquences politiques de cette façon de réfléchir, difficile de savoir quel véritable impact cela a eu, mais quand je vois l’état de décomposition de tout ce qui est, pour faire simple, à gauche du PS (et du PS lui même d’ailleurs) a priori ça n’a pas attiré les foules.

    • Gilles Deleuze et Felix Guattari ont tenté, à travers la notion de minorité, d’exprimer la double irréductibilité (à la forme-État et à la forme capital) de ces « communautés concrètes qui se situent hors du rapport de travail » : « De manière générale, les minorités ne reçoivent pas davantage une solution de leur problème par intégration, même avec des axiomes, des statuts, des autonomies, des indépendances. Leur tactique passe nécessairement par là. Mais si elles sont révolutionnaires, c’est parce qu’elles portent un mouvement plus profond qui remet en question l’axiomatique mondiale. La puissance de minorité, de particularité, trouve sa figure ou sa conscience universelle dans le prolétaire. Mais, tant que la classe ouvrière se définit par un statut acquis, ou même par un État théoriquement conquis, elle apparaît seulement comme « capital », partie du capital (capital variable), et ne sort pas du plan du capital. […] On voit mal ce que serait un État amazone, un État des femmes, ou bien un État des travailleurs précaires, un État du « refus ». Si les minorités ne constituent pas des États viables, culturellement, politiquement, économiquement, c’est parce que la forme-État ne convient pas, ni l’axiomatique du capital, ni la culture correspondante », Mille plateaux.

      et pas #déconstruction ...

    • @Aude

      je n’entend pas sous-estimer les mésusages et les détournements individualistes, à des fins de carrière militante, d’autopromotion, que tu évoques (je fais succinct, mes excuses si c’est trop simplificateur). Le monde militant à ma connaissance a toujours été le lieu de tels petits jeux de pouvoir, et je suis enclin à penser que les circonstances historiques présentes sont propices à de tels comportement.
      Mais il me semble à minima que c’est faire preuve d’une grande légèreté intellectuelle, à fortiori de la part d’un professeur de philosophie, que de prétendre que la cause se trouverait dans le concept, surtout lorsque les concepts en question ont servi à mettre à jour le fait désagréable pour l’ego que tant de révolutionnaires et autres radicaux, par bien des aspects, faisaient aussi partie du problème.

      Je ne veux pas méconnaître les expériences que tu cites : mais pour une partie des anarchistes et autres révolutionnaires, « déconstruction » est désormais un anathème, ce qui me semble une forme de défaite de la pensée, et quiconque dans son analyse des rapports de pouvoir, commence à prendre au sérieux la notion d’intersectionnalité, se fait traiter de post-moderne, par des gens qui tiennent visiblement à ne pas savoir de quoi il retourne, et à ce que leurs propres privilèges demeurent indicibles.

      Je ne pense pas que de tels résultats aient la moindre efficacité pour ce qui est de contrer ou limiter l’ampleur des problèmes que tu soulèves.
      Encore une fois, je saisis cela un peu vite, en espérant ne pas être trop simpliste.

    • @Aude

      Encore une fois, je suis d’accord en partie avec ce que tu écris.

      Mais, par exemple, l’emploi que faisait Léo Thiers Vidal de la notion d’"état agentique" m’a semblé et me semble toujours précieux pour comprendre ma propre place de mec hétéro dans le patriarcat, et la dissonance qu’il peut y avoir entre ce que je crois être et faire, et la manière dont je me trouve pris dans les rapports sociaux, dont j’ai appris à m’y installer.
      Et je ne vois pas à quoi prendre conscience de sa propre position au sein de rapports de domination structurels peut être nuisible - si ce n’est aux illusions sur la « radicalité » de la critique que nous portons, que nous nous plaisons volontiers à entretenir sur nous même, en particulier lorsqu’on se définit comme anarchiste et que l’on est un homme blanc hétéro...
      D’autant plus qu’il me semble, pour l’avoir pratiquée longtemps, que la boîte à outil anarchiste traditionnelle ne fournit aucun outil théorique pour exprimer ces questions là - ce qui n’a jamais empêché un anarchiste d’y venir pour des questions d’éthique personnelle, mais c’est une autre histoire.
      ENcore une fois, je saisis cela en vitesse.
      Pour les universitaires américains, je suis surpris de voir la fréquence à laquelle ils surgissent devant moi sous le clavier d’anarchistes français... le reste du temps, je n’en croise quasiment jamais !

  • La lime : Minorité agissante contre majorité amorphe : le problème de la cristallisation de l’opposition
    http://fboizard.blogspot.fr/2013/08/minorite-agissante-contre-majorite.html

    La réaction thermidorienne ne fut pas une victoire des modérés sur les fanatiques mais une division des fanatiques. Et ils trouvèrent Bonaparte pour empêcher le retour des royalistes, qui avaient la faveur des modérés.

    La Participation des minorités agissantes au politique ; inéluctables jeux de pouvoir ?
    http://mimmoc.revues.org/1580

    La question des minorités agissantes, à distinguer des avant-garde, demeure d’actualité et prend une tournure nouvelle à la lumière de la gouvernance qui décentre les actions de la politique publique.

    Masse critique (mouvement social) — Wikipédia
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Masse_critique_(mouvement_social)

    Suivant les participants les masses critiques peuvent être festives, revendicatrices. Elles peuvent pratiquement initier à la désobéissance civile, pour mettre en évidence les règles jugées dangereuses ou inadéquates pour les usagers faibles de la route.

    #minorité_agissante #avant-garde #masse

  • Guerre en #Ukraine : la #minorité_roumaine sous la pression du nationalisme ukrainien

    Plus de 500 000 personnes d’origine roumaine vivent dans l’Ouest de l’Ukraine, aux alentours de la grande ville de #Tchernivtsi et dans les vallées de #Transcarpatie. Pour ces populations, pas question d’aller se battre à Donetsk ou à Lougansk contre les séparatistes pro-russes et pour un pouvoir qui n’a jamais respecté leur identité et leur langue. Reportage dans les villages roumains d’Ukraine occidentale.


    http://balkans.courriers.info/article26306.html

  • Ethnic minorities prefer to identify themselves as Scots

    PEOPLE from ethnic minorities living in Scotland are more likely to call themselves Scottish than their counterparts living in England - who are less inclined to identify themselves as English.


    http://www.heraldscotland.com/news/home-news/ethnic-minorities-prefer-to-identify-themselves-as-scots.24935929

    #UK #Royaume-Uni #Ecosse #nationalisme #minorité_ethnique #appartenance #identité

  • Des larmes de crocodile sur le sort des chrétiens d’Irak... pour masquer la fermeture des frontières à tous les persécutés du Proche-Orient

    http://larotative.info/des-larmes-de-crocodile-sur-le.html

    Les réacs de tout poil ne sont pas les seuls à faire dans l’indignation sélective lorsqu’ils soutiennent les chrétiens d’Irak : le gouvernement fait de même. Dans un communiqué, le GISTI (Groupe d’information et de soutien aux immigré.e.s) dénonce cette tentative grossière de se faire bien voir alors que les politiques d’immigration n’ont jamais été aussi dures.

    La décence aurait voulu qu’au moins ils se taisent. Est-ce la gêne devant leur propre incurie qui a poussé Laurent Fabius, le ministre français des affaires étrangères, et Bernard Cazeneuve, son collègue de l’intérieur, à s’exprimer le 28 juillet ? « La situation des Chrétiens d’Orient est malheureusement dramatique », ont-ils observé. « La France est révoltée […] ». « Nous venons en aide aux déplacés qui fuient les menaces de l’État islamique et se sont réfugiés au Kurdistan. Nous sommes prêts, s’ils le souhaitent, à en favoriser l’accueil sur notre sol au titre de l’asile. Nous avons débloqué une aide humanitaire exceptionnelle pour leur porter assistance ». Pas un mot sur la Syrie. Et pas la moindre considération pour les victimes de confession musulmane, les fidèles de multiples minorités confessionnelles ou les athées. Le Proche-Orient serait-il soudain limité à l’Irak et aux chrétiens ?

    L’ennui de cet affichage d’une solidarité sélective, c’est que, dans les faits, ce gouvernement ne fait rien ou presque pour les personnes en quête de protection, pas plus les chrétiens que les autres. Pour mieux verrouiller les frontières à celles et à ceux qui demandent un visa, il a ôté le pouvoir de décision aux diplomates pour le donner en catimini au ministère de l’intérieur. Et l’on ne compte plus les refus opposés aux Syriens et aux Irakiens, toutes confessions confondues.

    #migrants #migrations #Irak #frontières

    • Des larmes de crocodile sur le sort des chrétiens d’Irak ... ... pour masquer la fermeture des frontières à tous les persécutés du Proche-Orient.

      La décence aurait voulu qu’au moins ils se taisent. Est-ce la gêne devant leur propre incurie qui a poussé Laurent Fabius, le ministre français des affaires étrangères, et Bernard Cazeneuve, son collègue de l’intérieur, à s’exprimer le 28 juillet ? « La situation des Chrétiens d’Orient est malheureusement dramatique », ont-ils observé. « La France est révoltée […] ». « Nous venons en aide aux déplacés qui fuient les menaces de l’État islamique et se sont réfugiés au Kurdistan. Nous sommes prêts, s’ils le souhaitent, à en favoriser l’accueil sur notre sol au titre de l’asile. Nous avons débloqué une aide humanitaire exceptionnelle pour leur porter assistance ». Pas un mot sur la Syrie. Et pas la moindre considération pour les victimes de confession musulmane, les fidèles de multiples minorités confessionnelles ou les athées. Le Proche-Orient serait-il soudain limité à l’Irak et aux chrétiens ?

      http://www.gisti.org/spip.php?article4697

      #solidarité_sélective

  • La #disparition progressive des #chrétiens d’Irak

    L’édification d’un Etat islamique en #Irak risque de mettre fin à près de 2000 ans de présence chrétienne en Mésopotamie

    Depuis la conquête de l’ouest de l’Irak par les #djihadistes de l’Etat islamique, les chrétiens fuient vers le Kurdistan irakien, la Turquie, le Liban et l’Europe de l’Ouest. Les religieux de la région implorent l’Union européenne de venir en aide à leurs fidèles jetés sur les routes de l’exil.

    http://www.lopinion.fr/28-juillet-2014/disparition-progressive-chretiens-d-irak-14861

    #minorité_religieuse #Iraq #réfugiés #asile #migration

  • Chance historique pour les #Kurdes, par Vicken Cheterian (mai 2013)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/05/CHETERIAN/49062

    L’annonce de négociations entre Ankara et le Parti des travailleurs du Kurdistan (PKK) a créé la surprise. Elle confirme la place nouvelle prise par la « question kurde » pour tous les acteurs régionaux, place confirmée par l’insurrection en #Syrie. Ayant échappé au contrôle de Bagdad depuis 1991, le Kurdistan irakien espère catalyser et concrétiser les revendications nationales d’un peuple oublié de l’histoire.

    #Pétrole #Guérilla #Minorité_nationale #Droits_des_minorités #Mouvement_de_libération #Irak #Turquie #Proche-Orient

    Les langues du Kurdistan (par @reka)
    http://www.monde-diplomatique.fr/cartes/langueskurdes13

    Limites historiques du Kurdistan
    http://www.monde-diplomatique.fr/cartes/kurdistan-histoire

  • Exodus
    Photos by #Andy_Spyra

    signalé par @albertocampiphoto

    Christianity is on the edge of extinction in its birthplace, the Middle East.
    Escaping sectarian violence, kidnappings, religious fatwas, economic hardship and severe persecution, the oldest Christian communities in the world are leaving the region.
    Nowadays there are more Iraqi, Turkish and Palestinian Christians living in the Diaspora in Europe, the US or South America than in their native countries, while the current events in Egypt and Syria indicate a similar fate for its Christian population.

    With the current speed of this Christian Exodus continuing, out of 12 million Christians in the middle East only 6 million will be left in the year 2020. It’s a real probability that within one generation Christianity, as a live religion and culture, will have vanished from the Middle East. I want to document this vanishing people and culture and record a historic process with severe political, economic and cultural consequences for the Middle East.

    Christians have always been part of the intellectual and economic elite of Middle Eastern societies and their migration leads to a brain-drain, sided with the withdrew of financial assets and, equally important, cultural and intellectual force. This lack of resources will only accelerate the problems Middle East as a whole is facing and fuel the vicious circle of poverty, ill-education and extremist violence in the Region.

    Working on the project since early 2011, I have repeatedly been to Turkey, Iraq, Egypt, Israel, Gaza and Palestine. During this time I established a network of different NGOs, local churches and individuals that have helped me setting up contacts and logistics needed for this project.
    To complete the project, thus to further depict the complexity of the phenomenon and to deepen its understanding, I will need to visit the Christian communities in the remaining countries of the Levant: Jordan, Lebanon, Syria.

    http://www.burnmagazine.org/essays/2013/11/andy-spyra-exodus

    #photographie #minorité_religieuse #chrétiens #Moyen_Orient #exode #diaspora #religion #discrimination #église #croyance

  • En Afrique du Sud, un système de « corruption légalisée », par Sabine Cessou (mars 2013, en accès libre)
    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/03/CESSOU/48842

    Depuis la présidence de M. Thabo Mbeki (1999-2008), la collusion entre le monde des affaires et la classe dirigeante noire est patente.

    #2013/03 #Politique #Corruption #Syndicalisme #Parti_politique #Minorité_nationale #Afrique_du_Sud

    Voir aussi

    Trois émeutes par jour en Afrique du Sud
    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/03/CESSOU/48841

  • Dossier de mars 2013 : bilan d’une intervention occidentale
    Dix ans après, que devient l’Irak ?, par Peter Harling
    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/03/HARLING/48806

    Si l’invasion de l’#Irak par les #Etats-Unis avait bien comme objectif le contrôle du pétrole, ainsi que le confirment des documents récemment déclassifiés (lire « Echec d’une guerre pour le pétrole »), elle se solde par un échec cuisant. La guerre a également fait des centaines de milliers de victimes et déstabilisé l’Etat. Sous le masque d’une étonnante normalité persistent à Bagdad les tensions politiques et confessionnelles.
    http://www.monde-diplomatique.fr/2013/03/SERENI/48845

    #Islam #Kurdes #Pétrole #Religion #Violence #Politique #Corruption #Autoritarisme #Minorité_nationale #Guerre_d’Irak #Golfe

  • Contrôle au faciès : une ONG donne la parole aux victimes
    http://fr.myeurop.info/2013/09/26/contr-le-au-faci-s-une-ong-donne-la-parole-aux-victimes-12298

    Ludovic Clerima

    Injuste et humiliant : le rapport d’une ONG condamne le contrôle au faciès en #France et donne la parole aux victimes. Une manière d’attirer l’attention de l’opinion sur ce problème. Ailleurs en Europe, des solutions existent.

    « L’égalité trahie ». C’est le nom du rapport dressé (...)

    #Société #INFO #Allemagne #Espagne #Italie #contrôles_au_faciès #contrôles_d'identité #discrimination #police