• “Così le multinazionali occidentali non pagano le tasse in Mozambico”

    Le grandi società estrattive approfitterebbero dei trattati firmati da Maputo con paradisi fiscali come Mauritius o Emirati Arabi Uniti. Il centro di ricerca indipendente SOMO stima che cinque compagnie -inclusa Eni- eviteranno di pagare imposte per un valore compreso tra 1,4 e due miliardi di dollari. A proposito di “Piano Mattei”

    Per via dei trattati fiscali siglati dal Mozambico con diversi Paesi stranieri diverse multinazionali -tra cui le società fossili TotalEnergies ed Eni- eviteranno di versare circa due miliardi di dollari di tasse al governo di Maputo: una cifra superiore a quanto spende il Paese africano per la sanità in un anno intero. Nello specifico, le due aziende europee “non pagano la loro giusta quota dal momento che fanno transitare i propri investimenti attraverso società di comodo negli Emirati Arabi Uniti”, come denuncia il report “The treaty trap: tax avoidance in Mozambique’s extractive industries” (La trappola del trattato: l’elusione fiscale nell’industria estrattiva in Mozambico) pubblicato il 21 luglio dal Centro di ricerca olandese sulle multinazionali SOMO.

    Il meccanismo che permette alle società di gas e petrolio (ma non solo) di arricchirsi a dismisura era già stato al centro di un dettagliato rapporto “How Mozambique’s tax treaties enable tax avoidance“, pubblicato lo scorso marzo sempre da SOMO e dal Centro mozambicano per la democrazia e lo sviluppo (Cdd) e del quale avevamo già scritto. Il report denuncia come la rete di trattati fiscali siglati dal Mozambico stia privando il Paese di centinaia di milioni di dollari di entrate ogni anno, a causa degli accordi stretti con paradisi fiscali come Mauritius ed Emirati Arabi Uniti. Secondo le stime delle due organizzazioni, solo nel 2021 il Paese africano avrebbe perso circa 390 milioni di dollari in mancato gettito fiscale.

    In questo nuovo rapporto SOMO evidenzia come TotalEnergies ed Eni abbiano approfittato del trattato fiscale siglato dal governo di Maputo con Abu Dhabi, creando società di comodo negli Emirati Arabi Uniti. “Gli investimenti sono sostenuti da prestiti di banche d’investimento pubbliche, agenzie di credito all’esportazione e banche commerciali di tutto il mondo. Se i prestiti per questi megaprogetti non fossero passati attraverso gli Emirati Arabi Uniti, il Mozambico avrebbe potuto applicare una ritenuta fiscale del 20% su quasi tutti i pagamenti degli interessi, per un importo che oscilla tra 1,3 e due miliardi di dollari”, osservano i ricercatori di SOMO.

    Accuse a cui la società italiana guidata da Claudio Descalzi ha risposto dichiarando che “come contribuente, Eni opera nel pieno rispetto del quadro legislativo e fiscale locale e internazionale. I progetti di Eni nei Paesi in cui è presente generano benefici economici e sociali a livello locale in termini di tasse, occupazione, formazione e progetti sociali, formazione e progetti sociali -si legge nella nota pubblicata nel report di SOMO-. Inoltre, le Linee guida fiscali di Eni assicurano una corretta interpretazione della normativa fiscale con il divieto di intraprendere operazioni fiscalmente aggressive. Il Mozambico, a seguito dei progetti a cui Eni partecipa, sta diventando un importante attore globale nel settore del Gas ‘naturale’ liquefatto (Gnl)”.

    I giacimenti di gas interessati dalle operazioni dei due colossi europei si trovano al largo della provincia di Cabo Delgado, nel Nord del Paese: un’area economicamente emarginata e impoverita, dove gli investimenti miliardari per lo sfruttamento dei combustibili fossili non hanno portato alcun beneficio alla popolazione locale, alimentando invece le disuguaglianze. Dopo la scoperta dei primi giacimenti (tra il 2010 e il 2014) migliaia di persone hanno dovuto abbandonare i propri villaggi a causa delle operazioni industriali. La situazione è ulteriormente peggiorata a causa di una violenta insurrezione di matrice jihadista che dal 2017 ha provocato migliaia di morti e costretto milioni di persone alla fuga.

    Ma non ci sono solo le società del settore degli idrocarburi al centro dell’attenzione. SOMO ha infatti analizzato le pratiche fiscali di alcune aziende minerarie come la britannica Gemfields, che estrae rubini nel distretto di Montepuez (sempre nella provincia di Cabo Delgado), e l’irlandese Kenmare Resources, che opera in una miniera di titano a Moma (nel Nord-Est del Paese). Entrambe controllano le loro operazioni in Mozambico dalle Mauritius, approfittando di un trattato fiscale che gli avrebbe permesso di evitare circa 20 milioni di dollari di ritenute sui dividendi tra il 2017 e il 2022.

    Infine c’è la gestione del corridoio logistico di Nacala: una rete ferroviaria lunga 912 chilometri utilizzata per il trasporto di carbone delle miniere nella provincia di Tete (nel Mozambico occidentale) fino al porto di Nacala, affacciato sull’oceano Indiano, sulla costa orientale. L’infrastruttura è controllata al 50% dalla compagnia mineraria brasiliana Vale e dalla società elettrica giapponese Mitsui & Co. SOMO ritiene che le due aziende abbiano evitato di versare nelle casse del governo di Maputo circa 96,9 milioni di dollari tra il 2016 e il 2020: “Ciò è stato possibile reindirizzando i prestiti attraverso società di intermediazione con sede negli Emirati Arabi Uniti per trarre vantaggio dal trattato fiscale tra gli Emirati Arabi Uniti e il Mozambico, che riduce dal 20% a zero l’aliquota applicabile per la ritenuta alla fonte sugli interessi in Mozambico”, si legge nel report.

    Il sottosuolo del Mozambico è ricco di minerali che possono svolgere un ruolo fondamentale nella transizione energetica. E, nel contesto dell’esplosione della domanda globale di queste materie prime, è fondamentale affrontare tempestivamente il tema dell’evasione fiscale -avverte SOMO- per evitare che anche in questo ambito si ripeta quello che è successo con i combustibili fossili. “È indispensabile che il Mozambico abbandoni questi trattati fiscali iniqui, ponendo un freno all’elusione fiscale delle imprese e salvaguardando gli interessi della popolazione -ha spiegato Nelsa Langa, assistente di ricerca presso il Centro mozambicano per la democrazia e lo sviluppo-. Dovrebbe liberarsi da questi trattati fiscali obsoleti, che costano molto al Paese e forniscono pochi benefici”.

    Il ricercatore di SOMO Vincent Kiezebrink aggiunge che “le multinazionali devono smettere di abusare di questi trattati fiscali per evitare di pagare le tasse in uno dei Paesi più vulnerabili del mondo. E i governi dei paradisi fiscali come gli Emirati Arabi Uniti e le Mauritius devono permettere al Mozambico di rinegoziarli”. L’esperienza di Paesi come Senegal, Kenya, Lesotho e Ruanda -che hanno rinegoziato o cancellato con successo gli accordi fiscali con le Mauritius- dimostra che è possibile cambiare questa situazione.

    https://altreconomia.it/cosi-le-multinazionali-occidentali-non-pagano-le-tasse-in-mozambico
    #multinationales #pétrole #évasion_fiscale #fisc #Eni #industrie_pétrolière #Mozambique #île_Maurice #TotalEnergies #total #Emirats_arabes_unis #Abu_Dhabi #gaz #énergie #extractivisme

    • Oil and gas multinationals avoid up to $2 billion in taxes in Mozambique

      TotalEnergies and ENI are set to avoid up to $2 billion in withholding taxes in Mozambique – more than the country’s annual healthcare spending – research by SOMO and CDD reveals. The oil and gas giants fail to pay their fair share of taxes in the African country because they rout their investments through letterbox companies in the United Arab Emirates (UAE). Mozambique could prevent these practices by cancelling or renegotiating its outdated tax treaties with tax havens like the UAE and Mauritius. Several other African countries have successfully done so already.

      TotalEnergies (France) and ENI (Italy) lead two megaprojects in Mozambique to exploit gas reserves in the northern province of Cabo Delgado, constituting the biggest investments in Africa to date. Both multinationals established letterbox companies in the UAE to channel their consortium’s multi-billion-dollar investments, taking advantage of the 0 % interest withholding tax rate in its tax treaty with Mozambique. The investments are backed by loans from public investment banks, export credit agencies and commercial banks worldwide. If the loans for these megaprojects had not been routed through the UAE, Mozambique could have charged a 20 per cent withholding tax on nearly all related interest payments, which amounts to $1.3 – $2 billion.
      publication cover - The treaty trap: tax avoidance in Mozambique’s extractive industries
      Publication / July 21, 2023
      The treaty trap: tax avoidance in Mozambique’s extractive industries
      The miners

      The backdrop for these gas projects is Mozambique’s northernmost province of Cabo Delgado, an economically marginalised region where a violent insurgency has wreaked havoc since 2017. The discovery of gas and the resulting increase in inequality in the area has been a key driver behind the conflict.

      Treaty shopping using complex corporate structures
      The use of UAE-based letterbox companies by TotalEnergies and ENI are just two examples of treaty shopping, depriving Mozambique of much-needed tax revenue. SOMO found similar tax avoidance structures by mining companies Vale, Kenmare and Gemfields, which are estimated to have avoided an $117 million in Mozambican taxes between 2017 and 2022. The tax treaties with the UAE and Mauritius are estimated to have cost Mozambique $315 million in 2021 alone, SOMO calculated in a March 2023 report.

      Following these revelations, SOMO delved into the details by studying the tax practices of specific companies in the Mozambican gas and mining sectors. Besides the gas projects, case studies include Gemfields, a UK miner extracting rubies in Montepuez and the Irish mining company Kenmare Resources, which operates the Moma titanium mine. On paper, both companies control their operations in Mozambique from Mauritius, taking advantage of a tax treaty that allowed them to avoid approximately $20 million in dividend withholding taxes between 2017 and 2022. Finally, there is the case of Vale and Mitsui & Co., who avoided approximately $96.9 million in interest withholding taxes associated with their Nacala Logistics Corridor between 2016 and 2020 through a financing structure routed via the UAE.

      Unfair and outdated tax treaties
      It is imperative that Mozambique steps out of these unfair tax treaties, curbing corporate tax avoidance and safeguarding its people’s interests. Nelsa Langa (Research Assistant at CDD): “Mozambique should free itself from these outdated tax treaties, which cost the country dearly while providing little benefit. Senegal, Kenya, Lesotho and Rwanda have all successfully renegotiated or cancelled tax treaties with tax havens Mauritius.”

      Mozambique is rich in natural resources, with vast deposits not only of fossil fuels but also minerals that are of key importance for the energy transition. Amidst the exploding demand for these minerals, it is crucial to address tax avoidance promptly to prevent replication.

      Vincent Kiezebrink (Researcher at SOMO): “Multinational companies need to stop abusing Mozambique’s tax treaties to avoid taxes in one of the world’s most vulnerable countries, and tax haven governments such as the UAE and Mauritius need to allow Mozambique to renegotiate these harmful tax treaties.”

      The Mozambican government has the tools to stop this widespread tax avoidance. By renegotiating or terminating its tax treaties with Mauritius and the UAE, it could limit companies’ opportunities for tax avoidance.

      https://www.somo.nl/oil-and-gas-multinationals-avoid-up-to-2-billion-in-taxes-in-mozambique

  • Piemonte, corsa alle nuove miniere : da #Usseglio al Pinerolese si cercano nichel, cobalto, grafite e litio

    Scatta la corsa alle terre rare: la Regione deve vagliare le richieste delle multinazionali su una decina di siti

    Nei prossimi anni il Piemonte potrebbe trasformarsi in una grande miniera per soddisfare le esigenze legate alla costruzione degli apparecchi digitali e all’automotive elettrico. È un futuro fatto di cobalto, titanio, litio, nichel, platino e associati. E non mancano nemmeno oro e argento. Un grande business, infatti oggi si parla di «forti interessi» di aziende estrattive nazionali e straniere. Anche perché la Commissione Europea ha stabilito che «almeno il 10% del consumo di materie prime strategiche fondamentali per la transizione green e per le nuove tecnologie dovrebbe essere estratto nell’Ue, il 15% del consumo annuo di ciascuna materia prima critica dovrebbe provenire dal riciclaggio e almeno il 40% dovrebbe essere raffinato in Europa». In questo contesto il Piemonte è considerato un territorio strategico. Anche perché l’anno scorso il mondo ha estratto 280mila tonnellate di terre rare, circa 32 volte di più rispetto alla metà degli anni 50. E la domanda non farà che aumentare: entro il 2040, stimano gli esperti, avremo bisogno di sette volte più terre rare rispetto a oggi. Quindi potrebbero essere necessarie più di 300 nuove miniere nel prossimo decennio per soddisfare la domanda di veicoli elettrici e batterie di accumulo di energia, secondo lo studio condotto da Benchmark Mineral Intelligence.

    «Al momento abbiamo nove permessi di ricerca in corso, ma si tratta di campionature in superficie o all’interno di galleria già esistenti, come è avvenuto a Punta Corna, sulle montagne di Usseglio – analizza Edoardo Guerrini, il responsabile del settore polizia mineraria, cave e miniere della Regione -. C’è poi in istruttoria di via al ministero dell’Ambiente un permesso per la ricerca di grafite nella zona della Val Chisone». Si tratta di un’area immensa di quasi 6500 ettari si estende sui comuni di Perrero, Pomaretto, San Germano Chisone, Perosa Argentina, Pinasca, Villar Perosa, Pramollo, Roure e Inverso Pinasca che interessa all’australiana Energia Minerals (ramo della multinazionale Altamin). E un’altra società creata da Altamin, la Strategic Minerals Italia, nella primavera prossima, sulle montagne di Usseglio, se non ci saranno intoppi, potrà partire con le operazioni per 32 carotaggi nel Vallone del Servin con una profondità variabile da 150 a 250 metri. Altri 25 sondaggi verranno invece effettuati nel sito di Santa Barbara, ma saranno meno profondi. E, ovviamente, ambientalisti e amanti della montagna, hanno già espresso tutti i loro timori perché temono uno stravolgimento del territorio. «Nelle settimane scorse ho anche ricevuto i rappresentati di una società svedese interessati ad avviare degli studi di valutazione in tutto il Piemonte con l’obiettivo di estrarre minerali – continua Guerrini – anche perché l’Unione Europea spinge per la ricerca di materie prime indispensabili per la conversione ecologica e quindi l’autosufficienza energetica».

    È la storia che ritorna anche perché il Piemonte è stata sempre una terra di estrazione. Basti pensare che, solo nel Torinese, la cavi attive «normali» sono 66. E ora, a parte Usseglio e il Pinerolese, ci sono richieste per cercare nichel in Valle Anzasca, rame, platino e affini nel Verbano Cusio Ossola, dove esiste ancora una concessione non utilizzata per cercare oro a Ceppo Morelli nella Val d’Ossola (anche se il giacimento più sfruttato per l’oro è sempre stato quello del massiccio del Rosa) e la richiesta di poter coltivare il boro nella zona di Ormea. E pensare che, dal 2013 al 2022, le aziende che si occupano di estrazione di minerali da cave e miniere in Piemonte sono scese da 265 a 195. «Il settore estrattivo continua a essere fonte di occupazione – riflette l’assessore regionale Andrea Tronzano -. Con il piano regionale in via di definizione vogliamo dare certezze agli imprenditori e migliorare l’attuale regolamentazione in modo che ci siano certezze ambientali e più facilità nel lavorare. Le miniere su materie prime critiche sono oggetto di grande attenzione e noi vorremmo riattivare le nostre potenzialità come ci chiede la Ue. Ci stiamo lavorando con rispetto per tutti, anche perché qui non siamo nè in Cina nè in Congo. Vedremo le aziende che hanno chiesto di fare i carotaggi che cosa decideranno. Noi le ascolteremo».

    https://www.lastampa.it/torino/2023/08/06/news/piemonte_nuove_miniere_usseglio_nichel_cobalto-12984408

    #extractivisme #Italie #mines #nickel #cobalt #graphite #lithium #Alpes #montagnes #Piémont #Pinerolo #terres_rares #multinationales #transition_énergétique #Punta_Corna #Val_Chisone #Energia_Minerals #Altamin #Strategic_Minerals_Italia #Vallone_del_Servin #Santa_Barbara #Valle_Anzasca #Verbano_Cusio_Ossola #cuivre #platine #Ceppo_Morelli #Val_d'Ossola #or #Ormea

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • Moins on mange, plus ils encaissent : l’inflation gave les bourgeois
    https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

    C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les dividendes sont plus hauts que le ciel, et les milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde […]

    • Moins on mange, plus ils encaissent : l’#inflation gave les bourgeois

      C’est à n’y rien comprendre. C’est la crise, l’inflation reste très élevée, l’économie n’est ni remise du Covid ni de la guerre en Ukraine qui se poursuit. Et pourtant, les profits atteignent des records, les #dividendes sont plus hauts que le ciel, et les #milliardaires n’ont jamais accumulé autant de milliards. Si on n’y regarde pas de plus près, on pourrait considérer comme paradoxale une situation qui est parfaitement logique. Pour accumuler les milliards, il faut accumuler les dividendes. Pour accumuler les dividendes, il faut accumuler les profits. Pour accumuler les profits, il faut appauvrir la population en augmentant les #prix et en baissant les #salaires réels. Ça vous parait simpliste ? Alors, regardons de plus près les chiffres.

      Selon l’INSEE, au premier trimestre de cette année, l’#excédent_brut_d’exploitation (#EBE) des entreprises de l’#industrie_agro-alimentaire (c’est-à-dire le niveau de profit que leur activité génère) a progressé de 18%, pour ainsi s’établir à 7 milliards d’euros. Les industriels se font donc de plus en plus d’argent sur le dos de leurs salariés et, plus globalement, sur celui des Français qui galèrent pour se nourrir correctement : les ventes en volume dans la #grande_distribution alimentaire ont baissé de 9% au premier trimestre 2023 par rapport à la même période l’année précédente. La #consommation en France est ainsi tombée en-dessous du niveau de 2019, alors que la population a grossi depuis de 0,3%. Selon François Geerolf, économiste à l’OFCE (Observatoire français des conjonctures économiques), cette baisse de la #consommation_alimentaire n’a aucun précédent dans les données compilées par l’Insee depuis 1980. Dans le détail, sur un an, on constate des baisses de volumes vendus de -6% l’épicerie, -3% sur la crèmerie, -1,6% pour les liquides, etc. Cela a des conséquences concrètes et inquiétantes : en avril dernier, l’IFOP montrait que presque la moitié des personnes gagnants autour du SMIC se privait d’un repas par jour en raison de l’inflation.

      Une baisse de la consommation pilotée par les industriels

      Comment les entreprises peuvent-elles se faire autant d’argent, alors que nous achetons de moins en moins leurs produits ? Tout simplement, car cette baisse de la consommation est pilotée par les industriels. Ils choisissent d’augmenter massivement leurs prix, en sachant que la majorité des gens accepteront malgré eux cette hausse, car ils considéreront qu’elle est mécaniquement liée à l’inflation ou tout simplement, car ces industriels sont en situation de quasi-monopole et imposent donc les prix qu’ils veulent (ce qu’on appelle le #pricing_power dans le jargon financier). Ils savent très bien que beaucoup de personnes n’auront par contre plus les moyens d’acheter ce qui leur est nécessaire, et donc que les volumes globaux qu’ils vont vendre seront plus bas, mais cette baisse de volume sera très largement compensée par la hausse des prix.

      Sur le premier trimestre 2023, en Europe, #Unilever et #Nestlé ont ainsi augmenté leurs prix de 10,7%, #Bonduelle de 12,7% et #Danone de 10,3 %, alors que l’inflation tout secteur confondu passait sous la barre des 7%. La quasi-totalité d’entre eux voient leurs volumes vendus chuter dans la même période. Les plus pauvres, pour lesquels la part de l’alimentaire dans la consommation est mécaniquement la plus élevée, ne peuvent plus se nourrir comme ils le souhaiteraient : la #viande et les #céréales sont particulièrement touchés par la baisse des volumes vendus. Certains foyers sautent même une partie des repas. Les #vols se multiplient, portés par le désespoir et les grandes enseignes poussent le cynisme jusqu’à placer des #antivols sur la viande et le poisson.

      Les hausse des profits expliquent 70% de la hausse des prix de l’alimentaire

      Comme nous avons déjà eu l’occasion de l’écrire, les hausses de profit des #multinationales sont déterminantes dans l’inflation que nous traversons. Même le FMI le dit : selon une étude publiée le mois dernier, au niveau mondial depuis 2022, la hausse des profits est responsable de 45 % de l’inflation. Le reste de l’inflation vient principalement des coûts de l’#énergie et des #matières_premières. Plus spécifiquement sur les produits alimentaires en France, d’après les calculs de l’institut La Boétie, « la hausse des prix de #production_alimentaire par rapport à fin 2022 s’explique à plus de 70 % par celle des profits bruts ». Et cela ne va faire qu’empirer : en ce début d’année, les prix des matières premières chutent fortement, mais les prix pratiqués par les multinationales poursuivent leur progression, l’appétit des actionnaires étant sans limites. L’autorité de la concurrence s’en inquiète : « Nous avons un certain nombre d’indices très clairs et même plus que des indices, des faits, qui montrent que la persistance de l’inflation est en partie due aux profits excessifs des entreprises qui profitent de la situation actuelle pour maintenir des prix élevés. Et ça, même la Banque centrale européenne le dit. », affirme Benoît Cœuré, président de l’Autorité de la concurrence, au Parisien.

      La stratégie des multinationales est bien rodée : augmenter massivement les prix, mais aussi bloquer les salaires, ainsi non seulement leur #chiffre_d’affaires progresse fortement, mais ils génèrent de plus en plus de profits grâce à la compression de la #masse_salariale. Les calculs sur longue période de l’Institut La Boétie donnent le vertige : « entre 2010 et 2023, le salaire brut horaire réel (c’est-à-dire corrigé de l’inflation) a baissé de 3,7 %, tandis que les profits bruts réels, eux, ont augmenté de 45,6 % ». Augmenter massivement les prix tout en maintenant les salaires au ras du sol permet d’augmenter le vol légal que les #actionnaires commettent sur les salariés : ce qu’ils produisent est vendu de plus en plus cher, et les patrons ne les payent par contre pas davantage.

      La Belgique a le plus bas taux d’inflation alors que les salaires y sont indexés

      L’une des solutions à cela est bien connue, et était en vigueur en France jusqu’en 1983 : indexer les salaires sur les prix. Aujourd’hui seul le SMIC est indexé sur l’inflation et la diffusion des hausses du SMIC sur les salaires plus élevés est quasi inexistante. Les bourgeois s’opposent à cette mesure en affirmant que cela risque de favoriser encore davantage l’inflation. Les statistiques prouvent pourtant le contraire : la Belgique est le pays affichant le plus bas taux d’inflation en avril 2023 (moins de 5% tandis qu’elle atteint 6,6% en France) alors que là-bas les salaires s’alignent automatiquement sur les prix. Il est urgent de mettre en œuvre ce genre de solutions en France. En effet, la situation devient de plus en plus intenable : la chute des #conditions_de_vies de la majorité de la population s’accélère, tandis que les bourgeois accumulent de plus en plus de richesses.

      Cela dépasse l’entendement : selon le magazine Challenges, le patrimoine professionnel des 500 plus grandes fortunes de France a progressé de 17 % en un an pour s’établir à 1 170 milliards d’euros cette année ! En 2009, c’était 194 milliards d’euros… Les 500 plus riches détiennent donc en #patrimoine_professionnel l’équivalent de presque la moitié de la #richesse créée en France par an, mesurée par le PIB. Et on ne parle ici que de la valeur des actions qu’ils détiennent, il faudrait ajouter à cela leurs placements financiers hors du marché d’actions, leurs placements immobiliers, leurs voitures, leurs œuvres d’art, etc.

      La #France au top dans le classement des gros bourges

      La fortune de #Bernard_Arnault, l’homme le plus riche du monde, est désormais équivalente à celle cumulée de près de 20 millions de Français et Françaises d’après l’ONG Oxfam. Sa fortune a augmenté de 40 milliards d’euros sur un an pour s’établir à 203 milliards d’euros. Ce type a passé sa vie à exploiter des gens, ça paye bien (à peine sorti de polytechnique, Bernard Jean Étienne avait pris la direction de l’entreprise de son papa). Au classement des plus grands bourges du monde, la France est donc toujours au top, puisque non seulement on a l’homme le plus riche, mais aussi la femme, en la personne de #Françoise_Bettencourt_Meyers (patronne de L’Oréal, 77 milliards d’euros de patrimoine professionnel). Mais il n’y a pas que le luxe de représenté dans ce classement, la grande distribution est en bonne place avec ce cher #Gérard_Mulliez (propriotaire des #Auchans notamment) qui détient 20 milliards d’euros de patrimoine ou #Emmanuel_Besnier, propriétaire de #Lactalis, le 1er groupe mondial de produits laitiers, qui émarge à 13,5 milliards.

      Les chiffres sont vertigineux, mais il ne faut pas se limiter à une posture morale se choquant de ces #inégalités sociales et appelant, au mieux, à davantage les taxer. Ces fortunes ont été bâties, et progressent de plus en plus rapidement, grâce à l’exploitation du travail. L’augmentation de valeur de leurs entreprises est due au travail des salariés, seul créateur de valeur. Tout ce qu’ils détiennent est ainsi volé légalement aux salariés. Ils doivent donc être pris pour cible des mobilisations sociales futures, non pas principalement parce qu’ils sont #riches, mais parce qu’ils sont les plus gros voleurs du monde : ils s’emparent de tout ce qui nous appartient, notre travail, notre vie, notre monde. Il est temps de récupérer ce qui nous est dû.

      https://www.frustrationmagazine.fr/inflation-bourgeois

      #profit #économie #alimentation #chiffres #statistiques

  • Subprimes, brevets médicaux, algorithmes… Comment le monde de la finance impose sa loi
    https://www.telerama.fr/debats-reportages/subprimes-brevets-medicaux-algorithmes-comment-le-monde-de-la-finance-impos

    Une interview éclairante sur la manière dont le capital écrit les lois qui arrangent le capital.

    Partout dans le monde, des avocats tordent le droit au profit de leurs clients. En accaparant le bien commun, ils sapent la démocratie, alerte Katharina Pistor, juriste et professeure à Colombia, à New York.

    « Le codage juridique est le processus par lequel des avocats ou des intermédiaires financiers prennent n’importe quels produits financiers et les légalisent. » Illustration Timothée Moreau
    Par Olivier Pascal-Moussellard
    Réservé aux abonnés
    Publié le 07 mai 2023 à 10h05

    On connaît l’adage : les hommes naissent libres et égaux… mais certains sont plus égaux que d’autres. Qui sont ces « plus égaux » ? Les avocats des grands cabinets de droit des affaires anglo-saxons et les intermédiaires financiers, affirme Katharina Pistor, professeure de droit comparé à l’université Columbia, à New York. Dans un essai rigoureux, accessible et accablant, Le Code du capital, elle raconte comment les marionnettistes du droit privé, libres d’élaborer eux-mêmes le code juridique du capital, provoquent l’envol insensé des inégalités. Ce « codage » — c’est-à-dire les règles de droit privé — du capital n’est pas nouveau, rappelle l’autrice : commencé dès le XVIe siècle en Angleterre, avec l’accaparement des terres communes (les fameuses enclosures) par des propriétaires fonciers, il s’est ensuite poursuivi avec le codage juridique des entreprises, de la dette, de la connaissance et même de la nature. Avec, à chaque fois, un même objectif : accroître les possibilités d’accumuler des richesses en inventant de nouveaux contrats et instruments financiers flirtant avec l’illégalité… avant de les faire valider par la loi ! Une mécanique conçue dans l’intérêt exclusif de riches acteurs privés, qui accentue considérablement les inégalités, abîme la démocratie et transforme tribunaux publics et responsables politiques en simples observateurs d’un quasi-racket à l’échelle mondiale.

    Que signifie « coder le capital » ?
    Le codage juridique est le processus par lequel des avocats ou des intermédiaires financiers prennent n’importe quels produits financiers, y compris les plus douteux, et les « légalisent ». Très ouvertes, ambiguës et hautement modulables, les structures juridiques de droit privé leur offrent, en effet, une grande liberté pour le faire. Même la propriété privée laisse une marge d’interprétation dans sa définition ! Ils profitent donc de ces zones grises pour « élargir » le champ du capital en exploitant les lacunes de la loi et autres frictions entre systèmes juridiques concurrents, et proposent à leurs clients de nouveaux produits situés aux limites de la loi.

    Ce flirt avec l’illégalité est possible parce que le droit privé est fabriqué par les avocats eux-mêmes…
    C’est un point essentiel. Et nous ne pouvons pas totalement éviter ce paradoxe. Les systèmes juridiques les plus largement appliqués sur notre planète s’inspirent en effet de la common law des droits anglais et américain, qui favorise les acteurs privés au détriment du droit public, des juges et des régulateurs, contrairement aux droits civils adoptés en France et en Allemagne. Évoluer dans un paysage économique dynamique et fluide est évidemment plus facile si l’on peut adapter les règles de manière décentralisée, et c’est ce que font ces avocats en jouant avec les limites. En théorie, le législateur pourrait surveiller leurs activités et dire « Vous allez trop loin », mais l’essentiel des innovations étant écrit dans l’entre-soi des cabinets privés, le législateur ne découvre ces produits que lorsqu’une crise éclate !

    La pression exercée par les banques pour déréglementer ne faiblit jamais. Et le législateur les écoute !
    Les marchés ne pourraient pourtant pas fonctionner sans l’État.
    Ils ont effectivement besoin de la loi quand les choses tournent mal, pour garantir, par exemple, le droit de propriété ou le droit des contrats. Mais comment obtenir ces garanties sur l’ensemble de la planète, alors qu’il n’existe pas d’État mondial unifié ? Tout simplement en permettant aux entreprises de choisir elles-mêmes les juridictions dont elles veulent dépendre, c’est-à-dire celles qui leur sont les plus favorables — en l’occurrence, le droit anglais et le barreau de New York. Cette règle sur mesure a été acceptée par quasiment tous les pays. Si vous êtes impliqués dans un litige à l’autre bout de la planète mais que vous avez opté pour la common law anglaise, le droit privé britannique sera appliqué et devra être accepté par les tribunaux locaux. C’est ce qu’on appelle la « portabilité » du droit.

    Que le droit privé favorise les plus puissants, ce n’est pas nouveau…
    On découvre, en effet, cette façon d’opérer dès le mouvement des « enclosures » — ou « enclavement » — en Angleterre, aux XVIe et XVIIe siècles. À l’époque, il n’existait pas de droit immobilier et la majorité des terres étaient communes. Certains propriétaires fonciers les ont accaparées de force avant d’exiger des tribunaux qu’ils reconnaissent leur droit de propriété et légalisent ainsi leur forfait. Ils ont gagné la guerre sur le terrain juridique et mis fin aux communaux.

    Katharina Pistor. Illustration Timothée Moreau
    Le codage juridique n’est-il pas, au fond, une façon pour des privilégiés de s’offrir une forme de couverture multirisque ?
    Le droit privé n’a cessé, au fil des siècles, de créer des mécanismes juridiques limitant la responsabilité des mieux lotis lorsque les choses tournaient mal. C’était vrai avec l’accaparement des terres. C’est aussi vrai quand l’entreprise « moderne » est apparue au XIXe siècle et que ses actionnaires ont bénéficié d’un véritable privilège légal : en cas de faillite, ils pouvaient perdre l’argent dépensé pour acheter leurs actions, mais pas davantage, quand bien même l’entreprise s’était endettée. Cette règle pouvait faire sens dans un système qui souhaite favoriser l’industrialisation du pays en incitant les petits épargnants à investir leur argent sans risquer leur patrimoine personnel. Mais elle continue de profiter à des banques et investisseurs privés qui font courir des risques énormes à la collectivité : seuls bénéficiaires de leurs paris financiers tant que tout va bien, ils transmettent le fardeau à l’ensemble de la société quand les choses déraillent.

    La même responsabilité limitée est d’ailleurs accordée aux propriétaires d’actions de sociétés pétrolières ou gazières, qui s’enrichissent sur la pollution de notre environnement — une pollution dont la collectivité tout entière devra payer les conséquences. Cette irresponsabilité n’est plus tenable : nous devons repenser l’ensemble du « code » juridique.

    Seuls maîtres du « code », les intermédiaires financiers se sont même assurés d’être toujours les premiers indemnisés…
    Avec le système des « Safe Harbors » que ces cabinets d’avocats ont mis en place, certains bénéficient, en effet, de protections supplémentaires par rapport à l’investisseur lambda. Normalement, quand un débiteur fait faillite et devient insolvable, je ne peux pas exécuter les créances que j’ai contre lui, je dois attendre les décisions du tribunal qui examinera toutes les demandes, établira une liste des priorités puis distribuera à chacun sa part. Mais le secteur financier a réussi à convaincre le législateur que, si vous faisiez cela avec ce qu’on appelle les produits dérivés (type subprimes), l’ensemble du marché risquait de s’effondrer, mettant l’économie à l’arrêt : il faut absolument que les échanges se poursuivent… en permettant aux gros investisseurs de récupérer en premier l’argent des débiteurs insolvables ! En 2008, lorsque Lehman Brothers a coulé, ceux qui possédaient un Safe Harbor ont ainsi sauvé une partie de leur mise, voire la totalité, quand les autres essuyaient des pertes sèches. Vous pensez que le législateur aura retenu la leçon ? Pas du tout, rien n’a changé. Sans doute parce que beaucoup de ces « élites » ont été formées dans les mêmes écoles et partagent une même façon de penser. Parfois aussi, le législateur et le pouvoir exécutif ne comprennent tout simplement rien au fonctionnement, il est vrai complexe, des produits mis sur le marché…

    Après le codage juridique de la terre et des sociétés, il y a eu celui de la connaissance et même de la nature.
    Aux États-Unis, la Cour suprême considère que, chaque fois que l’ingéniosité humaine est à l’origine d’une innovation, il faut accorder un droit de propriété intellectuelle à ses auteurs. Mais où tracer la limite ? Il y a un siècle, les juges considéraient par exemple que les lois de la nature ne pouvaient pas être brevetées, mais ils se sont ravisés, pour autant, ont-ils expliqué, que certaines conditions soient réunies. C’est ce qu’il s’est passé avec le BRCA, le gène responsable du cancer du sein. Des scientifiques financés par des fonds publics ont été les premiers à l’identifier, mais il fallait encore déterminer la séquence précise responsable du cancer. Une rude compétition s’est engagée entre un consortium public et une entreprise privée, et, cette dernière l’ayant emporté, elle s’est immédiatement adressée au bureau des brevets pour exiger que ses droits de propriété intellectuelle soient protégés. Avec succès : du jour au lendemain, des milliers de médecins et d’hôpitaux ont été forcés d’utiliser son test de dépistage, qui est passé entre-temps de 100 dollars… à 3 000 ! Près de vingt ans — et quelques dizaines d’actions en justice — plus tard, la Cour suprême a fait marche arrière. Cela n’a pas empêché l’entreprise concernée de faire fortune et de disposer de toutes les données des patientes testées, sur lesquelles elle continue de gagner beaucoup d’argent. A-t-on franchi les limites ? Selon moi, coder juridiquement la nature revient à exploiter à titre privé une partie du patrimoine commun de l’humanité. Le danger que certains brevets de ce type soient de nouveau attribués ne peut pas être totalement écarté.

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    Et la même chose se produit avec les données personnelles…
    Facebook et d’autres ont déclaré que l’aspiration, le nettoyage et l’organisation de nos données grâce à leurs algorithmes engageaient à la fois du travail et de l’innovation, deux critères clés pour obtenir un brevet. Elles avaient donc un droit de propriété sur nos données « retouchées ». L’idée reste la même qu’à l’époque des enclosures : profiter d’une zone grise où personne ne sait qui possède les droits, s’emparer de la ressource et attendre avec une armée d’avocats que quelqu’un vienne contester cette appropriation…

    Le droit public semble vraiment mal armé pour lutter.
    Il n’est pas assez puissant et beaucoup trop lent. Mais tenter de réguler le système capitaliste en faisant intervenir le droit public ne peut être qu’une solution temporaire. La question est d’abord politique, et la pression des banques pour déréglementer — sous prétexte de rester compétitives sur un marché mondial toujours plus concurrentiel — ne faiblit jamais. Le problème est que le législateur les écoute ! Aux États-Unis, les politiciens font grosso modo ce que le secteur financier exige. Et vous aurez beau voter pour que le système change, le système reste en place, ce qui explique en partie l’émergence du populisme. Beaucoup de gens ont en effet le sentiment d’avoir perdu le contrôle de leur avenir, au profit des plus puissants et de leurs bataillons d’avocats ! Ne croyant plus dans la capacité des institutions à corriger les excès, ils se tournent vers des hommes forts. On peut critiquer leur choix mais leur instinct est juste, et nous devons réfléchir ensemble à la manière de reprendre le contrôle sur ce système.

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    Comment le capitalisme a fait du livre une marchandise comme une autre
    Comment ?
    Ceux qui se rebellent sont souvent décrits comme des radicaux, mais privatiser l’eau et la santé, breveter la nature sans se soucier de pollution, n’est-ce pas radical ? Nous devons nous réveiller et faire quelque chose pour remédier à cette brutalité imposée par codages juridiques successifs. Il est dans la structure même du système capitaliste de ne pas changer spontanément. Lui confier la responsabilité de trouver des solutions à des problèmes comme le réchauffement climatique est donc une aberration. C’est la logique du droit privé, son modus operandi, qui doit être modifiée : il faut lui imposer l’idée qu’il n’y a pas de droits sans responsabilités, et que ceux qui jouent avec les limites seront tenus responsables des dommages qu’ils ont causés.

    Katharina Pistor en quelques dates
    1963 Naissance à Fribourg- en-Brisgau (Allemagne).
    2001 Enseigne à l’université de Columbia, à New York.
    2012 Colauréate du prix de recherche Max-Planck.
    2019 The Code of Capital dans la liste des meilleurs livres de l’année du Financial Times.
    Le Code du capital. Comment la loi fabrique la richesse capitaliste et les inégalités, traduit de l’anglais (États-Unis) par Baptiste Mylondo, éd. Seuil, 372 p., 24,50 €.

    #Loi #Droit #Capital #rapports_de_force #Avocats #Multinationales

  • Europe’s Inflation Outlook Depends on How Corporate Profits Absorb Wage Gains

    Higher prices so far mostly reflect increases in profits and import costs, but labor costs are picking up

    Rising corporate profits account for almost half the increase in Europe’s inflation over the past two years as companies increased prices by more than spiking costs of imported energy. Now that workers are pushing for pay rises to recoup lost purchasing power, companies may have to accept a smaller profit share if inflation is to remain on track to reach the European Central Bank’s 2-percent target in 2025, as projected in our most recent World Economic Outlook.

    Inflation in the euro area peaked at 10.6 percent in October 2022 as import costs surged after Russia’s invasion of Ukraine and companies passed on more than this direct increase in costs to consumers. Inflation has since retreated to 6.1 percent in May, but core inflation—a more reliable measure of underlying price pressures—has proven more persistent. This is keeping the pressure on the ECB to add to recent interest-rate rises even though the euro area slipped into recession at the start of the year. Policymakers raised rates to a 22-year high of 3.5 percent in June.

    As the Chart of the Week shows, the higher inflation so far mainly reflects higher profits and import prices, with profits accounting for 45 percent of price rises since the start of 2022. That’s according to our new paper, which breaks down inflation, as measured by the consumption deflator, into labor costs, import costs, taxes, and profits. Import costs accounted for about 40 percent of inflation, while labor costs accounted for 25 percent. Taxes had a slightly deflationary impact.

    In other words, Europe’s businesses have so far been shielded more than workers from the adverse cost shock. Profits (adjusted for inflation) were about 1 percent above their pre-pandemic level in the first quarter of this year. Meanwhile, compensation of employees (also adjusted) was about 2 percent below trend. This is not the same as saying that profitability has increased, as discussed in our paper.

    Previous episodes of surging energy prices suggest that labor costs’ contribution to inflation should grow going forward. In fact, it has already picked up over recent quarters. At the same time, the contribution from import prices has fallen since its peak in mid-2022.

    This lag in wage gains makes sense: wages are slower than prices to react to shocks. This is partly because wage negotiations are held infrequently. But after seeing their wages drop by about 5 percent in real terms in 2022, workers are now pushing for pay rises. The key questions are how fast wages will rise and whether companies will absorb higher wage costs without further increasing prices.

    Assuming that nominal wages rise at a pace of around 4.5 percent over the next two years (slightly below the growth rate seen in the first quarter of 2023) and labor productivity stays broadly flat in the next couple of years, businesses’ profit share would have to fall back to pre-pandemic levels for inflation to reach the ECB’s target by mid-2025. Our calculations assume that commodity prices continue to decline, as projected in April’s World Economic Outlook.

    Should wages increase more significantly—by, say, the 5.5 percent rate needed to guide real wages back to their pre-pandemic level by end-2024—the profit share would have to drop to the lowest level since the mid-1990s (barring any unexpected increase in productivity) for inflation to return to target.

    As noted in our recent review of the euro-area economy, macroeconomic policies thus need to remain tight to anchor expectations and maintain subdued demand. This would coax firms to accept a compression of the profit share and real wages could recover at a measured pace.

    https://www.imf.org/en/Blogs/Articles/2023/06/26/europes-inflation-outlook-depends-on-how-corporate-profits-absorb-wage-gains
    #inflation #multinationales #économie #profits #salaires #statistiques #chiffres

    • Euro Area Inflation after the Pandemic and Energy Shock: Import Prices, Profits and Wages

      We document the importance of import prices and domestic profits as a counterpart to the recent increase in euro area inflation. Through a novel consumption deflator decomposition, we show that import prices account for 40 percent of the average change in the consumption deflator over 2022Q1 – 2023Q1, while domestic profits account for 45 percent. The increase in nominal profits was largest in sectors benefiting from increasing international commodity prices and those exposed to recent supply-demand mismatches. While the results show that firms have passed on more than the nominal cost shock, and have fared relatively better than workers, the limited available data does not point to a widespread increase in markups. Looking ahead, assuming nominal wage growth of around 4.5 percent over 2023-24 – slightly below the level seen in Q1 2023 – and broadly unchanged productivity, a normalization of the profit share to the average level over 2015-19 will be necessary to achieve a convergence of inflation to target over the next two years. Monetary policy will thus need to remain restrictive to anchor expectations and maintain subdued demand such that workers and firms settle on relative price setting that is consistent with disinflation.

      https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2023/06/23/Euro-Area-Inflation-after-the-Pandemic-and-Energy-Shock-Import-Prices-Profits-a

  • Come la morsa monopolistica di #Amazon danneggia i venditori indipendenti europei

    Il colosso dell’ecommerce esercita un potere enorme anche sui piccoli rivenditori, giocando al tempo stesso da intermediario, fornitore di servizi e concorrente. Dalle sole commissioni fatte pagare nel 2022 agli attori indipendenti europei ha ricavato 23,5 miliardi di euro. Un report di Somo ne fotografa la posizione dominante oggi

    Amazon soffoca i venditori indipendenti europei costringendoli ad acquistare i suoi servizi a tariffe sempre più elevate e imponendo loro condizioni abusive. È la morsa del colosso ben descritta nel report “Amazon’s European chokehold” (https://www.somo.nl/amazons-european-chokehold/#printing-Amazon%26%238217%3Bs%20European%20chokehold) pubblicato a giugno da Somo, il Centro di ricerca olandese sulle multinazionali. “Amazon ha conquistato l’Europa. Dopo un’espansione durata 20 anni, intensificata durante la pandemia da Covid-19, il gigante statunitense è ora di gran lunga l’azienda di ecommerce dominante in Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna -si legge nel rapporto–. In questi Paesi l’azienda è il principale approdo per gli acquirenti online. E questo l’ha resa quasi indispensabile per i venditori indipendenti che desiderano distribuire i propri prodotti in Rete”.

    I ricercatori di Somo hanno analizzato la complessa struttura di Amazon in Europa, tracciando l’andamento dei prezzi dei prodotti venduti sulla piattaforma ed esaminando la “giurisprudenza” delle autorità europee chiamati a regolare la concorrenza. Dal lavoro di analisi è emerso che Amazon nel 2022 ha incassato 23,5 miliardi di euro solo in commissioni di servizio, cifra triplicata rispetto al 2017 (7,6 miliardi di euro). Le commissioni includono l’inserimento negli elenchi della piattaforma, i costi di consegna e di assistenza.

    “Amazon sostiene che questo aumento sia dovuto al maggior volume di vendite. L’azienda, però, si rifiuta di fornire dati concreti ma ha affermato che nei due anni precedenti al 2021 il numero di prodotti venduti da negozi indipendenti sarebbe aumentato del 65% -continuano i ricercatori-. Tuttavia si tratta di una percentuale nettamente inferiore all’incremento dei ricavi che Amazon ha ottenuto dalle inserzioni e dalla logistica dei venditori. L’aumento degli acquisti non spiega quindi l’intero valore dei ricavi che è dovuto anche a un’impennata delle tariffe”.

    La situazione evolve ulteriormente se si considerano i ricavi pubblicitari. Nel 2021 le entrate dalle inserzioni da venditori indipendenti europei sono state pari a 2,75 miliardi di euro. Dal 2017 i guadagni da inserzioni della piattaforma in Europa sono aumentati di 17 volte. Per un totale, indipendenti e non, di 24,95 miliardi di euro nel corso del 2021. Di conseguenza il “Marketplace” della piattaforma è talmente grande che se dovesse essere scorporato dall’azienda madre diventerebbe immediatamente la terza azienda tecnologica per profitti in Europa.

    “Servizi come la consegna e la pubblicità sono teoricamente opzionali. Tuttavia Amazon ha usato il suo potere per renderli quasi indispensabili, sostenendo la loro importanza per il raggiungimento di visibilità e vendite -è il risultato della ricerca di Somo-. Negli ultimi anni la piattaforma ha mantenuto alte le tariffe (nel caso delle inserzioni) o le ha aumentate (ad esempio, per la consegna e il magazzino). L’analisi dei prezzi di consegna e stoccaggio dal 2017 al 2023 in Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna mostra che Amazon ha aumentato continuamente i costi di questi servizi”. Entrando nel dettaglio, tra il 2017 e il 2023 le tariffe sono aumentate da un minimo del 50% in Spagna e Germania fino al 98% in Italia e al 115% in Francia.

    L’aumento delle tariffe per i servizi di consegna e stoccaggio e dei costi pubblicitari ha fatto sì che crescesse anche la quota di Amazon sul venduto dei “clienti”. Secondo una ricerca di Marketplace Pulse, azienda specializzata in analisi dell’ecommerce, il gigante statunitense tratterrebbe in media il 50% sul venduto. Una quota che è aumentata del 10% negli ultimi cinque anni. “Queste tariffe stanno schiacciando i venditori che, tolte le spese di inserzione, consegna e pubblicità, hanno margini molto ristretti per pagare la merce venduta, i dipendenti e tutti gli altri costi generali. Qualcosa inevitabilmente deve cedere: o i venditori cessano l’attività a causa della diminuzione dei margini oppure aumentano i prezzi, contribuendo potenzialmente a creare tendenze inflazionistiche in tutto il mercato”, è l’allarme di Somo.

    Le autorità regolatorie della concorrenza e del mercato di Europa e Regno Unito stanno indagando sull’azienda per verificare un possibile abuso di posizione dominante. Secondo Somo le indagini effettuate in Italia e nell’Unione europea avrebbero dimostrato come Amazon abbia usato i dati ottenuti dai venditori per competere con gli stessi, costringendoli di conseguenza ad acquistare i servizi offerti dalla piattaforma per rimanere competitivi. A prezzi, come detto, sempre più elevati.

    Secondo Somo l’origine del potere monopolistico di Amazon sarebbe di natura strutturale e difficile da comprendere senza analizzare il suo modello di business. Nata come piattaforma per la vendita di libri online, ha in seguito ampliato la varietà di prodotti che distribuiva e aperto anche a venditori terzi.

    Il passo successivo è stato quello di fornire ai rivenditori attivi sulla piattaforma dei servizi aggiuntivi, che comprendono appunto logistica e pubblicità. Allo stesso tempo ha iniziato a vendere i propri prodotti. In questo processo Amazon ha assunto tre ruoli diversi e in potenziale conflitto di interessi. Agisce infatti come intermediario sul mercato, stabilendone regole e determinandone i prezzi, come venditore, in concorrenza con coloro che utilizzano la piattaforma per distribuire i propri prodotti, e come fornitore di servizi per la vendita online.

    “Nonostante l’accresciuto controllo da parte delle autorità garanti della concorrenza in tutta l’Ue, non è stato ancora affrontato il conflitto di interessi che è alla base del potere monopolistico e della ricchezza di Amazon -conclude Somo-. Le autorità per la concorrenza e i responsabili politici europei devono regolamentare rigorosamente l’azienda come un servizio di pubblica utilità, oppure suddividere le sue diverse attività per evitare conflitti di interesse tra il suo ruolo di intermediario della piattaforma, venditore e fornitore di servizi”.
    Da segnalare infine che Somo ha aperto una specie di “canale” di comunicazione con i rivenditori su Amazon per raccogliere segnalazioni, istanze, richieste di aiuto. “Vorremmo conoscere la vostra esperienza di utilizzo della piattaforma e raccogliere ulteriori dati sul trattamento riservato da Amazon ai venditori. Contattateci in modo privato e sicuro tramite Publeaks o via mail criptata all’indirizzo margaridarsilva@protonmail.com“. Un modo per uscire dalla morsa.

    https://altreconomia.it/come-la-morsa-monopolistica-di-amazon-danneggia-i-venditori-indipendent
    #économie #monopole #multinationales #commerce_en_ligne #Marketplace #publicité

    • Amazon’s European chokehold

      Independent sellers and the economy under Amazon’s monopoly power

      This research reveals the immense market power of Amazon in Europe and the revenue it derives from it. In most of Europe’s biggest economies, Amazon is the main route for independent businesses to access online shoppers. Amazon’s dominance allows the company to get away with extractive and exploitative treatment of sellers on its platform.

      By analysing Amazon’s corporate structure in Europe, its financial reports, and the findings of competition investigations, SOMO found that:

      – In 2022, Amazon raked in €23.5 billion in listing and logistics fees from independent sellers in Europe. This was more than triple the €7.6 billion in 2017.
      – To this, Amazon added an estimated €2.75 billion in advertising revenue from independent sellers in 2021. Since 2017, Amazon’s overall European advertising revenue has grown 17-fold.
      - Altogether, in 2021 Amazon’s revenue from European sellers amounted to €24.95 billion. Amazon’s European marketplace is so large, if it were spun off into a separate company, the new firm would immediately become Europe’s third-biggest tech company by revenue.
      - In this period, Amazon has also continuously increased the price of logistics services. The increases varied, but they could be as high as more than double in some categories.

      Dominant platform

      “For the past 20 years, Amazon has been expanding its monopolistic hold over online shopping in Europe. It is now so dominant that independent retailers who wish to sell online cannot avoid it. Sellers are locked into the platform and are essentially a captive clientele, making them a profitable source of monopoly rent”, says Margarida Silva, researcher at SOMO.

      Amazon argues that the increase in fee revenue results from more sales. However, the numbers the company provides show a slower rise in sales than the increase in the fees that Amazon charged from sellers. Higher sales are only part of the story. In this period, prices for services such as logistics (Fulfillment by Amazon) have been constantly raised, and advertising was made essential to achieve visibility and sales.
      Under investigation

      Competition authorities across Europe, including in Italy, the EU and the UK, have started probing the company for abuses of its dominance. The EU and Italian investigations show the company used sellers’ data to compete against them and pushed them into buying logistics services. A similar investigation is ongoing in the UK.

      In Germany, Amazon has long been the focus of the Bundeskartellamt. Already in 2013, the agency forced the company to remove price parity clauses from its contracts with sellers. It is again investigating whether the company is reproducing the price parity policy via its automated tools.
      Monopoly power

      Despite increased scrutiny from competition authorities across the EU, the conflict of interests that lies at the root of Amazon’s monopoly power and wealth has not been addressed.

      European competition authorities and policy-makers must either strictly regulate Amazon as a public utility or break up its different businesses to prevent conflicts of interest between its role as a platform intermediary, seller, and service provider.

      “To achieve a fair digital transition, European regulators need to break up the excessive market power wielded by corporations like Amazon. Europe needs to sharpen its antitrust tools, revive structural solutions and put them to work”, says Margarida Silva.

      https://www.somo.nl/amazons-european-chokehold/#printing-Amazon%26%238217%3Bs%20European%20chokehold

      #rapport

  • L’affare CPR, un sistema che fa gola a detrimento dei diritti
    https://i.imgur.com/9lXyVnt.png

    Sono 56 i milioni di euro previsti complessivamente, nel periodo 2021-2023, dagli appalti per affidare la gestione dei #Centri_di_Permanenza_per_il_Rimpatrio (CPR) ai soggetti privati. Costi da cui sono esclusi quelli relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Cifre che fanno della detenzione amministrativa una filiera molto remunerativa che, non a caso, ha attratto negli ultimi anni gli interessi economici di grandi multinazionali e cooperative. La privatizzazione della gestione è, infatti, uno degli aspetti più controversi di questa forma di detenzione senza reato e ne segna un ulteriore carattere di eccezionalità: il consentire che su quella privazione della libertà personale qualcuno possa trarne profitto.

    Ad illustrare questa situazione è la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD), che questa mattina a Roma ha presentato un nuovo rapporto sul tema, intitolato “L’affare CPR. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, all’interno del quale grande attenzione è stata dedicata alle multinazionali #Gepsa e #ORS, alla società #Engel s.r.l. e alle Cooperative #Edeco-Ekene e #Badia_Grande che hanno contribuito, negli anni recenti, a fare la storia della detenzione amministrativa in Italia.

    Una storia tutt’altro che nobile fatta di sistematiche violazioni dei diritti delle persone detenute, con la possibilità per gli enti gestori di massimizzare -in maniera illegittima- i propri profitti anche a causa della totale assenza di controlli da parte delle pubbliche autorità. Nel Rapporto, infatti, si dà ampio spazio alla denuncia delle condizioni di detenzione che rischiano di configurarsi come inumane e degradanti e alla strutturale negazione dei diritti fondamentali dei detenuti. Il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà di corrispondenza non sono, infatti, tutelati all’interno dei CPR: luoghi brutali che consentono ai privati di speculare sulla pelle dei reclusi, grazie anche alla totale assenza di vigilanza da parte del pubblico.

    “Da sempre questi centri – ha dichiarato Arturo Salerni, presidente di CILD – hanno rappresentato un buco nero per l’esercizio dei diritti da parte delle persone trattenute. Essi rappresentano un buco nero anche sotto il profilo delle modalità e dell’entità della spesa, a carico dell’erario, a fronte delle gravi carenze nella gestione e delle condizioni in cui si trovano a vivere i soggetti che incappano nelle maglie della detenzione amministrativa, ovvero della privazione della libertà in assenza di qualunque ipotesi di reato. Il proposito del governo di aumentarne il numero è il frutto di scelte dettate da un approccio tutto ideologico che non trova fondamento nell’analisi del fenomeno. L’esperienza degli ultimi 25 anni, a prescindere dalla gestione pubblica o privata dei centri, ci dice che bisogna guardare a forme alternative e non coercitive per affrontare la questione delle presenze irregolari sul territorio nazionale, che bisogna accompagnare le persone in percorsi di regolarizzazione e di emersione, cancellando l’obbrobrio della detenzione senza reato”.

    https://cild.eu/blog/2023/06/08/laffare-cpr-un-sistema-che-fa-gola-a-detrimento-dei-diritti

    Une #carte localisant les lieux de rétention administrative en Italie :
    https://i.imgur.com/5NeU41i.png
    #cartographie

    Pour télécharger le rapport :
    https://wp-buchineri.cild.eu/wp-content/uploads/2023/06/ReportCPR_2023.pdf

    #rapport #CPR #CILD #détention_administrative #rétention #business #privatisation #Italie #multinationales #coopératives #profits #droits_humains #CIE

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la présence d’ORS en Italie :
    https://seenthis.net/messages/884112

    lui-même ajouté à la métaliste autour de #ORS, une #multinationale #suisse spécialisée dans l’ « #accueil » de demandeurs d’asile et #réfugiés :
    https://seenthis.net/messages/802341

    • “L’affar€ CPR”: un rapporto di CILD mette alla sbarra gli enti gestori

      Il profitto sulla pelle delle persone migranti

      Nel giugno scorso la Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) ha pubblicato un accurato rapporto dal titolo “L’affar€ CPR: il profitto sulla pelle delle persone migranti” 1, che analizza la gestione dei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR) italiani da parte delle principali cooperative e imprese private che ne detengono o ne hanno detenuto l’appalto, vincendo i diversi bandi di gara istituiti dalle prefetture.

      Introdotta formalmente nel 1998 2 la detenzione amministrativa in Italia prevedeva inizialmente la facoltà per i questori, qualora non fosse possibile eseguire immediatamente l’espulsione delle persone extracomunitarie, di disporne il trattenimento per un massimo di 20 giorni (prorogabile di ulteriori 10) all’interno dei CPTA, Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza.

      Nel 2008 3, i CPTA diventano Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), e, nel 2009 4, i termini massimi di trattenimento vengono estesi a 180 giorni, per poi venire portati a 18 mesi nel 2011 5. Nel 2017 6, la c.d legge Minniti-Orlando ha ulteriormente modificato la denominazione di tali centri, rinominandoli Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR). Infine, il decreto Lamorgese del 2020 ha emendato alcune disposizioni, riducendo i termini massimi di trattenimento a 90 giorni per cittadini stranieri il cui paese d’origine ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri con l’Italia 7.

      Inizialmente, i CPTA erano gestiti dall’ente pubblico Croce Rossa Italiana, e già all’ora diverse organizzazioni della società civile avevano denunciato le pessime condizioni di trattenimento, l’inadeguatezza delle infrastrutture e il sovraffollamento. In seguito al “pacchetto sicurezza” varato dal Ministro Maroni nel 2008, la situazione si aggrava, con la progressiva tendenza dello Stato a cercare di contenere i costi il più possibile. Così, diverse cooperative iniziano a partecipare ai bandi di gara, proponendo offerte a ribasso ed estromettendo la Croce Rossa. Infine, dal 2014, non solo le cooperative ma anche grandi multinazionali che già gestiscono centri di trattenimento in tutta Europa, iniziano a presentarsi e vincere i diversi bandi per l’assegnazione della gestione dei CPR.

      Multinazionali che si aggiudicano gare d’appalto proponendo ribassi aggressivi, a totale discapito dei diritti umani delle persone trattenuti. L’esempio più lampante è l’assistenza sanitaria, in quanto nei CPR, non è il SSN ad esserne competente, bensì l’ente gestore. Infine, nel triennio 2021-2023, le prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per la gestione dei 10 CPR presenti in Italia, complessivamente, per 56 milioni di euro, da sommare al costo del personale di polizia e la manutenzione delle strutture.

      Tra le principali imprese messe alla sbarra dal Report di CILD ci sono:

      Gruppo ORS (Organisation for Refugees Services). Multinazionale con sede a Zurigo, gestisce oltre 100 strutture di accoglienza e detenzione tra Svizzera, Austria, Germania e Italia. Sebbene risulti iscritta nel registro delle imprese dal 2018, ha iniziato la sua attività economica in Italia solo nel 2020. Nel 2019, si aggiudica l’appalto per la gestione del CPR di Macomer, in Sardegna (sebbene risultasse ancora “inattiva”). Nel 2020, gestisce il Cas di Monastir (Sardegna), due centri d’accoglienza a Bologna nel 2021, alcuni Cas a Milano, il CPR di Roma (Ponte Galeria) e quello di Torino.

      Nel centro di Macomer, personale medico ha denunciato l’assenza di interventi da parte delle autorità competenti in seguito a diversi episodi che hanno visto i trattenuti mettere a rischio la propria sicurezza. Inoltre, a più riprese è stata riportata l’impossibilità di effettuare ispezioni all’interno del centro da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Infine, un’avvocata che seguiva diversi clienti trattenuti, ha denunciato la sporcizia e l’inadeguatezza delle visite mediche di idoneità, che ha portato, tra l’altro, al trattenimento di soggetti affetti da gravi forme di diabete e soggetti sottoposti a terapia scalare con metadone, condizioni incompatibili con la detenzione amministrativa.

      Nel CPR di Roma è stata più volte denunciata l’insufficienza di personale, l’inadeguatezza dei locali di trattenimento (per esempio, l’assenza di luce naturale) e l’assenza della possibilità, per le persone recluse, di svolgere qualsiasi attività ricreativa. Anche a Torino, la delegazione CILD in visita ha riportato l’illegittimo trattenimento di persone soggette a terapia scalare con metadone, alto tasso di autolesionismo e abuso di psicofarmaci e tranquillanti somministrati.

      Cooperativa EKENE. Cooperativa sociale padovana che nel corso degli ultimi 10 anni ha spesso cambiato nome (nata come Ecofficina, poi Edeco 8 e infine Ekene), in quanto spesso al centro di inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari e procedimenti giudiziari legati ad una cattiva gestione di alcuni centri d’accoglienza, come lo SPRAR di Due Carrare (Padova), dove la Procura di Padova aveva aperto un’indagine per truffa e falso in atto pubblico, tramutatasi in una maxi indagine estesasi ad alcuni vertici della Prefettura di Padova, per gare truccate e rivelazioni di segreto d’ufficio.

      Nel 2016, diversi giornalisti e ricercatori avevano ripetutamente denunciato il sovraffollamento e la malnutrizione di diversi centri in gestione alla cooperativa, come l’ex Caserma Prandina, il centro di Bagnoli e Cona (VE), dove, nel 2017, la donna venticinquenne Sandrine Bakayoko è morta per una trombosi polmonare, quando all’interno del centro erano ospitate più di 1.300 persone, in una situazione di sovraffollamento e forte carenza di personale. Nel 2016, è stata espulsa da Confcooperative Veneto, con l’accusa di gestire l’accoglienza seguendo un modello che guardava al business a discapito della qualità dei servizi.

      Tuttavia, nel 2019 si aggiudica l’appalto del CPR di Gradisca d’Isonzo, a Gorizia in FVG, un appalto da circa 5 milioni di euro per un anno, attualmente in proroga tecnica. Dalla riapertura nel 2019, il CPR di Gradisca è quello dove si sono verificati più decessi. Dal 2019, quattro persone sono decedute, due per complicazioni in seguito all’abuso di farmaci, e due suicidi. Ciò mette in risalto la malagestione delle visite di idoneità all’ingresso, nonché l’inadeguatezza delle condizioni di trattenimento. Inoltre, diversi avvocati hanno denunciato la difficoltà nello svolgere colloqui coi trattenuti, e come le persone trattenute non venissero nemmeno informate del diritto a fare domanda d’asilo una volta entrate in Italia.
      Nel dicembre 2021 Ekene si aggiudica anche la gestione del CPR di Macomer.

      ENGEL ITALIA S.R.L. Società costituita nel 2012 con sede legale a Salerno. Nata come ente gestore nel settore alberghiero, presto inizia ad occuparsi di strutture d’accoglienza per persone richiedenti asilo nella zona di Capaccio-Paestum. Sebbene sia una società fallibile dal 2020, è riuscita ad ottenere la gestione del CPR di Palazzo San Gervasio (Basilicata) e Via Corelli (Milano), grazie alla cessione di un ramo dell’azienda ad una società terza, Martinina s.r.l, con la stessa persona come amministratrice unica.

      Già nel 2014, Engel era stata al centro della cronaca per la discutibile gestione del centro di accoglienza di Capaccio-Paestum, dove agli ospiti non venivano erogati beni di prima necessità come cibo e vestiti. Era stata denunciata anche l’assenza di corsi d’italiano e l’irregolarità nell’erogazione del pocket money. Inoltre, molti ospiti avevano denunciato abusi e maltrattamenti all’interno del centro.

      Nel 2018 Engel si aggiudica l’appalto del CPR di Palazzo San Gervasio, con un ribasso sul prezzo d’asta del 28,60%, che ha gestito fino al marzo 2023. Fin da subito, il Garante nazionale per le persone private della libertà, in seguito ad una visita al centro, ne aveva denunciato le pessime condizioni: assenza di locali comuni, trattenuti costretti a consumare i pasti in piedi, e la presenza di solo tre docce comuni. Gli ambienti di pernotto, privi di un sistema di isolamento, risultavano caldissimi d’estate e molto freddi d’inverno.

      Sebbene il centro sia stato chiuso a metà del 2020 per lavori e riaperto a febbraio 2021, secondo CILD le condizioni continuerebbero ad essere critiche. Continua a mancare un locale mensa, e in stanze da 25mq sono ospitate fino ad 8 persone. Inoltre, anche per Palazzo San Gervasio è stata denunciata l’inadeguatezza delle visite di idoneità al trattenimento e la difficoltà per i trattenuti di avere accesso alla corrispondenza coi propri avvocati.

      Anche nel CPR di Milano, per il quale Engel ha ottenuto l’appalto nel 2021 e nel 2022, sono state denunciate le terribili condizioni dei locali, e l’incredibile numero di gabbie e reti di ferro, che danno l’impressione di isolamento estremo, non solo dall’esterno ma anche dal personale all’interno del centro. Anche il cibo e i letterecci erogati risultano di pessima qualità.

      GEPSA. Multinazionale francese che dal 2011 inizia ad investire in Italia nel campo dell’accoglienza, si aggiudica diversi appalti proponendo una strategia aggressiva, con un ribasso sulle basi d’asta dal 20% al 30%. Dal 2014 al 2017 gestisce il CIE di Ponte Galeria, dal 2014 al 2017 il CIE di Milano e dal 2015 al 2022 il CIE di Torino. Dal 2011 al 2014 avrebbe dovuto gestire anche il CIE e CARA di Gradisca d’Isonzo, ma l’aggiudicazione è stata annullata dal TAR del Friuli-Venezia Giulia per la mancanza di requisiti adeguati delle imprese facenti parti della rete.

      Del CPR di Torino, era stata denunciata l’eccessiva militarizzazione e la carenza di personale civile, nonché l’assenza di relazioni tra trattenuti ed operatori, che non entravano quasi mai nelle aree di detenzione. In particolare, Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, in seguito ad una visita al centro, aveva denunciato come i trattenuti fossero costantemente sorvegliati da personale militare, che stavano letteralmente in mezzo tra trattenuti ed operatori, con funzioni di sorveglianza, ma senza interagire coi primi. Sempre nel CIE di Torino, sono stati riportati numerosi casi di malasanità, assenza di personale medico e la presenza di locali per l’isolamento dei trattenuti, che, secondo ASGI, poteva protrarsi fino a 5 mesi, in maniera del tutto arbitraria e illegittima.
      Durante gli anni della gestione Gepsa, nel CPR di Torino si sono verificate due morti e numerosi casi di autolesionismo e rivolta.

      BADIA GRANDE. Cooperativa sociale fondata nel febbraio 2007, con sede legale a Trapani, e presto si impone come colosso nel settore dell’accoglienza migranti nel Sud d’Italia, vincendo numerose gare d’appalto, soprattutto nel siciliano. Dal 2018 al 2022 gestisce il CPR di Bari-Palese e dal 2019 al 2020 quello di Trapani Milo. Nel 2021, diverse fonti giornalistiche denunciano la mala gestione del CPR di Bari, e diverse personalità dipendenti della cooperativa vengono rinviate a giudizio per casi di frode nell’esecuzione del contratto d’affidamento, in particolare nell’assistenza sanitaria e le misure di sicurezza sul lavoro.

      Anche per la gestione del CPR di Trapani la cooperativa viene indagata per frode nelle pubbliche forniture e truffa. Inoltre, in una visita nel 2019, il Garante nazionale riscontra l’assenza di vetri in molte finestre, assenza di porte e separatori che garantiscano la privacy nell’accesso ai servizi igienici, e l’assenza di locali per il consumo dei pasti, che i trattenuti sono obbligati a consumare sui letti o in piedi.

      Il rapporto si conclude con un’accurata riflessione sull’istituto della detenzione amministrativa, e su come ciò si sia dimostrata terreno fertile per “una pericolosissima extraterritorialità giuridica”, in cui non trovano applicazione neanche quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili”. Infine, CILD sostiene che, sebbene la detenzione amministrativa abbia progressivamente creato un sistema che consente ad enti privati di “fare profitto sulla pelle delle persone detenute”, la soluzione non sarebbe la gestione dei CPR da parte del settore pubblico, bensì il superamento del sistema della detenzione amministrativa, da collocare in un quadro più ampio di gestione del fenomeno migratorio attraverso politiche più aperte verso la regolarizzazione degli ingressi, per motivi di lavoro, familiari o di protezione internazionale.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/laffare-cpr-un-rapporto-di-cild-mette-alla-sbarra-gli-enti-gestori

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
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    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

      –—

      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • 🛑 Les dividendes des entreprises du CAC 40 ont atteint un niveau record en 2022, selon une ONG...

    Plus de 67 milliards de dividendes ont été versés aux actionnaires des sociétés du principal indice boursier français, d’après un rapport de l’Observatoire des multinationales (...)

    ⚡️ #multinationales #capitalisme #profits #SuperProfits #CAC40 #actionnaires #dividendes... #Anticapitalisme !

    ▶️ via l’Observatoire des multinationales
    https://multinationales.org/fr

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://www.francetvinfo.fr/economie/bourse/les-dividendes-des-entreprises-du-cac-40-ont-atteint-un-niveau-record-e

  • La gestion capitaliste de l’eau : irresponsabilité et racket
    https://lutte-ouvriere.org/documents/archives/cercle-leon-trotsky/article/la-gestion-capitaliste-de-l-eau (#archiveLO | 12 avril 2013)

    Sommaire :

    Introduction

    De l’Antiquité aux multinationales
    – L’Antiquité
    – Brève histoire de la #Compagnie_Générale_des_Eaux (#CGE)

    Prix de l’eau : le racket permanent
    – Des prix de monopole
    – Opacité des comptes
    – Lobbying et corruption
    – Le retour en régie publique

    Pollutions : irresponsabilité de l’État et pain béni pour les trusts
    – Qualité de l’eau et #pollutions
    – Irresponsabilité et complicité de l’État

    L’accès à l’eau dans le monde
    – Un constat effarant
    – La #pénurie : des causes « naturelles » mais surtout sociales
    – Les institutions internationales : comment se moquer du problème
    – Des progrès techniques qui permettraient la satisfaction des besoins

    Les crises de l’eau dans le monde
    – L’#Irak : une crise de l’eau provoquée par la guerre
    #Moyen-Orient : l’eau, arme de guerre
    #Amérique_latine : la révolte contre les #multinationales

    Conclusion

    #eau #capitalisme #pollution #corruption #concurrence

  • La « mondialisation » de l’économie
    https://www.lutte-ouvriere.org/documents/archives/cercle-leon-trotsky/article/la-mondialisation-de-l-economie
    #conférenceLO du 14 mars 1997

    Sommaire :

    De la guerre à la crise (1945-1975)
    – La remise en route de l’économie...
    – ...sous l’égide des États-Unis
    – Le mythe des « Trente glorieuses »
    – Les origines du marché commun
    – La crise monétaire, une des formes de la crise du système capitaliste

    Crise économique internationale et « mondialisation »
    – Le commerce international est-il plus « mondialisé » ?
    – Les entraves au développement du commerce international
    – Le cas des impérialismes européens
    – Les problèmes monétaires de l’#Union européenne
    – L’Union européenne : une construction fragile basée sur des rapports de force
    – Le #commerce_international : réglementé et inégal

    L’hypertrophie des marchés financiers
    – L’endettement des États à l’origine de la croissance des marchés financiers
    – Qu’est-ce que le #PIB ?
    – Les États déréglementent les marchés financiers
    – La #spéculation sur les emprunts d’État
    – La spéculation sur les actions
    – La spéculation sur les « produits dérivés »
    – La spéculation monétaire
    – Les profits spéculatifs détournent les capitaux de la production
    – Un marché monétaire international mais instable

    Concurrence étrangère, délocalisations : ne pas se tromper d’ennemi
    – Les #délocalisations sont-elles responsables du chômage ?
    – Bas salaires et investissements
    – Les capitaux se concentrent dans les pays riches
    – La croissance des #multinationales
    – Les #capitaux ne développent pas la planète, ils la pillent

    La « mondialisation » de la misère
    – Les inégalités s’accroissent
    – La #pauvreté se répand même dans les pays riches
    #Capitalisme et mondialisation
    – La base internationale du développement capitaliste
    – Le capitalisme a transformé le monde

    L’impérialisme, « stade suprême du #capitalisme » depuis un siècle
    – La dictature du capitalisme financier
    – Le monde entier partagé
    – L’#impérialisme n’a pas supprimé les contradictions du système, bien au contraire
    – Une première guerre mondiale pour le repartage du monde
    – Les bases objectives de la corruption du #mouvement_ouvrier...
    – ... et le pourrissement de toute la société

    L’impérialisme, un danger mortel pour l’humanité
    – La #crise_de_1929
    – Le #fascisme et la #guerre
    – La responsabilité des dirigeants socialistes et staliniens
    – L’humanité a payé cher le maintien du capitalisme au XXe siècle...
    – ... et paiera plus cher encore au XXIe siècle s’il se perpétue

    Nationalisme contre #mondialisation : un piège mortel pour les travailleurs
    – Le « #social-chauvinisme » du #PCF

    La mondialisation au service de l’humanité, c’est la société communiste
    – Mettre fin au capitalisme...
    – ... en mettant l’économie au service de tous
    – Seul le prolétariat en est capable

    #stalinisme #social-démocratie #réformisme #communisme_révolutionnaire

  • Nestlé grugera dans votre portefeuille pour compenser la baisse de ses profits Radio Canada
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1956848/nestle-baisse-profit-2022-inflation-cout-matieres-premieres

    Le géant de l’alimentation augmentera ses prix après avoir raté ses prévisions de bénéfice pour l’exercice 2022.

    Les prix n’ont pas fini de grimper à l’épicerie si on en croit Mark Schneider, directeur général de Nestlé, le plus grand groupe alimentaire mondial, qui s’apprête à appliquer de nouvelles augmentations du prix de ses produits après avoir affiché en 2022 des bénéfices nettement inférieurs aux prévisions.

    Le fabricant du café instantané Nescafe et des barres de chocolat KitKat a pourtant augmenté le prix de ses produits de 8,2 % l’an dernier, mais ça n’a pas suffi, semble-t-il, à limiter l’érosion des profits que M. Schneider attribue à la hausse du prix des matières premières.


    Le géant mondial de l’agroalimentaire Nestlé a déclaré des ventes de 137 milliards de dollars canadiens l’an dernier.

    “Notre marge brute a baissé d’environ 260 points de base, ce qui est énorme”, a expliqué Mark Schneider aux journalistes jeudi.

    Selon les dernières données publiées par le géant suisse de l’alimentation, le bénéfice net de Nestlé pour l’exercice 2022 s’est chiffré à 9,3 milliards de francs suisses (13,5 milliards $ CA), ce qui est loin des 11,6 milliards de francs (16,8 milliards $ CA) anticipés par les analystes.

    “Nestlé rate rarement ses objectifs et c’est le cas ici”, a déclaré à Reuters Bruno Monteyne, analyste chez Bernstein.

    Les actions de Nestlé étaient en baisse de 2,8 % sur les marchés en milieu d’après-midi, jeudi.

    Pour contrer l’érosion des profits, Nestlé a déclaré qu’elle visait une croissance interne des ventes dans une fourchette de 6 % à 8 % en 2023.

    La multinationale suisse a déclaré en 2022 des ventes de 94,4 milliards de francs suisses (137 milliards $ CA), en hausse de 8,4 %.

    Bien que les concurrents de Nestlé anticipent pour leur part des perspectives de prix plus positives en 2023, Mark Schneider estime que de nouvelles hausses de prix seront tout de même nécessaires cette année pour compenser l’impact de la hausse du prix des matières premières.

    Le géant Unilever a aussi déclaré la semaine dernière qu’il continuerait à augmenter le prix de ses détergents, savons et produits alimentaires emballés cette année pour compenser la hausse du coût des intrants, mais qu’il prévoit atténuer ces augmentations au second semestre de 2023.

    La multinationale du breuvage et des grignotines PepsiCo a pour sa part déclaré la semaine dernière qu’elle cesserait d’augmenter ses prix dès cette année après avoir appliqué plusieurs hausses l’an dernier qui lui ont permis de dépasser les prévisions en matière de bénéfices et de ventes.

    La perturbation des chaînes d’approvisionnement par la pandémie de COVID-19 et l’invasion de l’Ukraine par la Russie en février 2022 ont littéralement fait flamber le prix des denrées alimentaires et de presque toutes les matières premières dans le monde. Les augmentations des prix en tablettes ont été particulièrement fortes et rapides dans le domaine de l’alimentation.

    Au Canada, en 2022, le panier d’épicerie a augmenté de plus de 10 % sur une base annuelle.

    Sachant que les consommateurs sont confrontés à des taux d’inflation historiques, les multinationales de l’alimentation comme Nestlé ne peuvent non plus augmenter leurs prix de façon inconsidérée afin d’éviter d’atteindre le point de bascule où le consommateur remet le produit sur la tablette parce qu’il est trop cher.

    #nestlé #inflation #prix #marge #eau #multinationales #alimentation #santé #suisse #agroalimentaire #agriculture #vittel #exploitation #nutrition #agriculture_et_alimentation #coca-cola #multinationale #esclavage #bénéfices #dividendes #économie #santé #PepsiCo

  • McKinsey n’est pas enregistrée dans les registres de lobbyistes au Canada Thomas Gerbet
    https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1953344/mckinsey-registre-lobbyistes-quebec-ontario-canada

    Les autres grandes firmes de consultants déclarent du lobbyisme au Québec, en Ontario et au fédéral.

    Le cabinet-conseil McKinsey est absent des registres de lobbyistes des gouvernements du Québec, de l’Ontario et du Canada, alors que ses concurrents sont déclarés, a découvert Radio-Canada. L’entreprise, sous le feu des projecteurs, affirme ne pas faire de lobbyisme. Mais, des courriels que nous avons obtenus font douter des experts.


    L’ancien grand dirigeant de McKinsey, Dominic Barton, a témoigné, la semaine dernière, dans le cadre d’un comité parlementaire qui étudie les contrats octroyés par Ottawa à la firme. (Photo d’archives) - Photo : La Presse canadienne / Adrian Wyld

    Les grandes firmes de consultants que sont KPMG, Deloitte, Accenture, Ernst & Young et Pricewaterhouse Coopers se trouvent toutes inscrites aux différents registres de lobbyistes que nous avons consultés. Il est en revanche impossible de trouver la trace de McKinsey, que ce soit dans les mandats actifs ou dans les mandats inactifs archivés.

    C’est normal, selon la responsable des relations extérieures de la firme, Alley Adams :

    « McKinsey & Compagnie Canada n’a pas d’activités de lobbying. »
    -- Une citation de Alley Adams, responsable des relations extérieures de McKinsey Canada

    Est-ce possible que McKinsey ne tente jamais d’influencer les gouvernements au Canada dans le but d’obtenir un contrat ? La firme ne nous a pas répondu à cette question.

    Des exemples de cabinets-conseils enregistrés aux registres
    Tenter d’influencer un titulaire de charge publique pour se faire octroyer un contrat est tout à fait légal, tant que cette activité est enregistrée au registre des lobbyistes.

    Par exemple, dans le registre québécois, la firme KPMG a enregistré un mandat qui indique clairement qu’elle vise plusieurs ministères, avec pour objectif l’“obtention de contrats en services-conseils, de gré à gré ou par appels d’offres publics […] portant notamment sur la gestion en opérationnelle et la gestion des risques”.


    Extrait du registre des lobbyistes du Québec. On voit que la firme KPMG s’est enregistrée en indiquant qu’il souhaite obtenir des contrats en services-conseils de gré à gré, notamment. Photo : Radio-Canada

    Le cabinet-conseil spécifie que son mandat inclut “les communications préalables” qu’elle pourrait avoir avec un titulaire de charge publique.

    Même pour présenter ce qu’elle a à offrir, Accenture s’est aussi enregistrée auprès du gouvernement du Québec. On peut lire au registre : “Démarches effectuées dans le but de présenter les solutions d’Accenture pour la haute performance dans le domaine des services de santé et de la fonction publique”.

    Un courriel démontre une sollicitation de McKinsey auprès d’Ottawa
    Dans un courriel cité par le Parti conservateur du Canada, en comité parlementaire, mercredi, on apprend qu’un représentant de McKinsey, Kevin d’Entremont, a sollicité une conseillère principale en politiques chez Services publics et Approvisionnement Canada, le 26 mars 2020, au tout début de la pandémie.


    La firme américaine est un cabinet-conseil ayant 130 bureaux dans 65 pays, regroupant 30 000 consultants. Photo : McKinsey

    Radio-Canada a pu obtenir ce courriel, dans lequel Kevin d’Entremont propose au gouvernement fédéral un “briefing” avec des experts de chez McKinsey pour lui présenter “les programmes” d’intervention que la firme utilise contre la COVID-19 avec différents États dans le monde.

    Objet du courriel : « Interventions de McKinsey dans le domaine des soins de santé et de la chaîne d’approvisionnement
    _ Bonjour Kelly, 
    J’espère que vous allez bien. Je suis avec McKinsey & Company, et je suis basé à Ottawa. Il y a un certain intérêt, ces derniers temps, à entendre parler de ce que nous faisons au niveau mondial. McKinsey a plus de 90 programmes en cours, à travers le monde, avec des gouvernements et des clients du secteur de la santé sur la COVID-19. Nous avons une base de données importante et une équipe d’experts en Amérique du Nord.
    Je voulais vous contacter au cas où vous voudriez savoir comment certains de ces gouvernements gèrent l’intervention par le biais de centres nerveux et en créant des architectures de réponse spécialisées. Le document ci-joint présente notre réflexion.
    Andrew Pickersgill est notre associé directeur canadien et il a collaboré avec l’industrie et les gouvernements sur ce sujet. Andrew a également dirigé notre équipe canadienne pour soutenir Dom Barton au sein du Conseil consultatif du ministre des Finances en matière de croissance économique. Par l’intermédiaire d’Andrew, je serais heureux de faire appel à des experts pour un briefing.
    Si cela vous intéresse, n’hésitez pas à me le faire savoir. Encore une fois, j’espère que vous allez bien, et merci pour l’excellente coordination du front à Ottawa. C’est impressionnant d’observer l’intervention du gouvernement.
    Mes coordonnées sont ci-dessous si vous souhaitez me joindre.
    Salutations,
    Kevin
    (Le texte du courriel a été traduit en français) _

    McKinsey n’a pas répondu à nos questions relatives à ce courriel et le Commissariat au lobbying du Canada n’était pas disponible pour commenter.

    Aujourd’hui, à 15 h 30, la ministre des Services publics et de l’Approvisionnement, Helena Jaczek, comparaîtra devant le comité parlementaire qui étudie les contrats octroyés à McKinsey, qui totalisent au moins 116 millions $ depuis l’arrivée au pouvoir de Justin Trudeau.

    Quand McKinsey propose son aide au gouvernement Legault
    On trouve le nom de Kevin d’Entremont dans le système de publication officiel d’appel d’offres pour le gouvernement du Québec. Il y est présenté comme la personne référence pour les contrats chez McKinsey.

    Radio-Canada a mis la main sur un courriel envoyé par une personne représentant McKinsey, le 20 juillet 2020, près de deux mois après la fin d’un premier contrat accordé à la firme par le ministère du Conseil exécutif (MCE), le ministère du premier ministre François Legault.

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    Le gouvernement Legault a fait appel aux services de McKinsey pour l’aider dans sa gestion de la pandémie. (Photo d’archives) Photo : La Presse canadienne / Jacques Boissinot

    Alors que la firme n’est plus sous contrat avec Québec, on voit dans ce courriel qu’elle tente une approche auprès d’un cadre du MCE.

    “Est-ce que la structure de gestion de la COVID-19 évolue à ton goût ?” demande le représentant du cabinet-conseil dans le courriel. “N’hésite pas si on peut aider avec quoi que ce soit.”

    Et il l’informe que “plusieurs juridictions en Amérique du Nord réfléchissent présentement à la modernisation de l’État et à la préparation à de futures pandémies”.

    Québec fera de nouveau appel aux services de la firme quatre mois après ce courriel, puis encore une fois un an plus tard. Le Conseil exécutif n’a pas encore répondu à nos questions relatives à ce courriel.

    Du lobbyisme ? Des experts se prononcent
    Nous avons montré le dernier courriel à un lobbyiste d’expérience qui représente une douzaine de clients auprès du gouvernement du Québec. Il n’est pas nommé pour ne pas nuire à ses clients.

    « C’est clairement un courriel qui offre les services d’un expert de la firme. Si c’est arrivé durant une période hors contrat, c’est a priori une communication visée par la Loi [sur la transparence et l’éthique en matière de lobbyisme] »
    -- Une citation de Un lobbyiste d’expérience, au Québec

    Que McKinsey affirme ne pas faire de lobbyisme, c’est pour lui “un peu intense comme affirmation”, même si “théoriquement possible”.

    La professeure au Département de communication sociale et publique de l’UQAM, Stéphanie Yates a aussi lu le courriel, à notre demande. Ses recherches portent notamment sur le lobbyisme et l’influence en matière de politique publique.

    « Est-ce que c’est de l’influence ? On peut penser que oui, puisque ces discussions éventuelles, sollicitées par le consultant, vont avoir pour objectif d’influencer le gouvernement. »
    -- Une citation de Stéphanie Yates, professeure à l’UQAM, spécialisée dans les enjeux de lobbyisme.

    L’experte rappelle que si c’était le titulaire de charge publique qui avait écrit à McKinsey pour demander des conseils, ce serait tout à fait différent, et ce ne serait pas du lobbyisme.

    Pour éviter toute zone grise et “par mesure de prudence”, Stéphanie Yates recommande aux organisations de s’inscrire au registre. “Ça ne demande pas tellement de ressources pour s’inscrire”, dit-elle, et “la quantité d’informations qu’on y inscrit est assez minimale”.

    Vérification du Commissaire au lobbyisme du Québec ?
    Nous avons partagé ce courriel avec le Commissaire au lobbyisme du Québec. Son président Jean-François Routhier nous a répondu qu’il ne peut commenter un cas particulier pouvant faire l’objet d’une enquête ou d’une vérification. Il a toutefois accepté de nous accorder une entrevue pour répondre à nos questions plus générales.

    “Dans la majorité des cas, les cabinets-conseils ont généralement tendance à s’inscrire, ne serait-ce que par prévention et transparence”, dit-il. “On encourage ça.”

    « Peut-être que certains cabinets ont une discipline interne très très forte qui ferait en sorte qu’ils sont capables d’affirmer qu’ils ne font jamais d’activités de lobbyisme. »
    -- Une citation de Jean-François Routhier, Commissaire au lobbyisme du Québec

    En dehors d’un processus d’appel d’offres, Jean-François Routhier rappelle qu’“il est toujours permis à une entreprise de présenter ses produits et services à un titulaire de charge publique, dans la mesure où il n’y a pas de tentative d’influencer la décision”.

    « Le simple fait de dire : "J’ai un expert qui fait telle chose et qui coûte 200 $ de l’heure", si on ne tente pas d’influencer la décision, ça pourrait se qualifier dans l’exception d’une offre de service. »
    -- Une citation de Jean-François Routhier, Commissaire au lobbyisme du Québec

    Toutefois, il note que, “dans plusieurs cas, les cabinets-conseils vont quand même inscrire des activités de lobbyisme, parce que, au fil des discussions, ça se peut qu’il y a ait plus qu’une présentation de produits et services, mais c’est plutôt préventif”.

    Le Commissaire encourage les titulaires de charges publiques (fonctionnaires ou élus) à dénoncer une activité de lobbyisme non déclarée. “Ce sont eux qui reçoivent les communications, les courriels… Si on juge que c’est nécessaire, on va poser des questions, on va aller obtenir de la documentation et on va faire notre analyse.”

    #lobbying #corruption #lobby #santé #lobbies #multinationales #climat #surveillance #politique #démocratie #transparence #Canada #Justin_Trudeau #caramabouille #consultants #consultance #consulting #privatisation #cabinets_de_conseil #mckinseygate #McKinsey

  • La pénurie de médicaments essentiels n’a rien d’accidentel

    Alors qu’ils sont produits par des entreprises qui figurent parmi les plus grandes multinationales du monde, certains médicaments se trouvent en pénurie de manière structurelle. Une situation qui n’a finalement rien de paradoxal et qui relève de la manipulation de marché.

    « Je ne peux pas supporter l’idée que mon mari soit décédé parce qu’il y avait une rupture d’approvisionnement » [1]. Une veuve n’en démord pas suite à la mort de son époux au CHU de Nantes en 2016. Celui-ci atteint d’un cancer du sang aurait pu survivre grâce à un médicament approprié. Malheureusement, ce dernier n’était momentanément plus accessible. Les médecins ont dû opter pour une solution alternative plus toxique. Le patient n’y a pas résisté.


    C’est par ce récit glaçant que Julie Lotz commence son reportage sur les médicaments en pénurie [2]. Elle y dénonce comment les multinationales pharmaceutiques ont créé cette situation absurde où des remèdes, pourtant classés comme essentiels par l’Organisation mondiale de la santé (OMS), sont devenus indisponibles parce qu’ils ne rapportent plus assez aux géants du secteur. Un scandale planétaire !

    Ainsi, la privation de soins élémentaires qui touchait déjà une partie des pays du tiers-monde, ce qui était déjà en soi inacceptable, s’étend maintenant à toute la planète, y compris aux États capitalistes avancés. Dans cette question, c’est toute la population mondiale qui se trouve à la merci des firmes de santé et à leur logique implacable de rentabilité.

    La grande enquête d’UFC-Que Choisir en France
    #UFC-Que Choisir est une des plus importantes organisations françaises de consommateurs. En novembre 2020, elle publie une vaste étude sur la situation de #pénuries des #médicaments en #France [3]. Son rapport est accablant.

    Dans un premier temps, l’association rappelle les notions de base légales pour caractériser les ruptures de stock et d’approvisionnement dans les #produits_pharmaceutiques, car la problématique est nouvelle et s’aggrave. Ainsi, le décret du 20 juillet 2016 définit la rupture de #stock comme « l’impossibilité pour un laboratoire de fabriquer ou d’exploiter un médicament ou un #vaccin ». En revanche, la rupture d’approvisionnement est « l’incapacité pour une pharmacie d’officine ou une #pharmacie à usage intérieur (…) de dispenser un médicament à un patient dans un délai de 72 heures ». On distingue également la tension d’approvisionnement, lorsqu’un fabricant dispose d’une quantité insuffisante de solutions pour fournir le marché [4]. Ces situations doivent être signalées aux autorités sanitaires. Ces dispositions, ou des règles similaires, se sont imposées dans la plupart des États capitalistes avancés.

    Dans ses rapports, l’Agence nationale de sécurité du médicament et des produits de santé ( #ANSM ), l’institution publique chargée d’évaluer les risques sanitaires des médicaments en France, publie des statistiques sur les signalements officiels de problèmes dans la livraison de produits depuis 2008. Le nombre de ces avertissements explose littéralement : il décuple de 2008 à 2014, atteignant 438 notifications cette dernière année. Mais cela continue par la suite : elles sont 538 en 2017, 868 en 2018, 1.504 en 2019, puis 2.446 en 2020 [5].

    Cela signifie que, depuis 2008, ces signalements se sont multipliés par près de 56. Certes, on peut supposer qu’au début, le procédé d’avertissement, nouveau, n’a pas été utilisé massivement, d’autant que l’obligation de prévenir l’ANSM ne date que du décret du 28 septembre 2012 [6]. Mais, depuis 2016, les notifications ont sextuplé. De ce fait, « l’Académie nationale de pharmacie considère aujourd’hui les problèmes d’indisponibilité des médicaments comme chroniques » [7].

    En analysant en détail les données en date de juillet 2020, l’association des consommateurs constate que les médicaments en pénurie sont généralement anciens, considérés comme indispensables pour les autorités sanitaires et bon marché. Par exemple, 29% concernent des #génériques. Seuls 25% des produits manquants avaient une autorisation de mise sur le marché postérieure à 2000. 75% sont vendus à moins de 25 euros et 61% sont remboursés totalement ou partiellement par la sécurité sociale. Les secteurs les plus touchés se trouvent dans les domaines des anti-infectieux (antibiotiques), des anticancéreux et des solutions pour le système nerveux central (antiparkinsoniens, antiépileptiques) [8].

    UFC–Que Choisir observe également la durée parfois inquiétante de certaines pénuries, certaines se prolongeant parfois trois ou quatre ans.

    Les entreprises n’indiquent la cause de la rupture que dans 36% des cas. Dans 37% des situations, elles annoncent suppléer la carence par une importation d’un pays étranger. Dans 30%, elles promeuvent une thérapie alternative, sans vérifier si celle-ci est réellement équivalente pour le patient. Sinon, elles proposent de diminuer les doses ou de sélectionner les malades en fonction de la gravité de la pathologie. Pour 18% des carences, aucune solution n’est avancée [9].

    L’association des consommateurs pointe la responsabilité des firmes du secteur. Si le médicament ne rapporte pas assez, la compagnie ne produit plus ou désigne un seul site pour l’approvisionnement, qui peut tout à coup être victime d’une panne technique ou autre. Ou alors elle recourt à la #sous-traitance, mais la plupart du temps, vis-à-vis d’un ou deux fournisseurs, de préférence dans un pays à bas coût salarial. Et là aussi, on peut avoir soudainement des ruptures.

    UFC–Que Choisir remarque que les obligations de service public des entreprises ne sont pas toujours respectées, mais elles sont rarement sanctionnées.

    Face à cette dénonciation, la fédération patronale du secteur en France, le LEEM (Les entreprises du médicament), ne nie pas le problème. Elle s’avoue même préoccupée par son aggravation : « Chaque patient qui se rend en pharmacie doit pouvoir avoir accès aux médicaments dont il a besoin sans délais. La priorité absolue des entreprises du médicament consiste à mettre à la disposition des patients leur traitement en toute sécurité dans les meilleurs délais. Quel que soit le point de vue porté sur ces tensions ou ruptures, l’objectif est le même : les éviter autant que possible. »

    Mais, immédiatement, elle enchaîne : « Les tensions et ruptures d’approvisionnement ont pris plus d’ampleur ces dernières années en raison de la complexification de la chaîne de production, des technologies, des contrôles et des obligations réglementaires. Mais aussi de facteurs externes, notamment des capacités de production insuffisantes face à l’augmentation de la demande mondiale, des problèmes d’approvisionnement de principes actifs… Ainsi, la fabrication de certains médicaments anciens (notamment injectables) peut être complexe à réaliser et susceptible de générer des non-conformités en production ou en contrôle, sources de ruptures parfois récurrentes. » [10] Le LEEM estime que l’explosion des signalements constatée par l’association des consommateurs provient, en bonne partie, des exigences des pouvoirs publics à avertir de façon plus précoce les problèmes de fourniture et que, de ce fait, les firmes anticipent davantage les possibilités de blocage et les déclarent aux autorités sanitaires [11]. Pourtant, UFC–Que Choisir pointait justement le manque de transparence des compagnies à propos des pénuries.

    Dans un autre document, le LEEM écrit : « Les ruptures sont en grande majorité la conséquence de facteurs mondiaux, conduisant soit à une rupture de disponibilité des médicaments chez le fabriquant – on parle alors de rupture de stock – soit à une rupture dans la chaîne d’approvisionnement rendant momentanément impossible la délivrance du médicament au patient par son pharmacien – il s’agit alors d’une rupture d’approvisionnement. » [12]

    Il est clair que la fédération patronale tente de noyer la responsabilité manifeste des entreprises, dénoncée par l’organisation de la société civile, dans une série de causes annexes, comme des complexifications de production, des réglementations plus pointilleuses ou des carences de livraison à l’étranger. Comme si les géants du secteur n’avaient aucun pouvoir sur ces phénomènes et que ceux-ci leur étaient malencontreusement imposés !

    La montée inquiétante des pénuries en Europe
    Le constat est identique au niveau européen. La Commission de l’environnement, de la santé publique et de la sécurité alimentaire du Parlement européen écrit à ce sujet : « Ces pénuries (de médicaments) ont été multipliées par 20 entre 2000 et 2018 et par 12 depuis 2008, faisant courir des risques considérables aux patients et fragilisant les systèmes de #santé des États membres. » [13]

    En 2018, l’Association européenne des pharmaciens hospitaliers (EAHP selon le sigle en anglais [14]) a mené une vaste enquête auprès de ses membres pour connaître la situation dans leurs établissements. Ils ont reçu 1.666 réponses. Pour 90% de ces professionnels de la santé, la rupture d’approvisionnement est un problème récurrent dans leur clinique [15]. Ces difficultés sont quotidiennes dans 36% des cas, hebdomadaires dans 39% et mensuelles dans 16% [16].

    Les effets sont catastrophiques. Dans 59% des situations signalées, la pénurie a entraîné le report des soins. Pour 31%, ceux-ci ont été purement et simplement annulés. Pour un quart, cela a provoqué des erreurs de médication et, pour un autre 25%, les médecins ont dû trouver une solution alternative moins appropriée. Enfin, 12 décès ont été occasionnés selon le rapport [17]. 63% des réponses ont noté l’obligation de payer un prix plus élevé pour le traitement, 46% la plupart du temps, 17% en permanence [18].

    Les États-Unis ont connu une tendance similaire, lorsque les médicaments manquants sont passés de 58 en 2004 à 267 en 2011. Par la suite, ce nombre a diminué : en 2013, il n’y avait plus que 140 traitements en carence. Mais, en 2017 et 2018, deux grandes usines de fabrication ayant un impact sur la production de nombreux médicaments ont fermé pour assainissement [19]. Les pénuries ont de nouveau augmenté à 186 en 2018. Puis, elles ont à nouveau baissé : 114 en 2021 [20].

    Au centre de cette stabilisation se trouve la réglementation américaine quant à la constitution de stocks minimaux pour les remèdes essentiels. Aussi les autorités communautaires incitent les États membres à se lancer dans une politique similaire.

    La Belgique n’est pas épargnée par ces ruptures. En juin 2020, il y avait, selon l’Agence Fédérale des Médicaments et des Produits de Santé (AFMPS), 514 médicaments temporairement indisponibles [21]. C’est le cas notamment de l’Oncotice, une solution contre le cancer de la vessie. Or, son substitut éventuel, le BCG-Medac vient, lui aussi, à manquer.

    En novembre 2020, une étude réalisée par Test Achat Santé sur 2.000 personnes a remarqué que 28,5% des Belges interrogés avaient déjà été confrontés à l’indisponibilité du traitement approprié et que 16% l’ont été à plusieurs reprises [22]. La situation s’aggrave comme le soulignent de nombreux professionnels de la santé. Ainsi, Alain Chaspierre, président de l’Association pharmaceutique belge (APB), s’alarme : « Nous sommes confrontés à la pénurie pour toutes sortes de médicaments : des antibiotiques, de l’insuline, des traitements contre l’hypertension, le diabète, les glaucomes, l’asthme, des médicaments anticancéreux… » Yannis Natsis, responsable pour l’accessibilité des médicaments au sein de l’Alliance européenne de santé publique [23], une plateforme d’ONG actives dans le domaine sanitaire sur le vieux continent, renchérit : « Le phénomène n’est pas nouveau, mais son ampleur l’est. Cela fait longtemps que la pénurie de médicaments frappe les pays de l’Europe de l’Est et centrale. Mais depuis quelques années, des pays d’Europe occidentale comme la France, la Belgique et les Pays-Bas sont aussi touchés. » [24]

    Comment la pénurie est-elle organisée ou apparaît-elle en Europe ? Pour l’illustrer, nous reprenons deux exemples symptomatiques d’interruption d’approvisionnement, celui du #BCG produit par #Sanofi et celui de l’Alkeran fourni par la société sud-africaine Aspen Pharmacare.

    Le bacille introuvable de Sanofi
    Le vaccin bilié [25] de Calmette et Guérin, appelé communément BCG, est à l’origine un traitement contre la #tuberculose, découvert au début des années 1920 à l’Institut Pasteur en France à l’initiative des professeurs Albert Calmette (bactériologiste) et Camille Guérin (vétérinaire et biologiste). Cette maladie est une des plus mortelles au monde. Ainsi, l’OMS a placé ce remède parmi les médicaments les plus essentiels.

    Progressivement, les spécialistes se rendent compte que le BCG est un stimulateur de l’immunité et peut donc être utilisé contre certaines formes de cancer. C’est le cas de celui de la vessie, après l’opération chirurgicale qui soigne la pathologie ou lorsque la tumeur se situe sur la paroi de l’organe urinaire. À partir de 1976, la solution dérivée du BCG est employée à cet effet et, dans 50 à 70% des cas, la tumeur ne revient pas. En 2012, l’Institut Pasteur effectue des tests cliniques pour montrer l’efficacité de cette thérapie [26]. Dès lors, de nombreux pays s’approvisionnent en BCG.

    Mais le principal producteur est la multinationale française Sanofi [27] et elle dédie à ce produit un seul site, celui de #Willowdale, près de #Toronto au Canada. En effet, il s’agit d’une marchandise dont la fabrication est assez peu lucrative et non protégée, donc vendue à un prix relativement bas. Le médicament est commercialisé sous le nom d’ImmuCyst. Or, en 2012, les autorités sanitaires canadiennes trouvent une contamination au champignon dans l’usine. Aussitôt, celle-ci est arrêtée, occasionnant immédiatement une tension dans les hôpitaux qui se fournissaient auprès du groupe. Les autres entreprises ne sont pas capables de suppléer le marché.

    La production ne reprend qu’en 2014, mais à un rythme limité. Pour des raisons de sécurité bien compréhensibles, le Canada surveille étroitement la filiale de Sanofi. Le porte-parole de la multinationale explique : « Il est difficile de changer de technique (de production) sans changer le produit. Et si on modifie le produit, il faut refaire des études cliniques » [28]. Et tout cela coûte cher. En novembre 2016, le groupe français annonce la fin de la fabrication pour la mi-2017, échéance reportée finalement à fin juillet 2019. Son porte-parole prétend que la firme a bien tenté de résoudre les problèmes du site canadien, mais que ses efforts « ne peuvent garantir une continuité et un approvisionnement fiable du produit. » [29]

    Dès lors, la fourniture du BCG revient au petit laboratoire allemand #Medac. Mais celui-ci n’a pas les capacités pour remplir ce rôle. Avant 2012, il ne livrait pas la France par exemple. Il a dû investir massivement dans un processus manufacturier complexe, qui peut durer neuf mois entre les débuts de confection du médicament et son aboutissement [30]. Les difficultés d’approvisionnement se sont succédé.

    C’est pour cela que la Belgique s’est tournée vers l’Oncotice vendu par la compagnie américaine Merck et réalisé aux Pays-Bas. Mais, évidemment, tous les pays adoptent une stratégie similaire. La France doit importer son BCG, notamment du Danemark. Les tensions restent donc vivaces.

    Dans ces conditions, les médecins et les hôpitaux sont contraints de jongler avec les doses, les offrant aux patients les plus atteints, les refusant à d’autres ou les réduisant. Dans d’autres cas, il faut passer par l’ablation de la vessie comme seule solution pour éviter la perte du patient. Parfois, cela ne suffit même pas et arrive l’inévitable : le décès.

    En Belgique, l’Oncotice est en disponibilité limitée. Selon le site PharmaStatut [31], dépendant de l’AFMPS, le BCG-Medac ne serait plus livré depuis le 1er août 2020, en raison de problèmes prolongés de production entraînant l’interruption de la commercialisation de ce médicament. La situation est considérée comme critique par les autorités sanitaires. Un groupe d’experts s’est constitué pour trouver des solutions alternatives, avec la possibilité d’importer le traitement de Merck, mais avec le risque que celui-ci ne soit plus remboursé par la Sécurité sociale.

    La France, quant à elle, a également connu des problèmes d’approvisionnement de BCG-Medac. Elle a introduit un contingentement de ce produit à partir du 1er février 2021, mesure levée le 14 février 2022, vu les promesses du laboratoire allemand de fournir à l’Hexagone les doses souhaitées.

    « La pénurie de Bacille de Calmette Guérin (BCG) illustre les conséquences que peuvent avoir les ruptures : l’arrêt de production du BCG ImmuCyst par Sanofi, utilisé dans le traitement du cancer de la vessie, a été associé à une hausse du nombre de récidives de ce cancer, et à un plus grand nombre d’ablation totale de la vessie. » [32]

    Les patients sont désespérés. Un pharmacien hospitalier rennais, Benoît Hue, raconte : « Pour les patients, c’est très angoissant. Leur médicament est en rupture de stock et par effet domino, peu de temps après, l’alternative l’est aussi. Un malade a récemment appelé ma collègue pour demander son traitement, il était désespéré. Nous n’en avions pas en stock. Il lui a lâché : “Vous allez me laisser mourir”. » [33] Voilà les conséquences d’une décision de multinationale qui ne manque ni de profit ni de rentabilité [34].

    Le chantage à la mode d’Aspen
    #Aspen_Pharmacare est une multinationale sud-africaine créée en 1850 par un chimiste irlandais. Cette firme est spécialisée dans la fabrication de médicaments génériques. En 2008, elle acquiert plusieurs médicaments anticancéreux et autres commercialisés par GSK et, depuis longtemps, tombés dans le domaine public : Alkeran (en dehors des États-Unis), Lanvis, Leukeran, Myleran, Purinethol, Kemadrin (maladie de Parkinson), Septrin (infection bactérienne) et Trandate (hypertension artérielle). L’année suivante, la multinationale britannique cède son usine de Bad Oldesloe en Allemagne, à mi-chemin entre Lübeck et Hambourg, qui produit la plupart de ces solutions. En échange, elle prend 19% du capital d’Aspen Pharmacare [35]. Par la suite, d’autres opérations de cession ont lieu entre les deux entreprises, notamment avec la reprise des remèdes liés à la thrombose en 2013 et des anesthésiants en 2016 par Aspen.

    En 2012, la compagnie sud-africaine lance une campagne tous azimuts pour augmenter fortement le prix de ses anticancéreux. Elle cible l’Italie, avec des hausses allant de 300%, 400% et jusqu’à 1.500% pour certains traitements. Le pays est coincé, car certains médicaments sont indispensables et, même s’ils ne sont plus protégés par un brevet, ils n’ont quasiment pas de concurrents.

    Les autorités italiennes ne s’en laissent pas compter. Certes, elles doivent accepter ce qui apparaît nettement comme un chantage. Mais elles enquêtent officiellement sur ce qui pourrait justifier une telle progression tarifaire. Ce qu’elles découvrent est à la fois sensationnel et révélateur.

    Ainsi, elles découvrent un message de la direction sur la manière de négocier avec les différents États : « Les prix doivent être augmentés (…). C’est à prendre ou à laisser. (…) Si les ministères de la Santé, dans chaque pays, n’acceptent pas les nouveaux prix, on retire les médicaments de la liste des produits remboursables ou on arrête d’approvisionner. Aucune négociation possible. » [36]

    L’organisme sanitaire italien reçoit un ultimatum dans une lettre venant de la société sud-africaine : « C’est une priorité pour Aspen d’augmenter rapidement les prix de vente (…). Si aucune décision n’est prise dans la limite de temps indiquée (…) nous procéderons rapidement (…) à la suspension de la commercialisation des produits en Italie, à partir de janvier 2014. » Andrea Pezzoli, le directeur de l’agence de santé italienne, explique que juste avant la négociation la firme fournissait moins de remèdes, arguant des problèmes de production [37]. En septembre 2016, l’entreprise est condamnée à une amende de 5 millions d’euros pour chantage.

    Suite à cela, en mai 2017, la Commission européenne lance également des investigations, car elle se rend compte que 25 pays du vieux continent sont concernés. Ainsi, les hausses de prix en Belgique exigées par Aspen ont varié de 500 à 1.600%. Le tarif du Leukeran est passé de 10 à 118 euros par boîte [38]. En Angleterre et au Pays de Galles, le Myleran est vendu avec un renchérissement de 1.200%. En Espagne, la multinationale sud-africaine menace de détruire les stocks de ces produits si les autorités sanitaires n’acceptent pas ses nouvelles conditions majorées qui pouvaient atteindre 4.000% [39]. En France, trois personnes sont décédées à la suite de la prise d’Endoxan au lieu de l’Alkeran, dont le prix s’était envolé.

    L’enquête a duré quatre ans, se fondant sur ce que les autorités italiennes avaient déjà découvert. Le constat est édifiant : « L’analyse de la Commission a montré que tout au long des exercices 2013 à 2019 (couvrant la période allant du 1er juillet 2012 au 30 juin 2019), Aspen a de manière persistante engrangé des bénéfices très élevés grâce aux produits dans l’Espace économique européen, tant en termes absolus qu’en termes relatifs : les prix d’Aspen étaient en moyenne de près de 300 pour cent supérieurs à ses coûts correspondants (à savoir que les prix appliqués par l’entreprise étaient quasiment quatre fois supérieurs à ses coûts), y compris en tenant compte d’un rendement raisonnable. En outre, les bénéfices moyens d’Aspen dans l’Espace économique européen étaient plus de trois fois supérieurs aux niveaux de rentabilité moyens d’une sélection d’entreprises similaires du secteur pharmaceutique. Les bénéfices moyens d’Aspen étaient également plus élevés que les bénéfices moyens de chacun des comparateurs pris individuellement.

    L’enquête n’a révélé aucun motif légitime justifiant les niveaux de prix et de bénéfices d’Aspen. Les produits ne sont plus couverts par un brevet depuis environ 50 ans et Aspen ne leur a pas apporté d’innovation ni ne les a développés de manière significative. Aspen a externalisé la fabrication et la plupart des activités de commercialisation des produits. Du point de vue du client, Aspen n’a apporté aucune amélioration sensible aux produits ni à leur distribution. » [40]
Se sentant menacée, la multinationale a proposé de réduire les tarifs de 73% dans toute l’Europe, ce que la Commission européenne a accepté. En outre, la compagnie sud-africaine ne peut élever ses prix pendant une période de dix ans (jusqu’en 2030, avec la possibilité d’une révision des conditions en 2025) et doit garantir l’approvisionnement de ces médicaments sur le continent [41].

    On pourrait croire cette affaire totalement exceptionnelle. En fait, elle ne l’est guère. Il y a d’abord le cas de GSK qui est resté actionnaire jusqu’en septembre 2016, soit durant la période du chantage. Grâce à cela, le groupe britannique a bénéficié d’une multiplication du cours d’Aspen par plus de six [42]. Selon le Journal The Guardian, il aurait gagné dans cette opération un milliard et demi de livres, soit environ 1,9 milliard de dollars [43].

    Pour sa part, le 30 octobre 2017, #Roche a décidé de retirer du marché grec un nouveau remède oncologique, le Cotellic, parce que le gouvernement avait imposé une taxe de 25% sur le profit obtenu sur les nouvelles molécules brevetées [44]. Il s’agissait d’une mesure prise dans le cadre du remboursement de la dette et de l’austérité imposée par la Commission européenne. La suppression de ce médicament a entraîné un non-remboursement par la Sécurité sociale. La multinationale n’en était pas à son coup d’essai en la matière. Elle a fait partie de la cinquantaine de compagnies pharmaceutiques qui ont coupé l’approvisionnement des hôpitaux hellènes dès que la crise de l’endettement a occasionné les problèmes de solvabilité dans le pays en 2011 [45].

    En décembre 2016, #Pfizer a été condamné en Grande-Bretagne pour avoir conspiré avec une société de génériques, Flynn Pharma. Les deux entreprises avaient élevé le prix d’un traitement contre l’épilepsie de 2.600%, étant donné qu’aucun autre établissement ne le fabriquait [46].
On retrouve les trois firmes incriminées en Afrique du Sud en 2017 pour avoir surfacturé leurs solutions contre le cancer. Il s’agissait du Xalkori Crizotinib de Pfizer pour le cancer du poumon, de l’Herceptin et de l’Herclon de Roche pour celui du sein et du Leukeran, de l’Alkeran et du Myleran, déjà mentionné pour Aspen Pharmacare [47].

    Le rapport d’une mission d’information du Sénat français rendu en 2018 réitère le constat : des compagnies réduisent volontairement la fourniture en médicaments pour en tirer un bénéfice. Dans ce document, on peut effectivement lire : « Votre mission d’information a pu constater une certaine défiance quant aux pratiques des laboratoires concernant leurs médicaments anciens : ceux-ci sont suspectés de déployer des stratégies de raréfaction de certains de leurs médicaments peu rémunérateurs, ce qui leur permettrait de faire pression pour obtenir une hausse de leur prix. Au terme des travaux conduits par votre mission, de telles situations apparaissent à première vue sinon peu courantes, du moins difficiles à objectiver – bien qu’un des représentants du personnel de l’entreprise Sanofi entendu par votre mission d’information ait indiqué qu’il existerait des « stratégies de rupture visant à maintenir le niveau des prix. » [48]

    Il est précisé ensuite : « Le Claps [49] a par ailleurs souligné, dans ses réponses au questionnaire transmis par votre rapporteur, que « sauf exceptions, les médicaments anciens ne disparaissent pas du marché français ». Il arriverait plus fréquemment qu’un médicament ancien disparaisse du marché pour un certain temps, avant d’y être réintroduit sous un autre nom par un autre laboratoire, et à un prix plus élevé. Le Claps relève ainsi que « le plus souvent, ces molécules anciennes sont vendues par les laboratoires historiquement titulaires de l’autorisation de mise sur le marché à un autre laboratoire. Dans tous les cas, les prix pratiqués sur ces molécules anciennes par le nouveau laboratoire titulaire n’ont plus rien à voir avec les précédentes conditions : les prix peuvent être multipliés par deux ou par cinq » » [50].

    Des multinationales n’hésitent donc pas à créer elles-mêmes des pénuries, de sorte à créer des conditions favorables pour exiger des hausses tarifaires de leurs produits. Ce n’est sans doute pas la raison principale de ces ruptures d’approvisionnement, mais son utilisation montre quelles limites ces groupes sont prêts à franchir dans leur quête incessante de rentabilité.

    Les quatre chevaliers de l’apocalypse sanitaire
    Ce dossier des pénuries est donc explosif et n’est contesté par personne, tellement il est évident. Même les fédérations patronales en conviennent. Mais, en affirmant que les compagnies pharmaceutiques en souffrent autant que les patients et les hôpitaux, elles tentent surtout de dédouaner leurs affiliés de la responsabilité de ces ruptures d’approvisionnement.

    Elles trouvent auprès des autorités publiques, notamment en Europe, des alliés de circonstance. Au lieu de pointer les torts des groupes de santé, celles-ci soulignent la complexité des situations et la multiplicité des sources des problèmes.

    Ainsi, dans sa note sur la stratégie européenne pour le secteur, la Commission explique : « Les pénuries sont de plus en plus fréquentes pour les produits qui sont présents sur le marché depuis de nombreuses années et dont l’usage est répandu. Les raisons sont complexes : il y a entre autres les stratégies de commercialisation, le commerce parallèle, la rareté de certaines substances actives et de matières premières, la faiblesse des obligations de service public, les quotas d’approvisionnement et des questions liées à la tarification et au remboursement. » [51] Bref, une myriade de difficultés qu’on ne peut attribuer aux seules entreprises.

    Dans son rapport sur les ruptures d’approvisionnement, la mission d’information du Sénat français va encore plus loin : « Au terme des auditions conduites par votre mission d’information, il apparaît que cette chaîne de production et de distribution de médicaments et de vaccins ne saurait être mise en cause dans son ensemble dans la survenue d’épisodes de pénurie récurrents ». [52] Il poursuit : « Plutôt donc qu’un dysfonctionnement général, ce sont en réalité bien souvent des événements isolés qui sont en cause dans la formation des phénomènes de pénuries, en ce qu’ils tendent à se répercuter sur l’ensemble de la chaîne par le jeu d’un « effet domino » résultant de l’interdépendance de ses maillons. (…) Pour certains produits anciens mais essentiels, les acteurs sanitaires font face à un problème de prix trop bas et non trop élevés, dont il découle toute une série d’effets pervers. » [53]

    Pourtant, lorsqu’on rassemble les principaux facteurs entraînant les pénuries, on ne peut qu’observer la part essentielle des stratégies des multinationales pharmaceutiques, même au-delà des cas où les firmes créent elles-mêmes artificiellement des ruptures d’approvisionnement. On dénombre ainsi quatre raisons majeures aux raréfactions dans les stocks de vaccins et de médicaments.

    Premièrement, de plus en plus, la production d’une partie importante des solutions médicales se passe dans des pays à bas coût salarial, surtout en Asie. C’est le cas notamment de la confection des principes actifs (API [54]). La fabrication d’un remède homologué se décompose en trois étapes : la réalisation d’un API, la formulation d’un médicament et, enfin, son conditionnement [55]. Cela prend entre quatre et six mois pour qu’un produit pharmaceutique « classique » passe de sa composition initiale au contrôle final de la qualité en vue de la commercialisation. Pour un vaccin, cela va de six mois dans le cas de la grippe à trente-six pour un remède plus complexe [56].

    L’ingrédient actif est la substance chimique qui aura un effet thérapeutique ou préventif dans la composition du traitement. C’est la matière première de celui-ci. Le second stade consiste en l’ajout d’excipients pour que la solution ingérée soit aisément administrée et assimilée par l’organisme. Ceux-ci constituent 95% du médicament [57]. Enfin, il y a la dernière phase, qui concerne la forme exacte sous laquelle le produit sera présenté et conservé. Les deux derniers épisodes sont habituellement effectués ensemble.

    De plus en plus, tout est sous-traité. Mais ce sont surtout les API qui sont externalisés, même si ce sont les #multinationales qui conservent les #brevets. « Selon l’Agence européenne du médicament, 40% des médicaments finis commercialisés dans l’Union proviennent de pays tiers, et 80% des principes actifs sont fabriqués en Chine et en Inde ; en réalité, le seul moyen de minimiser les coûts consiste à recourir massivement aux sous-traitants en Asie où le coût du travail et les normes environnementales sont moindres » [58]. La région de Hubei, au sein de laquelle se trouve la grande métropole de Wuhan, « est devenue le laboratoire mondial des principes actifs, qui sont les plus simples, les plus faciles à produire », selon l’économiste française Nathalie Coutinet [59].
    
Mais, il n’y a souvent qu’une, deux ou trois firmes qui fournissent cet ingrédient. Ainsi, pour la mission informative du Sénat français, Catherine Simmonin, secrétaire générale de la Ligue contre le cancer, a décrit la situation dans son secteur : « Les trente-cinq molécules de base en oncologie sont fabriquées en Orient, notamment en Chine, par trois fabricants. Les lignes de fabrication sont contrôlées par la Food and Drug Administration qui arrête la fabrication en cas de problème de sécurité ou d’anomalies. Brusquement, la matière de base disparaît alors du monde entier. Aucun façonnier dans un laboratoire ne peut la fabriquer, alors qu’elle sert au quotidien et ne peut être remplacée par des innovations. » [60]

    Il y a une trentaine d’années, tout était encore exécuté en Occident. Depuis, l’essentiel a été délocalisé en Asie. Cela permet une économie de coûts estimée à 15 ou 20% [61]. Quant aux problèmes de pollution, ils ne font pas partie des préoccupations majeures des groupes pharmaceutiques. « La région d’Hyderabad, en Inde, abrite par exemple des dizaines d’usines de production d’antibiotiques pour tous les grands groupes internationaux, dans des conditions de sûreté environnementale minimales. Résultat ? Une grave pollution des eaux aux métaux lourds et aux antibiotiques de toutes sortes, qui font craindre l’émergence accélérée de « super-bactéries » résistantes à tous les traitements. » [62]

    Les multinationales peuvent expliquer qu’elles subissent cette situation d’approvisionnement des API en Chine et en Inde comme les autres acteurs de la santé en Occident. Mais il est clair qu‘elles l’ont créée, dans leur recherche insatiable de profit et donc de réduction des coûts. On évalue que cette cause des pénuries représenterait un tiers des cas de rupture d’approvisionnement [63].

    Deuxièmement, ces ruptures de livraisons sont également dues à la centralisation de la production des médicaments dans un nombre restreint d’usines. Un rapport de l’institut IMS, l’institution privée américaine qui récolte des données dans le domaine de la santé mondiale [64], établit que plus de la moitié des produits signalés à la FDA comme défaillants dans les stocks en octobre 2011 ne disposaient que de deux pourvoyeurs, voire moins [65].

    La plupart du temps, il s’agit d’une décision du groupe lui-même, préférant dédier ses sites à la réalisation des traitements les plus innovants qu’il peut vendre au prix le plus élevé possible. Mathieu Escot, directeur des études à UFC-Que Choisir, relève le manque d’enthousiasme de l’industrie pharmaceutique pour répondre aux ruptures d’approvisionnement : « Quand elle veut éviter les pénuries, quand elle veut une chaîne solide, pour être capable de faire face à une brusque augmentation de la demande mondiale par exemple, l’industrie sait faire. Ça se voit notamment pour tous les médicaments chers, les médicaments récents. » [66]

    Dès lors, les firmes ne consacrent qu’une unité de production pour ces remèdes anciens, tombés dans le domaine public et qui donc ne rapportent que peu. S’il n’y a qu’un ou deux fournisseurs, la tension sur le marché est palpable dès qu’un problème survient. Comme le précise encore Mathieu Escot : « Il suffit qu’un maillon de cette chaîne fasse défaut, pour que toute la chaîne soit paralysée. »

    À cette raréfaction provoquée par les géants du secteur, s’ajoutent les politiques des autorités publiques. Certains États comme la France ne sélectionnent qu’un seul pourvoyeur pour ces traitements. Il est évident que cela ne favorise pas l’approvisionnement.

    Par ailleurs, les acheteurs de produits pharmaceutiques ont tendance à se regrouper et à rassembler leurs demandes, de sorte à obtenir de meilleures conditions d’approvisionnement, notamment en matière de prix. Mais, ce faisant, ils découragent des entreprises plus modestes à se proposer comme candidates, celles-ci n’ayant pas les moyens de livrer de telles quantités. Ils se forment des monopoles par faute de concurrence [67], et cela facilite les ruptures dans les fournitures.

    Une troisième difficulté se trouve dans la situation des stocks jugés par tous quasiment comme trop faibles. De nouveau, la cause se situe à la fois au niveau des compagnies et à celui des pouvoirs publics.

    L’industrie pharmaceutique a généralisé la production en flux tendu dans ses usines. Comme l’explique très bien Benjamin Coriat, à propos de Toyota où cette organisation du travail a été introduite, il s’agit d’une « méthode de gestion des effectifs par les stocks » [68]. En réalité, pour la direction de la firme, il faut réduire le personnel à son minimum en abaissant continuellement les stocks pour voir là où se situent les problèmes des salariés à suivre la cadence et trouver des solutions à ceux-ci. Dans ces conditions, les stocks doivent être aussi bas que possible et en perpétuelle diminution.

    De l’autre côté, une politique similaire est suivie dans les hôpitaux et les officines. D’abord, parce qu’il y a un manque de place évident pour ces établissements. Ensuite, parce que cela fait partie des moyens pour compresser les coûts des institutions sanitaires et ainsi atteindre les objectifs budgétaires de l’État, notamment sur le plan européen. Au départ, cela permet de mieux affecter l’espace, mais, ensuite, cela provoque une insuffisance de médicaments pour des pathologies essentielles.

    Si la voiture ou le smartphone n’est pas là à l’instant précis où l’acheteur se présente, celui-ci peut revenir le lendemain ou le jour où la marchandise sera disponible. En revanche, si le traitement n’est pas présent lorsque le patient en a besoin, les conséquences sont rapidement dramatiques. C’est pour cela que toutes les autorités sanitaires des pays occidentaux ont récemment établi des protocoles où un minimum de stocks est requis, en nombre de mois, des obligations de livraison sont demandées aux groupes qui fabriquent ces remèdes et des sanctions, la plupart du temps financières, sont prévues en cas de non-respect de ces engagements.

    Quatrièmement, il est indéniable que la stratégie de profit poursuivie avec acharnement par les multinationales pharmaceutiques est un facteur central et spécifique des pénuries. Après les stratégies visant d’une part à se concentrer sur les produits innovants qu’on peut vendre au prix le plus élevé et avec des marges bénéficiaires sans commune mesure avec les autres secteurs, et d’autre part, à délaisser les solutions anciennes qui ne rapportent guère, avec l’exemple d’Aspen Pharma, nous avons montré des politiques volontaires de raréfaction de solutions afin de les fournir aux conditions les plus avantageuses pour le groupe.

    Ainsi, les traitements permettant de pallier à la défaillance d’un fournisseur et à l’absence de concurrents peuvent être vendus à des prix exorbitants. Éric Tabouelle, vice-président du Claps, estime, devant la mission informative du Sénat français, qu’il n’est pas rare que les tarifs des nouveaux traitements augmentent de 500 à 2.000% par rapport aux médicaments en rupture [69]. Pour les hôpitaux, il existe une procédure, appelée clause d’achat pour compte, qui permet à ceux-ci de réclamer la différence auprès de la firme titulaire qui a manqué ses obligations. Mais cela se passe en fin de négociation, donc avec retard.

    Au final, le délégué syndical de la CFDT de Sanofi en France, Yann Tran, résume assez bien ce qui provoque, selon lui, les pénuries : « En premier lieu, les industriels cherchent à réduire au maximum les coûts de production : ils privilégient la production à flux tendus en raison du caractère coûteux de la constitution et de la gestion de stocks. Une deuxième raison réside dans la nécessité de se fournir en matières premières auprès d’acteurs éloignés de la France − ce constat n’étant pas valable seulement pour Sanofi, mais pour l’ensemble du secteur. De leur côté, les fournisseurs de matières premières ont tendance à se concentrer pour atteindre une taille critique, ce qui contribue à alimenter les difficultés de l’ensemble de la chaîne de fabrication en cas de problème survenant chez l’un de ces fournisseurs. Enfin, une troisième raison résulte des stratégies mises en œuvre par les entreprises pharmaceutiques, qui choisissent de ne pas investir dans la création d’usines doublons qui permettraient de pallier la défaillance d’un site de production. » [70] Il souligne parfaitement la responsabilité écrasante des multinationales dans cette situation.

    Cela n’a pas empêché la mission informative du Sénat français de proposer, après avoir pourtant déjà énoncé tous les avantages fiscaux accordés aux groupes pharmaceutiques [71], de nouvelles exonérations d’impôt pour ceux-ci [72]. Il reprend aussi, sans le commenter, l’objectif de la fédération patronale du secteur d’obtenir une « revalorisation raisonnable du prix pour les médicaments dont l’absence de rentabilité ne permet pas de mettre en œuvre les investissements nécessaires à la sécurisation de l’approvisionnement » [73]. Il faut préciser que le président de cet organisme temporaire était le socialiste Yves Daudigny, soutien de Manuel Valls à la primaire de la « gauche » en 2017. Le rapporteur est membre de l’aile la plus conservatrice de l’UMP [74], ancêtre des Républicains, Jean-Pierre Decool.

    La responsabilité écrasante des multinationales pharmaceutiques
    Le rapport présenté au Sénat n’a pas convaincu, que du contraire. La représentante du groupe communiste et celle des Verts ont dénoncé les conclusions. Pour elles, il est clair que : « Le système actuel est gangréné par la recherche de profits et seule la sortie de la sphère marchande du médicament pourra mettre un terme aux ruptures de stocks. » [75]

    Un avis que partage France Assos Santé, qui regroupe 83 associations de patients et d’usagers de la santé, dont UFC-Que Choisir : « Les industriels sont très largement responsables de ces pénuries, principalement dues à des stratégies financières contestables, à un désengagement de certains médicaments et à une concentration des sites de productions. » [76]

    Même l’Agence européenne du médicament estime que « les stratégies commerciales de l’industrie pharmaceutique provoquent un problème mondial depuis une dizaine d’années et affectent de plus en plus l’Union européenne, avec un impact significatif sur les soins aux patients » [77]. C’est dire l’énervement des autorités sanitaires, pourtant peu enclines à dénoncer les multinationales de la santé.

    La pénurie de médicaments essentiels est le scandale le plus éclatant du secteur sanitaire. Il est la preuve indéniable qu’au-delà de la promotion et de la publicité des groupes pharmaceutiques, ceux-ci ne se préoccupent guère des besoins et des intérêts des patients. C’était déjà évident dans le cas des pays du tiers-monde. Aujourd’hui, les malades des contrées plus riches sont logés à la même enseigne : ils ne sont plus sûrs d’être soignés, parce que le traitement qui les sauverait n’est éventuellement plus disponible. Ces firmes sont centrées sur « une logique de réduction des coûts et de maximisation des profits qui s’oppose frontalement aux intérêts de santé publique des populations » [78]. Elles devraient être privées de leur droit absolu de propriété sur les outils de production, sur les solutions qui permettraient de soigner l’humanité. Ce sera une question fondamentale à l’avenir.

    Source : Gresea https://gresea.be/La-penurie-de-medicaments-essentiels
    Repris par https://www.investigaction.net/fr/la-penurie-de-medicaments-essentiels-na-rien-daccidentel

    Notes : 
    [1] Le Monde, 9 septembre 2021.
    [2] Lotz, J., « Pénuries de médicaments : à quoi jouent les labos ? », Complément d’enquête, France 2, 9 septembre 2021.
    [3] UFC-Que Choisir, Pénuries de médicaments. Devant les comportements délétères des laboratoires, les pouvoirs publics doivent sortir de leur complaisance, novembre 2020. UFC désigne l’Union fédérale des consommateurs.
    [4] . UFC-Que Choisir, op. cit., p.6.
    [5] UFC-Que Choisir, op. cit., p.6, et ANSM, « Médicaments ayant fait l’objet d’un signalement de rupture ou de risque de rupture de stock », 9 septembre 2021.
    [6] . UFC-Que Choisir, op. cit., p.7.
    [7] UFC-Que Choisir, op. cit., p.9.
    [8] UFC-Que Choisir, op. cit., p.10.
    [9] UFC-Que Choisir, op. cit., p.12.
    [10] LEEM, « Tensions et risque de ruptures des médicaments. L’urgence de la sécurisation des approvisionnements », juillet 2021, p.2.
    [11] LEEM, op. cit., p.3.
    [12] LEEM, « Pénurie de médicaments : comment les réduire ? », 17 septembre 2021, p.2.
    [13] Parlement européen, Commission de l’environnement, de la santé publique et de la sécurité alimentaire, « Rapport sur la pénurie de médicaments – comment faire face à un problème émergent », 22 juillet 2020, p.35.
    [14] European Association of Hospital Pharmacists.
    [15] EAHP, « Medicines Shortages in European Hospitals, EAHP Survey », novembre 2018, p.10.
    [16] EAHP, op. cit., p.11.
    [17] EAHP, op. cit., p.30.
    [18] EAHP, op. cit., p.29.
    [19] FDA, « Drug Shortages for Calendar Year 2020 », Report to Congress, juin 2021, p.2.
    [20] American Society of Hospital Pharmacists (ASHP), « National Drug Shortages : New Shortages by Year », January 2001 to December 31, 2021.
    [21] Pharma.be, « Pénuries de médicaments : le système belge est plus performant que d’autres », 9 mars 2022.
    [22] Test Achat Santé, 19 décembre 2020.
    [23] The European Public Health Alliance (EPHA) en anglais.
    [24] En Marche, 3 décembre 2019. En Marche est le bimensuel des Mutualités chrétiennes en Belgique.
    [25] C’est-à-dire qui contient de la bile, ce liquide sécrété par le foie pour aider à la digestion.
    [26] Institut Pasteur, « BCG et cancer de la vessie : vers un nouveau protocole pour les patients ? », Communiqué de presse, 6 juin 2012. L’article scientifique est signé Biot, C., Rentsch, C., Gsponer, J., Birkhäuser, F., Jusforgues-Saklani, H., Lemaître, F., Auriau, C., Bachmann, A., Bousso, P., Demangel, C., Peduto, L., Thalmann, G. & Albert, M., « Preexisting BCG-Specific T Cells Improve Intravesical Immunotherapy for Bladder Cancer », Science Translational Medicine, vol.4 n°137, 6 juin 2012. Le Science Translational Medicine est le journal le plus prestigieux dans le domaine de la médecine appliquée, dite translationnelle.
    [27] La firme livrait 60% du marché mondial (Libération, 27 juillet 2012).
    [28] Le Quotidien du Médecin, 22 novembre 2016.
    [29] Les Echos Investir, 18 novembre 2016. Cela n’empêche nullement la multinationale française de continuer à investir sur le site de Toronto, notamment 335 millions d’euros en 2018 pour la fabrication d’antigènes dans le cadre de la confection de vaccins et 600 millions en 2021 dans une unité de production d’antigrippaux.
    [30] France Bleu, 29 janvier 2020.
    [31] https://pharmastatut.be.
    [32] UFC-Que Choisir, op. cit., p.11.
    [33] Rozenn Le Saint, « Pénurie de médicament : un tri est fait pour soigner des cancéreux », Mediapart, 30 janvier 2020.
    [34] De nouveaux produits réalisés par d’autres firmes semblent venir en supplément pour faire face à cette carence actuelle.
    [35] GSK, « GSK extends strategic collaboration with Aspen », Press Release, 11 mai 2009.
    [36] Lotz, J., op. cit.
    [37] Lotz, J., op. cit.
    [38] Test Achat Santé, 11 février 2021.
    [39] The Times, 14 avril 2017.
    [40] Commission européenne, Communication de la Commission publiée conformément à l’article 27, paragraphe 4, du règlement (CE) no 1/2003 du Conseil dans l’affaire AT.40394 — Aspen, Journal officiel de l’Union européenne, 15 juillet 2020, p.C 233/8.
    [41] Commission européenne, Questions et réponses, 10 février 2021.
    [42] GSK, « GlaxoSmithKline announces intention to sell remaining holding in Aspen », Press Release, 28 septembre 2016.
    [43] The Guardian, 28 janvier 2017.
    [44] EurActiv, 31 octobre 2017.
    [45] El País, 27 septembre 2011.
    [46] The Guardian, 28 janvier 2017.
    [47] La Tribune Afrique, 15 juin 2017.
    [48] Sénat français, « Pénuries de médicaments et de vaccins : renforcer l’éthique de santé publique dans la chaîne du médicament », Rapport d’information n°737, 27 septembre 2018, p.89.
    [49] Le Club des Acheteurs de Produits de Santé (Claps) réunit les principaux acheteurs hospitaliers, privés et publics.
    [50] Sénat français, op. cit., p.90.
    [51] Commission européenne, « Stratégie pharmaceutique pour l’Europe », 25 novembre 2020, p.20.
    [52] Sénat français, op. cit., p.19.
    [53] Sénat français, op. cit., p.20.
    [54] Active Pharmaceutical Ingredient (ingrédient pharmaceutique actif).
    [55] Abecassis, P. et Coutinet, N., Économie du médicament, éditions La Découverte, Paris, 2018, p.82.
    [56] Sénat français, op. cit., p.61.
    [57] Abecassis, P. et Coutinet, N., op. cit., p.83.
    [58] Parlement européen, Commission de l’environnement, de la santé publique et de la sécurité alimentaire, « Rapport sur la pénurie de médicaments – comment faire face à un problème émergent », 22 juillet 2020, p.35.
    [59] Le Point, 11 août 2020.
    [60] Sénat français, op. cit., p.64.
    [61] Deleu, X. et Le Saint, R., « Médicaments : les profits de la pénurie », Arte, 26 avril 2022.
    [62] Petitjean, O., « Quand les labos abandonnent leur mission de santé publique pour ressembler à Nike ou Apple », Pharma Papers, 16 janvier 2019.
    [63] Biot, J., Benhabib, A. et Ploquin, X., « Rapport au Premier ministre. Mission stratégique visant à réduire les pénuries de médicaments essentiels », Ministère des Solidarités et de la Santé, 18 juin 2020, p.17.
    [64] Après la fusion avec un autre bureau d’études américain Quintiles, IMS est devenu IQVIA.
    [65] Sénat français, op. cit., p.64.
    [66] France Inter, 9 novembre 2020.
    [67] Sénat français, op. cit., p.91.
    [68] Coriat, B., Penser à l’envers, éditions Christian Bourgois, Paris, 1991, p.23.
    [69] Sénat français, op. cit., p.93
    [70] Sénat français, op. cit., p.264.
    [71] Sénat français, op. cit., p.75.
    [72] Sénat français, op. cit., p.9.
    [73] Sénat français, op. cit., p.95.
    [74] Au départ, lorsqu’il est fondé en 2002, UMP signifiait Union pour la majorité présidentielle. Il est devenu ensuite Union pour un mouvement populaire. En 2015, l’ancien président Nicolas Sarkozy transforme ce parti en Les Républicains.
    [75] Contribution de Cohen, L., sénatrice du Val-de-Marne, et Apourceau-Poly, C. au nom du groupe Communiste républicain citoyen et écologiste (CRCE) in Sénat français, Pénuries de médicaments et de vaccins : renforcer l’éthique de santé publique dans la chaîne du médicament, Rapport d’information n°737, p.292.
    [76] Les Echos, 17 janvier 2019.
    [77] Le Monde, 9 septembre 2021.
    [78] Gonçalves, A., « Pénuries de médicaments essentiels et explosion du prix des thérapies innovantes : pourquoi un pôle public du médicament est nécessaire », Economie & Politique, janvier-février 2021, p.49.

  • Cash Investigation - Superprofits : les multinationales s’habillent en vert en streaming - Replay France 2 | France tv
    https://www.france.tv/france-2/cash-investigation/4498144-superprofits-les-multinationales-s-habillent-en-vert.html

    Ces derniers mois, certaines #multinationales ont engrangé de #superprofits. #Total, par exemple, gagne actuellement 73 millions d’euros par jour. Des bénéfices qui financeraient notamment la #transition_énergétique et la lutte contre le #réchauffement_climatique. Mais qu’en est-il de ces belles promesses vertes ? Elise Lucet et l’équipe de Cash Investigation ont enquêté sur le méga projet de la compagnie pétrolière française en #Ouganda et en #Tanzanie. Pour développer sa production d’#hydrocarbures, la multinationale peut compter sur le soutien financier d’un autre fleuron français : la #BNP-Paribas qui a réalisé en 2021 un bénéfice record de 9,5 milliards d’euros. La banque promet à ses clients d’investir dans des solutions d’épargne responsable. Les journalistes de Cash Investigation ont passé au crible les #fonds_verts de la banque.
    publié le 26/01/23 à 23h00 disponible jusqu’au 25/11/23

  • Crise et licenciements à la Silicon Valley, les géants de la tech dans la tourmente Feriel Mestiri - RTS
    https://www.rts.ch/info/economie/13613479-crise-et-licenciements-a-la-silicon-valley-les-geants-de-la-tech-dans-l

    Chutes en bourse, licenciements collectifs et investissements fantasques, les géants de la Silicon Valley, que l’on disait plus puissants que des Etats, vivent une période agitée. Faut-il craindre une crise structurelle ?

    La région de San Francisco est sous le choc après les licenciements collectifs des géants de la Silicon Valley. Le premier à faire les gros titres était Twitter, début novembre. L’entreprise, qui perdait quelque 4 millions de dollars par jour, selon son nouveau patron Elon Musk, a renvoyé la moitié des employés. Soit 3700 personnes au total.

    Même les concierges se retrouvent sur le carreau. La RTS a rencontré Juana Laura Chavero Ramirez, une ex-concierge chez Twitter, parmi des manifestants devant le siège du groupe. Selon elle, la nouvelle entreprise de nettoyage les a remplacés par des travailleurs non-syndiqués : « Nous sommes 87 employés à nous retrouver sans travail dans cette période de Noël », déplore-t-elle dans le 19h30.

    Licenciement brutal
    Du côté des « cols blancs », Melissa Ingle est l’une des rares ingénieurs de Twitter à accepter de parler. Elle a compris qu’elle était licenciée juste avant Thanksgiving, lorsqu’une alerte est apparue sur son téléphone lui indiquant que son code d’accès avait été supprimé.

    Même pour la Silicon Valley, la méthode est brutale : « Des licenciements étaient sans doute inévitables. Mais d’autres entreprises le font de manière prudente et bien gérée. Ce que Monsieur Musk a fait, c’est sabrer la moitié des effectifs, sans réfléchir aux fonctions et aux talents des employés », souligne-t-elle.

    Chez Meta, des milliards mal investis
    Il n’y a pas que Twitter qui dégraisse ses effectifs. Meta, l’entreprise qui possède Facebook, Instagram et WhatsApp, congédie 11’000 personnes. Cela représente 13% de ses employés.

    En cause, notamment, des investissements hasardeux. Depuis le début de la pandémie, l’entreprise de Mark Zuckerberg a investi quelque 26 milliards de dollars, dont 10 dans le Metavers, un monde virtuel qui peine à séduire.

    Le boom temporaire d’Amazon durant la pandémie
    Amazon annonce également des coupes dans son personnel, de l’ordre de 10’000 licenciements. Tout comme ses congénères, ce géant de la vente en ligne vit une période d’ajustement, après la croissance qui a suivi le Covid.

    Selon Russell Hancock, le président de Joint Venture Silicone Valley, un bureau d’analyse sur l’économie de la Silicon Valley, « quand le monde entier s’est confiné, cela a créé une demande énorme pour les services des géants des nouvelles technologies. Ils ont pensé que ce serait la nouvelle norme. Mais aujourd’hui, alors que la pandémie se dissipe, on réalise que cette demande était temporaire », note-t-il.

    Crainte d’une perte de talents
    Pour San Francisco et sa région, on est loin du krach qui a succédé à l’explosion de la bulle internet du début des années 2000. La situation n’en reste pas moins critique, particulièrement pour les travailleurs expatriés.

    L’avocate Sophie Alcorn est en contact avec des ingénieurs indiens qui risquent l’expulsion : « S’ils sont renvoyés par leur employeur, ils ont une fenêtre de 60 jours pour trouver un nouvel emploi. S’ils n’y parviennent pas, ils doivent quitter le pays. »

    Cette vague de départs pourrait être dommageable pour les Etats-Unis, qui perdent des cerveaux parmi les plus brillants du monde.

    Un repli à relativiser
    A lire les gros titres annonçant des dizaines de milliers de licenciements, on pourrait craindre des faillites de géants de la tech à venir. Mais selon Benoît Bergeret, directeur exécutif du Metalab for data, technology and society à l’ESSEC Business School en France, la crise n’est pas d’une magnitude qui soit inquiétante sur le plan structurel :

    « Finalement, les 20’000 à 40’000 licenciements identifiés, sur les 900’000 emplois de la tech dans la Silicon Valley, ne représentent pas un pourcentage énorme », affirme-t-il, dans une interview accordée au podcast Le Point J.

    Si Twitter a effectivement sabré la moitié de ses effectifs, les 11’000 emplois supprimés chez Meta ne représentent « que » 13% des postes, tandis que les 10’000 personnes licenciées chez Amazon ne constituent qu’un petit pour cent des équipes.

    En d’autres termes, il ne s’agit pas d’un effondrement, mais bien d’un ralentissement du secteur, qui voit la fin d’un cycle d’hyper croissance.

    Entre les rentrées publicitaires en baisse, un contexte macroéconomique fragile, l’inflation et la concurrence de nouveaux acteurs comme le chinois TikTok, les entreprises de la Silicon Valley veulent désormais gagner en rentabilité pour rassurer les investisseurs. Alors elles écrèment.

    #économie #rentabilité #tech #silicon_valley #start-ups #Twitter #paradis_fiscaux #startup #méta #Metavers #multinationales #crise #bourse #multinationales #croissance #dividendes #rentabilité #San_Francisco #concierges #Amazon #cerveaux

  • Les licenciements dans la tech mettent à mal les finances de l’Irlande Laura Taouchanov et Eric Guevara Frey - RTS
    https://www.rts.ch/info/economie/13602858-les-licenciements-dans-la-tech-mettent-a-mal-les-finances-de-lirlande.h

    L’Irlande, qui accueille de nombreuses entreprises technologiques sur son territoire, est particulièrement touchée par les récentes vagues de licenciements dans le secteur. Cette crise pourrait néanmoins être l’occasion pour le milieu de transformer son modèle économique.

    Les licenciements se sont multipliés ces derniers mois chez les géants du numérique et dans les entreprises de la tech en général. Elles ont licencié aux Etats-Unis un total de plus de 144’000 personnes depuis le début de l’année, selon le décompte tenu par le site layoffs.fyi.


    Cette crise n’est pas sans conséquences sur l’économie irlandaise, puisque le secteur de la tech représente 6% de l’emploi sur l’île. Il s’agit du plus fort taux dans l’UE. Au total, ces suppressions de postes pourraient coûter l’équivalent de 10 milliards de francs à l’Irlande.

    Rory O’Farrell, économiste à l’Université technologique de Dublin, a expliqué cette semaine dans l’émission Tout un monde que le boom de recrutements qui a eu lieu pendant la pandémie est maintenant terminé.

    « C’était des emplois bien payés, on va donc perdre leur impôt sur le revenu. L’impôt sur les sociétés est aussi très important. Ces multinationales étrangères du secteur de la tech représentaient 20% de notre impôt sur les sociétés. Cela va creuser un gros trou dans les finances irlandaises qui sera difficile à combler. »

    « Un mal pour un bien »
    Frédéric Fréry, professeur de management à l’ESCP Business School, estime néanmoins que cette crise est un mal pour un bien. « Les investisseurs considéraient la tech comme une sorte d’oasis merveilleuse, et cela a donné lieu à des comportements assez surprenants. Quand je vois des entrepreneurs qui créent des entreprises non pas pour qu’elles soient rentables, mais uniquement pour qu’elles fassent un gros chiffre d’affaires, je m’interroge. »

    C’est une remise à zéro des compteurs qui est plutôt bénéfique sur certains points
    Frédéric Fréry, professeur de management à l’ESCP Business School

    « Un modèle économique qui n’a pas pour nature de dégager de la rentabilité un jour, c’est assez étrange. Personnellement, je trouve que c’est une remise à zéro des compteurs qui est plutôt bénéfique sur certains points », fait-il valoir.

    L’économiste développe son analyse : « La croissance jouait un peu le rôle de la rentabilité auprès des investisseurs. Je rappelle qu’un investissement se rentabilise soit avec des dividendes, soit avec de la plus-value, et si vous êtes dans une sorte de croissance effrénée et perpétuelle, vous pouvez quand même attirer des investisseurs qui eux-mêmes font l’hypothèse qu’ils revendront plus cher ce qu’ils ont acheté, même si dans les faits il n’y a pas vraiment de rentabilité. »

    Vendre « une croissance perpétuelle »
    Frédéric Fréry prend l’exemple d’Uber : « Le groupe accumule des pertes en milliards, il n’empêche que sa valorisation boursière continue d’être extrêmement plantureuse parce qu’il vend une espèce de croissance perpétuelle. »

    Ce retour à la ’normale’ marque peut-être la fin d’une période euphorique qui par moments a plus eu l’air d’un rêve collectif qu’autre chose

    Frédéric Fréry, professeur de management à l’ESCP Business School
     "Je ne peux pas m’empêcher de voir ça comme une sorte d’anomalie par rapport à ce qu’on enseigne normalement. Une entreprise doit dégager une forme de rentabilité pour pouvoir couvrir ses dépenses sans devoir en permanence demander l’aumône à des investisseurs. Ce retour à la ’normale’ marque peut-être la fin d’une période euphorique qui par moments a plus eu l’air d’un rêve collectif qu’autre chose."

    Nouvelles opportunités
    Ce rééquilibrage peut également servir d’opportunité pour de nouvelles entreprises. Le plus gros incubateur de start-ups en Irlande, Dog Patch Labs, compte bien en tirer profit. « Ils suppriment ces postes principalement à cause de la bourse américaine », explique un employé de l’incubateur.

    « Donc nous, on n’a aucun licenciement, bien au contraire. Des gens viennent à nous en disant : ’Une de ces grandes entreprises m’a laissé partir, je vais prendre du temps pour moi à Noël et quand je reviens je veux créer mon entreprise, quelle est la prochaine étape ?’ »

    Fonds de réserve
    Il se montre optimiste : « Ces talents ne peuvent qu’être bénéfiques. Ces personnes très qualifiées trouveront toujours du travail. Ce ne sont pas de simples entreprises, ce sont nos amis. Chaque semaine, des gens de ces groupes viennent aider nos start-ups et on essaie de leur rendre comme on peut. On a de la chance parce que nous avons bâti un écosystème technologique incroyable en Irlande, donc ceux qui cherchent du travail en trouveront. »

    Pour amortir de futurs chocs, le gouvernement irlandais va transférer d’urgence 6 milliards d’euros dans un fonds de réserve. L’objectif est de réduire progressivement la dépendance à ces multinationales et diversifier l’économie.

    #économie #spéculation #tech #Irlande #start-ups #paradis_fiscaux #startup #multinationales #crise #bourse #multinationales #croissance #dividendes #rentabilité

  • #Chine : le drame ouïghour

    La politique que mène la Chine au Xinjiang à l’égard de la population ouïghoure peut être considérée comme un #génocide : plus d’un million de personnes internées arbitrairement, travail forcé, tortures, stérilisations forcées, « rééducation » culturelle des enfants comme des adultes…
    Quel est le veritable objectif du parti communiste chinois ?

     
    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/64324

    #Ouïghours #Xinjiang #camps_d'internement #torture #stérilisation_forcée #camps_de_concentration #persécution #crimes_contre_l'humanité #silence #matières_premières #assimilation #islam #islamophobie #internement #gaz #coton #charbon #route_de_la_soie #pétrole #Xi_Jinping #séparatisme #extrémisme #terrorisme #Kunming #peur #état_policier #répression #rééducation #Radio_Free_Asia #disparition #emprisonnement_de_masse #images_satellites #droits_humains #zone_de_non-droit #propagande #torture_psychique #lavage_de_cerveau #faim #Xinjiang_papers #surveillance #surveillance_de_masse #biométrie #vidéo-surveillance #politique_de_prévention #surveillance_d'Etat #identité #nationalisme #minorités #destruction #génocide_culturel #Ilham_Tohti #manuels_d'école #langue #patriotisme #contrôle_démographique #contrôle_de_la_natalité #politique_de_l'enfant_unique #travail_forcé #multinationales #déplacements_forcés #économie #colonisation #Turkestan_oriental #autonomie #Mao_Zedong #révolution_culturelle #assimilation_forcée #Chen_Quanguo #cour_pénale_internationale (#CPI) #sanctions

    #film #film_documentaire #documentaire

  • Crescono le vendite di armi delle prime 100 aziende del mondo. Nonostante la crisi

    Nel 2021 le prime 100 multinazionali del settore -soprattutto statunitensi- hanno registrato un giro di affari pari a 592 miliardi di dollari, più 1,9% rispetto al 2020. L’Italia è tra i Paesi che cresce di più per via del forte incremento dei fatturati di Leonardo. I dati dall’istituto di ricerca indipendente Sipri

    La vendita di armamenti e sistemi d’arma da parte delle prime 100 aziende al mondo ha raggiunto nel 2021 quota 592 miliardi di dollari, in crescita dell’1,9% rispetto all’anno precedente e confermando un trend iniziato nel 2015. L’Italia, per via del boom dei ricavi di Leonardo, è tra le aree che segnano la crescita relativa più forte: più 15%, al primo posto con la Francia. Tutto questo nonostante gli effetti della pandemia da Covid-19 abbiano rallentato le commissioni e messo in crisi i fornitori, rendendo ad esempio i componenti più costosi e difficili da reperire. Lo mostrano i dati diffusi il 5 dicembre 2022 dal Sipri, l’Istituto indipendente di ricerca sulla pace di Stoccolma che si occupa di conflitti, armamenti, controllo delle armi e disarmo.

    “Avremmo potuto aspettarci una crescita ancora maggiore delle vendite di armi nel 2021 senza i persistenti problemi della catena di approvvigionamento -ha spiegato Lucie Béraud-Sudreau, direttrice del Programma di spesa militare e produzione di armi del Sipri-. Sia le grandi aziende produttrici di armi sia quelle più piccole hanno dichiarato che le loro vendite sono state influenzate durante l’anno da questi fattori. Alcuni produttori, come #Airbus e #General_dynamics, hanno anche segnalato carenze di manodopera”. Le catene di approvvigionamento hanno sofferto a causa della loro estensione e complessità: l’italiana Leonardo ha segnalato nei suoi rapporti una rete di fornitori pari a oltre 11mila aziende. A questo scenario si sono aggiunte le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina che ha portato ulteriori difficoltà anche per l’importanza che riveste Mosca nel commercio di componenti d’arma. “Sebbene i rapporti indichino che le aziende russe stanno aumentando la produzione a causa della guerra, queste hanno avuto difficoltà ad accedere ai semiconduttori. Inoltre hanno subito l’impatto delle sanzioni. Ad esempio #Almaz-Antey (non inclusa nella Top 100 per il 2021 per mancanza di dati, ndr) ha dichiarato di non essere riuscita a ricevere i pagamenti per alcune delle sue forniture di armi”, riportano gli esperti del Sipri.

    Veniamo ora alle 100 multinazionali oggetto dello studio. Gli Stati Uniti sono il Paese più rappresentato: sono 40 le aziende Usa tra le prime 100 e le prime cinque per valore assoluto: #Lockheed_Martin, #Raytheon_technologies, #Boeing, #Northrop_grumman e #General_dynamics. Nonostante abbiano affrontato una diminuzione delle vendite di armamenti, perdendo lo 0,9% rispetto al 2020, le principali aziende statunitensi hanno venduto materiale bellico per un totale di 300 miliardi di dollari, pari al 51% della spesa esaminata. Un calo che ha riguardato quattro dei maggiori cinque produttori con l’esclusione di Raytheon Technologies che ha aumentato le vendite del 9,1%. Una particolarità del “mercato” statunitense riguarda le recenti acquisizioni e fusioni tra i produttori del settore. Una delle operazioni più significative è stata l’acquisto da parte di Peraton di Perspecta, azienda specializzata in informatica governativa, per 7,1 miliardi di dollari. “Probabilmente nei prossimi anni potremo aspettarci un’azione più incisiva da parte del governo statunitense per limitare le fusioni e le acquisizioni nell’industria degli armamenti -ha dichiarato Nan Tian, ricercatore senior del Sipri-. Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha infatti espresso la preoccupazione che la riduzione della concorrenza nel settore possa avere effetti a catena sui costi di approvvigionamento e sull’innovazione”. Un timore piuttosto paradossale considerando come funziona il mercato delle armi, con gli Stati a fare da principali committenti.

    Secondo i dati del 2021 sono 27 le aziende in classifica con sede in Europa e le loro vendite complessive hanno registrato un incremento del 4,2%, raggiungendo i 123 miliardi di dollari. Le velocità di crescita cambiano a secondo del settore. “La maggior parte delle aziende europee specializzate nel settore aerospaziale militare ha registrato perdite per il 2021, imputate alle interruzioni della catena di approvvigionamento -ha fatto notare Lorenzo Scarazzato, ricercatore del Programma di spesa militare e produzione di armi del Sipri-. Al contrario i costruttori navali europei sembrano essere stati meno colpiti a e sono stati in grado di aumentare le loro vendite nel 2021″. Tra questi c’è #Fincantieri, che occupa la 46esima posizione e che ha registrato un incremento del 5,9% dei ricavi rispetto all’anno precedente. Crescita che condivide con l’altro gruppo italiano, Leonardo, che ha segnato un aumento fortissimo del 18% e che occupa la 12esima posizione con 13,9 miliardi di dollari di fatturato. Una delle poche aziende del settore aereo che hanno segnato una crescita è la francese Dassault aviation group che ha riportato una crescita del 59% grazie alla commissione di 25 aerei modello “Rafale”.

    Il mercato asiatico, infine, comprende 21 aziende tra le prime cento e ha raggiunto i 136 miliardi di dollari nel corso del 2021 con una crescita del 5,8% rispetto all’anno precedente. La tendenza è stata guidata dai produttori cinesi che da soli contano per 109 miliardi di dollari e hanno aumentato le loro vendite del 6,3%. “A partire dalla metà dello scorso decennio si è verificata un’ondata di consolidamento nell’industria degli armamenti cinese -ha sottolineato Xiao Liang, anch’egli ricercatore del Programma del Sipri-. Nel 2021 la #CSSC cinese è diventata il più grande costruttore di navi militari al mondo, con vendite per 11,1 miliardi di dollari, dopo una fusione tra due società già esistenti”.

    https://altreconomia.it/crescono-le-vendite-di-armi-delle-prime-100-aziende-del-mondo-nonostant
    #armes #armement #commerce_d'armes #statistiques #chiffres #monde #multinationales #business #vente_d'armes

  • Santé Canada envoie 229 pages blanches en réponse à une demande d’accès à l’information Radio Canada - Thomas Gerbet

    Le demandeur voulait comprendre l’idée d’Ottawa d’autoriser plus de pesticides dans les aliments en 2021.

    « Ridicule », « perte de temps »... L’organisme Vigilance OGM ne comprend pas pourquoi le gouvernement canadien lui a envoyé 229 pages blanches à la suite de sa demande d’accès à l’information, après un an d’attente. Le demandeur cherchait à obtenir les études qui avaient convaincu Santé Canada de vouloir autoriser plus de traces de pesticides dans les aliments l’an dernier.


    hibault Rehn montre les documents vides qu’il a reçus. Photo : Radio-Canada

    L’affaire du glyphosate dans les légumineuses avait créé une controverse à l’été 2021. Radio-Canada avait révélé que le gouvernement fédéral voulait rehausser les quantités de résidus d’herbicide permises sur plusieurs denrées alimentaires comme les lentilles, les haricots ou les pois. Le Canada serait ainsi devenu moins exigeant que les États-Unis et la Chine.

    Devant le tollé provoqué par cette affaire, Ottawa avait reculé et mis son projet sur pause. Le gouvernement Trudeau s’était aussi engagé à changer la loi pour plus de transparence et d’indépendance dans le processus. Cette réforme se fait toujours attendre.

    Entre-temps, il avait été révélé que c’est Bayer, multinationale qui fabrique et commercialise le glyphosate, qui avait demandé au fédéral de faire ce changement.

    Un an d’attente pour obtenir du vide
    Le coordonnateur de Vigilance OGM Thibault Rehn, qui a reçu les 229 pages blanches, y voit la preuve que « le gouvernement canadien n’est pas transparent là-dedans ».


    « C’est dommage que les fonctionnaires perdent leur temps à nous envoyer ça », ajoute-t-il. « Ils auraient pu nous envoyer un courriel pour nous dire que l’information n’était pas accessible. »

    Des études de l’industrie derrière les pages blanches
    Sur chacune des pages blanches, Santé Canada a recopié les deux articles de la Loi sur l’accès à l’information qui justifient de masquer l’ensemble du contenu.

    Le premier article spécifie que les documents contiennent des informations personnelles et le second article indique qu’ils constituent « des renseignements financiers, commerciaux, scientifiques ou techniques fournis à une institution fédérale par un tiers, qui sont de nature confidentielle et qui sont traités comme tels de façon constante par ce tiers ».

    Pour Thibault Rehn, « c’est vraiment problématique » que le fédéral se soit appuyé uniquement sur des études de l’industrie qui, selon lui, se retrouve “juge et partie” dans le processus.
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    En 2021, Radio-Canada avait aussi révélé que Santé Canada voulait permettre plus de traces de pesticides dans les petits fruits. Nous avions ensuite découvert que la demande de réforme venait du géant des pesticides Syngenta et d’Agriculture Canada.

    En entrevue, une cadre de Santé Canada nous avait expliqué que les compagnies de pesticides « nous donnent des données scientifiques, on les évalue, puis on propose des limites maximales de résidus à la suite de cette évaluation ».

    Ottawa affirmait que sa réforme ne représentait aucun risque pour les Canadiens, parce que même en triplant les limites permises, la dose demeurait inoffensive.

    La controverse avait toutefois poussé le fédéral à promettre de s’adjoindre des scientifiques indépendants dans son processus d’évaluation. Actuellement, la vaste majorité des études sur lesquelles s’appuie le gouvernement pour prendre ses décisions sont produites par les fabricants de pesticides eux-mêmes.

    Ottawa avait aussi annoncé vouloir investir 50 millions de dollars dans l’Agence de réglementation de la lutte antiparasitaire de Santé Canada pour, entre autres, améliorer « la disponibilité de données indépendantes » venant d’universités, d’ONG et des gouvernements.

    Le mois dernier, Radio-Canada révélait que l’Agence canadienne d’inspection des aliments, qui dépend de Santé Canada, avait présenté une réforme sur les nouveaux OGM en utilisant les fichiers d’un lobby agrochimique. Une partie de la réforme visant à instaurer une “transparence volontaire” pour l’industrie plutôt qu’obligatoire avait été abandonnée suite à la controverse qu’elle a créée.

    Source : https://ici.radio-canada.ca/nouvelle/1926878/sante-canada-pages-blanches-acces-information-pesticides

    #ogm #pesticides #glyphosate #justin_trudeau #bayer #Syngenta #santé #santée #alimentation #quelle_agriculture_pour_demain_ #multinationales #agrochimie #agriculture #environnement #foutage_de_gueule

  • Les 20 produits star les plus inflationnistes Le web grande distribution - Olivier Dauvers

    Nouvelle contribution totalement exclusive au suivi du phénomène de l’année : l’inflation.

    Toutes les semaines, avec les camarades d’A3 Distrib, nous suivons l’évolution des prix d’un panier de 150 références star (revoir la dernière publication ici). Quels sont donc, parmi ces majeurs des assortiments, les plus inflationnistes ?

    Pour l’essentiel, il s’agit des mêmes marques que lors du pointage précédent (revoir ici). En haut du classement, toujours le blanc de poulet Fleury Michon, à la fois victime de l’augmentation des coûts de production de la volaille mais aussi d’une disponibilité matière pénalisée par les suites de la grippe aviaire. Les 2 produits Charal de notre échantillon payent eux-aussi une relative pénurie de matière. Bref, même s’il y a chaque fois une (bonne) explication, l’inflation pique. Le pire… : c’est pas terminé.

    Quelques exemples :

    Fleury Michon, blanc de poulet +42%

    Charal, l’extra moelleux +38%

    Fruit d’or +36%

    Confiture bonne maman Framboise +33%

    Coquillettes Barilla +29%

    Spaghetti Barilla +26%

    Huile d’olive Puget +25%

    Camembert Le Rustique +23%

    Farine francine fluide +21%

    Beurre président +20%

    Leerdamer original +20%

    #inflation #escroquerie #économie #alimentation #en_vedette #france #crise #capitalisme produits pour la #bourgeoise #salaires #finance #prix #economie #marques #agro-industrie #industrie_agro-alimentaire #industrie_agro-alimentaire  #multinationales

    Source https://www.olivierdauvers.fr/2022/10/10/quels-sont-les-produits-les-plus-inflationnistes

  • Année faste pour les dividendes Gérard Bérubé - Le Devoir
    https://www.ledevoir.com/opinion/chroniques/749799/chronique-l-inflation-et-le-dividende
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    N’empêche qu’un peu plus tôt cette semaine, la firme de gestion britannique Janus Henderson publiait son indice Global Dividend, https://www.janushenderson.com/fr-fr/investor/jh-global-dividend-index qui pointe un bond de 11,3 % des dividendes mondiaux entre les deuxièmes trimestres de 2021 et de 2022, et ce, au grand soulagement des actionnaires et des investisseurs institutionnels, dont les portefeuilles sont autrement malmenés par la morosité boursière. La croissance dite sous-jacente ressort à 19,1 % une fois pris en compte le jeu des taux de change, la composition de l’indice impliquant une conversion en dollars américains.

    Les dividendes versés ont établi un nouveau record de 544,8 milliards de dollars américains, et 94 % des 1200 entreprises composant l’indice ont augmenté ou maintenu leur dividende. « Il est étonnant de constater que, malgré les énormes perturbations économiques causées par la pandémie, les dividendes mondiaux sont désormais supérieurs au niveau record qu’ils avaient atteint avant la pandémie », remarque Janus Henderson.

    Au Canada, ils ont également atteint un record, en hausse de 12,7 % sur une base sous-jacente, grâce aux producteurs de pétrole et aux banques. Ainsi, 97 % des sociétés américaines et canadiennes ont augmenté ou maintenu leurs dividendes, avec les pétrolières revendiquant 40 % de la croissance. Statistique Canada a calculé https://www150.statcan.gc.ca/n1/pub/71-607-x/71-607-x2021010-fra.htm que les industries non financières ont vu leur bénéfice avant impôt bondir de 30,7 % entre les deuxièmes trimestres de 2021 et de 2022, contre une hausse de 3 % pour les industries financières. Dans le premier camp, les entreprises engagées dans la fabrication de produits pétroliers ont engrangé un bénéfice avant impôt en hausse de 313 % et celles s’activant dans l’extraction pétrolière, de 212 %.

    Il y aura ralentissement, compte tenu de la conjoncture. Le cabinet Janus Henderson relève tout de même sa prévision de versements de dividendes mondiaux à 1560 milliards en 2022, soit une croissance globale de 5,8 % en glissement annuel, ou une croissance sous-jacente de 8,5 %.

    #dividendes #économie #capitalisme #finance #privatisation #multinationales #fiscalité #inégalités #actionnaires #dette #entreprises #records

  • Le combat des #éleveurs du #Ndiaël pour récupérer « leurs terres »

    Dans le nord-ouest du Sénégal, une coalition de 37 villages proteste depuis dix ans contre l’attribution de 20 000 hectares à une entreprise agroalimentaire. Ce conflit foncier illustre un phénomène généralisé sur le continent africain : l’#accaparement_de_terres par des #multinationales.

    Tout a dû paraître parfait au ministre de l’élevage du Niger lorsqu’il a visité, le 1er juin 2022, les installations des Fermes de la Teranga, une entreprise implantée dans le nord-ouest du Sénégal, à une cinquantaine de kilomètres de Saint-Louis : immenses étendues de cultures verdoyantes, systèmes d’irrigation fonctionnels, grosses machines agricoles...

    Devant les caméras, Tidjani Idrissa Abdoulkadri s’est dit « très impressionné » par le travail de cette société, qui dit cultiver de la luzerne sur 300 hectares depuis 2021. Il a émis le souhait qu’un jour le fourrage qu’elle produit puisse nourrir le bétail nigérien.

    Mais le tableau qu’a vu le ministre est incomplet. Car à une quinzaine de kilomètres de là, au bout de pistes tracées dans la terre sableuse, Gorgui Sow fulmine. Installé sur une natte dans le salon de sa petite maison, ce septuagénaire pas du genre à se laisser faire raconte comment, depuis dix ans, il s’oppose à ce projet agro-industriel. Son combat, explique-t-il en pulaar, lui a valu de multiples intimidations et convocations à la gendarmerie. Mais pas question de renoncer : la survie de sa famille et du cheptel qui assure ses moyens d’existence en dépend.

    Tout est parti d’un décret signé en 2012 par le président Abdoulaye Wade, cinq jours avant le second tour d’une élection présidentielle à laquelle il était candidat, et confirmé après des tergiversations par son successeur, Macky Sall. Ce texte attribue pour cinquante ans renouvelables 20 000 hectares à Senhuile, une entreprise inconnue, créée par des investisseurs sénégalais et italiens au profil flou.

    La superficie en question couvre trois communes, Ronkh, Diama et Ngnith, mais la majeure partie se trouve à Ngnith, où elle englobe plusieurs dizaines de villages, dont celui de Gorgui Sow. Le décret prévoit aussi l’affectation de 6 500 hectares aux populations qui seraient déplacées par les plans de l’entreprise consistant à produire des graines de tournesol pour l’export.

    Toutes ces terres, proches du lac de Guiers, le plus grand lac du Sénégal, faisaient jusque-là partie de la réserve naturelle du Ndiaël, créée en 1965 et représentant 46 550 hectares. Les populations qui y vivaient pouvaient continuer à y faire pâturer leurs bêtes, soit des milliers de chèvres, ânes, chevaux, moutons, vaches. Elles pouvaient aussi y ramasser du bois mort, récolter des fruits sauvages, des plantes médicinales, de la gomme arabique, etc. Elles avaient en revanche l’interdiction d’y pratiquer l’agriculture.

    Gorgui Sow et ses voisins, tous éleveurs comme lui, ont donc été outrés d’apprendre en 2012 que non seulement leurs lieux de vie avaient été attribués à une entreprise, mais que cette dernière allait y développer à grande échelle une activité longtemps proscrite, le tout pour alimenter des marchés étrangers.

    À l’époque, ce type de transaction foncière était déjà devenu courant au Sénégal. Depuis, le mouvement s’est poursuivi et concerne toute l’Afrique, qui représente 60 % des terres arables de la planète : elle est le continent le plus ciblé par les accaparements fonciers à grande échelle et à des fins agricoles, selon la Land Matrix, une initiative internationale indépendante de suivi foncier.

    Comme les communautés locales ne disposent, en général, que d’un droit d’usage sur les terres qu’elles occupent et que le propriétaire, à savoir l’État, peut les récupérer à tout moment pour les attribuer à un projet déclaré « d’utilité publique », les effets sont similaires partout : elles perdent l’accès à leurs champs, sources d’eau, lieux de pâturage, etc. C’est ce qui est arrivé avec Senhuile.

    À ses débuts, l’entreprise, qui promettait de créer des milliers d’emplois, a défriché plusieurs milliers d’hectares (entre 5 000 et 7 000, selon l’ONG ActionAid), creusant des canaux d’irrigation depuis le lac de Guiers, installant des barbelés. Ce qui était une forêt est devenu une étendue sableuse dégarnie, un « vrai désert », disent les riverains. Mais Senhuile a dû s’arrêter : une partie de la population s’est soulevée, affrontant les gendarmes venus protéger ses installations. Elle n’a au bout du compte pratiquement rien cultivé.

    « Senhuile a détruit les ressources naturelles qui nous permettaient de vivre, explique aujourd’hui Gorgui Sow. Des enfants se sont noyés dans les canaux. Les barbelés qu’elle a installés ont tué nos vaches, la zone de pâturage a été considérablement réduite. » Lui et d’autres habitants ont constitué le Collectif de défense des terres du Ndiaël (Coden) pour demander la restitution de cet espace qu’ils considèrent comme le leur. Il rassemble 37 villages de la commune de Ngnith, ce qui représente environ 10 000 personnes. Tous sont des éleveurs semi-nomades.
    De Senhuile aux Fermes de la Teranga

    Au fil des ans, le Coden que préside Gorgui Sow a noué des alliances au Sénégal et à l’étranger et a bénéficié d’une large couverture médiatique. Il a rencontré diverses autorités à Dakar et dans la région, manifesté, envoyé des lettres de protestation, obtenu des promesses de partage plus équitable des terres. Mais rien ne s’est concrétisé.

    En 2018, il y a eu un changement : Frank Timis, un homme d’affaires roumain, a pris le contrôle de Senhuile, à travers une autre entreprise, African Agriculture Inc. (AAGR), enregistrée en 2018 aux îles Caïmans. C’est à cette occasion que Senhuile a été rebaptisée Fermes de la Teranga, un mot wolof signifiant « hospitalité ». Le nom de Frank Timis est bien connu au Sénégal : il a été notamment cité, avec celui d’un frère de Macky Sall, dans un scandale concernant un contrat pétrolier.

    À la stupeur des éleveurs de Ngnith, AAGR a déposé en mars 2022 une demande d’introduction en Bourse auprès de la Securities and Exchange Commission (SEC), à Washington, afin de lever des fonds. Disant avoir des intérêts au Sénégal et au Niger, elle annonce vouloir intégrer le marché international de vente de crédits carbone, de biocarburants et surtout de luzerne qu’elle a l’intention de proposer aux éleveurs locaux et de la région « ainsi qu’à l’Arabie saoudite, aux Émirats arabes unis et à l’Europe », selon le document remis à la SEC.

    « Qui chez nous aura les moyens d’acheter ce fourrage ? Celui que l’entreprise vend actuellement est hors de prix ! », s’agace Bayal Sow, adjoint au maire de Ngnith et membre du Coden. Il craint l’existence d’objectifs inavoués dans cette affaire, comme de la spéculation foncière. À ses côtés, dans son bureau de la mairie de Ngnith, écrasée par la chaleur de cette fin de saison sèche, un autre adjoint au maire, Maguèye Thiam, acquiesce, écœuré.

    Puisque la zone de pâturage a diminué, troupeaux et bergers sont contraints de partir loin, hors du Ndiaël, pour chercher du fourrage et des espaces où paître, précise-t-il. Dans ces conditions, l’idée que les territoires où les cheptels avaient l’habitude de se nourrir soient transformés en champs de luzerne pour produire du fourrage qui sera très certainement vendu à l’étranger paraît inconcevable.

    Être employé par les Fermes de la Teranga est également impensable : « Nous sommes une population d’éleveurs à 90 %, sans formation, sans diplôme. Nous ne pourrions être que de simples ouvriers. Cela n’a aucun intérêt », observe Hassane Abdourahmane Sow, membre du Coden. « Comment peut-on justifier l’attribution d’autant de terres à une entreprise alors que les populations locales en manquent pour pratiquer elles-mêmes l’agriculture et que l’État parle d’autosuffisance alimentaire ? », demande un autre ressortissant de la région.

    De son côté, AAGR assure que tout se passe bien sur le terrain. Sur le plan social, détaille-t-elle dans un courriel, le processus de concertation avec toutes les parties impliquées a été respecté. Elle dit avoir embauché sur place 73 personnes « qui n’avaient auparavant aucun emploi ni moyen de subsistance ».
    Dissensions

    Comme preuves de ses bonnes relations avec les populations locales, AAGR fournit des copies de lettres émanant de deux collectifs, l’un « des villages impactés de la commune de Ngnith », l’autre « des villages impactés de la commune de Ronkh », lesquels remercient notamment les Fermes de la Teranga de leur avoir donné du sucre lors du ramadan 2021. Ces deux collectifs « qui ont des sièges sociaux et des représentants légaux » sont les « seuls qui peuvent parler au nom des populations de la zone », insiste AAGR. « Toute autre personne qui parlera au nom de ces populations est motivée par autre chose que l’intérêt de la population impactée par le projet », avertit-elle.

    La société, qui a parmi ses administrateurs un ancien ambassadeur américain au Niger, communique aussi deux missives datées du 15 et 16 juillet 2022, signées pour la première par le député-maire de Ngnith et pour la seconde par le coordonnateur du Collectif de villages impactés de Ngnith. Dans des termes similaires, chacun dit regretter les « sorties médiatiques » de « soi-disant individus de la localité pour réclamer le retour de leurs terres ». « Nous sommes derrière vous pour la réussite du projet », écrivent-ils.

    Les Fermes de la Teranga se prévalent en outre d’avoir mis à disposition des communautés locales 500 hectares de terres. « Mais ces hectares profitent essentiellement à des populations de Ronkh qui ne sont pas affectées par le projet », fait remarquer un ressortissant de Ngnith qui demande : « Est-ce à l’entreprise “d’offrir” 500 hectares aux communautés sur leurs terres ? »

    Non seulement ce projet agro-industriel a « un impact sur nos conditions de vie mais il nous a divisés », s’attriste Hassane Abdourahmane Sow : « Des membres de notre collectif l’ont quitté parce qu’ils ont eu peur ou ont été corrompus. Certains villages, moins affectés par la présence de l’entreprise, ont pris parti pour elle, tout comme des chefs religieux, ce qui a là aussi généré des tensions entre leurs fidèles et eux. »

    « Il faut s’asseoir autour d’une table et discuter, suggère Maguèye Thiam. Nous ne sommes pas opposés à l’idée que cette société puisse bénéficier d’une superficie dans la région. Mais il faut que sa taille soit raisonnable, car les populations n’ont que la terre pour vivre », observe-t-il, donnant l’exemple d’une autre firme étrangère implantée sur 400 hectares et avec laquelle la cohabitation est satisfaisante.

    Interrogé par messagerie privée à propos de ce conflit foncier, le porte-parole du gouvernement sénégalais n’a pas réagi. Les membres du Coden répètent, eux, qu’ils continueront leur lutte « jusqu’au retour de (leurs) terres » et projettent de nouvelles actions.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/260822/le-combat-des-eleveurs-du-ndiael-pour-recuperer-leurs-terres

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