• Sicilia, il dramma del petrolchimico siracusano

    A nord di #Siracusa l’inquinamento industriale si insinua da decenni nel suolo e nelle falde acquifere, si diffonde nell’aria e contamina il mare. Si teme una deflagrazione di tumori, già da anni in eccesso, e una propagazione di inquinanti nel Mediterraneo. Viaggio nel labirinto di una storia dai risvolti inquietanti. Un giallo siciliano di cui si rischia di parlare molto nel 2020.

    Fabbriche, ciminiere e cisterne di greggio si estendono a macchia d’olio. Il polo petrolchimico a nord di Siracusa è una spina nel fianco dell’Italia. E del Mediterraneo. Venti chilometri di costa, un territorio e una baia imbottiti di sostanze contaminanti e nocive. Dall’insediamento negli anni cinquanta della prima raffineria, la zona è oggi stravolta dall’inquinamento e il governo costretto a correre ai ripari. Nello scorso novembre il ministro dell’ambiente Sergio Costa si è precipitato sul territorio: «Per far sì che si avvii, finalmente, il processo di bonifica». La fretta governativa è percepita come il segnale di una catastrofe.

    A gennaio, senza perdere tempo, è stata istituita una «direzione nazionale delle bonifiche». Per risolvere «una situazione inchiodata da troppi anni», spiega Costa. Subito dopo, a febbraio, una commissione ministeriale dava il via ai sopralluoghi nelle fabbriche. «Per valutare le emissioni in acqua e in aria» e dare speranza alla popolazione, che da decenni convive con tre impianti di raffinazione, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio e due aziende di gas. Quattro centri urbani sono i più esposti all’inquinamento: Augusta, Melilli, Priolo e Siracusa, circa 180 000 abitanti, di cui 7000 dipendono dall’attività industriale.
    Disillusioni e tradimenti

    A volte nell’aria i miasmi tossici sono da capogiro. Su questi è intervenuto un anno fa il procuratore aggiunto Fabio Scavone, inchiodando le fabbriche petrolchimiche a seguito di due anni di inchiesta. «Superavano i limiti di emissioni inquinanti nell’atmosfera», conferma allargando le braccia. Nel suo ufficio della procura di Siracusa avverte: «Ci sarà un processo». Si rischia di parlare molto nel 2020 del petrolchimico siracusano.

    Troppi anni di disillusioni e tradimenti insegnano però a non coltivare grandi speranze. In questo periodo convulso affiorano alla mente spettacolari capovolgimenti, a cominciare dall’archiviazione negli anni 2000 dell’inchiesta «Mare Rosso» sullo sversamento di mercurio da EniChem nella baia di Augusta. Più tardi si scoprì che il procuratore incaricato dell’inchiesta intratteneva uno «strettissimo rapporto di amicizia» con l’avvocato dell’azienda.

    Negli anni 2010 arriva una nuova amara delusione, questa volta sul fronte delle bonifiche, «attese da tempo e mai eseguite», sottolinea Cinzia Di Modica, leader del movimento Stop Veleni. L’attivista rammenta con stizza gli interventi promessi dall’ex ministra forzista dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, i finanziamenti predisposti e i progetti in partenza. «Ma tutto svanì come per incanto».

    Perfino il più battagliero degli agitatori locali, don Palmiro Prisutto, arciprete di Augusta, non si spiega come possano esser spariti i 550 milioni di euro messi a disposizione per le bonifiche.

    Il parroco si è allora incaricato di tenere la luce puntata sugli effetti dell’inquinamento. Da sei anni, ogni 28 del mese, legge durante l’omelia i nomi delle vittime di tumore: sono un migliaio in questo scorcio del 2020. Intitolata «Piazza Martiri del cancro», la lista è composta «con il contributo dei fedeli che mi segnalano i decessi avvenuti in famiglia», ci racconta nella penombra della sua chiesa. "Ognuno di noi conta almeno una vittima tra i parenti

    Nelle statistiche, quelle ufficiali, la cittadina di Augusta rassegna i più alti tassi di «incidenza tumorale», ovvero l’apparizione di nuovi casi. Seguono, in un macabro ordine, Priolo, Siracusa e Melilli. In tanti chiamano ormai questi luoghi il «quadrilatero della morte». Si muore «in eccesso» di carcinoma ai polmoni e al colon, denuncia nel giugno 2019 un rapporto del ministero della Salute. A sorpresa si registra anche l’apparizione negli uomini di tumori al seno.

    Rischi dentro e fuori

    «La tendenza nazionale va invece verso una diminuzione di casi e di mortalità», osserva Anselmo Madeddu, direttore del Registro dei tumori della provincia di Siracusa. Nella sua sede, l’esperto ci svela un dato preoccupante: ad Augusta, Priolo e Melilli, dove si registrano 20% di tumori in più rispetto al resto della provincia, donne e uomini sono colpiti in misura quasi uguale. «Un’incidenza ubiquitaria», la definisce il direttore. È come se l’impatto dei contaminanti sulla salute avesse ormai uguale esito dentro e fuori dagli stabilimenti. Un risultato sorprendente già osservato in uno studio del 2013 «su lavoratori della stessa fabbrica, esposti esattamente agli stessi fattori prodottivi e quindi di rischio», spiega il direttore. «I lavoratori residenti nel quadrilatero mostravano un’incidenza tumorale doppia rispetto ai colleghi pendolari, che abitavano altrove».

    È arrivata oggi la conferma, conclude Madeddu, che il rischio di ammalarsi di cancro si sta pericolosamente trasferendo dai soli impianti alla totalità del territorio. Il direttore fa cogliere la gravità della situazione usando un paradosso: «Se con un colpo di bacchetta magica cancellassimo tutte le industrie, avremmo le stesse incidenze tumorali, poiché noi oggi stiamo osservando i risultati delle esposizioni di trenta o quarant’anni fa».

    Per l’esperto le bonifiche devono essere «immediate», per evitare una deflagrazione delle malattie di cancro. Lo ha capito il ministro dell’ambiente Costa, scegliendo di confrontarsi con un «disastro gigantesco», valuta Pippo Giaquinta, responsabile della sezione Legambiente di Priolo. Nei decenni la contaminazione «si è insinuata dappertutto», nel suolo e nelle falde acquifere, si è diffusa nell’aria ed ha avvelenato il mare.
    Una montagna di sedimenti nocivi

    Ma è nella rada di Augusta che oggi si concentra l’attenzione governativa. «Già nel primo metro, indica Sergio Costa, troviamo mercurio, idrocarburi pesanti, esaclorobenzene, diossine e furani». L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha censito più di tredici milioni di metri cubi di sedimenti nocivi. Dimensioni che equivalgono alla somma di quattrocento palazzi di ventiquattro piani ciascuno! Un gigantesco impasto tossico che fa crescere i timori di una propagazione nel Mediterraneo.

    Per il mercurio il dato ufficiale è di 500 tonnellate sversate nel mare, dal 1959 al 1980, dall’ex Montedison, poi EniChem. Una quantità accertata dalla Procura di Siracusa. È probabile che nei decenni successivi circa altre 250 tonnellate abbiano raggiunto i fondali. Fa allora impallidire il parallelo con la catastrofe della baia giapponese di Minamata, negli anni settanta. La biologa marina Mara Nicotra tuona: «Nella rada di Augusta si parla di quantità ben superiori alle 400 tonnellate sversate nel mare del Giappone, che provocarono all’epoca circa duemila vittime». Al disastro umano e ambientale di Minamata l’Onu ha dedicato una Convenzione sul mercurio.

    La preoccupazione riguarda anche il consumo di pesce. Concentrazioni da record di mercurio sono state rilevate nei capelli delle donne in stato di gravidanza che si nutrivano di specie ittiche locali. Nel 2006 la Syndial, ex EniChem, decise di risarcire più di cento famiglie con bambini malformati con 11 milioni di euro in totale. Destò scalpore all’epoca l’esborso spontaneo della somma. Nessun tribunale aveva pertanto emesso una sentenza di risarcimento.

    Lo scandalo delle malformazioni da mercurio non è però bastato a bloccare la minaccia. Malgrado il divieto di pesca, lo scorso 6 marzo, nel porto di Augusta, la polizia marittima ha scoperto una rete clandestina di circa 350 metri. «L’ennesima», sottolinea la Capitaneria di Porto. La pesca di frodo non si arresta, e non si sa dove finisce il pesce contaminato.

    L’impressione è che gli atti inquinanti e lesivi della salute sfuggano al controllo. «A Priolo, nel 2018, una centralina accanto ad un asilo pubblico ha registrato per ben due volte sforamenti di emissioni di arsenico, ma si è saputo solo a distanza di un anno», sbuffa Giorgio Pasqua, deputato del Movimento 5 Stelle al parlamento regionale siciliano. In un bar della suggestiva marina di Ortigia, patrimonio dell’Unesco a pochi chilometri dal petrolchimico, ci racconta la sua odissea legislativa per ottenere «un sistema integrato con sensori e centraline per il monitoraggio ambientale». Dopo una lunga battaglia il dispositivo, in vigore da aprile, «permetterà infine di reagire in poche ore, e di capire subito quale impianto industriale è all’origine delle emissioni nocive». Fino ad oggi, lamenta il deputato, la verità è che «abbiamo tenuto un occhio chiuso, se non tutti e due» sull’inquinamento atmosferico.
    Le grandi fabbriche si difendono

    Soltanto negli ultimi mesi la giustizia e la politica hanno inviato chiari segnali di contrasto. A novembre il ministro Costa non ha nemmeno concesso una visita di cortesia al presidente di Confindustria Siracusa. Diego Bivona usa parole forti, «il territorio è diventato inospitale», e denuncia il «clima luddista» che si sarebbe insinuato, secondo lui, nella politica, un fenomeno «che esercita pressioni nei confronti anche della magistratura».

    Lo sfogo del portavoce del petrolchimico avviene a microfoni aperti nella sede dell’organizzazione. Avverte che le industrie hanno fin qui «mostrato una grande resilienza», ma «potrebbero un giorno andarsene con danni importanti in termini di impiego». L’avvertimento è chiaro, a forza di tirare la corda si spezza. Fa notare che «l’Eni e le altre aziende non investono più nel territorio da dieci anni, se non per adeguamento a normative ambientali» e che, nel 2013, «il gruppo italiano Erg ha venduto la sua raffineria» alla multinazionale russa Lukoil. Il cambio della guardia con le aziende italiane è stato ultimato nel 2018, quando il gigante algerino Sonatrach è subentrato a Esso Italia.

    Il presidente di Confindustria Siracusa si dice anche stupito dalla «cecità di chi guarda esclusivamente alle grandi fabbriche e non vede l’inquinamento generato dalla molteplici attività che si svolgono nel territorio». Sottolinea che nelle parcelle private occupate dall’industria «è stato realizzato il 68% delle bonifiche». Pure l’adeguamento degli impianti dichiara il presidente, «è in avanzato stato di completamento» riguardo alle prescrizioni del ministero dell’Ambiente, mentre «non sono accettabili» i limiti previsti nel recente Piano regionale della qualità dell’aria, su cui è pendente un ricorso, «in quanto si basa su dati di emissioni obsoleti».

    «Le fabbriche si oppongono a tutto», deplora il sindaco di Augusta Cettina Di Pietro, una delle figure politiche in prima linea nella lotta contro l’inquinamento. Lo scorso anno la pentastellata si è allineata sulle posizioni del presidente di centrodestra della Regione Sicilia, Nello Musumeci, in contrasto con Confindustria sul tema dell’inquinamento atmosferico. «Ma è una battaglia impari». Nel suo ufficio, dove il sole di marzo fatica a crearsi uno spiraglio, la prima cittadina si mostra lucida sull’esito della lotta: «Il territorio non è ancora pronto a fronteggiare il fenomeno, gli enti e le municipalità sono sprovvisti di personale qualificato». Lo squilibrio balza agli occhi nei tavoli di discussione: «Spesso ci ritroviamo in tre, io, un assessore e un consulente; dall’altra parte, un esercito di avvocati ed esperti».

    Al potere politico e giudiziario incombe oggi il compito di spezzare lo stato di paralisi in cui da anni sprofonda il territorio. «Fin qui non ci è riuscito nessuno», ricorda però Pippo Giaquinta, storico attivista di Legambiente a Priolo. «Capiremo nei prossimi mesi se si continuerà a scrivere un nuovo capitolo di questo interminabile dramma, o se riusciremo a mettere un punto finale».

    https://www.tvsvizzera.it/tvs/inquinamento_sicilia--il-dramma-del-petrolchimico-siracusano/45639136

    –-> Reportage de #Fabio_Lo_Verso et @albertocampiphoto (@wereport)

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    –-> quantité de mercure déversée dans la mer :

    Per il mercurio il dato ufficiale è di 500 tonnellate sversate nel mare, dal 1959 al 1980, dall’ex Montedison, poi EniChem. Una quantità accertata dalla Procura di Siracusa. È probabile che nei decenni successivi circa altre 250 tonnellate abbiano raggiunto i fondali.

  • I dieci comandamenti - Pane nostro - 18/11/2018 - video - RaiPlay
    https://www.raiplay.it/video/2018/11/I-Dieci-Comandamenti-Pane-nostro-96445708-8e60-4c80-a309-c81b4f885f15.html

    "L’articolo 4 della Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Fino a che punto però è lecito accettare ogni condizione pur di lavorare? Si può vivere se quello che ci viene offerto è avvelenato? «Pane nostro» è un viaggio nel lavoro che non lascia scelta. Augusta, Priolo, Melilli sono il simbolo del ricatto occupazionale. In questo tratto di costa a due passi da Siracusa patrimonio UNESCO, si trova il più grande insediamento petrolchimico d’Europa, promessa di benessere e progresso. La storia purtroppo è andata diversamente. Oggi questa lingua di terra è tra le più inquinate d’Europa. Mutazioni genetiche nei pesci, malformazioni neonatali e cancro sono lo scenario di morte di questo pezzo di Sicilia contaminato. Tra denunce inascoltate e assenza delle istituzioni, pochi sono quelli che riescono a far sentire la propria voce. Don Palmiro Prisutto è una di queste. In assenza di un registro tumori è lui che da anni aggiorna la triste lista dei morti di cancro."

    #italie #pollution #Méditerranée #Sicile #Mercure #Pétrochimie

  • Sulle tracce del marmo della discordia

    Le montagne sventrate, le falde inquinate, il viavai di camion, i morti sul lavoro, le infiltrazioni criminali, la mancata distribuzione di una ricchezza collettiva. Carrara è schiacciata dai signori del marmo. Non sono cave: sono miniere. La roccia estratta qui non nisce in sculture e non alimenta più la liera artigianale locale. Parte per l’Asia oppure, in gran percentuale, finisce nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti. È il business del carbonato di calcio. Un’attività dominata dalla multinazionale svizzera #Omya che qui possiede un grosso stabilimento industriale.


    https://www.wereport.fr/articles/sulle-tracce-del-marmo-della-discordia-area
    #marbre #extractivisme #Carrara #Italie #pollution #carbonate_de_calcium #multinationales #Suisse #mondialisation #géographie_de_la_mondialisation #globalisation

    • A Carrara, sulle tracce del marmo della discordia

      Le montagne sventrate, le falde inquinate, il via vai di camion, i morti sul lavoro, la mancata distribuzione di una ricchezza collettiva. Carrara è schiacciata dai signori del marmo. Non sono cave: sono miniere. La roccia estratta qui non finisce in sculture e non alimenta più la filiera artigianale locale. Parte per l’Asia oppure, in gran percentuale, finisce nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti. È il business del carbonato di calcio. Un’attività dominata dalla multinazionale svizzera Omya che qui possiede un grosso stabilimento industriale.

      Sembra un ghiacciaio ma è un bacino minerario. Tutto è bianco sporco. Le rocce, le strade, la polvere. Le montagne sono divorate dalle ruspe. Decine di camion, carichi di blocchi o di detriti, scendono a valle da stradine improvvisate. Persino la nostra Panda 4X4 fatica sul ripido pendio sterrato. Stiamo salendo alla cava Michelangelo, una delle più pregiate del bacino marmifero di Carrara, in Toscana. Qui viene estratto lo statuario, il marmo venduto anche a 4.600 franchi la tonnellata. In questa grossa cava lavorano circa una dozzina di persone.

      Riccardo, 52 anni di cui trenta passati a estrarre roccia, sta manovrando un blocco con il filo diamantato. Il sole che batte a picco sul marmo dà l’effetto di un forno. «D’estate è così mentre d’inverno è freddo e umido» ci racconta questo figlio e nipote di cavatori. Riccardo spiega con orgoglio il suo lavoro. Poi conclude: «Spero che mio figlio faccia qualcos’altro nella vita».

      Un lavoro rischioso

      La situazione nelle cave è sicuramente migliorata rispetto a qualche anno fa, ma il lavoro qui resta rischioso. L’ultimo decesso è dello scorso mese di luglio: Luca Savio, 37 anni, papà di un piccolo bambino, è stato travolto da un blocco in un deposito. Aveva un contratto di lavoro di sei giorni. A maggio, Luciano Pampana, un operaio di 58 anni, è invece morto schiacciato sotto una pala meccanica. «Qui i servi della gleba versano sangue» ha esclamato don Raffaello, il parroco di Carrara che nella sua omelia dopo questa morte si è scagliato contro il business del marmo: «Le Apuane sono sfregiate e pochi si arricchiscono!»

      «Le Apuane sono sfregiate e pochi si arricchiscono!».

      Don Raffaele, parroco di Carrara
      Fine della citazione

      I sindacati hanno indetto un giorno di sciopero e chiesto la chiusura delle cave non in regola. Negli ultimi dodici anni vi sono stati undici incidenti mortali, di cui sei tra il 2015 e il 2016. «È decisamente troppo se si calcola che in tutta la provincia i cavatori sono circa 600» esclama Roberto Venturini, segretario della Fillea Cgil di Massa Carrara che ci accompagna nella visita. Per il sindacalista vi è un solo modo per rendere compatibile questa attività con l’ambiente e con una cittadinanza che sempre meno tollera le cave: «Bisogna rallentare la produzione e aumentare il numero di dipendenti».
      «Monocoltura del marmo»

      Carrara e la vicina Massa sono un microcosmo rappresentativo delle attuali problematiche dell’economia: l’automatizzazione, la maledizione delle risorse, la concentrazione delle ricchezze, il conflitto tra ambiente e lavoro. Un conflitto, questo, che è emerso in queste zone già negli anni 80 attorno al polo chimico situato nella piana, verso il mare. Nel 1987 ci fu il primo referendum consultivo d’Europa con cui i cittadini si espressero a favore della chiusura dello stabilimento Farmoplant della Montedison. Ciò che avvenne, però, solo un anno dopo, a seguito dell’esplosione di un serbatoio di Rogor, pesticida cui già il nome dà inquietudine.

      In pochi anni, a catena, tutti gli stabilimenti cessarono le attività lasciando come eredità terreni inquinati e una schiera di disoccupati. Oggi la zona industriale si è trasferita dal mare alle montagne.

      L’unico settore che tira è quello estrattivo tanto che qui si parla di “monocultura del marmo”, in comparazione a quei paesi che hanno fatto di un prodotto destinato all’esportazione la sola attività economica. E così in pochi ci guadagnano mentre alla collettività rimangono le briciole e gli effetti nocivi.

      I ricavi crescono, gli impieghi no

      Nello scorso triennio il settore, dal punto di vista del ricavo, è cresciuto all’incirca del 5% all’anno. Difficile trovare un altro comparto in così rapida crescita. I profitti, però, sono sempre più concentrati.

      Gli addetti sono sempre meno e una crescente percentuale dell’attività di trasformazione è ormai svolta all’estero: dall’inizio degli anni duemila gli impieghi diretti sono diminuiti di oltre il 30%, passando da quasi 7’000 a circa 4’750 unità. Negli ultimi anni nelle cave sempre più meccanizzate sono stati persi più di 300 posti di lavoro; altri 300 sono scomparsi nelle attività di trasformazione e nella lavorazione.

      Ma anche attorno a queste cifre vi è scontro. Da un lato gli ambientalisti, dall’altro i rappresentanti del mondo imprenditoriale con i primi che tendono a sminuirne l’impatto economico e i secondi che mettono in valore l’effetto occupazionale del settore. La sola certezza, qui, è che quel marmo che ha plasmato l’identità ribelle dei carrarrini e fatto conoscere la città nel mondo intero è oggi sinonimo di conflitto.
      «Una comunità arrabbiata e ferita»

      «Dal marmo il territorio si aspetterebbe molto di più», ci spiega Paolo Gozzani, segretario della Cgil di Massa e Carrara. Il quale aggiunge: «Questa è una comunità arrabbiata e ferita che vede i signori del marmo come un potere arrogante, che si accaparra la ricchezza derivata da questa materia prima senza dare al territorio la possibilità di migliorarsi da un punto di vista sociale, dei servizi e senza fare in modo che, attorno al marmo, si sviluppi una vera e propria filiera».

      Un’opinione condivisa da Giulio Milani, uno scrittore che ha dedicato un libro alla devastazione territoriale di questa terra, dalla chimica al marmo: «L’industria del marmo c’è sempre stata in questa zona, ma negli ultimi anni è diventata una turboindustria che sta mettendo in crisi il territorio».

      Milani s’interroga sul presente e sul futuro dei suoi tre figli in un luogo che ha già sofferto per le conseguenze dell’inquinamento della chimica: «Tutte le volte in cui piove i fiumi diventano bianchi come latte a causa della marmittola, la polvere di marmo; a Carrara vi sono state quattro gravi alluvioni in nove anni legate al dissesto idrogeologico del territorio. Per questo parlo di costi sociali di questa attività. Dobbiamo ormai considerare che questo è diventato un distretto minerario vero e proprio e noi ci viviamo dentro».

      A supporto di questa situazione vi è la netta presa di posizione del procuratore capo di Massa, Aldo Giubilaro, che lo scorso mese di maggio ha illustrato l’entità di un’operazione effettuata presso diverse società attive nella lavorazione del marmo dalla quale è emerso uno spaccato di irregolarità ambientali diffuse: «Salvo rari casi, sicuramente encomiabili, sembra essere una regola per le aziende del lapideo al piano, quella di non rispettare le normative sull’impatto ambientale con conseguenze decisamente deleterie per chi vive in questa zona (…). Non si tratta solo di un problema ambientale, ma riguarda anche e soprattutto la salute dei cittadini che vivono in questa provincia, purtroppo maglia nera per il numero di tumori in tutta la Toscana» ha affermato questo magistrato noto per aver più volte criticato l’omertà del settore.
      Il carbonato svizzero

      Lasciata la cava, con la nostra Panda 4X4 ridiscendiamo a valle. Ai lati della strada diversi ravaneti, le vallate dove una volta si riversavano i detriti derivati dalla scavazione.

      Sotto numerosi camion sono in fila per scaricare le loro benne cariche di sassi. Il rumore degli scarichi e della frantumazione è incessante. Siamo di fronte a quello che è chiamato «il mulino»: i sassi qui vengono frantumati in scaglie.

      Una volta effettuata l’operazione, i camion imboccano la Strada dei marmi – sei chilometri di gallerie costati 138 milioni di franchi pubblici e destinati solo al trasporto del marmo – che sbuca verso il mare, a pochi passi da un grosso stabilimento industriale. È la fabbrica della Omya Spa dove le scaglie di marmo vengono lavorate fino a renderle carbonato di calcio, un prodotto sempre più richiesto.

      Questa farina di marmo la si trova dappertutto, nei dentifrici, nella carta e in altre decine di prodotti. La Omya Spa è una filiale della Omya Schweiz, che ha sede nel Canton Argovia. Pur essendo un’impresa familiare, poco nota al grande pubblico e non quotata in borsa, stiamo parlando di una vera e propria multinazionale: con 180 stabilimenti in 55 paesi Omya è il leader mondiale del carbonato di calcio. In Toscana ha campo libero. Nel 2014 il gruppo elvetico ha acquistato lo stabilimento del principale concorrente, la francese Imerys. Non solo: Omya ha preso importanti partecipazioni in quattro aziende attive nell’estrazione che la riforniscono di materia prima.

      Le polveri del boom

      A Carrara e dintorni si respirano le polveri di questo boom. Si stima che i blocchi di marmo rappresentino soltanto il 25% del materiale estratto: il restante 75% sono detriti. Una volta le scaglie erano considerate un rifiuto fastidioso, che impediva l’avanzata degli scavi e che veniva liberato nei ravaneti.

      Poi, nel 1987, arrivò Raul Gardini che con la sua Calcestruzzi Spa entrò nel business delle cave e ottenne un maxi contratto per la desolforazione delle centrali a carbone della Enel: un’attività in cui il carbonato di calcio era essenziale. L’industriale Raul Gardini morì suicida sulla scia di Tangentopoli, ma a Carrara rimase e si sviluppò questa nuova attività.

      Il business del carbonato di calcio ha dato un’accelerata all’attività estrattiva e ha permesso di tenere aperte cave che altrimenti sarebbero già state chiuse. Lo abbiamo visto alle pendici del Monte Sagro, all’interno del Parco delle Apuane, marchio Unesco: questa montagna, come ci ha mostrato Eros Tetti, dell’associazione Salviamo le Apuane, continua ad essere scarnificata per alimentare proprio il commercio del carbonato.

      La corsa alla polvere di marmo tocca anche il versante lucano. A Seravezza, un paesino a mezz’ora di auto da Carrara, abbiamo incontrato un gruppo di cittadini che si batte contro l’aumento incontrollato dell’attività di scavo: «Il comitato – ci spiegano i promotori – nasce proprio in risposta alla riapertura di tre cave di marmo sul Monte Costa. Siamo preoccupati per il nostro territorio e ci siamo interrogati sugli effetti che questi siti estrattivi avranno sulla nostra cittadinanza».
      Le parti nobili partono all’estero

      Se gran parte della roccia viene sbriciolata, la parte nobile – i blocchi di marmo – partono per il mondo. Così, interi e grezzi. Verranno poi lavorati direttamente all’estero, dove la manodopera costa meno.

      Se prima la regione di Massa e Carrara era un centro mondiale dell’arte e dell’artigianato legato al marmo, oggi la filiera legata all’estrazione è praticamente scomparsa. Ce lo racconta Boutros Romhein, un rinomato scultore siriano, da 35 anni a Carrara dove, oltre a realizzare enormi sculture, insegna agli studenti di tutto il mondo i segreti di questa nobile roccia: «Non ci sono ormai più artigiani sulla via Carriona, che parte dalle cave e va fino al mare. Una volta era un tutt’uno di piccole e grandi aziende che producevano sculture o materiale per l’architettura. Oggi possiamo dire che non c’è più nessuno».

      Una percezione confermata dai dati. Nel 2017 l’esportazione dei blocchi di marmo italiano è aumentata del 37%. È stata, in particolare, la provincia di Massa Carrara a realizzare il fatturato estero più alto con un export del valore di circa 212 milioni di euro. In calo, invece, i lavorati di marmo: per la provincia, nel 2017, la diminuzione è stata del 6,6%. I blocchi partono interi per gli Stati Uniti, la Cina, l’India e per i Paesi arabi.
      Il marmo dei Bin Laden

      Significativo di questa dinamica mondiale è lo sbarco a Carrara della famiglia saudita dei Bin Laden. Già grandi acquirenti di marmo per le loro attività edili, i Bin Laden sono ora entrati direttamente nell’attività estrattiva.

      Nel 2014 la famiglia saudita ha investito 45 milioni di euro per assicurarsi il controllo della società Erton che detiene il 50% della Marmi Carrara, il gruppo più importante del comprensorio del marmo, che attraverso la Società Apuana Marmi (Sam) controlla un terzo delle concessioni. Quattro famiglie carraresi si sono così riempite le tasche e messo parte delle cave nelle mani della CpC Holding, società controllata dalla Saudi Binladin Group.
      Un bacino minerario vero e proprio

      A Carrara siamo davanti non più a un’economia di cava, ma ad un bacino minerario vero e proprio. Così come nelle Ande e in Africa, nelle zone cioè dove l’estrazione di minerali è più selvaggia, il lato oscuro di questo business – mischiato alla pesante eredità lasciata dall’industria chimica e al fatto di non aver saputo sviluppare alternative economiche al marmo – hanno generato tutta una serie di effetti negativi: inquinamento, malattie, disoccupazione e disagio sociale.

      Nella graduatoria sulla qualità di vita 2017 curata dal dipartimento di statistiche dell’Università La Sapienza di Roma, la provincia di Massa-Carrara figura al 98esimo posto su 110. Se guardiamo i dettagli di questa classifica, la provincia è addirittura penultima per il fattore ambiente, 107esima per disagio sociale, 103esima per il superamento quotidiano della media di polveri sottili disperse nell’aria e 95esima per gli infortuni sul lavoro.

      Anche se non è possibile fare un legame diretto con il marmo, in questa terra vi è inoltre un’incidenza di malattie oncologiche fra le più elevate in Italia. In particolare vi un indice molto elevato nei mesoteliomi pleurici, la cui causa è quasi certamente dovuta alle tipologie di lavorazioni svolte in passato e all’eredità di prodotti tossici tuttora da smaltire. Per quanto riguarda il lavoro: nel 2017, Massa Carrara è stata la seconda provincia d’Italia con l’incremento più grande di disoccupazione (+36,7%). Il business del marmo e del suo derivato, il carbonato di calcio, sembra anch’esso continuare a crescere.


      https://www.tvsvizzera.it/tvs/cultura-e-dintorni/economia-mineraria_a-carrara--sulle-tracce-del-marmo-della-discordia/44377160
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    • “La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri” di #Giulio_Milani

      Mi balena in mente un quadro, come un’epifania, intercettato anni fa nel vivaio del d’Orsay, perché quelle opere respirano e non venitemi a dire che non assorbono luce e non emettono ossigeno. Sono creature folte e sempre assetate. Le spigolatrici di Jean-François Millet incastra tre donne su un lenzuolo di terra. Sono chinate, sono ingobbite, sono stanche e senza volto. La fatica rivendica il possesso feudale di quelle facce. Ma malgrado le loro schiene lontane da ogni verticale, malgrado tutte le ore inarcate e incallite, quelle lavoratrici sanno che il suolo non sputa. Che dal ventre di semi e raccolte dipende la loro vita. E anche quella che non conoscono. Non esiste(va) legame più forte. Perché il tempo presente fa pensare all’imperfetto.

      Il libro di Giulio Milani La terra bianca (Laterza, 2015) è l’ennesimo emblema della frattura, l’ulteriore dolente puntata di una serie d’inchieste sullo stupro più o meno inconsapevole subito dal nostro Paese.

      Siamo avvezzi ai fuochi campani, allo sfregio dell’agro aversano, all’idea che i rifiuti si sommergano, oppure che s-fumino altissimi a ingozzare le nuvole. Tutto già digerito. Il potere dei media gonfia il clamore e poi lo normalizza. Ci anestetizza. Ma la tragedia ambientale cambia dialetto. E in questo caso parla toscano. Nell’enclave assoluta del marmo.

      «Un’onda pietrificata, una sterminata scogliera di fossili» nella zona di confine tra la bassa Liguria e l’Emilia, che comprende la doppia provincia di Massa Carrara, le Alpi Apuane e una costola di Mar Tirreno.

      Giulio Milani, scrittore e direttore responsabile della casa editrice Transeuropa, ha sempre abitato qui, il bacino delle cave, un poligono colonizzato dalle industrie fin dagli anni Cinquanta. «Ex Farmoplant-Montedison. Ex Rumianca-Enichem. Ex Bario-Solvay. Ex Italiana Coke».

      Una sequela di sposalizi chimici e divorzi malconci che hanno divelto, macellato, svuotato un territorio rendendolo una tra le aree più inquinate d’Italia «anche per le polveri sottili prodotte dal traffico incessante dei mezzi pesanti, tra i quali i sempre più numerosi e caratteristici camion coi pianali per il trasporto di blocchi di marmo grandi alle volte come interi container e, in misura molto maggiore, i ribaltabili carichi fino al colmo di scaglie detritiche per i mille usi non ornamentali della pietra». «Fumi di latte», un impasto pestifero sbriciolato nell’aria, che la gente del luogo ingurgita ogni giorno, pensando non sia immaginabile un ipotetico altrimenti. Perché le cave sono lavoro e senza lavoro si muore. Ma a quanto pare anche a causa del lavoro.

      L’inchiesta di Milani parte da un episodio miliare: Il 17 luglio del 1988 il serbatoio di un pesticida (il Rogor), occultato malamente tra i Formulati liquidi per eludere la legge, scoppia come un attentato nello stabilimento Farmoplant- Montedison, partorendo una nube tossica diluita per 2000 kmq, soprattutto su Marina di Massa e Marina di Carrara. Nessun morto e chissà quante vittime. Perché il disastro più maligno è quello che s’incassa tardi, che s’incista nelle crepe, acquattato nelle vie respiratorie, nell’alcova dei polmoni, tra reni e vescica.

      Dopo proteste di ogni tipo la fabbrica fu chiusa, ma non la scia di condanne pronta a chiedere asilo dentro troppi cittadini. Il motivo? Le pratiche più diffuse da molte di quelle aziende riguardavano lo smaltimento “sportivo” dei rifiuti. Ovviamente tossico-nocivi, tramite la termodistruzione per opera dell’inceneritore Lurgi nel caso della Farmoplant, attraverso interramenti silenziosi e consenzienti in tutti gli altri. Abbuffare le zolle di veleni e poi coprirle di ulivi e ammalarsi d’olio e non capirlo mai per tempo.

      Ma il libro di Milani procede oltre, traccia una geometria spazio-temporale molto complessa, diagonali d’analisi che scavalcano il singolo episodio e pennellano il profilo di una provincia abusata attraverso la Storia, in prima istanza dalla fatica delle cave, dove i dispositivi di protezione sono stati per decenni fantasmi senza guanti. Operai falciati come insetti per un cumulo distratto, schiacciati da un peso sfuggito al controllo. Poi il vespaio furioso dell’industria estrattiva e dei suoi sversamenti. E la smania noncurante di usare la terra come un tappeto. Come un sepolcro ben ammobiliato.

      Milani ci racconta per salti, di uomini capaci di opporsi al male, dello stormo partigiano della Resistenza Apuana, negli echi di guerra nelle steppe di Russia (suo argomento di laurea). «Si erano battuti per tre giorni di seguito. Per tre giorni e due notti si erano sacrificati, a turno, ai piedi di una quota da riconquistare». Poi di altri uomini anni in anni più vicini, intenti a riagguantare la pulizia dei fatti, a denunciare gli illeciti, a spingere forze, a non tacere. Come Marcello Palagi, principale esponente del movimento per la chiusura della Farmoplant; come Alberto Grossi, regista del documentario Aut Out.«Se si altera la morfologia di un luogo non ne vengono modificati solo i caratteri distintivi, ma anche quelli invisibili, come l’alimentazione degli acquiferi e il clima. Sono a rischio le sorgenti, si perdono i fiori, e forse anche la poesia». E lo scempio continua.

      Chi pagherà per ogni verso bruciato, per lo sguardo rappreso in un cucchiaio d’orrore? Per la strage travestita da capitolo ordinario, senza nessun dittatore da offendere? Per le diagnosi neoplastiche di cui smettiamo di stupirci? Sempre noi, che se restiamo fermi avremo solo terre sane dipinte in un museo.

      http://www.flaneri.com/2016/05/25/la-terra-bianca-giulio-milani

      #livre

    • La malédiction du marbre de Carrare

      Le fameux marbre de Carrare n’est pas seulement symbole de luxe. Le site est surtout devenu un des hauts lieux de l’extraction du carbonate de calcium, utilisé notamment dans la fabrication des dentifrices. Une exploitation industrielle qui défigure le paysage et s’accompagne de morts sur les chantiers, de pollution et d’accaparement des ressources par une élite locale et par des acteurs internationaux, dont la famille Ben Laden et la multinationale suisse Omya.


      https://www.swissinfo.ch/fre/economie/pollution--maladies-et-gros-profits_la-mal%C3%A9diction-du-marbre-de-carrare/44416350

    • Gli affari sul marmo delle #Apuane e i riflessi su salute e ambiente

      A Massa e Carrara la “#marmettola” prodotta dalla lavorazione della roccia nelle cave impatta sulle falde. Diverse realtà locali denunciano la gestione problematica delle aziende e le ricadute ambientali del settore. Ecco perché

      Sopra la vallata del fiume Frigido, nel Comune di Massa, c’è una cava inattiva da circa tre anni. Ci avviciniamo in un giorno di sole, risalendo il sentiero che si inerpica nel canale tra cumuli di massi bianchi. Dal tunnel scavato nel marmo si sente l’acqua che scroscia. “Le #Alpi_Apuane sono come un serbatoio, è il famoso carsismo: l’acqua penetra in abbondanza nella roccia, in direzioni che non conosciamo perché non seguono quelle dello spartiacque di superficie, e poi scende formando le sorgenti. Quella che senti, però, alla sorgente del Frigido non arriverà mai”, spiega Nicola Cavazzuti del Club alpino italiano (Cai), che da anni denuncia gli impatti ambientali delle circa ottanta cave attive a Carrara alle quali si aggiungono le quindici di Massa. Tra quest’ultime, molte rientrano all’interno del Parco regionale delle Alpi Apuane.

      L’ultima denuncia risale all’inizio di giugno quando il Cai e altre realtà come il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) e Italia Nostra hanno presentato un’istanza di accesso civico a una serie di soggetti istituzionali, tra i quali la Regione Toscana, il ministero dell’Ambiente e i carabinieri forestali, per ottenere informazioni sulle azioni intraprese a tutela dell’ambiente, inviando anche un esposto alla procura di Massa. Al centro della denuncia c’è il fenomeno della “marmettola”, la polvere prodotta dall’estrazione e dalla lavorazione del marmo. Per le associazioni, produce un inquinamento “gravissimo, conclamato e ormai cronico delle acque destinate all’uso potabile”.

      Il problema è noto da decenni e anche se oggi viene gestita come un rifiuto e sono aumentate le prescrizioni per evitare che si diffonda nell’ambiente, le realtà del territorio denunciano che spesso è ancora abbandonata sui piazzali delle cave. Così quando piove viene trascinata nei fiumi cementificandone il letto e riducendo l’habitat di microflora e piccoli organismi. “Le situazioni più critiche sono state osservate nel fiume Frigido e nel torrente Carrione”, si legge nelle conclusioni del “#Progetto_Cave” dell’#Agenzia_regionale_per_la_protezione_ambientale_della_Toscana (#Arpat), monitoraggio durato dal 2017 al 2019. In quegli anni l’Arpat ha effettuato una serie di controlli nelle cave di Massa, Carrara e Lucca, anche in merito alla gestione della marmettola, che “hanno evidenziato una diffusa illegalità e dato luogo a un consistente numero di sanzioni amministrative e di notizie di reato all’autorità giudiziaria”. Nel 2018, scrive Arpat, 18 cave su 60 hanno avuto un “controllo regolare”.

      La marmettola finisce anche nelle falde. Secondo un articolo scientifico del 2019, redatto da docenti e ricercatori dell’università di Firenze, dell’Aquila e del Cnr, si è “accumulata negli acquiferi” con effetti “non ancora noti nel dettaglio” ma che potrebbero modificare “l’idrodinamica delle reti carsiche riducendone la capacità di accumulo”.

      A Forno, frazione di Massa dove nasce il Frigido, il problema è esploso il 19 novembre 2022. “La sorgente è diventata bianca e per dieci giorni l’erogazione dell’acqua è stata sospesa -racconta Cavazzuti-. È un problema costante, tanto che negli anni Novanta è stato costruito questo impianto di depurazione”, dice indicando le sue grandi vasche. Pochi metri più a monte, tra i massi di un fosso in secca, si è accumulato uno strato di marmettola. Le immagini di fiumi e torrenti di colore bianco sono una costante sui giornali locali. Quelle del Carrione che attraversa Carrara, scattate il 13 aprile 2023, sono arrivate anche sulla scrivania del ministero dell’Ambiente che ha chiesto all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) di valutare se si tratti di danno ambientale.

      A Forno, frazione di Massa dove nasce il Frigido, il problema è esploso il 19 novembre 2022. “La sorgente è diventata bianca e per dieci giorni l’erogazione dell’acqua è stata sospesa -racconta Cavazzuti-. È un problema costante, tanto che negli anni Novanta è stato costruito questo impianto di depurazione”, dice indicando le sue grandi vasche. Pochi metri più a monte, tra i massi di un fosso in secca, si è accumulato uno strato di marmettola. Le immagini di fiumi e torrenti di colore bianco sono una costante sui giornali locali. Quelle del Carrione che attraversa Carrara, scattate il 13 aprile 2023, sono arrivate anche sulla scrivania del ministero dell’Ambiente che ha chiesto all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) di valutare se si tratti di danno ambientale.

      Il problema della marmettola si è aggravato con l’introduzione di strumenti più efficienti, come il filo diamantato, che ha reso possibile la lavorazione dei blocchi anche a monte. Le nuove tecnologie hanno anche generato un’impennata della quantità di materiale estratto, che oggi ammonta a quattro milioni di tonnellate all’anno. “Le montagne spariscono davanti ai nostri occhi”, commenta Grossi. Nonostante Carrara sia famosa per il suo marmo, secondo dati forniti dal Comune alla sezione locale di Legambiente, nel 2022 solo il 18,6% del materiale è stato estratto in blocchi (utilizzato quindi per uso ornamentale). “Il danno alla montagna viene inferto per ricavare detriti di carbonato di calcio che dagli anni Novanta è diventato un affare perché impiegato per vari usi industriali, dall’alimentazione alle vernici -denuncia Paola Antonioli, presidente di Legambiente Carrara che da 15 anni raccoglie i dati comunali-. Purtroppo non possiamo collegare i dati alle rispettive cave, perché l’amministrazione li ha secretati fornendoli solo in modo anonimo. Ma è importante saperli: alcune aziende estraggono il 90% di detriti e vorremmo che venissero chiuse”. Il Piano regionale cave del 2020 ha affrontato il nodo fissando il quantitativo minimo di blocchi, introducendo però delle deroghe. Per Antonioli “la norma è stata stravolta e le cave che non rispettano i parametri non sono mai state chiuse”.

      Per gli imprenditori del marmo il territorio non può fare a meno di un settore che, secondo un report di Confindustria con dati del 2017, vale il 15% del Pil provinciale per un fatturato totale di quasi un miliardo, di cui 560 milioni di export e rappresenta il 7% degli occupati. Per gli ambientalisti però il marmo grezzo che parte per l’estero, in particolare per la Cina, è sempre di più e i lavoratori sono sempre meno. Dal 1994 al 2020, secondo Fondo Marmo, ente che riunisce industriali e sindacati, il numero di dipendenti è sceso del 36%. Il calo più marcato riguarda i lavoratori impiegati “al piano”: meno 50,9%. Laboratori e segherie, invece, sono crollati del 55%.

      Gli incidenti sul lavoro però non si fermano. Nonostante l’Inail abbia certificato un calo del rischio infortunistico, la provincia di Massa Carrara vanta il primato per gli incidenti mortali nel settore tra il 2015 e il 2019, sette in totale. Anche il 2023 ha già avuto la sua vittima nel bacino apuano, anche se in provincia di Lucca: il 13 maggio Ugo Antonio Orsi, 55 anni, è rimasto schiacciato da un masso che si è staccato dal costone in una cava a Minucciano, in Garfagnana. “Questa è una storia di sfruttamento di beni comuni che arricchiscono le tasche di pochi privati. Ammesso che si possa compensare un simile danno, quasi nulla viene risarcito alla comunità -commenta Paolo Pileri, docente di Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano-. Comparando i canoni di concessione e il contributo di estrazione incassato ogni anno dal comune di Carrara con la quantità di blocchi prodotti, ho calcolato che per ogni tonnellata di marmo rimangono al territorio circa 25 euro a fronte di un prezzo di vendita che va da 800 a 8mila euro. Preciso che si tratta di dati parziali, ottenuti grazie al lavoro di attivisti locali, che non sono resi accessibili così che tutti possano conoscere la situazione. Un pezzo di Paese viene così distrutto per alimentare un modello di sviluppo tossico”.

      https://altreconomia.it/gli-affari-sul-marmo-delle-apuane-e-i-riflessi-su-salute-e-ambiente