• Reportage « On essaie juste d’offrir un avenir à nos enfants » : des civils fuyant le #Liban prennent le risque de rentrer illégalement en #Syrie

    Plusieurs centaines de millier de civils rejoignent la Syrie et prennent le risque de rentrer parfois illégalement dans la zone contrôlée par le régime de Bachar el Assad. Franceinfo s’est rendu avec un passeur et des civils syriens sur l’une de ces routes interdites.

    Le nombre de déplacés explose au Liban alors que la #guerre se poursuit entre le Hezbollah et l’armée israélienne. Ils seraient 1 300 000 à avoir quitté le sud du pays ou la banlieue sud de Beyrouth. Plusieurs centaines de milliers de civils libanais rejoignent même la Syrie en rentrant parfois illégalement dans la zone contrôlée par le régime de Bachar el-Assad.

    Sur des #montagnes rocailleuses près de la ville de #Masnaa, des dizaines de familles tentent ainsi de rejoindre la Syrie illégalement, à pied, sans aucun bagage à la main. Nader est parti avec ses petites filles. Il y a quelques jours leur maison de la banlieue sud de Beyrouth a été entièrement détruite. « Cela fait 13 ans que je n’ai pas revu la Syrie, raconte Nader. Ici les passeurs se battent pour nous avoir, ils ne demandent que dix dollars par tête. Nous, on essaie juste d’offrir un avenir à nos enfants. »

    Il y a quelques minutes, l’armée israélienne a annoncé qu’elle bombarderait le point de passage, accusant le Hezbollah d’y faire transiter des armes. Un passeur nous confie avoir baissé ses tarifs pour franchir la frontière. Avant la guerre, la traversée coûtait 150 dollars, et chaque jour 80 personnes empruntaient ces routes interdites. Aujourd’hui, ils seraient plus d’un millier par jour.

    « Je n’ai pas vu la Syrie depuis 25 ans, je suis terrifié »

    Ali marche en queue de file, il est originaire de Deir Ezzor, en Syrie. « Je viens du sud, je n’ai pris avec moi que les habits que je porte, explique-t-il. Je n’ai pas vu la Syrie depuis 25 ans, je suis terrifié. Je n’ai jamais connu mon pays en guerre. » La plupart de ces réfugiés sont sans papiers, d’après les passeurs, un tiers d’entre eux sont recherchés par le régime de Bachar el Assad, et risquent la mort si l’armée les arrête de l’autre côté. Depuis plusieurs jours, l’armée libanaise laisse passer les réfugiés sans tenter de les arrêter.

    Mohammad, un jeune agriculteur syrien de la région, pourrait lui aussi s’en aller. Fuir les bombardements israéliens qui frappent sa région de la Bekaa. Il a pourtant choisi de rester. « Je ne peux pas revenir car je n’ai pas fait mon service militaire en Syrie, on pourrait m’y prendre pour 10 ou 15 ans, explique Mohammad. Malgré la guerre au Liban, plein de jeunes comme moi ne peuvent pas retourner en Syrie. Et puis là-bas il y a encore la #guerre, il n’y a plus de travail pour vivre, rien du tout… On ne sait pas ce qu’il peut nous arriver. »

    On estime à 300 000 le nombre de personnes déplacées en Syrie. Des Libanais, mais aussi des Syriens qui ne savent pas ce qui les attendra de l’autre côté. Vendredi matin, l’armée israélienne a finalement bombardé le passage de Masnaa. Ces civils en fuite n’échappent jamais vraiment au spectre de la guerre.

    https://www.francetvinfo.fr/monde/proche-orient/liban/reportage-on-essaie-juste-d-offrir-un-avenir-a-nos-enfants-des-civils-f
    #réfugiés #réfugiés_Syriens #migrations #retour_au_pays #montagne #bombardements #Israël #passeurs #déplacés_internes

    –—

    Ajouté à la métaliste sur le #retour_au_pays / #expulsions de #réfugiés_syriens...
    https://seenthis.net/messages/904710

  • Il dialogo spezzato tra i ghiacciai alpini e il clima. E chi fa finta di non accorgersene

    I ghiacciai al di sotto dei 3.500 metri sono oggi immersi in un clima che è incompatibile con la loro esistenza. Non essendo più capaci di conservare la neve registrano inevitabilmente bilanci negativi, avviandosi all’estinzione. Quale patrimonio si disperde e che cosa, invece, si può ancora salvare. Intervista a Giovanni Baccolo, divulgatore e ricercatore di Glaciologia e scienze della Terra negli ambienti freddi

    Ogni anno tra fine agosto e inizio settembre è il momento naturale in cui determinare lo stato di salute dei ghiacciai. “È alla fine dell’estate che si fanno i rilievi per determinare la fusione e l’arretramento dei ghiacciai, per comprendere quanto è stata negativa l’annata”, racconta Giovanni Baccolo, ricercatore che si occupa di Glaciologia e scienze della Terra negli ambienti freddi presso l’Università degli Studi di Roma Tre, divulgatore sul blog Storie minerali e autore del libro “I ghiacciai raccontano”, pubblicato da People in collaborazione con L’Altramontagna, il quotidiano online che approfondisce i temi ambientali e sociali delle Terre alte.

    Questo, racconta Baccolo, è quel momento dell’anno in cui i ghiacciai ottengono la maggiore visibilità, anche grazie alla Carovana dei ghiacciai, promossa da Legambiente insieme al Comitato glaciologico italiano, di cui il ricercatore fa parte. Nel 2024, ad esempio, la Carovana ha certificato l’estinzione del ghiacciaio di Flua, sul Monte Rosa, e preconizzato che quello della Marmolada non esisterà più nel 2040.

    Baccolo, oggi dice “quanto è stata negativa l’annata”, ma fino a cinquant’anni fa non era così, vero?
    GB Il 2001 è stato l’ultimo periodo in cui c’è stato, per i ghiacciai alpini, quelli che interessano più da vicino il nostro Paese, un leggerissimo bilancio positivo. Prima di allora, lo stesso era successo in una manciata di annate, nel corso degli anni Settanta del secolo scorso. Dal 2001, però, è assolutamente sicuro che il bilancio sarà negativo. L’unica speranza che nutriamo, da glaciologi, è che i dati lo siano il meno possibile.

    Nel libro scrive che i ghiacciai alpini “sono oggi immersi in un clima che è incompatibile con la loro esistenza”.
    GB È così, per fortuna ancora non riguarda tutti i ghiacciai dell’arco alpino, ma solo quelli al di sotto dei 3.500 metri sul livello del mare. Ed è questo il motivo per cui è ancora possibile, in alcuni casi, avere dei bilanci positivi o neutri. Il tema reale, emerso, è che non c’è più un dialogo costruttivo tra i ghiacciai e il clima, per cui quelli al di sotto dei 3.500 metri non sono più capaci di conservare la neve e inevitabilmente hanno bilanci negativi, non producendo nuovo ghiaccio. Questo significa che un ghiacciaio scompare lentamente e anche che esiste solo per inerzia, perché dal punto di vista climatico non dovrebbe più esistere.

    Eccoci allora di fronte, come scrive nel libro, alla scomparsa di un ecosistema naturale.
    GB Quando ci allarmiamo per le notizie legate alla deforestazione, a causa dell’aumento delle superfici coltivate, che sconvolgono ecosistemi e ambienti naturali, non teniamo in considerazione che questi episodi riguardano solo una frazione di quell’ecosistema. Per i ghiacciai, invece, non è così, perché li stiamo perdendo integralmente. E i ghiacciai non sono solo ammassi di ghiaccio ma rappresentano un habitat ancora poco studiato e poco conosciuto, che sta scomparendo in toto proprio mentre stiamo imparando a conoscerlo.

    Questa conoscenza, spiega il tuo libro, è anche una delle fotografie più accurate del clima passato. Per quale motivo?
    GB I ghiacciai, per come si formano, sono in grado di raccogliere e accumulare e conservare un sacco di informazioni metereologiche e climatiche, ma non solo. Gli strati di ghiaccio, grazie a segnali di tipo fisico e chimico, ci offrono informazioni su quanto avvenuto in passato. Oggi conosciamo il sistema climatico meglio di alcuni decenni fa e molte informazioni sono arrivate dai ghiacciai, in particolare da quelli polari che ci hanno permesso di studiare le cose andando più indietro nel tempo, avendo cumulato neve per millenni. Le carote di ghiaccio, racconto, permettono veri e propri viaggi nel tempo. Anche i ghiacciai alpini, però, sono importanti, perché trattengono storie locali, magari più circoscritte nel tempo ma dettagliate: ad esempio, abbiamo potuto ricostruire la storia dell’inquinamento atmosferico in Europa negli ultimi secoli e le variazioni del clima negli ultimi millenni e anche l’impatto delle attività umane sulla chimica del ghiaccio.

    Alcuni capitoli del libro sono dedicati ad Antartide, Artico e Groenlandia, per certi versi i veri osservati speciali quando si temono gli effetti più negativi della fusione dei ghiacciai.
    GB Per motivi geografici, riceviamo notizie relative ai ghiacciai alpini, anche grazie a iniziative come la Carovana: anche se per noi addetti ai lavori è scontato che arrivino questi dati così negativi, il lavoro di divulgazione è fondamentale. Senz’altro, però, il ritiro dei ghiacciai alpini, un glacialismo limitato, produce effetti localizzati, relativi a problemi di disponibilità idrica o di riempimento degli invasi, per la tenuta di singoli versanti. Quando si parla di Groenlandia o di Antartide occidentale, il riferimento è ad altri ordini di grandezza: in questo caso, il cambiamento climatico produce trasformazioni che hanno impatti globali, come l’innalzamento del livello del mare, che è guidato dal ritiro dei ghiacciai polari. La sola scomparsa dalla calotta antartica occidentale porterebbe a un innalzamento di cinque metri delle acque. Ci sono, cioè, centinaia di milioni di persone il cui futuro dipende da come si comporteranno questi giganteschi ghiacciai nei prossimi decenni, per questo è fondamentale limitare l’aumento delle temperature.

    Stiamo affrontando stagioni molto siccitose. Perché la fusione dei ghiacciai non è una risposta possibile e sensata alla carenza d’acqua?
    GB Quando i ghiacciai si ritirano in modo vistoso, come negli ultimi anni, ovviamente ci troviamo con una disponibilità maggiore di acqua glaciale e questo potrebbe oscurare problemi di siccità o scarsità di neve. Si tratta però di un tampone temporaneo, che sfrutta riserve che hanno occupato secoli e millenni per formarsi. Quell’acqua non tornerà più, non è una risorsa rinnovabile. Se tutto andasse in modo naturale, invece, lo sarebbe. A causa del nostro intervento, però, quell’elemento sta andando perduto completamente. Quello che accade sull’arco alpino è molto indicativo: se cade pioggia, se ne va molto più velocemente; se cade neve, si trasforma in ghiaccio ed è una riserva molto più disponibile, che viene rilasciata in estate, quando c’è un problema effettivo ed è un effetto tampone che sta andando completamente perduto.

    Ad amplificare questa dinamica, anche il fatto che gli ambienti molto freddi sono più esposti di quelli “temperati” al riscaldamento globale.
    GB Una caratteristica degli ambienti che ospitano ghiacciai è quella di essere molto più sensibile, a parità di perturbazione sul clima, all’aumento delle temperature, che è più alto rispetto alla media globale. Questo vale sulle Alpi e anche nell’Artico, un contesto che presenta determinate caratteristiche, ad esempio la maggior importanza del ghiaccio marino rispetto a quello terrestre, che caratterizza l’Antartide. Dove oggi esistono ghiacciai, i cambiamenti possono essere amplificati.

    Eppure c’è chi ancora nega i riflessi dei cambiamenti climatici sui ghiacciai, come il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini che lo scorso anno nel corso di un comizio si espresse così: “Io adoro la montagna. E quando vai sull’Adamello e sul Tonale e vedi i ghiacciai che si ritirano anno dopo anno ti fermi a pensare, poi studi la storia e vedi che sono cicli”. Perché, a tuo avviso, accade?
    GB Da una parte agisce la propensione a non credere al mondo scientifico e a quello che da decenni ci segnala, dinamiche che nelle singole persone può dipendere dalla difficoltà di accettare un cambiamento così importante, ma anche pigrizia, perché per contrastare questa situazione e attuare uno stile di vita più sostenibile dobbiamo fare sacrifici, rinunce e mettere in discussione un certo stile di vita. C’è poi un negazionismo che fa breccia nel mondo politico o dirigenziale, guidato dagli interessi economici che stanno dietro alla transizione energetica, all’esigenza di un ripensamento del sistema economico globale. Dal punto di vista elettorale, poi, i cittadini sono più contenti quando si sentono dire dai politici che va tutto bene e che non c’è bisogno di trasformazioni.

    https://altreconomia.it/il-dialogo-spezzato-tra-i-ghiacciai-alpini-e-il-clima-e-chi-fa-finta-di
    #glaciers #montagne #Alpes #disparition #climat #changement_climatique #extinction #Giovanni_Baccolo

    • I GHIACCIAI RACCONTANO

      Siamo abituati a ricevere, al termine dell’estate, tristi notizie che arrivano dal mondo dei ghiacciai. Ritiri, crolli, scomparse. Non c’è da sorprendersi: su una Terra sempre più calda a causa della nostra influenza sul clima, lo spazio destinato ai ghiacciai è inesorabilmente destinato a ridursi. Negli ultimi anni abbiamo imparato a identificarli come vittime iconiche del cambiamento climatico, spesso dimentichiamo però che i ghiacciai sanno fare molto di più che fondere, arretrare e scomparire. Non sono soltanto un affascinante fenomeno che impreziosisce i paesaggi montani: ogni ghiacciaio è un piccolo mondo che comunica con l’ambiente in cui è immerso. Raccontare alcune delle storie custodite al suo interno è il fine di queste pagine. Perché per comprendere la portata dell’epocale cambiamento provocato dal nostro impatto sul clima, è bene conoscere quanto stiamo perdendo, insieme al ghiaccio che fonde. Vittima, strumento di conoscenza e fonte di impatto. I ghiacciai sono il simbolo più completo del cambiamento climatico, il simbolo eccellente.

      «Fino a qualche decennio fa, le oscillazioni dei ghiacciai danzavano insieme alla naturale variabilità climatica del pianeta. Come in un valzer, uno andava dietro all’altro e, come succede con le coppie più affiatate, non era facile capire chi stesse guidando i movimenti. Oggi l’armonia è però rotta. Il clima conduce una marcia forzata che ha per meta un luogo poco adatto per l’esistenza dei ghiacciai.»

      https://www.peoplepub.it/pagina-prodotto/i-ghiacciai-raccontano
      #livre

  • 06.09.2024 V Kolpi je med nedovoljenim prečkanjem državne meje utonil 23-letnik
    –-> traduction automatique :
    A 23-year-old man drowned in #Kolpa while illegally crossing the state border

    Pri prečkanju reke Kolpe na območju Vukovcev je v petek zvečer utonil 23-letni državljan Maroka. Skupaj s še tremi tujci so poskušali prečkati reko in vstopiti v državo. Moškemu so na pomoč priskočili domačini in poklicali reševalce, a je vseeno umrl.

    Da naj bi se v reki Kolpi na območju Vukovcev utopil moški, so policiste obvestili v petek nekaj pred 19. uro, so danes sporočili s Policijske uprave Novo mesto.

    Policisti so ugotovili, da je skupina štirih tujcev na tem območju s prečkanjem reke poskušala nedovoljeno prestopiti državno mejo. Dva tujca sta se zaradi globine reke vrnila na hrvaško stran. Eden od dveh, ki sta pot nadaljevala, se je začel utapljati, drugi je klical na pomoč domačine. Ti so se takoj odzvali, moškega potegnili iz vode in ga oživljali do prihoda reševalcev. Kljub pomoči je 23-letnik umrl.

    Zdravnica je za pokojnega odredila sanitarno obdukcijo, na podlagi katere bo ugotovljen vzrok smrti. Policisti še ugotavljajo vse okoliščine in bodo z ugotovitvami seznanili pristojno tožilstvo.

    https://www.rtvslo.si/crna-kronika/v-kolpi-je-med-nedovoljenim-preckanjem-drzavne-meje-utonil-23-letnik/720488

    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #Slovénie #Croatie #Kupa #Kolpa #frontière_sud-alpine #montagne #Alpes

    –-

    ajouté à la métaliste sur les morts à la frontière entre la Croatie et la Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/811660

  • #Rojava. Bâtir une #utopie en plein chaos (octobre 2021)
    (pour archivage)

    l y a trois ans, j’ai rédigé un reportage à mon retour du Nord-Est de la Syrie pour le numéro d’octobre 2021 de Philosophie Magazine. Il est désormais en accès libre, je me permets donc de le reproduire ici.

    –-

    Aujourd’hui même, dans la région autonome du Rojava, au nord-est de la #Syrie, des rebelles kurdes tentent de mettre en pratique les principes du « confédéralisme démocratique » inspiré par le philosophe américain #Murray_Bookchin et de vivre selon des principes à la fois féministes, écologiques et libertaires. Un pari aussi courageux qu’improbable raconté par Corinne Morel Darleux, qui s’est rendue sur place.

    Il est 19h sur la « Colline de la chouette », près de la ville de #Dirbesiyê, dans le nord de la Syrie. Nous sommes arrivées il y a peu au village de #femmes de #Jinwar. Après le traditionnel thé, le chai kurde, les hommes qui nous accompagnaient sont repartis : la nuit, le village n’est peuplé que de femmes. Une fois nos affaires posées dans la maison des invitées, nous sommes embarquées avec force gestes amicaux par trois villageoises pour une mystérieuse cueillette. Après quelques kilomètres d’une route désertique et cahoteuse, traversée seulement par quelques pâtres et leurs troupeaux, nous nous arrêtons dans un paysage ondulé, teinté d’ocre et parsemé de quelques touffes vertes. Après une dizaine de minutes, la Jeep qui nous suivait s’arrête à son tour sur le bord de la route. Trois fillettes en jaillissent, suivies de quatre garçons et de sept femmes dont on peine à imaginer comment toutes ont pu tenir dans le véhicule. Grands sourires, queues-de-cheval et sandales roses, les gamines courent en tête, font le V de la victoire et se chahutent en grimpant sur la colline.

    Le village de Jinwar a été créé en 2017. Il est un symbole de la révolution des femmes en cours dans les territoires autonomes du nord-est de la Syrie. La bourgade comprend une vingtaine de foyers et autant d’enfants, âgés de 4 à 19 ans. Zozan, qui nous le présente à notre arrivée, le décrit comme « un sas et un lieu de construction et de projection, de formation et d’apprentissage ». On y accueille des femmes, veuves de guerre, mariées de force, répudiées, divorcées ou simplement célibataires qui ont choisi de ne pas se marier. Malgré les avancées considérables en cours concernant l’émancipation des femmes, les logiques patriarcales restent vivaces et la pression sociale forte. Vivre « seule » – comprendre : sans homme – demeure un choix inhabituel, encore difficilement accepté. Ce qui n’empêche pas Zozan de glisser : « Quand l’homme les menace d’un “Tu vas aller où sinon ?”, maintenant, elles peuvent répliquer : “Au village de femmes !” »

    « Mon mari a été tué par une mine en 2015 à Kobane, et la famille a voulu me forcer à me remarier. » Berivan fait partie de ces femmes venues vivre au village. Suite à son refus de prendre un nouvel époux, elle a été calomniée, accusée de se prostituer et finalement contrainte de s’en aller. Elle a trouvé refuge à Jinwar où toutes les femmes, quelles que soient leurs raisons et leur passé, qu’elles soient kurdes, arabes, assyriennes, yézidies, musulmanes ou bien volontaires internationalistes, sont accueillies dans une logique d’émancipation et d’autonomisation. « Le problème le plus important est celui du nationalisme et des antagonismes créés dans la société entre les Kurdes et les Arabes du fait du régime syrien. Ici, on a réussi à dépasser ce problème et ces distinctions. » Zozan ajoute : « Une jeune femme de 16 ans est arrivée ici, elle ne savait pas parler, sa mère était sourde et muette. Maintenant, elle a appris à parler, à lire et à écrire. C’est un lieu d’“empowerment” pour les femmes. »

    « Seules les montagnes sont nos amies »

    Le soleil est bas sur l’horizon, les températures se font plus supportables en cette caniculaire fin de mois de mai. Sur la colline, les mains se tendent vers les touffes vertes éparses et en détachent de petites boules sèches qui sonnent comme des grelots. Les garçons sont préposés à la collecte dans de gros sacs de récupération. Le mystère de la cueillette s’est éclairci : nous récoltons le Peganum harmala, une plante vivace connue depuis des milliers d’années en Mésopotamie pour ses vertus médicinales. Les femmes de Jinwar en récoltent également les graines, qui servent à agrémenter les pièces d’artisanat faites au village, des assemblages de tissu, de fils de couleurs vives, de petits miroirs et de perles que l’on suspend aux murs des maisons. En plus de représenter la protection et le féminin, la rue sauvage, son nom courant, est réputée pour prémunir du mauvais œil. Or le mauvais œil, chez les Kurdes, on le connaît hélas ! depuis longtemps.

    Le village de Jinwar, créé en 2017, est un symbole de la révolution des femmes. Il comprend une vingtaine de foyers, une école et un centre de santé. © Corinne Morel Darleux

    Le traité de Sèvres, signé en 1920 à l’issue de la Première Guerre mondiale, instituait une province autonome kurde à l’est de la Turquie. Il ne fut jamais appliqué. Les populations kurdes restèrent éparpillées en Syrie, en Irak, en Iran et en Turquie. Dans ces quatre pays, elles ont été opprimées, leurs droits bafoués, l’expression et l’enseignement en langue kurde interdits. Une phrase circule depuis les années 1930 – la Syrie était alors sous mandat français : « Le Moyen-Orient ? Tout le monde tape sur tout le monde et, à la fin, tout le monde se réconcilie pour taper sur les Kurdes. » De cette histoire mouvementée, faite de répression et de résistance dans des maquis montagneux, provient sans doute le proverbe kurde qui déclare tristement : « Seules les montagnes sont nos amies. » Malheureusement, l’ironie du sort veut que le Rojava (l’« ouest » en kurde), territoire autonome du nord-est de la Syrie soit, au contraire des autres zones kurdes, une longue plaine sans relief. C’est pourtant là que se mène depuis 2013 la première expérimentation concrète de ce que le leader kurde Abdullah Öcalan a théorisé sous le nom de « confédéralisme démocratique du Kurdistan ».

    La double mue du PKK

    Le Parti des travailleurs kurdes (PKK) d’Abdullah Öcalan a d’abord été un parti marxiste-léniniste appelant à l’indépendance kurde et à la lutte armée, avant de subir une double influence qui s’avérera déterminante : celle du mouvement de libération des femmes porté par Sakine Cansız et celle de l’écologie sociale de l’essayiste américain Murray Bookchin (1921-2006). C’est ainsi que la Déclaration du confédéralisme démocratique signée d’Abdullah Öcalan en 2005 place l’écologie et le féminisme au fronton de son projet en le définissant comme un « modèle démocratique reposant sur l’écologie et la libération de la femme, et luttant contre toutes les formes d’obscurantisme ». Enfonçant le clou, Öcalan insiste : « La doctrine confédérale vise à mettre en place une société écologique et à combattre la discrimination sexuelle sur tous les fronts. »

    Sakine Cansız, assassinée à Paris en 2013, a cofondé le PKK avec Abdullah Öcalan en 1978. Au début des années 1990, elle organise en son sein un mouvement de femmes qui va lancer un vaste débat idéologique sur les structures patriarcales et bousculer le parti. Son armée de femmes installe son quartier général dans les montagnes du Qandil, au Kurdistan irakien. Là, elles s’entraînent et se forment, étudient le féminisme, l’anarchisme et le communalisme, se questionnent sur la démocratie, lisent Rosa Luxemburg et Emma Goldman, tout en bataillant contre l’armée turque qui les attaque régulièrement. Leur mouvement aura un impact considérable sur le tournant idéologique du début des années 2000 qui voit le PKK se réorienter vers la révolution des femmes, l’autonomie territoriale et le confédéralisme démocratique.

    Hîvidar, qui habite depuis quelques années à Jinwar, est l’héritière de cette histoire. Elle nous confie qu’à 45 ans, elle ne s’est jamais mariée. Ou plutôt, comme nous le souffle sa voisine en souriant, elle s’est « mariée avec la Révolution ». Originaire du Bashur, le Kurdistan irakien, elle est allée « partout, des “montagnes” [du Qandil] à la province de Batman en Turquie ». Au village de femmes, désormais, cette passionnée d’herbes médicinales travaille au centre de santé et teste le pouvoir anti-oxydant de la menthe, les mérites comparés de la sauge et du basilic noir, ainsi que des crèmes et des onguents pour les brûlures.

    Bookchin à l’épreuve du réel

    Quand le changement de doctrine du PKK est entériné, en 2005, Abdullah Öcalan est emprisonné en Turquie depuis six ans, après avoir été capturé au Kenya en 1999 par les services secrets américains et israéliens, puis jugé et condamné en Turquie pour avoir fondé et dirigé une organisation considérée comme terroriste. Le PKK est de fait encore classé comme une organisation terroriste par l’Union européenne, même si la menace con­stituée par l’organisation État islamique a changé la donne. Les Occidentaux se sont en effet alliés au mouvement kurde, en première ligne pour combattre le terrorisme djihadiste. Il reste que, durant son incarcération, Abdullah Öcalan n’est pas inactif. L’histoire veut qu’il corresponde avec Murray Bookchin, fondateur de l’écologie sociale aux États-Unis qui, déjà, fustige le « capitalisme vert », souligne l’apparition de « questions transclassistes totalement nouvelles qui concernent l’environnement, la croissance, les transports, la déglingue culturelle et la qualité de la vie urbaine en général » et alerte sur « la possibilité d’un effondrement écologique de la planète ». Après avoir activement fréquenté les milieux communistes, marxistes, trotskistes, puis anarchistes, Bookchin, nourri d’expériences du réel et de déceptions amères, a aiguisé son analyse, et sa trajectoire politique n’est pas sans évoquer celle amorcée par le PKK. En 1995, dans son ouvrage From Urbanization to Cities (« De l’urbanisation aux cités », Cassall ; non traduit), il expose son idée de « démocratie communale directe qui s’étendra graduellement sous des formes confédérales », destinée à faire advenir l’écologie sociale, et la nomme « municipalisme libertaire » (ou « communalisme »).

    Bookchin y prône aussi la mise en place d’« assemblées citoyennes directes en face à face » qui s’appuient sur une unité de base démocratique, la commune, instance autogouvernée qui réunit les habitant-es à l’échelle d’un quartier ou d’un village. Ces communes seront à leur tour fédérées en congrès de délégué-es pour ce qui ne peut être traité au niveau communal. On retrouve ces principes dans la Déclaration du confédéralisme démocratique d’Abdullah Öcalan, dix ans plus tard : « La volonté de la base sera prépondérante, et le pouvoir sera avant tout celui des assemblées municipales, de village et de quartier. » À la municipalité de Derik, le co-maire Serwan Xelîl nous expose cette organisation : « Le système que nous avons développé ici est communal, c’est-à-dire qu’il fonctionne du niveau le plus bas, celui des communes de quartier, au plus haut. Toutes les communautés peuvent y prendre part. Dans le district de Derik, il existe cent quatre communes qui élisent une assemblée du peuple composée de quarante-deux personnes. Parmi elles, onze personnes sont envoyées à la mairie à travers le “comité municipalité”. Il existe aussi d’autres comités : économie, défense, femmes, jeunes, santé, éducation, réconciliation et assistanat social. Les communes sont consultées en permanence, ce sont d’elles qu’émanent les propositions votées ensuite par l’assemblée des peuples et dont l’exécution est confiée aux municipalités. » Bookchin défend aussi le mandat impératif – qui limite l’autorité de la personne qui le porte, soumise à délibération populaire en amont des votes – et la révocabilité des élu-es. Des principes à l’œuvre dans l’auto-administration du Nord-Est syrien (Aanes), comme l’explique Serwan Xelîl : « Les co-maires sont élus pour deux ans par l’assemblée des peuples, et leur mandat n’est renouvelable qu’une fois. »

    « Vider l’État »

    Murray Bookchin développe surtout une stratégie reposant sur « un pouvoir parallèle », qui dispose, précise-t-il, d’« un pouvoir populaire suffisamment étendu pour être capable finalement de renverser l’État et de le remplacer par une société communiste libertaire » (entretien avec Janet Biehl, Le Municipalisme libertaire ; trad. fr. éditions Écosociété, 2014). Il apporte ainsi sa propre réponse à l’éternelle question de la conquête du pouvoir : Murray Bookchin ne l’envisage ni par la prise de pouvoir institutionnel, ni par le « grand soir » révolutionnaire – la confrontation directe est, selon lui, vouée à l’échec au vu des rapports de force et de la capacité de répression de l’État. Il propose plutôt une troisième voie : l’extension du communalisme à côté des institutions de l’État, dans le but de progressivement siphonner celui-ci et in fine de le dépouiller de ses prérogatives abusives sur nos existences. Le rapport historique des Kurdes à la notion même d’État, que ce soient ceux qui ont trahi le traité de Sèvres, ceux qui leur ont dénié le droit d’être kurdes ou celui qu’ils n’ont jamais obtenu, va sans doute faciliter leur adoption de cette théorie. À Derik, on fustige ainsi « les forces impérialistes et des États » qui attaquent le Nord-Est syrien : « La Turquie, la Syrie de Bachar el-Assad, Daech essaient de détruire notre projet. »

    Au-delà de l’inspiration apportée par Murray Bookchin, l’élaboration du confédéralisme démocratique kurde se nourrit également, comme l’explique Abdullah Öcalan, du mouvement des zapatistes au Mexique, de l’expérience politique de la Commune de Paris, des trois décennies vécues par les « militants du PKK des montagnes et des prisons et [de] l’expérience démocratique que notre peuple a acquise pendant cette période ». Enfin, son adoption bénéficie d’une histoire kurde fortement empreinte d’une organisation sociale en villages et des « profondeurs historiques et des richesses culturelles de la Mésopotamie. Du système clanique aux confédérations de tribus, ce système repose sur une réalité communale de la société qui a toujours refusé de laisser se mettre en place un système étatique centralisé ». Serwan Xelîl, à Derik, tient d’ailleurs à le rappeler : « Notre histoire remonte à plus de douze mille ans, nous sommes l’une des civilisations de la Mésopotamie, et les projets pacifiques font partie de l’héritage de notre peuple. Ce que nous vivons ici est aussi le résultat de cette histoire civilisationnelle. »

    Le confédéralisme démocratique devient donc la nouvelle ligne politique du PKK en 2005 – une « philosophie de vie » basée sur « une société qui se gouverne elle-même dans le cadre écologique et communal garantissant la liberté pour chacune des composantes sociales, ethniques, économiques, culturelles ou religieuses ». Il va d’abord se développer au Kurdistan turc dès 2007. Des assemblées démocratiques y sont créées dans les provinces où le mouvement est fort – comme à Diyarbakir, Batman et Van. Mais la répression turque s’acharne à entraver ce mouvement, et c’est finalement au Kurdi­stan syrien, soit au Rojava qui s’étend de Derik à Afrin, que le confédéralisme démocratique va véritablement pouvoir se déployer à partir de 2012. Le mouvement des femmes y est actif depuis 2005 et déjà bien implanté. Les troupes de Bachar el-Assad sont appelées sur d’autres fronts, ceux de la révolution syrienne, et se retirent de la région. Le parti kurde syrien inspiré du PKK, le PYD, peut enfin remplir le vide laissé par le régime. Le territoire se déclare de facto autonome et édite au mois de janvier 2014 son Contrat social des cantons autonomes du Rojava. Celui-ci décline quatre grands piliers : la démocratie, le socialisme, le féminisme et l’écologie. Le texte, à vocation constitutionnelle, affirme des positions détonantes dans une Syrie figée depuis des décennies sous le joug du pouvoir baasiste. Si la souveraineté populaire et l’égalité femmes-hommes font partie du socle le plus visible du confédéralisme démocratique, on y trouve aussi le « principe de la séparation de la religion et de l’État » (article 92a), la reconnaissance de la « richesse publique de la société » que forment les « ressources naturelles situées au-dessus et en dessous du sol » (article 39) ou encore « le droit à vivre dans un environnement sain, basé sur l’équilibre écologique » (article 23b).

    « Résister avec des idées »

    Mais six mois plus tard, à l’été 2014, ce nouvel élan est menacé par un péril majeur. L’État islamique, aussi appelé Daech, proclame l’instauration de son califat en Irak et en Syrie. Pour le défaire, le Rojava constitue les Forces démocratiques syriennes (FDS), composées de combattantes et de combattants, arabes et kurdes. Les longues années qui suivent sont essentiellement consacrées à cet objectif, couronné par les libérations successives de Kobane en 2015 et de Raqqa en 2017, mais au prix de pertes humaines et de destructions terrifiantes. S’il est freiné par la guerre dans sa réalisation pleine et entière, le projet de confédéralisme démocratique n’est pas mis à l’arrêt. Malgré la mobilisation que requièrent les combats, la construction démocratique se poursuit, la parité progresse, de nouveaux droits sont édictés. La bataille culturelle se poursuit, fidèle là encore aux préceptes de Murray Bookchin qui enjoint de « résister avec des idées, même lorsque les événements inhibent temporairement la capacité à agir ». Les Kurdes sont habitués à avancer dans l’adversité. Leur projet ne sera pas stoppé par l’invasion turque d’Afrin en 2018, ni par les nouvelles attaques de la Turquie à l’automne 2019 sur Serê Kaniyê et Girê Spî. Ralenti, entravé, certes. Mais ni mort ni abandonné.

    Paradoxalement même, l’expérience démocratique s’étend : le territoire couvert par l’auto-administration s’est agrandi au fur et à mesure des victoires contre Daech jusqu’à Raqqa et Deir ez-Zor. L’Aanes regroupe désormais environ 4 millions de personnes, sur une superficie de 50 000 km² – plus grande que la Belgique – peuplée de Kurdes, d’Arabes, d’Assyriens et de Turkmènes, de musulmans, d’alévis, de yézidis et de chrétiens, parlant kurde (le kurmanji), arabe ou syriaque. Autant de cultures, d’ethnies, de religions et de langues qui se côtoient et semblent bien décidées à vivre ensemble en paix, conformément à l’article 23a du Contrat social qui stipule que « toute personne a le droit d’exprimer son identité ethnique, culturelle, linguistique, ainsi que les droits dus à l’égalité des sexes ». Ce pluralisme, bien sûr, ne va pas sans heurts. Le féminisme affirmé du Rojava est plus difficilement accepté à Deir ez-Zor ou à Raqqa, où les avancées majeures sur les droits des femmes ne sont encore que peu appliquées. Mais l’ancienne « capitale » de l’État islamique a aujourd’hui pour co-maire une jeune femme kurde, Leila Mustapha, et c’est déjà en soi époustouflant. Les manuels scolaires sont édités en trois langues – kurde, arabe et syriaque –, un symbole fort quand, pendant des années, parler kurde risquait de vous envoyer en prison. Nulle part on ne voit de « kurdisation » forcée de la société ni de retour de balancier, comme on peut l’observer ailleurs ou à d’autres époques, de la part de peuples opprimés qui, une fois arrivés au pouvoir, reproduisent les processus de domination dont ils ont été les victimes.

    Non seulement le territoire s’est agrandi, mais il s’est aussi peuplé. À Hassake, à Raqqa ou à Kobane, les déplacés affluent des zones administrées par le régime d’Assad, de celles occupées par la Turquie et des lignes de front. Comme l’explique Leila Mustapha : « Beaucoup de personnes viennent à Raqqa, car c’est le seul espace relativement sécurisé. Cette ville est maintenant devenue le centre de la Syrie, tout le monde la considère comme sa maison, une maison qui accueille tous les Syriens. Des habitants des régions du régime et des zones occupées par la Turquie se dirigent vers Raqqa. Ils trouvent ici la paix et la possibilité de vivre ensemble. Nous avons construit un modèle qui accueille tout le monde, dans le principe de la fraternité des peuples. » Cet accroissement démographique – dans un contexte de lente et difficile reconstruction de la ville, laissée détruite à plus de 80 % suite aux bombardements de la coalition, où des mines abandonnées continuent d’exploser et qui se trouve toujours sous la menace de cellules dormantes de Daech, sans aide internationale – n’est pourtant pas sans poser problème. D’autant que s’y ajoutent l’extrême pénurie qui frappe le Nord-Est syrien, toujours soumis à embargo, et la guerre de l’eau que lui livre la Turquie en amont de l’Euphrate. Lors de nos rencontres à la mairie de Kobane, une rumeur monte soudain de la rue. Sous les fenêtres, des femmes en colère invectivent la municipalité. Elles n’ont pas d’électricité et veulent de l’eau pour leurs enfants. Rewshen Abdi, co-maire de la ville, nous con­fie les comprendre : « Chaque jour, entre trente et quarante personnes viennent à la municipalité pour se plaindre, mais on ne peut rien faire : la ville est endettée, et on n’a pas les moyens de réparer les canalisations. » De l’autre côté de la rue, un grand portrait de Bachar el-Assad semble narguer la municipalité. À la faveur du dernier cessez-le-feu avec la Turquie – négocié par la Russie –, le régime a ouvert une antenne ici. Des bureaux symboliques, sans aucun pouvoir, mais bien présents. Et, face aux files d’attente interminables qui se forment devant les stations d’essence ou pour obtenir du pain – paradoxe cruel dans un territoire qui subsiste essentiellement de l’exportation de pétrole et de blé –, l’application du contrat social apparaît parfois comme une gageure.

    Des sacs de graines de rue sauvage

    Malgré cette somme ahurissante d’obstacles, quand nous rentrons à Jinwar ce soir-là, chargées de sacs de graines de rue sauvage, le village nous réconforte. Qu’il s’agisse de la démocratie communale, de l’émancipation des femmes, de l’écologie ou de la coexistence pacifique, il offre un con­densé saisissant de ce à quoi le confédéralisme démocratique peut ressembler. Où que le regard se pose, on navigue entre le soin, l’éducation et l’autogestion. Le toit sur lequel nous passerons la nuit, pour bénéficier d’un peu de fraîcheur, est celui de l’akademi où se réunit l’assemblée de village, qui prend les décisions collectivement et répartit les tâches tournantes tous les mois. « Les enfants aussi ont une réunion mensuelle ! Ils peuvent y discuter des problèmes, critiquer le système de fonctionnement du village entre eux si nécessaire et créer une force collective pour résoudre ces problèmes », tient à nous préciser Zozan. Depuis le toit, on aperçoit les murs colorés des classes que fréquentent aussi les enfants des villages voisins et l’école de musique. Fatma, la porte-parole de l’assemblée des femmes, m’a présenté la veille une gamine espiègle accrochée à nos pas : « Voilà Slava, elle a 4 ans, c’est la fille d’un martyr d’Afrin. Plus tard, elle souhaite apprendre le violon à l’école de musique ! » Fatma m’explique ensuite : « Nous voulons que nos enfants vivent en liberté, grandissent sur les principes qui ont fondé ce village, puis qu’ils emportent cette idée émancipatrice avec eux et la diffusent dans le monde. » Gulistan, ancienne couturière originaire de la ville d’Amude, approuve ses propos : même si sa vie d’avant lui manque, dit-elle, ses cinq filles, âgées de 7 à 14 ans, « auront ici un meilleur futur : elles vont à l’école et apprennent l’anglais ». Elle a dû fuir son mari, avec lequel les con­flits se sont multipliés : il avait déjà deux femmes et neuf enfants. Gulistan a demandé le divorce. Son mari a refusé et porté plainte contre elle. Il a tenté de venir la chercher de force à Jinwar. L’une de ses filles m’a confié qu’elle voulait changer son prénom en Ali, parce qu’« il faut être un homme pour pouvoir aider [sa] mère ».

    Comme à Dirbesiyê, des dizaines d’hectares de terres confisquées à Daech ont été confiées à des « compagnies de développement de l’agriculture », financées par l’auto-administration. © Corinne Morel Darleux

    Plus bas, le potager, cultivé sans pesticides ni engrais, comporte des rangées d’herbes médicinales qui seront directement utilisées dans le centre de santé récemment créé à Jinwar. Parmi les maisons en terre, se faufilant entre les tournesols, on peut également apercevoir un magnifique paon qui circule librement dans le village. L’oiseau sacré des yézidis est réputé pour ne suivre que la lumière et le soleil, jamais les ordres. Il est devenu le symbole des femmes yézidies asservies par Daech dans les montagnes de Sinjar après les massacres de 2014.

    Une révolution de femmes

    Si Jinwar est à ce jour un modèle unique de village de femmes, les symptômes visibles de cette révolution des femmes ne manquent pas. Ils forment probablement l’aspect le plus marquant du confédéralisme démocratique, dans un territoire longtemps dominé par la culture patriarcale, puis par l’oppression barbare de Daech. La polygamie et les mariages précoces y ont été interdits. Partout ont fleuri des mala-jin, les maisons des femmes qui servent à des médiations et à de la justice de proximité. Des coopératives, comme le suka-jin auquel nous nous rendons à Qamislo, permettent aux femmes de sortir de chez elles et de gagner en autonomie. Que ce soit dans le domaine militaire pendant la guerre, avec les unités d’autodéfense féminines (YPJ), ou dans le domaine civil et politique, la parité est instaurée à chaque niveau de responsabilité. Au sein de l’auto-administration, à l’université, dans les coopératives ou dans les municipalités, les femmes ne se contentent pas de se faire une place dans la société, elles la révolutionnent.

    À l’instar de Murray Bookchin quand il souligne que « l’obligation faite à l’humain de dominer la nature découle directement de la domination de l’humain sur l’humain », le confédéralisme démocratique fait le lien entre toutes les formes de domination : celles que le patriarcat exerce sur les femmes, celles que le capitalisme exerce sur les travailleurs et travailleuses, comme celles que l’être humain exerce sur le vivant et les écosystèmes. Aussi, pour le confédéralisme démocratique, la transformation profonde de la société passe nécessairement par l’écologie. Une écologie systémique, comme en témoigne cette jeune femme du mouvement de libération dans le documentaire de Mylène Sauloy, Kurdistan, la guerre des filles (2016) : « L’écologie, ce ne sont pas seulement les arbres, c’est aussi l’égalité dans la société. » Le programme est clair : « Nous voulons une société écologique démocratique », tout comme Murray Bookchin qui aspire à « une société écologique qui cherche à établir une relation équilibrée avec le monde naturel et qui veut se libérer de la hiérarchie sociale, de la domination de classe et sexiste et de l’homogénéisation culturelle ». Sur ce volet de l’écologie, il reste néanmoins fort à faire au Nord-Est syrien, qui hérite d’une gestion calamiteuse du régime dans tous les domaines : canalisations défectueuses, eau polluée, déchetteries à ciel ouvert, dépendance alimentaire… Le Nord-Est de la Syrie a longtemps été considéré comme tout juste bon à produire des céréales. Damas n’y a jamais investi dans les services publics locaux, les infrastructures, ni dans l’éducation. La plupart des réseaux datent encore du mandat français. Il a donc fallu créer les premières universités du Rojava. Et il reste à convertir la monoculture du blé en une variété de cultures vivrières.

    Reconquérir la terre et les âmes

    Dicle, une jeune femme de 25 ans à l’énergie étourdissante que nous avons rencontrée la veille, vient nous chercher au petit matin à Jinwar pour nous emmener près de Dirbesiyê. Elle veut absolument nous montrer son projet. Après avoir roulé à tombeau ouvert sur des routes défoncées en écoutant des reprises en kurde de Bella Ciao, nous arrivons devant un vaste champ d’oignons et de pommes de terre. Toute fière de nous montrer l’astucieux système d’irrigation, les pompes et le bassin d’eau destiné à accueillir des poissons pour enrichir l’eau de leurs déjections, Dicle explique que des dizaines d’hectares de terres confisquées à Daech ont été confiées à des « compagnies de développement de l’agriculture », financées par l’auto-administration pour développer l’autonomie alimentaire. « J’ai une licence d’économie, me dit-elle, mais le régime ne nous laissait pas faire ce genre de choses. Moi, je serais partie en Europe s’il n’y avait pas eu la révolution. Même à l’école, on n’avait pas le droit d’être kurde, il fallait parler arabe. » Dicle fait mine de se trancher la gorge en riant, puis reprend, de nouveau sérieuse : « Ici, on vend une partie de notre production, on en donne une partie gratuitement et on garde de quoi replanter. Il y a d’autres champs, je vais vous y emmener, on a planté des concombres, des tomates, des aubergines, des pastèques, de l’ail et des haricots. On cultive aussi des fleurs et des rosiers dans le village à côté, à Dirbersiyê. Mais on manque de tout avec l’embargo. Même les tubercules, on est obligé de les faire venir illégalement, et ça nous revient très cher. »

    Avant, nous détaille Dicle, « beaucoup de femmes étaient employées par de grands propriétaires terriens, ils faisaient la tournée avec des camions pour les embaucher. Elles étaient mal traitées, elles subissaient beaucoup de violences. Ce qu’on fait ici, c’est aussi pour libérer ces femmes de l’emprise des contremaîtres ». Ce témoignage nous sera confirmé régulièrement dans les coopératives de femmes qui se montent sur l’ensemble du territoire pour leur fournir une autonomie financière, tout en développant l’activité paysanne. Avec une bonne dose de fierté retrouvée, comme à Jinwar où les femmes sont plus qu’heureuses de nous montrer que « le blé demande peu de travail et fait rentrer de l’argent, le potager nous permet d’assurer nos besoins en fruits et légumes, le lait vient de nos brebis, les œufs de nos poules, et on a un magasin pour vendre tout ça, chez nous et pour les villages environnants. »

    Des coopératives comme celle d’Hassake se montent sur l’ensemble du territoire pour fournir une autonomie financière aux femmes et développer l’activité paysanne. © Christophe Thomas

    Cependant, ici comme ailleurs, le réchauffement climatique vient tout compliquer. Les années de sécheresse se multiplient. Des incendies criminels, attribués à la Turquie et aux milices djihadistes pour faire de la faim une arme de guerre, ont réduit de nombreuses récoltes à néant. Les systèmes d’irrigation sont souvent à sec, faute d’eau et d’électricité. Pour ne rien arranger, la multiplication des barrages en Turquie, en amont de l’Euphrate, et la rétention du débit créent une situation dramatique qui prive plus d’un million de personnes d’eau courante dans la province d’Hassake et commence à poser de graves problèmes sanitaires. La culture intensive mise en place par le régime est un legs empoisonné. Il n’y a pratiquement pas de forêt au Rojava. Tout a été rasé pour faire place au blé. Les Kurdes n’avaient même pas le droit de planter des arbres dans leur jardin, me dit-on, pour éviter qu’ils ne s’enracinent – ce « besoin le plus important et le plus méconnu de l’âme humaine » pourtant, selon la philosophe Simone Weil. Il n’est donc pas étonnant, tant d’un point de vue symbolique que pratique, que la lutte contre la désertification et la reforestation figurent parmi les premières actions d’envergure initiées dans le domaine de l’environnement. C’est l’objet de la campagne « Make Rojava Green Again » lancée par des volontaires internationaux ou du projet de « Tresse verte » de Gulistan Sido et ses ami-es, qui ont créé une véritable pépinière dans le jardin qu’abrite l’université du Rojava à Qamishlo. Ils se sont fixés pour objectif de planter quatre millions d’arbres.

    « Rendre la cabane conceptuelle habitable »

    Dans la revue Ballast, la poétesse et autrice Adeline Baldacchino écrit à propos de Murray Book­chin : « Il recherche donc, comme l’ont toujours fait les anarchistes conséquents, cette quadrature du cercle qui garantirait ensemble l’organisation et la liberté, la sécurité et la justice, le respect et la jouissance », et elle ajoute : « La théorie n’a sans doute pas fini de s’adapter au réel, et il faut espérer que celui-ci puisse s’en inspirer sans dogmatisme ni rigidité. [Murray Bookchin a] fabriqué une cabane conceptuelle dans laquelle peuvent venir s’installer, pour l’agrandir à mesure qu’ils la rendent habitable, les rêveurs persistant à croire que le réel s’invente à contre-courant des habitudes acquises. » À l’heure d’un dévissage démocratique marqué par des taux d’abstention records et la résurgence des extrêmes droites, alors que les scientifiques sont en état d’alerte permanent et que des philosophes et des anthropologues nous enjoignent de commencer à apprendre à vivre sans pétrole, sans numérique et sans État, l’expérience en cours dans le Nord-Est syrien est cruciale. Nous avons besoin de renforts, d’inspiration et de démonstrations. « Rendre cette cabane habitable » revêt un caractère d’urgence, porteur de gravité mais aussi d’un fort potentiel évocateur. Comme l’écrivait Murray Bookchin, face à une telle confluence de crises, « nous ne pouvons plus nous permettre de manquer d’imagination ; nous ne pouvons plus nous permettre de négliger la pensée utopique ».

    https://revoirleslucioles.org/rojava-batir-une-utopie-en-plein-chaos-octobre-2021
    #montagnes #Kurdistan #PKK #autonomie_financière

  • Deforestation amplifies climate change effects on warming and cloud level rise in African montane forests

    Tropical montane forest ecosystems are pivotal for sustaining biodiversity and essential terrestrial ecosystem services, including the provision of high-quality fresh water. Nonetheless, the impact of montane deforestation and climate change on the capacity of forests to deliver ecosystem services is yet to be fully understood. In this study, we offer observational evidence demonstrating the response of air temperature and cloud base height to deforestation in African montane forests over the last two decades. Our findings reveal that approximately 18% (7.4 ± 0.5 million hectares) of Africa’s montane forests were lost between 2003 and 2022. This deforestation has led to a notable increase in maximum air temperature (1.37 ± 0.58 °C) and cloud base height (236 ± 87 metres), surpassing shifts attributed solely to climate change. Our results call for urgent attention to montane deforestation, as it poses serious threats to biodiversity, water supply, and ecosystem services in the tropics.

    #Afrique #montagnes #montagne #forêt #déforestation #changement_climatique #climat #biodiversité #services_écosystémiques #température

  • La Clusaz : La station a fait sa neige artificielle en pompant de l’eau de source illégalement pendant plus de vingt ans
    https://www.20minutes.fr/societe/4105729-20240813-neige-artificielle-eau-source-illegalement-pompee-station
    https://img.20mn.fr/56TTRwZDSWeAQbLhxRTxRSk/1444x920_a-snow-gun-of-the-ski-resort-of-font-romeu-southern-france-is-pict

    L’or Bleu•Une enquête judiciaire de l’Office français de la biodiversité a conduit à la mise au jour d’un système de pompage construit sans autorisation par la station de ski de la Clusaz permettant de diriger de l’eau de source vers une fabrique de neige

  • De l’autre côté...

    Ce court-métrage d’animation raconte une #nuit dans les montagnes enneigées, du côté de #Briançon, aux abords de la frontière franco-italienne. Une nuit comme hélas tant d’autres où des citoyens solidaires scrutent l’obscurité glacée à la recherche de silhouettes égarées, celles d’exilés, souvent en baskets et vestes légères, qui franchissent la frontière au péril de leur vie.

    https://www.youtube.com/watch?v=uqsGerFVtew


    #court-métrage #film #film_d'animation #migrations #frontières #montagne #réfugiés #Hautes-Alpes #froid #frontière_sud-alpine #Briançonnais #France #Italie #maraudes #maraudeurs

  • ON RECOMMENCE ? « Enlace Zapatista
    https://enlacezapatista.ezln.org.mx/2024/08/05/on-recommence

    Oui, le vent et la montagne semblent se connaître depuis longtemps. Je pourrais vous dire la date exacte, mais ça ne change rien à l’affaire… ou à la chose, au choix. Il se peut qu’on ne comprenne pas cette ferme mais apparente résignation ou résistance : la montagne qui supporte encore et encore des coups de griffes ; le vent qui apparemment se retire, s’avoue vaincu pour revenir ensuite. Toujours pareil, toujours différent.

    Mais ce ne sont pas ces attaques brutales qui préoccupent la montagne. Elle en a vu de pires, pour peu qu’on le lui demande. Non, ce qui l’inquiète, ce sont les tempêtes qui arrivent avec des bulldozers, des pelleteuses, des chercheurs de minerais, des entreprises touristiques, des usines, des centres commerciaux, des trains, des gouvernements qui font semblant d’être ce qu’ils ne sont pas, la destruction, la mort. Bref : le système.

    #patience #montagne #allégorie #poésie #zapatistes #Marcos

  • Une mesure inédite en #montagne, #Chamonix va restreindre les #Airbnb

    Le nombre d’Airbnb et autres #locations_saisonnières sera bientôt limité à Chamonix. Une mesure attendue par les locaux, qui font face à un afflux de touristes.

    Les boîtes à clés se multiplient devant les immeubles et les chalets du centre de #Chamonix-Mont-Blanc. Face au plus haut sommet d’Europe, ces objets symbolisent la forte augmentation des locations saisonnières de type Airbnb ces dernières années dans la vallée. « Le nombre de meublés de tourisme mis sur le marché est passé de 2 700 à 4 000 en quatre ans », dit Éric Fournier, maire de Chamonix et président de la communauté de communes de la vallée. Face à cette situation, les élus du conseil communautaire ont tenté de mettre un coup d’arrêt à cette dynamique. Le 25 juillet, une #délibération a été adoptée pour limiter le nombre de locations de courte durée dans les quatre communes de la vallée. Une première pour un territoire de montagne en France.

    Dès le 1er mai 2025, un seul bien en location saisonnière par personne physique sera autorisé à Chamonix et aux #Houches et deux biens à #Servoz. À #Vallorcine, de l’autre côté du col des Montets, il n’y aura pas de limitation du nombre de biens louables, mais les autorisations d’en faire une location saisonnière seront limitées à un an, avant d’être renouvelées.

    « Cette mesure s’inscrit dans un travail global pour maintenir l’habitat permanent dans la vallée. Une partie de notre #parc_immobilier s’érode vers les plateformes de #location_de_courte_durée, cela pose de plus en plus de problèmes pour les habitants locaux. Les offres de location à l’année sont rares et les #prix explosent », assure le maire sans étiquette.

    Les quatre communes de la vallée sont classées « #zones_tendues » depuis août 2023, et le prix de l’immobilier à Chamonix dépasse désormais les 10 000 euros le m2. Avec cette mesure, Éric Fournier souhaite retrouver « un #équilibre_social au niveau local. La vallée n’est pas un parc d’attractions et nous devons apporter des réponses à la #tension_immobilière et à la #fréquentation_touristique qui évolue très vite sur le territoire ».

    Concrètement, les propriétaires devront enregistrer leurs biens avant de les publier sur les plateformes comme Airbnb. « Nous avons passé des accords avec ces sites, et si certains ne respectent pas cet enregistrement, leurs biens seront supprimés des plateformes », assure le maire. Ce système des #immatriculations est déjà en vigueur dans d’autres villes comme Paris et permet notamment à celles-ci de connaître précisément le nombre de biens en location saisonnière et le profil des propriétaires.

    De son côté, Airbnb assure à Reporterre « [collaborer] depuis plusieurs mois avec la mairie de Chamonix sur le sujet ». « Nous continuerons à travailler avec ces villes afin de les accompagner au mieux dans la mise en place et le respect de ces règles proportionnées. »

    Bientôt tous concernés ?

    Cette #restriction s’adresse pour l’instant uniquement aux propriétaires physiques, mais ne concerne pas les entités morales comme les conciergeries ou les agences qui cumulent parfois plusieurs biens en location de courte durée. « C’est une première étape », déclare Éric Fournier, qui avait également fait voter en 2023 une #surtaxe des #résidences_secondaires qui représentent près de 70 % de l’habitat dans la commune. « Cette mesure finira par concerner tout le monde. Nous travaillons encore sur les questions juridiques pour être sûrs que ces mesures ne pourront pas être annulées. »

    Dans le département, une mesure similaire votée à #Annecy avait été suspendue en juillet 2023 par le tribunal judiciaire de Grenoble car jugée « trop restrictive ». Xavier Roseren, député de la 6e circonscription de Haute-Savoie pour le parti présidentiel Ensemble et natif des Houches, se réjouit également de cette mesure et entend poursuivre les efforts législatifs à l’Assemblée. Une proposition de loi transpartisane « visant à renforcer les outils de #régulation des #meublés de tourisme à l’échelle locale » devait être examinée en commission mixte paritaire, mais la dissolution du 9 juin a bouleversé le calendrier parlementaire.

    « Je suis très heureux que la vallée de Chamonix ait pris l’initiative de porter cette mesure sans attendre la promulgation de cette loi, déclare le député, très impliqué sur ces questions. Le texte devait également acter la création de zones réservées à l’#habitat_permanent, comme en Suisse, avec des quotas de résidences secondaires. » Le député souhaite également que la loi sur les passoires énergétiques s’applique aux locations de courte durée : « Il n’est pas normal que l’on puisse louer un bien non isolé sur Airbnb alors qu’on ne peut pas le louer en longue durée. On doit continuer à travailler sur la transition écologique et touristique dans nos vallées. »

    https://reporterre.net/Saturee-de-touristes-Chamonix-va-restreindre-les-Airbnb
    #régulation #tourisme

  • Alto Adige, Salewa sceglie un testimonial sudanese. Il sito invaso dai commenti razzisti: “Ma la montagna è di tutti”

    L’azienda di Bolzano aveva selezionato un modello di origine sudanese per reclamizzare i saldi. Ha dovuto bloccare i commenti sulla sua pagina Facebook, presa di mira dagli haters.

    In montagna vige una legge non scritta di fratellanza, non solo in momenti di difficoltà. Oltre i mille metri di altitudine ci si dà rigorosamente del tu, anche ai perfetti sconosciuti, perché sulle vette (come in mare) non esistono confini, soprattutto non quelli mentali.
    Gli haters

    Questo evidentemente non vale per i cosiddetti haters che hanno sommerso di commenti razzisti una pubblicità della Salewa con un ragazzo sudanese, reo di sorridere e di indossare una bella maglietta tecnica e portare in spalla uno zaino di montagna.
    Il testimonial

    Il testimonial, un modello francese di origini sudanesi, dai leoni da tastiera è stato accostato a ladri, profughi e portatori di alta quota. Il produttore di articoli di montagna bolzanino si è visto costretto a cancellare gli interventi odiosi.
    "La montagna è di tutti”

    «La nostra posizione sull’inclusione anche in montagna non cambia. La montagna è di tutti», ribadisce il direttore marketing di Salewa, Thomas Aichner. «Già in passato abbiamo fatto campagne con modelli di diversi colori di pelle. Per noi tutti gli uomini sono uguali», prosegue il direttore marketing.
    Il banner

    Il banner per i saldi di fine stagione è visibile su Instagram e Facebook non solo ai follower del marchio, che opera a livello internazionale, ma anche a una fascia più ampia di possibili clienti.
    La bufera su Facebook

    «In breve tempo - racconta - si è innescato su Facebook un dibattito con alcuni commenti positivi e altri fortemente razzisti». Più di uno annunciava che in futuro boicotterà il marchio. «Siamo aperti al dibattito, non ci tiriamo indietro, ma è inutile condurlo su Facebook», spiega così la scelta di rinunciare a un replica, nella speranza di fare cambiare idea agli haters.
    Travolto della xenofobia

    «Il modello è originario del Sudan del Sud, è cittadino francese e vive a Nizza. Lo scorso anno avevamo fatto un video con lui e ora abbiamo utilizzato una sua foto per l’avvio dei saldi di fine stagione», racconta Aichner, esprimendo rammarico anche per il ragazzo che nel cuore dell’Europa è stato travolta dalla xenofobia.
    Il banner non verrà lanciato in Germania

    Salewa non ha cancellato il banner, ma non lo lancerà in Germania ("perché il contesto ormai non è più quello giusto"). Secondo Aichner, «le Alpi a volte vengono ancora reclamate come proprietà da chi ci vive, mentre sono di tutti coloro che le rispettano».
    Gli otto profughi africani

    Il fatto fa venire in mente le polemiche divampate sui social media nel 2016, sempre in Alto Adige, quando una piccola scuola di sci della valle Isarco offrì alcune ore di corso e di spensieratezza a otto profughi africani. Anche allora la foto dei ragazzi scatenò i leoni di tastiera e la scuola con rammarico si vide costretta a cancellare il post.

    https://www.repubblica.it/cronaca/2024/07/23/news/alto_adige_salewa_sceglie_un_testimonial_sudanese_il_sito_invaso_dai_comm

    #racisme #Salewa #montagne #réseaux_social

    • Testimonial di colore per Salewa, valanga di commenti razzisti su Facebook

      Il direttore marketing dell’azienda, Thomas Aichner: «In questo momento, tutto quello che è inclusività viene attaccato. Ma non modificheremo per questo le nostre strategie di comunicazione»

      La foto di un ragazzo di colore con berretto e maglietta a marchio Salewa.
      All’avvio dei saldi estivi, l’azienda bolzanina invita così i suoi follower su Facebook a prepararsi per un’avventura in montagna.
      Un post che ha scatenato una valanga di commenti: da quelli che gridano al tradimento della patria a quelli apertamente razzisti.
      Salewa ha rimosso i commenti, sottolineando che l’episodio non modificherà la campagna pubblicitaria.
      Una strategia di comunicazione ormai diffusa, quella basata su testimonial di diverse etnie.
      Soprattutto nel caso di imprese note a livello globale, come Salewa per il suo abbigliamento tecnico d’alta quota.

      Nel servizio, l’intervista al direttore marketing di Salewa Thomas Aichner.

      https://www.rainews.it/tgr/bolzano/video/2024/07/salewa-thomas-aichner-facebook-commenti-pubblicita-7a036b23-6d58-41b3-9469-2
      #Thomas_Aichner #interview

      –—

      Thomas Aichner:

      «In questo momento tutto quello che è inclusività viene attaccato da certi elementi, da certe fasce sociali, e questo è un dato di fatto. Ma in più potrebbe anche avere a che fare con il fatto che le montagne sono qualcosa di molto molto sensibile e lì forse le discussioni su ’di chi sono le montagne, di chi può andare in montagna’ è ancora più sensibile.»

      «Siamo un marchio dell’Alto Adige, ma ci piace molto quest’idea che andare in montagna è una cosa molto inclusiva per tutti e per questo vogliamo anche tenere le nostre campagne una volta di una cultura e una volta di un’altra, ma mai monocromaticamente, solo e sempre in stile alpino»

  • #Montagne : Comment la station de #La_Clusaz pompe l’#eau de source illégalement

    Pendant plus de 20 ans, La Clusaz a pompé l’eau d’une source pour fabriquer de la #neige_artificielle... sans autorisation. Une #enquête judiciaire de l’Office français de la biodiversité dévoile comment la célèbre station des Alpes a installé ce système coûteux. Des #captages irréguliers ont par ailleurs été découverts sur les trois autres retenues exploitées par la commune haute-savoyarde pour alimenter ses pistes. Révélations.

    Fallait pas arroser les pétunias... En juillet 2022, la commune de La Clusaz a été prise en flagrant délit par l’Office français de la biodiversité (OFB) alors que les restrictions interdisaient l’arrosage. Cet été-là, la Haute-Savoie vit un épisode de chaleur intense.

    L’alerte sécheresse a été déclenchée et les restrictions d’eau ordonnées dans tout le département, conformément aux mesures prises dans ce type de situation : interdiction d’abreuver les plantes municipales mais surtout de remplir les retenues collinaires, ces ouvrages qui stockent l’eau des montagnes pour fabriquer de la neige de culture. Mais, surprise, les agents de l’OFB constatent que la station a arrosé ses bosquets en puisant dans la retenue du Lachat, et que celle-ci est toujours alimentée en eau.

    Un circuit secret

    En inspectant les installations, la police de l’environnement découvre un dispositif secret : la commune a mis en place un système souterrain illégal pour capter l’eau de la source du Lachat, la diriger vers un local étiqueté « neige de culture », puis la pomper vers la retenue... Or ce dispositif n’a jamais été autorisé et n’est nulle part mentionné sur les plans d’aménagement.

    Une réflexion poussée

    « Il s’agit d’une installation complexe caractérisant le fait qu’une réflexion poussée et des investissements importants ont été mis en œuvre par la commune », constate le procès-verbal de l’OFB.

    Pour La Clusaz, cette enquête judiciaire, et ce qu’elle dévoile, tombe au plus mal. Ces dernières années, la station - en première ligne dans la candidature française pour l’accueil des JO d’hiver de 2030 - est devenue à son corps défendant un symbole : celui de l’accaparement de l’eau au profit de l’industrie du ski et des sports d’hiver.

    La collectivité s’est battue pour faire creuser sa cinquième retenue collinaire, sur le plateau de Beauregard. Mais les travaux ont été entravés par l’implantation d’une ZAD, puis la suspension par le tribunal administratif de Grenoble de l’arrêté préfectoral d’autorisation. Résultat, en septembre 2023, le maire de La Clusaz Didier Thévenet a été contraint d’annoncer le gel du projet en attendant que les juges se prononcent définitivement sur le dossier. Malgré ce contretemps fâcheux, l’édile ne s’était pas démonté. « Nous ne lâchons rien, a prévenu Didier Thévenet. Nous allons muscler notre projet, dans le respect de la justice et de la loi ».

    L’eau, un vrai sujet

    Ce beau principe (le respect de la loi) n’a pas été appliqué à ses précédentes retenues d’eau. Blast a eu accès à l’enquête judiciaire menée par l’OFB. Ces investigations démontrent que La Clusaz a pompé illégalement l’eau de la source de Lachat de 2000 à 2023 pour alimenter la retenue du même nom, qu’elle aurait pu déclarer ce prélèvement illégal, à plusieurs occasions, et encore que l’adjoint responsable des retenues d’eau n’a jamais cherché à comprendre leur fonctionnement.

    Sollicitée par Blast, la municipalité minimise : « Il n’y a plus de sujet. Nous sommes en médiation avec l’OFB et des mesures correctives ont été prises. »

    Il faut savoir que, à La Clusaz, l’industrie du ski nourrit la vallée. Les remontées mécaniques ont rapporté 25,3 millions d’euros de chiffre d’affaires à la commune en 2023. Et la station doit accueillir l’épreuve de ski de fond des Jeux olympiques d’hiver 2030 et ses nombreux visiteurs. Un tel pactole, ça se protège.

    Construite en 2000, la retenue du Lachat est destinée exclusivement à produire de la neige artificielle. Si les prélèvements illégaux ont pu commencer dès sa construction, ils n’ont été enregistrés qu’à partir de 2014 avec l’installation d’un compteur. De 2014 jusqu’en juillet 2023, date de la fermeture définitive du dispositif de prélèvement, 135 108 m³ d’eau ont été siphonnés illégalement. Malgré l’engagement de la commune à ne plus prélever d’eau après l’intervention de l’OFB à l’été 2022, La Clusaz a encore capté 5 020 m³ supplémentaires en 2023.

    L’enquête de l’OFB conclut que La Clusaz « a délibérément capté la source du Lachat » sans jamais déclarer cet ouvrage à la direction départementale des territoires (DDT) de la Haute-Savoie, chargée d’instruire l’arrêté qui encadre la retenue.

    La station de ski a pourtant eu plusieurs opportunités pour indiquer ce prélèvement. Elle aurait pu le faire en 2011, ou en 2014 quand elle a demandé, puis modifié, une autorisation d’extension de la retenue.

    « La commune a parfaitement connaissance de la manière de procéder et aurait pu à cette occasion informer la DDT des modifications d’alimentation en eau de la retenue », pointe l’Office français de la biodiversité. Mais, au contraire, « l’ouvrage de prélèvement de la source du Lachat a été modifié à plusieurs reprises sans aucun accord de la DDT, et à défaut des prescriptions réglementaires. »

    La Clusaz se fiche des milieux naturels

    La Clusaz a exploité la retenue sans détenir aucune autorisation environnementale. Elle s’est ainsi épargnée d’engager des dépenses pour appliquer la séquence « ERC » (éviter, réduire, compenser), qui vise à atténuer les atteintes à l’environnement. Ces coûts sont estimés à 27 000 euros par l’OFB. Ils ne prennent pas en compte ceux de l’étude d’impact qui aurait dû être menée. Sans cette analyse, les dégâts provoquées pendant 23 ans sont impossibles à mesurer.

    En revanche, il est certain que cet accaparement de l’eau a bouleversé les milieux naturels. Durablement : « Lorsqu’ils interviennent en période naturelle de basses eaux tel qu’en période de sécheresse, les prélèvements accélèrent le phénomène de déficit hydrique et en accentuent l’ampleur », souligne le rapport de l’OFB. Avec, pour principales conséquences, « la fragmentation des milieux aquatiques ou la rupture de la continuité écologique, l’élévation de la température de l’eau, la modification physico-chimique de l’eau, la modification de la végétation aquatique et l’assèchement des linéaires ». C’est justement pour ces raisons que les ouvrages qui prélèvent de grandes quantités d’eau sont soumis à des dossiers de déclarations ou d’autorisation. Ils doivent maintenir un débit réservé, autrement dit qui garantit la circulation et la reproduction des espèces aquatiques locales.

    Les prélèvements à La Clusaz impactent le cours d’eau dont l’état écologique est classé « moyen » par le Schéma directeur d’aménagement et de gestion des eaux (le SDAGE) du bassin Rhône-Méditerranée (2022-2027), dont l’objectif est de pouvoir le reclasser à la case « bon ». En prélevant 24 734 m³ d’eau en 2022, La Clusaz « concourt à la non-atteinte des engagements pris par la France dans le cadre de l’atteinte du bon état écologique fixé par la DCE et, en même temps, contribue au déséquilibre du fonctionnement des milieux aquatiques », observe la police de l’eau et des espaces naturels.

    Pas une priorité pour la commune

    Cerise sur la retenue, en tirant l’eau « au point géographique le plus en amont possible », c’est l’ensemble du régime hydrologique et des habitats en aval qui sont affectés. Dont une zone humide créée... par La Clusaz pour compenser l’extension de la retenue du Lachat, réalisée en 2011. « Les installations en place mettent en évidence que le maintien dans un bon état des écosystèmes aquatiques n’est pas une priorité pour la commune », conclut l’enquête judiciaire.

    L’adjoint aux retenues n’y connaît rien

    À la mairie, l’annonce de la mise à jour de cette installation illégale a été prise avec une légèreté déconcertante. Auditionné à plusieurs reprises par l’OFB, Didier Collomb-Gros, l’adjoint en charge de la gestion des retenues collinaires, a fourni des explications lunaires. Élu en 2007, délégataire des retenues collinaires depuis 2020, cet artisan à la retraite - qui loue des appartements meublés - semble découvrir ses fonctions et n’avoir aucune envie d’en parler.

    Venez me chercher avec les menottes

    Convoqué par téléphone à une audition libre, Didier Collomb-Gros « semble très contrarié de notre appel », relève le rapport de l’OFB. L’adjoint s’emporte : « Convoquez-moi, je verrais si je viens » ; « si vous avez rien d’autre à foutre » ; « au pire venez me chercher avec les menottes, on verra bien »...

    Contacté également par Blast, l’élu nous a indiqué « ne pas être habilité » à nous répondre, avant de nous raccrocher au nez.

    L’adjoint bravache s’est finalement rendu au siège de l’OFB le 19 avril 2023. Il y a assuré que l’installation illégale était connue des services techniques de la préfecture depuis l’an 2000. Mais l’élu n’a produit aucun document pour corroborer ces affirmations. Et la mairie est tout simplement incapable de fournir un plan détaillé de la retenue.

    « On doit l’avoir, mais il faut qu’on fasse des recherches », botte en touche l’élu. Et l’OFB observe avec circonspection que, « selon les questions posées en audition », la commune « complète au fur et à mesure le schéma synoptique de fonctionnement des installations ».

    Un tas de questions

    Lors de sa deuxième audition le 9 octobre 2023, plus d’un an après les premières découvertes, Collomb-Gros se montre incapable de répondre aux interrogations des policiers sur l’installation ou sur le montant de ses investissements. « Vous me posez un tas de questions que je ne peux pas répondre (sic). Ces travaux datent de dix ans », évacue-t-il.

    L’audition tourne rapidement au supplice. « À votre prise de fonction en 2020, avez-vous fait des recherches sur la gestion des ouvrages ? », interroge l’OFB. « Aucune », répond l’élu, qui avoue n’avoir pris « aucune décision, ni note » pour s’assurer que la commune respecte l’arrêté d’autorisation de l’installation.

    Et ben, on voit que non

    La suite est proprement stupéfiante. Question : « Comment expliquez-vous les contradictions / approximations dans vos déclarations alors que ça fait un an que les premières constatations ont eu lieu ? » Réponse : « Encore une fois je vais dire que je ne comprends pas la situation » ; Question : « Vous êtes-vous donné les moyens pour comprendre la situation depuis un an ? » Réponse : « Pas de réponse de ma part » ; Question : « Pensez-vous avoir une connaissance suffisante du fonctionnement des installations de prélèvement de la retenue du Lachat pour assurer cette responsabilité ? » Réponse : « Et ben, on voit que non. »…

    Une méconnaissance volontaire

    Forcément, après cette prestation, le verdict de l’OFB est plutôt sec. L’audition, notent les fonctionnaires, « met en évidence une méconnaissance volontaire des prescriptions réglementaires de l’arrêté d’autorisation de la retenue du Lachat et la volonté manifeste de n’en prendre aucune ».

    Interrogée par Blast sur le manque de connaissances techniques des dossiers dont son adjoint à la charge, la commune de La Clusaz botte en touche : « M. Collomb-Gros a des services techniques sur lesquels s’appuyer pour connaître la réglementation. » Est-ce donc... la faute des services techniques ? « Nous n’avons pas dit ça », répond la station.

    Olympisme, menaces pénales et autres retenues

    Cette affaire révélée par Blast tombe au pire moment. En avril 2024, le Comité olympique international (CIO) était en visite pendant 5 jours dans les Alpes françaises pour étudier leur candidature à l’organisation des JO d’hiver de 2030. Les membres de la délégation ont fait notamment une halte à La Clusaz, sur le site qui doit accueillir l’épreuve de fond.

    Le suspens doit prendre fin en principe la semaine prochaine avec une décision attendue le 24 juillet, à l’occasion de la tenue à Paris de la 142è session du CIO, à la veille de l’ouverture des Jeux de Paris. Officiellement, la question environnementale - et celle qui va avec de l’acceptabilité par l’opinion publique - est prise en compte dans les critères pour décider de l’attribution. Dans d’autres pays, les populations ont été consultées par référendum ou ces consultations envisagées, comme en Suède et en Suisse (1). Rien de tel en France où le lobby du ski s’est mobilisé d’un seul homme pour s’engouffrer dans l’initiative prise par les présidents de région Laurent Wauquiez (AURA) et Renaud Muselier (PACA). Les Alpes françaises sont seules en lice pour décrocher la timbale.

    De leur côté, Didier Collomb Gros et La Clusaz risquent des amendes pénales de 5e classe (1 500 euros) pour « non-respect du projet fondement de l’autorisation ou de la déclaration d’une opération nuisible à l’eau ou au milieu aquatique » et pour « exercice d’une activité nuisible à l’eau ou au milieu aquatique sans respect des prescriptions de l’arrêté d’autorisation des arrêtés complémentaires ». Ils encourent ainsi jusqu’à 75 000 euros d’amende pour « exploitation sans autorisation d’une installation ou d’un ouvrage nuisible à l’eau ou au milieu aquatique ».

    Le prélèvement illégal sur la source du Lachat enfin stoppé, la station de La Clusaz n’a pourtant pas connu de répit : selon nos informations, des captages irréguliers ont également été découverts en mai, puis juillet 2023 par l’OFB sur les trois autres retenues exploitées par la commune haute-savoyarde. Ceux-là aussi ont été fermés, affirme la collectivité.

    « L’eau est un bien précieux, nous faisons aujourd’hui attention à être irréprochables », assure La Clusaz à Blast. Les promesses n’engagent que ceux qui y croient

    (1) Deux pays que le CIO a finalement préféré écarter.

    https://www.blast-info.fr/articles/2024/info-blast-montagne-comment-la-station-de-la-clusaz-pompe-leau-de-source-
    #ski #stations_de_ski #France #Alpes #Lachat #neige_de_culture #illégalité #industrie_du_ski #ZAD #plateau_de_Beauregard #Didier_Thévenet #justice #remontées_mécaniques

  • “Sotto l’acqua”. Le storie dimenticate dei borghi alpini sommersi in nome del “progresso”

    I grandi invasi per la produzione di energia idroelettrica hanno segnato nei primi decenni del Novecento l’inizio della colonizzazione dei territori montani. #Fabio_Balocco, giornalista e scrittore di tematiche ambientali, ne ha raccolto le vicende in un libro. Un lavoro prezioso anche per comprendere l’attuale dibattito su nuove dighe e bacini a favore di agricoltura intensiva e innevamento artificiale

    Un campanile solitario emerge dalle acque del Lago di Rèsia, in Val Venosta, un invaso realizzato per produrre energia idroelettrica. Quella che per i turisti di oggi è una curiosa attrazione, è in realtà ciò che rimane di una borgata alpina sommersa in nome del “progresso”. Quella del campanile che sorge dalle acque è un’immagine iconica che in tanti conoscono. Ma non si tratta di un caso isolato: molti altri abitati alpini furono sommersi nello scorso secolo, sacrificati sullo stesso altare. Soprattutto nel Piemonte occidentale, dove subirono la sorte le borgate di Osiglia, Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, e un intero Comune come Agàro, nell’Ossola. A raccontare queste storie pressoché dimenticate è il giornalista e scrittore Fabio Balocco nel suo recente saggio “Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi” pubblicato da LAReditore.

    Balocco, perché ha scelto di raccontare queste storie?
    FB Tutto è iniziato con un’inchiesta per la rivista Alp (mensile specializzato in montagna e alpinismo, chiuso nel 2013, ndr) che feci a metà anni Novanta, incentrata proprio su queste storie dei borghi sommersi per produrre energia. Un fenomeno che caratterizzò soprattutto gli anni Venti e Trenta del Novecento per alimentare le industrie della pianura. Sono sempre stato attratto dalle storie “minime”, quelle dei perdenti, in questo caso le popolazioni alpine sacrificate appunto sull’altare dello sviluppo. È quella che io chiamo “la storia con la esse minuscola”. La nascita del libro è dovuta sia al fatto che siamo sulla soglia del secolo da quando iniziarono i primi lavori e sia dal ritorno nel dibattito politico del tema di nuovi invasi. Infine, penso sia necessario parlarne per ricordare che nessuna attività umana è esente da costi ambientali e talvolta anche sociali, come in questi casi che ho trattato.

    Nel libro afferma che l’idroelettrico ha portato ai primi conflitti nelle terre alte, tradendo la popolazione alpina. In che modo è successo?
    FB I grandi invasi per produzione di energia idroelettrica hanno segnato l’inizio della colonizzazione dei territori montani, che fino ad allora non erano stati intaccati dal punto di vista ambientale e sociale da parte del capitale della pianura. Queste opere costituirono l’inizio della colonizzazione di quelle che oggi vengono anche definite “terre alte”, colonizzazione che è proseguita soprattutto con gli impianti sciistici e le seconde case. Vale poi la pensa di sottolineare che almeno due invasi, quello di Ceresole Reale e quello di Beauregard, in Valgrisenche, comportarono la sommersione di due dei più suggestivi paesaggi delle Alpi occidentali.

    Che ruolo hanno avuto le dighe nello spopolamento delle terre alpine?
    FB È bene ricordare che nell’arco alpino occidentale lo spopolamento era già in atto agli inizi del Novecento in quanto spesso per gli abitanti delle vallate alpine era più facile trovare lavoro oltreconfine. Un caso esemplare è quello della migrazione verso la Francia che caratterizzò la Val Varaita, dove fu realizzato l’invaso di Pontechianale. Le dighe non contribuirono in modo diretto allo spopolamento ma causarono l’allontanamento di centinaia di persone dalle loro case che venivano sommerse dalle acque, e molti di questi espropriati non ricevettero neppure un compenso adeguato a comprare un nuovo alloggio, oppure persero tutto il denaro a causa dell’inflazione, come accadde a Osiglia, a seguito dello scoppio Seconda guerra mondiale. Queste popolazioni subirono passivamente le imposizioni, senza mettere in atto delle vere e proprie lotte anche se sapevano che avrebbero subito perdite enormi. Ci furono solo alcuni casi isolati di abitanti che furono portati via a forza. Questo a differenza di quanto avvenuto in Francia, a Tignes, negli anni Quaranta, dove dovette intervenire l’esercito per sgomberare la popolazione. Da noi il sentimento comune fu di rassegnazione.

    Un’altra caratteristica di queste storie è lo scarso preavviso.
    FB Tutto l’iter di approvazione di queste opere avvenne sotto traccia e gli abitanti lo vennero a sapere in modo indiretto, quasi di straforo. Semplicemente si accorgevano della presenza di “stranieri”, spesso tecnici venuti a effettuare lavori di prospezione, e solo con un passaparola successivo venivano a conoscenza dell’imminente costruzione della diga. Anche il tempo a loro lasciato per abbandonare le abitazioni fu di solito molto breve. Le imprese della pianura stavano realizzando degli interessi superiori e non erano interessate a informare adeguatamente le popolazioni coinvolte. Le opere furono realizzate da grandi imprese specializzate che si portavano dietro il loro personale. Si trattava di lavori spesso molto specialistici e solo per le mansioni di bassa manovalanza venne impegnata la popolazione locale. D’altra parte, questo incontro tra il personale delle imprese e i locali portò a conseguenze di carattere sociale in quanto i lavori durarono diversi anni e questa intrusione portò anche alla nascita di nuovi nuclei familiari.

    Differente è il caso di Badalucco, dove negli anni Sessanta gli abitanti riuscirono a opporsi alla costruzione della diga. In che modo?
    FB Badalucco è sempre un Comune alpino, sito in Valle Argentina, in provincia di Imperia e anche lì si voleva realizzare un grande invaso all’inizio degli anni Sessanta. Ma qui le cose andarono in maniera diversa, sicuramente anche perché nel 1959 c’era stata una grave tragedia in Francia quando la diga del Malpasset crollò provocando la morte di quasi 500 persone. A Badalucco ci fu quindi una vera e propria sollevazione popolare guidata dallo stesso sindaco del Comune, sollevazione che, anche attraverso scontri violenti, portò alla rinuncia da parte dell’impresa. L’Enel ha tentato di recuperare il progetto (seppure in forma ridotta) nei decenni successivi trovando però sempre a una forte opposizione locale, che dura tuttora.

    Il governo promette di realizzare nuove dighe e invasi. È una decisione sensata? Che effetti può avere sui territori montani?
    FB A parte i mini bacini per la produzione di neve artificiale nelle stazioni sciistiche, oggi vi sono due grandi filoni distinti: uno è il “vecchio” progetto “Mille dighe” voluto da Eni, Enel e Coldiretti con il supporto di Cassa depositi e prestiti, che consiste nella realizzazione di un gran numero di piccoli invasi a sostegno soprattutto dell’agricoltura, ma anche per la fornitura di acqua potabile. Poi vi sono invece i progetti di nuovi grandi sbarramenti, come quello previsto lungo il torrente Vanoi, tra Veneto e Trentino, o quelli di Combanera, in Val di Lanzo, e di Ingria, in Val Soana, in Piemonte. Come dicevo, oggi l’esigenza primaria non è tanto la produzione di elettricità quanto soprattutto l’irrigazione e, in minor misura, l’idropotabile. Si vogliono realizzare queste opere senza però affrontare i problemi delle perdite degli acquedotti (che spesso sono dei colabrodo) né il nostro modello di agricoltura. Ad esempio, la maggior parte dell’acqua utilizzata per i campi finisce in coltivazioni, come il mais, per produrre mangimi destinati agli allevamenti intensivi. Questo senza considerare gli impatti ambientali e territoriali che le nuove opere causerebbero. In buona sostanza, bisognerebbe ripensare il nostro modello di sviluppo prima di tornare a colonizzare nuovamente le terre alte.

    https://altreconomia.it/sotto-lacqua-le-storie-dimenticate-dei-borghi-alpini-sommersi-in-nome-d

    #montagne #Alpes #disparitions #progrès #villages #barrages #barrages_hydro-électriques #énergie_hydro-électrique #énergie #colonisation #industrialisation #histoire #histoires #disparition #terre_alte #Badalucco #Osiglia #Pontechianale #Ceresole_Reale #Valgrisenche #Agàro #Beauregard #Ceresole_Reale #Mille_dighe #Vanoi #Combanera #Ingria

    • Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi

      Circa un secolo fa iniziò, nel nostro paese, il fenomeno dell’industrializzazione. Ma questo aveva bisogno della forza trainante dell’energia elettrica. Si pensò allora al potenziale rappresentato dagli innumerevoli corsi d’acqua che innervavano le valli alpine. Ed ecco la realizzazione di grandi bacini di accumulo per produrre quella che oggi chiamiamo energia pulita o rinnovabile. Ma qualsiasi azione dell’uomo sull’ambiente non è a costo zero e, nel caso dei grandi invasi idroelettrici, il costo fu anche e soprattutto rappresentato dal sacrificio di intere borgate o comuni che venivano sommersi dalle acque. Quest’opera racconta, tramite testimonianze, ricordi e fotografie, com’erano quei luoghi, seppur limitandosi all’arco alpino occidentale. Prima che se ne perda per sempre la memoria.

      https://www.ibs.it/sotto-acqua-storie-di-invasi-libro-fabio-balocco/e/9791255450597

      #livre

  • Quels droits pour les promeneurs, entre droit d’accès à la nature et propriété privée ?
    https://theconversation.com/quels-droits-pour-les-promeneurs-entre-droit-dacces-a-la-nature-et-

    Se promener dans la nature, cela peut-être, selon le point de vue que l’on adopte, un droit, un loisir, un sport, un bienfait pour la santé, mais aussi, depuis une récente loi passée en février 2023, une infraction pénale. Car une grande majorité des forêts françaises ne sont pas publiques, et que l’accès aux espaces naturels et aux forêts privés est désormais sanctionné par une amende de 135 euros. Comment en est-on arrivé là et quel avenir se dessine pour l’accès à la nature ?

    #propriété_privée

  • Contre le développement de l’aérodrome d’Albertville
    https://carfree.fr/index.php/2024/05/16/contre-le-developpement-de-laerodrome-dalbertville

    Les vallées sont déjà envahies de voitures, ils veulent envahir aussi le ciel. Signez la pétition contre le développement de l’aérodrome d’Albertville pour préserver nos montagnes. Fin 2019, suite au Lire la suite...

    #Destruction_de_la_planète #Fin_du_pétrole #Pétitions #Réchauffement_climatique #aéroport #albertville #avions #bruit #hélicologisme #montagne #nuisances

  • Bulgaria : Road to Schengen. Part One : the EU’s external border.

    On the 31st of March, Bulgaria - alongside Romania - joined Schengen as a partial member by air & sea. The inclusion of land crossings for full accession of these countries was blocked by an Austrian veto over concerns(1) that it would lead to an increase in people wanting to claim asylum in the EU.

    What is significant about Bulgaria becoming a Schengen member is that, what has been seen in the lead up, and what we will see following accession, is a new precedent of aggressively fortified borders set for the EU’s external Schengen borders. Which in turn may shape EU wide standards for border management.

    The EU’s external border between Bulgaria and Turkey has become infamous for a myriad of human rights violations and violence towards people who are forced to cross this border ‘illegally’. People continually face the violence of these crossings due to the lack of safe and legal routes allowing people to fulfill their right to seek asylum in Europe.

    In 2022 it was along this border that live ammunition(2) was first used against people seeking asylum in the EU. Shot by the Bulgarian authorities. In the same year it was reported(3) that people were illegally detained for up to 3 days in a cage-like structure attached to the police station in the border town of Sredets. It was also known that vehicles belonging to the European border force Frontex - who are responsible for border management and supposedly upholding fundamental rights - were present in the vicinity of the cages holding detained people.

    The EU’s illegal border management strategy of pushbacks are also well documented and commonplace along this border. Testimonies of pushbacks in this region are frequent and often violent. Within the past year Collective Aid has collected numerous testimonies from survivors of these actions of the state who describe(4) being stripped down to their underwear, beaten with batons and the butts of guns, robbed, and set on by dogs. Violence is clearly the systematic deterrence strategy of the EU.

    Similar violence occurs and is documented along Bulgaria’s northern border with Serbia. During an assessment of the camps in Sofia in March, outside of the Voenna Rampa facility, our team spoke to an Afghan man who, 6 months prior, was beaten so badly during a pushback that his leg was broken. Half a year later he was still using a crutch and was supported by his friends. Due to the ordeal, he had decided to try and claim asylum in Bulgaria instead of risking another border crossing.

    Despite the widespread and well documented violations of European and international law by an EU member state, at the beginning of March Bulgaria was rewarded(5) with its share of an 85 million Euro fund within a ‘cooperation framework on border and migration management’. The money within this framework specifically comes under the Border Management and Visa Instrument (BMVI) 2021 – 2027, designed to ‘enhance national capabilities at the EU external borders’. Within the instrument Bulgaria is able to apply for additional funding to extend or upgrade technology along its borders. This includes purchasing, developing, or upgrading equipment such as movement detection and thermo-vision cameras and vehicles with thermo-vision capabilities. It is the use of this border tech which enables and facilitates the illegal and violent practices which are well documented in Bulgaria.

    Close to the town of Dragoman along the northern border with Serbia, we came across an example of the kind of technology which used a controlled mounted camera that tracked the movement of our team. This piece of equipment was also purchased by the EU, and is used to track movement at the internal border.

    The cooperation framework also outlines(6) a roadmap where Frontex will increase its support of policing at Bulgaria’s border with Turkey. In late February, in the run up to Bulgaria becoming a Schengen member, on a visit to the border with Turkey, Hans Leijtens - Frontex’s executive director - announced(7) an additional 500 - 600 additional Frontex personnel would be sent to the border. Tripling the numbers already operational there.

    Meanwhile Frontex - who have been known(8) to conceal evidence of human rights violations - are again under scrutiny(9) for their lack of accountability in regards to the upholding of fundamental rights. Two days prior to the announcement of additional Frontex staff an investigation(10) by BIRN produced a report from a Frontex whistleblower further highlighting the common kinds of violence and rights violations which occur during pushbacks at this border. As well as the fact that Frontex officers were intentionally kept away from ‘hot spots’ where pushbacks are most frequent. The investigation underlines Frontex’s inability to address, or be held accountable for, human rights violations that occur on the EU’s external borders.

    The awarded money is the next step following a ‘successful’ pilot project for fast-track asylum and returns procedures which was started in March of the previous year. The project was implemented in the Pastrogor camp some 13km from the Turkish border which mostly houses people from the Maghreb region of northwest Africa. A 6 month project report(11) boasts a 60% rejection rate from around 2000 applicants. In line with the EU’s new migration pact, the project has a focus on returns whereby an amendment to national legislation has been prepared to allow a return decision to be made and delivered at the same time as an asylum rejection. As well as the launch of a voluntary return programme supported by the 2021-2027 Asylum, Migration and Integration Fund (AMIF). Through which cash incentives for voluntary returns will be increased across the board. These cash incentives are essentially an EU funded gaslighting project, questioning the decisions of people to leave their home countries based on their own survival and safety.

    Our team visited the former prison of the Pastrogor camp in March. Which at the time held only 16 people - some 5% of its 320 capacity.

    The implementation of this pilot project and the fortification of the border with Turkey have been deemed a success by the EU commision(12) who have praised both as indicators of Bulgaria’s readiness to join the Schengen area.

    Unsurprisingly, what we learn from Bulgaria’s accession to becoming a Schengen member is that the EU is not only deliberately ignoring Bulgaria’s dire human rights history in migration and border management. But, alongside the political and economic strengthening brought with Schengen accession, they are actively rewarding the results of such rights violations with exceptional funding that can sustain the state’s human rights infringements. All while the presence of Frontex validates the impunity enjoyed by Bulgaria’s violent border forces who show no respect for human rights law. In early April the European Commision gave a positive report(13) on the results from EU funding which support this border rife with fundamental rights abuses. In a hollow statement Bulgaria’s chief of border police stated: “we are showing zero tolerance to the violation of fundamental rights”.

    What the changes in border management strategies at the EU’s external border to Turkey- in light of Bulgaria’s entry to the Schengen - mean in reality is that people who are still forced to make the crossing do so at greater risk to themselves as they are forced deeper into both the hands of smuggling networks and into the dangerous Strandzha national park.

    The Strandzha national park straddles the Bulgarian-Turkish border. It is in this densely forested and mountainous area of land where people are known to often make the border crossing by foot. A treacherous journey often taking many days, and also known to have taken many lives - lighthouse reports identified 82 bodies of people on the move that have passed through three morgues in Bulgaria. Many of whom will have died on the Strandzha crossing.

    It is reported(14) that morgues in the towns of Burgas and Yambol - on the outskirts of the Strandzha national park - are having difficulty finding space due to the amount of deaths occurring in this area. So much so that a public prosecutor from Yambol explained this as the reason why people are being buried without identification in nameless graves, sometimes after only 4 days of storage. It is also reported that families who tried to find and identify the bodies of their deceased loved ones were forced to pay cash bribes to the Burgas morgue in order to do so.

    Through networks with families in home countries, NGOs based nearby make efforts to alert authorities and to respond to distress calls from people in danger within the Strandzha national park. However, the Bulgarian state makes these attempts nearly impossible through heavy militarisation and the associated criminalisation of being active in the area. It is the same militarisation that is supported with money from the EU’s ‘cooperation framework’. Due to these limitations even the bodies that make it to morgues in Bulgaria are likely to be only a percentage of the total death toll that is effectively sponsored by the EU.

    Local NGO Mission Wings stated(15) that in 2022 they received at most 12 distress calls, whereas in 2023 the NGO stopped counting at 70. This gives a clear correlation between increased funding to the fortification of the EU’s external border and the amount of lives put in danger.

    People are also forced to rely more on smuggling networks. Thus making the cost of seeking asylum greater, and the routes more hidden. When routes become more hidden and reliant on smuggling networks, it limits the interaction between people on the move and NGOs. In turn, testimonies of state violence and illegal practices cannot be collected and violations occur unchallenged. Smuggling networks rely on the use of vehicles, often driving packed cars, vans, and lorries at high speed through the country. Injuries and fatalities of people on the move from car crashes and suffocating are not infrequent in Bulgaria. Sadly, tragic incidents(16) like the deaths of 18 innocent people from Afghanistan in the back of an abandoned truck in February last year are likely only to increase.

    https://www.collectiveaidngo.org/blog/2024/5/3/bulgaria-road-to-schengen-part-one-the-eus-external-border
    #Bulgarie #frontières #Schengen #migrations #frontières_extérieures #asile #réfugiés #Balkans #route_des_Balkans #violence #Turquie #Sredets #encampement #Frontex #droits_humains #Serbie #Sofia #Voenna_Rampa #Border_Management_and_Visa_Instrument (#BMVI) #aide_financière #technologie #Dragoman #Pastrogor #camps_de_réfugiés #renvois #expulsions #retour_volontaire #Asylum_Migration_and_Integration_Fund (#AMIF) #Strandzha #Strandzha_national_park #forêt #montagne #Burgas #Yambol #mourir_aux_frontières #décès #morts_aux_frontières #identification #tombes #criminalisation_de_la_solidarité #morgue

    –-

    ajouté à ce fil de discussion :
    Europe’s Nameless Dead
    https://seenthis.net/messages/1029609

  • Déprise glaciaire
    https://www.terrestres.org/2024/04/19/deprise-glaciaire

    Pour accompagner comme il se doit la sortie de « Premières secousses », le livre collectif des Soulèvements de la terre, nous en publions un extrait : le puissant récit, en mots et en photographies, de l’occupation du glacier de la Girose, dans les Hautes-Alpes, en octobre 2023, contre la construction d’un nouveau tronçon de téléphérique. L’article Déprise glaciaire est apparu en premier sur Terrestres.

    #Climat #Grands_projets_inutiles_et_imposés #Luttes #Montagne

  • La Ronde des hirondelles

    La Ronde des hirondelles dépeint le quotidien d’hommes exilés au cœur des Hautes-Alpes. Ils y sont dans un état latent — après des semaines de longues marches. L’interaction avec le paysage, l’immersion et la contemplation ont rythmé ces temps. La #marche est ici perçue comme un exutoire, un état réflexif ; une échappatoire au quotidien parfois morose.

    La #tapisserie que Florence souhaite réaliser a pour ambition de symboliser les voyages de ceux qui ont été contraints de fuir. Confectionné dans le style des tapis Azilal de la région du Tadla-Azilal dans le Haut Atlas, cette pièce décrit les chemins empruntés par les exilés sous la forme de lignes vives, dynamiques et colorées. Chaque tapisserie berbère a une signification profonde et multiforme, englobant des croyances, rituels et modes de pensée intrinsèques à cette culture. La tisserande incorpore son propre choix de motifs, inspirés par la résonance émotionnelle des histoires d’exil du peuple nomade Azilal.

    L’artiste installe son atelier dans les locaux du CADA afin de le rendre accessible à toustes. Il accueille des séances de portrait au cyanotype. Des séances de prise de parole et des ateliers d’écriture se tiennent également à cet endroit.

    L’objectif central est de faciliter le processus de reconstruction de la confiance en soi et de réévaluation de la perception de soi pour les personnes en situation d’exil. Ce projet vise à donner aux individus les moyens de se réapproprier leur corps, leur histoire et leur identité et de leur rendre leur droit à l’image.

    https://www.ateliersmedicis.fr/le-reseau/projet/la-ronde-des-hirondelles-31761
    #photographie #Hautes-Alpes #migrations #errance #montagne #Florence_Cuschieri #Gap #art #art_et_politique
    via @karine4

  • Chi si oppone a una nuova grande diga tra Veneto e Trentino per irrigare la pianura

    Il torrente #Vanoi che scorre in #Val_Cortella è minacciato da un progetto di sbarramento alto 116 metri dai costi ambientali ed economici elevatissimi. La Giunta Zaia parla di “difesa idraulica” e “tesaurizzazione idrica” mentre le comunità locali sono state escluse e l’area è segnata da smottamenti e frane. Le alternative esistono.

    L’incontro con Daniele Gubert è nei pressi del lago Schenèr, al confine tra Veneto e Trentino. Gubert fa parte del “Comitato per la difesa del torrente Vanoi e delle acque dolci” nato nel 1998 per scongiurare la costruzione di uno sbarramento del corso d’acqua che scorre in Val Cortella. “Non pensavo di dover tornare a lottare per il Vanoi”, racconta, ricordando le battaglie di vent’anni fa.

    In #Primiero, nel Trentino orientale, il settore idroelettrico ha già alterato profondamente l’assetto idrografico di vari torrenti, tant’è che si possono contare ben quattro bacini artificiali, realizzati da inizio Novecento, nell’arco di poche decine di chilometri quadrati.

    Dal lago ci si sposta a piedi fino al torrente Vanoi per visitare il sito in cui è prevista la costruzione di un’ulteriore diga, ad appena un chilometro in linea d’aria dallo sbarramento già esistente sullo #Schenèr. Nonostante la valle sia difficilmente accessibile, i tentativi per raggiungerla vengono ricompensati dalla bellezza che caratterizza la natura selvaggia dell’intero letto fluviale. “È uno dei pochi posti in Trentino dove la trota marmorata, specie endemica e in via di estinzione, riesce a riprodursi”, spiega Gubert, aggiungendo che per deporre le uova il pesce deve risalire il fiume per diversi chilometri. A confermare la rilevanza ecologica della valle sono due siti Rete natura 2000, di grande importanza per la presenza di boschi di abete bianco, in regressione su tutta la catena alpina, e di specie animali in forte diminuzione.

    Alto 116 metri, lo sbarramento poggerebbe a destra nella parte più settentrionale di Lamon, Comune bellunese, mentre la maggior parte dell’invaso (da 40 milioni di metri cubi di volume), ricadrebbe in Trentino. “Se il progetto venisse realizzato segnerebbe il territorio, e le relative opportunità turistiche, in modo irreparabile -continua Gubert-. La narrativa dominante associa il concetto di rinnovabile al settore idroelettrico, ma dovremmo parlare piuttosto di prassi usa e getta delle valli alpine, poiché i bacini esistenti sono pieni di sedimenti, molti risalenti all’alluvione del 1966, e invece di ripulirli e fare le opportune manutenzioni se ne progettano di nuovi”.

    Considerato e archiviato a più riprese fin dagli anni Venti del secolo scorso, a fine 2020 la Giunta regionale del Veneto guidata da #Luca_Zaia inserisce nel Piano regionale per la ripresa e la resilienza il progetto “Difesa idraulica e tesaurizzazione idrica tramite il nuovo serbatoio del Vanoi nel bacino del fiume Brenta”, motivando l’opera come necessaria per la difesa idraulica nelle province di Vicenza e Padova. Nel 2022 viene concesso un milione di euro, con fondi ministeriali, al Consorzio di bonifica del Brenta per l’esecuzione della progettazione e, poco dopo, il Consiglio regionale approva la realizzazione della diga. A maggio dell’anno successivo, la Provincia autonoma di Trento lamenta il mancato coinvolgimento nelle operazioni che hanno portato all’affidamento dell’opera e ricorda che, secondo la Carta di sintesi della pericolosità di Trento, l’area dove dovrebbe sorgere l’invaso è classificata con il massimo grado di rischio idrogeologico.

    Di quest’ultimo punto è facile rendersene conto: i fianchi della valle mostrano numerosi smottamenti e frane, che hanno reso addirittura impraticabile la strada della Cortella. Alfonso Tollardo, geologo intervenuto in occasione di un incontro pubblico organizzato a Lamon dal Partito democratico “Belluno Dolomiti” a inizio febbraio, e dedicato al progetto della diga sul Vanoi, ha dichiarato che, sebbene non ci siano le stesse condizioni geologiche del disastro del Vajont del 1963, c’è comunque la possibilità che del materiale franoso cada, con conseguente rischio per la diga e le comunità a valle. Il geologo ha descritto, inoltre, il grande impatto che avrà la costruzione dell’opera (per la quale sono previsti 24mila metri cubi di calcestruzzo, ovvero decine di migliaia di camion carichi di materiale che causerebbero non pochi disagi alla viabilità locale basata su un’unica via d’accesso) e il suo cantiere, per il quale si costruiranno ponti, gallerie, strade e terrazzamenti. In poche parole, il versante orografico destro verrebbe devastato.

    “A maggio del 2023 il presidente della Regione Veneto Zaia ha trasmesso l’elenco degli interventi di urgente realizzazione per il contrasto alla scarsità idrica al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Tra questi anche quello della diga sul Vanoi, con una richiesta di finanziamento pari a 150 milioni di euro -ricorda da Belluno Alessandro Del Bianco, segretario provinciale del Partito democratico-. Abbiamo raccolto migliaia di firme e presentato un ordine del giorno ai consigli comunali e a quello provinciale contro l’invaso, oltre che una nuova mozione in consiglio regionale e un’interrogazione in Parlamento per chiedere la sospensione del finanziamento al progetto. Molte amministrazioni comunali si sono pronunciate contro, come anche le Province di Belluno e di Trento”. “Di questa faccenda contestiamo l’assenza di trasparenza”, dice riferendosi al diniego ricevuto dalla Provincia autonoma di Trento di accesso agli atti relativi all’assegnazione della progettazione al Consorzio di bonifica Brenta. “L’Autorità nazionale anticorruzione ha sollevato una serie di perplessità sull’affidamento della progettazione”, avverte il segretario parlando, inoltre, di una strumentalizzazione della questione climatica per giustificare l’urgenza del progetto.

    E a proposito di urgenza, in occasione di Fieragricola 2024, il commissario straordinario per la crisi idrica, Nicola dell’Acqua, ha dichiarato che se un territorio ne ha la necessità, si devono realizzare anche le dighe. “Affermazione perentoria e autoreferenziale quella del commissario, per altro organo tecnico amministrativo privo di legittimazione democratica, che fa intendere, attraverso parametri fattuali di necessità e urgenza, la determinazione di disconoscere e rimuovere buone ragioni di dissenso e unitarie azioni di opposizioni delle comunità territoriali contro alcuni interventi strutturali anacronistici e insostenibili”, commenta Valter Bonan, ex presidente del Parco nazionale dolomiti bellunesi. “Questo approccio anomalo e centralistico è messo in pratica dal Decreto legge n. 39 del 2023, o Decreto siccità, che presenta evidenti torsioni di quasi una decina di articoli costituzionali e un pericoloso utilizzo dei poteri sostitutivi dello Stato rispetto alle competenze istituzionali decentrate e al diritto fondamentale di partecipazione dei cittadini nel governo dei beni comuni”.

    Eppure di alternative alla diga ce ne sarebbero, come le aree forestali di infiltrazione che facilitano la ricarica degli acquiferi tramite sistemi costituiti da apposite scoline e specie vegetali. Questa soluzione è stata suggerita da Arturo Lorenzoni, docente di Economia dell’energia presso l’Università di Padova, sempre in occasione dell’incontro informativo del 4 febbraio, dove ha spiegato come per il cambiamento climatico le precipitazioni siano sempre più concentrate e facciano fatica a penetrare nel suolo, da qua la necessità di aumentarne la permeabilità. Almeno di quel poco che ne rimane, considerato che il Veneto è la seconda Regione in Italia per consumo di suolo.

    “Con la realizzazione della diga sul Vanoi si rischia di scatenare un’inedita guerra, tra ricchi, per l’acqua -conclude Daniele Gubert-. L’acqua è di tutti e, in Trentino come in Veneto, vanno adottate misure per risparmiarla e alternative sostenibili prima di invocare la grande opera”.

    https://altreconomia.it/chi-si-oppone-a-una-nuova-grande-diga-tra-veneto-e-trentino-per-irrigar


    https://www.agenziagiornalisticaopinione.it/lettere-al-direttore/comitato-difesa-torrente-vanoi-opere-la-val-cortella-e-

    #Italie #Alpes #montagne #résistance #barrage_hydro-électrique #eau #barrages

  • "Nos logements sont indignes, nos salaires dérisoires" : les bergers dépités par l’arrêt des négociations sur leurs #conditions_de_travail

    Dans les #Alpes, les #bergers dénoncent l’arrêt des négociations sur leurs conditions de travail. Depuis deux ans, ils luttent pour une meilleure #rémunération mais aussi des #habitats plus dignes. Alors que des pourparlers devaient se tenir, les représentants des éleveurs ont annulé les discussions.

    « Pas de gaz pour cuisiner, pas d’chauffage sans incendier, pas de place pour se relever, un matelas pour tout plancher » : il y a un peu moins d’un an, Pastor X & the Black PatouX dénonçait dans un clip de rap montagnard, les conditions dans lesquelles certains bergers travaillent en #estive, notamment en #Savoie, dans le parc national de la #Vanoise.

    Ils vivent dans des #cabanes de 4 mètres carrés, sans toilettes, ni gaz, ni eau potable. Des #abris_d'urgence dans l’attente de construction de chalets d’#alpage. Mais ces solutions, censées être temporaires, sont devenues insoutenables pour les premiers intéressés (voir notre reportage ci-dessous).

    90 heures de travail au lieu des 44 réglementaires

    « On estime qu’on a des conditions de logement qui sont indignes en alpage mais aussi ailleurs », déclare Tomas Bustarret, membre du syndicat de gardiens de troupeaux de l’Isère.

    #Promiscuité et #insalubrité viennent s’ajouter à des conditions de travail que les bergers jugent intolérables.

    « Les #salaires varient entre 1500 et 2500 euros, la moyenne est autour de 1900-2000 euros pour 44 heures de travail légales. Mais, dans les faits, on fait 70 à 90 heures de travail. Donc, rapporté au nombre d’heures travaillées, ces salaires sont dérisoires », poursuit-il.

    Des #frais_professionnels s’élevant à 1000 euros

    D’autant que les bergers fournissent leurs propres « équipements » en alpage : les vêtements pour résister aux conditions météo mais aussi les chiens de conduite des troupeaux (Border collie).

    « L’utilisation des #chiens n’est pas reconnue au niveau de nos frais », déplore Tomas Bustarret. « C’est nous qui payons la nourriture, les frais de vétérinaire des chiens et aussi nos vêtements qui nous servent pour le travail », dit-il, estimant que ces frais professionnels s’élèvent à un millier d’euros par saison.

    La pilule a d’autant plus de mal à passer que l’#élevage ovin est subventionné dans le cadre du #plan_loup, pour faire face au prédateur.

    Un secteur très subventionné par l’Etat

    « On pourrait être payés plus, ça ne ferait pas s’effondrer l’économie de nos employeurs », ajoute le jeune homme. « Les salaires sont subventionnés par le plan #loup pour les gardiens d’ovins à 80%, jusqu’à 2 500 euros. Du coup, nous, on tombe un peu des nues quand on nous refuse 200 euros ou 400 euros de plus par mois », dit-il.

    Les gardiens de troupeaux, grands oubliés de la colère agricole ?

    Cohabitation avec les usagers de la #montagne, retour du loup, mesures environnementales, le métier de berger évolue. Pour toutes ces raisons, les gardiens de troupeaux se sont regroupés en syndicat, affilié à la CGT, pour faire entendre leur voix.

    « L’idée, c’est d’améliorer par la réglementation les conditions de travail des bergers en empêchant les mauvaises pratiques de certains employeurs », avance Tomas Bustarret.

    En avril 2023, ils avaient mené une action devant la maison des agriculteurs de l’Isère.

    Les négociations au point mort

    « C’est une négociation. On ne peut pas leur donner satisfaction à 200 % mais on essayera d’aller dans leur sens le plus possible », assurait alors Guy Durand, éleveur et représentant pour l’Isère de la FDSEA, au micro de France 3 Alpes.

    Mais ces négociations n’ont abouti à rien de concret pour l’instant. Pire, celles qui devaient avoir lieu le 7 mars, ont été annulées par la Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles. Les rendez-vous à l’échelle départementale et nationale sur le statut des ouvriers agricoles sont également au point mort.

    La remise en cause des #conventions_collectives ?

    Une commission paritaire devrait avoir lieu le 14 mars avec la fédération départementale de l’Isère, « mais la dernière a été annulée deux jours avant donc on ne sait pas si elle va se tenir », dit encore le jeune homme.

    Dans chaque département, une convention collective territoriale est établie. « Dans l’Ain, la FNSEA tente de supprimer des accords territoriaux qui assurent des droits spécifiques aux salariés agricoles », indique Tomas Bustarret.

    Les bergers et les gardiens de troupeaux se disent prêts à multiplier les actions pour obliger les exploitants agricoles à revenir à la table des négociations.

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/auvergne-rhone-alpes/isere/temoignage-nos-logements-sont-indignes-nos-salaires-der
    #travail #montagne #logement

  • Alpinisme & anarchisme

    Né au XIXe siècle au sein de la haute société britannique, l’alpinisme n’est pas pour autant resté l’apanage des dominants. L’idée de grimper les montagnes a aussi fait son chemin parmi les exploités, à la faveur des premiers #congés_payés. Mais la montagne n’est pas qu’un terrain de jeu ou une frontière naturelle, c’est aussi un #refuge pour les opprimés, un lieu de #passage_clandestin, un terrain d’expression privilégié pour les #luttes écologiques et sociales. Un environnement qui peut sembler hostile, aussi, et qui impose que ceux qui s’y aventurent s’écoutent et s’entraident. Un monde où la #solidarité et la #liberté forment un socle de #valeurs_communes entre l’alpinisme et l’anarchisme.

    https://www.nada-editions.fr/produit/alpinisme-anarchisme

    #alpinisme #montagne #anarchisme #livre #entraide

  • #Monte_Verità

    1906. Hanna ne veut rien d’autre que se libérer de son corset bourgeois. Lorsqu’elle s’enfuit au célèbre Monte Verità, laissant ses filles derrière elle, elle est d’abord réticente à accepter le mode de vie libre de ceux qui cherchent un sens à leur vie. Mais lorsqu’elle commence à photographier les invités, elle se dépasse. Dans sa dévotion à l’art, elle doit se demander : peut-elle retourner dans sa famille sans se renier ?

    https://www.swissfilms.ch/fr/movie/monte-verita/030D2745C6844CEBB173B407A434D520
    #film #Ascona #Tessin #Suisse #liberté #montagne

  • #Transhumance hivernale à travers le #Jura

    Le Quotidien Jurassien prend cette semaine le pas de la transhumance hivernale de la #Bergerie_de_Froidevaux à travers le Jura. Un périple nomade de quatre mois, sous la pluie, la neige, le vent et la bonne étoile d’une jeune bergère.

    (#paywall)
    https://www.lqj.ch/series/transhumance-hivernale-a-travers-le-jura
    #hiver #Glovelier #montagne

  • Face au manque de neige, les habitants font revivre les stations délaissées

    Alors que la neige manque et que les stations de ski ne sont plus rentables, des habitants du massif de la Chartreuse tentent de faire revivre, sous forme associative, celles de leur village.

    « C’est une saison noire… ou plutôt une saison verte ! » La situation n’est pas réjouissante, mais Pascual Lacroix garde son sens de l’humour. En pleines vacances de février, l’herbe est détrempée sur les pentes de la station de ski de Saint-Hilaire-du-Touvet, dans le massif de la Chartreuse (Isère), parsemée ça et là de petits monticules de neige. Les flocons tant espérés ne sont jamais vraiment tombés, et les températures, bien trop douces, ont vite entamé les quelques centimètres de poudreuse.

    Pourtant, tout était prêt. Depuis des mois, Pascual Lacroix et les autres bénévoles de l’association Ag’Hil, Agir pour la station de Saint-Hil’, ne comptaient pas leurs heures, en dehors de leurs horaires de travail pour certains, les soirs, les week-ends, pour tout installer : dameuses remises d’aplomb, téléskis en place, abords des pistes débroussaillés, planning des postes programmé. L’association s’est constituée au printemps 2023, bien déterminée à rouvrir la station de ski pour la saison 2023-2024.

    Fin 2021, la station de ski (11 pistes et 5 téléskis) était mise à l’arrêt après de gros éboulements ayant détruit en grande partie le funiculaire de Saint-Hilaire-du-Touvet. Première infrastructure touristique de la commune du Plateau-des-Petites-Roches, le funiculaire permettait de financer le fonctionnement de la station de ski, « structurellement déficitaire », explique la maire de la commune, Dominique Clouzeau, les deux infrastructures étant sous régie municipale. « Après les éboulements, on a dû se résoudre à licencier les trois salariés de la régie, et à tout mettre en pause. »

    « Il fallait être un peu fous »

    Quand la question de rouvrir ou non la station de ski s’est posée, avec un funiculaire toujours à l’arrêt, le constat de la commune fut sans appel : impossible de mobiliser les 150 000 euros que coûterait l’ouverture de la station sur la saison hivernale, alors que l’enneigement est de plus en plus incertain. Une habitante du village, Perrine Broust, a malgré tout écrit une lettre ouverte à la municipalité, qui a réuni « 200 signatures en vingt-quatre heures », se souvient la quarantenaire.

    Petit à petit, l’idée d’une structure associative pour reprendre la gestion des remontées mécaniques, « utopique au début », fait son chemin. Même si les défis, notamment administratifs et financiers, sont énormes : « Il fallait être un peu fous pour faire ça », rient Perrine et Pascual. « Mais nous, on a skié ici, on a appris à nos enfants à skier ici. La station, c’est un lieu de convivialité essentiel, on ne voulait pas perdre ça. »

    En quelques mois, l’association en devenir a réuni plus de 200 adhérents, habitants de Chartreuse et d’ailleurs. Chacun a apporté ses compétences, son savoir-faire ou tout simplement son énergie : l’ancien garagiste du village s’est porté volontaire pour réparer la dameuse, les anciens salariés de la station sont venus donner des conseils, de nombreux bénévoles se sont formés aux remontées mécaniques. « Cela a rassuré le SRMTG [le Service technique des remontées mécaniques et des transports guidés, qui donne les autorisations d’exploiter le matériel] et les assurances de voir que l’on avait tout ce qu’il fallait pour que tout fonctionne bien », souligne Pascual.
    Un modèle associatif qui essaime

    Face à un enneigement toujours plus aléatoire — la plupart des stations de ski sont situées à un peu plus de 1 000 mètres, et la plus haute à 1 300 mètres d’altitude — et des équations financières impossibles à tenir pour les communes lorsque les gestionnaires privés ont déserté, le modèle associatif s’impose progressivement dans le massif de la Chartreuse. La flexibilité financière et organisationnelle que permet le modèle associatif a déjà séduit la moitié des huit stations de Chartreuse. « On ne s’appelle pas Ag’hil pour rien », souligne Perrine, malicieuse. « Si demain il neige, on envoie un mail aux bénévoles et on est prêt à ouvrir ! »

    La station voisine du Planolet, située à 1 100 mètres d’altitude au cœur du massif, a pu ouvrir quelques jours début janvier. Là aussi, Nouvelles traces en Chartreuse, la toute nouvelle association qui s’occupe depuis cette année des remontées mécaniques, a fédéré habitants et sympathisants de la station, après une saison 2022-2023 gérée de manière spontanée par un collectif d’habitants. Loueur à la retraite, restaurateur de la station, ancien pisteur… « Toutes des personnes qui ont envie de sauver la station », résume Yann Daniel, directeur de l’école de ski de Saint-Pierre-de-Chartreuse et membre de l’association.

    Tout au nord du massif de la Chartreuse, l’association Les skieurs du Granier, qui regroupe 115 bénévoles, gère depuis 2019 le domaine de ski du même nom, après avoir bénéficié d’une délégation de service public de la Communauté de communes Cœur de Chartreuse. « La station n’était pas viable économiquement, c’est pour ça qu’on a créé une association », raconte Violaine Rey, bénévole depuis les débuts. « On s’est aussi rendu compte que c’était un argument auprès des gens qui viennent dans la station, ils apprécient la convivialité qui découle du modèle associatif : tout le monde se connnait et la station est à taille humaine. »
    Penser « l’après-ski »

    Cette année, l’enneigement catastrophique contrarie quelque peu ces élans tout neufs. « C’est la première année “blanche” depuis qu’on a repris la station avec l’association », se désole Violaine Rey. « On savait que ça n’allait pas durer cinquante ans, mais ça fait bizarre de voir que ça y est, c’est sûrement la fin d’une ère », regrette la jeune femme qui a appris à skier dans la station et y a même été saisonnière. La suite ? « Elle est assez floue, on réfléchira à tête froide », concède Violaine Rey. « Il y aura évidemment des questions à se poser à l’issue de cette non-saison. »

    « C’est un peu la gueule de bois », reconnaissent de leur côté Perrine et Pascual. « On a tellement travaillé, tellement de choses ont été mises en place… On retente l’aventure l’année prochaine ! » Au-delà du ski, les bénévoles sont lucides : comme beaucoup de stations de ski de moyenne montagne, il faudra penser « l’après-ski »... et diversifier le modèle économique. « On réfléchit aux “quatre saisons”, avec la randonnée, les raquettes, le VTT », abonde la maire du #Plateau-des-Petites-Roches Dominique Clouzeau, pour qui l’horizon est clair : « On ne veut pas devenir un village-dortoir. »

    https://reporterre.net/Face-au-manque-de-neige-les-habitants-font-revivre-les-stations-delaisse

    #Saint-Hilaire-du-Touvet #neige #Chartreuse #ski #enneigement #stations_de_ski #montagne #association #Ag’Hil #Planolet #remontées_mécaniques #Les_skieurs_du_Granier #bénévolat #convivialité #moyenne_montagne

  • Widespread contamination of soils and vegetation with current use pesticide residues along altitudinal gradients in a European Alpine valley

    Pesticides are transferred outside of cropland and can affect animals and plants. Here we investigated the distribution of 97 current use pesticides in soil and vegetation as central exposure matrices of insects. Sampling was conducted on 53 sites along eleven altitudinal transects in the Vinschgau valley (South Tyrol, Italy), in Europe’s largest apple growing area. A total of 27 pesticides (10 insecticides, 11 fungicides and 6 herbicides) were detected, originating mostly from apple orchards. Residue numbers and concentrations decreased with altitude and distance to orchards, but were even detected at the highest sites. Predictive, detection-based mapping indicates that pesticide mixtures can occur anywhere from the valley floor to mountain peaks. This study demonstrates widespread pesticide contamination of Alpine environments, creating contaminated landscapes. As residue mixtures have been detected in remote alpine ecosystems and conservation areas, we call for a reduction of pesticide use to prevent further contamination and loss of biodiversity.


    https://www.nature.com/articles/s43247-024-01220-1
    #montagne #Alpes #Tyrol_du_sud #contamination_du_sol #sols #sol #pollution #agriculture #pollution_du_sol #pommes #pesticides #Sud-Tyrol #Italie #cartographie #visualisation