• Il Villaggio globale di Riace ripopolato dagli afghani: nonostante tutto, l’accoglienza non si ferma

    Mentre l’ex sindaco Mimmo Lucano attende la sentenza d’appello, una rete di associazioni mantiene in vita il borgo con aiuti e sottoscrizioni “contro la criminalizzazione di un modello solidale”

    Dall’Afghanistan a Riace per ricostruire una nuova vita. Quattro famiglie sono arrivate nel mese di giugno nel borgo calabrese, dove l’accoglienza ministeriale è stata bloccata poco dopo l’avvio del procedimento giudiziario contro Mimmo Lucano. Il processo di appello all’ex sindaco, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere con una serie di accuse legate alla gestione dei progetti di accoglienza dei richiedenti asilo, è iniziato il 25 maggio. Il 6 luglio è fissata la prossima udienza.

    Ezatullah e Roqia, 30 e 29 anni sono arrivati a Riace dopo una lunga attesa. «Abbiamo trascorso quasi nove mesi in Pakistan. Veniamo da Kandahar. Siamo fuggiti con la nostra bimba di tre anni alla fine di agosto e siamo riusciti ad attraversare il confine. Io lavoravo con gruppi di statunitensi, mentre mia moglie era una maestra. Non potevamo restare, rischiavamo entrambi tremende ritorsioni», raccontano a L’Espresso.

    Entrare o uscire dal Pakistan non è facile. Ezatullah e la sua famiglia hanno dovuto aspettare che venisse loro concesso un visto, che costa circa 800 euro a persona. A Riace sono quindi arrivati tramite un percorso umanitario gestito dall’associazione #Jimuel Onlus.

    «Ci siamo presi carico del costo del visto e del viaggio. Lo Stato italiano chiede infatti delle garanzie per l’arrivo delle persone provenienti dall’Afghanistan. Noi siamo riusciti a coprire i costi per quattro famiglie tramite le sottoscrizioni di privati che hanno donato quote all’associazione. Riace, subito dopo l’invasione russa, si era resa disponibile anche ad accogliere famiglie ucraine, ma serviva un’approvazione formale, che il Consiglio Comunale non ha dato», racconta Isidoro Napoli, presidente di Jimuel.

    A Riace Ezatullah e Roqia hanno iniziato la propria ripartenza. Roqia ha una borsa lavoro in un laboratorio di sartoria ed entrambi stanno frequentando la scuola di italiano. «Vedo il mio futuro qui, prima di arrivare speravo di trovare un buon posto in cui vivere ma non potevo esserne sicuro. Il nostro obiettivo è imparare l’italiano prima possibile e iniziare la nostra nuova vita», prosegue Ezatullah.

    Un “modello Riace” in versione ridotta sta quindi ricominciando. Le famiglie afghane sono ospitate all’interno del cosiddetto Villaggio globale, la zona del borgo in cui le decine di case abbandonate dai cittadini emigrati nel Nord Italia o all’estero vengono affittate, tramite un’associazione, alle famiglie rifugiate.

    «Gli afghani stanno ripopolando il borgo ma in realtà l’accoglienza spontanea a Riace non si è mai fermata», racconta Mimmo Lucano.

    E non si è fermata nonostante nel 2016 sia iniziata la trafila giudiziaria per l’ex sindaco e nel 2017 siano stati congelati i fondi del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, sostituito nel 2018 dal Sipromi, Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati e nel 2020 dal Sai, Sistema accoglienza Integrazione), finanziato con fondi del ministero dell’Interno.

    Dopo che a Riace vennero bloccati i progetti in corso, i migranti vennero trasferiti in altri centri sparsi in tutta Italia. Il blocco dei finanziamenti ha di fatto paralizzato l’accoglienza a Riace: il borgo si era nuovamente spopolato, anche se c’era chi aveva comunque deciso di restare. Il modello Riace, iniziato nel 1998 con i primi sbarchi di curdi e ampliato nei vent’anni successivi, ha contribuito, secondo molti, a fermare lo spopolamento del piccolo centro. In quindici anni il Paese era infatti tornato ai livelli di popolazione del 1920, arrivando a superare i 2.500 abitanti, mentre negli anni Novanta abitavano a Riace solo 1.600 persone.

    La storia di accoglienza del borgo calabrese parte da lontano e ha visto Mimmo Lucano in prima linea prima come volontario e poi come sindaco. Lucano è stato infatti primo cittadino di Riace dal 2004 al 2018, anno in cui Antonio Trifoli è stato eletto con una lista civica vicina alla destra, mentre l’ex sindaco non ha ottenuto i voti per poter entrare in Consiglio comunale.

    «Ho sempre pensato che l’accoglienza nei borghi spopolati contribuisse a far rinascere un senso di identità. Le comunità in cui ci sono solo autoctoni non sono ideali, non c’è crescita, contaminazione. Io ho sempre considerato quello che abbiamo creato negli anni come qualcosa di spontaneo, che andasse al di là dei confini. Il fatto che un luogo di emigrazione in cui non c’è lavoro e ci sono fortissime infiltrazioni mafiose si stesse trasformando in uno di arrivo ha incuriosito tanti. Nel bene e nel male», racconta Mimmo Lucano.

    Ma a ripopolare Riace sono stati negli anni anche i riacesi stessi. Tra questi c’è Vincenzo, emigrato prima in Toscana e poi a Parigi subito dopo il diploma per ragioni di studio e lavoro, e rientrato nel Paese per lavorare con l’accoglienza.

    «Sono tornato ad abitare nella mia vecchia casa. Lasciare Riace era stata una necessità visto che volevo lavorare con il cinema. Adesso continuo a farlo ma ho la base nel mio paese e aiuto a portare avanti il nostro progetto di accoglienza. Come me sono stati molti i giovani riacesi che erano tornati per lavorare negli anni passati. Ora in molti sono ripartiti», racconta.

    Riace continua in ogni caso a essere «meta di un’accoglienza spontanea». Sono ad oggi, oltre alle famiglie afghane arrivate a giugno, trenta le persone provenienti da Nigeria, Ciad, Etiopia, Etitrea, Somalia, Ghana ed Egitto che abitano nel borgo. «Arrivano tramite passaparola. Tra loro c’è chi ha concluso i progetti di accoglienza nei Sai ma non sa dove andare. C’è chi fugge dalla violenza dei propri familiari. La scorsa settimana è arrivata una ragazza nigeriana incinta con i suoi due bambini. Vengono qui perché sanno che possono trovare una porta aperta, che nonostante tutto non lasciamo per la strada nessuno», spiega l’ex sindaco.

    Nel Villaggio globale non ci sono solo case. È anche un luogo di attività: restano aperti i laboratori tessili, di falegnameria, il forno sociale, la biblioteca dei diritti umani ed è in fase di creazione Radio Aut, una web radio che si rifà all’esperienza dell’emittente antimafia creata a Cinisi negli anni Settanta da Peppino Impastato.

    È attivo, poi, il banco alimentare che fornisce ogni settimana un buono spesa a ciascun nucleo familiare, così come l’ambulatorio medico in cui tre medici specialisti visitano gratuitamente sia le persone rifugiate che i riacesi.

    Dietro al modello di accoglienza c’è il sostegno di una serie di associazioni. Centinaia le attività che dall’inizio del processo a Lucano si sono svolte in tutta Italia per raccogliere fondi con l’obiettivo di portare avanti il progetto. Una delle realtà più attive è “Una luce per Riace”, associazione bolognese che si occupa di pagare le bollette alle case dei rifugiati che abitano nel Villaggio globale. Al lavoro anche vari “Comitati 11 giugno” (data di inizio del processo a Mimmo Lucano) che stanno, tramite sottoscrizioni, sostenendo il modello di accoglienza con eventi, iniziative e raccolte fondi.

    Un modello, quello di Riace, che ha subito un processo di criminalizzazione. A dirlo, tra gli altri, una delegazione di parlamentari europei di Verdi (Greens-Efa) e Sinistra (Left) che i primi di giugno ha fatto visita al borgo calabrese per portare la propria solidarietà all’ex sindaco. Un sostegno che, secondo Damien Careme del gruppo dei Greens, si sostanzia al Parlamento di Strasburgo con l’appoggio di 60 deputati.

    La criminalizzazione della solidarietà non è un fatto solo italiano ed è anzi diffusa in tutta Europa. Secondo un dossier realizzato dal gruppo dei Verdi, sono state 89 le persone perseguite nei Paesi Membri tra gennaio 2021 e marzo 2022. Tra questi 18 devono affrontare nuove accuse e quattro sono essi stessi migranti. Nell’88 per cento dei casi le persone sono state accusate di «favoreggiamento dell’ingresso, del transito o del soggiorno di migranti». A questi casi si sommano poi le quasi 300 persone che tra agosto e settembre 2021 sono state arrestate per aver aiutato i migranti che attraversavano illegalmente le frontiere tra Bielorussia e Polonia a seguito della crisi afghana.

    Anche il rapporto “Accused of solidarity”, publicato da Border violence monitoring network (Bvmn, una rete indipendente di associazioni che monitorano le violazioni dei diritti umani alle frontiere esterne dell’Ue) alla fine di maggio descrive e documenta il processo di «criminalizzazione» dei migranti e delle associazioni e operatori impegnati in questo campo. Elencando e contestualizzando gli episodi di criminalizzazione il rapporto evidenzia il «deterioramento della situazione» per chi offre sostegno ai migranti. Una criminalizzazione che, secondo le rilevazioni di Bvmn, sta diventando «sempre più raffinata perché attuata con metodi e strumenti formalmente legali».

    https://espresso.repubblica.it/attualita/2022/07/04/news/villaggio_globale_riace_ripopolato-356498761

    #Riace #asile #migrations #réfugiés #villes-refuge #Domenico_Lucano #accueil #réfugiés_afghans #modèle_Riace

  • #métaliste sur la mise en place de l’#externalisation des #procédures_d'asile au #Rwanda par l’#Angleterre
    –-> 2022

    #UK #Royaume-Uni

    –---

    voir aussi la métaliste sur les tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers (https://seenthis.net/messages/731749), mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers :
    https://seenthis.net/messages/900122

    #procédure_d'asile #externalisation_de_la_procédure #modèle_australien

  • Météo : Gare à cette publication annonçant des températures jusqu’à 46 °C la semaine prochaine
    https://www.20minutes.fr/planete/3320375-20220704-meteo-gare-publication-annoncant-temperatures-jusqu-46-se

    FAKE OFF Le résultat présenté dans la publication est notamment beaucoup trop anticipé pour être fiable

    1) ils te disent « FAKE OFF », et tu comprends donc que c’est une fake news, et que eux, ils t’aident à y voir clair. Je trouve cette expression affreuse, et repoussante. C’est fait exprès ? Et c’est faire preuve d’une totale absence d’humilité. Ils n’en font pas autant quand il s’agit de nommer un fasciste pour ce qu’il est.

    2) Tu regardes ensuite les prévisions du WE du 14 juillet, et tu découvres qu’ils t’y annoncent du 39° en pointe, qu’il y a deux jours, c’était seulement 36° qu’ils t’annonçaient, et que surtout, pendant une semaine, les températures dans mon coin ne vont pas descendre en dessous de 20/21°. En gros, c’est une nouvelle phase de canicule.

    Ils sont chouettes à 20 minutes, ils te « FAKE OFF », mais n’empêche que la troisième canicule de l’année, elle sera bien présente.

    #déni_partout_information_nulle_part

    • 20 minutes fait dans le #rassurisme climatique :

      Pour les 10 prochains jours, les modèles sont assez clairs sur le sujet ! Chaleur et temps sec sur une grande partie du Pays. En effet, reste à déterminer l’intensité de la chaleur voire la date d’arrivée de températures caniculaires au moins sur la moitié sud. Ce qui est assez impressionnant c’est qu’en consultant le diagramme de Bordeaux par exemple, autour du 12-14 juillet la moyenne des scénarios est proche des 35°… très peu de dispersion à cette échéance puisque 80% des scénarios sont très proche de cette valeur. D’autres s’approchent des 40° pour la fin de semaine sur cette même ville.
      A voir si tout est aussi limpide au fur et à mesure des sorties mais la probabilité que survienne une nouvelle canicule me paraît bien élevée pour cette mi-juillet (voire un peu avant) et plus particulièrement pour la moitié sud…
      Si ce nouvel épisode caniculaire se confirme, il aura été précédé d’un temps très sec et déjà chaud. Le bénéfice de nos séquences orageuses régulières n’aura donc plus sa place pour cette semaine (afin d’amoindrir l’envolée des températures). On a de quoi pouvoir être inquiet à mon humble avis… (on pense aux personnes fragiles, on pense à la nature qui est sur sa réserve, on pense aux risques d’incendies). Canicule ou pas, c’est déjà compliqué mais si elle se confirme ça ne fera qu’accélérer tous ces risques

      Source : https://forums.infoclimat.fr/f/topic/57511-du-11-juillet-au-17-juillet-2022-pr%C3%A9visions-semaine-28/?page=2

    • Gasp ! Ça s’annonce brulant tout ça…

      Sur ce forum, Greg13 résume ainsi (à 8h27 aujourd’hui)


      Résumé à ce stade de la période du 11 juillet au 17 juillet : SEC A PERTE DE VUE, SOLEIL, CHALEUR... ET ABSENCE D’ORAGES...

      – Temps pleinement estival, qui s’accompagnerait d’un temps sec sur toute l’échéance.
      – Quelques orages possibles le long des frontières italiennes et espagnoles, suivant les jours.
      – Fournaise probable au Sud de la Loire, même si l’intensité est encore à définir : entre 36°c et 44°c de Tx à Bordeaux par exemple.
      – Remake de mi-juin 2022 possible, même si nous y verrons plus clair dans quelques jours.

    • 24 heures plus tard, les prévisions de Météo France t’indiquent qu’en fait, ça va être 41 degrés qu’on va sans doute se bouffer dans la vallée du Rhône. Et ça a jugé important et utile de faire un « FAKE OFF ».

      On serait parano, on penserait qu’il y a des gens en coulisse pour veiller à ce qu’on ne fasse pas peur au grand nombre, et qu’il ne faut pas leur faire renoncer à leurs vacances.

    • Ce qui me faisait tiquer, c’est que toutes les dénonciations de cette annonce, c’était de dire « ah mais c’est juste un modèle, faut pas se baser dessus ». Mais sans préciser si c’est habituel pour ce modèle d’annoncer des températures record.

      Si un des modèles t’annonce toutes les semaines qu’il va pleuvoir des grenouilles et que l’océan va se remplir de sang, OK clairement faut pas trop se baser dessus. Mais si un modèle est utilisé avec d’autres modèles pendant des années parce qu’il ne passe pas son temps à t’annoncer des âneries, et que tout d’un coup il t’annonce qu’il va pleuvoir des grenouilles, faut ptet creuser un peu.

      Ou alors on passe des points de rupture qui rendent des modèles inopérants, et les points d’équilibre passent à des valeurs extrêmes et potentiellement loufoques. Mais là encore, faudrait creuser plutôt que de dire « c’est juste un modèle ».

    • Gare à ces modèles GFS qui ont des biais effectivement que l’on découvre, et qui peuvent se laisser surprendre par des événements imprévus… Il n’empêche… Pas une goutte de pluie n’est attendue avant fin juillet en France… peut être au delà ?

      Toujours dans le forum https://forums.infoclimat.fr/f/topic/57511-du-11-juillet-au-17-juillet-2022-pr%C3%A9visions-semaine-28/?page=13#comment-3564883 un certain Lucky indique des prévisions à plus de 40°C pour lundi 18, tout en rappelant que le code du travail ne prévoit rien pour les travailleurs :

      Alors ça c’est clair... Ces modélisations font peur... Par leur intensité, leur fréquence, leur durée. J’ai aussi l’impression que ça fait deux mois qu’on voit du rouge cramoisie sur les cartes. Cette année ça a commencé dès le mois de mai.

      Là le risque de canicule extrême est réelle et problématique. Je rappelle que dans notre pays il n’existe toujours aucune législation concernant le temps de travail en période caniculaire. La pénibilité des fortes chaleurs n’est pas du tout prise en compte dans le code du travail, ce qui expose les travailleurs, surtout les métiers physiques à de réels dangers.

      En Allemagne, même si c’est pas parfait, des recommandations et même des lois existent pour réguler ou adapter le temps de travail en période de canicule. En dehors du travail, ces valeurs sont suffisantes pour exposer des adultes en bonne santé à des coups de chaleur, donc j’en parle même pas pour les personnes à risque. Les Tn risquent d’être problématiques si le scénario où la canicule est longue se maintient. Notamment en ville comme d’habitude.

      Bref, pas d’eau, Tx supérieures aux « normales » tout juillet… Nuits chaudes… Ça va amener une belle sécheresse partout en plus, et de jolis feux à combattre par 35° dehors en habits ignifuges (je me demande comment vont se survivre les pompiers)…

      Et possiblement des températures pas si loin que ce que disait le modèle GFS incriminé, même si c’est décalé de quelques jours…

    • Un modèle, ça sert à connaître la tendance. La tendance, on la connaît, mais quand un modèle te la montre, t’as des crétins dans les rédactions, ils te disent que ce sont des fake news. Ces crétins n’ont pas encore compris que les fake news sont produites par les luttes de pouvoir entre groupes politiques, par les idéologues. Et ces idéologues ont compris que pour reprendre la main sur les narrations, on pouvait utiliser les rédactions en leur demandant de chasser les fakenewskonaledroit.
      Bref, le modèle il ne fait pas de politique et on va se manger une méchante période de chaleur comme en juin, et sans doute pire.

    • Dans ces coups de chaleur, (heat plume en anglais ce qui pourrait se traduire par « panache de chaleur » et non « plume de chaleur »), le phénomène est généré par la présence d’une goutte froide, dépression isolée de la circulation générale de la haute troposphère (courant jet ou jet stream). L’air ayant une rotation anti-horaire, comme dans toute dépression de l’hémisphère nord, cela permet l’advection des masses d’air brulantes du Sahara vers la péninsule ibérique (sauf le Portugal qui lui bénéficie de l’air plus frais de la goutte froide justement, si celle-ci se situe à proximité du littoral atlantique) puis vers la France (sud-ouest et centre). Maintenant, sur le littoral méditerranéen, le phénomène est plutôt liée à un dôme de chaleur dû au blocage anticyclonique.

      Illustrations :
      panache de chaleur : https://www.youtube.com/watch?v=OHE69oASpL0

      Dôme de chaleur : https://www.youtube.com/watch?v=QNRXNJkIkfg

    • La conclusion rude de Christophe Cassou donc :

      Cette canicule 2022 intervient en plein pic #COVID19, avec un système hospitalier au bord du précipice, en période de vulnérabilité due à des fortes tensions sociales, mais aussi sur la ressource en eau (↘️ rendement agricole), sur l’énergie.
      Sommes-nous prêts, résilients ?

      J’avoue, ce soir, ressentir une forme de colère car les faits scientifiques sont clairs. Nous savons où nous allons et nous savons où nous devrions aller et quoi faire pour limiter les risques croissants & menaçants pour sociétés humaines & écosystèmes. Et pourtant...

      Le déni de gravité et le déni de l’urgence sont tjrs là, comme l’atteste les appels aux ptits gestes ridicules, a la sobriété individuelle alors que les enjeux sont des enjeux de transformation de nos infrastructures collectives, de nos institutions, de nos modes de vie etc.

      Tous ceux qui pensent, sur un mode rassuriste/confusionniste, que l’on s’adaptera à des niveaux de réchauffement élevés sont irresponsables. Les limites dures de l’adaptation existent pour les sociétés humaines et la biodiv. comme évaluées dans Groupe2 #GIEC et @IPBES

      La semaine prochaine ns rapproche de ces limites un peu plus encore.
      Ns avons besoin de lucidité, honnêteté, courage, éthique & solidarité. Sans ces valeurs, ns ne relèverons pas le défi. Chaque ⅒ de degré est une vulnérabilité additionnelle, des souffrances additionnelles

    • Un peu de documentation pour s’y retrouver dans cette fournaise :

      https://www.meteocontact.fr/pour-aller-plus-loin/les-modeles-meteo

      Les modèles météorologiques - Cours météo

      La prévision du temps est aujourd’hui incontournable, mais pour prévoir la couleur du ciel de demain, les météorologues ont besoin des modèles de simulation de l’atmosphère.

      Il est bien connu que pour tenter de prédire les aspects comportementaux d’un système, il est nécessaire de créer son modèle approximatif mathématique. Aussi bien valable en économie qu’en météorologie, ce modèle doit être défini à partir de lois d’évolution. En le faisant « tourner » on simule alors le comportement du système à différentes échéances à partir d’un état initial préalablement définit.

      L’atmosphère étant un vaste espace et les lois qui la régissent étant complexes, les modèles numériques réalisent un nombre incommensurable d’opérations arithmétiques. Le traitement humain paraît donc impossible et il a fallu attendre le développement des ordinateurs dans les années 50 pour pouvoir espérer modéliser l’atmosphère. Aujourd’hui, il est quasiment impossible de se séparer de ces méthodes de calcul, car le modèle météorologique informatique est à la base de toute prévision du temps.

      De nombreux paramètres sont pris en compte dans les modèles : variables d’état de l’atmosphère et au niveau du sol (températures, humidité, vent, etc) ; processus physiques au niveau de l’atmosphère et du sol ou encore l’interaction entre le sol et l’atmosphère (et inversement). Grâce à toutes ces données, les supercalculateurs sont en mesure de créer des cartes de modélisations numériques.

    • Bien content d’avoir été prévenu par 20 minutes que ces prévisions étaient inutilement alarmistes. Encore un peu, et on aurait pu décider de ne pas aller à Arcachon ou dans les Monts d’Arrée si on les avait écouté. Sérieusement, comment peut-on être aussi inutilement alarmiste, alors que tout est sous contrôle ?

  • « No basaran » : la lutte contre les #bassines dans les #Deux-Sèvres

    Ils et elles étaient plus de 3000 à marcher, ce dimanche 11 octobre à Epannes (79), à l’appel de #Bassines_Non_Merci. Depuis 2017, le collectif se mobilise contre la construction de seize bassines, d’énormes #réservoirs qui doivent permettre d’irriguer la région en cas de #sécheresse … au risque d’épuiser les #nappes_phréatiques. Plus de 50 projets de ce type seraient en cours de validation selon le ministère de la Transition écologique.

    En arrivant à #Epannes, petit village de 900 habitant·es entre la Rochelle et Niort en ce dimanche d’automne, la scène a de quoi surprendre. Les rues bondées résonnent d’une fanfare festive. De nombreuses personnes dansent avec des tuyaux et des drapeaux de toutes les couleurs, à côté de tracteurs recouverts de banderoles. Pourtant, il ne s’agit pas d’un spectacle de rue mais bien d’une manifestation, organisée par le collectif Bassines Non Merci.

    Les bassines : la poursuite d’un #modèle_agricole à bout de souffle

    Le collectif, composé d’habitant·es, s’oppose au projet de construction de bassines dans la région. Ces grandes #cuvettes de plusieurs hectares de superficie doivent servir à l’#irrigation. Elles pompent donc dans les nappes phréatiques durant l’hiver pour être utilisées l’été, en période de #sécheresse. Selon les manifestant·es, lutter contre les bassines dans les Deux-Sèvres relève d’un enjeu national. Sans résistance, ce modèle de réserves pourrait se réaliser ailleurs. Plus de cinquante projets seraient en attente de validation, selon le ministère de la Transition écologique.

    Les opposant·es craignent que le niveau des nappes phréatiques ne baisse inexorablement année après année, au profit d’une #agriculture_intensive. Alors que ces bassines sont financées en majorité sur fonds publics, ils et elles demandent une réorientation des fonds à la conversion au bio, moins gourmand en ressources hydriques.

    Un rassemblement médiatique contre l’#agriculture intensive

    Ce 11 octobre, de nombreuses personnalités politiques d’envergure nationale ont fait le déplacement pour ce qui était présenté comme « l’ultime bataille » avant le début des travaux. Parmi elles, le député de la France Insoumise Jean-Luc Mélenchon, Philippe Poutou du NPA, ou encore José Bové et Yannick Jadot. Le député européen EELV dénonce une « #prédation insupportable de l’eau ». De son côté, l’ancien secrétaire national de la Confédération Paysanne l’affirme : « Si on ne gagne pas, je serai sur le terrain pour assumer les risques des actions collectives de #désobéissance_civile. »

    Le collectif Bassines Non Merci, lui, est prêt à durcir ses moyens d’action, « sans violence envers des personnes ou des moyens de production ». C’est ce que déclare Julien le Guet, son porte-parole, sous l’œil de l’ancien député européen. Connu pour ses actions d’arrachage d’OGM ou pour le démontage du Mc Donald’s de Millau, José Bové abonde. Une seule chose est certaine, affirme Julien le Guet, « la #guerre_de_l’eau a commencé ».

    https://radioparleur.net/2020/10/19/bassines-non-merci-deux-sevres-agriculture
    #résistance #eau

  • Livreurs #UberEats ou #Deliveroo, ils risquent leurs vies pour un burger | StreetPress
    https://www.streetpress.com/sujet/1646309485-livreurs-ubereats-deliveroo-morts-route-accident-uberisation

    Si les prix baissent, les distances des courses, elles, augmentent. Pour répondre au besoin de #croissance de leur #modèle_économique, les plateformes étendent progressivement leurs zones de #livraisons. Deliveroo fonctionne désormais dans 300 agglomérations et UberEats dans plus de 245. Depuis peu, l’application au lapin blanc sur fond turquoise a d’ailleurs mis en place des « #dark_kitchen », des cuisines uniquement dédiées à la livraison, située dans des hangars de banlieue donc éloignées des centres-villes. C’est ce qui explique que le GPS fait parfois prendre aux livreurs l’autoroute ou des chemins peu praticables pour les #vélos, comme en a tragiquement fait les frais Franck Page, le jeune marmandais décédé.

    [...]

    Selon une enquête de Franceinfo menée en avril 2021, à Paris et en proche banlieue, 81% des livraisons sont effectuées avec un scooter thermique. Un mode de transport encore plus risqué.

    [...]

    « Je contacte le #SAV de Deliveroo et la seule chose qu’ils me demandent c’est si j’ai pu livrer la commande. » Baladé de service en service pendant des jours, le barbu aux yeux clairs finit par laisser tomber et payer lui-même les 200 euros de réparation de son vélo. « C’est l’un des pires souvenirs que je garde de cette #application. Je pense qu’ils font exprès de rendre le processus insupportable pour qu’on se décourage », analyse-t-il. Il y a quelques mois, vers 23h, alors qu’il terminait sa journée de travail, Julien est mordu par un chien. Il a le mollet en sang :

    « J’ai directement appelé SOS médecin, je n’ai même pas pris la peine d’appeler Deliveroo. Je savais que j’allais parler à quelqu’un qui allait réagir comme un robot. »

    [...]

    Mais AXA couvre les blessures aux jambes, aux bras et à la tête, mais a considéré que ses viscères n’étaient pas assurés.

  • #Inde : #Sikkim, l’expérience bio

    Peut-on se passer de pesticides et d’engrais chimiques ? En Occident, le débat sur le glyphosate divise les agriculteurs. Pourtant, le #tout_biologique est possible : dans le nord de l’Inde, un État régional situé dans l’#Himalaya, le Sikkim, a interdit, depuis 4 ans, l’utilisation de tout pesticide ou engrais chimique.

    L’intégralité des terres cultivables a été convertie à l’agriculture biologique, faisant de la chimère une réalité servant de #modèle à suivre : le Sikkim est devenu le premier Etat au monde 100% bio.

    https://www.arte.tv/fr/videos/104586-000-A/inde-sikkim-l-experience-bio

    #agriculture_biologique

    #film #documentaire #film_documentaire

  • #conjoncture_covid : jeudi 13 janvier 2022
    • par rapport à l’extrapolation de référence, le léger décalage des hospitalisations et des entrées en réanimation se maintient, les décès décrochent un peu

    • en données cvh, les hospitalisations plafonnent, les entrées en réa aussi avec, peut-être l’amorce d’une petite baisse, les décès s’orientent à la baisse

  • Borders bill, a new plan

    https://twitter.com/pritipatel/status/1468619562027528192

    #nouvelle_loi #loi #UK #Angleterre #asile #migrations #réfugiés #Priti_Patel #plan #nouveau_plan

    –-> un copier-coller du #modèle_australien

    –-

    Autour des « #offshore centres », voire :
    https://seenthis.net/messages/938880
    –-> et une métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers :
    https://seenthis.net/messages/900122

    ping @karine4 @isskein

  • Les villes doivent être totalement dépourvues de voitures pour rester vivables
    http://carfree.fr/index.php/2021/10/26/les-villes-doivent-etre-totalement-depourvues-de-voitures-pour-rester-vivabl

    Une équipe d’experts dirigée par des chercheurs de l’University College London (UCL) a créé un modèle mathématique pour l’utilisation des voitures dans une #ville, qui a démontré que les villes Lire la suite...

    #Vie_sans_voiture #Ville_sans_voitures #angleterre #congestion #londres #péage_urbain #péages #recherche #science #trafic

  • #Liberté_académique et #justice_sociale

    On assiste en #Amérique_du_Nord à une recomposition du paysage académique, qui met l’exercice des #libertés_universitaires aux prises avec des questions de justice sociale, liées, mais pas seulement, au militantisme « #woke », souvent mal compris. Publication du premier volet d’un entretien au long cours avec #Isabelle_Arseneau et #Arnaud_Bernadet, professeurs à l’Université McGill de Montréal.

    Alors que se multiplient en France les prises de position sur les #libertés_académiques – voir par exemple cette « défense et illustration » -, un débat à la fois vif et très nourri se développe au #Canada depuis plus d’un an, après que des universitaires ont dû faire face à des plaintes pour #racisme, parfois à des suspensions de leur contrat, en raison de l’utilisation pédagogique qu’ils avaient faite des mots « #nègre » ou « #sauvages ». Significativement, un sondage récent auprès des professeurs d’université du Québec indique qu’une majorité d’entre eux pratiquent diverses formes d’#autocensure. C’est dans ce contexte qu’Isabelle Arseneau et Arnaud Bernadet, professeurs au Département des littératures de langue française, de traduction et de création de l’Université McGill de Montréal, ont été conduits à intervenir activement dans le débat, au sein de leur #université, mais aussi par des prises de position publiques dans la presse et surtout par la rédaction d’un mémoire, solidement argumenté et très remarqué, qui a été soumis et présenté devant la Commission scientifique et technique indépendante sur la reconnaissance de la liberté académique dans le milieu universitaire.

    Initiée en février 2021 par le premier ministre du Québec, François Legault, cette commission a auditionné de nombreux acteurs, dont les contributions sont souvent de grande qualité. On peut télécharger ici le mémoire des deux universitaires et suivre leur audition grâce à ce lien (début à 5 :15 :00). La lecture du présent entretien peut éclairer et compléter aussi bien le mémoire que l’audition. En raison de sa longueur, je publie cet entretien en deux parties. La première partie est consacrée aux exemples concrets de remise en cause de la liberté de citer certains mots en contexte universitaire et traite des conséquences de ces pratiques sur les libertés académiques. Cette première partie intègre aussi une analyse critique de la tribune parue ce jour dans Le Devoir, co-signée par Blanquer et le ministre de l’Education du Québec, lesquels s’attaquent ensemble et de front à la cancel culture. La seconde partie, à paraître le vendredi 29 octobre, portera plus précisément sur le mouvement « woke », ses origines et ses implications politiques, mais aussi sur les rapports entre science et société. Je tiens à remercier chaleureusement Isabelle Arseneau et Arnaud Bernadet d’avoir accepté de répondre à mes questions et d’avoir pris le temps de construire des réponses précises et argumentées, dont la valeur tient tout autant à la prise critique de ces deux universitaires qu’aux disciplines qui sont les leurs et qui informent leur réflexion. Ils coordonnent actuellement un volume collectif interdisciplinaire, Libertés universitaires : un an de débat au Québec (2020-2021), à paraître prochainement.

    Entretien, première partie

    1. Pourriez-vous exposer le plus factuellement possible ce qui s’est passé au mois de septembre 2020 à l’université d’Ottawa et à l’université McGill de Montréal ?

    Isabelle Arseneau. À l’automne 2020 éclatait à l’Université d’Ottawa une affaire qui a passionné le Québec et a connu d’importantes suites politiques : à l’occasion d’une séance d’enseignement virtuel sur la représentation des identités en art, une chargée de cours, #Verushka_Lieutenant-Duval, expliquait à ses étudiants comment l’injure « #nigger » a été réutilisée par les communautés afro-américaines comme marqueur subversif dans les années 1960. Parce qu’elle a mentionné le mot lui-même en classe, l’enseignante est devenue aussitôt la cible de #plaintes pour racisme et, au terme d’une cabale dans les #réseaux_sociaux, elle a été suspendue temporairement par son administration. Au même moment, des incidents à peu près analogues se produisaient au Département des littératures de langue française, de traduction et de création de l’Université McGill, où nous sommes tous les deux professeurs. Dans un cours d’introduction à la littérature québécoise, une chargée de cours a mis à l’étude Forestiers et voyageurs de #Joseph-Charles_Taché, un recueil de contes folkloriques paru en 1863 et qui relate les aventures d’un « Père Michel » qui arpente le pays et documente ses « mœurs et légendes ». Des étudiants interrompent la séance d’enseignement virtuel et reprochent à l’enseignante de leur avoir fait lire sans avertissement préalable une œuvre contenant les mots « Nègres » et « Sauvages ». Quelques jours plus tard, des plaintes pour racisme sont déposées contre elle. Le dossier est alors immédiatement pris en charge par la Faculté des Arts, qui lui suggère de s’excuser auprès de sa classe et d’adapter son enseignement aux étudiants que pourrait offenser la lecture des six autres classiques de la littérature québécoise prévus au syllabus (dont L’Hiver de force de Réjean Ducharme et Les Fous de Bassan d’Anne Hébert). Parmi les mesures d’accommodement, on lui conseille de fournir des « avertissements de contenu » (« #trigger_warnings ») pour chacune des œuvres à l’étude ; de se garder de prononcer à voix haute les mots jugés sensibles et de leur préférer des expressions ou des lettres de remplacement (« n », « s », « mot en n » « mot en s »). Trois mois plus tard, nous apprendrons grâce au travail d’enquête de la journaliste Isabelle Hachey (1) que les plaignants ont pu obtenir, après la date limite d’abandon, un remboursement de leurs frais de scolarité et les trois crédits associés à ce cours qu’ils n’ont cependant jamais suivi et pour lequel ils n’ont validé qu’une partie du travail.

    Lorsque j’ai imaginé notre doctorante en train de caviarder ses notes de cours et ses présentations Powerpoint, ça a fait tilt. Un an plus tôt, je travaillais à la Public Library de New York sur un manuscrit du XIIIe siècle dont la première image avait été grattée par un lecteur ou un possesseur offensé par le couple enlacé qu’elle donnait jusque-là à voir. La superposition de ces gestes de censure posés à plusieurs siècles d’intervalle témoignait d’un recul de la liberté universitaire que j’associais alors plus spontanément aux campus américains, sans pour autant nous imaginer à l’abri de cette vague venue du sud (2). Devant de tels dérapages, mon collègue Arnaud Bernadet et moi avons communiqué avec tous les étages de la hiérarchie mcgilloise. Las de nous heurter à des fins de non-recevoir, nous avons cosigné une série de trois lettres dans lesquelles nous avons dénoncé la gestion clientéliste de notre université (3). Malgré nos sorties répétées dans les médias traditionnels, McGill est demeurée silencieuse et elle l’est encore à ce jour.

    2. Pour être concret, qu’est-ce qui fait que l’emploi du mot « nègre » ou « sauvages » dans un cours est légitime ?

    Isabelle Arseneau. Vous évoquez l’emploi d’un mot dans un cadre pédagogique et il me semble que toute la question est là, dans le terme « emploi ». À première vue, le contexte de l’énonciation didactique ne se distingue pas des autres interactions sociales et ne justifie pas qu’on puisse déroger aux tabous linguistiques. Or il se joue dans la salle de classe autre chose que dans la conversation ordinaire : lorsque nous enseignons, nous n’employons pas les mots tabous, nous les citons, un peu comme s’il y avait entre nous et les textes lus ou la matière enseignée des guillemets. C’est de cette distinction capitale qu’ont voulu rendre compte les sciences du langage en opposant le signe en usage et le signe en mention. Citer le titre Nègres blancs d’Amérique ou le terme « Sauvages » dans Forestiers et Voyageurs ne revient pas à utiliser ces mêmes termes. De la même façon, il y a une différence entre traiter quelqu’un de « nègre » dans un bus et relever les occurrences du terme dans une archive, une traite commerciale de l’Ancien Régime ou un texte littéraire, même contemporain. Dans le premier cas, il s’agit d’un mot en usage, qui relève, à n’en pas douter, d’un discours violemment haineux et raciste ; dans l’autre, on n’emploie pas mais on mentionne des emplois, ce qui est différent. Bien plus, le mot indexe ici des représentations socialement et historiquement situées, que le professeur a la tâche de restituer (pour peu qu’on lui fournisse les conditions pour le faire). Si cette distinction entre l’usage et la mention s’applique à n’importe quel contexte d’énonciation, il va de soi qu’elle est très fréquente et pleinement justifiée — « légitime », oui — en contexte pédagogique. Il ne s’agit donc bien évidemment pas de remettre en circulation — en usage — des mots chargés de haine mais de pouvoir continuer à mentionner tous les mots, même les plus délicats, dans le contexte d’un exercice bien balisé, l’enseignement, dont on semble oublier qu’il suppose d’emblée un certain registre de langue.

    3. Ce qui étonne à partir de ces exemples – et il y en a d’autres du même type -, c’est que l’administration et la direction des universités soutiennent les demandes des étudiants, condamnent les enseignants et vont selon vous jusqu’à enfreindre des règles élémentaires de déontologie et d’éthique. Comment l’expliquez-vous ? L’institution universitaire a-t-elle renoncé à défendre ses personnels ?

    Arnaud Bernadet. Il faut naturellement conserver à l’esprit ici ce qui sépare les universités nord-américaines des institutions françaises. On soulignera deux différences majeures. D’une part, elles sont acquises depuis longtemps au principe d’autonomie. Elles se gèrent elles-mêmes, tout en restant imputables devant l’État, notamment au plan financier. Soulignons par ailleurs qu’au Canada les questions éducatives relèvent avant tout des compétences des provinces et non du pouvoir fédéral. D’autre part, ces universités obéissent à un modèle entrepreneurial. Encore convient-il là encore d’introduire des nuances assez fortes, notamment en ce qui concerne le réseau québécois, très hétérogène. Pour simplifier à l’extrême, les universités francophones sont plus proches du modèle européen, tandis que les universités anglophones, répliques immédiates de leurs voisines états-uniennes, semblent davantage inféodées aux pratiques néo-libérales.

    Quoi qu’il en soit, la situation décrite n’a rien d’inédit. Ce qui s’est passé à l’Université d’Ottawa ou à l’Université McGill s’observe depuis une dizaine d’années aux États-Unis. La question a été très bien documentée, au tournant de l’année 2014 sous la forme d’articles puis de livres, par deux sociologues, Bradley Campbell et Jason Manning (The Rise of Victimhood Culture) et deux psychologues, Jonathan Haidt et Greg Lukianoff (The Coddling of the American Mind). Au reste, on ne compte plus sur les campus, et parmi les plus progressistes, ceux de l’Ouest (Oregon, État de Washington, Californie) ou de la Nouvelle-Angleterre en particulier, les demandes de censure, les techniques de deplatforming ou de “désinvitation”, les calomnies sur les médias sociaux, les démissions du personnel - des phénomènes qu’on observe également dans d’autres milieux (culture, médias, politique). En mai dernier, Rima Azar, professeure en psychologie de la santé, a été suspendue par l’Université Mount Allison du Nouveau-Brunswick, pour avoir qualifié sur son blog Black Lives Matter d’organisation radicale…

    Il y a sans doute plusieurs raisons à l’attitude des administrateurs. En tout premier lieu : un modèle néo-libéral très avancé de l’enseignement et de la recherche, et ce qui lui est corrélé, une philosophie managériale orientée vers un consumérisme éducatif. Une autre explication serait la manière dont ces mêmes universités réagissent à la mouvance appelée “woke”. Le terme est sujet à de nombreux malentendus. Il fait désormais partie de l’arsenal polémique au même titre que “réac” ou “facho”. Intégré en 2017 dans l’Oxford English Dictionary, il a été à la même date récupéré et instrumentalisé par les droites conservatrices ou identitaires. Mais pas seulement : il a pu être ciblé par les gauches traditionnelles (marxistes, libertaires, sociales-démocrates) qui perçoivent dans l’émergence de ce nouveau courant un risque de déclassement. Pour ce qui regarde notre propos, l’illusion qu’il importe de dissiper, ce serait de ne le comprendre qu’à l’aune du militantisme et des associations, sur une base strictement horizontale. Ce qui n’enlève rien à la nécessité de leurs combats, et des causes qu’ils embrassent. Loin s’en faut. Mais justement, il s’agit avec le “wokism” et la “wokeness” d’un phénomène nettement plus composite qui, à ce titre, déborde ses origines liées aux luttes des communautés noires contre l’oppression qu’elles subissaient ou subissent encore. Ce phénomène, plus large mais absolument cohérent, n’est pas étranger à la sociologie élitaire des universités nord-américaines, on y reviendra dans la deuxième partie de cet entretien. Car ni l’un ni l’autre ne se sont si simplement inventés dans la rue. Leur univers est aussi la salle de classe.

    4. Au regard des événements dans ces deux universités, quelle analyse faites-vous de l’évolution des libertés académiques au Québec ?

    Arnaud Bernadet. Au moment où éclatait ce qu’il est convenu d’appeler désormais “l’affaire Verushka Lieutenant-Duval”, le Québec cultivait cette douce illusion de se croire à l’abri de ce genre d’événements. Mais les idées et les pratiques ne s’arrêtent pas à la frontière avec le Canada anglais ou avec les États-Unis. Le cas de censure survenu à McGill (et des incidents d’autre nature se sont produits dans cet établissement) a relocalisé la question en plein cœur de Montréal, et a montré combien les cultures et les sociétés sont poreuses les unes vis-à-vis des autres. Comme dans nombre de démocraties, on assiste au Québec à un recul des libertés publiques, la liberté académique étant l’une d’entre elles au même titre que la liberté d’expression. Encore faut-il nuancer, car le ministère de l’enseignement supérieur a su anticiper les problèmes. En septembre 2020, le scientifique en chef Rémi Quirion a remis un rapport qui portait plus largement sur L’université québécoise du futur, son évolution, les défis auxquels elle fait face, etc. Or en plus de formuler des recommandations, il y observe une “précarisation significative” de la liberté académique, un “accroissement de la rectitude politique”, imputée aux attentes ou aux convictions de “groupes particuliers”, agissant au nom de “valeurs extra-universitaires”, et pour finir, l’absence de “protection législative à large portée” entourant la liberté académique au Québec, une carence qui remonte à la Révolution tranquille. En février 2021, le premier ministre François Legault annonçait la création d’une Commission scientifique et technique indépendante sur la reconnaissance de la liberté académique en contexte universitaire. Cette commission qui n’a pas fini de siéger a rendu une partie de ses résultats, notamment des sondages effectués auprès du corps professoral (ce qui inclut les chargés de cours) : 60 % d’entre eux affirment avoir évité d’utiliser certains mots, 35 % disent avoir même recouru à l’autocensure en sabrant certains sujets de cours. La recherche est également affectée. Ce tableau n’est guère rassurant, mais il répond à celles et ceux qui, depuis des mois, à commencer dans le milieu enseignant lui-même, doublent la censure par le déni et préfèrent ignorer les faits. À l’évidence, des mesures s’imposent aujourd’hui, proportionnées au diagnostic rendu.

    5. La liberté académique est habituellement conçue comme celle des universitaires, des enseignants-chercheurs, pour reprendre la catégorie administrative en usage en France. Vous l’étendez dans votre mémoire à l’ensemble de la communauté universitaire, en particulier aux jeunes chercheurs, mais aussi aux personnels administratifs et aux étudiants ? Pourriez-vous éclairer ce point ?

    Arnaud Bernadet. Ce qui est en jeu ici n’est autre que l’extension et les applications du concept de liberté académique. Bien sûr, un étudiant ne jouit pas des mêmes dispositions qu’un professeur, par exemple le droit à exercer l’évaluation de ses propres camarades de classe. Mais a priori nous considérons que n’importe quel membre de la communauté universitaire est titulaire de la liberté académique. Celle-ci n’a pas été inventée pour donner aux enseignants et chercheurs quelque “pouvoir” irréaliste et exorbitant, mais pour satisfaire aux deux missions fondamentales que leur a confiées la société : assurer la formation des esprits par l’avancement des connaissances. En ce domaine, l’écart est-il significatif entre le choix d’un thème ou d’un corpus par un professeur, et un exposé oral préparé par un étudiant ? Dans chaque cas, on présumera que l’accès aux sources, la production des connaissances, le recours à l’argumentation y poursuivent les mêmes objectifs de vérité. De même, les administrateurs, et notamment les plus haut placés, doivent pouvoir bénéficier de la liberté académique, dans l’éventualité où elle entrerait en conflit avec des objectifs de gouvernance, qui se révéleraient contraires à ce qu’ils estimeraient être les valeurs universitaires fondamentales.

    6. Entre ce que certains considèrent comme des recherches “militantes” et les orientations néolibérales et managériales du gouvernement des universités, qu’est-ce qui vous semble être le plus grand danger pour les libertés académiques ?

    Arnaud Bernadet. Ce sont des préoccupations d’ordre différent à première vue. Les unes semblent opérer à l’interne, en raison de l’évolution des disciplines. Les autres paraissent être plutôt impulsées à l’externe, en vertu d’une approche productiviste des universités. Toutes montrent que le monde de l’enseignement et de la recherche est soumis à de multiples pressions. Aussi surprenant que cela paraisse, il n’est pas exclu que ces deux aspects se rejoignent et se complètent. Dans un article récent de The Chronicle of Higher Education (03.10.2021), Justin Sider (professeur de littérature anglaise à l’Université d’Oklahoma) a bien montré que les préoccupations en matière de justice sociale sont en train de changer la nature même des enseignements. Loin de la vision désintéressée des savoirs, ceux-ci serviraient dorénavant les étudiants à leur entrée dans la vie active, pour changer l’ordre des choses, combattre les inégalités, etc. C’est une réponse à la conception utilitariste de l’université, imposée depuis plusieurs décennies par le modèle néolibéral. Et c’est ce qu’ont fort bien compris certains administrateurs qui, une main sur le cœur, l’autre près du portefeuille, aimeraient donc vendre désormais à leurs “clients” des programmes ou de nouveaux curricula portant sur la justice sociale.

    7. La défense des libertés académiques, en l’occurrence la liberté pédagogique et la liberté de recherche d’utiliser tous les mots comme objet de savoir, est-elle absolue, inconditionnelle ? Ne risque-t-elle pas de renforcer un effet d’exclusion pour les minorités ?

    Isabelle Arseneau. Elle est plutôt à notre avis non-négociable (aucun principe n’est absolu). Mais pour cela, il est impératif de désamalgamer des dossiers bien distincts : d’une part, le travail de terrain qu’il faut encore mener en matière d’équité, de diversité et d’inclusion (qu’il est désormais commun de désigner par l’acronyme « ÉDI ») ; d’autre part, les fondements de la mission universitaire, c’est-à-dire créer et transmettre des savoirs. Les faux parallèles que l’on trace entre la liberté académique et les « ÉDI » desservent autant la première que les secondes et on remarque une nette tendance chez certaines universités plus clairement néolibérales à utiliser la liberté académique comme un vulgaire pansement pour régler des dossiers sur lesquels elles accusent parfois de regrettables retards. Bien ironiquement, ce militantisme d’apparat ne fait nullement progresser les différentes causes auxquelles il s’associe et a parfois l’effet inverse. Revenons à l’exemple concret qui s’est produit chez nous : recommander à une enseignante de s’excuser pour avoir prononcé et fait lire un mot jugé sensible et aller jusqu’à rembourser leurs frais de scolarité à des étudiants heurtés, voilà des gestes « spectaculaires » qui fleurent bon le langage de l’inclusion mais qui transpirent le clientélisme (« Satisfaction garantie ou argent remis ! »). Car une fois que l’on a censuré un mot, caviardé un passage, proscrit l’étude d’une œuvre, qu’a-t-on fait, vraiment, pour l’équité salariale hommes-femmes ; pour l’inclusion des minorités toujours aussi invisibles sur notre campus ; pour la diversification (culturelle, certes, mais également économique) des corps enseignant et étudiant, etc. ? Rien. Les accommodements offerts aux plaignants sont d’ailleurs loin d’avoir créé plus d’équité ; ils ont au contraire engendré une série d’inégalités : entre les étudiants d’abord, qui n’ont pas eu droit au même traitement dans le contexte difficile de la pandémie et de l’enseignement à distance ; entre les chargés de cours ensuite, qui n’ont pas eu à faire une même quantité de travail pour un même salaire ; et, enfin, entre les universités, toutes soumises au même système de financement public, dont le calcul repose en bonne partie sur l’unité-crédit. Les salles de classe ont bon dos : elles sont devenues les voies de sortie faciles pour des institutions qui s’achètent grâce à elles un vernis de justice sociale qui tarde à se traduire par des avancées concrètes sur les campus. Confondre les dossiers ne servira personne.

    8. Reste que ce qui est perçu par des acteurs de la défense de droits des minorités comme l’exercice d’une liberté d’expression est vécu et analysé par d’autres acteurs comme une atteinte à la liberté académique, en particulier la liberté pédagogique. La situation n’est-elle pas une impasse propre à aviver les tensions et créer une polémique permanente ? Comment sortir de cette impasse ?

    Isabelle Arseneau. En effet, on peut vite avoir l’impression d’un cul-de-sac ou d’un cercle vicieux difficile à briser, surtout au vu de la polarisation actuelle des discours, qu’aggravent les médias sociaux. Dans ce brouhaha de paroles et de réactions à vif, je ne sais pas si on s’entend et encore moins si on s’écoute. Chose certaine, il faudra dans un premier temps tenter de régler les problèmes qui atteignent aujourd’hui les établissements postsecondaires depuis l’intérieur de leurs murs. En effet, la responsabilité me semble revenir d’abord aux dirigeants de nos institutions, à la condition de réorienter les efforts vers les bonnes cibles et, comme je le disais à l’instant, de distinguer les dossiers. À partir du moment où l’on cessera de confondre les dossiers et où l’on résistera aux raccourcis faciles et tendancieux, des chantiers distincts s’ouvriront naturellement.

    Du côté des dossiers liés à l’équité et à la diversité, il me semble nécessaire de mener de vrais travaux d’enquête et d’analyse de terrain et de formuler des propositions concrètes qui s’appuient sur des données plutôt que des mesures cosmétiques qui suivent l’air du temps (il ne suffit pas, comme on a pu le faire chez nous, de recommander la censure d’un mot, de retirer une statue ou de renommer une équipe de football). Plus on tardera à s’y mettre vraiment et à joindre le geste à la parole, plus longtemps on échouera à réunir les conditions nécessaires au dialogue serein et décomplexé. Il nous reste d’ailleurs à débusquer les taches aveugles, par exemple celles liées à la diversité économique de nos campus (ou son absence), une donnée trop souvent exclue de la réflexion, qui préfère se fixer sur la seule dimension identitaire. Du côté de la liberté universitaire, il est nécessaire de la réaffirmer d’abord et de la protéger ensuite, en reprenant le travail depuis le début s’il le faut. C’est ce qu’a fait à date récente la Mission nommée par le recteur de l’Université de Montréal, Daniel Jutras. Les travaux de ce comité ont abouti à l’élaboration d’un énoncé de principes fort habile. Ce dernier, qui a été adopté à l’unanimité par l’assemblée universitaire, distingue très nettement les dossiers et les contextes : en même temps qu’il déclare qu’« aucun mot, aucun concept, aucune image, aucune œuvre ne sauraient être exclus a priori du débat et de l’examen critique dans le cadre de l’enseignement et de la recherche universitaires », le libellé rappelle que l’université « condamne les propos haineux et qu’en aucun cas, une personne tenant de tels propos ne peut se retrancher derrière ses libertés universitaires ou, de façon générale, sa liberté d’expression » (4). Il est également urgent de mettre en œuvre une pédagogie ciblant expressément les libertés publiques, la liberté académique et la liberté d’expression. C’est d’ailleurs une carence mise au jour par l’enquête de la Commission, qui révèle que 58% des professeurs interrogés « affirment ne pas savoir si leur établissement possède des documents officiels assurant la protection de la liberté universitaire » et que 85% des répondants étudiants « considèrent que les universités devraient déployer plus d’efforts pour faire connaître les dispositions sur la protection de la liberté universitaire ». Il reste donc beaucoup de travail à faire sur le plan de la diffusion de l’information intra muros. Heureusement, nos établissements ont déjà en leur possession les outils nécessaires à l’implantation de ce type d’apprentissage pratique (au moment de leur admission, nos étudiants doivent déjà compléter des tutoriels de sensibilisation au plagiat et aux violences sexuelles, par exemple).

    Enfin, il revient aux dirigeants de nos universités de s’assurer de mettre en place un climat propice à la réflexion et au dialogue sur des sujets parfois délicats, par exemple en se gardant d’insinuer que ceux qui défendent la liberté universitaire seraient de facto hostiles à la diversité et à l’équité, comme a pu le faire notre vice-recteur dans une lettre publiée dans La Presse en février dernier. Ça, déjà, ce serait un geste à la hauteur de la fonction.

    9. Quelle perception avez-vous de la forme qu’a pris la remise en cause des libertés académiques en France avec la polémique sur l’islamo-gauchisme initiée par deux membres du gouvernement – Blanquer et Vidal – et poursuivi avec le Manifeste des 100 ?

    Arnaud Bernadet. Un sentiment de profonde perplexité. La comparaison entre “l’islamo-gauchisme”, qui nous semble en grande partie un épouvantail agité par le pouvoir macroniste, et le “wokism” états-unien ou canadien - qui est une réalité complexe mais mesurable, dont on précisera les contours la semaine prochaine - se révèle aussi artificielle qu’infondée. Un tel rapprochement est même en soi très dangereux, et peut servir de nouveaux amalgames comme il apparaît nettement dans la lettre publiée hier par Jean-Michel Blanquer et Jean-François Roberge : “L’école pour la liberté, contre l’obscurantisme”. Déplions-la un instant. Les deux ministres de l’Éducation, de France et du Québec, ne sont pas officiellement en charge des dossiers universitaires (assurés par Frédérique Vidal et Danielle McCann). D’une même voix, Blanquer et Roberge condamnent - à juste titre - l’autodafé commis en 2019 dans plusieurs écoles du sud-ouest de l’Ontario sur des encyclopédies, des bandes-dessinées et des ouvrages de jeunesse qui portaient atteinte à l’image des premières nations. Or on a appris par la suite que l’instigatrice de cette purge littéraire, Suzie Kies, œuvrait comme conseillère au sein du Parti Libéral du Canada sur les questions autochtones. Elle révélait ainsi une évidente collusion avec le pouvoir fédéral. Inutile de dire par conséquent que l’intervention de nos deux ministres ressortit à une stratégie d’abord politique. En position fragile face à Ottawa, dont les mesures interventionnistes ne sont pas toujours compatibles avec son esprit d’indépendance, le Québec se cherche des appuis du côté de la France. Au nom de la “liberté d’expression”, la France tacle également Justin Trudeau, dont les positions modérées au moment de l’assassinat de Samuel Paty ont fortement déplu. Ce faisant, le Québec et la France se donnent aussi comme des sociétés alternatives, le Canada étant implicitement associé aux États-Unis dont il ne serait plus que la copie : un lieu où prospéreraient une “idéologie” et des “méthodes” - bannissement, censure, effacement de l’histoire - qui menaceraient le “respect” et l’esprit de “tolérance” auxquels s’adossent “nos démocraties”. Au lieu de quoi, non seulement “l’égalité” mais aussi la “laïcité” seraient garantes au Québec comme en France d’un “pacte” capable d’unir la “communauté” sur la base “de connaissances, de compétences et de principes fondés sur des valeurs universelles”, sans que celles-ci soient d’ailleurs clairement précisées. On ne peut s’empêcher toutefois de penser que les deux auteurs prennent le risque par ce biais de légitimer les guerres culturelles, issues au départ des universités états-uniennes, en les étendant aux rapports entre anglophones et francophones. Au reste, la cible déclarée du texte, qui privilégie plutôt l’allusion et se garde habilement de nommer, reste la “cancel culture” aux mains des “assassins de la mémoire”. On observera qu’il n’est nulle part question de “wokes”, de décolonialisme ou d’antiracisme par exemple. D’un “militantisme délétère” (mais lequel, exactement ?) on passe enfin aux dangers de la “radicalisation”, dans laquelle chacun mettra ce qu’il veut bien y entendre, des extrémismes politiques (national-populisme, alt-right, néo-nazisme, etc.) et des fondamentalismes religieux. Pour finir, la résistance aux formes actuelles de “l’obscurantisme” est l’occasion de revaloriser le rôle de l’éducation au sein des démocraties. Elle est aussi un moyen de renouer avec l’héritage rationaliste des Lumières. Mais les deux ministres retombent dans le piège civilisationniste, qui consiste à arrimer - sans sourciller devant la contradiction - les “valeurs universelles” à “nos sociétés occidentales”. Le marqueur identitaire “nos” est capital dans le texte. Il efface d’un même geste les peuples autochtones qui étaient mentionnés au début de l’article, comme s’ils ne faisaient pas partie, notamment pour le Québec, de cette “mémoire” que les deux auteurs appellent justement à défendre, ou comme s’ils étaient d’emblée assimilés et assimilables à cette vision occidentale ? De lui-même, l’article s’expose ici à la critique décoloniale, particulièrement répandue sur les campus nord-américains, celle-là même qu’il voudrait récuser. Qu’on en accepte ou non les prémisses, cette critique ne peut pas être non plus passée sous silence. Il faut s’y confronter. Car elle a au moins cette vertu de rappeler que l’héritage des Lumières ne va pas sans failles. On a le droit d’en rejeter les diverses formulations, mais il convient dans ce cas de les discuter. Car elles nous obligent à penser ensemble - et autrement - les termes du problème ici posé : universalité, communauté et diversité.

    10. La forme d’un « énoncé » encadrant la liberté académique et adopté par le parlement québécois vous semble-t-elle un bon compromis politique ? Pourquoi le soutenir plutôt qu’une loi ? Un énoncé national de référence, laissant chaque établissement en disposer librement, aura-t-il une véritable efficacité ?

    Isabelle Arseneau. Au moment de la rédaction de notre mémoire, les choses nous semblaient sans doute un peu moins urgentes que depuis la publication des résultats de la collecte d’informations réalisée par la Commission indépendante sur la reconnaissance de la liberté académique en contexte universitaire. Les chiffres publiés en septembre dernier confirment ce que nous avons remarqué sur le terrain et ce que suggéraient déjà les mémoires, les témoignages et les avis d’experts récoltés dans le cadre des travaux des commissaires : nous avons affaire à un problème significatif plutôt qu’à un épiphénomène surmédiatisé (comme on a pu l’entendre dire). Les résultats colligés reflètent cependant un phénomène encore plus généralisé que ce que l’on imaginait et d’une ampleur que, pour ma part, je sous-estimais.

    Dans le contexte d’une situation sérieuse mais non encore critique, l’idée d’un énoncé m’a donc toujours semblé plus séduisante (et modérée !) que celle d’une politique nationale, qui ouvrirait la porte à l’ingérence de l’État dans les affaires universitaires. Or que faire des universités qui ne font plus leurs devoirs ? L’« énoncé sur la liberté universitaire » de l’Université McGill, qui protège les chercheurs des « contraintes de la rectitude politique », ne nous a été d’aucune utilité à l’automne 2020. Comment contraindre notre institution à respecter les règles du jeu dont elle s’est elle-même dotée ? Nous osons croire qu’un énoncé national, le plus ouvert et le plus généreux possible, pourrait aider les établissements comme le nôtre à surmonter certaines difficultés internes. Mais nous sommes de plus en plus conscients qu’il faudra sans doute se doter un jour de mécanismes plus concrets qu’un énoncé non contraignant.

    Arnaud Bernadet. Nous avons eu de longues discussions à ce sujet, et elles ne sont probablement pas terminées. C’est un point de divergence entre nous. Bien entendu, on peut se ranger derrière la solution modérée comme on l’a d’abord fait. Malgré tout, je persiste à croire qu’une loi aurait plus de poids et d’efficience qu’un énoncé. L’intervention de l’État est nécessaire dans le cas présent, et me semble ici le contraire même de l’ingérence. Une démocratie digne de ce nom doit veiller à garantir les libertés publiques qui en sont au fondement. Or, en ce domaine, la liberté académique est précieuse. Ce qui a lieu sur les campus est exceptionnel, cela ne se passe nulle part ailleurs dans la société : la quête de la vérité, la dynamique contradictoire des points de vue, l’expression critique et l’émancipation des esprits. Je rappellerai qu’inscrire le principe de la liberté académique dans la loi est aussi le vœu exprimé par la Fédération Québécoise des Professeures et Professeurs d’Université. Actuellement, un tel principe figure plutôt au titre du droit contractuel, c’est-à-dire dans les conventions collectives des établissements québécois (quand celles-ci existent !) Une loi remettrait donc à niveau les universités de la province, elle préviendrait toute espèce d’inégalité de traitement d’une institution à l’autre. Elle comblerait la carence dont on parlait tout à l’heure, qui remonte à la Révolution tranquille. Elle renforcerait finalement l’autonomie des universités au lieu de la fragiliser. Ce serait aussi l’occasion pour le Québec de réaffirmer clairement ses prérogatives en matière éducative contre les ingérences - bien réelles celles-là - du pouvoir fédéral qui tend de plus en plus à imposer sa vision pancanadienne au mépris des particularités francophones. Enfin, ne nous leurrons pas : il n’y a aucune raison objective pour que les incidents qui se sont multipliés en Amérique du Nord depuis une dizaine d’années, et qui nourrissent de tous bords - on vient de le voir - de nombreux combats voire dérives idéologiques, cessent tout à coup. La loi doit pouvoir protéger les fonctions et les missions des universités québécoises, à ce jour de plus en plus perturbées.

    Entretien réalisé par écrit au mois d’octobre 2021

    Notes :

    1. Isabelle Hachey, « Le clientélisme, c’est ça » (La Presse, 22.02.2021)

    2. Jean-François Nadeau, « La censure contamine les milieux universitaires » (Le Devoir, 01.04.2017)

    3. Isabelle Arseneau et Arnaud Bernadet, « Universités : censure et liberté » (La Presse, 15.12.2020) ; « Les dérives éthiques de l’esprit gestionnaire » (La Presse, 29.02.2021) ; « Université McGill : une politique du déni » (La Presse, 26.02.2021).

    4. « Rapport de la Mission du recteur sur la liberté d’expression en contexte universitaire », juin 2021 : https://www.umontreal.ca/public/www/images/missiondurecteur/Rapport-Mission-juin2021.pdf

    https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/211021/liberte-academique-et-justice-sociale

    #ESR

    ping @karine4 @_kg_ @isskein

    –-

    ajouté à la métaliste autour du terme l’#islamo-gauchisme... mais aussi du #woke et du #wokisme, #cancel_culture, etc.
    https://seenthis.net/messages/943271

    • La liberté académique aux prises avec de nouvelles #menaces

      Colloques, séminaires, publications (Duclos et Fjeld, Frangville et alii) : depuis quelques années, et avec une accélération notoire ces derniers mois, le thème de la liberté académique est de plus en plus exploré comme objet scientifique. La liberté académique suscite d’autant plus l’intérêt des chercheurs qu’elle est aujourd’hui, en de nombreux endroits du monde, fragilisée.

      La création en 2021 par l’#Open_Society_University_Network (un partenariat entre la Central European University et le Bard College à New York) d’un #Observatoire_mondial_des_libertés_académiques atteste d’une inquiétante réalité. C’est en effet au moment où des libertés sont fragilisées qu’advient le besoin d’en analyser les fondements, d’en explorer les définitions, de les ériger en objets de recherche, mais aussi de mettre en œuvre un système de veille pour les protéger.

      S’il est évident que les #régimes_autoritaires sont par définition des ennemis des libertés académiques, ce qui arrive aujourd’hui dans des #pays_démocratiques témoigne de pratiques qui transcendent les frontières entre #régime_autoritaire et #régime_démocratique, frontières qui elles-mêmes tendent à se brouiller.

      La liberté académique menacée dans les pays autoritaires…

      S’appuyant sur une régulation par les pairs (la « communauté des compétents ») et une indépendance structurelle par rapport aux pouvoirs, la liberté de recherche, d’enseignement et d’opinion favorise la critique autant qu’elle en est l’expression et l’émanation. Elle est la condition d’une pensée féconde qui progresse par le débat, la confrontation d’idées, de paradigmes, d’axiomes, d’expériences.

      Cette liberté dérange en contextes autoritaires, où tout un répertoire d’actions s’offre aux gouvernements pour museler les académiques : outre l’emprisonnement pur et simple, dont sont victimes des collègues – on pense notamment à #Fariba_Adelkhah, prisonnière scientifique en #Iran ; à #Ahmadreza_Djalali, condamné à mort en Iran ; à #Ilham_Tohti, dont on est sans nouvelles depuis sa condamnation à perpétuité en# Chine, et à des dizaines d’autres académiques ouïghours disparus ou emprisonnés sans procès ; à #Iouri_Dmitriev, condamné à treize ans de détention en #Russie –, les régimes autoritaires mettent en œuvre #poursuites_judiciaires et #criminalisation, #licenciements_abusifs, #harcèlement, #surveillance et #intimidation.


      https://twitter.com/AnkyraWitch/status/1359630006993977348

      L’historien turc Candan Badem parlait en 2017 d’#académicide pour qualifier la vague de #répression qui s’abattait dans son pays sur les « universitaires pour la paix », criminalisés pour avoir signé une pétition pour la paix dans les régions kurdes. La notion de « #crime_contre_l’histoire », forgée par l’historien Antoon de Baets, a été reprise en 2021 par la FIDH et l’historien Grigori Vaïpan) pour qualifier les atteintes portées à l’histoire et aux historiens en Russie. Ce crime contre l’histoire en Russie s’amplifie avec les attaques récentes contre l’ONG #Memorial menacée de dissolution.

      En effet, loin d’être l’apanage des institutions académiques officielles, la liberté académique et de recherche, d’une grande rigueur, se déploie parfois de façon plus inventive et courageuse dans des structures de la #société_civile. En #Biélorussie, le sort de #Tatiana_Kuzina, comme celui d’#Artiom_Boyarski, jeune chimiste talentueux emprisonné pour avoir refusé publiquement une bourse du nom du président Loukachenko, ne sont que deux exemples parmi des dizaines et des dizaines de chercheurs menacés, dont une grande partie a déjà pris le chemin de l’exil depuis l’intensification des répressions après les élections d’août 2020 et la mobilisation qui s’en est suivie.

      La liste ci-dessus n’est bien sûr pas exhaustive, les cas étant nombreux dans bien des pays – on pense, par exemple, à celui de #Saïd_Djabelkhir en #Algérie.

      … mais aussi dans les #démocraties

      Les #régressions que l’on observe au sein même de l’Union européenne – le cas du déménagement forcé de la #Central_European_University de Budapest vers Vienne, sous la pression du gouvernement de Viktor Orban, en est un exemple criant – montrent que les dérives anti-démocratiques se déclinent dans le champ académique, après que d’autres libertés – liberté de la presse, autonomie de la société civile – ont été atteintes.

      Les pays considérés comme démocratiques ne sont pas épargnés non plus par les tentatives des autorités politiques de peser sur les recherches académiques. Récemment, en #France, les ministres de l’Éducation nationale et de l’Enseignement supérieur ont affirmé que le monde académique serait « ravagé par l’#islamo-gauchisme » et irrespectueux des « #valeurs_de_la_République » – des attaques qui ont provoqué un concert de protestations au sein de la communauté des chercheurs. En France toujours, de nombreux historiens se sont mobilisés en 2020 contre les modalités d’application d’une instruction interministérielle restreignant l’accès à des fonds d’#archives sur l’#histoire_coloniale, en contradiction avec une loi de 2008.


      https://twitter.com/VivementLundi/status/1355564397314387972

      Au #Danemark, en juin 2021, plus de 260 universitaires spécialistes des questions migratoires et de genre rapportaient quant à eux dans un communiqué public les intimidations croissantes subies pour leurs recherches qualifiées de « #gauchisme_identitaire » et de « #pseudo-science » par des députés les accusant de « déguiser la politique en science ».

      D’autres offensives peuvent être menées de façon plus sournoise, à la faveur de #politiques_néolibérales assumées et de mise en #concurrence des universités et donc du champ du savoir et de la pensée. La conjonction de #logiques_libérales sur le plan économique et autoritaires sur le plan politique conduit à la multiplication de politiques souvent largement assumées par les États eux-mêmes : accréditations sélectives, retrait de #financements à des universités ou à certains programmes – les objets plus récents et fragiles comme les #études_de_genre ou études sur les #migrations se trouvant souvent en première ligne.

      Ce brouillage entre régimes politiques, conjugué à la #marchandisation_du_savoir, trouve également à s’incarner dans la façon dont des acteurs issus de régimes autoritaires viennent s’installer au sein du monde démocratique : c’est le cas notamment de la Chine avec l’implantation d’#Instituts_Confucius au cœur même des universités, qui conduisent, dans certains cas, à des logiques d’#autocensure ; ou de l’afflux d’étudiants fortunés en provenance de pays autoritaires, qui par leurs frais d’inscriptions très élevés renflouent les caisses d’universités désargentées, comme en Australie.

      Ces logiques de #dépendance_financière obèrent l’essence et la condition même de la #recherche_académique : son #indépendance. Plus généralement, la #marchandisation de l’#enseignement_supérieur, conséquence de son #sous-financement public, menace l’#intégrité_scientifique de chercheurs et d’universités de plus en plus poussées à se tourner vers des fonds privés.

      La mobilisation de la communauté universitaire

      Il y a donc là une combinaison d’attaques protéiformes, à l’aune des changements politiques, technologiques, économiques et financiers qui modifient en profondeur les modalités du travail. La mise en place de programmes de solidarité à destination de chercheurs en danger (#PAUSE, #bourses_Philipp_Schwartz en Allemagne, #bourses de solidarité à l’Université libre de Bruxelles), l’existence d’organisations visant à documenter les attaques exercées sur des chercheurs #Scholars_at_Risk, #International_Rescue_Fund, #CARA et la création de ce tout nouvel observatoire mondial des libertés académiques évoqué plus haut montrent que la communauté académique a pris conscience du danger. Puissent du fond de sa prison résonner les mots de l’historien Iouri Dmitriev : « Les libertés académiques, jamais, ne deviendront une notion abstraite. »

      https://theconversation.com/la-liberte-academique-aux-prises-avec-de-nouvelles-menaces-171682

    • « #Wokisme » : un « #front_républicain » contre l’éveil aux #injustices

      CHRONIQUE DE LA #BATAILLE_CULTURELLE. L’usage du mot « wokisme » vise à disqualifier son adversaire, mais aussi à entretenir un #déni : l’absence de volonté politique à prendre au sérieux les demandes d’#égalité, de #justice, de respect des #droits_humains.

      Invoqué ad nauseam, le « wokisme » a fait irruption dans un débat public déjà singulièrement dégradé. Il a fait florès à l’ère du buzz et des clashs, rejoignant l’« #islamogauchisme » au registre de ces fameux mots fourre-tout dont la principale fonction est de dénigrer et disqualifier son adversaire, tout en réduisant les maux de la société à quelques syllabes magiques. Sur la scène politique et intellectuelle, le « wokisme » a même réussi là où la menace de l’#extrême_droite a échoué : la formation d’un « front républicain ». Mais pas n’importe quel front républicain…

      Formellement, les racines du « wokisme » renvoient à l’idée d’« #éveil » aux #injustices, aux #inégalités et autres #discriminations subies par les minorités, qu’elles soient sexuelles, ethniques ou religieuses. Comment cet « éveil » a-t-il mué en une sorte d’#injure_publique constitutive d’une #menace existentielle pour la République ?

      Si le terme « woke » est historiquement lié à la lutte des #Afro-Américains pour les #droits_civiques, il se trouve désormais au cœur de mobilisations d’une jeunesse militante animée par les causes féministes et antiracistes. Ces mobilisations traduisent en acte l’#intersectionnalité théorisée par #Kimberlé_Williams_Crenshaw*, mais le recours à certains procédés ou techniques est perçu comme une atteinte à la #liberté_d’expression (avec les appels à la #censure d’une œuvre, à l’annulation d’une exposition ou d’une représentation, au déboulonnage d’une statue, etc.) ou à l’égalité (avec les « réunions non mixtes choisies et temporaires » restreignant l’accès à celles-ci à certaines catégories de personnes partageant un même problème, une même discrimination). Le débat autour de ces pratiques est complexe et légitime. Mais parler en France du développement d’une « cancel culture » qu’elles sont censées symboliser est abusif, tant elles demeurent extrêmement marginales dans les sphères universitaires et artistiques. Leur nombre comme leur diffusion sont inversement proportionnels à leur écho politico-médiatique. D’où provient ce contraste ou décalage ?

      Une rupture du contrat social

      En réalité, au-delà de la critique/condamnation du phénomène « woke », la crispation radicale qu’il suscite dans l’hexagone puise ses racines dans une absence de volonté politique à prendre au sérieux les demandes d’égalité, de justice, de respect des droits humains. Un défaut d’écoute et de volonté qui se nourrit lui-même d’un mécanisme de déni, à savoir un mécanisme de défense face à une réalité insupportable, difficile à assumer intellectuellement et politiquement.

      D’un côté, une série de rapports publics et d’études universitaires** pointent la prégnance des inégalités et des discriminations à l’embauche, au logement, au contrôle policier ou même à l’école. Non seulement les discriminations sapent le sentiment d’appartenance à la communauté nationale, mais la reproduction des inégalités est en partie liée à la reproduction des discriminations.

      De l’autre, le déni et l’#inaction perdurent face à ces problèmes systémiques. Il n’existe pas de véritable politique publique de lutte contre les discriminations à l’échelle nationale. L’État n’a pas engagé de programme spécifique qui ciblerait des axes prioritaires et se déclinerait aux différents niveaux de l’action publique.

      L’appel à l’« éveil » est un appel à la prise de conscience d’une rupture consommée de notre contrat social. La réalité implacable d’inégalités et de discriminations criantes nourrit en effet une #citoyenneté à plusieurs vitesses qui contredit les termes du récit/#pacte_républicain, celui d’une promesse d’égalité et d’#émancipation.

      Que l’objet si mal identifié que représente le « wokisme » soit fustigé par la droite et l’extrême-droite n’a rien de surprenant : la lutte contre les #logiques_de_domination ne fait partie ni de leur corpus idéologique ni de leur agenda programmatique. En revanche, il est plus significatif qu’une large partie de la gauche se détourne des questions de l’égalité et de la #lutte_contre_les_discriminations, pour mieux se mobiliser contre tout ce qui peut apparaître comme une menace contre un « #universalisme_républicain » aussi abstrait que déconnecté des réalités vécues par cette jeunesse française engagée en faveur de ces causes.

      Les polémiques autour du « wokisme » contribuent ainsi à forger cet arc politique et intellectuel qui atteste la convergence, voire la jonction de deux blocs conservateurs, « de droite » et « de gauche », unis dans un même « front républicain », dans un même déni des maux d’une société d’inégaux.

      https://www.nouvelobs.com/idees/20210928.OBS49202/wokisme-un-front-republicain-contre-l-eveil-aux-injustices.html

      #récit_républicain

    • « Le mot “#woke” a été transformé en instrument d’occultation des discriminations raciales »

      Pour le sociologue #Alain_Policar, le « wokisme » désigne désormais péjorativement ceux qui sont engagés dans des courants politiques qui se réclament pourtant de l’approfondissement des principes démocratiques.

      Faut-il rompre avec le principe de « #color_blindness » (« indifférence à la couleur ») au fondement de l’#égalitarisme_libéral ? Ce principe, rappelons-le, accompagne la philosophie individualiste et contractualiste à laquelle adhèrent les #démocraties. Or, en prenant en considération des pratiques par lesquelles des catégories fondées sur des étiquettes « raciales » subsistent dans les sociétés postcolonialistes, on affirme l’existence d’un ordre politico-juridique au sein duquel la « #race » reste un principe de vision et de division du monde social.

      Comme l’écrit #Stéphane_Troussel, président du conseil départemental de Seine-Saint-Denis, « la République a un problème avec le #corps des individus, elle ne sait que faire de ces #différences_physiques, de ces couleurs multiples, de ces #orientations diverses, parce qu’elle a affirmé que pour traiter chacun et chacune également elle devait être #aveugle » ( Le Monde du 7 avril).

      Dès lors, ignorer cette #réalité, rester indifférent à la #couleur, n’est-ce pas consentir à la perpétuation des injustices ? C’est ce consentement qui s’exprime dans l’opération idéologique d’appropriation d’un mot, « woke », pour le transformer en instrument d’occultation de la réalité des discriminations fondées sur la couleur de peau. Désormais le wokisme désigne péjorativement ceux qui sont engagés dans les luttes antiracistes, féministes, LGBT ou même écologistes. Il ne se caractérise pas par son contenu, mais par sa fonction, à savoir, selon un article récent de l’agrégé de philosophie Valentin Denis sur le site AOC , « stigmatiser des courants politiques souvent incommensurables tout en évitant de se demander ce qu’ils ont à dire . Ces courants politiques, pourtant, ne réclament-ils pas en définitive l’approfondissement des #principes_démocratiques ?

      Une #justice_corrective

      Parmi les moyens de cet approfondissement, l’ affirmative action (« #action_compensatoire »), en tant qu’expression d’une justice corrective fondée sur la #reconnaissance des #torts subis par le passé et, bien souvent, qui restent encore vifs dans le présent, est suspectée de substituer le #multiculturalisme_normatif au #modèle_républicain d’#intégration. Ces mesures correctives seraient, lit-on souvent, une remise en cause radicale du #mérite_individuel. Mais cet argument est extrêmement faible : est-il cohérent d’invoquer la #justice_sociale (dont les antiwokedisent se préoccuper) et, en même temps, de valoriser le #mérite ? L’appréciation de celui-ci n’est-elle pas liée à l’#utilité_sociale accordée à un ensemble de #performances dont la réalisation dépend d’#atouts (en particulier, un milieu familial favorable) distribués de façon moralement arbitraire ? La justice sociale exige, en réalité, que ce qui dépend des circonstances, et non des choix, soit compensé.

      Percevoir et dénoncer les mécanismes qui maintiennent les hiérarchies héritées de l’#ordre_colonial constitue l’étape nécessaire à la reconnaissance du lien entre cet ordre et la persistance d’un #racisme_quotidien. Il est important (même si le concept de « #racisme_systémique », appliqué à nos sociétés contemporaines, est décrit comme une « fable » par certains auteurs, égarés par les passions idéologiques qu’ils dénoncent chez leurs adversaires) d’admettre l’idée que, même si les agents sont dépourvus de #préjugés_racistes, la discrimination fonctionne. En quelque sorte, on peut avoir du #racisme_sans_racistes, comme l’a montré Eduardo Bonilla-Silva dans son livre de 2003, Racism without Racists [Rowman & Littlefield Publishers, non traduit] . Cet auteur avait, en 1997, publié un article canonique sur le #racisme_institutionnel dans lequel il rejetait, en se réclamant du psychiatre et essayiste Frantz Fanon [1925-1961], les approches du racisme « comme une #bizarrerie_mentale, comme une #faille_psychologique » .

      Le reflet de pratiques structurelles

      En fait, les institutions peuvent être racialement oppressives, même sans qu’aucun individu ou aucun groupe ne puisse être tenu pour responsable du tort subi. Cette importante idée avait déjà été exprimée par William E. B. Du Bois dans Pénombre de l’aube. Essai d’autobiographie d’un concept de race (1940, traduit chez Vendémiaire, 2020), ouvrage dans lequel il décrivait le racisme comme un #ordre_structurel, intériorisé par les individus et ne dépendant pas seulement de la mauvaise volonté de quelques-uns. On a pu reprocher à ces analyses d’essentialiser les Blancs, de leur attribuer une sorte de #racisme_ontologique, alors qu’elles mettent au jour les #préjugés produits par l’ignorance ou le déni historique.

      On comprend, par conséquent, qu’il est essentiel de ne pas confondre, d’une part, l’expression des #émotions, de la #colère, du #ressentiment, et, d’autre part, les discriminations, par exemple à l’embauche ou au logement, lesquelles sont le reflet de #pratiques_structurelles concrètes. Le racisme est avant tout un rapport social, un #système_de_domination qui s’exerce sur des groupes racisés par le groupe racisant. Il doit être appréhendé du point de vue de ses effets sur l’ensemble de la société, et non seulement à travers ses expressions les plus violentes.

      #Alexis_de_Tocqueville avait parfaitement décrit cette réalité [dans De la démocratie en Amérique, 1835 et 1840] en évoquant la nécessaire destruction, une fois l’esclavage aboli, de trois préjugés, qu’il disait être « bien plus insaisissables et plus tenaces que lui : le préjugé du maître, le préjugé de race, et enfin le préjugé du Blanc . Et il ajoutait : « J’aperçois l’#esclavage qui recule ; le préjugé qu’il a fait naître est immobile. » Ce #préjugé_de_race était, écrivait-il encore, « plus fort dans les Etats qui ont aboli l’esclavage que dans ceux où il existe encore, et nulle part il ne se montre aussi intolérant que dans les Etats où la servitude a toujours été inconnue . Tocqueville serait-il un militant woke ?

      Note(s) :

      Alain Policar est sociologue au Centre de recherches politiques de Sciences Po (Cevipof). Dernier livre paru : « L’Universalisme en procès » (Le Bord de l’eau, 160p., 16 euros)

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/12/28/alain-policar-le-mot-woke-a-ete-transforme-en-instrument-d-occultation-des-d

      #WEB_Du_Bois

      signalé par @colporteur ici :
      https://seenthis.net/messages/941602

    • L’agitation de la chimère « wokisme » ou l’empêchement du débat

      Wokisme est un néologisme malin : employé comme nom, il suggère l’existence d’un mouvement homogène et cohérent, constitué autour d’une prétendue « idéologie woke ». Ou comment stigmatiser des courants politiques progressistes pour mieux détourner le regard des discriminations que ceux-ci dénoncent. D’un point de vue rhétorique, le terme produit une version totalement caricaturée d’un adversaire fantasmé.

      (#paywall)
      https://aoc.media/opinion/2021/11/25/lagitation-de-la-chimere-wokisme-ou-lempechement-du-debat

    • Europe’s War on Woke

      Why elites across the Atlantic are freaking out about the concept of structural racism.

      On my 32nd birthday, I agreed to appear on Répliques, a popular show on the France Culture radio channel hosted by the illustrious Alain Finkielkraut. Now 72 and a household name in France, Finkielkraut is a public intellectual of the variety that exists only on the Left Bank: a child of 1968 who now wears Loro Piana blazers and rails against “la cancel culture.” The other guest that day—January 9, less than 72 hours after the US Capitol insurrection—was Pascal Bruckner, 72, another well-known French writer who’d just published “The Almost Perfect Culprit: The Construction of the White Scapegoat,” his latest of many essays on this theme. Happy birthday to me.

      The topic of our discussion was the only one that interested the French elite in January 2021: not the raging pandemic but “the Franco-American divide,” the Huntington-esque clash of two apparently great civilizations and their respective social models—one “universalist,” one “communitarian”—on the question of race and identity politics. To Finkielkraut, Bruckner, and the establishment they still represent, American writers like me seek to impose a “woke” agenda on an otherwise harmonious, egalitarian society. Americans who argue for social justice are guilty of “cultural imperialism,” of ideological projection—even of bad faith.

      This has become a refrain not merely in France but across Europe. To be sure, the terms of this social-media-fueled debate are unmistakably American; “woke” and “cancel culture” could emerge from no other context. But in the United States, these terms have a particular valence that mostly has to do with the push for racial equality and against systemic racism. In Europe, what is labeled “woke” is often whatever social movement a particular country’s establishment fears the most. This turns out to be an ideal way of discrediting those movements: To call them “woke” is to call them American, and to call them American is to say they don’t apply to Europe.

      In France, “wokeism” came to the fore in response to a recent slew of terror attacks, most notably the gruesome beheading in October 2020 of the schoolteacher Samuel Paty. After years of similar Islamist attacks—notably the massacre at the offices of the newspaper Charlie Hebdo in January 2015 and the ISIS-inspired assaults on the Hypercacher kosher supermarket and the Bataclan concert hall in November 2015—the reaction in France reached a tipping point. Emmanuel Macron’s government had already launched a campaign against what it calls “Islamist separatism,” but Paty’s killing saw a conversation about understandable trauma degenerate into public hysteria. The government launched a full-scale culture war, fomenting its own American-style psychodrama while purporting to do the opposite. Soon its ministers began railing against “islamo-gauchisme” (Islamo-leftism) in universities, Muslim mothers in hijabs chaperoning school field trips, and halal meats in supermarkets.

      But most of all, they began railing against the ideas that, in their view, somehow augmented and abetted these divisions: American-inspired anti-racism and “wokeness.” Macron said it himself in a speech that was widely praised by the French establishment for its alleged nuance: “We have left the intellectual debate to others, to those outside of the Republic, by ideologizing it, sometimes yielding to other academic traditions…. I see certain social science theories entirely imported from the United States.” In October, the French government inaugurated a think tank, the Laboratoire de la République, designed to combat these “woke” theories, which, according to the think tank’s founder, Jean-Michel Blanquer, Macron’s education minister, “led to the rise of Donald Trump.”

      As the apparent emissaries of this pernicious “Anglo-Saxon” identitarian agenda, US journalists covering this moment in France have come under the spotlight, especially when we ask, for instance, what islamo-gauchisme actually means—if indeed it means anything at all. Macron himself has lashed out at foreign journalists, even sending a letter to the editor of the Financial Times rebutting what he saw as an error-ridden op-ed that took a stance he could not bear. “I will not allow anybody to claim that France, or its government, is fostering racism against Muslims,” he wrote. Hence my own invitation to appear on France Culture, a kind of voir dire before the entire nation.

      Finkielkraut began the segment with a tirade against The New York Times and then began discussing US “campus culture,” mentioning Yale’s Tim Barringer and an art history syllabus that no longer includes as many “dead white males.” Eventually I asked how, three days after January 6, we could discuss the United States without mentioning the violent insurrection that had just taken place at the seat of American democracy. Finkielkraut became agitated. “And for you also, [what about] the fact that in the American Congress, Emanuel Cleaver, representative of Missouri, presiding over a new inauguration ceremony, finished by saying the words ‘amen and a-women’?” he asked. “Ça vous dérangez pas?” I said it didn’t bother me in the least, and he got even more agitated. “I don’t understand what you say, James McAuley, because cancel culture exists! It exists!”

      The man knew what he was talking about: Three days after our conversation, Finkielkraut was dropped from a regular gig at France’s LCI television for defending his old pal Olivier Duhamel of Sciences Po, who was embroiled in a pedophilia scandal that had taken France by storm. Duhamel was accused by his stepdaughter, Camille Kouchener, of raping her twin brother when the two were in their early teens. Finkielkraut speculated that there may have been consent between the two parties, and, in any case, a 14-year-old was “not the same thing” as a child.

      I tell this story because it is a useful encapsulation of France’s—and Europe’s—war on woke, a conflict that has assumed various forms in different national contexts but that still grips the continent. On one level, there is a certain comedy to it: The self-professed classical liberal turns out to be an apologist for child molestation. In fact, the anti-woke comedy is now quite literally being written and directed by actual comedians who, on this one issue, seem incapable of anything but earnestness. John Cleese, 81, the face of Monty Python and a public supporter of Brexit, has announced that he will be directing a forthcoming documentary series on Britain’s Channel 4 titled Cancel Me, which will feature extensive interviews with people who have been “canceled”—although no one connected with the show has specified what exactly the word means.

      Indeed, the terms of this debate are an insult to collective intelligence. But if we must use them, we need to understand an important distinction between what is called “cancel culture” and what is called “woke.” The former has been around much longer and refers to tactics that are used across the political spectrum, but historically by those on the right. “Cancel culture” is not the result of an increased awareness of racial disparities or a greater commitment to social justice broadly conceived—both of which are more urgent than ever—but rather a terrible and inevitable consequence of life with the Internet. Hardly anyone can support “cancel culture” in good faith, and yet it is never sufficiently condemned, because people call out such tactics only when their political opponents use them, never when their allies do. “Woke,” on the other hand, does not necessarily imply public shaming; it merely signifies a shift in perspective and perhaps a change in behavior. Carelessly equating the two is a convenient way to brand social justice activism as inherently illiberal—and to silence long-overdue conversations about race and inequality that far too many otherwise reasonable people find personally threatening.

      But Europe is not America, and in Europe there have been far fewer incidents that could be construed as “cancellations”—again, I feel stupid even using the word—than in the United States. “Wokeism” is really a phenomenon of the Anglosphere, and with the exception of the United Kingdom, the social justice movement has gained far less traction in Europe than it has in US cultural institutions—newspapers, universities, museums, and foundations. In terms of race and identity, many European cultural institutions would have been seen as woefully behind the times by their US counterparts even before the so-called “great awokening.” Yet Europe has gone fully anti-woke, even without much wokeness to fight.

      So much of Europe’s anti-woke movement has focused on opposing and attempting to refute allegations of “institutional” or “structural” racism. Yet despite the 20th-century continental origins of structuralism (especially in France) as a mode of social analysis—not to mention the Francophone writers who have shaped the way American thinkers conceive of race—many European elites dismiss these critiques as unwelcome intrusions into the public discourse that project the preoccupations of a nation built on slavery (and thus understandably obsessed with race) onto societies that are vastly different. Europe, they insist, has a different history, one in which race—especially in the form of the simple binary opposition of Black and white—plays a less central role. There is, of course, some truth to this rejoinder: Different countries do indeed have different histories and different debates. But when Europeans accuse their American critics of projection, they do so not to point out the very real divergences in the US and European discussions and even conceptions of race and racism. Rather, the charge is typically meant to stifle the discussion altogether—even when that discussion is being led by European citizens describing their own lived experiences.

      France, where I reside, proudly sees itself as a “universalist” republic of equal citizens that officially recognizes no differences among them. Indeed, since 1978, it has been illegal to collect statistics on race, ethnicity, or religion—a policy that is largely a response to what happened during the Second World War, when authorities singled out Jewish citizens to be deported to Nazi concentration camps. The French view is that such categories should play no role in public life, that the only community that counts is the national community. To be anti-woke, then, is to be seen as a discerning thinker, one who can rise above crude, reductive identity categories.

      The reality of daily life in France is anything but universalist. The French state does indeed make racial distinctions among citizens, particularly in the realm of policing. The prevalence of police identity checks in France, which stem from a 1993 law intended to curb illegal immigration, is a perennial source of controversy. They disproportionately target Black and Arab men, which is one reason the killing of George Floyd resonated so strongly here. Last summer I spoke to Jacques Toubon, a former conservative politician who was then serving as the French government’s civil liberties ombudsman (he is now retired). Toubon was honest in his assessment: “Our thesis, our values, our rules—constitutional, etc.—they are universalist,” he said. “They do not recognize difference. But there is a tension between this and the reality.”

      One of the most jarring examples of this tension came in November 2020, when Sarah El Haïry, Macron’s youth minister, traveled to Poitiers to discuss the question of religion in society at a local high school. By and large, the students—many of whom were people of color—asked very thoughtful questions. One of them, Emilie, 16, said that she didn’t see the recognition of religious or ethnic differences as divisive. “Just because you are a Christian or a Muslim does not represent a threat to society,” she said. “For me, diversity is an opportunity.” These and similar remarks did not sit well with El Haïry, who nonetheless kept her cool until another student asked about police brutality. At that point, El Haïry got up from her chair and interrupted the student. “You have to love the police, because they are there to protect us on a daily basis,” she said. “They cannot be racist because they are republican!”

      For El Haïry, to question such assumptions would be to question something foundational and profound about the way France understands itself. The problem is that more and more French citizens are doing just that, especially young people like the students in Poitiers, and the government seems utterly incapable of responding.

      Although there is no official data to this effect—again, because of universalist ideology—France is estimated to be the most ethnically diverse society in Western Europe. It is home to large North African, West African, Southeast Asian, and Caribbean populations, and it has the largest Muslim and Jewish communities on the continent. By any objective measure, that makes France a multicultural society—but this reality apparently cannot be admitted or understood.

      Macron, who has done far more than any previous French president to recognize the lived experiences and historical traumas of various minority groups, seems to be aware of this blind spot, but he stops short of acknowledging it. Earlier this year, I attended a roundtable discussion with Macron and a small group of other Anglophone correspondents. One thing he said during that interview has stuck with me: “Universalism is not, in my eyes, a doctrine of assimilation—not at all. It is not the negation of differences…. I believe in plurality in universalism, but that is to say, whatever our differences, our citizenship makes us build a universal together.” This is simply the definition of a multicultural society, an outline of the Anglo-Saxon social model otherwise so despised in France.

      Europe’s reaction to the brutal killing of George Floyd in may 2020 was fascinating to observe. The initial shock at the terrifyingly mundane horrors of US life quickly gave way to protest movements that decried police brutality and the unaddressed legacy of Europe’s colonial past. This was when the question of structural racism entered the conversation. In Britain, Prime Minister Boris Johnson responded to the massive protests throughout the country by establishing the Commission on Race and Ethnic Disparities, an independent group charged with investigating the reality of discrimination and coming up with proposals for rectifying racial disparities in public institutions. The commission’s report, published in April 2021, heralded Britain as “a model for other White-majority countries” on racial issues and devoted three pages to the problems with the language of “structural racism.”

      One big problem with this language, the report implied, is that “structural racism” is a feeling, and feelings are not facts. “References to ‘systemic’, ‘institutional’ or ‘structural racism’ may relate to specific processes which can be identified, but they can also relate to the feeling described by many ethnic minorities of ‘not belonging,’” the report said. “There is certainly a class of actions, behaviours and incidents at the organisational level which cause ethnic minorities to lack a sense of belonging. This is often informally expressed as feeling ‘othered.’” But even that modest concession was immediately qualified. “However, as with hate incidents, this can have a highly subjective dimension for those tasked with investigating the claim.” Finally, the report concluded, the terms in question were inherently extreme. “Terms like ‘structural racism’ have roots in a critique of capitalism, which states that racism is inextricably linked to capitalism. So by that definition, until that system is abolished racism will flourish.”

      The effect of these language games is simply to limit the terms available to describe a phenomenon that indeed exists. Because structural racism is not some progressive shibboleth: It kills people, which need not be controversial or even political to admit. For one recent example in the UK, look no further than Covid-19 deaths. The nation’s Office for National Statistics concluded that Black citizens were more than four times as likely to die of Covid as white citizens, while British citizens of Bangladeshi and Pakistani heritage were more than three times as likely to die. These disparities were present even among health workers directly employed by the state: Of the National Health Service clinical staff who succumbed to the virus, a staggering 60 percent were “BAME”—Black, Asian, or minority ethnic, a term that the government’s report deemed “no longer helpful” and “demeaning.” Beyond Covid-19, reports show that Black British women are more than four times as likely to die in pregnancy or childbirth as their white counterparts; British women of an Asian ethnic background die at twice the rate of white women.

      In the countries of Europe as in the United States, the battle over “woke” ideas is also a battle over each nation’s history—how it is written, how it is taught, how it is understood.

      Perhaps nowhere is this more acutely felt than in Britain, where the inescapable legacy of empire has become the center of an increasingly acrimonious public debate. Of particular note has been the furor over how to think about Winston Churchill, who remains something of a national avatar. In September, the Winston Churchill Memorial Trust renamed itself the Churchill Fellowship, removed certain pictures of the former prime minister from its website, and seemed to distance itself from its namesake. “Many of his views on race are widely seen as unacceptable today, a view that we share,” the Churchill Fellowship declared. This followed the November 2020 decision by Britain’s beloved National Trust, which operates an extensive network of stately homes throughout the country, to demarcate about 100 properties with explicit ties to slavery and colonialism.

      These moves elicited the ire of many conservatives, including the prime minister. “We need to focus on addressing the present and not attempt to rewrite the past and get sucked into the never-ending debate about which well-known historical figures are sufficiently pure or politically correct to remain in public view,” Johnson’s spokesman said in response to the Churchill brouhaha. But for Hilary McGrady, the head of the National Trust, “the genie is out of the bottle in terms of people wanting to understand where wealth came from,” she told London’s Evening Standard. McGrady justified the trust’s decision by saying that as public sensibilities change, so too must institutions. “One thing that possibly has changed is there may be things people find offensive, and we have to be sensitive about that.”

      A fierce countermovement to these institutional changes has already emerged. In the words of David Abulafia, 71, an acclaimed historian of the Mediterranean at Cambridge University and one of the principal architects of this countermovement, “We can never surrender to the woke witch hunt against our island story.”

      This was the actual title of an op-ed by Abulafia that the Daily Mail published in early September, which attacked “today’s woke zealots” who “exploit history as an instrument of propaganda—and as a means of bullying the rest of us.” The piece also announced the History Reclaimed initiative, of which Abulafia is a cofounder: a new online platform run by a board of frustrated British historians who seek to “provide context, explanation and balance in a debate in which condemnation is too often preferred to understanding.” As a historian myself, I should say that I greatly admire Abulafia’s work, particularly its wide-ranging synthesis and its literary quality, neither of which is easy to achieve and both of which have been models for me in my own work. Which is why I was surprised to find a piece by him in the Daily Mail, a right-wing tabloid not exactly known for academic rigor. When I spoke with Abulafia about it, he seemed a little embarrassed. “It’s basically an interview that they turn into text and then send back to you,” he told me. “Some of the sentences have been generated by the Daily Mail.”

      As in the United States, the UK’s Black Lives Matter protests led to the toppling of statues, including the one in downtown Bristol of Edward Colston, a 17th-century merchant whose wealth derived in part from his active involvement in the slave trade. Abulafia told me he prefers a “retain and explain” approach, which means keeping such statues in place but adding context to them when necessary. I asked him about the public presentation of statues and whether by their very prominence they command an implicit honor and respect. He seemed unconvinced. “You look at statues and you’re not particularly aware of what they show,” he said.

      “What do you do about Simon de Montfort?” Abulafia continued. “He is commemorated at Parliament, and he did manage to rein in the power of monarchy. But he was also responsible for some horrific pogroms against the Jews. Everyone has a different perspective on these people. It seems to me that what we have to say is that human beings are complex; we often have contradictory ideas, mishmash that goes in any number of different directions. Churchill defeated the Nazis, but lower down the page one might mention that he held views on race that are not our own. Maintaining that sense of proportion is important.”

      All of these are reasonable points, but what I still don’t understand is why history as it was understood by a previous generation must be the history understood by future generations. Statues are not history; they are interpretations of history created at a certain moment in time. Historians rebuke previous interpretations of the past on the page all the time; we rewrite accounts of well-known events according to our own contemporary perspectives and biases. What is so sacred about a statue?

      I asked Abulafia why all of this felt so personal to him, because it doesn’t feel that way to me. He replied, “I think there’s an element of this: There is a feeling that younger scholars might be disadvantaged if they don’t support particular views of the past. I can think of examples of younger scholars who’ve been very careful on this issue, who are not really taking sides on that issue.” But I am exactly such a younger scholar, and no one has ever forced me to uphold a certain opinion, either at Harvard or at Oxford. For Abulafia, however, this is a terrifying moment. “One of the things that really worries me about this whole business is the lack of opportunities for debate.”

      Whatever one thinks of “woke” purity tests, it cannot be argued in good faith that the loudest European voices on the anti-woke side of the argument are really interested in “debate.” In France especially, the anti-woke moment has become particularly toxic because its culture warriors—on both the right and the left—have succeeded in associating “le wokeisme” with defenses of Islamist terrorism. Without question, France has faced the brunt of terrorist violence in Europe in recent years: Since 2015, more than 260 people have been killed in a series of attacks, shaking the confidence of all of us who live here. The worst year was 2015, flanked as it was by the Charlie Hebdo and Bataclan concert hall attacks. But something changed after Paty’s brutal murder in 2020. After a long, miserable year of Covid lockdowns, the French elite—politicians and press alike—began looking for something to blame. And so “wokeness” was denounced as an apology for terrorist violence; in the view of the French establishment, to emphasize identity politics was to sow the social fractures that led to Paty’s beheading. “Wokeness” became complicit in the crime, while freedom of expression was reserved for supporters of the French establishment.

      The irony is fairly clear: Those who purported to detest American psychodramas about race and social justice had to rely on—and, in fact, to import—the tools of an American culture war to battle what they felt threatened by in their own country. In the case of Paty’s murder and its aftermath, there was another glaring irony, this time about the values so allegedly dear to the anti-woke contingent. The middle school teacher, who was targeted by a Chechen asylum seeker because he had shown cartoons of the prophet Muhammad as part of a civics lesson about free speech, was immediately lionized as an avatar for the freedom of expression, which the French government quite rightly championed as a value it would always protect. “I will always defend in my country the freedom to speak, to write, to think, to draw,” Macron told Al Jazeera shortly after Paty’s killing. This would have been reassuring had it not been completely disingenuous: Shortly thereafter, Macron presided over a crackdown on “islamo-gauchisme” in French universities, a term his ministers used with an entirely straight face. If there is a single paradox that describes French cultural life in 2021, it is this: “Islamophobia” is a word one is supposed to avoid, but “Islamo-leftism” is a phenomenon one is expected to condemn.

      Hundreds of academics—including at the Centre National de la Recherche Scientifique, France’s most prestigious research body—attacked the government’s crusade against an undefined set of ideas that were somehow complicit in the Islamist terror attacks that had rocked the country. Newspapers like Le Monde came out against the targeting of “islamo-gauchisme,” and there were weeks of tedious newspaper polemics about whether the term harks back to the “Judeo-Bolshevism” of the 1930s (of course it does) or whether it describes a real phenomenon. In any case, the Macron government backtracked in the face of prolonged ridicule. But the trauma of the terror attacks and the emotional hysteria they unleashed will linger: France has also reconfigured its commitment to laïcité, the secularism that the French treat as an unknowable philosophical ideal but that is actually just the freedom to believe or not to believe as each citizen sees fit. Laïcité has become a weapon in the culture war, instrumentalized in the fight against an enemy that the French government assures its critics is radical Islamism but increasingly looks like ordinary Islam.

      The issue of the veil is infamously one of the most polarizing and violent in French public debate. The dominant French view is a function of universalist ideology, which holds that the veil is a symbol of religious oppression; it cannot be worn by choice. A law passed in 2004 prohibits the veil from being worn in high schools, and a separate 2010 law bans the face-covering niqab from being worn anywhere in public, on the grounds that “in free and democratic societies…o exchange between people, no social life is possible, in public space, without reciprocity of look and visibility: people meet and establish relationships with their faces uncovered.” (Needless to say, this republican value was more than slightly complicated by the imposition of a mask mandate during the 2020 pandemic.)

      In any case, when Muslim women wear the veil in public, which is their legal right and in no way a violation of laïcité, they come under attack. In 2019, for instance, then–Health Minister Agnès Buzyn—who is now being investigated for mismanaging the early days of the pandemic—decried the marketing of a runner’s hijab by the French sportswear brand Decathlon, because of the “communitarian” threat it apparently posed to universalism. “I would have preferred a French brand not to promote the veil,” Buzyn said. Likewise, Jean-Michel Blanquer, France’s education minister, conceded that although it was technically legal for mothers to wear head scarves, he wanted to avoid allowing them to chaperone school trips “as much as possible.”

      Nicolas Cadène, the former head of France’s national Observatory of Secularism—a laïcité watchdog, in other words—was constantly criticized by members of the French government for being too “soft” on Muslim communal organizations, with whose leaders he regularly met. Earlier this year, the observatory that Cadène ran was overhauled and replaced with a new commission that took a harder line. He remarked to me, “You have political elites and intellectuals who belong to a closed society—it’s very homogeneous—and who are not well-informed about the reality of society. These are people who in their daily lives are not in contact with those who come from diverse backgrounds. There is a lack of diversity in that elite. France is not the white man—there is a false vision [among] our elites about what France is—but they are afraid of this diversity. They see it as a threat to their reality.”

      As in the United States, there is a certain pathos in the European war on woke, especially in the battalion of crusaders who belong to Cleese and Finkielkraut’s generation. For them, “wokeism” —a term that has no clear meaning and that each would probably define differently—is a personal affront. They see the debate as being somehow about them. The British politician Enoch Powell famously said that all political lives end in failure. A corollary might be that all cultural careers end in irrelevance, a reality that so many of these characters refuse to accept, but that eventually comes for us all—if we are lucky. For many on both sides of the Atlantic, being aggressively anti-woke is a last-ditch attempt at mattering, which is the genuinely pathetic part. But it is difficult to feel pity for those in that camp, because their reflex is, inescapably, an outgrowth of entitlement: To resent new voices taking over is to believe that you always deserve a microphone. The truth is that no one does.

      https://www.thenation.com/article/world/woke-europe-structural-racism

  • #Salaire des #fonctionnaires : « On entre dans une logique de #contractualisation et de #liberté »

    Selon le spécialiste de la réforme de l’Etat #Luc_Rouban, la #conférence_sur_les_perspectives_salariales des fonctionnaires qui s’ouvre mardi pourrait acter la mise en place d’une nouvelle architecture de la fonction publique.

    Alors que la ministre de la transformation et de la fonction publiques, Amélie de Montchalin, ouvre, mardi 21 septembre, une conférence sur les #perspectives_salariales des fonctionnaires, le spécialiste de la réforme de l’Etat Luc Rouban, directeur de recherches au CNRS, chercheur au Centre d’études de la vie politique française de Sciences Po (Cevipof), montre que cela sous-tend une transformation profonde de la #fonction-publique.

    A six mois de la présidentielle, ouvrir une conférence de six mois sur la rémunération des fonctionnaires, est-ce un gadget politique ou le début d’un vrai travail de fond ?

    C’est le début d’un vrai travail de fond. S’il s’agissait d’un gadget politique, le calendrier serait particulièrement mal choisi. Des promesses faites aujourd’hui n’engagent à rien… Ce serait même plutôt un mauvais calcul politique.

    Là, il s’agit de régler un problème de fond. La disparition d’un certain nombre de #corps (celui des préfets, des inspections, etc.) amorce une réforme plus large de la fonction publique française. Celle-ci sort d’un #modèle_corporatif et se dirige vers un #modèle_d’emploi, comme dans la plupart des pays européens.

    C’est-à-dire ?

    L’existence de corps fait que le parcours des fonctionnaires est prévu à l’avance. Là, on fait sauter le #verrou_corporatif, et une nouvelle architecture de la fonction publique se met en place, avec une relation plus individualisée entre l’agent et l’employeur. Cela permet une plus grande #mobilité pour les fonctionnaires. Mais cela remet aussi en cause tout le système de #rémunération et de #progression. Il faut donc d’autres règles générales pour encadrer cette nouvelle situation, situation dans laquelle le jeu stratégique entre les #syndicats et le #gouvernement est brouillé.

    Car on sort également de l’habitude du grand rendez-vous salarial annuel tournant autour de la question de l’augmentation générale du #point_d’indice, avec une application corps par corps. On entre dans une logique de #contractualisation et de #liberté. Le poids de l’#avancement pèse sur le fonctionnaire à titre individuel beaucoup plus qu’avant : ce sera à lui de se préparer, de chercher des formations, de rédiger un bon CV, de solliciter un autre ministère ou un autre établissement public, d’accepter d’être mis en #concurrence avec d’autres agents ou des candidats venant du privé.

    On se rapproche de la logique du privé. C’est plus compliqué pour le fonctionnaire, mais les corps conduisent aussi à ce qu’après quelques années, on se retrouve bloqué dans son avancement. Vous arrivez à 45, 50 ans et vous n’avez plus beaucoup d’avenir. Il est souvent impossible d’accéder à l’#indice_salarial le plus élevé, et cela nourrit de la #frustration et du #mécontentement.

    Le système est donc bien à bout de souffle, comme le dit #Amélie_de_Montchalin ?

    Jusqu’à Nicolas Sarkozy, on faisait des augmentations générales, et on s’arrangeait avec les #primes. C’est une fausse #individualisation. Le système est bloqué et s’auto-reproduit : la #hiérarchie, des grands corps au sommet jusqu’aux fonctionnaires de catégorie C, est figée. Pourtant, la crise sanitaire a mis en lumière le caractère essentiel des #emplois_d’exécution. On commence donc à s’interroger sur la #hiérarchie_sociale et l’#utilité relative des uns et des autres dans la fonction publique.

    Dans la perspective de la présidentielle, tout cela représente-t-il un atout pour Emmanuel Macron afin de séduire les 5,6 millions de fonctionnaires, quand la socialiste Anne Hidalgo propose de doubler le salaire des enseignants ?

    Il peut se démarquer face à la proposition d’Anne Hidalgo, qui reste quantitative et très spécifique, en proposant une refonte qualitative concernant l’ensemble des fonctionnaires qui associe la question des #rémunérations à celle du déroulement des #carrières, des #qualifications et des #conditions_de_travail. Cela lui permet de faire du « en même temps » puisqu’il peut aussi se présenter comme quelqu’un de responsable qui cherche à préserver les équilibres budgétaires ou, du moins, à limiter les déséquilibres.

    En mécontentant donc l’électorat de droite, essentiel pour le candidat Macron, qui souhaite diminuer la dépense publique ?

    L’électorat de droite n’est pas totalement néolibéral… Même à droite, on défend le service public et l’Etat-providence. Le patronat a applaudi les mesures exceptionnelles qui ont protégé les entreprises et les salariés. Les Français ont conscience que le #service_public assure un minimum de #cohésion_sociale, ne serait-ce que par les forces de sécurité. Il existe une demande très forte de protection et d’intervention publique. La droite parlementaire fait une erreur stratégique en reprenant la logique néolibérale de 2017. Elle dit qu’il faut diminuer les dépenses, et donc, le nombre de fonctionnaires, mais sans proposer de réflexion sur l’architecture interne de la fonction publique et sur ses métiers. C’est donc un moyen pour Emmanuel Macron de se démarquer, ici aussi.

    https://www.lemonde.fr/politique/article/2021/09/20/salaire-des-fonctionnaires-on-entre-dans-une-logique-de-contractualisation-e
    #fonctionnariat #néo-libéralisme

  • AfD-nahe #Erasmus-Stiftung : Steuergeld für politische Unbildung
    https://taz.de/AfD-nahe-Erasmus-Stiftung/!5799973
    Comment faire pour empêcher l’extrême driote allemande de s’emparer de plusieurs millions de subventions.

    13.9.2021 von Gareth Joswig - Nach der Wahl könnte die Stiftung der AfD Millionen vom Staat erhalten. Das Personal in Vorstand und Kuratorium zeigt, wie antidemokratisch sie ist.
    Erika Steinbach spricht in ein Mikro vor einer AFD Wand

    Die Vorsitzende der Desiderius-Erasmus-Stiftung, Erika Steinbach Foto: Sven Simon/picture alliance

    BERLIN taz | Ihr Steuergeld könnte künftig der AfD gehören. Das ist die Kernaussage der Kampagne „Kein Geld für die AfD“. Sie fragt derzeit in den sozialen Medien die Spit­zen­kan­di­da­t*in­nen der Bundestagswahl, wie sie es finden, dass Steuergeld bald der AfD zukommt und was sie dagegen tun wollen. Geantwortet haben die jeweils mit dem Vornamen angesprochenen Olaf, Annalena und Armin bisher allerdings nicht.

    Klar spitzt die Kampagne etwas zu, aber im Kern stimmt es: Wenn die AfD nach der Wahl ein zweites Mal in den Bundestag einzieht, steht ihrer parteinahen Des­­iderius­-Erasmus-Stiftung nach bestehender Praxis eine staatliche Förderung zu – ebenso wie sie andere parteinahe Stiftungen wie die Friedrich-Ebert-Stiftung der SPD oder die Konrad-Adenauer-Stiftung der CDU in Anspruch nehmen.

    Die parteilose Vorsitzende der Erasmus-Stiftung, Erika Steinbach, rechnet im ersten Jahr nach der Wahl mit rund acht Millionen Euro Förderung, im zweiten Jahr gar mit 14 Millionen, wie sie der taz sagte. Die genauer Förderungshöhe ergebe sich aus dem Wahlergebnis der AfD. Zum Vergleich: Die der AfD zustehende Parteienförderung lag 2020 bei 11,8 Millionen Euro.

    Fließen soll das Geld in den Aufbau eines AfD-nahen Bildungswerks: Die Stiftung will Politikberatung für AfDle­r*in­nen organisieren, Stipendien vergeben und Auslandskontakte pflegen. Steinbach sagt, man habe bereits begonnen, in allen Teilen des Landes Personal für den Aufbau zu suchen.
    Steuergeld für einen Rechtsruck in der politischen Bildung

    Steinbach ist bemüht, einen handzahmen Eindruck zu vermitteln. „Die Themenpalette ist breit gestreut“, wie sie sagt, „uns geht es um Schulbildung, Hochschulbildung sowie um Demokratie, Rechtsstaatlichkeit und Meinungsfreiheit, aber auch eine Zukunft Deutschlands als Nation.“ Ab dem zweiten Jahr wolle man auch ein Stipendienprogramm aufsetzen, so Steinbach. Man wolle für eine „Erweiterung des Diskurses“ sorgen, weil die Meinungsfreiheit in Deutschland bedroht sei, wie sie behauptet.

    Die Stiftung könnte mit dem Staatsgeld Personal einstellen, rechte Karrieren ermöglichen und dabei helfen, extrem rechte Positionen gesellschaftsfähig zu machen und so die AfD weiter zu normalisieren. Steuergeld würde einen Rechtsruck in der politischen Bildung finanzieren, sagen Kritiker*innen. Geld, das der Stärkung demokratischer Parteien und politischer Bildung dienen soll, würde in antidemokratische Strukturen fließen – und dafür sorgen, dass rechtsextreme Inhalte in Hochglanzbroschüren mit intellektuellem Anstrich verpackt würden.

    Die Liste problematischer Personen in der Stiftung ist lang

    Davon jedenfalls ist ein breites Bündnis von mittlerweile über 80 Organisationen und Initiativen überzeugt, das in einem zivilgesellschaftlichen Manifest vor dem „Stiftungstrick der AfD“ warnt. Beteiligt sind der Zentralrat der Juden, der Deutsche Gewerkschaftsbund, Fridays for Future und viele mehr. Sie fordern ein Stiftungsgesetz für die Förderung parteinaher Bildungsinstitutionen – Geld soll es künftig demnach nur geben, wenn klar sei, dass die Einrichtung sich demokratischen Grundwerten verpflichtet fühlt. Steinbach sagt, sie habe nichts zu befürchten: Ihre Stiftung stünde mit beiden Beinen fest auf dem Grundgesetz.
    Hetze, Antisemitismus, Geschichtsrevisionismus

    Meron Mendel von der Bildungsstätte Anne Frank in Frankfurt am Main ist da anderer Meinung. Er ist Initiator des Protests und beschäftigt sich seit drei Jahren intensiv mit der Stiftung. Er sagt: „Diejenigen, die in der Erasmus-Stiftung sitzen, haben nachweislich keine Qualifikation, um politische Bildung zu machen.“ Inhaltlich erschöpften sich viele Äußerungen von Mitgliedern des Vorstands und des Kuratoriums in Hetze gegen Geflüchtete, Antisemitismus, Sex­ismus, Homophobie oder Geschichtsrevisionismus. „Es ist in der Verantwortung der neuen Koalition, eine gesetzliche Regelung zu treffen.“

    Kritik an mangelnder Transparenz bei der Finanzierung der parteinahen Stiftungen gibt es schon länger. Jährlich werden an diese rund eine halbe Milliarde Euro ausgeschüttet. „Das ist keine Parteienfinanzierung, sondern zweckgebundenes Geld für politische Bildung. Es kann nicht sein, dass Organisationen nicht nachweisen müssen, dass sie den Zweck erfüllen“, sagt Mendel.

    Dass die Steuergelder für die Erasmus-Stiftung tatsächlich demokratieförderlich wären, erscheint besonders fraglich, wenn man sich mit den Köpfen in Vorstand und Kuratorium auseinandersetzt. Die Liste problematischer Personen ist lang.

    Kurzer, unvollständiger Auszug: Marc Jongen, AfD-Bundestagsabgeordneter, sprach mit Blick auf Geflüchtete von einer „Migranteninvasion“. Vorstand Sebastian Wippel darf laut Landgericht Görlitz als Faschist bezeichnet werden und wünschte Angela Merkel den Tod durch Terror. Das Kuratoriumsmitglied Angelika Barbe beteiligte sich an „Querdenken“-Demos und Kuratoriumsmitglied Karl Albrecht Schachtschneider gehört dem inneren Kreis der extrem rechten Initiative „Ein Prozent“ an.
    Verbindungen zum Institut für Staatspolitik

    Auffällig sind zudem personelle Kontinuitäten zum geheimdienstlichen Beobachtungsobjekt Institut für Staatspolitik (IfS). Dessen Geschäftsführer Erik Lehnert war bis Mai 2020 auch Vorstand in der Erasmus-Stiftung. Er musste gehen, als der Verfassungsschutz den neurechten Thinktank als rechtsextremen Verdachtsfall einstufte. Inhaltliche Differenzen waren nicht der Grund für seinen Abgang. Das aktuelle Vorstandsmitglied Jan Moldenhauer ist als Referent und Autor auch im Umfeld des IfS zu verorten.

    Auch ein mittlerweile ausgetretenes Gründungsmitglied des IfS ist für die Erasmus-Stiftung eine wichtige Personalie: Karlheinz Weißmann dürfte im Kuratorium mitverantwortlich sein für die inhaltliche Ausrichtung. Steinbach sagt der taz, dass Weißmann „durch und durch Demokrat“ sei.

    Deutlich anders sieht das Armin Pfahl-Traughber, Ex­tremismusforscher und ehemaliger Referatsleiter für Rechtsextremismus beim Verfassungsschutz. In einem WDR-Feature sagte er: „Weißmann beruft sich auf Jungkonservative der Weimarer Republik. Das ist eine erklärte Strömung des antidemokratischen Denkens.“ Sie orientiere sich an „einer ethnischen Homogenität der Gesellschaft“, die gegen zentrale Prinzipien des Pluralismus verstießen, wozu auch Vielfalt und die Menschenrechte gehörten. „Wenn solche Grundprinzipien geistig abgelehnt werden, sprechen wir von Rechtsextremismus“, so Pfahl-Traughber.

    Trotz der Problempersonalien haben SPD und CDU in dieser Legislatur kein Stiftungsgesetz vorgelegt. Wie eine Ausgestaltung aussehen könnte und ob sie im neuen Bundestag konsensfähig wäre, wird sich nach der Wahl zeigen. Grüne und Linke fordern jedenfalls schon länger, dass die Erasmus-Stiftung keine Staatsmittel bekommen soll. Die Grünen haben am Freitag eine parlamentarische Anfrage eingereicht, die der taz vorliegt, und unter anderem nach Erkenntnissen der Bundesregierung zum Personal der AfD-Stiftung und ihrer rechtsextremen Verstrickungen fragt.
    Steinbach hetzte gegen Lübcke

    Fündig würde die Bundesregierung nicht zuletzt bei der Stiftungschefin Steinbach selbst, die häufig in sozialen Medien rassistische Ressentiments schürt, gegen Minderheiten hetzt oder geschichtsrevisio­nistische Positionen bezieht. Als das Kind eines AfD-Politikers von einer Waldorfschule abgelehnt wurde, twitterte sie: „Die Kinder von AfD-Mitgliedern sind die neuen ‚Judenkinder.‘“ Für Mendel ist das Holocaust­relativierung.

    Steinbach, die 2017 aus der CDU austrat, wurde zudem für den Mord am CDU-Politiker Walter Lübcke mitverantwortlich gemacht, nachdem sie Hass gegen Lübcke anstachelte. Steinbach weist die Verantwortung von sich und verurteile Extremismus jeglicher Art. Nur wie ein Lippenbekenntnis wirkt die Distanzierung allerdings, wenn man sich Steinbachs Konflikt mit Mendel vergegenwärtigt. Im Zuge ihrer teilweise auch rechtlichen Auseinandersetzung veröffentlichte sie 2019 Gerichtsunterlagen inklusive der Privatadresse von Mendel.

    „In dieser Zeitspanne habe ich sehr viele Drohbriefe und Einschüchterungsversuche bekommen. Ich stand im regelmäßigen Austausch mit der Polizei“, beschreibt Mendel die Folgen der Veröffentlichung. Steinbach sagt dazu, dass sie Mendel nicht persönlich habe schaden wollen. Zudem sei auch ihre eigene Adresse auf dem Schreiben gewesen. „Auch ich stand schon mehrfach unter Polizeischutz, die Antifa liebt mich heiß und inniglich“, sagt sie – als wäre das eine Entschuldigung für ihr Verhalten.

    Die Kampagne „Kein Geld für die AfD“ hat dazu aufgefordert, Po­li­ti­ke­r*in­nen anzuschreiben – damit diese sich gegen eine Förderung der Erasmus-Stiftung einsetzen. Einen Standardbrief hat die Kampagne bereits vorbereitet. Wer weiß – vielleicht überlegen sich Olaf, Armin und Annalena ja doch noch eine passende Antwort.

    Korrektur, 14.9.2021: In der ursprünglichen Version des Artikels haben wir Armin Pfahl-Traughber mit einem falschen Begriff zitiert. Er hatte im zitierten WDR-Feature „Pluralismus“ als Merkmal von moderner Demokratie und damit als Abgrenzungskriterium zum Extremismus benannt, nicht „Globalismus“, wie es zunächst in diesem Artikel hieß.

    #extrême_droite #modèle_d_affaires #Allemagne #politique

  • Dr Zoë Hyde sur Twitter : « Our calculations of expected outcomes are based on the original strain of #SARS-CoV-2, because we don’t yet know how much more severe the delta variant is. But if we use preliminary estimates of increased severity, we project many more hospitalisations and deaths than shown here. » / Twitter
    https://twitter.com/DrZoeHyde/status/1431277347672522753

    Les #modélisations prévoient des centaines de milliers de morts si les restrictions sont levées avant que la couverture vaccinale ne soit supérieure à 90%, enfants compris.

    Et il ne s’agit que de l’Australie.

    #covid-19

  • Sketchfab Community Blog - » Sketchfab is Joining the Epic Games Family
    https://sketchfab.com/blogs/community/sketchfab-is-joining-the-epic-games-family

    Sketchfab is Joining the Epic Games Family

    […]

    We will remain an independently branded service with the same mission and vision, while working closely with Epic Games. We started collaborating with Epic earlier this year through an Epic MegaGrant, and are excited to accelerate those efforts. We are also already integrated with various Epic Games products like RealityCapture and ArtStation. We will maintain and expand our integration efforts with all creation tools and 3D/VR/AR platforms, so you can easily upload to and import from Sketchfab everywhere.

    Lower fees for our Sellers
    As part of our shared goal to make Sketchfab’s offerings more profitable to creators, we are reducing Sketchfab’s store fees to 12%, effective immediately.

    Sketchfab Plus is now free
    We are also making all the Plus plan features free, which means more uploads and larger file size at no cost.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #développement #outil #outil_3d #outil_modélisation_3d #modélisation #epic_games #sketchfab #acquisition #3d #saas #software_as_a_service #logiciel

  • UK to block #visas for countries refusing to take back asylum seekers

    Bill would give home secretary power to take action against citizens of countries deemed not to be cooperating.

    The UK will block visas for visitors from countries the home secretary believes are refusing to cooperate in taking back rejected asylum seekers or offenders.

    In proposed legislation published on Tuesday, #Priti_Patel and future home secretaries would have the power to suspend or delay the processing of applications from countries that do no “cooperate with the UK government in relation to the removal from the United Kingdom of nationals of that country who require leave to enter or remain in the United Kingdom but do not have it”.

    The clause in the nationality and borders bill also allows for the home secretary to impose additional financial requirements for visa applications – that is, an increase in fees – if countries do not cooperate.

    The proposals mirror US legislation that allows officials to withdraw visa routes from countries that refuse to take back undocumented migrants. It is understood that countries such as Iraq, Iran, Eritrea and Sudan are reluctant to cooperate with the UK on such matters.

    The change is one of many in the bill, described as “the biggest overhaul of the UK’s asylum system in decades” by Patel, which includes measures such as:

    - Asylum seekers deemed to have arrived in the UK illegally will no longer have the same entitlements as those who arrive in the country via legal routes. Even if their claim is successful, they will be granted temporary refugee status and face the prospect of being indefinitely liable for removal.

    - Asylum seekers will be able to be removed from the UK while their asylum claim or appeal is pending, which opens the door to offshore asylum processing.

    - For those deemed to have arrived illegally, access to benefits and family reunion rights could be limited.

    – The appeals and judicial process will be changed to speed up the removal of those whose claims are refused.

    - The home secretary will be able to offer protection to vulnerable people in “immediate danger and at risk in their home country” in exceptional circumstances. It is thought this will be used to help a small number of people.

    – The system will be made “much harder for people to be granted refugee status based on unsubstantiated claims” and will include “rigorous age assessments” to stop adults pretending to be children. The government is considering the use of bone scanners to determine age.

    - Life sentences will be brought in as a maximum penalty for people-smugglers.

    - Foreign criminals who breach deportation orders and return to the UK could be jailed for up to five years instead of the current six months.

    – A new one-stop legal process is proposed so that asylum, human rights claims and any other protection matters are made and considered together before appeal hearings.

    Campaigners have dubbed the proposed legislation the “anti-refugee bill”, claiming it will penalise those who need help the most.

    Analysis of Home Office data by the Refugee Council suggests 9,000 people who would be accepted as refugees under current rules – those confirmed to have fled war or persecution following official checks – may no longer be given safety in the UK due to their means of arrival under the changes.

    The charity’s chief executive, Enver Solomon, said that for decades people had taken “extraordinary measures to flee oppression”, but had gone on to become “law-abiding citizens playing by the rules and paying their taxes as proud Britons”.

    Steve Valdez-Symonds, refugee and migrants rights programme director at Amnesty International UK, branded the bill “legislative vandalism”, claimed it could “fatally undermine the right to asylum” and accused Patel of a “shameful dereliction of duty”, adding: “This reckless and deeply unjust bill is set to bring shame on Britain’s international reputation.”

    Sonya Sceats, chief executive of Freedom from Torture, described the plans as “dripping with cruelty” and an “affront to the caring people in this country who want a kinder, fairer approach to refugees”.

    More than 250 organisations – including the Refugee Council, the British Red Cross, Freedom from Torture, Refugee Action and Asylum Matters – have joined to form the coalition Together with Refugees to call for a more effective, fair and humane approach to asylum in the UK.

    https://www.theguardian.com/politics/2021/jul/06/uk-to-block-visas-from-countries-refusing-to-take-back-undocumented-mig

    #asile #migrations #réfugiés #chantage #visas #UK #Angleterre

    La loi comprend aussi une disposition concernant l’#externalisation des #procédures_d'asile :
    https://seenthis.net/messages/918427

    Une des dispositions rappelle la loi de l’#excision_territoriale (#Australie) :

    Asylum seekers deemed to have arrived in the UK illegally will no longer have the same entitlements as those who arrive in the country via legal routes. Even if their claim is successful, they will be granted temporary refugee status and face the prospect of being indefinitely liable for removal.

    voir :
    https://seenthis.net/messages/901628#message901630
    https://seenthis.net/messages/416996
    #modèle_australien

    #offshore_asylum_processing
    #Irak #Iran #Erythrée #Sudan #réfugiés_irakiens #réfugiés_iraniens #réfugiés_soudanais #réfugiés_érythréens #réfugiés_soudanais #regroupement_familial #aide_sociale #procédure_d'asile #recours #mineurs #âge #tests_osseux #criminels_étrangers #rétention #détention_administrative #anti-refugee_bill

    ping @isskein @karine4

  • #Covid-19 : le Sénat commande une #étude pour « débattre de façon plus objective » de la stratégie à suivre | Public Senat
    https://www.publicsenat.fr/article/parlementaire/covid-19-le-senat-commande-une-etude-pour-debattre-de-facon-plus-objecti

    La mission d’information du Sénat sur les effets du confinement a commandé une étude de #modélisation sur l’évolution de l’épidémie. Son président, Bernard Jomier, interroge la stratégie du gouvernement de laisser circuler le virus. Il évoque deux autres pistes : « La stratégie d’élimination du virus, appelée zéro covid, ou celle de circulation minimale ».

  • The Death of Asylum and the Search for Alternatives

    March 2021 saw the announcement of the UK’s new post-Brexit asylum policy. This plan centres ‘criminal smuggling gangs’ who facilitate the cross border movement of people seeking asylum, particularly in this case, across the English Channel. It therefore distinguishes between two groups of people seeking asylum: those who travel themselves to places of potential sanctuary, and those who wait in a refugee camp near the place that they fled for the lottery ticket of UNHCR resettlement. Those who arrive ‘spontaneously’ will never be granted permanent leave to remain in the UK. Those in the privileged group of resettled refugees will gain indefinite leave to remain.

    Resettlement represents a tiny proportion of refugee reception globally. Of the 80 million displaced people globally at the end of 2019, 22,800 were resettled in 2020 and only 3,560 were resettled to the UK. Under the new plans, forms of resettlement are set to increase, which can only be welcomed. But of course, the expansion of resettlement will make no difference to people who are here, and arriving, every year. People who find themselves in a situation of persecution or displacement very rarely have knowledge of any particular national asylum system. Most learn the arbitrary details of access to work, welfare, and asylum itself upon arrival.

    In making smugglers the focus of asylum policy, the UK is inaugurating what Alison Mountz calls the death of asylum. There is of course little difference between people fleeing persecution who make the journey themselves to the UK, or those who wait in a camp with a small chance of resettlement. The two are often, in fact, connected, as men are more likely to go ahead in advance, making perilous journeys, in the hope that safe and legal options will then be opened up for vulnerable family members. And what makes these perilous journeys so dangerous? The lack of safe and legal routes.

    Britain, and other countries across Europe, North America and Australasia, have gone to huge efforts and massive expense in recent decades to close down access to the right to asylum. Examples of this include paying foreign powers to quarantine refugees outside of Europe, criminalising those who help refugees, and carrier sanctions. Carrier sanctions are fines for airlines or ferry companies if someone boards an aeroplane without appropriate travel documents. So you get the airlines to stop people boarding a plane to your country to claim asylum. In this way you don’t break international law, but you are certainly violating the spirit of it. If you’ve ever wondered why people pay 10 times the cost of a plane ticket to cross the Mediterranean or the Channel in a tiny boat, carrier sanctions are the reason.

    So government policy closes down safe and legal routes, forcing people to take more perilous journeys. These are not illegal journeys because under international law one cannot travel illegally if one is seeking asylum. Their only option becomes to pay smugglers for help in crossing borders. At this point criminalising smuggling becomes the focus of asylum policy. In this way, government policy creates the crisis which it then claims to solve. And this extends to people who are seeking asylum themselves.

    Arcane maritime laws have been deployed by the UK in order to criminalise irregular Channel crossers who breach sea defences, and therefore deny them sanctuary. Specifically, if one of the people aboard a given boat touches the tiller, oars, or steering device, they become liable to be arrested under anti-smuggling laws. In 2020, eight people were jailed on such grounds, facing sentences of up to two and a half years, as well as the subsequent threat of deportation. For these people, there are no safe and legal routes left.

    We know from extensive research on the subject, that poverty in a country does not lead to an increase in asylum applications elsewhere from that country. Things like wars, genocide and human rights abuses need to be present in order for nationals of a country to start seeking asylum abroad in any meaningful number. Why then, one might ask, is the UK so obsessed with preventing people who are fleeing wars, genocide and human rights abuses from gaining asylum here? On their own terms there is one central reason: their belief that most people seeking asylum today are not actually refugees, but economic migrants seeking to cheat the asylum system.

    This idea that people who seek asylum are largely ‘bogus’ began in the early 2000s. It came in response to a shift in the nationalities of people seeking asylum. During the Cold War there was little concern with the mix of motivations in relation to fleeing persecution or seeking a ‘better life’. But when people started to seek asylum from formerly colonised countries in the ‘Third World’ they began to be construed as ‘new asylum seekers’ and were assumed to be illegitimate. From David Blunkett’s time in the Home Office onwards, these ‘new asylum seekers’, primarily black and brown people fleeing countries in which refugee producing situations are occurring, asylum has been increasingly closed down.

    The UK government has tended to justify its highly restrictive asylum policies on the basis that it is open to abuse from bogus, cheating, young men. It then makes the lives of people who are awaiting a decision on their asylum application as difficult as possible on the basis that this will deter others. Forcing people who are here to live below the poverty line, then, is imagined to sever ‘pull factors’ for others who have not yet arrived. There is no evidence to support the idea that deterrence strategies work, they simply costs lives.

    Over the past two decades, as we have witnessed the slow death of asylum, it has become increasingly difficult to imagine alternatives. Organisations advocating for people seeking asylum have, with diminishing funds since 2010, tended to focus on challenging specific aspects of the system on legal grounds, such as how asylum support rates are calculated or whether indefinite detention is lawful.

    Scholars of migration studies, myself included, have written countless papers and books debunking the spurious claims made by the government to justify their policies, and criticising the underlying logics of the system. What we have failed to do is offer convincing alternatives. But with his new book, A Modern Migration Theory, Professor of Migration Studies Peo Hansen offers us an example of an alternative strategy. This is not a utopian proposal of open borders, this is the real experience of Sweden, a natural experiment with proven success.

    During 2015, large numbers of people were displaced as the Syrian civil war escalated. Most stayed within the region, with millions of people being hosted in Turkey, Jordan and Lebanon. A smaller proportion decided to travel onwards from these places to Europe. Because of the fortress like policies adopted by European countries, there were no safe and legal routes aboard aeroplanes or ferries. Horrified by the spontaneous arrival of people seeking sanctuary, most European countries refused to take part in burden sharing and so it fell to Germany and Sweden, the only countries that opened their doors in any meaningful way, to host the new arrivals.

    Hansen documents what happened next in Sweden. First, the Swedish state ended austerity in an emergency response to the challenge of hosting so many refugees. As part of this, and as a country that produces its own currency, the Swedish state distributed funds across the local authorities of the country to help them in receiving the refugees. And third, this money was spent not just on refugees, but on the infrastructure needed to support an increased population in a given area – on schools, hospitals, and housing. This is in the context of Sweden also having a welfare system which is extremely generous compared to Britain’s stripped back welfare regime.

    As in Britain, the Swedish government had up to this point spent some years fetishizing the ‘budget deficit’ and there was an assumption that spending so much money would worsen the fiscal position – that it would lead both to inflation, and a massive national deficit which must later be repaid. That this spending on refugees would cause deficits and hence necessitate borrowing, tax hikes and budget cuts was presented by politicians and the media in Sweden as a foregone conclusion. This foregone conclusion was then used as part of a narrative about refugees’ negative impact on the economy and welfare, and as the basis for closing Sweden’s doors to people seeking asylum in the future.

    And yet, the budget deficit never materialised: ‘Just as the finance minister had buried any hope of surpluses in the near future and repeated the mantra of the need to borrow to “finance” the refugees, a veritable tidal wave of tax revenue had already started to engulf Sweden’ (p.152). The economy grew and tax revenue surged in 2016 and 2017, so much that successive surpluses were created. In 2016 public consumption increased 3.6%, a figure not seen since the 1970s. Growth rates were 4% in 2016 and 2017. Refugees were filling labour shortages in understaffed sectors such as social care, where Sweden’s ageing population is in need of demographic renewal.

    Refugees disproportionately ended up in smaller, poorer, depopulating, rural municipalities who also received a disproportionately large cash injections from the central government. The arrival of refugees thus addressed the triple challenges of depopulation and population ageing; a continuous loss of local tax revenues, which forced cuts in services; and severe staff shortages and recruitment problems (e.g. in the care sector). Rather than responding with hostility, then, municipalities rightly saw the refugee influx as potentially solving these spiralling challenges.

    For two decades now we have been witnessing the slow death of asylum in the UK. Basing policy on prejudice rather than evidence, suspicion rather than generosity, burden rather than opportunity. Every change in the asylum system heralds new and innovative ways of circumventing human rights, detaining, deporting, impoverishing, and excluding. And none of this is cheap – it is not done for the economic benefit of the British population. It costs £15,000 to forcibly deport someone, it costs £95 per day to detain them, with £90 million spent each year on immigration detention. Vast sums of money are given to private companies every year to help in the work of denying people who are seeking sanctuary access to their right to asylum.

    The Swedish case offers a window into what happens when a different approach is taken. The benefit is not simply to refugees, but to the population as a whole. With an economy to rebuild after Covid and huge holes in the health and social care workforce, could we imagine an alternative in which Sweden offered inspiration to do things differently?

    https://discoversociety.org/2021/04/07/the-death-of-asylum-and-the-search-for-alternatives

    #asile #alternatives #migrations #alternative #réfugiés #catégorisation #tri #réinstallation #death_of_asylum #mort_de_l'asile #voies_légales #droit_d'asile #externalisation #passeurs #criminalisation_des_passeurs #UK #Angleterre #colonialisme #colonisation #pull-factors #pull_factors #push-pull_factors #facteurs_pull #dissuasion #Suède #déficit #économie #welfare_state #investissement #travail #impôts #Etat_providence #modèle_suédois

    ping @isskein @karine4

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    ajouté au fil de discussion sur le lien entre économie et réfugiés/migrations :
    https://seenthis.net/messages/705790

    • A Modern Migration Theory. An Alternative Economic Approach to Failed EU Policy

      The widely accepted narrative that refugees admitted to the European Union constitute a fiscal burden is based on a seemingly neutral accounting exercise, in which migrants contribute less in tax than they receive in welfare assistance. A “fact” that justifies increasingly restrictive asylum policies. In this book Peo Hansen shows that this consensual cost-perspective on migration is built on a flawed economic conception of the orthodox “sound finance” doctrine prevalent in migration research and policy. By shifting perspective to examine migration through the macroeconomic lens offered by modern monetary theory, Hansen is able to demonstrate sound finance’s detrimental impact on migration policy and research, including its role in stoking the toxic debate on migration in the EU. Most importantly, Hansen’s undertaking offers the tools with which both migration research and migration policy could be modernized and put on a realistic footing.

      In addition to a searing analysis of EU migration policy and politics, Hansen also investigates the case of Sweden, the country that has received the most refugees in the EU in proportion to population. Hansen demonstrates how Sweden’s increased refugee spending in 2015–17 proved to be fiscally risk-free and how the injection of funds to cash-strapped and depopulating municipalities, which received refugees, boosted economic growth and investment in welfare. Spending on refugees became a way of rediscovering the viability of welfare for all. Given that the Swedish approach to the 2015 refugee crisis has since been discarded and deemed fiscally unsustainable, Hansen’s aim is to reveal its positive effects and its applicability as a model for the EU as a whole.

      https://cup.columbia.edu/book/a-modern-migration-theory/9781788210553
      #livre #Peo_Hansen

  • La sociologue et l’ourson

    De septembre 2012 à mai 2013 la #France s’enflamme autour du projet de loi sur le mariage pour tous. Tout le pays en parle. Quoi ? Juste pour quelques unions ? Non, non, non, le débat s’avère complexe et ouvre de nombreuses questions. Durant ces neuf mois Etienne Chaillou et Mathias Théry ont enregistré les conversations téléphoniques entre la sociologue de la #famille #Irène_Théry et son fils Mathias. De ces enregistrements ils ont fait leur cinéma : un cinéma d’ours en peluches, de jouets, de bouts de cartons... et d’humains. Portrait intime et feuilleton national, ce film nous fait redécouvrir ce que nous pensions tous connaître parfaitement : la Famille.

    https://lcp.fr/programmes/la-sociologue-et-l-ourson-60971

    #famille #mariage_pour_tous #mariage #homosexualité #homoparentalité #manif_pour_tous #code_civil #lien_de_couple #insémination_artificielle #PMA #fécondation_in_vitro #gestation_pour_autrui #adoption #modèles_familiaux #modèle_familial #mystère_de_paternité #présomption_de_paternité #lien_de_sang
    #documentaire #film #film_documentaire (en partie #film_d'animation)