Il Global compact for safe, orderly and regular migration – anche detto semplicemente Global compact sull’immigrazione – è un documento sottoscritto da diversi stati e promosso dalle Nazioni Unite che prevede la condivisione di alcune linee guida generali sulle politiche migratorie, nel tentativo di dare una risposta coordinata e globale al fenomeno. L’idea di aderire a dei princìpi comuni è nata a New York nel settembre del 2016, quando tutti e 193 gli stati membri delle Nazioni Unite hanno firmato la cosiddetta Dichiarazione di New York sui migranti e i rifugiati, dando avvio a due anni di negoziati. La versione finale del Global compact sull’immigrazione dovrebbe essere approvata durante un vertice che si terrà sotto l’egida delle Nazioni Unite il 10 e l’11 dicembre del 2018 a Marrakech, in Marocco.
Anche se il documento non è vincolante (come è scritto al punto 7 del preambolo) e indica solo la volontà degli stati di seguire alcuni princìpi comuni ispirati a norme internazionali, diversi governi (tra cui quello italiano) hanno annunciato che non parteciperanno al vertice di Marrakech e valuteranno se aderire all’accordo in un secondo tempo. Altri invece hanno già detto che non lo approveranno. Il Global compact è stato protagonista in tutto il mondo di una campagna di comunicazione politica molto aggressiva da parte dei partiti della destra sovranista che l’hanno accusato di favorire “l’invasione” e “l’immigrazione incontrollata”. Ecco cosa prevede il Global compact sull’immigrazione e quali sono le posizioni dei diversi paesi europei alla vigilia del vertice di Marrakech.
Cosa prevede
Il Global compact è una “piattaforma non vincolante” che parte dal presupposto che “la migrazione fa parte dell’esperienza umana ed è sempre stato così nel corso della storia” e che il suo impatto può essere migliorato se si renderanno più efficaci “le politiche dell’immigrazione”. Nel preambolo del testo si definisce “cruciale” la cooperazione tra i diversi stati: “Le sfide e le opportunità dell’immigrazione devono unirci, invece di dividerci. Il Global compact getta le basi per una comprensione comune del fenomeno, la condivisione delle responsabilità e l’unità degli obiettivi”.
Le linee guida individuate nel documento sono: “La centralità delle persone, la cooperazione internazionale, il rispetto della sovranità di ogni stato, il rispetto delle norme internazionali, lo sviluppo sostenibile, il rispetto dei diritti umani, delle differenze di genere e dei diritti dei minori e infine un approccio multilaterale e partecipativo”.
L’accordo inoltre stabilisce 23 obiettivi che dovrebbero orientare l’operato dei governi attraverso azioni e buone pratiche. Eccoli per esteso:
Raccogliere e usare dati accurati e disaggregati come base delle politiche.
Ridurre le cause negative e i fattori strutturali che costringono le persone a lasciare il loro paese di origine.
Fornire informazioni accurate e tempestive lungo tutte le fasi del percorso migratorio.
Garantire che tutti i migranti abbiano una prova della loro identità e una documentazione idonea.
Migliorare la flessibilità e la disponibilità delle vie legali per migrare.
Agevolare condizioni di assunzione e tutele giuste ed etiche per assicurare un lavoro decente.
Affrontare e ridurre le vulnerabilità nel percorso migratorio.
Salvare vite e stabilire degli sforzi internazionali coordinati per i migranti dispersi.
Rafforzare le risposte transnazionali al traffico di migranti.
Prevenire, combattere ed eliminare il traffico di esseri umani nel contesto della migrazione internazionale.
Gestire le frontiere in un modo integrato, sicuro e coordinato.
Rafforzare la certezza e la prevedibilità delle procedure legate alla migrazione per un esame, una valutazione e una presa in carico adeguate.
Usare la detenzione solo come misura di ultima istanza e lavorare per possibili alternative.
Migliorare la protezione, l’assistenza e la cooperazione consolare durante il percorso migratorio.
Fornire l’accesso ai servizi di base per i migranti.
Consentire ai migranti e alle società di realizzare la piena inclusione e la coesione sociale.
Eliminare tutte le forme di discriminazione e promuovere un discorso pubblico basato su dati comprovati per formare la percezione dell’opinione pubblica.
Investire nello sviluppo delle capacità e facilitare il riconoscimento reciproco delle capacità, delle qualifiche e delle competenze.
Creare le condizioni per i migranti e per le diaspore per contribuire pienamente allo sviluppo sostenibile in tutti i paesi.
Promuovere il trasferimento più rapido, più sicuro e più economico delle rimesse e favorire l’inclusione finanziaria dei migranti.
Cooperare per facilitare rimpatri e riammissioni sicuri e dignitosi e un reinserimento sostenibile.
Stabilire meccanismi per la trasferibilità dei diritti previdenziali e delle prestazioni maturate.
Rafforzare la cooperazione internazionale e le partnership globali per una migrazione sicura, ordinata e legale.
Secondo il ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) Matteo Villa in ogni caso il Global compact ha soprattutto un valore simbolico, “perché non vincola a fare nulla, non comporta nessun obbligo, dà una direzione alla comunità internazionale e dice che gli stati dovrebbero cooperare per raggiungere degli obiettivi”. Quando non viene sottoscritto di fatto non si riconosce il percorso negoziale degli ultimi due anni, ma senza conseguenze concrete. “Non è un trattato, non può cambiare le leggi internazionali, chiede solo maggiore cooperazione nella gestione delle migrazioni”, spiega Villa. Il documento, prosegue il ricercatore, parla dei diritti dei migranti, ma anche delle prerogative degli stati con precisi riferimenti “ai rimpatri, alla lotta al traffico di migranti e alla tratta di esseri umani”. Il paese che non lo sottoscrive, quindi, rischia di rimanere isolato rispetto alla gestione di un fenomeno globale.
Qual è la posizione dell’Italia
L’Italia ha partecipato a tutte le fasi del negoziato nel corso degli ultimi due anni. Rispondendo a un question time alla camera, il 21 novembre il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi ha difeso il patto dicendo che “non sarà un atto giuridicamente vincolante” e che “nel documento ci sono princìpi di responsabilità condivisa nella gestione degli oneri dell’immigrazione”. Sulla stessa linea si è schierato anche il sottosegretario agli affari esteri Manlio Di Stefano (Movimento 5 stelle): “Siamo fiduciosi che il Global compact sarà uno strumento utile per massimizzare l’impatto delle risorse disponibili nella gestione dei flussi migratori”.
Eppure, il 27 novembre il ministro dell’interno italiano Matteo Salvini ha dichiarato di essere contrario al Global compact, perché metterebbe sullo stesso piano “i migranti cosiddetti economici e i rifugiati politici”, mentre altri esponenti della Lega hanno sostenuto le posizioni del ministro affermando che il documento implica un rischio di “immigrazione incontrollata”. Infine Fratelli d’Italia ha promosso una raccolta firme per chiedere che il governo non sottoscriva il Global compact, perché finirà con il “sancire l’invasione dell’Italia” e accusando chi lo dovesse sottoscrivere di “schierarsi con Soros”. Secondo Giovanbattista Fazzolari di Fratelli d’Italia, il Global compact “sancisce che l’immigrazione è un diritto fondamentale e che pertanto renderà impossibile per gli stati limitare i flussi migratori”.
Sul tema sono stati più cauti i cinquestelle che hanno espresso posizioni in alcuni casi favorevoli. Per esempio il presidente della camera Roberto Fico e il presidente della commissione affari costituzionali della camera Giuseppe Brescia hanno detto che il Global compact deve essere assolutamente sottoscritto. Per questo il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha rimandato al parlamento l’esame del piano sostenendo che Roma potrebbe accettare l’accordo in un secondo momento, dopo l’esame dell’aula: “Il Global migration compact è un documento che pone temi e questioni diffusamente sentiti anche dai cittadini” e per questo il governo ritiene “opportuno parlamentarizzare il dibattito e rimettere le scelte definitive all’esito di tale discussione, come pure è stato deciso dalla Svizzera”. L’Italia quindi non parteciperà al vertice di Marrakech e per ora non aderirà al Global compact sull’immigrazione.
Matteo Villa dell’Ispi sostiene che in pochi abbiano letto il testo dell’accordo e che la polemica sull’adesione si sia giocata soprattutto su un piano di propaganda politica: “Il nome in inglese non aiuta a rendere comprensibile l’obiettivo dell’accordo”. L’Italia ha ripiegato su una posizione di mezzo, suggerita dalla Svizzera, che permetterà a Roma di non partecipare al vertice, “e quindi di mandare un segnale politico”, ma anche di “scaricare sul parlamento la responsabilità della decisione”.
In questo modo l’Italia però sta segnalando la volontà di collocarsi al fianco dei paesi del blocco di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia), con l’Austria e la Bulgaria: “Stiamo dicendo che siamo sulla stessa linea dei paesi che non condividono la frontiera mediterranea, e che negli anni scorsi non hanno avuto una grande esperienza di flussi migratori. È un segnale di chiusura, invece che di collaborazione”, commenta Villa.
Gli altri paesi
I primi a voltare le spalle al Global compact sono stati, prevedibilmente, gli Stati Uniti, che dal 2002 non hanno ratificato nessun trattato internazionale nel campo dei diritti umani. A dicembre del 2017, prima ancora che fosse presentata la bozza iniziale del Global compact, il presidente Donal Trump aveva annunciato che gli Stati Uniti non avrebbero preso parte ai negoziati.
A luglio è stato il turno dell’Australia, diventata negli ultimi anni un modello di violazione dei diritti umani di migranti e richiedenti asilo. Subito dopo la fine dei negoziati, il ministro dell’interno Peter Dutton ha dichiarato che il paese non avrebbe firmato il documento, criticandone la versione finale e spiegando che “non è nell’interesse nazionale affidare alle Nazioni Unite le nostre politiche di difesa delle frontiere”.
Sempre a luglio è cominciata quella che il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa ha chiamato “la deriva del continente” europeo: uno dopo l’altro, una decina di paesi hanno annunciato che non avrebbero approvato il Global compact o hanno avanzato forti riserve. Il primo è stato, anche qui senza grandi sorprese, l’Ungheria, che in un comunicato del 24 luglio ha parlato di “conflitto irrisolvibile” tra le sue posizioni e l’approccio delle Nazioni Unite: “Per l’Onu la migrazione andrebbe incoraggiata, mentre secondo l’Ungheria dev’essere fermata”.
A ottobre l’Austria, guidata dal dicembre del 2017 da una coalizione tra il Partito popolare, di centrodestra, e la formazione di estrema destra Partito della libertà, ha criticato il documento, confermando il 31 ottobre che non lo avrebbe approvato. Lo stesso giorno la presidente croata Kolinda Grabar- Kitarović ha annunciato che non intendeva firmare “l’accordo di Marrakech”, ma il governo in seguito ha difeso il Global compact in parlamento e ha dichiarato che parteciperà all’incontro in Marocco.
A novembre gli abbandoni si sono moltiplicati: la Bulgaria il 12, la Repubblica Ceca il 14, la Polonia il 20 (ma se ne parlava da oltre un mese), la Slovacchia il 25 (e con quest’ultimo annuncio il gruppo di Visegrád era al completo). Sempre a novembre anche Israele si è tirato fuori, dando le stesse ragioni dell’Australia e dell’Ungheria, mentre la Svizzera ha annunciato che non parteciperà all’incontro di Marrakech perché prenderà una decisione solo dopo la fine dei dibattiti parlamentari sul Global compact.
Ci sono poi dei paesi che potrebbero approvare il documento, allegandovi però una “explanation of position”, una nota che preciserà l’interpretazione del Global compact. È quanto ha annunciato il governo neerlandese, al quale potrebbero unirsi i governi di Danimarca, Estonia, Norvegia e Regno Unito (dove una petizione contro il Global compact ha superato le centomila firme). Un altro paese indeciso è la Nuova Zelanda, che tuttavia sembra propendere per l’approvazione, mentre un caso a parte è quello del Belgio, che sulla questione del Global compact rischia la crisi di governo.
Il caso del Belgio
Dal 2014 il Belgio è guidato da una coalizione che per la prima volta, e per ben quattro anni finora, è riuscita a tenere insieme da un lato i liberali francofoni e fiamminghi (Mr e OpenVld) e i cristianodemocratici fiamminghi (Cd&V) e, dall’altro, i nazionalisti fiamminghi della N-Va, alla loro prima esperienza in un governo federale. In questi anni non sono mancate le tensioni, ma la coalizione non è mai stata così vicina alla rottura. Il 14 novembre un portavoce di Theo Francken (N-Va), segretario di stato alle politiche di asilo e migrazione, ha dichiarato che il paese non avrebbe firmato il documento, mettendo in imbarazzo il primo ministro liberale Charles Michel, che il 27 settembre aveva detto l’esatto contrario davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Da allora è stato tutto un frenetico susseguirsi di accuse, smentite, rivelazioni e minacce. Il 30 novembre il quotidiano Le Soir ha pubblicato un documento dell’11 ottobre “che prova che la N-Va era favorevole al Global compact”. Ma, come riferisce il quotidiano, il ministero dell’interno ha ammesso “che la percezione del Global compact a un certo punto si è ribaltata” e che “i dubbi dell’Austria hanno provocato” quelli della N-Va. Il giornalista Bernard Demonty ricorda poi che Francken “aveva avanzato delle riserve sul documento prima del no dell’Austria, al vertice di Sofia nel gennaio del 2018 e poi in diverse altre occasioni. Ma, in seguito alle modifiche del documento, il segretario di stato aveva finito per dare il suo accordo, il che spiega il silenzio della N-Va. Fino a quando l’Austria si è ritirata”.
Secondo il politologo Dave Sinardet, intervistato dall’agenzia Rtbf, “la crisi dev’essere analizzata alla luce delle elezioni locali del 14 ottobre: ‘La N-Va ha perso dei voti a vantaggio del Vlaams belang – formazione di estrema destra – e il partito sembra voler mettere ancora di più in primo piano la questione migratoria’”. Tanto più che mancano ormai meno di sei mesi alle prossime elezioni federali.
Dietro le quinte dei negoziati
Sarebbe riduttivo dire che il Global compact ha diviso l’Europa, perché sono anni che l’Unione europea è spaccata sulla questione migratoria o, meglio, che ogni stato membro – con più o meno disprezzo per i diritti fondamentali dei migranti – cerca di mantenere il controllo delle sue politiche migratorie. Prima ancora che finissero i negoziati sul testo del Global compact, la Commissione europea aveva capito che l’adozione del documento da parte di tutti gli stati membri non era affatto scontata. Il 21 marzo 2018 aveva presentato una proposta in base alla quale la Commissione avrebbe potuto approvare il Global compact per conto dell’Unione europea, proposta respinta dal Consiglio dell’Ue.
Da quando il Global compact è finito nel mirino dei sovranisti, le Nazioni Unite hanno risposto alle critiche avanzando principalmente due argomenti. Il primo è che il testo non è vincolante. Si tratta di un argomento discutibile, perché anche i trattati non vincolanti, dal momento in cui sono adottati, entrano a far parte degli strumenti che possono orientare non solo le politiche nazionali ma anche le decisioni dei tribunali. Soprattutto, però, non si capisce perché un partito come la Lega o la N-Va dovrebbe approvare un testo di cui non condivide alcuni princìpi, a prescindere dalla sua natura. Insistendo sul carattere non vincolante del documento, i suoi difensori sembrano sminuirne l’importanza. E se non è importante, perché approvarlo?
Su alcuni punti il documento invita i governi a fare perfino meno di quanto già previsto dal diritto europeo
L’altro argomento è che, contrariamente a quanto sostenuto dagli avversari del Global compact, quest’ultimo non favorisce “l’immigrazione selvaggia”. Per convincersene basterebbe leggere, oltre al documento stesso, le versioni prodotte nel corso dei negoziati, partendo dalla bozza iniziale. Lo ha fatto un gruppo di studiosi coordinati da Elspeth Guild, docente di legge alla Queen Mary university di Londra, e da Tugba Basaran, ricercatrice del Centre for global human movement dell’università di Cambridge.
Analizzando l’evoluzione del testo, obiettivo per obiettivo, gli autori osservano che il documento finale è molto meno ambizioso della bozza iniziale. Tra i punti eliminati ci sono per esempio il divieto della detenzione dei minori e il riferimento alle procedure di regolarizzazione. L’importanza del ricongiungimento familiare è stata ridimensionata nella versione finale. Vari obiettivi, sottolineano gli autori, non dicono nulla che non sia già stabilito altrove (perché, anche se alcuni politici europei sembrano ignorarlo, la legge riconosce dei diritti ai migranti, perfino a quelli in soggiorno irregolare).
Su alcuni punti il documento invita i governi a fare perfino meno di quanto già previsto dal diritto europeo. Per esempio, riguardo all’obiettivo 5 – “migliorare la flessibilità e la disponibilità delle vie legali per migrare” – Kees Groenendijk, docente all’università di Radboud, nei Paesi Bassi, osserva: “Dopo l’eliminazione dei riferimenti al diritto al ricongiungimento familiare e alla conversione flessibile del tipo di visti, il livello di ambizione del testo è chiaramente inferiore ai diritti che le attuali direttive europee già riconoscono ai migranti originari di paesi esterni all’Ue. Il Global compact potrebbe quindi essere usato per giustificare delle politiche migratorie più restrittive”.
Come spiega Elsepth Guild in un altro articolo, pubblicato ad aprile insieme alla ricercatrice Katharine T. Weatherhead, durante i negoziati la delegazione dell’Unione europea ha insistito perché fosse messo l’accento su alcuni punti: la distinzione tra migranti e rifugiati e tra migranti regolari e irregolari; la prevenzione della cosiddetta migrazione irregolare; la responsabilità degli stati di origine dei migranti nel quadro di rimpatri e riammissioni. Tuttavia, osserva Guild, non esiste nessuna base legale evidente nel diritto internazionale per sostenere che gli stati hanno l’obbligo di riammettere i loro cittadini espulsi da un altro paese. Durante i negoziati, l’Unione europea avrebbe quindi tentato, con successo, “di creare, senza sforzi e su scala globale, un’intesa sull’obbligo legale di riammissione”.
Sulla pelle dei migranti
Tutto questo però non interessa ai partiti sovranisti e xenofobi. Gli stati, in particolare quelli di destinazione, hanno a lungo rifiutato di discutere di gestione delle migrazioni in un contesto multilaterale. In un articolo del 2017 intitolato “The history of global migration governance”, Alexander Betts e Lena Kains, del Refugee studies centre dell’università di Oxford, ricordano che ci sono voluti anni di iniziative, rapporti e discussioni più o meno formali per arrivare alla dichiarazione di New York sui migranti e i rifugiati del 2016 e poi al Global compact sull’immigrazione.
I negoziati, com’era da prevedersi, si sono conclusi con un documento ispirato più alla chiusura dell’Unione europea che alle posizioni progressiste dei paesi dell’America Latina, ma a pochi mesi dalle elezioni europee (e, per alcuni stati membri dell’Ue, delle elezioni politiche) la tentazione è troppo forte: il Global compact è un ottimo pretesto per cominciare a fare campagna elettorale. Forse le Nazioni Unite avrebbero fatto meglio a non dare troppo peso ai governi che si sono ritirati, invece di offrire loro l’occasione di strumentalizzare il dibattito, ancora una volta sulla pelle dei migranti.