• Tous les récits du monde
    https://laviedesidees.fr/Tous-les-recits-du-monde

    La remise en cause de l’européocentrisme a changé les manières de faire l’histoire : c’est aux connexions entre les récits qu’il faut désormais prêter attention, dans une vision élargie et devenue globale. À propos de : Sebastian Conrad, Qu’est-ce que l’histoire globale ?, Nouveau Monde éditions

    #Histoire #mondialisation #nation #historiographie
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231116_globalhistoire.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231116_globalhistoire.docx

  • La « modernisation autoritaire » de la #Russie par l’urbain : quelles leçons tirer du Nouveau #Moscou ?
    https://metropolitiques.eu/La-modernisation-autoritaire-de-la-Russie-par-l-urbain-quelles-lecon

    Le récent projet d’aménagement du Nouveau Moscou éclaire-t-il les enjeux politiques, économiques et démographiques de la Russie contemporaine ? Vladimir Pawlotsky questionne la « modernisation autoritaire » à l’origine de la multiplication par 2,5 de la surface de la capitale. Loin des diatribes va-t-en-guerre qu’il multiplie depuis 2022 et l’invasion de l’Ukraine par la Russie, Dmitri Medvedev a été lors de sa présidence (2008-2012) le promoteur de la modernisation de son pays et a nourri l’espoir d’un #Terrains

    / Moscou, Russie, #métropole, #régime_autoritaire, #mondialisation, #Grands_projets_urbains

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_pawlotsky.pdf

    • à peine inquiétant. On sera tous mort quand la catastrophe touchera de plein fouet nos régions . Sur la carte je vois que ma mer préférée est toujours aussi froide que pendant les vacances d’été de mon enfance ;-)

      And this is all happening in the midst of the current political and social chaos, while the world attempts to recover from a pandemic that is still ongoing but mostly ignored by global media.

      These next two years are a preamble to what it will mean for the world to pass the Paris 1.5°C barrier. The end of global industrial civilization is where we are headed right now, not at some future dystopian moment. I wish I had a hopeful word to end with. But I don’t.

      ← ChatGPT goes Full Doomer

      Eliot Jacobson, Ph.D. Retired professor of mathematics and computer science, retired casino consultant, now a full time volunteer, husband and grandfather. Know-it-all doomer. Born in the year 316 ppm CO2.

      Robert Stewart - June 13, 2023 at 6:06 am
      https://climatecasino.net/2023/06/wtf-is-happening-an-overview/#comment-2812

      They are not ignoring it, they have seen it on the charts, paid themselves unusually large remuneration packages and armed the warmongers, in case we get any funny ideas about sharing any of their wisely built bomb shelters and stores and seed banks.

      Not one of these trends is a surprise for hundreds of years we have worshiped King oil and accepted the bribes for one more pipeline or one more oil field. They have held back disruptive technologies like hydrogen fuel cells and hydrogen engines and hydrogen as a lighter than air lifting substance. Any creative human thought was attacked to defend jobs and our greedy selfish culture. Its so bloody obvious and yet each politician honours the contracts and makes new ones as the lobby money is just too good to make any hasty decisions. Each politician kicking what they understand to be explosive tragedy into the next generation.

      Earth humanity, too stupid to learn how to live – what an epitaph..

      Thank you for paying attention – I have been pointing out the large number of criminals running things and this idiotic belief in the bible pushing folk to act irresponsibly. These climate issues are serious enough without leaps of fantasy. New leaders with the freedom to take reasonable corrective action – we can actually make ice and while there is a question of scale, I think we built the pyramids as they are there and being organised and focused on reality is such a simple lesson. I expect we can pay a few million folk to grow food on marginal land each seed produces such abundance. I actually wonder at how stupid our leaders have became. They ignore things for money, it is called turning a blind eye.

      Toujours un peu naïf ce gars. Qui dit climat doit aussi parler du capitalisme. Il semble que les chinois se préparent toujours pour un meilleur avenir ;-)
      Alors ...

      #rechauffement_climatique #mondialisation #WFT

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
    #avocat #agriculture #Mexique #globalisation #mondialisation #cartographie #visualisation #Michoacán #déforestation #produits_phytosanitaires #fertilisants #pesticides #plantation #fruits #Misison_Produce #Calvaro_Growers #multinationales #financiarisation #bourse #hedge_funds #private_equity #Criterion_Africa #industrie_agro-alimentaire #eau #Pérou #Huancabamba #Olmos #exploitation #insecticides

    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

      –—

      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • Die Politik der Rackets - Zur Praxis der herrschenden Klassen
    https://www.dampfboot-verlag.de/shop/artikel/die-politik-der-rackets

    Kai Lindemann, ISBN : 978-3-89691-067-7, 155 Seiten, Preis : 16,00 € Erschienen : 2021

    Daniel Bratanovic, Wir sind hier nicht in Chicago, Max
    https://www.ca-ira.net/verlag/rezensionen/daniel-bratanovic-wir-sind-hier-nicht-in-chicago-max

    Bandenherrschaft. Über Brauchbarkeit und Grenzen der Fragment gebliebenen Racket-Theorie Horkheimers

    Die Rackets und die Souveränität
    https://antideutsch.org/2018/10/19/die-rackets-und-die-souveraenitaet/?amp=1

    2018, Vortrag und Diskussion mit Thorsten Fuchshuber und Gerhard Scheit an der Universität Göttingen

    Verwaltete Welt
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Verwaltete_Welt

    von Theodor W. Adorno 1950 geprägter Begriff der Kritischen Theorie, das die Gesellschaft nach dem Zweiten Weltkrieg beschreibt

    Der Begriff verwaltete Welt wird auf Theodor W. Adorno zurückgeführt. Er benutzte ihn unter anderem im Untertitel Musik in der verwalteten Welt seines Werks Dissonanzen (Erstausgabe 1956).[1][2] Adorno gebrauchte den Begriff als eine synonyme Bezeichnung für die spätkapitalistische, genauer: nachliberale und nachfaschistische Gesellschaft, in der die „Allherrschaft des Tauschprinzips“ von der „Allherrschaft des Organisationsprinzips“ überlagert werde.[3] Karl Korn hat ihn dann wenige Jahre später für den Buchtitel seiner kritischen Sprachanalysen – Sprache in der verwalteten Welt (Erstausgabe 1959) – aufgegriffen.

    Grundform der Herrschaft
    https://www.nd-aktuell.de/artikel/1169915.kritische-theorie-der-rackets-grundform-der-herrschaft.html

    In kriselnden Staaten tritt die Gewalt hervor, aus der diese entstanden sind. »Rackets« machen daraus ein Geschäftsmodell, erklärt Thorsten Fuchshuber

    Interview: Peter Nowak 06.01.2023

    Überall Rackets
    https://taz.de/Ueberall-Rackets/!5628167

    5.10.2019 - Max Horkheimer wollte mit dem Racket-Begriff einst Herrschaft analysieren. Thorsten Fuchshuber versucht den Ansatz zu systematisieren

    Thorsten Fuchshuber: „Rackets. Kritische Theorie der Bandenherrschaft“, Ca Ira Verlag, Freiburg 2019, 674 Seiten, 29 Euro

    Von Jakob Hayner

    Racket (Herrschaftskritik), Begriff der Kritischen Theorie
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Racket_(Herrschaftskritik)

    Geld regiert die Welt
    https://www.ipg-journal.de/rubriken/demokratie-und-gesellschaft/artikel/geld-regiert-die-welt-5664

    20.01.2022 | Kai Lindemann
    Skandale wie der Cum-Ex-Betrug sind keine Einzelfälle. Hinter ihnen verbirgt sich eine strukturelle Bedrohung durch privilegierte Beutegemeinschaften.

    #impérialisme #criminalité #racket #Horkheimer #Adorno #Uber #internet #Taxi #mondialisation

  • La Compil’ de la Semaine
    https://www.les-crises.fr/la-compil-de-la-semaine-87

    Chaque semaine, nous vous proposons notre Compil’ de la Semaine : une sélection de dessins de presse à la fois drôles et incisifs, ainsi que des vidéos d’analyse participant à l’indispensable travail d’auto-défense intellectuelle. Bonne lecture et bon visionnage à toutes et à tous ! Dessins de Presse Vidéos Arnaud Montebourg : les raisons de […]

    #Miscellanées #Compil_de_la_Semaine #Miscellanées,_Compil_de_la_Semaine

  • La « mondialisation » de l’économie
    https://www.lutte-ouvriere.org/documents/archives/cercle-leon-trotsky/article/la-mondialisation-de-l-economie
    #conférenceLO du 14 mars 1997

    Sommaire :

    De la guerre à la crise (1945-1975)
    – La remise en route de l’économie...
    – ...sous l’égide des États-Unis
    – Le mythe des « Trente glorieuses »
    – Les origines du marché commun
    – La crise monétaire, une des formes de la crise du système capitaliste

    Crise économique internationale et « mondialisation »
    – Le commerce international est-il plus « mondialisé » ?
    – Les entraves au développement du commerce international
    – Le cas des impérialismes européens
    – Les problèmes monétaires de l’#Union européenne
    – L’Union européenne : une construction fragile basée sur des rapports de force
    – Le #commerce_international : réglementé et inégal

    L’hypertrophie des marchés financiers
    – L’endettement des États à l’origine de la croissance des marchés financiers
    – Qu’est-ce que le #PIB ?
    – Les États déréglementent les marchés financiers
    – La #spéculation sur les emprunts d’État
    – La spéculation sur les actions
    – La spéculation sur les « produits dérivés »
    – La spéculation monétaire
    – Les profits spéculatifs détournent les capitaux de la production
    – Un marché monétaire international mais instable

    Concurrence étrangère, délocalisations : ne pas se tromper d’ennemi
    – Les #délocalisations sont-elles responsables du chômage ?
    – Bas salaires et investissements
    – Les capitaux se concentrent dans les pays riches
    – La croissance des #multinationales
    – Les #capitaux ne développent pas la planète, ils la pillent

    La « mondialisation » de la misère
    – Les inégalités s’accroissent
    – La #pauvreté se répand même dans les pays riches
    #Capitalisme et mondialisation
    – La base internationale du développement capitaliste
    – Le capitalisme a transformé le monde

    L’impérialisme, « stade suprême du #capitalisme » depuis un siècle
    – La dictature du capitalisme financier
    – Le monde entier partagé
    – L’#impérialisme n’a pas supprimé les contradictions du système, bien au contraire
    – Une première guerre mondiale pour le repartage du monde
    – Les bases objectives de la corruption du #mouvement_ouvrier...
    – ... et le pourrissement de toute la société

    L’impérialisme, un danger mortel pour l’humanité
    – La #crise_de_1929
    – Le #fascisme et la #guerre
    – La responsabilité des dirigeants socialistes et staliniens
    – L’humanité a payé cher le maintien du capitalisme au XXe siècle...
    – ... et paiera plus cher encore au XXIe siècle s’il se perpétue

    Nationalisme contre #mondialisation : un piège mortel pour les travailleurs
    – Le « #social-chauvinisme » du #PCF

    La mondialisation au service de l’humanité, c’est la société communiste
    – Mettre fin au capitalisme...
    – ... en mettant l’économie au service de tous
    – Seul le prolétariat en est capable

    #stalinisme #social-démocratie #réformisme #communisme_révolutionnaire

  • Face aux ravages de la mondialisation capitaliste, l’impasse du souverainisme. Deux textes :

    La « #démondialisation » et le protectionnisme, entre #démagogie cocardière et ineptie économique | #archiveLO (10  janvier 2012)

    https://mensuel.lutte-ouvriere.org/documents/archives/la-revue-lutte-de-classe/serie-actuelle-1993/article/la-demondialisation-et-le

    – La #mondialisation, un phénomène ancien et irréversible
    #Protectionnisme et surenchère patriotarde
    – Le #mouvement_ouvrier contre le protectionnisme

    Face aux ravages de la mondialisation capitaliste, l’impasse du souverainisme | #archiveLO (2 juin 2016)

    https://www.lutte-ouvriere.org/publications/brochures/face-aux-ravages-de-la-mondialisation-capitaliste-limpasse-du-souver

    – La mondialisation consubstantielle au capitalisme
    – Une mondialisation précoce
    – Une #exploitation mondialisée
    – La formation du #prolétariat international
    – Des États nationaux au service de la bourgeoisie
    – L’impérialisme, un stade « suprême » en décomposition…
    – D’une #guerre mondiale à l’autre
    – L’intervention des États au service de la bourgeoisie
    – La dérégulation financière, conséquence de la crise
    – Les multinationales et le #libre-échange généralisé
    – Les États, instruments privilégiés de leurs firmes
    – Le #Tafta et autres accords de libre échange
    – Les #délocalisations… et leurs limites
    – La mondialisation de l’exploitation
    – Une socialisation toujours plus grande de la production
    – L’impasse des idées souverainistes et protectionnistes
    – L’#Union_européenne, bouc-émissaire de tous les souverainistes
    – Renouer avec les perspectives communistes et l’#internationalisme_prolétarien

    #marxisme #nationalisme #obscurantisme #souverainisme #PCF #stalinisme #LFI #Mélenchon #internationalisme #communisme

    • Vous dites n’importe quoi, et avec un aplomb malfaisant qui sidère.

      LO est une organisation ouvrière. Sur ses 9000 membres militants, un petit pourcentage de travailleurs de l’éducation nationale et une énorme majorité de travailleurs d’industrie, d’administration, des hôpitaux, des transports publics, etc.

      Amusez-vous (si vous pouvez dédier un moment à l’honnêteté intellectuelle) à éplucher nos listes électorales aux législatives, aux régionales et aux municipales.

      Tout ceci, naturellement, n’ayant aucun rapport avec l’objet du post d’origine…

    • Je ne dis pas n’importe quoi.

      Lors de ta prochaine réunion en comité restreint étant donné votre audience, tu pourras te vanter de m’avoir mis en cause.

      Pour ton information, je suis l’immonde nationiste qui :
      – A interviewé la caissière d’auchan Tourcoing qui avait fait une fausse couche sur son lieu de travail, suite aux ordres de son management.
      – A diffusé cet interview à toute la presse, ce qui lui a pris la journée de la veille de noël, ainsi que sa soirée de cette journée.
      Ce fait divers a ainsi pu avoir une audience nationale pour ne pas dire plus.
      Tout cela en étant salarié chez les mulliez avec le risque de valser à la porte, mais ce que ces milliardaires avaient fait dépassait l’acceptable.
      Ca leur a couté des millions d’euros en contre publicité.

      C’est pas tous les jours que des blogueurs attitrés sur seenthis, puisque tes publications ont le rare privilège d’être en page d’accueil, peuvent se vanter de truc pareils.
      Tu comprendras donc que tu ne m’impressionnes aucunement.

      Au fait, pour ce qui est de la mondialisation, les idées que tu prônes ressemblent étrangement à celles de Monsieur Gérard Mulliez mon ancien patron et de sa famille, une des plus riche de France grâce à la mondialisation.

      Point à aborder aussi lors de ta prochaine réunion en comité restreint.

      Un peu de lecture afin d’élargir ton horizon : https://www.solidaire.org

      Eux, c’est des vrais !

      Le malfaisant, c’est toi @recriweb .
      J’avais oublié de préciser. Ceci n’est pas une insulte, mais une réponse

    • « Les idées que tu prônes ressemblent étrangement à celles de Monsieur Gérard Mulliez. » Oui, car comme chacun sait, Gérard Mulliez est communiste révolutionnaire (marxiste, léniniste et trotskiste) et a dédié sa vie à la révolution mondiale qui abattra le capitalisme…

      Quant au PTB, nourri au maoïsme et au stalinisme, c’est aujourd’hui un « vrai » parti de gouvernement. Je comprends mieux vos aspirations nationalistes…

      Merci pour votre réponse, qui est très éloquente.

  • #Container Séisme en Turquie : le port d’Iskenderun contraint de fermer Le Marin
    https://lemarin.ouest-france.fr/secteurs-activites/shipping/seisme-en-turquie-quais-effondres-au-port-diskenderun-contraint

    La direction générale des affaires maritimes de Turquie a indiqué que des quais s’étaient effondrés dans le port d’Iskenderun après le séisme de magnitude 7,8 qui a touché le pays et la Syrie dans la nuit du 5 au 6 février. Un séisme suivi de dizaines de répliques, dont une de magnitude 7,5.

    Au fond du golfe d’Alexandrette (son ancien nom), Iskenderun, sur la Méditerranée, se situe à une centaine de kilomètres de l’épicentre du tremblement de terre, dont le bilan s’élevait déjà à plus de 2 300 morts en début de soirée. Plusieurs images du port ont circulé dans la matinée sur les réseaux sociaux, sur Twitter notamment, montrant pour certaines une grosse faille dans l’asphalte, pour d’autres des conteneurs écroulés. Le groupe turc Limak, qui gère le terminal à conteneurs - l’un des plus importants de Méditerranée orientale avec une capacité supérieure à un million de conteneurs EVP - a annoncé sa fermeture. Les armateurs, Maersk comme Hapag-Lloyd, ont commencé à proposer des solutions alternatives sur Mersin et Port-Saïd.

    Vers 11 h 30 (13 h 30 heure locale), une réplique a provoqué une nouvelle chute de conteneurs, celle-ci entraînant un incendie, ensuite maîtrisé par les pompiers.

    Les autres ports de la région n’auraient pas subi de dommages, ont précisé les affaires maritimes. La compagnie pétrolière et gazière d’État Botas a de son côté indiqué ne pas avoir constaté de dommages sur ses pipelines, rapportent nos confrères de Tradewinds. Le terminal pétrolier de Ceyhan, d’où sort le brut de la Caspienne et d’Irak, a néanmoins été en partie paralysé par une perte de son alimentation électrique.

    #transport #transport_maritime #mondialisation #séisme #Turquie #photographie

  • #Canada : Un contrat fédéral pour McKinsey jusqu’en 2100 Radio Canada

    Un contrat en informatique du gouvernement fédéral a été octroyé en 2019 à la compagnie McKinsey pour une durée de 81 ans, soit jusqu’en 2100, a-t-on appris lundi lors d’une audience d’un comité parlementaire qui amorce son enquête sur des contrats d’une valeur de plus de 100 millions de dollars accordés par Ottawa à cette firme de consultants.


    À la question de la députée bloquiste Julie Vignola qui se demandait “ce qui justifie un contrat ouvert pendant les 81 prochaines années”, Amanda Clarke, professeure associée à l’École de politiques publiques et d’administration de l’Université Carleton, a répondu que l’idée d’un pareil contrat lui semblait “scandaleuse”.

    Mme Clarke pense que le recours à des sociétés de conseil en gestion au sein de la fonction publique “trahit” les principes d’une administration publique responsable.

    “Mes recherches suggèrent que la fonction publique fédérale enfreint de plusieurs façons les meilleures pratiques acceptables en matière d’administration publique responsable lorsqu’elle passe des contrats avec de grandes sociétés de conseil en gestion”, a-t-elle indiqué.

    Mme Clarke convient que des questions légitimes se posent quant aux pratiques de McKinsey en matière d’éthique, mais, à ses yeux, il s’agit là d’une question distincte de celle de l’externalisation du travail de la fonction publique.

    Fonction publique fragilisée
    Pour cette experte, le recours fréquent d’Ottawa à des firmes de consultants telles que McKinsey est “inévitable” étant donné le sous-financement en matière de rétention de spécialistes au sein de la fonction publique fédérale.

    “Dépenser beaucoup d’argent pour obtenir les services de consultants en gestion [...] n’est pas accidentel. C’est une dynamique inévitable au sein d’une fonction publique qui a souffert d’un manque d’investissements en recrutement de talents et en réforme des pratiques de gestion des ressources humaines”, a expliqué Amanda Clarke.

    Mme Clarke a été un des premiers témoins entendus dans le cadre de l’enquête parlementaire sur les contrats accordés au cabinet-conseil McKinsey.

    Pour sa part, Jennifer Carr, présidente de l’Institut professionnel de la fonction publique du Canada, a parlé de contrats coûteux dont se serait passée la fonction publique. Elle a décrit une “fonction publique fantôme” qui échappe aux normes en vigueur. “Cette fonction publique fantôme obéit à un ensemble de règles totalement différentes.”

    Source : https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1952222/contrats-consultants-experte-resultat-sous-financement-fonction-pub

    #futur #corruption #irresponsabilité #impunité #incompétence #mckinsey #mckinseygate #cabinets_de_conseil #mac_kinsey #consulting #marketing #mckinseymacrongate #cabinets-de-conseil #privatisation #management #Canada #Justin_Trudeau #mondialisation #anticipation #futur

  • L’ère de la dévoration – sur Le capital, c’est ta vie de Hugues Jallon - AOC media
    https://aoc.media/critique/2023/01/18/lere-de-la-devoration-sur-le-capital-cest-ta-vie-de-hugues-jallon

    Du capitalisme nous savons presque tout. Nous le connaissons. Nous le reconnaissons. Il n’a pas de mystère pour nous. Le capital c’est ta vie de Hugues Jallon relate de l’emprise croissante du capital sur nos vie. Ce livre aurait alors pour objet de combler ce fossé entre l’intime et le social, les données immédiates de la conscience personnelle et l’histoire collective. Mais il pourrait être tout aussi bien une adresse à un ami désorienté, une main tendue et une invitation à en sortir.

    https://justpaste.it/cbmix

    #capitalisme #mondialisation #panique #littérature

  • Les contrats octroyés à McKinsey dépassent 100 millions de dollars sous Justin Trudeau Romain Schué - Thomas Gerbet
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1948188/firme-mckinsey-canada-ottawa-millions-contrats-ottawa

    Radio-Canada a trouvé de nouveaux contrats octroyés à la firme par Ottawa, notamment par la Défense nationale.


    L’implication de la firme McKinsey dans les affaires de l’État canadien est encore plus grande que ce qui avait été dévoilé jusqu’ici. De nouveaux contrats, signés au cours des derniers mois, portent le total octroyé au cabinet-conseil américain à plus de 100 millions de dollars depuis l’arrivée au pouvoir des libéraux.

    La Défense nationale est le ministère qui a le plus eu recours à la firme. Depuis 2021, elle a versé à McKinsey au moins 34 millions de dollars, révèle une recension réalisée grâce à de nouvelles données disponibles, qui incluent les sociétés d’État.

    La firme a notamment joué un rôle dans la modernisation de la Marine royale canadienne, dans la promotion de la diversité culturelle à la Défense et dans le système de gestion des plaintes, notamment celles pour inconduite sexuelle dans l’armée.


    La firme américaine est un cabinet-conseil ayant 130 bureaux dans 65 pays qui emploient 30 000 consultants.

    Début janvier, une enquête de Radio-Canada https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1945915/mckinsey-influence-canada-trudeau-immigration-conseils démontrait que les libéraux avaient dépensé 30 fois plus pour les services de McKinsey que les conservateurs de Stephen Harper, pourtant restés plus longtemps au pouvoir. L’écart est finalement encore plus grand.

    Ces dizaines de contrats feront l’objet d’une enquête parlementaire, dont la tenue a été imposée par l’opposition, en position de force au sein du Comité des opérations gouvernementales et des prévisions budgétaires. Sous pression, le premier ministre Justin Trudeau a aussi demandé à deux ministres d’examiner l’octroi de contrats à McKinsey.

    En nous appuyant sur divers rapports financiers et contractuels, nous avons calculé que les sommes octroyées par le fédéral depuis 2015 dépassent désormais la barre des 100 millions de dollars.

    Dans une réponse fournie vendredi soir, Services publics et Approvisionnement Canada (SPAC), responsable de la plupart des achats de l’appareil fédéral, confirme avoir dépensé un montant total de 101,4 millions de dollars, pour 23 contrats signés au cours des 7 dernières années.

    De nombreux contrats sans appel d’offres
    De nombreuses ententes ont été signées par le fédéral avec McKinsey de gré à gré, sans appel d’offres. C’est le cas par exemple avec Emploi et développement social Canada, Exportation et Développement Canada, la Banque de développement du Canada, l’Agence des services frontaliers du Canada ou encore la Défense nationale.

    Selon une explication fournie par SPAC, il s’agit notamment de “commandes subséquentes à une offre à commandes principale et nationale”. Ce processus “a été mis en place pour faciliter l’accès des ministères et des organismes gouvernementaux aux services d’étalonnage du secteur privé”.

    Aux yeux d’Ottawa, McKinsey “détient les droits exclusifs pour la fourniture” de certains services, permettant de “soutenir des programmes complexes, notamment la modernisation numérique et d’autres grandes initiatives de transformation”.

    Au moins 34 millions de dollars pour la Défense nationale
    Dans les derniers mois, c’est la Défense nationale qui a le plus sollicité la firme McKinsey, au point où le ministère est devenu celui qui a dépensé le plus d’argent pour les services du cabinet-conseil depuis l’arrivée au pouvoir de Justin Trudeau en 2015.

    Au moins 15 contrats ont été signés depuis mars 2021, par le ministère directement ou par l’entremise de Services publics et approvisionnement Canada (SPAC), pour un total d’au moins 34 millions de dollars.


    McKinsey a fourni des services à la Marine royale canadienne.

    Par exemple, McKinsey a obtenu un contrat de deux millions de dollars pour “diagnostiquer l’état de préparation de la Marine à l’exécution d’initiatives numériques” et un autre contrat d’un million de dollars afin de développer “un outil de gestion du personnel de la flotte reposant sur l’intelligence artificielle pour affecter des équipages appropriés et optimaux aux navires partant en mer”.

    McKinsey a aussi été payée 4,5 millions de dollars par la Défense nationale pour des “orientations en leadership” et “pour faire progresser l’évolution culturelle au moyen de l’élaboration d’un cadre de diversité, d’équité et d’inclusion”.

    Selon l’un des documents consultés par Radio-Canada, les objectifs souhaités par la Défense avec ces contrats ont été “atteints”.

    Malgré plusieurs relances, la Défense nationale n’a pas répondu à nos questions. Quant à la firme McKinsey, elle a décliné nos demandes de précisions, affirmant avoir “pour habitude de ne pas faire de commentaires sur les affaires de nos clients”.

    Louise Arbour critique l’intervention de McKinsey au sujet de la gestion des plaintes dans l’armée
    Alors que les Forces armées canadiennes ont été secouées ces dernières années par plusieurs scandales de harcèlement et d’inconduite sexuelle, la firme McKinsey a aidé la Défense à “élaborer une solution moderne de traitement numérique des plaintes pour remplacer les technologies et les ensembles de données utilisés”.

    À partir de l’été 2021, trois contrats d’un total de six millions de dollars lui ont été confiés pour ce mandat. Et les conclusions du travail de McKinsey n’ont pas été au goût de l’ex-juge Louise Arbour, l’auteure du rapport exhortant l’armée à apporter de profonds changements. Louise Arbour y évoque “plusieurs préoccupations” et un système “voué à l’échec”.


    La juge Louise Arbour a déposé son rapport sur le harcèlement et les inconduites sexuelles dans l’armée en mai 2022.

    Dans ce document de près de 450 pages https://www.canada.ca/fr/ministere-defense-nationale/organisation/rapports-publications/rapport-de-lexamen-externe-independant-et-complet.html , elle écrit : “D’après ce que j’ai compris, McKinsey a proposé un possible nouveau mécanisme de traitement des plaintes [...] sous la forme d’un ’’guichet unique de signalement’’ [...] conçu pour s’appliquer à l’inconduite sexuelle, au harcèlement sexuel, aux comportements haineux et aux griefs.”

    « Le système proposé par McKinsey est peu utile en ce qui concerne le harcèlement et l’inconduite sexuelle. »
    -- Une citation de Extrait du rapport de Louise Arbour, mai 2022

    “Le système proposé par McKinsey créerait le même conflit d’intérêts que celui qui existe actuellement”, écrit-elle, en parlant d’“obstacles importants” et de solutions qui “ne sont pas appropriées [pour] traiter de quelque question liée à l’inconduite sexuelle que ce soit”.

    Après la publication de ce rapport, McKinsey a obtenu en octobre dernier, un nouveau contrat, de deux millions de dollars, pour une “mise à jour” concernant la “transformation du processus de plaintes”.

    McKinsey présent dans le domaine militaire, à l’international
    La firme McKinsey a signé, depuis plusieurs années, des contrats avec différents gouvernements à travers le monde, pour des conseils concernant le milieu de la défense ou l’armement. Parfois même avec des pays concurrents ou qui ont des intérêts militaires divergents.

    Selon le livre When McKinsey Comes to Town, publié l’automne dernier par deux journalistes du New York Times, le cabinet a travaillé avec le département américain de la Défense entre 2018 et 2020, tout en ayant des liens avec la Chine. La chaîne américaine NBC https://www.cnbc.com/2022/05/21/mckinsey-co-worked-with-russian-weapons-maker-as-it-advised-pentagon.html a quant à elle découvert que McKinsey a conseillé au même moment un fabricant d’armes russe et le Pentagone. Plus tôt cette année, un journal allemand https://www.zeit.de/2023/01/mckinsey-beratungsunternehmen-bundesverteidigungsministerium-russland a dévoilé que McKinsey a collaboré à la fois avec le ministère allemand de la Défense et des entreprises d’armement russes.

    Un contrat pour analyser le potentiel de l’énergie atomique contre les GES
    À l’hiver 2022, McKinsey a été sollicité par Énergie atomique du Canada pour fournir des données sur la compétitivité des coûts de la technologie CANDU et sur “son rôle potentiel dans l’augmentation de la production d’électricité non émettrice pour atteindre les objectifs de réduction des gaz à effet de serre”. Le contrat a coûté 540 000 dollars.

    Preuve que McKinsey peut vendre ses conseils dans tous les domaines, la firme a aussi été recrutée par Destination Canada de 2018 à 2021 pour “repérer les tendances émergeant à l’échelle mondiale dans le secteur touristique” et “déceler les occasions qui s’offrent au Canada”.

    Pour près de trois millions de dollars, la firme a dressé “une feuille de route pour assurer un succès durable au secteur touristique canadien” et mené “des entrevues poussées avec des membres de l’industrie”. En outre, McKinsey a analysé “l’évolution des répercussions de la pandémie de COVID-19 sur le secteur touristique canadien” et trouvé “des approches potentielles de réponses”.

    Trudeau ouvre la porte à des changements
    Dans les prochains jours, le Comité des opérations gouvernementales et des prévisions budgétaires demandera au gouvernement de dévoiler l’ensemble des documents et des échanges entre Ottawa et McKinsey. Plusieurs fonctionnaires et ministres devraient être interrogés.

    Il sera notamment question d’Immigration Canada, qui est le deuxième ministère à avoir le plus souvent fait appel à la firme McKinsey depuis l’arrivée au pouvoir de Justin Trudeau, selon nos données. Près de 25 millions de dollars ont été dépensés pour la “transformation” de ce ministère.

    Par voie de communiqué https://www.mckinsey.com/ca/fr/overview/Statement-from-McKinsey-Canada , après avoir refusé dans un premier temps de commenter la première enquête de Radio-Canada, McKinsey Canada a indiqué réaliser un travail “entièrement non partisan” et rejette l’idée qu’elle puisse influer sur les politiques publiques, notamment en immigration.

    “Malgré ce qu’on a pu lire ou entendre récemment dans les médias, notre firme ne formule aucune recommandation sur les politiques en matière d’immigration ou sur quelque autre sujet que ce soit”, a soutenu l’entreprise.

    « Nous sommes fiers du travail que nous accomplissons au nom du gouvernement du Canada et des programmes qui ont été améliorés grâce à nos conseils. »
    -- Une citation de Déclaration de McKinsey Canada

    De son côté, Justin Trudeau a promis de “faire un suivi” afin de “nous assurer si [les ententes avec McKinsey ont été faites] de la bonne façon ou si on a besoin de modifier ou de changer les règles”.

    “Ça fait depuis toujours que des fonctionnaires cherchent des conseils experts pour améliorer la livraison de services des Canadiens, pour faire la modernisation de ce qu’ils sont en train de faire”, a-t-il déclaré.

    #corruption #powerpoint #irresponsabilité #impunité #incompétence #mckinsey #mckinseygate #cabinets_de_conseil #santé #mac_kinsey #consulting #réfugiés #migrations #marketing #mckinseymacrongate #cabinets-de-conseil #privatisation #management #Canada #Justin_Trudeau #mondialisation

    • L’immigration, McKinsey et le diktat de la mobilité internationale Micheline Labelle
      https://www.ledevoir.com/opinion/idees/777732/idees-l-immigration-le-cabinet-conseil-mckinsey-et-le-diktat-de-la-mobilit

      Romain Schué et Thomas Gerbet viennent de dévoiler, le 4 janvier dernier, l’influence de la firme américaine McKinsey sur la politique d’immigration du gouvernement Trudeau et les coûts faramineux payés à cette entreprise. Cette firme aurait conseillé l’accueil de 465 000 immigrants en 2023 pour atteindre 500 000 en 2025, dont 60 % seraient de la catégorie économique. A-t-elle aussi conseillé l’augmentation fulgurante des travailleurs temporaires ? Le contrôle des frontières et des demandeurs d’asile ? Une transformation démographique du Canada postnational dont se vante Justin Trudeau ? Une réorganisation du système informatique, une meilleure gestion des passeports (ce serait alors une faillite) ? L’information est bloquée pour le moment. Mais de quel droit tout cela ?


      Jacques Nadeau archives Le Devoir « Il serait intéressant de savoir ce que pensent les conseillers de McKinsey sur les dysfonctionnements et l’éventuelle crise sociale qu’entraîne la mobilité incarnée par la traversée du chemin Roxham », écrit l’autrice.

      Faut-il s’étonner de ce recours à une multinationale pour influer sur les affaires internes canadiennes ? Non, si on le met en relation avec le développement hégémonique d’une théorie sociologique de la mobilité qui domine aujourd’hui au point de rendre les gouvernements dépendants des multinationales comme McKinsey.

      Pour comprendre ce changement de paradigme, un retour en arrière s’impose.

      Le paradigme de la mobilité adopté par le fédéral depuis des décennies
      Le paradigme de la mobilité (mobility studies) n’a fait que se renforcer depuis la fin des années 1990. En 2005, le sociologue John Urry publiait un texte édifiant et quelque peu délirant dans Les Cahiers internationaux de sociologie pour décrire le monde en mouvement : demandeurs d’asile, terroristes, touristes, diasporas, étudiants internationaux, entrepreneurs, sportifs, randonneurs, prostituées sont en mouvement, écrivait-il. Le sociologue reprochait à ses pairs d’avoir négligé le phénomène de la mobilité et d’avoir jusqu’ici insisté plutôt sur le rôle de structures sociales figées au sein de la société ou de l’État-nation obsolète.

      John Urry en appelait à une « reformulation de la sociologie dans sa phase post-sociétale », dont l’objet majeur ne serait plus les sociétés dans leur spécificité, mais « les diverses mobilités des peuples, des objets, des images, des informations et des déchets [sic] ». Depuis, ce paradigme concurrence diverses perspectives « post » , y compris la thèse de la superdiversité, très en vogue dans les universités anglophones, où l’on parle avec une délicatesse douteuse « d’itinérants transculturels ». Le multiculturalisme est pour ainsi dire dépassé, on nage désormais dans l’univers trans. Toutes remettent en cause les frontières politiques et symboliques des États-nations, ainsi que les significations de la citoyenneté et de l’appartenance.

      Cette mouvance est à mettre en relation avec la création du réseau international Metropolis fondé en 1996 à l’initiative du ministre Sergio Marchi, et dont Meyer Burstein a été codirecteur exécutif, ainsi qu’avec le discours du fédéral sur la rentabilisation du multiculturalisme et la stratégie d’innovation du Canada. En 2004, le document « Élaboration de l’analyse de rentabilisation du multiculturalisme » précisait que les transilient immigrants font partie d’une nouvelle « classe créative », apte à mobiliser leurs réseaux internationaux en vue d’investissements et de bonnes pratiques commerciales.

      Les immigrants et les « minorités visibles » y sont vus comme « un réservoir de compétences culturelles et linguistiques auquel les industries canadiennes peuvent faire appel pour leurs opérations à l’étranger ou pour prendre de l’expansion sur les marchés internationaux », écrivait déjà en 2004 l’ex et puissant directeur d’Immigration et Citoyenneté Canada, Meyer Burstein.

      Les liens que les diverses « communautés culturelles et raciales entretiennent avec presque tous les pays du monde sont synonymes de prospérité économique et ont contribué à susciter l’intérêt du gouvernement du Canada à l’égard du multiculturalisme », statuait à son tour Patrimoine canadien (2005). On ne peut donc s’étonner du recours aux tentacules internationaux de la firme McKinsey. Et Justin Trudeau ne peut être que d’accord avec ce niveau d’interférence dans un pays qu’il conçoit et présente comme postnational.

      Les effets pervers de la mobilité sur les personnes et le pouvoir des États
      L’immigration internationale concerne plusieurs catégories de personnes aux statuts social et politico-juridique différents. Or, les pays doivent choisir entre deux catégories principales de transfrontaliers sur le plan économique : les travailleurs étrangers qualifiés, hautement mobiles, et les travailleurs non qualifiés.

      La mobilité des premiers est vue comme un signe d’ouverture envers le pays d’accueil. Désirable sur le plan économique, elle ne pose pas de défis d’intégration, soutient-on à tort. Dans cette perspective, la chasse aux cerveaux (ou plutôt l’exode des cerveaux, vu sous un autre angle) apparaît souhaitable pour les États demandeurs et les institutions qui ont besoin de professionnels ou d’étudiants internationaux afin de favoriser l’investissement, la recherche et l’innovation.

      Au contraire, les mouvements de la main-d’oeuvre à bon marché et souvent déclassée sont à contrôler afin de ne pas provoquer un sentiment d’envahissement dans la société d’accueil. C’est la raison pour laquelle cette force de travail fait l’objet d’un sempiternel débat public sur la naturalisation, l’intégration civique et les exigences linguistiques. Sans compter qu’en Amérique du Nord, pour un immigrant indépendant jouissant du statut de résidence, on compterait une cinquantaine d’immigrants parrainés, compte tenu des réseaux et des liens transnationaux des migrants.

      Enfin, ce paradigme de la mobilité provoque également l’obligation de repenser les notions de citoyenneté et de souveraineté de l’État, jugées obsolètes dans un monde globalisé. Les chercheurs ont beau spéculer sur la beauté du transnationalisme, on peut pourtant constater que tous les États aspirent à contrôler l’immigration selon leurs intérêts propres en matière de sécurité et d’ordre public, de légalité, de réunification des familles, de dépenses publiques et de problèmes urbains, d’intégration sociale et politique, voire d’identité nationale. En ce sens, le paradigme de la mobilité véhiculé par des instances supraétatiques ne peut qu’entamer le pouvoir de l’État.

      Enfin, il serait intéressant de savoir ce que pensent les conseillers de McKinsey sur les dysfonctionnements et l’éventuelle crise sociale qu’entraîne la mobilité incarnée par la traversée du chemin Roxham. Les demandeurs d’asile qui arrivent par milliers aux frontières comptent-ils dans l’objectif des 465 000 à 500 000 migrants souhaités sur cinq ans ? En dépit du fait que ce système donne lieu à de l’exploitation, à un trafic reconnu et à des réseaux internationaux de passeurs bien organisés et sans doute sans pitié ? Une situation que le gouvernement Trudeau ne semble pas avoir le courage de regarder en face et devant laquelle le Québec semble impuissant.

      #immigration #migrants #crise_sociale # John_Urry #multiculturalisme

    • Dans la vidéo - Sennheiser MD 421
      https://en.wikipedia.org/wiki/Sennheiser_MD_421


      Lors de son succès la jeune chanteuse utilisait un de mes microphones préférés. Il est surtout connu pour le peu de feedback indésirable en comparaison avec la plupart des autres microphones quand il est utilisé sur scène.

      The Sennheiser MD 421 is a German cardioid dynamic microphone, widely used for speech in broadcasting and for music in live concerts and the recording studio. Introduced in 1960, the internal large-diaphragm transducer element of the MD 421 is still produced unchanged by Sennheiser. The MD 421 is considered a classic, an industry standard. More than 500,000 units have been sold.

      Sennheiser MD 421-II - Recording Microphone - Broadcasting Applications
      https://en-us.sennheiser.com/recording-microphone-broadcasting-applications-md-421-ii

      The MD 421 II continues the tradition of the MD 421, which has been one of Sennheiser’s most popular dynamic mics for over 35 years. The large diaphragm, dynamic element handles high sound pressure levels, making it a natural for recording guitars and drums. The MD 421’s full-bodied cardioid pattern and five-position bass control make it an excellent choice for most instruments, as well as group vocals or radio broadcast announcers. One listen and you’ll know why it’s a classic.


      A propos du dernier modèle 421 II on apprend dans Wikipedia

      MD 421 II introduced in 2002. Essentially the same as MD 421-U but manufactured with more economical processes.

      Sennheiser
      https://de.wikipedia.org/wiki/Sennheiser#Geschichte

      Il semble que la qualité des microphones Sennheiser ne soit plus aussi exceptionnelle qu’avant, mais c’est peut-être en partie dû à l’episode de #délocalisation. C’était un échec et depuis l’entreprise fabrique sa gamme pro exclusivement en Allemagne. L’autre raison est la concurrence grandissante. Aujourd’hui on trouve des microphones de très bonne qualité moins cher que chez Sennheiser, alors la marque aussi est contrainte de rendre sa production plus efficace en réalisant des économies sur les matériaux.

      Bereits Anfang der 1990er Jahre versuchte das Unternehmen, Teile der Produktion von Funkmikrofonen nach Shanghai zu verlagern. Aufgrund von Qualitätsmängeln, Transportschäden und illegaler Nachbauten der Produkte durch die Partnerunternehmen brachte Sennheiser die Produktion wieder zurück nach Deutschland.

      La gamme consumer par contre n’a plus rien à faire avec le producteur allemend qui a vendu le nom à une entreprise suisse.

      Mit Wirkung zum 1. März 2022 verkaufte Sennheiser seine Sparte Consumer Electronics mit Kopfhörern für Endverbraucher sowie Soundbars für 200 Millionen Euro an den schweizerischen Hörgerätehersteller Sonova und zog sich damit aus dem Endverbrauchergeschäft zurück. Sennheiser konzentriert sich nun auf das Geschäft mit professionellen Mikrofonen und Studiotechnik, darunter professionelle Kopfhörer. Sonova erhielt eine unbefristete Lizenz zur Nutzung der Marke Sennheiser. Rund 600 Mitarbeiter wechselten im Rahmen des Verkaufs zu Sonova.

      #microphones #technologie #mondialisation

  • Deutschland : Wenn Medikamente fehlen
    https://www.heise.de/tp/features/Deutschland-Wenn-Medikamente-fehlen-7392310.html?seite=all

    Tiens, tiens, le seul pays grand producteur de médicaments au monde qui a eu des problèmes de production sérieux pendant la crise covid c’est l’Italie.

    Lieferkettenprobleme können auch hausgemacht sein. Über Märkte, Verfügbarkeit und Preise. Das sagt der Leiter einer Klinikapotheke.

    Derzeit sind rund 300 Medikamente beim Bundesinstitut für Arzneimittel (BfArM) als nicht lieferbar gemeldet. Tatsächlich fehlen aber noch viel mehr Wirkstoffe in der Versorgung. Telepolis hat beim Leiter der einer Klinikapotheke in Freiburg, Prof. Dr. Martin J. Hug, nachgefragt, wie Versorgung, Preise und Globalisierung zusammenhängen.

    Welche Länder haben auch während Corona alle Medikamente und Grundstoffe geliefert?

    Martin J. Hug: Die Pandemie, die damit verbundenen Schließungen von Fabrikanlagen und die Unterbrechung des internationalen Warenverkehrs haben sämtliche Wirtschaftsbranchen beeinträchtigt. Deshalb war natürlich auch der Arzneimittelsektor betroffen. Allerdings muss man anerkennen, dass nicht alle Länder gleichzeitig ihre Produktion oder Lieferung eingestellt hatten.

    Der Lockdown in China hat zwar in den ersten Monaten des Jahres 2020 zu überhöhten Panikkäufen vonseiten der Pharmaunternehmen und deren Kunden (Apotheken) geführt - es war aber die ungewöhnlich hohe Nachfrage, die das Problem der ersten Lieferabrisse eigentlich herbeigeführt hat. China war rasch wieder lieferfähig, wohingegen Indien einen Ausfuhrstopp für 26 Wirkstoffe verhängt hatte. Aber auch davon war in Deutschland glücklicherweise wenig zu spüren.

    Anders war die Situation, als in Italien sprichwörtlich die Lichter ausgingen. Italien ist nach China und Indien der drittgrößte Produzent von Antibiotika, weswegen die Zeit von April bis September 2020, als Italien besonders unter der Pandemie zu leiden hatte, deutlich spürbare Folgen für eine ganze Reihe von Medikamenten hatte.

    Konkret fällt mir gerade nur ein einziges Ursprungsland für Arzneimittel ein, das nicht durch Lieferengpässe aufgefallen ist. Das war Korea. Von dort beziehen wir einige relativ hochpreisige Medikamente, die in geringen Stückzahlen eingesetzt werden.

    Wie viele Fertigungsstätten pro Medikament wären sinnvoll, und wo sollten diese angesiedelt sein?

    Martin J. Hug: Auf diese Frage gibt es leider keine einfache Antwort. Je mehr, desto besser könnte man sagen, aber Arzneimittelherstellung beruht eben auch auf verschiedenen Verflechtungen, Rohstoffmarkt, Logistik, Absatzmärkte etc.

    Einer Untersuchung des Bundesinstituts für Arzneimittel (BfArM) kann man entnehmen, dass es für viele Präparate nur einen oder maximal drei Hersteller gibt. Diese Monopolisierung ist die Konsequenz eines immer mehr unter Druck geratenen Marktes.

    Dieser drängt die Hersteller gerade im Bereich niedriger Margen dazu, sich von unrentablen Produkten zu trennen. Ob eine Verlagerung von Herstellungsstätten nach Europa zwingend zu einer Verbesserung führt, kann man nicht mit Sicherheit sagen. Einer der für uns aktuell schmerzhaftesten Lieferengpässe besteht bei einem ausschließlich in Deutschland hergestellten Arzneimittel.

    Die Herstellungsanlagen müssen erneuert werden und es gibt derzeit noch keine alternativen Produktionsstandorte. Das gerade nicht verfügbare Präparat Penicillin V, ein uraltes Antibiotikum, wird nahezu ausschließlich in einer Fabrik in Österreich hergestellt.

    Für Medikamente gilt jetzt ein Preismoratorium bis 2026. Was passiert, wenn sich die Produktion nicht mehr lohnt?

    Martin J. Hug: Das Preismoratorium für verschreibungspflichtige Arzneimittel existiert bereits seit August 2010. Allerdings ist den Anbietern erlaubt, jeweils zum 1.Juli eines Jahres den Preis um die jährliche Veränderungsrate anzupassen.

    Damit wären im kommenden Jahr theoretisch Preisanstiege von zehn Prozent und mehr denkbar. Wenn sich die Produktion aufgrund der Regulierungsmaßnahmen nicht mehr lohnt, wird ein Pharmaunternehmen die Ware in dem jeweiligen Land nicht mehr in den Verkehr bringen.

    Gibt es eine staatliche Preisregulierung für Medikamente, vor allem für Nachahmerprodukte oder Generika?

    Martin J. Hug: Im Sozialgesetzbuch finden sich einige Werkzeuge zur Preisregulierung. Diese beschränken sich nicht auf Generika - sind dort aber am deutlichsten spürbar. Konkret handelt es sich um folgende Maßnahmen:

    – der von sieben auf zwölf Prozent angehobene Herstellerrabatt

    – mit den Pharmaunternehmen verhandelte Rabattverträge gemäß § 130a SGB V. Die fast 100 gesetzlichen Krankenkassen sind hier sehr erfolgreich und haben fast 30.000 solcher Verträge abgeschlossen.

    – Festbetragsgrenzen. Hier handelt es sich um Maximalpreise von Medikamenten mit gleichem Wirkstoff oder gleichem Wirkmechanismus und Anwendungsgebiet, die von den gesetzlichen Krankenkassen erstattet werden.

    Liegt der Preis eines Arzneimittels über diesem Festbetrag, hat der Patient die Wahl, die Differenz aufzuzahlen oder, wenn eine Austauschbarkeit möglich ist, sich ein Medikament aushändigen zu lassen, dessen Preis auf Niveau des Festbetrags liegt.
    Vor- und Nachteile der Rabattverträge

    Könnten Hersteller zu einer für sie unrentablen Produktion verpflichtet werden?

    Martin J. Hug: Die Antwort ist einfach: nein. Es gelten hier klare Prinzipien der Marktwirtschaft. Sie können ja auch einen Hersteller von Luxusautos nicht dazu verpflichten, seine Fahrzeuge zum halben Preis abzugeben.

    Allerdings können die Krankenkassen bei der Ausschreibung von Rabattverträgen Konventionalstrafen verhängen, wenn ein Unternehmen die vereinbarten Mengen nicht liefern kann.

    Lassen sich Medikamente, die in Deutschland nicht verfügbar sind, auf deutsche Rezepte auch im EU-Ausland beschaffen oder muss man auf Re-Importe warten?

    Martin J. Hug: Wenn das BfArM einen Versorgungsmangel nach § 79 Absatz 5 AMG festgestellt hat, dann ist ein Import aus dem Ausland zulässig und eine Erstattungsfähigkeit durch die gesetzlichen Krankenkassen gegeben. Um einen entsprechenden Versorgungsmangel festzustellen, bedarf es aber Zeit und große Not.

    Die meisten Lieferengpässe, mit denen wir uns herumärgern müssen, schlagen gar nicht beim BfArM auf. Wir Krankenhäuser können hier eher zum Werkzeug des Imports greifen, weil die Arzneimittelkosten in der Regel nicht über ein Rezept, sondern über die Fallpauschale abgerechnet werden. In der öffentlichen Apotheke ist jedoch bei Importarzneimitteln kein Erstattungsanspruch durch die GKV gegeben.

    Welche Vorteile und Risiken haben Rabattverträge, deren Konditionen geheim sind?

    Martin J. Hug: Die Vorteile liegen bei den Kostenträgern – hier ist nicht unerhebliches Einsparpotential. Die Risiken liegen auf der Hand: durch die Rabattverträge werden die Margen für die Arzneimittelhersteller geringer. Dadurch wird bei Präparaten, die ohnehin nur eine geringe Marge besitzen, schnell die Luft dünn.

    Jetzt können Sie fragen: Warum macht die Industrie das mit, warum schließen die überhaupt derartige Verträge ab? Hier kann man sagen, dass es für manche Firmen opportun sein kann, ein defizitäres Produkt über Rabattverträge temporär in den Markt zu drücken. Denn bei global agierenden Unternehmen ist Marktanteil ein wesentliches Merkmal des „Shareholder value“.

    So kann man den Wert eines Unternehmens fiktiv für kurze Zeit anheben, bis die nächste Kapitalgesellschaft zugreift. Derartige Mechanismen sind in der Arzneimittelbranche nicht anders als in jedem anderen Geschäft.

    Hauptnachteil der Rabattverträge ist aber die von beiden Seiten (Kassen und Pharmaunternehmen) gewünschte Intransparenz. Dadurch werden die wahren Preise verschleiert und der Öffentlichkeit ein falsches Bild von den Arzneimittelpreisen vermittelt.

    #crise #médicaments #commerce #mondialisation #covid-19 #Chine #Corée #Inde #Italie

  • Guerre économique mondiale : l’incroyable défaillance de l’Union Européenne
    https://www.blast-info.fr/emissions/2022/guerre-economique-mondiale-lincroyable-defaillance-de-lunion-europeenne-P

    Le monde serait-il en train de redécouvrir le #Protectionnisme ? Ali laidi Docteur en science politique et chercheur au laboratoire de recherche de l’école de guerre économique (CR451) – auteur d’ « une histoire mondiale du protectionnisme » (Actes Sud) ,…

    #Mondialisation #Économie
    https://static.blast-info.fr/stories/2022/thumb_story_list-guerre-economique-mondiale-lincroyable-defaillanc

  • Enclave agro-industriali e relazioni tra forza lavoro distrettuale – caso studio del saluzzese

    Introduzione

    Lo studio dei rapporti che intercorrono tra gli attori della filiera agroalimentare risulta particolarmente interessante per capire come si sono intrecciati nel tempo i processi di globalizzazione e i flussi migratori in agricoltura.

    Il punto di vista privilegiato di questo lavoro è l’enclave ovvero il distretto agricolo, un luogo che ha preso forma proprio per soddisfare le esigenze del mercato. Un “paesaggio operazionale” (Brenner e Katsikis 2020) che incarna la modernizzazione agricola globale, scollegato dal territorio che lo circonda ma connesso a realtà similari mono funzionali poste in altri punti del globo. Lì dove ha avuto luogo la globalizzazione delle campagne andremo ad indagare quali sono gli attori che attualmente ci lavorano e quali sono i loro interessi.

    Stiamo assistendo alla decontadinizzazione degli agricoltori italiani, le aziende diminuiscono anno dopo anno, le persone si spostano dalle campagne alle città e poco spesso ci si chiede chi resterà a produrre il nostro cibo. Non sempre ci si ricorda infatti che il cibo è l’esito di rapporti socio-ecologici complessi (Avallone 2017) nei quali sono fondamentali sia il lavoro umano che quello naturale. Terra e lavoro però non bastano più, la proprietà dei mezzi di produzione è strutturale all’agricoltura modernizzata, come strutturale è la necessità del lavoro di manodopera salariata nelle nuove “fabbriche” agricole.

    Intensificazione, artificializzazione, mercificazione, imprenditorialità, scalabilità, centralizzazione e specializzazione sono le parole chiave della supermarket revolution. Parole che non sembrano andare d’accordo coi ritmi e i modi della natura, andremo allora a scoprire che effetti danno queste contraddizioni sul territorio e sull’economia locale.

    Il caso studio è il Saluzzese, area in provincia di Cuneo (Piemonte) a forte vocazione produttiva, famosa per le sue eccellenze frutticole e per l’industria manifatturiera dei macchinari e dei mezzi di trasporto necessari alla filiera (CGIL Cuneo 2016). Questo distretto risulta essere un buon esempio di enclave agricola modernizzata in quanto zona rurale dove interagiscono attori globali della filiera e dinamiche sociali tradizionali di un’area marginale all’urbano.

    Nel primo capitolo verrà presentata ed approfondita una rassegna di contributi teorici utili all’analisi del tema indagato. Da un iniziale excursus storico che prende in considerazione le tappe fondamentali intercorse tra il primo regime alimentare e l’attuale, andremo ad approfondire quali sono le caratteristiche fondanti il sistema agroalimentare industriale. La sottomissione dell’azione statale all’efficienza del mercato ci porterà a focalizzarci infine su ciò che sono e rappresentano i distretti agricoli globali, spazi dove forza lavoro e produzione si incontrano e si scontrano.

    Da questo incontro, infatti, prende avvio il secondo capitolo, anch’esso di inquadramento teorico, ma riguardante nello specifico la forza lavoro. Si presenteranno allora le motivazioni che hanno portato alla considerazione del lavoro agricolo come lavoro di serie B. Le stesse che spiegano come la forza lavoro che si trova nel gradino più basso della filiera sia quella che deve in ultima istanza subire le esternalità negative dell’intera catena agroalimentare.

    Solo nel terzo capitolo prenderà avvio lo studio di ricerca che si concentra sulle specificità del distretto saluzzese. Storia agraria territoriale, evoluzione del modello produttivo, staffetta di attori che si sono dati il cambio nel tempo e infine caratteristiche esogene al distretto come la crisi climatica o la Politica Agricola Comune. Questi i temi che saranno trattati al fine di fornire un’idea concreta di quelli che sono i fattori che contribuiscono a dare forma al distretto per come lo conosciamo oggi e che aiutano nella comprensione in prospettiva di come questo potrà evolversi in futuro.

    Il quarto ed ultimo capitolo è il cuore della ricerca e infatti sarà qui che, prendendo in considerazione due attori alla volta, andremo a investigare come i rapporti globali di filiera si adattino al territorio piemontese. Attraverso un lavoro che prende in considerazione notizie di cronaca, interviste e ricerche portate avanti da altri studi similari, studieremo come la Grande Distribuzione Organizzata, pur non entrando a far parte della forza lavoro distrettuale, sia a capo delle scelte produttive degli agricoltori. Andremo poi allo stesso modo ad indagare come si relazionano gli imprenditori agricoli coi loro sottoposti, tema più che mai interessante data la massiccia presenza di migranti tra la manodopera agricola e la restrizione alla mobilità imposta dalla pandemia da Covid-19.

    Concluderemo infine con un accenno a ciò che riguarda i fenomeni illegali che avvengono all’interno del distretto. Data la mancanza di informazioni più approfondite affronteremo il tema partendo da due estratti di interviste che ben si prestano a dare un’idea della complessità che si cela dietro fatti a prima vista inspiegabili come mancate denunce o migrazioni bloccate in fasi di stallo per periodi prolungati.

    https://www.meltingpot.org/2022/05/enclave-agro-industriali-e-relazioni-tra-forza-lavoro-distrettuale-caso-

    #agriculture #alimentation #globalisation #migrations #enclave #distretto_agricolo #industrie_agro-alimentaire #mondialisation #Saluzzese #Piémont #Italie #enclave_agricole #modernisation #régime_alimentaire #travail_agricole #exode_rural #grande_distribution

  • Entre plage et travail, la vie en apesanteur des « digital nomads »
    https://www.lemonde.fr/series-d-ete/article/2022/08/14/entre-plage-et-travail-la-vie-en-apesanteur-des-digital-nomads_6137996_34510

    Entre plage et travail, la vie en apesanteur des « digital nomads »
    Par Jessica Gourdon (Lisbonne, envoyée spéciale )
    Publié hier à 06h00, mis à jour hier à 18h29
    Temps de Lecture 5 min.
    Le phénomène est en plein essor. Gagnants de la mondialisation, ces télétravailleurs permanents combinent vacances et activité professionnelle dans le monde entier, au risque de la standardisation des expériences.
    « Et toi, qu’est-ce que tu fais ici ? What’s your story ? » Ce soir, à Lisbonne, mieux vaut savoir résumer efficacement son parcours pour alimenter la conversation avec Svenia, Keith, Mikko, Clara ou Gillian. Dans l’appartement, ils sont une vingtaine : des Américains, une poignée de Français, un Finlandais, des Allemandes… Tous moins de 40 ans. Chacun a déposé sa contribution au dîner sur la table du salon : portobellos farcis, toasts au guacamole, bières fraîches. Les rouleaux de printemps maison arrivent sous les applaudissements.Tous les membres de cette joyeuse troupe louent des chambres dans un immeuble en « coliving » géré par Outsite, une entreprise spécialisée dans les espaces pour travailleurs nomades. Le pari de ces « hôteliers » d’un genre particulier ? Proposer, pour une semaine ou quelques mois, un cadre de vie clés en main à ces jeunes habitués à voyager et à télétravailler dans le monde entier. Que cela soit à Lisbonne, sur les îles Canaries ou à Bali, le package est bien ficelé : une chambre dans une maison ou un appartement, avec salon et cuisine à partager, un espace de coworking, des activités en option… Et bien sûr, un Wi-Fi de compétition.
    Ceux présents ce soir-là se connaissent depuis peu, mais l’entente va de soi. Qu’ils soient développeurs Web, créateurs de contenus, graphistes, consultants en marketing digital ou entrepreneurs, tous habitent le même village global, celui de l’économie numérique. On discute en anglais de la session d’initiation au surf proposée samedi, du cours de yoga de la veille, ou du verre sur un roof top prévu sous peu. Après le dîner, le groupe WhatsApp « Outsite Lisbon » crépitera de photos et de messages.Ainsi va la vie des digital nomads. Incarnations paroxystiques de la société du télétravail post-Covid et de l’économie dématérialisée, ils tirent profit de leur pouvoir d’achat et de leur flexibilité pour brouiller les frontières : celles des vacances et du travail, de la vie privée et de la vie professionnelle, du temporaire et du permanent. Au gré des durées des visas, des rencontres ou des restrictions sanitaires, ils changent de destination tous les mois ou tous les trimestres, surveillant les spots en vue dans « Nomad List », un site de référence (60 000 membres revendiqués).
    Le nombre de « nomades » est en plein essor, si l’on en croit le succès des blogs, podcasts, et autres forums pour initiés. A lui seul le groupe Facebook « Digital Nomads de Lisbonne » compte 33 000 personnes, celui de Tenerife 20 000. Certains pays, comme le Mexique ou l’Argentine, proposent désormais des visas pour les digital nomads. A Lisbonne, où ils sont légion, ces télétravailleurs ont contribué à gentrifier certains quartiers et à y faire flamber les loyers. « Ils tendent à se regrouper aux mêmes endroits, pas trop chers, avec des plages, et du bon Wi-Fi », reconnaît Liora Nuchowicz, responsable clientèle chez Selina, une entreprise créée au Panama en 2014 qui gère quatre-vingts établissements spécialisés dans vingt-cinq pays. D’ici 2023, Selina compte doubler son nombre d’implantations.
    La vie nomade, Madison Billings l’a commencée un peu par hasard. Il y a deux ans, cette Américaine de 25 ans, commerciale pour une société d’informatique, a quitté le Texas pour des vacances au Costa Rica. Elle y a découvert un Hôtel-Club où il était possible de télétravailler dans un cadre idyllique, en bord de mer. « Là, je me suis dit : “ce truc existe vraiment ?” C’est possible de bosser sur un lieu de vacances ? A ce moment-là, mon entreprise était encore en télétravail complet à la suite de la crise du Covid. J’ai testé mon VPN, j’ai demandé si je pouvais rester sur place quelque temps, ils ont dit O.K. Depuis, je ne suis presque pas rentrée à Austin, à part pour rendre mon appartement », raconte-t-elle. Un abonnement souscrit auprès de Selina lui permet de voguer d’un pays à un autre dans des résidences de la société.
    « Ça, c’est chez moi », lance Clara Perrot, 28 ans, en montrant une photo du box qu’elle loue en France. Avant de quitter Paris, elle y a entassé ses affaires. Après quelque temps au Maroc, la voici chez Outsite, à Lisbonne, où elle travaille en free-lance comme « Designeuse UX » pour des applications. Sa chambre lui coûte 1 200 euros par mois tout compris, ménage, charges, espace de coworking. « Au bout de trois ans de CDI, je n’en pouvais plus de Paris, je fréquentais toujours les mêmes gens, je ne me projetais pas dans ce chemin, les enfants, l’achat de l’appartement… Je voulais la mer, le soleil, être nourrie par les rencontres. Ce que j’aime avant tout dans ce mode de vie, c’est ma liberté. »
    D’une destination à l’autre, il arrive que certains se retrouvent, partent en excursion ensemble, partagent des cours de cuisine ou s’échangent des missions professionnelles. « On se fait un réseau professionnel très utile, car nous sommes tous plus ou moins dans le même milieu », poursuit Madison Billings.Après trois ans de voyage (Inde, île Maurice, Madagascar, Bali, Portugal, Espagne, Brésil…), une autre jeune Française, Isaure Heyle, déroule volontiers la liste des bienfaits qu’elle en a tirés, à titre personnel : adaptabilité, compréhension interculturelle, maîtrise de l’anglais, capacités de communication, d’organisation, d’autonomie… « Changer d’environnement, ça booste la créativité », ajoute cette consultante en réseaux sociaux, également productrice d’un podcast sur les digital nomads.
    « Offrir la possibilité de travailler à distance, pour une entreprise, c’est une manière d’attirer de bons candidats ou de retenir les talents, expose Florian, entrepreneur nomade, vivant en ce moment à Lisbonne. Il y a encore des difficultés sur le plan juridique, mais dans les faits, rien n’empêche une boîte américaine de recruter un ingénieur français installé à Lisbonne ou à Barcelone ». Lui-même gagne sa vie en conseillant des entreprises sur leur utilisation du réseau social Twitch et grâce au trading de cryptomonnaies. Son associé est à Singapour, il emploie des free-lances dans divers endroits en Europe. Avec son gros sac à dos, ce sportif voyage tout en travaillant. Pendant la crise sanitaire, la fermeture des salles de sport l’avait incité à quitter le Portugal pour le Mexique. Là-bas, elles étaient ouvertes.Pareil rythme peut sembler aberrant pour ceux qui n’imaginent pas tenir longtemps dans cette vie de sacs à dos et de valises, en apesanteur. Mais les nomads interrogés affirment avoir fait le deuil, au moins provisoirement, d’un ancrage. « Je ne voyage qu’avec sept kilos, et cela crée un détachement matériel vis-à-vis des choses qui est très agréable, reprend Isaure Heyle. Je suis davantage intéressée par les expériences que par l’achat d’objets ». Beaucoup admettent s’interroger sur l’impact carbone de leur choix de vie. Avec un bémol, avancé par Isaure Heyle : « c’est du slow travel : on ne prend pas l’avion pour un week-end, mais pour plusieurs semaines ». Reste que ces voyages génèrent leur lot de fatigue et de difficultés. Jongler avec les décalages horaires, les connexions Internet parfois incertaines, basculer en mode « boulot » sans contraintes extérieures… D’autres évoquent la lassitude d’être toujours dans la planification de l’étape à venir. Sans oublier les relations amoureuses durables, difficiles à nouer, même si des couples voyagent ensemble. Et aussi, chez certains, le sentiment de solitude. « Je suis parfois fatigué des discussions superficielles, de rencontrer toujours de nouvelles personnes auxquelles on raconte la même chose. Beaucoup de nomades parlent des difficultés à être pleinement dans les vacances et pleinement dans le travail », reconnaît Eliott Meunier, un entrepreneur et youtubeur passé par la Thaïlande, le Sri Lanka, l’Espagne et le Portugal. Clara, une autre Française de Lisbonne, a décidé de sortir du circuit des résidences de télétravailleurs, et de chercher un appartement à elle dans la capitale portugaise. Histoire de se poser un peu, au moins pour un moment.

    #Covid-19#migrant#migration#postcovid#digitalnomad#sante#pandemie#teletravail#mondialisation

  • Le nocciole turche (e chi le raccoglie) ostaggio del mercato

    La Turchia primo produttore globale. Ieri il presidente Erdogan ha annunciato il prezzo base per il 2022. Produttori e sindacati denunciano i guasti del monopolio Ferrero.

    La Turchia è il numero uno a livello mondiale nella produzione della nocciola. Seguita in seconda posizione dall’Italia. Ma nel 2021, mentre in Italia la produzione calava del 70%, in Turchia si registrava un aumento radicale. Una crescita che tuttavia non si è tradotta in un equo e proporzionale guadagno per i produttori. Nel 2015 la Turchia ha prodotto 240.134 tonnellate di nocciola e dalla vendita ha incassato circa 3 miliardi di dollari; nel 2021 la produzione è salita a 344.370 tonnellate, eppure l’incasso è sceso a 2.2 miliardi. Secondo le analisi di mercato, le inchieste giornalistiche e i report dei sindacati la situazione è il risultato del monopolio che l’azienda italiana Ferrero ha costruito negli anni in Turchia, in collaborazione con il governo centrale.

    ALI EKBER YILDIRIM, che scrive sul portale di notizie Dunya, sostiene che questa situazione è dovuta al fatto che a stabilire il prezzo della nocciola è la stessa Ferrero, che controlla circa il 70% del mercato nazionale. Ovviamente il fatto che dal 2003, gradualmente, lo Stato abbia deciso di non comprare più dai contadini le nocciole a prezzo garantito – è la prima volta che accade dalla fondazione della Repubblica – limitandosi a stabilire un prezzo minimo, ha permesso all’acquirente principale di arrivare a controllare il mercato più velocemente e a dettare le sue regole.

    «L’approccio che utilizza Ferrero nell’interfacciarsi con i produttori è quello di creare dei contratti stagionali, ovvero Ferrero scrive sul contratto il prezzo e le condizioni d’acquisto, ma qualora qualcosa non andasse come previsto, sarebbe facilmente il produttore a uscirne penalizzato». A parlare della situazione è Seyit Aslan, segretario generale del più grande sindacato del comparto alimentare, Gida-Is. «In questo settore – prosegue – i fattori naturali generano la quantità e la qualità del prodotto. Per esempio se parliamo del nord della Turchia, si tratta di una zona soggetta a vari fenomeni climatici estremi, quindi alla fine del raccolto il produttore si trova spesso a dover gestire notevoli perdite economiche».

    «NEL 2021 – PROSEGUE ASLAN – la nostra delegazione sindacale insieme ad alcuni membri del ministero del Lavoro ha fatto un grosso lavoro di monitoraggio sul campo. Le condizioni di lavoro sono estremamente precarie, i lavoratori prima di tutto sono stagionali e senza contratto, le loro condizioni abitative consistono semplicemente in tende, senza una lavanderia e nemmeno un servizio igienico. Ci sono parecchi lavoratori minorenni che nel periodo di impiego non seguono il ciclo scolastico. Ovviamente nelle zone di produzione non esiste nessun tipo di controllo».

    Il leader sindacale sottolinea il fatto che lungo la costa del Mar Nero per raccogliere le nocciole arrivano tanti lavoratori dal sud-est del paese. Sono spesso cittadini poveri e curdi che subiscono in questo periodo di lavoro numerosi atti di discriminazione. Secondo Aslan ciò che si vede nei media turchi è una piccolissima parte di quello che devono affrontare questi lavoratori, che per via di un’opportunità lavorativa di breve durata non si sentono di denunciare gli abusi. Nella raccolta delle nocciole in Turchia è dominante il sistema del caporalato, denuncia Aslan. Inoltre le persone qui sono obbligate a produrre o le nocciole o il tè, perché nella regione ormai impera il sistema della monocoltura.

    «IL SISTEMA CONTRATTUALE che ha deciso di adottare Ferrero, senza nessun tipo di intervento dello Stato, in questi ultimi due anni possiamo dire che è diventato un elemento estremamente penalizzante – aggiunge Aslan – considerando la profonda crisi economica. Per esempio i fertilizzanti, il costo del lavoratore e le tasse sono molto più alte rispetto agli anni precedenti. Dunque è evidente che la Ferrero abbia costruito un monopolio nel settore in Turchia adottando dei meccanismi dannosi».

    Da quando è entrata nel mercato turco, l’azienda italiana ha comprato diversi piccoli attori del settore, alcuni dal passato discutibile, e anche questo l’ha aiutata a diventare il numero uno del settore. Nel 2018 il partito politico Mhp e successivamente nel 2021 il Chp hanno chiesto al Comitato antitrust di aprire un’indagine perché avevano registrato «comportamenti e scelte mafiose» da parte della Ferrero.

    IERI IL PRESIDENTE ERDOGAN nella città di Ordu ha comunicato il prezzo d’acquisto della nocciola, visto il periodo della raccolta: 54 lire turche al chilo (2,95 euro). Secondo Aslan e secondo i produttori con la crisi economica profonda e con queste condizioni di lavoro estremamente precarie la cifra dovrebbe essere al di sopra della soglia delle 80 lire (4,35 euro).

    Questa è la condizione in cui si trova il produttore numero uno delle nocciole, grazie a un governo che crea le basi dello sfruttamento. Pian piano la produzione agricola viene distrutta e la dignità umana calpestata.

    https://ilmanifesto.it/le-nocciole-turche-e-chi-le-raccoglie-ostaggio-del-mercato

    #Turquie #noisettes #Ferrero #multinationales #globalisation #mondialisation #industrie_agro-alimentaire #Nutella #prix #monopole #conditions_de_travail #travail #caporalato #monoculture #agriculture

  • « Le marché des #pesticides dangereux est hautement rentable pour les firmes chimiques européennes »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/07/21/agriculture-le-marche-des-pesticides-dangereux-est-hautement-rentable-pour-l

    Bien que se présentant comme une entité soucieuse de la préservation de l’#environnement, l’#Union_Européenne continue de fabriquer pour le reste du monde ces produits qu’elle interdit sur son territoire, dénonce dans une tribune au « Monde » un collectif de représentants d’ONG et de scientifiques.

    #faux-semblants #ue

    #paywall

    • La suite :

      Tribune. Les inquiétudes des citoyens sur l’agrochimie grandissent à mesure que les impacts sur la santé et l’environnement sont mieux connus. En Europe, ces craintes, légitimes, ont permis la mise en place de garde-fous, même s’ils restent bien insuffisants. L’Union européenne (UE) a notamment interdit l’usage des pesticides les plus dangereux sur son sol, depuis le début des années 2000.

      Mais sur son sol uniquement, en tournant le dos au reste du monde et en fermant les yeux devant la production de ces produits sur son territoire. Ces pesticides sont d’une telle toxicité qu’ils sont très « efficaces » pour détruire les organismes vivants, nuisibles aux récoltes. Mais s’ils ont été retirés du marché européen, c’est bien parce que les dangers et les risques posés par ces substances étaient trop élevés.

      L’atrazine, par exemple, a été interdite en Europe en 2004, pour être un perturbateur endocrinien et être très persistante dans l’eau. Dix-huit ans après, l’atrazine est toujours détectée dans notre eau potable et cet herbicide est encore massivement produit en Europe et vendu dans le monde entier.

      Un désastre écologique et social

      Selon une enquête menée par l’ONG suisse Public Eye, en 2018, les géants de l’agrochimie ont vendu dans le monde plus de 80 000 tonnes de pesticides interdits en Europe. Et 90 % de ces produits viennent d’usines installées sur le Vieux Continent : Royaume-Uni, Italie, Pays-Bas, Allemagne, France, Belgique ou encore Espagne.

      Ethiquement, la posture de l’UE est intenable. D’autant que, sur la scène internationale, l’Europe se présente comme une entité soucieuse de la préservation de l’environnement. Pourtant, elle ne fait rien pour contraindre son industrie à cesser de produire une chimie obsolète et des plus toxiques. Comme ne cesse de le rappeler les ONG, ce marché des pesticides dangereux est hautement rentable pour les firmes chimiques, qui continuent de vendre des produits mis sur le marché il y a plusieurs décennies : le paraquat comme l’Atrazine ont été créés dans les années 1960.

      Au Brésil, un des géants de l’agriculture, ces produits provoquent un désastre écologique et social qui devrait nous inquiéter. Car ils sont toujours épandus par avion et avec un minimum de protection. Le gouvernement de Jair Bolsonaro a encore ouvert les vannes et a mis sur le marché brésilien 1 682 nouveaux pesticides.

      « Nouveaux » dans ce cas, ne voulant pas dire modernes et moins toxiques, car, à ce jour, le Brésil utilise « au moins 756 pesticides, issus de 120 principes actifs/molécules, tous interdits dans l’UE dans les années 2000 et toujours produits par les firmes européennes », rappelle la chimiste Sonia Hess, attachée à l’université de Santa Catarina. Dans les régions agricoles du Brésil, les scientifiques se battent parfois au péril de leur vie pour montrer les effets sur la santé et l’environnement.

      Un danger au Brésil, mais aussi en Europe

      Des scientifiques [sont] menacés tout comme les militants et même les procureurs qui cherchent à éviter une pollution massive et irréparable. L’agrobusiness et les firmes chimiques, en particulier, ignorent simplement les questions des journalistes. Et la violence n’est jamais bien loin dès qu’on enquête sur le terrain.

      C’est la géographe de l’université de Sao Paulo Larissa Bombardi qui a montré que ce commerce empoisonnait en premier le Brésil et, dans la foulée, les consommateurs européens qui mangent massivement des produits brésiliens fabriqués avec ces pesticides interdits.

      Larissa Bombardi a reconstitué ce qu’elle nomme comme un « cercle de l’empoisonnement », signifiant ainsi que les pesticides dangereux continuent d’arriver dans nos assiettes. Menacée pour ses travaux, elle a dû quitter le Brésil. « Est-ce que les Brésiliens sont des citoyens de seconde zone ? Sommes-nous une région sacrifiée pour ce modèle agricole qui doit délocaliser ses activités les plus dangereuses ? », se demandait le député brésilien Renato Roseno.

      La perspective d’une signature d’un accord de libre commerce entre l’Union européenne et le Mercosur inquiète particulièrement les Brésiliens soucieux de leur environnement. Ils craignent que cet accord soit une porte encore plus ouverte aux ravages des pesticides dangereux en Amérique du Sud mais aussi leur déferlement sur le Vieux Continent

      Les signataires de cette tribune sont : Arnaud Apoteker, délégué général de Justice Pesticides, France ; Larissa Bombardi, géographe à l’université de Sao Paulo (USP), Brésil ; Mathilde Dupré, codirectrice, Institut Veblen, France ; Laurent Gaberell, expert pour Public Eye, Suisse ; Karine Jacquemart, directrice, Foodwatch France ; Juergen Knirsch, expert dans les relations commerciales pour Greenpeace Allemagne ; Marcia Montanari Correa, chercheuse à l’Institut de santé collective de l’université fédérale du Mato Grosso, Brésil ; Ada Pontes, médecin et professeur à l’université fédérale de Cariri, Brésil ; Stenka Quillet, journaliste, réalisatrice du documentaire Pesticides : l’hypocrisie européenne ; Salomé Roynel, porte-parole de Pesticide Action Network (PAN) Europe ; François Veillerette, porte-parole de Générations futures, France ; Anne Vigna, journaliste, autrice du documentaire Pesticides : l’hypocrisie européenne.

    • Déjà en 2017, concernant les exportations françaises d’atrazine :
      https://seenthis.net/messages/602320
      https://seenthis.net/messages/602149

      L’ONG helvétique Public Eye vient de lancer une campagne contre ces exportations, particulièrement celles à destination des Etats signataires de la convention de Bamako, qui applique en Afrique la convention de Bâle sur le transport des déchets dangereux. Ces pays en développement considèrent qu’ils ne devraient pas recevoir un produit si celui-ci est interdit dans son pays d’origine en raison de sa toxicité.

      Depuis 2004, la France a autorisé 142 exportations d’atrazine au total, dont 33 vers des pays africains signataires de cette convention : le Soudan, le Mali, le Burkina Faso, l’Ethiopie, le Bénin et la Côte d’Ivoire. « Ces exportations constituent à nos yeux une violation de la convention de Bâle, estime Laurent Gaberell, spécialiste du dossier au sein de Public Eye. La France aurait dû interdire ces exportations. »

      Sur le site de l’ECHA, le ministère de l’environnement est mentionné comme responsable de ces autorisations. Celui-ci n’a pas répondu aux questions du Monde. « Nous pointons du doigt la responsabilité des Etats qui permettent l’exportation de pesticides interdits, estime Laurent Gaberell. Mais les entreprises ont aussi un devoir de diligence. » La convention de Bâle ne prévoit pas de sanctions à l’égard des pays membres qui ne respectent pas leurs engagements, mais les soutient afin qu’ils modifient leurs pratiques.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Convention_de_B%C3%A2le
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Convention_de_Bamako

      En 2021, dépliant de Public Eye sur le commerce toxique des pesticides en général : https://www.publiceye.ch/fr/publications/detail/le-commerce-toxique-des-pesticides

      Le géant Syngenta, dont le siège est à Bâle, est le leader de ce marché juteux : il détient à lui seul 25 % des parts du marché [mondial des pesticides]

      #business_as_usual #empoisonneurs #impunité #cynisme #syngenta

  • La rose kenyane face aux nouveaux défis de la mondialisation

    Le secteur des roses coupées est une composante majeure de l’insertion du Kenya dans la mondialisation des échanges. Cette production intensive sous serre, née de l’investissement de capitaux étrangers, tente de s’adapter aux évolutions récentes de l’économie globale et de tirer parti des nouvelles opportunités qu’offre ce marché. Les recompositions productives à l’œuvre concernent en premier lieu la diversification variétale et la montée en gamme de la production du cluster kenyan. Elles révèlent également de nouvelles interactions entre les producteurs et les obtenteurs. Par ailleurs, ce modèle productif fondé sur l’#exportation doit aujourd’hui faire face à de nouveaux défis en lien avec l’affirmation, au sein des principaux pays importateurs, d’un #capitalisme_d’attention centré sur les problématiques éthiques et environnementales. Ce contexte incite les producteurs kenyans à réduire leur dépendance historique vis-à-vis de l’#Europe et en particulier des #Pays-Bas en misant sur de nouvelles modalités de mise en marché et en diversifiant leurs débouchés commerciaux.

    https://journals.openedition.org/belgeo/54897

    #rose #fleur #Kenya #mondialisation #globalisation #ressources_pédagogiques #éthique #commerce

    • Une lecture géographique du voyage de la rose kenyane : de l’éclatement de la chaîne d’approvisionnement aux innovations logistiques

      La #rosiculture et sa #commercialisation à l’échelle internationale stimulent l’#innovation_logistique et révèlent des #interdépendances anciennes entre #floriculture, #transport et #logistique. L’objectif de cet article est de montrer, à travers la chaîne d’approvisionnement de la rose coupée commercialisée en Europe, que les exigences de la filière induisent des bouleversements et des innovations dans la chaîne logistique associée. Celles-ci ont un caractère profondément spatial qui justifie une analyse géographique de l’évolution de la chaîne d’approvisionnement : les imbrications entre floriculture et logistique produisent des effets de proximité puis de distance, de changement d’échelle, mais également des effets de concentration spatiale, de géophagie, de fluidité, ou encore d’imperméabilité. Ces recompositions spatiales se lisent à la fois à l’échelle de la chaîne d’approvisionnement dans son intégralité, des serres aux marchés de consommation, qu’à celle des lieux, des nœuds qui la composent : le pack house à la ferme, l’#aéroport Jomo Kenyatta de Nairobi ou encore le complexe logistique articulé entre l’aéroport d’#Amsterdam-Schiphol et les enchères de #Royal_Flora_Holland à Aalsmeer.

      https://journals.openedition.org/belgeo/54992

  • Grano : una guerra globale

    Secondo molti osservatori internazionali, la guerra in corso in Ucraina si esprimerebbe non solo mediante l’uso dell’artiglieria pesante e di milizie ufficiali o clandestine, responsabili di migliaia di morti, stupri e deportazioni. Esisterebbero, infatti, anche altri campi sui quali il conflitto, da tempo, si sarebbe spostato e che ne presuppongono un allargamento a livello globale. Uno di questi ha mandato in fibrillazione gli equilibri mondiali, con effetti diretti sulle economie di numerosi paesi e sulla vita, a volte sulla sopravvivenza, di milioni di persone. Si tratta della cosiddetta “battaglia globale del grano”, i cui effetti sono evidenti, anche in Occidente, con riferimento all’aumento dei prezzi di beni essenziali come il pane, la pasta o la farina, a cui si aggiungono quelli dei carburanti, oli vari, energia elettrica e legno.
    La questione del grano negli Stati Uniti: il pericolo di generare un tifone sociale

    Negli Stati Uniti, ad esempio, il prezzo del grano tenero, dal 24 febbraio del 2022, ossia dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al Chicago Mercantile Exchange, uno dei maggiori mercati di riferimento per i contratti cerealicoli mondiali, è passato da 275 euro a tonnellata ai circa 400 euro dell’aprile scorso. Un aumento esponenziale che ha mandato in tensione non solo il sistema produttivo e distributivo globale, ma anche molti governi, legittimamente preoccupati per le conseguenze che tali aumenti potrebbero comportare sulle loro finanze e sulla popolazione. In epoca di globalizzazione, infatti, l’aumento del prezzo del grano tenero negli Stati Uniti potrebbe generare un “tifone sociale”, ad esempio, in Medio Oriente, in Africa, in Asia e anche in Europa. I relativi indici di volatilità, infatti, sono ai massimi storici, rendendo difficili previsioni di sviluppo che si fondano, invece, sulla prevedibilità dei mercati e non sulla loro instabilità. Queste fibrillazioni, peraltro, seguono, in modo pedissequo, le notizie che derivano dal fronte ucraino. Ciò significa che i mercati guardano non solo agli andamenti macroeconomici o agli indici di produzione e stoccaggio, ma anche a quelli derivanti direttamente dal fronte bellico e dalle conseguenze che esso determinerebbe sugli equilibri geopolitici globali.
    I processi inflattivi e la produzione di grano

    Anche secondo la Fao, per via dell’inflazione che ha colpito la produzione di cereali e oli vegetali, l’indice alimentare dei prezzi avrebbe raggiunto il livello più alto dal 1990, ossia dall’anno della sua creazione.

    Le origini della corsa a questo pericoloso rialzo sono molteplici e non tutte direttamente riconducibili, a ben guardare, alla sola crisi di produzione e distribuzione derivante dalla guerra in Ucraina. I mercati non sono strutture lineari, dal pensiero algoritmico neutrale. Al contrario, essi rispondono ad una serie molto ampia di variabili, anche incidentali, alcune delle quali derivano direttamente dalle ambizioni e dalle strategie di profitto di diversi speculatori finanziari. I dati possono chiarire i termini di questa riflessione.

    Il Pianeta, nel corso degli ultimi anni, ha prodotto tra 780 e 800 milioni di tonnellate di grano. Una cifra nettamente superiore rispetto ai 600 milioni di tonnellate prodotte nel 2000. Ciò si deve, in primis, alla crescita demografica mondiale e poi all’entrata di alcuni paesi asiatici e africani nel gotha del capitalismo globale e, conseguentemente, nel sistema produttivistico e consumistico generale. Se questo per un verso ha sollevato gran parte della popolazione di quei paesi dalla fame e dalla miseria, ha nel contempo determinato un impegno produttivo, in alcuni casi monocolturale, che ha avuto conseguenze dirette sul piano ambientale, sociale e politico.
    Il grano e l’Africa

    L’area dell’Africa centrale, ad esempio, ha visto aumentare la produzione agricola in alcuni casi anche del 70%. Eppure, nel contempo, si è registrato un aumento di circa il 30% di malnutrizione nella sua popolazione. Ciò è dovuto ad un’azione produttiva privata, incentivata da fondi finanziari internazionali e governativi, che ha aumentato la produzione senza redistribuzione. Questa produzione d’eccedenza è andata a vantaggio dei fondi speculativi, dell’agrobusiness o è risultata utile per la produzione occidentale, ma non ha sfamato la popolazione locale, in particolare di quella tradizionalmente esposta alla malnutrizione e alla fame. Un esempio emblematico riguarda l’Etiopia e i suoi 5 milioni circa di cittadini malnutriti. Questo paese dipende ormai interamente dagli aiuti alimentari e umanitari. Allo stesso tempo, migliaia di tonnellate di grano e di riso etiope sono esportate ogni anno in Arabia Saudita per via del land grabbing e degli accordi economici e finanziari sottoscritti. In Sudan si registra il medesimo fenomeno. Il locale governo ha infatti ceduto 1,5 milioni di ettari di terra di prima qualità agli Stati del Golfo, all’Egitto e alla Corea del Sud per 99 anni, mentre risulta contemporaneamente il paese al mondo che riceve la maggiore quantità di aiuti alimentari, con 6 milioni di suoi cittadini che dipendono dalla distribuzione di cibo. Basterebbe controllare i piani di volo degli aeroporti di questi paesi per rendersi conto di quanti aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Come ha affermato l’ex direttore dell’ILC (International Land Coalition), Madiodio Niasse: «La mancanza di trasparenza rappresenta un notevole ostacolo all’attuazione di un sistema di controllo e implementazione delle decisioni riguardo alla terra e agli investimenti ad essa inerenti».

    L’Angola ha varato un piano di investimenti così ambizioso da attrarre sei miliardi di dollari esteri nel solo 2013. Prima dello scoppio del conflitto civile, durato trent’anni, questo paese riusciva a nutrire tutti i suoi abitanti ed esportava caffè, banane e zucchero. Oggi, è costretto a comprare all’estero metà del cibo destinato al consumo interno, mentre solo il 10% della sua superficie arabile è utilizzata. Ciò nonostante, ha ritenuto legittimo incentivare l’accaparramento dei propri terreni agricoli da parte di multinazionali dell’agrobusiness e fondi finanziari di investimento. Ragioni analoghe guidano Khartoum a negoziare migliaia di ettari con i paesi del Golfo. Tra il 2004 e il 2009, in soli cinque paesi, Mali, Etiopia, Sudan, Ghana e Madagascar circa due milioni e mezzo di ettari coltivabili sono finiti nel portafoglio finanziario di multinazionali e dei fondi sovrani.
    Non solo Ucraina

    Quanto descritto serve per superare un’ottica monofocale che tende a concentrarsi, per ciò che riguarda il tema della terra e del grano, esclusivamente sull’Ucraina. Nello scacchiere globale della produzione e dell’approvvigionamento rientrano, infatti, numerosi paesi, molti dei quali per anni predati o raggirati mediante accordi capestro e obblighi internazionali che hanno fatto del loro territorio un grande campo coltivato per i bisogni e i consumi occidentali.
    Il ruolo della Russia

    Anche la Russia, in quest’ambito, svolge un ruolo fondamentale. Mosca, infatti, ha deciso di conservare per sé e in parte per i suoi alleati, a fini strategici, la propria produzione cerealicola, contribuendo a generare gravi fibrillazioni sui mercati finanziari di tutto il mondo. Nel 2021, ad esempio, il paese governato da Putin era il primo esportatore di grano a livello mondiale (18%), piazzandosi sopra anche agli Stati Uniti. Questa enorme quantità di grano esportato non risulta vincolata come quello occidentale, ma riconducibile al consumo interno e al bilanciamento dei relativi prezzi per il consumatore russo che in questo modo paga meno il pane o la carne rispetto ad un occidentale. Non è però tutto “rose e fiori”. Sulla Russia incidono due fattori fondamentali. In primis, le sanzioni occidentali che limitano i suoi rapporti commerciali e impediscono a numerose merci e attrezzature di entrare, almeno in modo legale, per chiudere la filiera produttiva e commerciale in modo controllato. Secondo, l’esclusione della Russia dai mercati finanziari comporta gravi conseguenze per il paese con riferimento alla situazione dei pagamenti con una tensione crescente per il sistema finanziario, bancario e del credito. Non a caso recentemente essa è stata dichiarata in default sui circa 100 milioni di dollari di obbligazioni che non è riuscita a pagare. In realtà, il default non avrà un peso straordinario almeno per due ragioni. In primo luogo perché il paese è da molto tempo economicamente, finanziariamente e politicamente emarginato. Secondo poi, il fallimento sarebbe dovuto non alla mancanza di denaro da parte della Russia, ma alla chiusura dei canali di trasferimento da parte dei creditori. A completare il quadro, c’è una strategica limitazione delle esportazioni di grano da parte ancora della Russia nei riguardi dei paesi satelliti, come ad esempio l’Armenia o la Bielorussia. Ciò indica la volontà, da parte di Putin, di rafforzare le scorte per via di un conflitto che si considera di lungo periodo.
    Il grano “bloccato”

    A caratterizzare questa “battaglie globale del grano” ci sono anche altri fattori. Da febbraio 2020, ad esempio, circa 6 milioni di tonnellate di grano ucraino sono bloccati nel porto di Mikolaiv, Odessa e Mariupol. È una quantità di grano enorme che rischia di deperire nonostante lo stato di crisi alimentare in cui versano decine di paesi, soprattutto africani. Sotto questo profilo, i paesi occidentali e vicini all’Ucraina dovrebbero trovare corridoi speciali, militarmente difesi, per consentire l’esportazione del cereale e successivamente la sua trasformazione a tutela della vita di milioni di persone. D’altra parte, sui prezzi intervengo fattori non direttamente riconducibili all’andamento della guerra ma a quelli del mercato. Ad esempio, l’aumento del costo delle derrate cerealicole si deve anche all’aumento esponenziale (20-30%) dei premi assicurativi sulle navi incaricate di trasportarlo, attualmente ferme nei porti ucraini. Su questo aspetto i governi nazionali potrebbero intervenire direttamente, calmierando i premi assicurativi, anche obtorto collo, contribuendo a calmierai i prezzi delle preziose derrate alimentati. Si consideri che molti industriali italiani del grano variamente lavorato stanno cambiando la loro bilancia di riferimento e relativi prezzi, passando ad esempio dal quintale al chilo e aumentando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).
    Le ricadute di una guerra di lungo periodo

    Una guerra di lungo periodo, come molti analisti internazionali ritengono quella in corso, obbligherà i paesi contendenti e i relativi alleati, a una profonda revisione della produzione di grano. L’Ucraina, ad esempio, avendo a disposizione circa 41,5 milioni di ettari di superficie agricola utile, attualmente in parte occupati dai carri armati russi e da un cannoneggiamento da artiglieria pesante e attività di sabotaggio, vende in genere il 74% della sua produzione cerealicola a livello globale. Non si tratta di una scelta politica occasionale ma strategica e di lungo periodo. L’Ucraina, infatti, ha visto aumentare, nel corso degli ultimi vent’anni, la sua produzione di grano e l’ esportazione. Si consideri che nel 2000, il grano ucraino destinato all’esportazione era il 60% di quello prodotto. La strategia ovviamente non è solo commerciale ma anche politica. Chi dispone del “potere del grano”, infatti, ha una leva fondamentale sulla popolazione dei paesi che importano questo prodotto, sul relativo sistema di trasformazione e commerciale e sull’intera filiera di prodotti derivati, come l’allevamento. Ed è proprio su questa filiera che ora fa leva la Russia, tentando di generare fibrillazioni sui mercati, azioni speculative e tensioni sociali per tentare di allentare il sostegno occidentale o internazionale dato all’Ucraina e la morsa, nel contempo, delle sanzioni.

    Esiste qualche alternativa alla morsa russa su campi agricoli ucraini? Il terreno ucraino seminato a grano e risparmiato dalla devastazione militare russa, soprattutto lungo la linea Sud-Ovest del paese, può forse rappresentare una speranza se messo a coltura e presidiato anche militarmente. Tutto questo però deve fare i conti con altri due problemi: la carenza di carburante e la carenza di manodopera necessaria per concludere la coltivazione, mietitura e commercializzazione del grano. Su questo punto molti paesi, Italia compresa, si sono detti pronti ad intervenire fornendo a Zelensky mezzi, camion, aerei cargo e navi ove vi fosse la possibilità di usare alcuni porti. Nel frattempo, il grano sta crescendo e la paura di vederlo marcire nei magazzini o di non poterlo raccogliere nei campi resta alta. Ovviamente queste sono considerazioni fatte anche dai mercati che restano in fibrillazione. Circa il 70% dei carburanti usati in agricoltura in Ucraina, ad esempio, sono importanti da Russia e Bielorussia. Ciò significa che esiste una dipendenza energetica del paese di Zelensky dalla Russia, che deve essere superata quanto prima mediante l’intervento diretto dei paesi alleati a vantaggio dell’Ucraina. Altrimenti il rischio è di avere parte dei campi di grano ucraini pieni del prezioso cereale, ma i trattori e le mietitrici ferme perché prive di carburante, passando così dal danno globale alla beffa e alla catastrofe mondiale.

    Una catastrofe in realtà già prevista.
    Un uragano di fame

    Le Nazioni Unite, attraverso il suo Segretario generale, Antonio Guterres, già il 14 marzo scorso avevano messo in guardia il mondo contro la minaccia di un “uragano di fame” che avrebbe potuto generare conflitti e rivolte in aree già particolarmente delicate. Tra queste ultime, in particolare, il Sudan, l’Eritrea, lo Yemen, e anche il Medio Oriente.

    Gutierres ha parlato addirittura di circa 1,7 miliardi di persone che possono precipitare dalla sopravvivenza alla fame. Si tratta di circa un quinto della popolazione mondiale, con riferimento in particolare a quarantacinque paesi africani, diciotto dei quali dipendono per oltre il 50% dal grano ucraino e russo. Oltre a questi paesi, ve ne sono altri, la cui tenuta è in tensione da molti anni, che dipendono addirittura per il 100% dai due paesi in guerra. Si tratta, ad esempio, dell’Eritrea, della Mauritania, della Somalia, del Benin e della Tanzania.

    In definitiva, gli effetti di una nuova ondata di fame, che andrebbe a sommarsi alle crisi sociali, politiche, ambientali e terroristiche già in corso da molti anni, potrebbero causare il definitivo crollo di molti paesi con effetti umanitari e politici a catena devastanti.
    Il caso dell’Egitto

    Un paese particolarmente sensibile alla crisi in corso è l’Egitto, che è anche il più grande acquirente di grano al mondo con 12 milioni di tonnellate, di cui 6 acquistate direttamente dal governo di Al Si-si per soddisfare il programma di distribuzione del pane. Si tratta di un programma sociale di contenimento delle potenziali agitazioni, tensioni sociali e politiche, scontri, rivolte e migrazioni per fame che potrebbero indurre il Paese in uno stato di crisi permanente. Sarebbe, a ben osservare, un film già visto. Già con le note “Primavere arabe”, infatti, generate dal crollo della capacità di reperimento del grano nei mercati globali a causa dei mutamenti climatici che investirono direttamente le grandi economie del mondo e in particolare la Cina, Argentina, Russia e Australia, scoppiarono rivolte proprio in Egitto (e in Siria), represse nel sangue. L’Egitto, inoltre, dipende per il 61% dalla Russia e per il 23% dall’Ucraina per ciò che riguarda l’importazione del grano. Dunque, questi due soli paesi fanno insieme l’84% del grano importato dal paese dei faraoni. Nel contempo, l’Egitto fonda la sua bilancia dei pagamenti su un prezzo del prezioso cereale concordato a circa 255 dollari a tonnellata. L’aumento del prezzo sui mercati globali ha già obbligato l’Egitto ad annullare due contratti sottoscritti con la Russia, contribuendo a far salire la tensione della sua popolazione, considerando che i due terzi circa dei 103 milioni di egiziani si nutre in via quasi esclusiva di pane (chiamato aish, ossia “vita”). Secondo le dichiarazioni del governo egiziano, le riserve di grano saranno sufficienti per soddisfare i relativi bisogni per tutta l’estate in corso. Resta però una domanda: che cosa accadrà, considerando che la guerra in Ucraina è destinata ad essere ancora lunga, quando le scorte saranno terminate?

    Anche il Libano e vari altri paesi si trovano nella medesima situazione. Il paese dei cedri dipende per il 51% dal grano dalla Russia e dall’Ucraina. La Turchia di Erdogan, invece, dipende per il 100% dal grano dai due paesi coinvolti nel conflitto. Ovviamente tensioni sociali in Turchia potrebbero non solo essere pericolose per il regime di Erdogan, ma per la sua intera area di influenza, ormai allargatasi alla Libia, Siria, al Medio Oriente, ad alcuni paesi africani e soprattutto all’Europa che ha fatto di essa la porta di accesso “sbarrata” dei profughi in fuga dai loro paesi di origine.
    Anche l’Europa coinvolta nella guerra del grano

    Sono numerosi, dunque, i paesi che stanno cercando nuovi produttori di cereali cui fare riferimento. Tra le aree alle quali molti stanno guardando c’è proprio l’Unione europea che, non a caso, il 21 marzo scorso, ha deciso di derogare temporaneamente a una delle disposizioni della Pac (Politica Agricola Comune) che prevedeva di mettere a riposo il 4% dei terreni agricoli. Ovviamente, questa decisione è in funzione produttivistica e inseribile in uno scacchiere geopolitico mondiale di straordinaria delicatezza. Il problema di questa azione di messa a coltura di terreni che dovevano restare a riposo, mette in luce una delle contraddizioni più gravi della stessa Pac. Per anni, infatti, sono stati messi a riposo, o fatti risultare tali, terreni non coltivabili. In questo modo venivano messi a coltura terreni produttivi e fatti risultare a riposo quelli non produttivi. Ora, la deroga a questa azione non può produrre grandi vantaggi, in ragione del fatto che i terreni coltivabili in deroga restano non coltivabili di fatto e dunque poco o per nulla incideranno sull’aumento di produzione del grano. Se il conflitto ucraino dovesse continuare e l’Europa mancare l’obiettivo di aumentare la propria produzione di grano per calmierare i prezzi interni e nel contempo soddisfare parte della domanda a livello mondiale, si potrebbe decidere di diminuire le proprie esportazioni per aumentare le scorte. Le conseguenze sarebbero, in questo caso, dirette su molti paesi che storicamente acquistano grano europeo. Tra questi, in particolare, il Marocco e l’Algeria. Quest’ultimo paese, ad esempio, consuma ogni anno circa 11 milioni di tonnellate di grano, di cui il 60% importato direttamente dalla Francia. A causa delle tensioni politiche che nel corso degli ultimi tre anni si sono sviluppate tra Algeria e Francia, il paese Nord-africano ha cercato altre fonti di approvvigionamento, individuandole nell’Ucraina e nella Russia. Una scelta poco oculata, peraltro effettuata abbassando gli standard di qualità del grano, inferiori rispetto a quello francese.
    L’India può fare la differenza?

    Un nuovo attore mondiale sta però facendo il suo ingresso in modo prepotente. Si tratta dell’India, un paese che da solo produce il 14% circa del grano mondiale, ossia circa 90 milioni di tonnellate di grano. Questi numeri consentono al subcontinente indiano di piazzarsi al secondo posto come produttore mondiale dopo la Cina, che ne produce invece 130 milioni. L’India del Presidente Modhi ha usato gran parte della sua produzione per il mercato interno, anch’esso particolarmente sensibile alle oscillazione dei prezzi del bene essenziale. Nel contempo, grazie a una produzione che, secondo Nuova Delhi e la Fao, è superiore alle attese, sta pensando di vendere grano a prezzi vantaggiosi sul mercato globale. Sotto questo profilo già alcuni paesi hanno mostrato interesse. Tra questi, ad esempio, Iran, Indonesia, Tunisia e Nigeria. Anche l’Egitto ha iniziato ad acquistare grano dall’India, nonostante non sia di eccellente qualità per via dell’uso intensivo di pesticidi. Il protagonismo dell’India in questa direzione, ha fatto alzare la tensione con gli Stati Uniti. I membri del Congresso statunitense, infatti, hanno più volte sollevato interrogativi e critiche rispetto alle pratiche di sostegno economico, lesive, a loro dire, della libera concorrenza internazionale, che Nuova Delhi riconosce da anni ai suoi agricoltori, tanto da aver chiesto l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc). Insomma, le tensioni determinate dal conflitto in corso si intersecano e toccano aspetti e interessi plurimi, e tutti di straordinaria rilevanza per la tenuta degli equilibri politici e sociali globali.

    https://www.leurispes.it/grano-una-guerra-globale

    #blé #prix #Ukraine #Russie #guerre_en_Ukraine #guerre_globale_du_blé #produits_essentiels #ressources_pédagogiques #Etats-Unis #USA #Inde #instabilité #marché #inflation #céréales #indice_alimentaire #spéculation #globalisation #mondialisation #production #Afrique #production_agricole #malnutrition #excédent #industrie_agro-alimentaire #agrobusiness #faim #famine #Ethiopie #Arabie_Saoudite #land_grabbing #accaparemment_des_terres #Soudan #Egypte #Corée_du_Sud #exportation #aide_alimentaire #Angola #alimentation #multinationales #pays_du_Golfe #Mali #Madagascar #Ghana #fonds_souverains #sanctions #marchés_financiers #ports #Odessa #Mikolaiv #Mariupol #assurance #élevage #sanctions #dépendance_énergétique #énergie #ouragan_de_faim #dépendance #Turquie #Liban #pac #politique_agricole_commune #EU #UE #Europe #France #Maroc #Algérie

  • La (re)localisation du monde

    Et si le monde d’après-Covid était en gestation depuis plusieurs années déjà ? Si le phénomène actuel de #relocalisation ne datait pas de mars 2020, mais plutôt des années 2010 ? C’est la thèse de cet essai original et accessible, qui décrit le monde qui vient et ses acteurs, en s’appuyant sur une riche infographie et cartographie.

    Car notre monde globalisé est en train de s’éteindre au profit d’un monde localisé, suscité par trois révolutions. La première est industrielle : la robotique et le numérique sont entrés dans nos usines, les rendant capables de produire à la demande et à des coûts similaires à ceux des pays émergents. La deuxième est énergétique : l’essor exponentiel des renouvelables multiplie les sources locales d’énergie. La troisième concerne les #ressources : de plus en plus réemployées, elles offrent des matières premières de #proximité.

    Ce monde plus durable, fondé sur des grandes aires de production régionales, redessine les rapports de force économiques et géopolitiques, faisant apparaître de nouveaux maîtres du jeu. En se basant sur des données économiques internationales et de nombreux entretiens, Cyrille P. Coutansais rend compte de cette fascinante mutation de nos #systèmes_productifs, de nos #modes_de_vie et de #consommation.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=35&v=kINvJ2i9j7E&feature=emb_logo

    https://www.cnrseditions.fr/catalogue/relations-internationales/la-relocalisation-du-monde

    #relocalisation #globalisation #mondialisation
    #livre #géographie #ressources_pédagogiques

  • Nous pouvons (et devons) stopper la crise sur les marchés internationaux – Fondation FARM
    https://fondation-farm.org/crise-alimentaire-securite-mondiale

    Bien sûr, la guerre en Ukraine n’a rien arrangé. Cette région du monde (Ukraine + Russie) produit une part significative du blé et du maïs exporté sur les marchés internationaux (environ 20%) et il en est de même pour les huiles végétales (notamment celle de tournesol) et pour les engrais azotés. Pour l’instant, ce n’est pas tant la production qui est compromise que les exportations (qui se faisaient traditionnellement par les ports de la mer Noire).
    Mais l’essentiel de la hausse des prix s’est produit avant la guerre en Ukraine. Et il ne s’agit pas là d’un détail. Car si les prix alimentaires, notamment ceux du maïs, du blé et des huiles végétales, ont fortement augmenté depuis la mi-2020, c’est parce qu’ils ont été entraînés à la hausse par le prix des énergies fossiles (pétrole et gaz naturel). Ce qui est en cause, c’est donc notre modèle de production agricole basé sur l’utilisation intense de ces énergies : intrants chimiques (notamment les engrais azotés fabriqués avec du gaz naturel), mécanisation, transport à grande distance. Ce qui est en cause, c’est surtout notre utilisation massive de produits alimentaires pour fabriquer du carburant, surtout aux Etats-Unis (maïs) et dans l’Union européenne (colza). Une utilisation qui lie très fortement le prix des céréales (maïs et blé) et des huiles végétales aux prix des énergies fossiles.
    Alors bien sûr la guerre en Ukraine a prolongé et amplifié la crise mais lui en attribuer l’entière responsabilité est factuellement inexact. Nous (Européens et Américains du nord) avons aussi notre (grande) part de responsabilité et il nous revient de l’assumer.

    #marchés_céréales #crise_ukraine #biocarburant

  • « Personne ne veut vraiment que les entreprises soient responsables »

    Pourquoi les #tribunaux_internationaux ont été si impuissants à poursuivre les #hommes_d'affaires ? Pourquoi le #droit_international a protégé les entreprises de toute responsabilité dans les #crimes_internationaux ? Poursuivre un #PDG serait-il assez subversif ou ne serait-ce qu’un changement cosmétique ? Et si le droit international avait en fait entravé les efforts nationaux pour tenir les entreprises responsables ? Avec audace, les professeurs de droit #Joanna_Kyriakakis et #Mark_Drumbl tentent d’analyser pourquoi si peu a été accompli sur la responsabilité des acteurs économiques.


    https://www.justiceinfo.net/fr/93596-personne-veut-vraiment-entreprises-responsables.html
    #globalisation #responsabilité #mondialisation #entreprises #impunité #justice #justice_internationale