• Una riflessione sul rapporto tra migrazione e sicurezza a partire dalla questione della iscrizione anagrafica

      Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne e di ossa, fibre e umori, e si può persino dire che possegga un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? (…) Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quello che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me”.
      (R.W. Ellison, L’uomo invisibile - 1952 - Einaudi Torino 2009, p. 3).
      1.

      In questi ultimi giorni si è tornato a parlare molto dei c.d. Decreti sicurezza e di una loro possibile revisione. A riaprire il dibattito, da ultimo, la pronuncia della Corte costituzionale dello scorso 9 luglio con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 comma 1, lett. a) n. 2 del primo “decreto sicurezza” (Decreto Legge 4 ottobre 2018 n. 113) per violazione dell’art. 3 della Costituzione.

      Prima di dare conto del contenuto della decisione della Corte costituzionale, è opportuno ripercorrere, seppur brevemente, le tappe del percorso che ha portato i giudici della Consulta a intervenire. Per chiarire i termini precisi della discussione che è scaturita in questi anni e il senso della decisione finale assunta il 9 luglio, occorre inquadrare la questione in primo luogo da un punto di vista giuridico.

      Questa importante pronuncia ha riguardato appunto la legittimità costituzionale del primo Decreto Sicurezza approvato nel 2018 che doveva servire a impedire, almeno nelle intenzioni del legislatore, l’iscrizione dei richiedenti asilo, sulla base del titolo di soggiorno provvisorio loro rilasciato, nei registri anagrafici dei Comuni. Una modifica normativa volta a rendere ancor più precario lo status giuridico dei richiedenti asilo presenti nel nostro Paese, negando a costoro anche un legame fittizio con il territorio che avrebbe dovuto accoglierli. Una restrizione dal forte valore simbolico e di carattere tutto politico, frutto dei tempi.

      La nuova previsione normativa introdotta dall’art. 13 cit. ha animato, anche per questo, un forte dibattito e numerose sono state le prese di posizione da parte sia dei commentatori politici che dei tecnici del diritto. Un dibattito che purtroppo si è fermato alle problematiche più strettamente giuridiche sollevate dalla nuova normativa, tralasciando invece la questione della ratio ispiratrice della nuova disciplina. Una ratio che imporrebbe una riflessione più generale sulle problematiche legate ai fenomeni migratori e, nello specifico, sul tema dell’asilo e del rispetto dei diritti umani.

      Il tema della iscrizione anagrafica, infatti, ci consente non solo una riflessione sul contesto normativo che è stato oggetto di modificazione, ma anche sul significato profondo che assume il concetto di “asilo” nel nostro Paese.
      2.

      Negli anni il diritto d’asilo è stato più volte ridefinito generando anche confusione. Un diritto che affonda le sue radici nella storia antica, lo conoscevano bene i greci che riconoscevano al fuggiasco una sorta di inviolabilità per il solo fatto di trovarsi in un determinato luogo. “Veniva chiamata asilia l’inviolabilità a cui quel luogo dava diritto” [1].

      Un diritto che nel corso del tempo ha subito non pochi cambiamenti e che oggi è diventato uno strumento nelle mani dello Stato che ne dispone a proprio piacimento.
      Viene da pensare a quanto scrive la professoressa Donatella Di Cesare proprio a proposito del diritto d’asilo. Nel chiedersi se si tratti di un diritto del singolo che lo chiede o dello Stato che lo concede, la Di Cesare evidenzia come l’asilo sia divenuto “un dispositivo di cui gli Stati si servono per esercitare, anche in concreto, il loro potere sui migranti” [2]. Accade così che si assiste ad una duplice deriva che porta lo Stato a moltiplicare le barriere giuridiche e poliziesche e ad aumentare le restrizioni burocratiche e procedurali, con il fine dichiarato (non celato) di scoraggiare le richieste di asilo politico.

      Questo dibattito, direttamente connesso alla questione della iscrizione anagrafica “negata” ai richiedenti asilo, è stato purtroppo poco presente ed è stato messo in secondo piano rispetto invece alle questioni, non meno importanti, della discriminazione in essere nella normativa introdotta dal Decreto Legge n. 113 del 2018.

      Una precisa “discriminazione” nei confronti di una determinata categoria di soggetti, appunto i richiedenti asilo, rispetto ai quali, secondo i primi commenti, diveniva impossibile procedere all’inserimento nelle liste anagrafiche dei Comuni di residenza.

      Una norma, peraltro che, come osservato da autorevoli commentatori, si poneva in netto contrasto con la logica stessa dell’istituto dell’iscrizione anagrafica e con l’articolo 6 comma 7 del Testo Unico Immigrazione.
      3.

      Le discussioni che sono scaturite e lo scontro tra numerosi Sindaci, da una parte, e il Ministro dell’Interno dell’epoca, dall’altra, con i primi disposti anche a disapplicare la norma sui loro territori, sono state di fatto mitigate dagli interventi dei Tribunali italiani chiamati a decidere sui ricorsi d’urgenza presentati dai richiedenti asilo che si sono visti negato il diritto di procedere all’iscrizione presso i registri suddetti.
      Infatti, nella pratica, la modifica prevista dall’art. 13 del Decreto 113 del 2018 è stata immediatamente disinnescata dagli interventi dei giudici di merito chiamati a pronunciarsi sui ricorsi proposti. Numerose pronunce hanno riconosciuto il diritto del richiedente asilo alla iscrizione anagrafica addivenendo a una interpretazione della norma secondo la quale l’affermazione contenuta nell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2 avrebbe avuto soltanto l’effetto di far venire meno il “regime speciale” introdotto dall’art. 8 D.L. 17.2.17 n. 13 conv. in L. 13.4.17 n. 46 (secondo il quale i richiedenti asilo venivano iscritti all’anagrafe sulla base della dichiarazione del titolare della struttura ospitante) per riportare il richiedente asilo nell’alveo del regime ordinario (quello cioè della verifica della dimora abituale, come previsto anche per il cittadino italiano, al quale lo straniero regolarmente soggiornante è parificato ai sensi dell’art. 6, comma 7 TU immigrazione). Solamente in tre procedimenti i Tribunali di Trento e Torino hanno optato per una interpretazione diversa della norma optando per un divieto di iscrizione.
      4.

      Per rendere più chiara la comprensione dell’operazione compiuta dalla giurisprudenza di merito, proviamo a ricostruire, brevemente, uno dei tanti casi portati all’attenzione dei giudici italiani, nello specifico il caso di un cittadino di nazionalità somala che ha proposto ricorso d’urgenza dinanzi al Tribunale di Firenze contro il diniego all’iscrizione nei registri anagrafici opposto dal Comune di Scandicci. Nel ricorso proposto dal richiedente asilo si evidenziava come il requisito del regolare soggiorno nel territorio dello Stato potesse essere accertato mediante documenti alternativi al permesso di soggiorno rilasciati ai soggetti che hanno presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, quali, ad esempio, il modello C3 di richiesta asilo presentato in Questura, oppure la ricevuta rilasciata da quest’ultima per attestare il deposito della richiesta di soggiorno o la scheda di identificazione redatta dalla Questura. Il Tribunale di Firenze ha ritenuto di poter accogliere il ricorso esprimendosi in favore del ricorrente.

      Nel motivare la propria decisione, il Tribunale, analizzando il contenuto letterale del nuovo comma 1-bis citato, sottolinea come esso si riferisca al permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale quale titolo per l’iscrizione anagrafica e che, tuttavia, il sistema normativo di riferimento dalla stessa disposizione richiamato (il DPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), non richieda alcun “titolo” per l’iscrizione anagrafica, ma solo una determinata condizione soggettiva, i.e. quella di essere regolarmente soggiornante nello Stato. Inoltre, riconoscendo che l’iscrizione anagrafica ha natura di attività amministrativa a carattere vincolato, in relazione alla quale il privato ha una posizione di diritto soggettivo, evidenzia come «l’iscrizione anagrafica registra la volontà delle persone che, avendo una dimora, hanno fissato in un determinato comune la residenza oppure, non avendo una dimora, hanno stabilito nello stesso comune il proprio domicilio», sulla base non di titoli, ma delle dichiarazioni egli interessati o degli accertamenti ai sensi degli artt. 13, 15, 18-bis e 19 del citato DPR n. 223/1989. Pertanto, non essendo intervenuta alcuna modificazione dell’art. 6, comma 7, del T.U.I., sulla base del quale «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione, ritiene il Tribunale che il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 D.lgs. n. 142/2015 non possa essere interpretato nel senso di aver introdotto un divieto, neppure implicito, di iscrizione anagrafica per i soggetti che abbiano presentato richiesta di protezione internazionale.

      In conclusione, secondo la giurisprudenza di merito richiamata, se il legislatore avesse voluto introdurre un divieto, avrebbe dovuto modificare il già citato art. 6, comma 7 T.U.I., anche nella parte in cui considera dimora abituale di uno straniero il centro di accoglienza ove sia ospitato da più di tre mesi.
      5.

      Nonostante l’interpretazione prevalente della nuova normativa, la questione è stata portata all’attenzione della Corte costituzionale dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno che hanno comunque ritenuto fondata la questione di illegittimità costituzionale per violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e per violazione del principio di eguaglianza.

      In data 9 luglio 2020 la Corte costituzionale ha così dato l’ultimo colpo alla normativa di cui all’art. 13 sancendone la illegittimità per violazione dell’art. 3 della Costituzione. In effetti, nel comunicato stampa diramato dalla stessa Consulta, in attesa di leggere le motivazioni complete della decisione, è scritto che “la disposizione censurata non è stata ritenuta dalla Corte in contrasto con l’articolo 77 della Costituzione sui requisiti di necessità e di urgenza dei decreti legge. Tuttavia, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti”.

      I giudici costituzionali sono stati perentori nell’affermare che la norma censurata si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione sotto molteplici profili e “sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei requisiti di razionalità e ragionevolezza, alla disciplina dell’art. 6, comma 7, del D.lgs. n. 286 del 1998” [3].

      In particolare il legislatore si troverebbe a contraddire la ratio complessiva del decreto-legge n. 113 del 2018 al cui interno si colloca la disposizione portata all’attenzione della Corte costituzionale. Infatti, “a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in questione, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano” [4].

      In conclusione, finanche l’obiettivo primario perseguito dal legislatore verrebbe contraddetto dalla disposizione in esame che proprio per questa ragione sarebbe paradossalmente in contrasto persino con le esigenze dichiarate di maggiore controllo e sicurezza del fenomeno migratorio.

      Un vero paradosso se pensiamo che l’esclusione dalla registrazione anagrafica di persone che invece risiedono sul territorio comunale accresce anziché ridurre i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo.
      6.

      È sulla base di queste ultime osservazioni che è possibile articolare una breve riflessione complementare sulla giustapposizione ideologica e strumentale di “migrazione” e “sicurezza” e considerare la necessità/possibilità di ripensare, ancora rimandando tra gli altri ai lavori di Di Cesare, le modalità di coabitazione e di residenza in un territorio.

      In effetti oggi l’asilo e la “protezione internazionale” sono divenuti strumenti di gestione statale della migrazione (in senso generale) e dei corpi delle persone migranti (in senso più concreto), in un crescendo di categorizzazioni che hanno progressivamente ridotto il numero degli “aventi diritto”: da una parte attraverso processi di “vulnerabilizzazione” che hanno estremizzato le logiche selettive a detrimento del diritto di altri individui a presentare una richiesta di protezione. Non stiamo dicendo che i vulnerabili non vadano protetti, ma che non è possibile escludere gli altri dalla procedura perché non lo sono abbastanza.

      D’altra parte, attraverso un’evoluzione intimamente legata ai processi di esternalizzazione dei controlli e della gestione della migrazione da parte dell’UE, si sono fatti saltare i “fondamentali” del diritto d’asilo come diritto individuale, riducendo la questione a un’economia geopolitica che seleziona e distingue sempre più esplicitamente su base nazionale, a partire da assunti quali i “paesi terzi sicuri”, come l’Afghanistan, o i porti sicuri, come la Libia.

      Lo smantellamento e la limitazione dell’asilo come diritto fondamentale individuale, e il ridimensionamento delle prerogative e dei diritti dei richiedenti asilo che vanno inevitabilmente a minare le loro condizioni di vita e i loro percorsi di integrazione come nel caso dei decreti Salvini, rappresentano tra l’altro soltanto una parte, molto importante anche per la sua valenza simbolica, ma non preponderante di una degenerazione complessiva delle politiche in materia di migrazione in UE. Perché al peggioramento delle condizioni di vita dei richiedenti asilo corrispondono purtroppo anche un progressivo aumento dei dinieghi, e una sempre maggiore “esclusione” dei potenziali aventi diritto (e chiunque dovrebbe averlo) dalla procedura, a causa di pratiche espeditive di espulsione, a causa dei ritardi di compilazione della documentazione necessaria (C3), ecc. Volendo essere espliciti, chi accede alla procedura d’asilo rappresenta, oggi, alla fine, il “resto”, la rimanenza dell’insieme delle persone in migrazione che il dispositivo di controllo e di gestione globale (IOM, UE, Stati europei e paesi vicini collaborativi) non è riuscito a bloccare, nei paesi di partenza, di transito, nel Mediterraneo, negli hotspot, ecc...

      Rileggendo il deterioramento del sistema di asilo in questi anni, sia in termini di rispetto dei diritti fondamentali che in termini materiali di accoglienza, divenuta sempre meno una politica etica e sempre più un business e un terreno di confronto elettorale, non possiamo che constatare che il dispositivo di asilo (ideologico e pratico) si riduce sempre più, come conferma Di Cesare, ad uno strumento di gestione della migrazione, allo stesso modo che i regolamenti interni di gestione (Dublino), la gestione emergenziale dell’accoglienza, i dispositivi di gestione della frontiera (Frontex, Eunavformed) i processi di esternalizzazione, ecc. In questo senso, il deterioramento del sistema d’asilo rappresenta l’ultimo anello, il livello finale di una progressiva e generale “lotta alla migrazione”, dissimulata dietro retoriche di approcci globali e pratiche di politiche di esternalizzazione sempre più feroci (si veda il riferimento di Di Maio alla condizionalità negativa migrazione/sviluppo come forma istituzionalizzata di ricatto alla Tunisia) : lotta alla migrazione che ha visto estendersi progressivamente le categorie (e il numero) di indesiderabili, ridotti genericamente a “migranti economici” provenienti da paesi “’sicuri” o comunque “bloccati” dal dispositivo di controllo e gestione della mobilità imposto ai paesi terzi. L’erosione del diritto d’asilo va dunque letta anche all’interno di una più generale dinamica generale di riduzione dei diritti alla mobilità e all’installazione nei confronti di una certa tipologia di persone straniere da parte dei paesi dell’UE.
      7.

      Il presupposto problematico è che questi “diritti” destinati a persone straniere vengono sempre definiti e manovrati da coloro i quali sono nelle condizioni di doverli applicare, e le norme internazionali vengono ignorate, trascurate, aggirate invocando situazioni di “urgenza” e di sicurezza, che evidentemente si sono amplificate in questa stagione pandemica, e che si accompagnano all’armamentario ideologico dei nuovi sovranisti. Questo è vero per quanto riguarda le situazioni di frontiera, ontologicamente più fosche e meno trasparenti, all’interno delle quali norme meno restrittive (Cuttitta etc) si associano a pratiche in esplicita violazione dei diritti fondamentali, ma è vero anche per quanto riguarda l’articolazione dei dispositivi di accoglienza e più in generale la gestione della presenza sul territorio di persone straniere con status amministrativi differenti, e condizioni di marginalità (e sfruttamento) differenti. La difesa della patria, il “prima gli italiani” che si declina a livello regionale, provinciale e iperlocale in un ripiegamento identitario in abisso, rappresentano il corrispettivo ideologico delle politiche di esclusione e di “chiusura” che i paesi dell’UE hanno integrato trasversalmente, con qualche sfumatura più o meno xenofoba. E purtroppo la retorica xenofoba, che mixa ignoranza e paura, paura di invasione e di contagio, si abbatte sulla popolazione con la forza di media conniventi e ripetizione ad oltranza di notizie false, fuorvianti, imprecise, volte ad alimentare diffidenza e timore: “insicurezza”.

      In questo senso, sarebbe utile come accennavamo sopra, provvedere ad una genealogia della convergenza di “immigrazione” e “sicurezza”, al di là dell’assunto antropologico “atavico” che il pericolo arrivi da fuori, da ciò che non si conosce: ma è già possibile, attraverso la vicenda dell’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo legata all’applicazione dei decreti salviniani, osservare che la “geografia” di questi decreti immigrazione e sicurezza è a geometria variabile.

      Come ha parzialmente evidenziato la mappa prodotta dalla geografa Cristina del Biaggio e pubblicata su VisionCarto, che ha recensito le reazioni dei vari sindaci e dei differenti comuni alla stretta di Salvini sull’iscrizione anagrafica dei RA, la logica securitaria “sovranista” a livello nazionale, ossessionata dalla difesa delle patrie frontiere, con toni nazionalisti postfascisti e modi - come prova la vicenda di Open Arms - spesso al limite o oltre la legalità, è sfasata rispetto ad una nozione di “sicurezza” ad un livello territoriale più circoscritto, di comunità urbana e di amministrazione locale. Perché inevitabilmente tanti amministratori locali, di fronte ad un’operazione che ha concretamente destabilizzato la gestione locale dell’accoglienza e dell’integrazione buttando letteralmente per strada o comunque esponendo a situazioni di marginalità estrema un numero estremamente rilevante di persone (il rapporto «La sicurezza dell’esclusione - Centri d’Italia 2019» realizzato da ActionAid e Openpolis parlava di 80.000 persone toccate nei primi mesi di applicazione, con stime di 750.000 persone “irregolarizzate” entro gennaio 2021), hanno reagito sottolineando, a diverso titolo e con toni diversi, che gli effetti reali dei decreti sul territorio avrebbero inevitabilmente prodotto insicurezza e difficoltà (correlando più o meno direttamente una situazione amministrativa marginale/irregolare e l’aumento possibile di situazioni di criminalità, extralegalità, sfruttamento, ecc.).

      Dunque possiamo dedurre che la lettura della relazione tra sicurezza ed immigrazione non è la stessa a livello nazionale e a livello locale, dove, in ragione da una parte della ricaduta concreta e dell’applicazione pratica di normative e politiche che regolano la presenza di cittadini stranieri (a diverso titolo) sul territorio (permessi di soggiorno ecc.), e dall’altra dell’evoluzione delle dinamiche quotidiane di accoglienza/convivenza/integrazione, la presenza di persone migranti (richiedenti asilo etc.) rappresenta un elemento reale, contingente, relazionale e non semplicemente una nozione teorica, astratta, amministrativa. In questo senso, tutte le politiche legate alla migrazione, più o meno inclusive o esclusive, più o meno ammantate di un argomentario ideologico nazionalista/identitario, devono poi fare i conti con le condizioni concrete di coabitazione, con le possibilità e gli strumenti di integrazioni in possesso o da fornire alle persone “in arrivo” e con la volontà, la possibilità e la capacità di una comunità locale di interagire con le persone “straniere”, e più in generale “esterne” ad essa, nel modo più vantaggioso e utile, positivo e ragionevole possibile.
      8.

      Se il pericolo arriva da fuori, da cioè che non si conosce, le alterative sono due: chiudersi a riccio e difendersi a priori da qualsiasi cosa venga a perturbare il nostro quotidiano, la nostra “tradizione”, la nostra “identità”, o conoscere quello che c’è fuori, quello che arriva da fuori: accettando che questa dinamica di apertura e di incontro è stato il fondamento dell’evoluzione delle comunità umane.

      Alla presa di posizione dei sindaci, che osteggiano i decreti Salvini nel nome di una prospettiva accogliente o nel nome di un realismo politico e di organizzazione della vita sociale della comunità distinto dall’ottica di “gestione dell’ordine” dell’ex ministro degli interni e di tante prefetture (basta ricordare che Salvini ha invocato, nel marzo 2019 anche la possibilità di attribuire più poteri straordinari ai prefetti riducendo quelli dei sindaci), corrisponde anche una reazione “accogliente” dal basso, una capacità di adattamento della collettività (autonoma, indotta dall’amministrazione o in antitesi a posizioni di chiusura delle municipalità) : al di là dei comuni impegnati in politiche locali di accoglienza attraverso i dispositivi SPRAR, o di reti come RECOSOL, non sono poche le collettività che sono passate dal “rifiuto” e alla reticenza, legati agli spettri mediatici e politici, alle retoriche di invasione o alle presenze imposte in via straordinaria a livello prefetturale senza consultazione dell’amministrazione - e che hanno creato, quasi fosse una finalità connessa una pressione su comunità locali “impreparate” -, a modalità di apertura, graduali, mediate, progressive che si sono risolte spesso (a livello urbano come rurale) constatando che una presenza accettata, accolta, “accompagnata”, tutelata, sostenuta non è affatto “nociva” per la comunità che accoglie, ma anzi rappresenta un valore aggiunto, arricchisce e offre opportunità, in una logica di reciprocità che si affranca dalle pratiche assistenziali che annullano i potenziali di azione e partecipazione delle persone accolte.

      Il diritto internazionale relativo all’asilo, per ovvie ragioni storiche e geopolitiche, si appoggia alle strutture nazionali e “inevitabilmente” si confronta con le dimensioni dell’appartenenza come la cittadinanza e la “nazionalità”; tuttavia, la discussione è focalizzata sempre essenzialmente sul potenziale beneficiario/destinatario di questo diritto, dell’asilo o della “protezione internazionale”, come più in generale, eticamente, dell’accoglienza/ospitalità. Mentre rimane sempre implicita, troppo spesso data per scontata la soggettività collettiva che accorda questo diritto, che lo elargisce, che lo offre.

      Se il diritto internazionale tende ad inquadrarlo, a concederlo/garantirlo è di solito una comunità politica, un paese che concede asilo ad un cittadino straniero proveniente da un altro paese sulla base di principi “universali” e attraverso strumenti come, per l’Italia, la carta costituzionale.

      Ora, se appare evidente che l’accanimento xenofobo di un Salvini sia strumento elettoralista e strumentale che passa per una lettura quantomeno originale della stessa Costituzione, andando a “scegliersi” qualche articolo conveniente (come quelli che invocano la patria) ma snobbando completamente altri che si riferiscono a diritti fondamentali ( e dunque più “ampi” di quelli legati all’appartenenza nazionale), possiamo anche considerare che nel corso degli ultimi anni la questione “asilo” e più generalmente accoglienza in Italia è rimasta questione tecnica di specialisti nella sua dimensione normativa giuridica (avvocati, Commissioni territoriali ecc.), mentre dal punto di vista etico-politico (la questione) è rimasta sempre secondaria rispetto ad un discorso politico e mediatico focalizzato ossessivamente (come del resto avviene in tutta Europa) sulla difesa delle frontiere e sul controllo della migrazione: la presenza di persone straniere sul territorio diventa visibile solo quando appare “deviante” o “problematica”, mentre le “buone prassi” di integrazione e partecipazione rimangono escluse dalla narrazione quotidiana.

      In sostanza il “popolo” italiano, che attraverso la Costituzione garantisce a individui stranieri la possibilità di ricevere sostegno e protezione sul territorio nazionale, viene chiamato in causa e sollecitato (politicamente e mediaticamente) in concreto quasi esclusivamente in quanto corpo sociale minacciato (economicamente, culturalmente, socialmente, ecc.) dalla migrazione, dalla presenza di stranieri, e praticamente mai in quanto attore implicato in percorsi di accoglienza, impegnato in un percorso di evoluzione sociale e culturale che implica obbligatoriamente un confronto con la migrazione, come con tutti gli altri temi essenziali della convivenza politica.

      La “gestione” tecnica dell’accoglienza rimane invece questione tecnica, esposta a mistificazioni e speculazioni, e “astratta” fino a quando non si materializza sul territorio, spesso “precipitata” dall’alto, come è accaduto dal 2011 attraverso la gestione emergenziale, e inscritta come gestione dell’ordine pubblico piuttosto che all’interno delle politiche sociali: da un punti di vista “sovranista” e più in generale di depotenziamento dei livelli di partecipazione e implicazione critica della collettività, la comunità locale rimane “spettatrice” di processi di gestione che sono finalizzati sempre più solo al controllo delle persone e sempre meno alla loro integrazione (e che va di pari passo con una deresponsabilizzazione generale della popolazione a tutti i livelli).

      Ora, se la teoria costituzionale dell’asilo in Italia ha radici storiche determinate, le pratiche di accoglienza sono quasi sempre locali, territorializzate, e implicano l’investimento più o mendo diretto e esplicito della collettività: un investimento che, attraverso l’implicazione delle amministrazioni locali e percorsi partecipativi riporta la questione dell’accoglienza dell’altro, e la sua potenziale integrazione, nell’alveo di una realtà politica concreta, quotidiana, locale; diventa quindi interessante interrogarsi sulla consapevolezza di questa potenzialità da parte delle comunità locali (come in altri ambiti diversi) di autodeterminarsi politicamente, di impattare in modo significativo su una serie di questioni che le riguardano direttamente, puntualmente o sul lungo periodo.

      Se il diritto d’asilo va tutelato a livello internazionale e nazionale, e iscritto in quadri normativi che possano garantire un accesso inalienabili ai diritti fondamentali, diventa importante sottolineare la capacità delle comunità locali di rivendicare il dovere/diritto di andare oltre, e di integrare questo quadro giuridico con pratiche di accoglienza e partecipazione che, concertate collettivamente, possono rappresentare percorsi di evoluzione comuni, non solamente eticamente gratificanti ma anche vantaggiosi tanto per chi è accolto che per chi accoglie.

      Indipendentemente quindi anche dal parere della Corte Costituzionale che ha contestato una serie di elementi del decreti sicurezza tecnicamente difformi dal mandato costituzionale stesso, diventa estremamente rilevante l’espressione pubblica e politica di comunità locali, di andare oltre e di rivendicare il diritto di garantire l’iscrizione anagrafica - e con essa l’accesso ad un insieme di altri diritti in grado di migliorare sensibilmente le condizioni di esistenza delle persone sul territorio e all’interno della comunità, e di favorire dinamiche di interazione e cooperazione indipendenti da distinzioni legate alla provenienza e alla nazionalità.

      È in questo senso che evolve in questi ultimi anni la configurazione politica delle città rifugio (città accoglienti, città dell’asilo, città santuario, …), che si fonda precisamente sulla volontà e la capacità delle amministrazioni e delle comunità locali di pensare forme di accoglienza che superino le forme di gestione/ricezione legate ad una nozione di asilo sempre più sacrificate all’altare della geopolitica internazionale e delle politiche di esternalizzazione della UE.

      Se da un lato dunque occorre difendere il diritto d’asilo, e anzi incentivarlo ed aggiornarlo rispetto ad un orizzonte globalizzato, dall’altra è necessario resistere alla gestione differenziale della mobilità umana da una parte, rivendicando per tutti il diritto di movimento e di installazione, da combinare all’invenzione di nuove forme di coabitazione e accoglienza legate alla residenza e alla presenza sul territorio più che a origini nazionali e rivendicazioni identitarie.

      https://www.meltingpot.org/Una-riflessione-sul-rapporto-tra-migrazione-e-sicurezza-a.html
      #droit_d'asile #asile #justice #Scandicci #Testo_Unico_Immigrazione #jurisprudence #sécurité #prima_i_nostri #frontières #externalisation #peur #accueil #résistance #citoyenneté #nationalité #menace #droits #villes-refuge #liberté_de_mouvement #liberté_de_circulation

  • ’I am Italian too’: How #BlackLivesMatter protests reignited the Italian citizenship debate

    Global anti-racism protests following the death of African-American George Floyd could impact Italy’s citizenship laws. Here, politicians are under pressure to allow more children of migrants born and educated in the country to become Italians.

    June 2 is the day Italy celebrates becoming a republic. Partly, it is a day for reflecting on the values of the country and its citizens, and what it means to be Italian. “This year it will be remembered for a series of exceptional events,” writes Angelica Pesarini in an essay entitled “Questions of Privilege” on the newsletter for cultural space Il lavoro culturale (Cultural work).

    Pesarini is a faculty member in social and cultural analysis at New York University (NYU) in Florence. She is also a black Italian, born in Italy to a family with roots in Somalia and Eritrea, countries that have colonial links with Italy.

    Many Italians think “to be Italian is to be white,” Pesarini told the BBC in 2019. “I feel I have to justify my Italian-ness a lot,” she continued. “People assume I cannot be Italian. When people ask me: ’Where are you from?’ I say: ’I’m from Rome.’ They ask: ’No, but where are you really from?’” Pesarini says that this frequent exchange demonstrates how “race, colonialism and whiteness are all connected to Italian identity today.”

    Children of migrants

    Pesarini is Italian, but her identity is still questioned. For others, the children of migrant parents, it is not just strangers who ask questions about their roots, but the state itself. As Italy’s migrant population grows, and more and more children are being born in Italy and growing up and going to school in the Italian system, they ask why they too cannot be recognized as Italian citizens.

    The current law allows Italian citizenship to be granted automatically only to those born to Italian parents. The children of migrants, both those born on Italian soil and those who migrated with their parents as minors, are not automatically granted an Italian passport when they turn 18.

    ’One million’ Italians without citizenship

    According to the campaign group “Italiani senza cittadinanza” (Italians without citizenship), there are now one million people in this position. “I feel I am Italian, but it as though the state doesn’t see me,” says Alessia Korotkova in a video made by Oxfam in 2019. She had hoped to compete at the Olympic Games in Tokyo 2020 but she couldn’t because she was unable to get Italian citizenship. “We might seem invisible to the state,” Korotkova continues, “but we are not invisible, we ARE here,” she says smiling as the video flashes up a hashtag #noicisiamo (#We_are_here).

    “I’m a foreigner in my own home,” says Ghassan Ezzarraa in another video in the series. “I feel like I am in a video game; to become myself, I have to jump the hurdles to the next level,” he says. “I am the only person in my family still considered a foreigner,” he adds.

    One of the lucky ones?

    Ghassan might be considered one of the lucky ones. At the end of January 2020, he was granted citizenship in his home town of Reggio Emilia at the age of 23. He had been living in Italy since he was four years old.

    But his journey to citizenship, like that of many others, was long and complicated. Ghassan was born in Rabat, Morocco in 1996. Just after he turned four, he and his mother were able to join his father in Italy where he had been living and working. A year later, his sister was born on Italian soil, but even that didn’t qualify her for automatic citizenship.

    According to La Repubblica newspaper, as a long time resident, Ghassan’s father received Italian citizenship in 2015. His sister, who was still a child, received it soon after, as did his mother, as his father’s legal spouse. Only Ghassan, who had already turned 18 failed to “inherit” the citizenship granted to the rest of his family.

    Becoming Italian

    Having been through the Italian school system, Ghassan applied for citizenship, traveling to Morocco to obtain all the necessary documents. The procedure should have taken two years, but under the government’s migration and security decree, this process was lengthened to four years.

    The complications meant that Ghassan had to partially give up on the athletic career he had dreamed of because, as a ’foreigner’, he was not eligible to receive sponsorship and training. He took up a job and, with the help of various cultural organizations, campaigned to get his story heard. Finally, the mayor of Reggio Emilia in the north of Italy, did listen and announced the happy news on his Facebook page in January.

    Different proposals debated

    The debate on citizenship rights has continued for decades. A commission in the current parliament has been hearing evidence on the issue since late 2019. Its deliberations were largely buried during the restrictions placed on Italy by the COVID-19 pandemic, but now, with demonstrations across Italy taking place in protest over the death of African-American George Floyd, the issue is back in the media, and public, spotlight.

    The current government is split on the issue, writes the Italian news agency ANSA. Three different proposals have been put forward. The first is granting citizenship based on where you are born, ie, if you are born on Italian soil, you should be considered Italian. The second is an idea based around education and culture. According to this, if you have been educated in Italian, speak the language fluently and think ’like an Italian’, then why shouldn’t you be considered Italian? This second proposal would also allow those who migrated with their parents but grew up feeling themselves to be Italian citizens to access citizenship. The third is a combination of both these ideas.

    The UN children’s charity, UNICEF in Italy, points out that this law would not automatically grant citizenship to any child of a migrant born on Italian soil. In fact, even the new proposals are rich with caveats. Children of parents who are waiting to have their request for international protection decided, for instance, would not qualify. Nor would children born to parents without a legal permit to stay.

    A change to the citizenship law would help children of those who have lived in Italy for a long time, completed more than five years of education and/or a professional qualification and possibly obtained Italian citizenship themselves. UNICEF says it is needed to “stop discrimination against those children who are legitimately part of Italian society.”
    Black people die in Italy too

    In her essay, Angelica Pesarini lists some of the black people, many of whom are migrants, who have been murdered on Italian soil. She highlights the death of a Malian man Soumalia Sacko on Republic Day two years ago in 2018. Sacko, she writes, was working “exploited” in the Calabrian fields in the south of Italy. He was helping two workmates collect some material from an abandoned building in the fields, in order to try and construct a shack where they were living. As they were collecting the material, they were shot at by an Italian man with an “unlicensed shotgun.” The shots resulted in a head trauma, from which Sacko died.

    His death, writes Pesarini, was initially “reported in a distorted manner” based on information provided by the Prefecture in Reggio Calabria. They said, that he was “shot at by someone unknown whilst stealing.” Soon after his death, the deputy Prime Minister at the time, Matteo Salvini, tweeted about migrants “The fun’s over;” referring to the idea that migrants arrive in Italy just to obtain benefits and ’easy’ work.
    #BlackLivesMatter: Italy

    One of the leading members of the Sardines movement, which has been fighting for migrant rights in Italy, is also pushing for the citizenship law to be reformed. “This is such an important law that it shouldn’t fall victim to political disagreement or propaganda,” Jasmine Cristallo, spokesperson for the “6,000 Sardines” movement told ANSA.

    Campaigners are hopeful that they can use the momentum of the protests around the world and anger at institutional racism to change politicians’ minds and bring citizenship laws into the 21st century. On Facebook on June 9, Italians without citizenship posted pictures from the latest demonstration in Rome, where Italian-Haitian anti-racism campaigner Stella Jean called for a change to the current citizenship laws. Jean told ANSA: “I’m speaking today because it is no longer possible to remain silent. I don’t want my own children to be subject to the threats I received as a girl. Everyone merits citizenship.”

    https://www.infomigrants.net/en/post/25300/i-am-italian-too-how-blacklivesmatter-protests-reignited-the-italian-c
    #citoyenneté #Italie #migrations #naturalisation #nationalité

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  • Covid-19, la #frontiérisation aboutie du #monde

    Alors que le virus nous a rappelé la condition de commune humanité, les frontières interdisent plus que jamais de penser les conditions du cosmopolitisme, d’une société comme un long tissu vivant sans couture à même de faire face aux aléas, aux menaces à même d’hypothéquer le futur. La réponse frontalière n’a ouvert aucun horizon nouveau, sinon celui du repli. Par Adrien Delmas, historien et David Goeury, géographe.

    La #chronologie ci-dessus représente cartographiquement la fermeture des frontières nationales entre le 20 janvier et le 30 avril 2020 consécutive de la pandémie de Covid-19, phénomène inédit dans sa célérité et son ampleur. Les données ont été extraites des déclarations gouvernementales concernant les restrictions aux voyages, les fermetures des frontières terrestres, maritimes et aériennes et des informations diffusées par les ambassades à travers le monde. En plus d’omissions ou d’imprécisions, certains biais peuvent apparaitre notamment le décalage entre les mesures de restriction et leur application.

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=64&v=mv-OFB4WfBg&feature=emb_logo

    En quelques semaines, le nouveau coronavirus dont l’humanité est devenue le principal hôte, s’est propagé aux quatre coins de la planète à une vitesse sans précédent, attestant de la densité des relations et des circulations humaines. Rapidement deux stratégies politiques se sont imposées : fermer les frontières nationales et confiner les populations.

    Par un processus de #mimétisme_politique global, les gouvernements ont basculé en quelques jours d’une position minimisant le risque à des politiques publiques de plus en plus drastiques de contrôle puis de suspension des mobilités. Le recours systématique à la fermeture d’une limite administrative interroge : n’y a-t-il pas, comme répété dans un premier temps, un décalage entre la nature même de l’#épidémie et des frontières qui sont des productions politiques ? Le suivi de la diffusion virale ne nécessite-t-il un emboîtement d’échelles (famille, proches, réseaux de sociabilité et professionnels…) en deçà du cadre national ?

    Nous nous proposons ici de revenir sur le phénomène sans précédent d’activation et de généralisation de l’appareil frontalier mondial, en commençant par retrouver la chronologie précise des fermetures successives. Bien que resserrée sur quelques jours, des phases se dessinent, pour aboutir à la situation présente de fermeture complète.

    Il serait vain de vouloir donner une lecture uniforme de ce phénomène soudain mais nous partirons du constat que le phénomène de « frontiérisation du monde », pour parler comme Achille Mbembe, était déjà à l’œuvre au moment de l’irruption épidémique, avant de nous interroger sur son accélération, son aboutissement et sa réversibilité.

    L’argument sanitaire

    Alors que la présence du virus était attestée, à partir de février 2020, dans les différentes parties du monde, la fermeture des frontières nationales s’est imposée selon un principe de cohérence sanitaire, le risque d’importation du virus par des voyageurs était avéré. Le transport aérien a permis au virus de faire des sauts territoriaux révélant un premier archipel économique liant le Hubei au reste du monde avant de se diffuser au gré de mobilités multiples.

    Pour autant, les réponses des premiers pays touchés, en l’occurrence la Chine et la Corée du Sud, se sont organisées autour de l’élévation de barrières non-nationales : personnes infectées mises en quarantaine, foyers, ilots, ville, province etc. L’articulation raisonnée de multiples échelles, l’identification et le ciblage des clusters, ont permis de contrôler la propagation du virus et d’en réduire fortement la létalité. A toutes ces échelles d’intervention s’ajoute l’échelle mondiale où s‘est organisée la réponse médicale par la recherche collective des traitements et des vaccins.

    Face à la multiplication des foyers de contamination, la plupart des gouvernements ont fait le choix d’un repli national. La fermeture des frontières est apparue comme une modalité de reprise de contrôle politique et le retour aux sources de l’État souverain. Bien que nul dirigeant ne peut nier avoir agi « en retard », puisque aucun pays n’est exempt de cas de Covid-19, beaucoup d’États se réjouissent d’avoir fermé « à temps », avant que la vague n’engendre une catastrophe.

    L’orchestration d’une réponse commune concertée notamment dans le cadre de l’OMS est abandonnée au profit d’initiatives unilatérales. La fermeture des frontières a transformé la pandémie en autant d’épidémies nationales, devenant par là un exemple paradigmatique du nationalisme méthodologique, pour reprendre les termes d’analyse d’Ulrich Beck.

    S’impose alors la logique résidentielle : les citoyens présents sur un territoire deviennent comptables de la diffusion de l’épidémie et du maintien des capacités de prise en charge par le système médical. La dialectique entre gouvernants et gouvernés s’articule alors autour des décomptes quotidiens, de chiffres immédiatement comparés, bien que pas toujours commensurables, à ceux des pays voisins.

    La frontiérisation du monde consécutive de la pandémie de coronavirus ne peut se résumer à la seule somme des fermetures particulières, pays par pays. Bien au contraire, des logiques collectives se laissent entrevoir. A défaut de concertation, les gouvernants ont fait l’expérience du dilemme du prisonnier.

    Face à une opinion publique inquiète, un chef de gouvernement prenait le risque d’être considéré comme laxiste ou irresponsable en maintenant ses frontières ouvertes alors que les autres fermaient les leurs. Ces phénomènes mimétiques entre États se sont démultipliés en quelques jours face à la pandémie : les États ont redécouvert leur maîtrise biopolitique via les mesures barrières, ils ont défendu leur rationalité en suivant les avis de conseils scientifiques et en discréditant les approches émotionnelles ou religieuses ; ils ont privilégié la suspension des droits à grand renfort de mesures d’exception. Le risque global a alors légitimé la réaffirmation d’une autorité nationale dans un unanimisme relatif.

    Chronologie de la soudaineté

    La séquence vécue depuis la fin du mois janvier de l’année 2020 s’est traduite par une série d’accélérations venant renforcer les principes de fermeture des frontières. Le développement de l’épidémie en Chine alarme assez rapidement la communauté internationale et tout particulièrement les pays limitrophes.

    La Corée du Nord prend les devants dès le 21 janvier en fermant sa frontière avec la Chine et interdit tout voyage touristique sur son sol. Alors que la Chine développe une stratégie de confinement ciblé dès le 23 janvier, les autres pays frontaliers ferment leurs frontières terrestres ou n’ouvrent pas leurs frontières saisonnières d’altitude comme le Pakistan.

    Parallèlement, les pays non frontaliers entament une politique de fermeture des routes aériennes qui constituent autant de points potentiels d’entrée du virus. Cette procédure prend des formes différentes qui relèvent d’un gradient de diplomatie. Certains se contentent de demander aux compagnies aériennes nationales de suspendre leurs vols, fermant leur frontière de facto (Algérie, Égypte, Maroc, Rwanda, France, Canada, entre autres), d’autres privilégient l’approche plus frontale comme les États-Unis qui, le 2 février, interdisent leur territoire au voyageurs ayant séjournés en Chine.

    La propagation très rapide de l’épidémie en Iran amène à une deuxième tentative de mise en quarantaine d’un pays dès le 20 février. Le rôle de l’Iran dans les circulations terrestres de l’Afghanistan à la Turquie pousse les gouvernements frontaliers à fermer les points de passage. De même, le gouvernement irakien étroitement lié à Téhéran finit par fermer la frontière le 20 février. Puis les voyageurs ayant séjourné en Iran sont à leur tour progressivement considérés comme indésirables. Les gouvernements décident alors de politiques d’interdiction de séjour ciblées ou de mises en quarantaine forcées par la création de listes de territoires à risques.

    Le développement de l’épidémie en Italie amène à un changement de paradigme dans la gestion de la crise sanitaire. L’épidémie est dès lors considérée comme effectivement mondiale mais surtout elle est désormais perçue comme incontrôlable tant les foyers de contamination potentiels sont nombreux.

    La densité des relations intra-européennes et l’intensité des mobilités extra-européennes génèrent un sentiment d’anxiété face au risque de la submersion, le concept de « vague » est constamment mobilisé. Certains y ont lu une inversion de l’ordre migratoire planétaire. Les pays aux revenus faibles ou limités décident de fermer leurs frontières aux individus issus des pays aux plus hauts revenus.

    Les derniers jours du mois de février voient des gouvernements comme le Liban créer des listes de nationalités indésirables, tandis que d’autres comme Fiji décident d’un seuil de cas identifiés de Covid-19. Les interdictions progressent avec le Qatar et l’Arabie Saoudite qui ferment leur territoire aux Européens dès le 9 mars avant de connaître une accélération le 10 mars.

    Les frontières sont alors emportées dans le tourbillon des fermetures.

    La Slovénie débute la suspension de la libre circulation au sein de l’espace Schengen en fermant sa frontière avec l’Italie. Elle est suivie par les pays d’Europe centrale (Tchéquie, Slovaquie). En Afrique et en Amérique, les relations avec l’Union européenne sont suspendues unilatéralement. Le Maroc ferme ses frontières avec l’Espagne dès le 12 mars. Ce même jour, les États-Unis annonce la restriction de l’accès à son territoire aux voyageurs issu de l’Union européenne. La décision américaine est rapidement élargie au monde entier, faisant apparaitre l’Union européenne au cœur des mobilités planétaires.

    En quelques jours, la majorité des frontières nationales se ferment à l’ensemble du monde. Les liaisons aériennes sont suspendues, les frontières terrestres sont closes pour éviter les stratégies de contournements.

    Les pays qui échappent à cette logique apparaissent comme très minoritaires à l’image du Mexique, du Nicaragua, du Laos, du Cambodge ou de la Corée du Sud. Parmi eux, certains sont finalement totalement dépendants de leurs voisins comme le Laos et le Cambodge prisonniers des politiques restrictives du Vietnam et de la Thaïlande.

    Au-delà de ces gouvernements qui résistent à la pression, des réalités localisées renseignent sur l’impossible fermeture des frontières aux mobilités quotidiennes. Ainsi, malgré des discours de fermeté, exception faite de la Malaisie, des États ont maintenus la circulation des travailleurs transfrontaliers.

    Au sein de l’espace Schengen, la Slovénie maintient ses relations avec l’Autriche, malgré sa fermeté vis-à-vis de l’Italie. Le 16 mars, la Suisse garantit l’accès à son territoire aux salariés du Nord de l’Italie et du Grand Est de la France, pourtant les plus régions touchées par la pandémie en Europe. Allemagne, Belgique, Norvège, Finlande, Espagne font de même.

    De l’autre côté de l’Atlantique, malgré la multiplication des discours autoritaires, un accord est trouvé le 18 mars avec le Canada et surtout le 20 mars avec le Mexique pour maintenir la circulation des travailleurs. Des déclarations conjointes sont publiées le 21 mars. Partout, la question transfrontalière oblige au bilatéralisme. Uruguay et Brésil renoncent finalement à fermer leur frontière commune tant les habitants ont développé un « mode de vie binational » pour reprendre les termes de deux gouvernements. La décision unilatérale du 18 mars prise par la Malaisie d’interdire à partir du 20 mars tout franchissement de sa frontière prend Singapour de court qui doit organiser des modalités d’hébergement pour plusieurs dizaines de milliers de travailleurs considérés comme indispensables.

    Ces fermetures font apparaitre au grand jour la qualité des coopérations bilatérales.

    Certains États ferment d’autant plus facilement leur frontière avec un pays lorsque préexistent d’importantes rivalités à l’image de la Papouasie Nouvelle Guinée qui ferme immédiatement sa frontière avec l’Indonésie pourtant très faiblement touchée par la pandémie. D’autres en revanche, comme la Tanzanie refusent de fermer leurs frontières terrestres pour maintenir aux États voisins un accès direct à la mer.

    Certains observateurs se sont plu à imaginer des basculements dans les rapports de pouvoirs entre l’Afrique et l’Europe notamment. Après ces fermetures soudaines, le bal mondial des rapatriements a commencé, non sans de nombreuses fausses notes.

    L’accélération de la frontiérisation du monde

    La fermeture extrêmement rapide des frontières mondiales nous rappelle ensuite combien les dispositifs nationaux étaient prêts pour la suspension complète des circulations. Comme dans bien des domaines, la pandémie s’est présentée comme un révélateur puissant, grossissant les traits d’un monde qu’il est plus aisé de diagnostiquer, à présent qu’il est suspendu.

    Ces dernières années, l’augmentation des mobilités internationales par le trafic aérien s’est accompagnée de dispositifs de filtrage de plus en plus drastiques notamment dans le cadre de la lutte contre le terrorisme. Les multiples étapes de contrôle articulant dispositifs administratifs dématérialisés pour les visas et dispositifs de plus en plus intrusifs de contrôle physique ont doté les frontières aéroportuaires d’une épaisseur croissante, partageant l’humanité en deux catégories : les mobiles et les astreints à résidence.

    En parallèle, les routes terrestres et maritimes internationales sont restées actives et se sont même réinventées dans le cadre des mobilités dites illégales. Or là encore, l’obsession du contrôle a favorisé un étalement de la frontière par la création de multiples marches frontalières faisant de pays entiers des lieux de surveillance et d’assignation à résidence avec un investissement continu dans les dispositifs sécuritaires.

    L’épaisseur des frontières se mesure désormais par la hauteur des murs mais aussi par l’exploitation des obstacles géophysiques : les fleuves, les cols, les déserts et les mers, où circulent armées et agences frontalières. À cela s’est ajouté le pistage et la surveillance digitale doublés d’un appareil administratif aux démarches labyrinthiques faites pour ne jamais aboutir.

    Pour décrire ce phénomène, Achille Mbembe parlait de « frontiérisation du monde » et de la mise en place d’un « nouveau régime sécuritaire mondial où le droit des ressortissants étrangers de franchir les frontières d’un autre pays et d’entrer sur son territoire devient de plus en plus procédural et peut être suspendu ou révoqué à tout instant et sous n’importe quel prétexte. »

    La passion contemporaine pour les murs relève de l’iconographie territoriale qui permet d’appuyer les représentations sociales d’un contrôle parfait des circulations humaines, et ce alors que les frontières n’ont jamais été aussi polymorphes.

    Suite à la pandémie, la plupart des gouvernements ont pu mobiliser sans difficulté l’ingénierie et l’imaginaire frontaliers, en s’appuyant d’abord sur les compagnies aériennes pour fermer leur pays et suspendre les voyages, puis en fermant les aéroports avant de bloquer les frontières terrestres.

    Les réalités frontalières sont rendues visibles : la Norvège fait appel aux réservistes et retraités pour assurer une présence à sa frontière avec la Suède et la Finlande. Seuls les pays effondrés, en guerre, ne ferment pas leurs frontières comme au sud de la Libye où circulent armes et combattants.

    Beaucoup entretiennent des fictions géographiques décrétant des frontières fermées sans avoir les moyens de les surveiller comme la France en Guyane ou à Mayotte. Plus que jamais, les frontières sont devenues un rapport de pouvoir réel venant attester des dépendances économiques, notamment à travers la question migratoire, mais aussi symboliques, dans le principe de la souveraineté et son autre, à travers la figure de l’étranger. Classe politique et opinion publique adhèrent largement à une vision segmentée du monde.

    Le piège de l’assignation à résidence

    Aujourd’hui, cet appareil frontalier mondial activé localement, à qui l’on a demandé de jouer une nouvelle partition sanitaire, semble pris à son propre piège. Sa vocation même qui consistait à décider qui peut se déplacer, où et dans quelles conditions, semble égarée tant les restrictions sont devenues, en quelques jours, absolues.

    Le régime universel d’assignation à résidence dans lequel le monde est plongé n’est pas tant le résultat d’une décision d’ordre sanitaire face à une maladie inconnue, que la simple activation des dispositifs multiples qui préexistaient à cette maladie. En l’absence d’autres réponses disponibles, ces fermetures se sont imposées. L’humanité a fait ce qu’elle savait faire de mieux en ce début du XXIe siècle, sinon la seule chose qu’elle savait faire collectivement sans concertation préalable, fermer le monde.

    L’activation de la frontière a abouti à sa consécration. Les dispositifs n’ont pas seulement été activés, ils ont été renforcés et généralisés. Le constat d’une entrave des mobilités est désormais valable pour tous, et la circulation est devenue impossible, de fait, comme de droit. Pauvres et riches, touristes et hommes d’affaires, sportifs ou diplomates, tout le monde, sans exception aucune, fait l’expérience de la fermeture et de cette condition dans laquelle le monde est plongé.

    Seuls les rapatriés, nouveau statut des mobilités en temps de pandémie, sont encore autorisés à rentrer chez eux, dans les limites des moyens financiers des États qu’ils souhaitent rejoindre. Cette entrave à la circulation est d’ailleurs valable pour ceux qui la décident. Elle est aussi pour ceux qui l’analysent : le témoin de ce phénomène n’existe pas ou plus, lui-même pris, complice ou victime, de cet emballement de la frontiérisation.

    C’est bien là une caractéristique centrale du processus en cours, il n’y a plus de point de vue en surplomb, il n’y a plus d’extérieur, plus d’étranger, plus de pensée du dehors. La pensée est elle-même confinée. Face à la mobilisation et l’emballement d’une gouvernementalité de la mobilité fondée sur l’entrave, l’abolition pure et simple du droit de circuler, du droit d’être étranger, du droit de franchir les frontières d’un autre pays et d’entrer sur son territoire n’est plus une simple fiction.

    Les dispositifs de veille de ces droits, bien que mis à nus, ne semblent plus contrôlables et c’est en ce sens que l’on peut douter de la réversibilité de ces processus de fermeture.

    Réversibilité

    C’est à l’aune de ce constat selon lequel le processus de frontiérisation du monde était à déjà l’œuvre au moment de l’irruption épidémique que l’on peut interroger le caractère provisoire de la fermeture des frontières opérée au cours du mois de mars 2020.

    Pourquoi un processus déjà enclenché ferait machine arrière au moment même où il accélère ? Comme si l’accélération était une condition du renversement. Tout se passe plutôt comme si le processus de frontiérisation s’était cristallisé.

    La circulation internationale des marchandises, maintenue au pic même de la crise sanitaire, n’a pas seulement permis l’approvisionnement des populations, elle a également rappelé que, contrairement à ce que défendent les théories libérales, le modèle économique mondial fonctionne sur l’axiome suivant : les biens circulent de plus en plus indépendamment des individus.

    Nous venons bien de faire l’épreuve du caractère superflu de la circulation des hommes et des femmes, aussi longtemps que les marchandises, elles, circulent. Combien de personnes bloquées de l’autre côté d’une frontière, dans l’impossibilité de la traverser, quand le moindre colis ou autre produit traverse ?

    Le réseau numérique mondial a lui aussi démontré qu’il était largement à même de pallier à une immobilité généralisée. Pas de pannes de l’Internet à l’horizon, à l’heure où tout le monde est venu y puiser son travail, ses informations, ses loisirs et ses sentiments.

    De là à penser que les flux de data peuvent remplacer les flux migratoires, il n’y qu’un pas que certains ont déjà franchi. La pandémie a vite fait de devenir l’alliée des adeptes de l’inimitié entre les nations, des partisans de destins et de développement séparés, des projets d’autarcie et de démobilité.

    Alors que le virus nous a rappelé la condition de commune humanité, les frontières interdisent plus que jamais de penser les conditions du cosmopolitisme, d’une société comme un long tissu vivant sans couture à même de faire face aux aléas, aux zoonoses émergentes, au réchauffement climatique, aux menaces à même d’hypothéquer le futur.

    La réponse frontalière n’a ouvert aucun horizon nouveau, sinon celui du repli sur des communautés locales, plus petites encore, formant autant de petites hétérotopies localisées. Si les étrangers que nous sommes ou que nous connaissons se sont inquiétés ces dernières semaines de la possibilité d’un retour au pays, le drame qui se jouait aussi, et qui continue de se jouer, c’est bien l’impossibilité d’un aller.

    https://blogs.mediapart.fr/adrien-delmas/blog/280520/covid-19-la-frontierisation-aboutie-du-monde
    #frontières #fermeture_des_frontières #migrations #covid-19 #coronavirus #immobilité #mobilité #confinement #cartographie #vidéo #animation #visualisation #nationalisme_méthodologique #ressources_pédagogiques #appareil_frontalier_mondial #cohérence_sanitaire #crise_sanitaire #transport_aérien #Hubei #clusters #échelle #repli_national #contrôle_politique #Etat-nation #unilatéralisme #multilatéralisme #dilemme_du_prisonnier #mesures_barrière #rationalité #exceptionnalité #exceptionnalisme #autorité_nationale #soudaineté #routes_aériennes #Iran #Italie #Chine #vague #nationalités_indésirables #travailleurs_étrangers #frontaliers #filtrage #contrôles_frontaliers #contrôle #surveillance #marches_frontalières #assignation_à_résidence #pistage #surveillance_digitale #circulations #imaginaire_frontalier #ingénierie_frontalière #compagnies_aériennes #frontières_terrestres #aéroports #fictions_géographiques #géographie_politique #souveraineté #partition_sanitaire #rapatriés #gouvernementalité #droit_de_circuler #liberté_de_circulation #liberté_de_mouvement #réversibilité #irréversibilité #provisoire #définitif #cristallisation #biens #marchandises #immobilité_généralisée #cosmopolitisme #réponse_frontalière

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    • Épisode 1 : Liberté de circulation : le retour des frontières

      Premier temps d’une semaine consacrée aux #restrictions de libertés pendant la pandémie de coronavirus. Arrêtons-nous aujourd’hui sur une liberté entravée que nous avons tous largement expérimentée au cours des deux derniers mois : celle de circuler, incarnée par le retour des frontières.

      https://www.franceculture.fr/emissions/cultures-monde/droits-et-libertes-au-temps-du-corona-14-liberte-de-circulation-le-ret

    • #Anne-Laure_Amilhat-Szary (@mobileborders) : « Nous avons eu l’impression que nous pouvions effectivement fermer les frontières »

      En Europe, les frontières rouvrent en ordre dispersé, avec souvent le 15 juin pour date butoir. Alors que la Covid-19 a atteint plus de 150 pays, la géographe Anne-Laure Amilhat-Szary analyse les nouveaux enjeux autour de ces séparations, nationales mais aussi continentales ou sanitaires.

      https://www.franceculture.fr/geopolitique/anne-laure-amilhat-szary-nous-avons-eu-limpression-que-nous-pouvions-e

    • « Nous sommes très loin d’aller vers un #repli à l’intérieur de #frontières_nationales »
      Interview avec Anne-Laure Amilhat-Szary (@mobileborders)

      Face à la pandémie de Covid-19, un grand nombre de pays ont fait le choix de fermer leurs frontières. Alors que certains célèbrent leurs vertus prophylactiques et protectrices, et appellent à leur renforcement dans une perspective de démondialisation, nous avons interrogé la géographe Anne-Laure Amilhat Szary, auteure notamment du livre Qu’est-ce qu’une frontière aujourd’hui ? (PUF, 2015), sur cette notion loin d’être univoque.

      Usbek & Rica : Avec la crise sanitaire en cours, le monde s’est soudainement refermé. Chaque pays s’est retranché derrière ses frontières. Cette situation est-elle inédite ? À quel précédent historique peut-elle nous faire penser ?

      Anne-Laure Amilhat Szary : On peut, semble-t-il, trouver trace d’un dernier grand épisode de confinement en 1972 en Yougoslavie, pendant une épidémie de variole ramenée par des pèlerins de La Mecque. 10 millions de personnes avaient alors été confinées, mais au sein des frontières nationales… On pense forcément aux grands confinements historiques contre la peste ou le choléra (dont l’efficacité est vraiment questionnée). Mais ces derniers eurent lieu avant que l’État n’ait la puissance régulatrice qu’on lui connaît aujourd’hui. Ce qui change profondément désormais, c’est que, même confinés, nous restons connectés. Que signifie une frontière fermée si l’information et la richesse continuent de circuler ? Cela pointe du doigt des frontières aux effets très différenciés selon le statut des personnes, un monde de « frontiérités » multiples plutôt que de frontières établissant les fondements d’un régime universel du droit international.

      Les conséquences juridiques de la fermeture des frontières sont inédites : en supprimant la possibilité de les traverser officiellement, on nie l’urgence pour certains de les traverser au péril de leur vie. Le moment actuel consacre en effet la suspension du droit d’asile mis en place par la convention de Genève de 1951. La situation de l’autre côté de nos frontières, en Méditerranée par exemple, s’est détériorée de manière aiguë depuis début mars.

      Certes, les populistes de tous bords se servent de la menace que représenteraient des frontières ouvertes comme d’un ressort politique, et ça marche bien… jusqu’à ce que ces mêmes personnes prennent un vol low-cost pour leurs vacances dans le pays voisin et pestent tant et plus sur la durée des files d’attentes à l’aéroport. Il y a d’une part une peur des migrants, qui pourraient « profiter » de Schengen, et d’autre part, une volonté pratique de déplacements facilités, à la fois professionnels et de loisirs, de courte durée. Il faut absolument rappeler que si le coronavirus est chez nous, comme sur le reste de la planète, c’est que les frontières n’ont pas pu l’arrêter ! Pas plus qu’elles n’avaient pu quelque chose contre le nuage de Tchernobyl. L’utilité de fermer les frontières aujourd’hui repose sur le fait de pouvoir soumettre, en même temps, les populations de différents pays à un confinement parallèle.

      Ne se leurre-t-on pas en croyant assister, à la faveur de la crise sanitaire, à un « retour des frontières » ? N’est-il pas déjà à l’œuvre depuis de nombreuses années ?

      Cela, je l’ai dit et écrit de nombreuses fois : les frontières n’ont jamais disparu, on a juste voulu croire à « la fin de la géographie », à l’espace plat et lisse de la mondialisation, en même temps qu’à la fin de l’histoire, qui n’était que celle de la Guerre Froide.

      Deux choses nouvelles illustrent toutefois la matérialité inédite des frontières dans un monde qui se prétend de plus en plus « dématérialisé » : 1) la possibilité, grâce aux GPS, de positionner la ligne précisément sur le terrain, de borner et démarquer, même en terrain difficile, ce qui était impossible jusqu’ici. De ce fait, on a pu régler des différends frontaliers anciens, mais on peut aussi démarquer des espaces inaccessibles de manière régulière, notamment maritimes. 2) Le retour des murs et barrières, spectacle de la sécurité et nouvel avatar de la frontière. Mais attention, toute frontière n’est pas un mur, faire cette assimilation c’est tomber dans le panneau idéologique qui nous est tendu par le cadre dominant de la pensée contemporaine.

      La frontière n’est pas une notion univoque. Elle peut, comme vous le dites, se transformer en mur, en clôture et empêcher le passage. Elle peut être ouverte ou entrouverte. Elle peut aussi faire office de filtre et avoir une fonction prophylactique, ou bien encore poser des limites, à une mondialisation débridée par exemple. De votre point de vue, de quel type de frontières avons-nous besoin ?

      Nous avons besoin de frontières filtres, non fermées, mais qui soient véritablement symétriques. Le problème des murs, c’est qu’ils sont le symptôme d’un fonctionnement dévoyé du principe de droit international d’égalité des États. À l’origine des relations internationales, la définition d’une frontière est celle d’un lieu d’interface entre deux souverainetés également indépendantes vis-à-vis du reste du monde.

      Les frontières sont nécessaires pour ne pas soumettre le monde à un seul pouvoir totalisant. Il se trouve que depuis l’époque moderne, ce sont les États qui sont les principaux détenteurs du pouvoir de les fixer. Ils ont réussi à imposer un principe d’allégeance hiérarchique qui pose la dimension nationale comme supérieure et exclusive des autres pans constitutifs de nos identités.

      Mais les frontières étatiques sont bien moins stables qu’on ne l’imagine, et il faut aujourd’hui ouvrir un véritable débat sur les formes de frontières souhaitables pour organiser les collectifs humains dans l’avenir. Des frontières qui se défassent enfin du récit sédentaire du monde, pour prendre véritablement en compte la possibilité pour les hommes et les femmes d’avoir accès à des droits là où ils vivent.

      Rejoignez-vous ceux qui, comme le philosophe Régis Debray ou l’ancien ministre socialiste Arnaud Montebourg, font l’éloge des frontières et appellent à leur réaffirmation ? Régis Débray écrit notamment : « L’indécence de l’époque ne provient pas d’un excès mais d’un déficit de frontières »…

      Nous avons toujours eu des frontières, et nous avons toujours été mondialisés, cette mondialisation se réalisant à l’échelle de nos mondes, selon les époques : Mer de Chine et Océan Indien pour certains, Méditerranée pour d’autres. À partir des XII-XIIIe siècle, le lien entre Europe et Asie, abandonné depuis Alexandre le Grand, se développe à nouveau. À partir du XV-XVIe siècle, c’est l’âge des traversées transatlantiques et le bouclage du monde par un retour via le Pacifique…

      Je ne suis pas de ces nostalgiques à tendance nationaliste que sont devenus, pour des raisons différentes et dans des trajectoires propres tout à fait distinctes, Régis Debray ou Arnaud Montebourg. Nous avons toujours eu des frontières, elles sont anthropologiquement nécessaires à notre constitution psychologique et sociale. Il y en a même de plus en plus dans nos vies, au fur et à mesure que les critères d’identification se multiplient : frontières de race, de classe, de genre, de religion, etc.

      Nos existences sont striées de frontières visibles et invisibles. Pensons par exemple à celles que les digicodes fabriquent au pied des immeubles ou à l’entrée des communautés fermées, aux systèmes de surveillance qui régulent l’entrée aux bureaux ou des écoles. Mais pensons aussi aux frontières sociales, celles d’un patronyme étranger et racialisé, qui handicape durablement un CV entre les mains d’un.e recruteur.e, celles des différences salariales entre femmes et hommes, dont le fameux « plafond de verre » qui bloque l’accès aux femmes aux fonctions directoriales. Mais n’oublions pas les frontières communautaires de tous types sont complexes car mêlant à la fois la marginalité choisie, revendiquée, brandie comme dans les « marches des fiertés » et la marginalité subie du rejet des minorités, dont témoigne par exemple la persistance de l’antisémitisme.

      La seule chose qui se transforme en profondeur depuis trente ans et la chute du mur de Berlin, c’est la frontière étatique, car les États ont renoncé à certaines des prérogatives qu’ils exerçaient aux frontières, au profit d’institutions supranationales ou d’acteurs privés. D’un côté l’Union Européenne et les formes de subsidiarité qu’elle permet, de l’autre côté les GAFAM et autres géants du web, qui échappent à la fiscalité, l’une des raisons d’être des frontières. Ce qui apparaît aussi de manière plus évidente, c’est que les États puissants exercent leur souveraineté bien au-delà de leurs frontières, à travers un « droit d’ingérence » politique et militaire, mais aussi à travers des prérogatives commerciales, comme quand l’Arabie Saoudite négocie avec l’Éthiopie pour s’accaparer ses terres en toute légalité, dans le cadre du land grabbing.

      Peut-on croire à l’hypothèse d’une démondialisation ? La frontière peut-elle être précisément un instrument pour protéger les plus humbles, ceux que l’on qualifie de « perdants de la mondialisation » ? Comment faire en sorte qu’elle soit justement un instrument de protection, de défense de certaines valeurs (sociales notamment) et non synonyme de repli et de rejet de l’autre ?

      Il faut replacer la compréhension de la frontière dans une approche intersectionnelle : comprendre toutes les limites qui strient nos existences et font des frontières de véritables révélateurs de nos inégalités. Conçues comme des instruments de protection des individus vivant en leur sein, dans des périmètres où l’Etat détenteur du monopole exclusif de la violence est censé garantir des conditions de vie équitables, les frontières sont désormais des lieux qui propulsent au contraire les personnes au contact direct de la violence de la mondialisation.

      S’il s’agit de la fin d’une phase de la mondialisation, celle de la mondialisation financière échevelée, qui se traduit par une mise à profit maximalisée des différenciations locales dans une mise en concurrence généralisée des territoires et des personnes, je suis pour ! Mais au vu de nos technologies de communication et de transports, nous sommes très loin d’aller vers un repli à l’intérieur de frontières nationales. Regardez ce que, en période de confinement, tous ceux qui sont reliés consomment comme contenus globalisés (travail, culture, achats, sport) à travers leur bande passante… Regardez qui consomme les produits mondialisés, du jean à quelques euros à la farine ou la viande produite à l’autre bout du monde arrivant dans nos assiettes moins chères que celle qui aurait été produite par des paysans proches de nous… Posons-nous la question des conditions dans lesquelles ces consommateurs pourraient renoncer à ce que la mondialisation leur offre !

      Il faut une approche plus fine des effets de la mondialisation, notamment concernant la façon dont de nombreux phénomènes, notamment climatiques, sont désormais établis comme étant partagés - et ce, sans retour possible en arrière. Nous avons ainsi besoin de propositions politiques supranationales pour gérer ces crises sanitaires et environnementales (ce qui a manqué singulièrement pour la crise du Cocid-19, notamment l’absence de coordination européenne).

      Les frontières sont des inventions humaines, depuis toujours. Nous avons besoin de frontières comme repères dans notre rapport au monde, mais de frontières synapses, qui font lien en même temps qu’elles nous distinguent. De plus en plus de personnes refusent l’assignation à une identité nationale qui l’emporterait sur tous les autres pans de leur identité : il faut donc remettre les frontières à leur place, celle d’un élément de gouvernementalité parmi d’autres, au service des gouvernants, mais aussi des gouvernés. Ne pas oublier que les frontières devraient être d’abord et avant tout des périmètres de redevabilité. Des espaces à l’intérieur desquels on a des droits et des devoirs que l’on peut faire valoir à travers des mécanismes de justice ouverts.

      https://usbeketrica.com/article/on-ne-va-pas-vers-repli-a-interieur-frontieres-nationales

  • Migrants sue German state over mobile phone searches

    In Germany, three migrants from Syria, Afghanistan and Cameroon are suing the state for accessing personal data on their mobile phones. A civil rights group taking part in the action says the phone searches are a serious invasion of privacy.

    29-year-old Syrian Mohammad A. was recognized as a refugee in Germany in 2015. Four years later, the German Office for Migration and Refugees (BAMF), reviewed his case – without giving a specific reason. During the review, they carried out an evaluation of his smartphone.

    “Suddenly the #BAMF employee told me to hand over my mobile phone and unlock it,” said Mohammad A. in a statement published by the Berlin-based Society for Civil Rights (GFF). “I didn’t know what was happening. Nothing was explained to me. But I was afraid of being deported. So I gave him the mobile phone. It felt like I was handing over my whole life.”

    Under a law passed in 2017, German authorities can examine the mobile phones of asylum seekers who are unable to present a valid passport on arrival, in order to verify information provided regarding identity. But the GFF, which filed the lawsuits together with the three refugees, says this represents “a particularly serious and extensive encroachment on the privacy of those affected.”

    Law fails to uncover false information

    The law permitting phone searches was meant to prevent “asylum abuse”. As many of those who arrive in Germany after fleeing their home countries cannot present a valid passport, it was seen as an effective way to detect fraudulent claims. However, the GFF says that despite thousands of such mobile phone searches, hardly any have uncovered false information.

    The GFF also argues that asylum authorities do not ensure that core areas of the asylum seekers’ rights are protected. “The BAMF is disregarding the strict constitutional rules by which the state must abide when accessing personal data,” Lea Beckmann from the GFF told Reuters.

    According to the news agency, a spokesman for BAMF said it was aware that checking mobile data was an intrusion and every case was determined by strict rules. “A mobile phone is often the only, or a very important, source to establish the identity and nationality of people entering Germany without a passport or identification documents,” he said.

    Privacy, transparency concerns

    The GFF argues that BAMF should be using mobile phone reading as a last resort, and that there are other, less drastic, means of clarifying doubts about identity. Mobile phone readouts are also extremely error-prone, the organization claims.

    The BAMF has also been criticized over a lack of transparency. For example, according to the GFF, little is known about how the software used to read and analyze the information obtained from phones actually works.
    Similarly, Reuters reports, the World Refugee Council has warned that consent for data collection is rarely sought and refugees often do not know how their data is used.

    Mohammad A.’s case is pending before a local court in the northwestern German city of Hanover. The case of an Afghan woman aged about 37 was lodged in Berlin and that of a 25-year-old woman from Cameroon, in the southwestern city of Stuttgart. The GFF hopes that the cases will lead to a constitutional review of the legal basis for mobile phone data evaluation.

    https://www.infomigrants.net/en/post/24574/migrants-sue-german-state-over-mobile-phone-searches

    #smartphone #données #Allemagne #justice #asile #migrations #réfugiés #surveillance #données_personnelles #téléphone_portable #identité #identification #procédure_d'asile #nationalité

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  • L’impensé colonial de la #politique_migratoire italienne

    Les sorties du Mouvement Cinq Étoiles, au pouvoir en Italie, contre le #franc_CFA, ont tendu les relations entre Paris et Rome en début d’année. Mais cette polémique, en partie fondée, illustre aussi l’impensé colonial présent dans la politique italienne aujourd’hui – en particulier lors des débats sur l’accueil des migrants.

    Au moment de déchirer un billet de 10 000 francs CFA en direct sur un plateau télé, en janvier dernier (vidéo ci-dessous, à partir de 19 min 16 s), #Alessandro_Di_Battista savait sans doute que son geste franchirait les frontières de l’Italie. Revenu d’un long périple en Amérique latine, ce député, figure du Mouvement Cinq Étoiles (M5S), mettait en scène son retour dans l’arène politique, sur le plateau de l’émission « Quel temps fait-il ? ». Di Battista venait, avec ce geste, de lancer la campagne des européennes de mai.
    https://www.youtube.com/watch?v=X14lSpRSMMM&feature=emb_logo


    « La France, qui imprime, près de Lyon, cette monnaie encore utilisée dans 14 pays africains, […] malmène la souveraineté de ces pays et empêche leur légitime indépendance », lance-t-il. Di Battista cherchait à disputer l’espace politique occupé par Matteo Salvini, chef de la Ligue, en matière de fermeté migratoire : « Tant qu’on n’aura pas déchiré ce billet, qui est une menotte pour les peuples africains, on aura beau parler de ports ouverts ou fermés, les gens continueront à fuir et à mourir en mer. »

    Ce discours n’était pas totalement neuf au sein du M5S. Luigi Di Maio, alors ministre du travail, aujourd’hui ministre des affaires étrangères, avait développé à peu près le même argumentaire sur l’immigration, lors d’un meeting dans les Abruzzes, à l’est de Rome : « Il faut parler des causes. Si des gens partent de l’Afrique aujourd’hui, c’est parce que certains pays européens, la #France en tête, n’ont jamais cessé de coloniser l’Afrique. L’UE devrait sanctionner ces pays, comme la France, qui appauvrissent les États africains et poussent les populations au départ. La place des Africains est en Afrique, pas au fond de la Méditerranée. »

    À l’époque, cette rhétorique permettait au M5S de creuser sa différence avec la Ligue sur le dossier, alors que Matteo Salvini fermait les ports italiens aux bateaux de migrants. Mais cette stratégie a fait long feu, pour des raisons diplomatiques. Celle qui était alors ministre des affaires européennes à Paris, Nathalie Loiseau, a convoqué l’ambassadrice italienne en France pour dénoncer des « déclarations inacceptables et inutiles ». L’ambassadeur français à Rome a quant à lui été rappelé à Paris, une semaine plus tard – en réaction à une rencontre de dirigeants du M5S avec des « gilets jaunes » français.

    En Italie, cet épisode a laissé des traces, à l’instar d’un post publié sur Facebook, le 5 juillet dernier, par le sous-secrétaire aux affaires étrangères M5S Manlio Di Stefano. À l’issue d’une rencontre entre Giuseppe Conte, premier ministre italien, et Vladimir Poutine, il écrit : « L’Italie est capable et doit être le protagoniste d’une nouvelle ère de #multilatéralisme, sincère et concret. Nous le pouvons, car nous n’avons pas de #squelettes_dans_le_placard. Nous n’avons pas de #tradition_coloniale. Nous n’avons largué de bombes sur personne. Nous n’avons mis la corde au cou d’aucune économie. »

    Ces affirmations sont fausses. Non seulement l’Italie a mené plusieurs #guerres_coloniales, jusqu’à employer des #armes_chimiques – en #Éthiopie de 1935 à 1936, dans des circonstances longtemps restées secrètes –, mais elle a aussi été l’un des premiers pays à recourir aux bombardements, dans une guerre coloniale – la guerre italo-turque de 1911, menée en Libye. Dans la première moitié du XXe siècle, l’Italie fut à la tête d’un empire colonial qui englobait des territoires comme la Somalie, la Libye, certaines portions du Kenya ou encore l’Éthiopie.

    Cette sortie erronée du sous-secrétaire d’État italien a au moins un mérite : elle illustre à merveille l’impensé colonial présent dans la politique italienne contemporaine. C’est notamment ce qu’affirment plusieurs intellectuels engagés, à l’instar de l’écrivaine et universitaire romaine de 45 ans #Igiaba_Scego. Issue d’une famille somalienne, elle a placé la #question_coloniale au cœur de son activité littéraire (et notamment de son roman Adua). Dans une tribune publiée par Le Monde le 3 février, elle critique sans ménagement l’#hypocrisie de ceux qui parlent du « #colonialisme_des_autres ».

    À ses yeux, la polémique sur le franc CFA a soulevé la question de l’effacement de l’histoire coloniale en cours en Italie : « Au début, j’étais frappée par le fait de voir que personne n’avait la #mémoire du colonialisme. À l’#école, on n’en parlait pas. C’est ma génération tout entière, et pas seulement les Afro-descendants, qui a commencé à poser des questions », avance-t-elle à Mediapart.

    Elle explique ce phénomène par la manière dont s’est opéré le retour à la démocratie, après la Seconde Guerre mondiale : #fascisme et entreprise coloniale ont été associés, pour mieux être passés sous #silence par la suite. Sauf que tout refoulé finit par remonter à la surface, en particulier quand l’actualité le rappelle : « Aujourd’hui, le corps du migrant a remplacé le corps du sujet colonial dans les #imaginaires. » « Les migrations contemporaines rappellent l’urgence de connaître la période coloniale », estime Scego.

    Alors que le monde politique traditionnel italien évite ce sujet délicat, la question est sur la table depuis une dizaine d’années, du côté de la gauche radicale. Le mérite revient surtout à un groupe d’écrivains qui s’est formé au début des années 2000 sous le nom collectif de Wu Ming (qui signifie tout à la fois « cinq noms » et « sans nom » en mandarin).

    Sous un autre nom, emprunté à un footballeur anglais des années 1980, Luther Blissett, ils avaient déjà publié collectivement un texte, L’Œil de Carafa (Seuil, 2001). Ils animent aujourd’hui le blog d’actualité politico-culturelle Giap. « On parle tous les jours des migrants africains sans que personne se souvienne du rapport historique de l’Italie à des pays comme l’Érythrée, la Somalie, l’Éthiopie ou la Libye », avance Giovanni Cattabriga, 45 ans, alias Wu Ming 2, qui est notamment le co-auteur en 2013 de Timira, roman métisse, une tentative de « créoliser la résistance italienne » à Mussolini.

    Dans le sillage des travaux du grand historien critique du colonialisme italien Angelo Del Boca, les Wu Ming ont ouvert un chantier de contre-narration historique qui cible le racisme inhérent à la culture italienne (dont certains textes sont traduits en français aux éditions Métailié). Leur angle d’attaque : le mythe d’une Italie au visage bienveillant, avec une histoire coloniale qui ne serait que marginale. Tout au contraire, rappelle Cattabriga, « les fondements du colonialisme italien ont été posés très rapidement après l’unification du pays, en 1869, soit huit ans à peine après la création du premier royaume d’Italie, et avant l’annexion de Rome en 1870 ».

    La construction nationale et l’entreprise coloniale se sont développées en parallèle. « Une partie de l’identité italienne s’est définie à travers l’entreprise coloniale, dans le miroir de la propagande et du racisme que celle-ci véhiculait », insiste Cattabriga. Bref, si l’on se souvient de la formule du patriote Massimo D’Azeglio, ancien premier ministre du royaume de Sardaigne et acteur majeur de l’unification italienne qui avait déclaré en 1861 que « l’Italie est faite, il faut faire les Italiens », on pourrait ajouter que les Italiens ont aussi été « faits » grâce au colonialisme, malgré les non-dits de l’histoire officielle.
    « La gauche nous a abandonnés »

    Au terme de refoulé, Cattabriga préfère celui d’oubli : « D’un point de vue psychanalytique, le refoulé se base sur une honte, un sentiment de culpabilité non résolu. Il n’y a aucune trace de ce sentiment dans l’histoire politique italienne. » À en croire cet historien, l’oubli colonial italien deviendrait la pièce fondamentale d’une architecture victimaire qui sert à justifier une politique de clôture face aux étrangers.

    « Jouer les victimes, cela fait partie de la construction nationale. Notre hymne dit : “Noi fummo da sempre calpesti e derisi, perché siam divisi” [“Nous avons toujours été piétinés et bafoués, puisque nous sommes divisés” – ndlr]. Aujourd’hui, le discours dominant présente les Italiens comme des victimes des migrations pour lesquelles ils n’ont aucune responsabilité. Cette victimisation ne pourrait fonctionner si les souvenirs de la violence du colonialisme restaient vifs. »

    Un mécanisme identique serait à l’œuvre dans la polémique sur le franc CFA : « On stigmatise la politique néocoloniale française en soulignant son caractère militaire, à quoi on oppose un prétendu “style italien” basé sur la coopération et l’aide à l’Afrique. Mais on se garde bien de dire que l’Italie détient des intérêts néocoloniaux concurrents de ceux des Français », insiste Cattabriga.

    L’historien Michele Colucci, auteur d’une récente Histoire de l’immigration étrangère en Italie, est sur la même ligne. Pour lui, « l’idée selon laquelle l’Italie serait un pays d’immigration récente est pratique, parce qu’elle évite de reconnaître la réalité des migrations, un phénomène de longue date en Italie ». Prenons le cas des Érythréens qui fuient aujourd’hui un régime autoritaire. Selon les chiffres des Nations unies et du ministère italien de l’intérieur, ils représentaient environ 14 % des 23 000 débarqués en Italie en 2018, soit 3 300 personnes. Ils ne formaient l’année précédente que 6 % des 119 000 arrivés. De 2015 à 2016, ils constituaient la deuxième nationalité, derrière le Nigeria, où l’ENI, le géant italien du gaz et du pétrole, opère depuis 1962.

    « Les migrations de Somalie, d’Éthiopie et d’Érythrée vers l’Italie ont commencé pendant la Seconde Guerre mondiale. Elles se sont intensifiées au moment de la décolonisation des années 1950 [la Somalie est placée sous tutelle italienne par l’ONU de 1950 à 1960, après la fin de l’occupation britannique – ndlr]. Cela suffit à faire de l’Italie une nation postcoloniale. » Même si elle refuse de le reconnaître.

    Les stéréotypes coloniaux ont la peau dure. Selon Giovanni Cattabriga, alias Wu Ming 2, « [ses collègues et lui ont] contribué à sensibiliser une partie de la gauche antiraciste, mais [il n’a] pas l’impression que, globalement, [ils soient] parvenus à freiner les manifestations de racisme » : « Je dirais tout au plus que nous avons donné aux antiracistes un outil d’analyse. »

    Igiaba Scego identifie un obstacle plus profond. « Le problème, affirme-t-elle, est qu’en Italie, les Afro-descendants ne font pas partie du milieu intellectuel. Nous sommes toujours considérés un phénomène bizarre : l’école, l’université, les rédactions des journaux sont des lieux totalement “blancs”. Sans parler de la classe politique, avec ses visages si pâles qu’ils semblent peints. »

    Ce constat sur la « blanchitude » des lieux de pouvoir italiens est une rengaine dans les milieux militants et antiracistes. L’activiste Filippo Miraglia, trait d’union entre les mondes politique et associatif, en est convaincu : « Malgré les plus de cinq millions de résidents étrangers présents depuis désormais 30 ans, nous souffrons de l’absence d’un rôle de premier plan de personnes d’origine étrangère dans la politique italienne, dans la revendication de droits. À mon avis, c’est l’une des raisons des défaites des vingt dernières années. »

    Miraglia, qui fut président du réseau ARCI (l’association de promotion sociale de la gauche antifasciste fondée en 1957, une des plus influentes dans les pays) entre 2014 et 2017 (il en est actuellement le chef du département immigration) et s’était présenté aux législatives de 2018 sur les listes de Libres et égaux (à gauche du Parti démocrate), accepte une part d’autocritique : « Dans les années 1990, les syndicats et les associations ont misé sur des cadres d’origine étrangère. Mais ce n’était que de la cooptation de personnes, sans véritable ancrage sur le terrain. Ces gens sont vite tombés dans l’oubli. Certains d’entre eux ont même connu le chômage, renforçant la frustration des communautés d’origine. »

    L’impasse des organisations antiracistes n’est pas sans rapport avec la crise plus globale des gauches dans le pays. C’est pourquoi, face à cette réalité, les solutions les plus intéressantes s’inventent sans doute en dehors des organisations traditionnelles. C’est le cas du mouvement des Italiens de deuxième génération, ou « G2 », qui réunit les enfants d’immigrés, la plupart nés en Italie, mais pour qui l’accès à la citoyenneté italienne reste compliqué.

    De 2005 à 2017, ces jeunes ont porté un mouvement social. Celui-ci exigeait une réforme de la loi sur la nationalité italienne qui aurait permis d’accorder ce statut à environ 800 000 enfants dans le pays. La loi visait à introduire un droit du sol, sous certaines conditions (entre autres, la présence d’un des parents sur le territoire depuis cinq ans ou encore l’obligation d’avoir accompli un cycle scolaire complet en Italie).

    Ce mouvement était parvenu à imposer le débat à la Chambre basse en 2017, sous le gouvernement de Matteo Renzi, mais il perdit le soutien du même Parti démocrate au Sénat. « La gauche a commis une grave erreur en rejetant cette loi, estime Igiaba Scego, qui s’était investie dans la campagne. Cette réforme était encore insuffisante, mais on se disait que c’était mieux que rien. La gauche nous a abandonnés, y compris celle qui n’est pas représentée au Parlement. Nous étions seuls à manifester : des immigrés et des enfants d’immigrés. Il y avait de rares associations, quelques intellectuels et un grand vide politique. À mon avis, c’est là que l’essor de Matteo Salvini [le chef de la Ligue, extrême droite – ndlr] a commencé. »

    Certains, tout de même, veulent rester optimistes, à l’instar de l’historien Michele Colucci qui signale dans son ouvrage le rôle croissant joué par les étrangers dans les luttes du travail, notamment dans les secteurs de l’agriculture : « Si la réforme de la nationalité a fait l’objet de discussions au sein du Parlement italien, c’est uniquement grâce à l’organisation d’un groupe de personnes de deuxième génération d’immigrés. Ce mouvement a évolué de manière indépendante des partis politiques et a fait émerger un nouvel agenda. C’est une leçon importante à retenir. »

    https://www.mediapart.fr/journal/international/241219/l-impense-colonial-de-la-politique-migratoire-italienne?onglet=full
    #colonialisme #Italie #impensé_colonial #colonisation #histoire #migrations #causes_profondes #push-factors #facteurs_push #Ethiopie #bombardements #guerre_coloniale #Libye #histoire #histoire_coloniale #empire_colonial #Somalie #Kenya #Wu_Ming #Luther_Blissett #littérature #Luther_Blissett #contre-récit #contre-narration #nationalisme #construction_nationale #identité #identité_italienne #racisme #oubli #refoulement #propagande #culpabilité #honte #oubli_colonial #victimes #victimisation #violence #néocolonialisme #stéréotypes_coloniaux #blanchitude #invisibilisation #G2 #naturalisation #nationalité #droit_du_sol #gauche #loi_sur_la_nationalité #livre

    –—
    Mouvement #seconde_generazioni (G2) :

    La Rete G2 - Seconde Generazioni nasce nel 2005. E’ un’organizzazione nazionale apartitica fondata da figli di immigrati e rifugiati nati e/o cresciuti in Italia. Chi fa parte della Rete G2 si autodefinisce come “figlio di immigrato” e non come “immigrato”: i nati in Italia non hanno compiuto alcuna migrazione; chi è nato all’estero, ma cresciuto in Italia, non è emigrato volontariamente, ma è stato portato qui da genitori o altri parenti. Oggi Rete G2 è un network di “cittadini del mondo”, originari di Asia, Africa, Europa e America Latina, che lavorano insieme su due punti fondamentali: i diritti negati alle seconde generazioni senza cittadinanza italiana e l’identità come incontro di più culture.

    https://www.secondegenerazioni.it

    ping @wizo @albertocampiphoto @karine4 @cede

  • Rohingya, la mécanique du crime

    Des centaines de villages brûlés, des viols, des massacres et 700 000 Rohingyas qui quittent la Birmanie pour prendre le chemin de l’exil. Rapidement, l’ONU alerte la communauté internationale et dénonce un « nettoyage ethnique ». Ces événements tragiques vécus par les Rohingyas ne sont que l’achèvement d’une politique de discrimination déjà ancienne. Ce nettoyage ethnique a été prémédité et préparé il y a des années par les militaires birmans. Ce film raconte cette mécanique infernale.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/57765_1
    https://www.youtube.com/watch?v=g2OjbDcBfPk


    #film #documentaire #film_documentaire #opération_nettoyage #armée_birmane #feu #incendie #réfugiés #2017 #Bangladesh #répression #Arakan #nettoyage_ethnique #génocide #préméditation #planification #moines #islamophobie #xénophobie #racisme #crime_contre_l'humanité #camp_de_réfugiés #camps_de_réfugiés #violence #crime #viol #Tula_Toli #massacre #Maungdaw #milices #crimes_de_guerre #colonisation #Ashin_Wirathu #immigrants_illégaux #2012 #camps_de_concentration #Koe_Tan_Kauk #ARSA (#armée_du_salut_des_Rohingya) #métèques #déni #Inn_Dinn #roman_national #haine #terres #justice #Aung_San_Suu_Kyi #retour_au_pays #encampement
    #terminologie #mots #stigmatisation
    –-> « La #haine passe du #discours aux actes »

    #ressources_naturelles #uranium #extractivisme #nickel —> « Pour exploiter ces ressources, vous ne pouvez pas avoir des gens qui vivent là »
    (#géographie_du_vide)

    #Carte_de_vérification_nationale —> donnée à ceux qui acceptent de retourner en #Birmanie. En recevant cette carte, ils renient leur #nationalité birmane.

    #NaTaLa —> nom utilisé par les #musulmans pour distinguer les #bouddhistes qui ont été #déplacés du reste de la Birmanie vers la région de l’Arkana. C’est les musulmans qui ont été obligés de construire, avec leur main-d’oeuvre et leur argent, les maisons pour les colons bouddhistes : « Ils nous ont enlevé le pain de la bouche et au final ils nous ont tués ». Ces colons ont participé au #massacre du village de Inn Dinn.

    A partir de la minute 36’00 —> #effacement des #traces dans le #paysage, maisons rohingya détruites et remplacées par un camp militaire —> photos satellites pour le prouver

    A partir de la minute 45’35 : la colonisation sur les #terres arrachées aux Rohingya (le gouvernement subventionne la construction de nouveaux villages par des nouveaux colons)

    ping @karine4 @reka

  • Asile : bilan en #France et en Europe pour #2019

    #Eurostat a publié le 3 mars 2020 des données relatives aux demandes d’asile, aux décisions prises et aux demandes en instance pour 2019. Cela complète des données publiées par le ministère de l’intérieur, l’#OFII et la #CNDA en janvier et permet de dresser une #cartographie de la demande d’asile en France et en Europe.
    Demandes d’asile en France : trois chiffres différents

    La particularité de la France est qu’elle ne comptabilise pas les demandes de la même manière que les autres pays européens et qu’il existe trois ou quatre données différentes.

    L’OFPRA comptabilise les demandes introduites auprès de lui, cela comprend les demandes des réinstallés qui sont,en pratique sinon en droit, exemptées d’enregistrement en GUDA, les réexamens et les demandes des « Dublinés » arrivés au terme de la procédure et qui peuvent introduire une demande OFPRA (les « requalifiés »)
    A partir de ces données, le ministère de l’intérieur transmet des donnés à Eurostat en retirant les demandes des réinstallés. Les données sont alors arrondies.
    L’OFII et le ministère de l’intérieur publient le nombre de demandes enregistrées dans les guichets unique des demandes d’asile ( GUDA) ainsi que le nombre de demandes enregistrées les années précédentes comme Dublinées qui à l’issue de la procédure, peuvent saisir l’OFPRA.

    En 2019, selon ces différentes sources, 119 915 (Eurostat), 123 530 (OFPRA), 143 040 (ministère de l’intérieur et OFII) premières demandes (mineurs compris) ont été enregistrées ou introduites soit une hausse de 10 à 11% des demandes par rapport à l’année précédente. S’ajoutent pour le chiffres du ministère de l’intérieur , 16 790 « requalifications » des années précédentes soit 171 420 demandes. Ce nombre est un nouveau record.

    Si on reprend les statistiques précédemment publiées, environ 135 000 personnes adultes ont été l’objet d’une procédure Dublin depuis 2016, environ 75 000 ont finalement accédé à la procédure OFPRA, près de 13 000 ont été transférées, un peu plus de 30 000 sont toujours dans cette procédure et près de 19 000 ont un destin indéterminé (une bonne part d’entre elles sont considérées en fuite)

    Selon le ministère de l’intérieur, un peu plus de 110 000 premières demandes adultes ont été enregistrées par les GUIDA. 39 630 étaient au départ « Dublinées » mais un peu plus de 9 000 ont vu leur demande « requalifiée en cours d’année. A la fin de l’année 51 360 demandes enregistrées en 2019 étaient en procédure normale et 37 770 en procédure accélérée (soit 26%). Si on ajoute à ce nombre, celui des requalifiés des années précédentes et les réexamens adultes, le nombre de demandes adultes est de 134 380 dont 31% sont en procédure accélérée et 25% Dublinées

    Nationalités de demandeurs d’asile

    L’Afghanistan est redevenu le premier pays de provenance des demandeurs d’asile avec selon Eurostat 10 140 demandes, principalement le fait d’adultes. Viennent ensuite deux pays considérés comme sûrs avec l’Albanie ( 9 235) et la Géorgie (8 280 demandes). La Guinée, le Bangladesh et la Côte d’Ivoire complètent le quintet de tête.

    Demandes d’asile des mineurs non accompagnés

    Le nombre de demandes des mineurs non-accompagnés est de 755 en 2019 contre 690 en 2018 soit une « hausse » de 9,4%. La première nationalité est l’Afghanistan avec 207 demandes suivi de la RDC, de la Guinée et du Burundi (vraisemblablement Mayotte).

    Réinstallations

    Le Gouvernement s’était engagé à accueillir 10 000 personnes réinstallées en 2018-2019. il a presque réalisé son objectif puisque 9 684 personnes sont arrivées dont 4 652 en 2019. La première nationalité est la Syrie avec plus de 6 600 personnes (en provenance de Turquie, du Liban et de Jordanie) , suivie de loin par le Soudan (1 372 en provenance principalement du Tchad) , l’Erythrée (474 en provenance du Niger et d’Égypte), la Centrafrique (464 en provenance du Tchad) et du Nigeria (261 en provenance du Niger)

    Décisions prises par l’OFPRA

    Selon le ministère de l’intérieur, l’OFPRA a pris près de 96 000 décisions hors mineurs accompagnants, dont 14 066 reconnaissances du statut de réfugié et 8 466 protections subsidiaires, soit un taux d’accord de 23.6% qui est en baisse par rapport à 2018.

    Les statistiques fournies par Eurostat sont nettement différentes puisque le nombre de décisions adultes est de 87 445 avec 9395 statuts de réfugiés et 8085 PS soit 20% d’accord. Cela s’explique par le fait que l’OFPRA comptabilise les statuts de réfugiés reconnus à des mineurs à titre personnel parmi les décisions « adultes » et par l’inclusion des personnes réinstallées (ce qui fait une différence non négligeable de 5 500 décisions).

    Comme pour les demandes d’asile, l’Afghanistan est la première nationalité à qui est octroyée une protection avec 4 660 décisions dont 4 235 protections subsidiaires (soit 60,3% d’accords). Malgré la baisse de la demande, le Soudan est la deuxième nationalité avec 1 915 protections (soit 59%). La Syrie arrive troisième avec 1 145 protections (sans compter les personnes réinstallées au nombre de 2 435 selon le HCR). A l’inverse, les trois pays comptabilisant le plus grand nombre de rejets sont l’Albanie (7 125, soit 6,1% d’accord), la Géorgie (7 080, soit 3,2% d’accord) et la Guinée ( 5 920, soit 10,1%).

    Quant aux décisions prises pour les mineurs, le taux d’accord est de 67% variant de 100% pour le Yemen, 95% pour le Burundi, 83% pour l’Afghanistan. En comptant les annulations CNDA le taux d’accord est de 82%.

    Une année exceptionnelle pour la CNDA

    La Cour nationale du droit d’asile qui a publié un rapport d’activité a quant à elle enregistré un peu plus de 59 000 recours dont 42% devaient être jugés en cinq semaines.

    La principale nationalité qui a déposé des recours est l’Albanie suivie de la Géorgie de la Guinée,du Bangladesh et de l’ Afghanistan.

    La répartition régionale réserve quelques surprises avec un poids relatif de certaines régions plus important que celui des demandes d’asile (notamment pour la Bourgogne Franche Comté et l’Occitanie). Il s’agit de régions où les ressortissants de pays d’origine sûrs sont assez nombreux.

    Le nombre de demandes et de décisions sur l’aide juridictionnelle est assez logiquement à la hausse avec plus de 51 000 demandes. Le bureau d’aide juridictionnelle a pris un nombre équivalent de décisions, favorables pour 94% des cas (contre 96% en 2018 , ce qui montre l’impact de la disposition de la loi obligeant à formuler cette demande dans un délai de quinze jours).

    La CNDA a pris un nombre record de 66 464 décisions dont 44 171 après une audience collégiale ou de juge unique et plus de 22 000 ordonnances, soit 33.5% des décisions.

    Pour les décisions prises après une audience, le taux d’annulation est de 35% en collégiale, de 23% pour celles à juge unique.

    Le délai moyen constaté pour les premières est de 294 jours, de 120 jours pour les secondes. Le délai moyen constaté est de 218 jours donc on peut déduire que les ordonnances sont prises dans un délai de 169 jours

    Le « stock » de dossiers s’est réduit à 29 245 dossiers (soit environ 35 000 personnes, mineurs compris) contre 36 388 en 2018. En conséquence, le délai moyen prévisible est de 5 mois et 9 jours. Cette baisse contraste avec l’augmentation sensible à l’ofpra (58 000 dossiers adultes en novembre).

    En ce qui concerne les nationalités, le plus grand nombre de décisions ont été prises pour des demandes albanaises, géorgiennes, ivoiriennes, guinéennes et haïtiennes. la Guinée devient la première. nationalité pour le nombre de reconnaissances du statut devant le Soudan et la Syrie (principalement des requalifications) Mais ce sont les Afghans avec 1 729 protections dont 1 208 PS , à qui la CNDA accorde le plus de protections (75% d’annulation) . A l’inverse, le taux d’accord est de 3% pour la Géorgie et de 1% pour la Chine (vraisemblablement massivement par ordonnances)

    On peut estimer le nombre de décisions définitives. Le taux d’accord est alors de 35% contre 41% en 2019.

    A la fin de l’année 2019 environ 110 000 demandes étaient en cours d’instruction à l’OFPRA ou la CNDA avec un nombre très important de dossiers afghans et bangladais.

    Un dispositif d’accueil saturé ?

    En données brutes, selon l’OFII, le dispositif national d’accueil comptait 81 866 places stables fin 2019 . Parmi elles, 78 105 soit 95.4% étaient occupées. 73 468 personnes sont entrées dans un lieu contre 73 396 en 2018 dont 13 372 Afghans et 65 079 en sont sorties (contre 66 006 en 2018)

    Parmi les 71 805 places, 53 319 sont occupées par des demandeurs à l’OFPRA, 7 201 par des Dubliné·e·s (soit à peine 20% de cette catégorie), 12 306 par des réfugié·e·s et 5 279 par des débouté·e·s. Les personnes « en présence indue » représente 12.3% des places.

    Mais à regarder de plus près, ces chiffres semblent erronées. D’abord parce que le parc géré par l’OFII est en diminution (81 866 contre 93 000 en 2018) car il a été décidé d’exclure les places CAES et les hébergement non stables (hôtels). Mais le bât blesse encore plus lorsque l’on compare les données du ministère et celle de l’OFII : il manque ainsi plus de 2 360 places de CADA, 369 places de PRADHA et 600 places d’HUDA stables (les hôtels avoisinant 11 000 places)

    Dès lors, si on rapporte le nombre de personnes présentes à celui des places autorisées fourni par le ministère, le taux d’occupation dans les CADA est de 90% et même en deçà dans trois régions (AURA, Nouvelle Aquitaine, et Occitanie) et de 93% au total (soit 7 000 places vacantes ou non répertoriées à la fin de l’année). En clair, c’est la confirmation qu’il y a un sérieux problème d’attribution des places CADA (et des CPH) . Surtout la moitié des personnes qui demandent asile ne sont pas hébergées avec des grandes variations entre régions (71.5% en Ile-de-France et 12% en Bourgogne-Franche-Comté)

    La France au coude à coude avec l’Allemagne.

    Pour la première fois depuis 2012, la France a enregistré plus de premières demandes que l’Allemagne : 143 030 contre 142 450. C’était déjà le cas pour les premières demandes adultes depuis 2018 mais le nombre de mineurs était nettement plus important outre-Rhin. L’Espagne, qui est devenue le troisième pays d’accueil en Europe, compte plus de premières demandes adultes que l’Allemagne. En revanche, l’Allemagne reste en tête si on comptabilise les réexamens. Le nombre de demandes d’asile en Italie a diminué de moitié tandis que la Grèce connait une forte hausse avec 77 200 demandes.

    Quant aux décisions de première instance, l’Italie a « déstocké » massivement en prenant plus de 88 000 décisions adultes dépassant légèrement la France. L’Espagne a délivré des statuts humanitaires aux nombreux vénézuéliens qui ont demandé asile.

    Enfin la situation est contrastée en ce qui concerne les demandes d’asile en instance. L’Italie a diminué de moitié ce nombre, L’Allemagne l’a réduit de 40 000 tandis que l’Espagne et la Grèce ont dépassé les 100 000 demandes en instance. La France qui frôle les 80 000 dossiers en instance à l’OFPRA (donc sans compter les 50 000 Dublinés en cours d’instruction) a connu une forte hausse.

    https://www.lacimade.org/asile-bilan-de-lasile-en-france-et-en-europe2019
    #asile #statistiques #chiffres #visualisation (mais elle est tellement moche que ça fait mal aux yeux...) #Dublin #recours #demandes_d'asile #nationalité #MNA #mineurs_non_accompagnés #réinstallation #décisions #accueil #hébergement #taux_d'acceptation

    ping @reka @isskein @karine4

    • Dispositif d’#accueil des demandeurs d’asile : état des lieux 2020

      Etat des lieux des dispositifs d’accueil et d’hébergement dédiés aux personnes demanderesses d’asile et réfugiées.

      43 600 PLACES DE CADA
      Au 1er janvier 2020, le dispositif national d’accueil compte environ 43 600 places autorisées de centres d’accueil pour demandeurs d’asile (#CADA). Le parc est principalement situé en Ile- de-France, Auvergne-Rhône-Alpes et Grand Est. Cependant, ce sont les régions Pays de la Loire, Bretagne, Nouvelle Aquitaine et Occitanie qui ont connu le plus grand nombre de créations. Le principal opérateur est #ADOMA devant #COALLIA, #FTDA, #Forum_réfugiés-Cosi. A l’occasion des appels à création des dernières années , le groupe #SOS et #France_Horizon ont développé un réseau important.

      Selon le ministère de l’intérieur, le dispositif est destiné à accueillir des personnes dont la demande est en procédure normale et les plus vulnérables des personnes en procédure accélérée

      64 500 PLACES D’AUTRES LIEUX D’HÉBERGEMENT (APPELÉS GÉNÉRIQUEMENT #HUDA)
      Pour pallier le manque de places de CADA, un dispositif d’#hébergement_d’urgence_des_demandeurs_d’asile (HUDA) s’était développé au cours des décennie 2000 et 2010. Ce dispositif est géré régionalement. Il est très développé en Auvergne-Rhône-Alpes et dans le Grand Est et a intégré en 2019 les 6 000 places d’#ATSA qui naguère était géré par le ministère et l’#OFII central et la majorité des places dites CHUM qui existaient en Ile-de-France. Selon la circulaire du 31 décembre 2018, ce dispositif est destiné à accueillir des personnes en #procédure_accélérée ou Dublinées. 36% des places sont des nuitées d’hôtel notamment à Paris, à Lyon, à Marseille ou à Nice. Une information du ministère de l’intérieur du 27 décembre 2019 veut réduire cette part à 10% en ouvrant des structures stables.

      Mis en place pour orienter des personnes vivant dans le campement de la Lande à Calais et développé pour son démantèlement, le dispositif des centres d’accueil et d’orientation (#CAO) a compté selon le ministère de l’intérieur 10 000 places dont 2 000 ont été dédiés à des mineurs entre novembre 2016 et mars 2017. Ce dispositif a été rattaché budgétairement depuis 2017 aux crédits de la mission asile et immigration (BOP 303) et est géré depuis par l’OFII. Ces places sont intégrés dans le dispositif HUDA

      5 351 places ont été créées dans le cadre d’un programme d’accueil et d’hébergement des demandeurs d’asile (#PRAHDA). Lancé par appel d’offres en septembre 2016 remporté pour tous les lots par ADOMA, il consiste en grande partie en des places situées dans d’anciens #hôtels formule 1, rachetés au groupe #Accor. Ces places, gérées par l’OFII, accueillent pour moitié des personnes isolées, qui ont demandé l’asile ou qui souhaitent le faire et qui n’ont pas été enregistrées. Ce dispositif s’est spécialisé dans beaucoup de lieux dans l’hébergement avec #assignation_à_résidence des personnes Dublinées notamment ceux situés à proximité d’un #pôle_régional_Dublin. Cependant des personnes dont la demande est examinée à l’OFPRA ou à la CNDA y sont également logées.

      Dernier dispositif mis en place en 2017 mais destiné aux personnes qui souhaitent solliciter l’asile, les #centres_d’accueil_et_d’étude_de_situations (#CAES) comptent environ 3000 places. Leur particularité est un séjour très bref (en théorie un mois, deux mois en réalité) et d’avoir un accès direct aux #SPADA.

      L’ensemble des structures sont des lieux d’hébergement asile où l’accueil est conditionné à la poursuite d’une demande d’asile. Des arrêtés du ministre de l’intérieur en fixent le cahier des charges, le règlement intérieur et le contrat de séjour. L’OFII décide des entrées, des sorties et des transferts et les personnes qui y résident sont soumises à ces prescriptions, notamment à ne pas les quitter plus de sept jours sans autorisation ou peuvent y être assignées à résidence.

      Enfin, environ 1000 places de #DPAR sont destinées à l’assignation à résidence des déboutées du droit d’asile sur orientation des préfets et de l’OFII. Ces structures sont financées par une ligne budgétaire distincte des autres lieux.

      PLUS DE 8 700 PLACES DE #CPH POUR LES BÉNÉFICIAIRES DE PROTECTION INTERNATIONALE.
      Historiquement, première forme de lieu d’accueil lié à l’asile, le centre provisoires d’hébergement accueille des réfugié·e·s et des bénéficiaires de la protection subsidiaire. Limité pendant vingt ans à 1 083 places, le dispositif a connu un doublement avec la création de 1 000 places supplémentaires en 2017. 3 000 places supplémentaires ont été créées en 2018 et 2000 autres en 2019 soit 8 710 places.

      Pour accélérer les arrivées de personnes réinstallées, l’État a mis en place des centres de transit d’une capacité de 845 places au total.

      En tout le dispositif d’accueil dédié compte plus de 108 000 places. Selon l’OFII, il est occupé à 97% soit 87 000 personnes hébergées dont 75% ont une demande d’asile en cours d’examen.

      Cependant il reste en-deça des besoins d’hébergement car le nombre de demandeurs d’asile en cours d’instance bénéficiant des conditions d’accueil est de 152 923 en octobre 2019 contre 127 132 en mai 2018. Une partie des places (environ 25%) est occupée par des personnes qui ne sont pas encore ou plus demanderesses d’asile (demandes d’asile non enregistrées dans les CAES, bénéficiaires de la protection internationale ou déboutées). Malgré la création massive de places, le dispositif national d’accueil n’héberge que les deux cinquièmes des personnes. En conséquence, plus de 70 000 personnes perçoivent le montant additionnel de l’allocation pour demandeur d’asile de 7,40€ par jour pour se loger. Environ 20 000 autres sont dépourvues de ces conditions car ayant demandé l’asile plus de 90 jours après leur arrivée, ayant formulé une demande de réexamen ou sont considérés en fuite.

      https://www.lacimade.org/schemas-regionaux-daccueil-des-demandeurs-dasile-quel-etat-des-lieux

      #Dublinés

  • Inde : l’État du #Kerala refuse à son tour d’appliquer la loi sur la citoyenneté

    Ce sont désormais les États qui refusent la loi sur la citoyenneté, jugée discriminatoire contre les musulmans. Après le #Bengale-Occidental et le #Punjab, le Kerala a annoncé qu’il n’appliquera pas cette mesure. Le #Maharashtra menace lui aussi de rejoindre ces États rebelles.

    Après les citoyens, les dirigeants ? Plusieurs États Indiens ont annoncé qu’ils refusaient la loi sur la citoyenneté facilitant l’accueil de réfugiés non-musulmans. C’est le cas du Bengale-Occidental, directement concerné puisque voisin du Bangladesh, du Punjab, frontalier du Pakistan, mais aussi à la pointe sud de l’Inde, du Kerala.

    Avec ses 35 millions d’habitants, cet État est connu pour être dirigé par des partis de gauche à forte tradition laïque. Jeudi dernier, son ministre en chef a été clair : « Cette loi fait partie d’un plan pour communautariser l’Inde. Elle n’a pas sa place au Kerala et n’y sera pas implémentée. »

    Le Kerala abrite une proportion de musulmans importante et les manifestations y sont particulièrement violentes. Ce mardi, 230 personnes ont été arrêtées par la police. Dans la foulée, 20 stars du cinéma Kéralais ont exprimé leur soutien à ces opposants

    Après le Kerala, le Maharashtra ?

    Les regards sont maintenant tournés vers l’État du Maharashtra, avec 115 millions d’habitants et la capitale économique Bombay. Son ministre en Chef a déclaré ce mardi qu’il pourrait bien lui aussi ne pas appliquer la loi.

    La confusion règne cependant sur ces déclarations de rébellion politique : il est en principe impossible pour un État de ne pas appliquer une loi votée par le Parlement national.

    http://www.rfi.fr/asie-pacifique/20191218-inde-etat-kerala-refuse-son-tour-appliquer-loi-citoyennete?ref=tw_i

    #résistance #Inde #xénophobie #islamophobie #citoyenneté #nationalité #apatridie

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    Les manifestations et résistance des citoyens :
    https://seenthis.net/messages/815991

    La source des protestations : le « Citizenship (Amendment) Act » :
    https://seenthis.net/messages/799546

  • How India is resisting #Citizenship_Amendment_Bill (#CAB) : A story in powerful pictures

    One of the pictures that have come to define the protests is of three girls standing on a wall and addressing a sea of protesters at Jamia Millia Islamia.

    India is currently witnessing two kinds of protests against CAA or the Citizenship (Amendment) Act, 2019. In the northeast states of India, the protest is against the Act’s implementation in their areas, as many fear it will cause a rush of immigrants that may alter their demographic and linguistic uniqueness. In the rest of India, like in Kerala, West Bengal and New Delhi, people are protesting against the exclusion of Muslims, alleging it to be against the values of the Constitution.

    The protests erupted across the country after the Citizenship (Amendment) Bill was passed by both houses of Parliament and received Presidential assent soon after. The Act, which gives citizenship to non-Muslim refugees who escaped religious persecution in Pakistan, Bangladesh and Afghanistan and entered the country before December 31, 2014, has been widely criticised. The amended Act has put the entire Northeast region and West Bengal on the boil as people fear that it might exacerbate the problem of illegal immigration.

    Violent protests were seen in New Delhi’s Jamia Millia Islamia; parts of Assam are on lockdown; several peaceful demonstrations against the Act were held in various parts of the country; and more have been planned in the coming days across the country.

    While registering their protests, the protesters have been shouting slogans, singing songs and reading the Constitution as well.

    One of the pictures that have come to define the protests is of three girls standing on a wall and addressing a sea of protesters at Jamia Millia Islamia. But there are several other powerful pictures of the protests across the country that underscore why people from all sections of society consider the Act unconstitutional.

    https://www.thenewsminute.com/article/how-india-resisting-cab-story-powerful-pictures-114137
    #protestation #manifestations #résistance #Inde #xénophobie #islamophobie #citoyenneté #nationalité #apatridie

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    La source des protestations : le « Citizenship (Amendment) Act » :
    https://seenthis.net/messages/799546

    ping @odilon

    • Inde : cinq morts dans des manifestations contre la loi sur les réfugiés

      Cinq personnes ont péri depuis le début des manifestations dans le nord-est de l’Inde contre une loi facilitant l’obtention de la nationalité indienne par des réfugiés à condition qu’ils ne soient pas musulmans, ont annoncé dimanche les autorités.

      Dans certaines zones, internet a été coupé et un couvre-feu a été imposé pour tenter d’endiguer la contestation.

      La tension demeurait forte dans la plus grande ville de l’Etat d’Assam, où une nouvelle manifestation était attendue dimanche.

      La nouvelle loi facilite l’attribution de la citoyenneté indienne aux réfugiés d’Afghanistan, du Bangladesh et du Pakistan, à condition qu’ils ne soient pas musulmans. Elle concerne des minorités religieuses dont les hindous et les sikhs.

      En Assam, trois personnes sont décédées à l’hôpital après avoir été touchées par des balles tirées par la police. Une quatrième a péri dans l’échoppe où il dormait qui a été incendiée. Une cinquième personne a été battue à mort, selon les autorités.

      La circulation des trains a été suspendue dans certaines parties de l’est du pays à la suite de violences dans l’Etat du Bengale occidental où des manifestants ont incendié des trains et des cars.

      Le ministre de l’Intérieur Amit Shah a de nouveau lancé dimanche un appel au calme en affirmant que les cultures locales des Etats du Nord-Est n’étaient pas menacés, alors que certains redoutent un afflux d’immigrants du Bangladesh.

      « La culture, la langue, l’identité sociale et les droits politiques de nos frères et soeurs du Nord-Est demeureront », a déclaré M. Shah lors d’un rassemblement dans l’Etat de Jharkhand, selon la chaîne de télévision News18.

      L’opposition et des organisations de défense des droits de l’homme estiment que cette loi fait partie du programme nationaliste de M. Modi visant selon elles à marginaliser les 200 millions d’Indiens musulmans.

      Le vote de la loi a donné lieu cette semaine à des flambées de colère dans les deux chambres du parlement, un député allant jusqu’à la comparer aux lois anti-juives promulguées par le régime nazi en Allemagne dans les années 1930.

      https://www.courrierinternational.com/depeche/inde-cinq-morts-dans-des-manifestations-contre-la-loi-sur-les

  • En #Côte_d’Ivoire, une vie suspendue dans le temps pour les éleveurs peuls

    Dans la chaleur de l’après-midi, une dame âgée se penche en avant dans la pièce sombre.

    « On me considère comme une étrangère ici. C’est très désagréable, mais que faire ? »

    Aminata Sidibé calcule son âge en se basant sur l’année de son mariage et celle de l’indépendance de la Côte d’Ivoire. Les deux événements ont eu lieu en 1960. Elle pense qu’elle avait 15 ans à l’époque. Elle serait donc aujourd’hui âgée de 74 ans, ou plus.

    Aminata ne connaît peut-être pas son âge exact mais, à sa manière, elle a ses certitudes : « je suis née, je me suis mariée et j’ai eu mes enfants ici. Et c’est ici que j’ai des petits-enfants et même des arrière-petits-enfants. »

    « On me considère comme une étrangère ici. C’est très désagréable, mais que faire ? »

    Aminata Sidibé et sa famille sont des Peuls, un groupe ethnique d’éleveurs de bétail disséminés dans une douzaine de pays d’Afrique. Bien qu’elle soit la matriarche d’une famille élargie de 45 personnes dont les racines remontent à plusieurs générations en Côte d’Ivoire, pour le pays où vit Aminata, elle et les siens sont des étrangers.

    Le problème de sa famille s’explique par l’absence de citoyenneté que la Côte d’Ivoire ne reconnait que par le droit du sang en réclamant qu’au moins l’un des parents soit ivoirien. Il ne suffit pas d’être né en Côte d’Ivoire. Officiellement, Aminata et le reste de sa famille sont des « Burkinabés », des descendants de ressortissants du Burkina Faso voisin, une distinction qui les expose aux risques de l’apatridie. Du fait que plusieurs générations aient vécu hors du territoire, le Burkina Faso ne peut pas non plus les reconnaître en tant que citoyens.

    « Nous n’avons pas notre place ici », explique le fils d’Animata, Seydou Tall, 56 ans, né en Côte d’Ivoire et titulaire d’un certificat de naissance. Seydou possède un large troupeau. « Je ne veux pas d’une carte consulaire disant que je suis du Burkina Faso. Je ne le suis pas. Je veux avoir la nationalité de mon pays. »

    Dans le monde entier, on recense des millions de personnes sans nationalité. Toute leur vie, les apatrides sont confrontés à des inégalités et à des obstacles qui les empêchent d’exercer leurs droits fondamentaux tels que l’éducation, les soins de santé, l’emploi et la libre circulation.

    En Côte d’Ivoire, le nombre de personnes dépourvues de documents d’identité et risquant l’apatridie - comme les Peuls - est préoccupant. La Côte d’Ivoire a évalué sa population apatride à près de 700 000 personnes à la fin 2017. Cependant, une étude détaillée actuellement en préparation devrait permettre d’obtenir un nombre plus précis et beaucoup plus élevé de personnes apatrides ou risquant l’apatridie.

    Seydou explique qu’avec la nationalité ivoirienne, les membres de sa famille pourraient trouver des emplois qualifiés. Sans certificat de nationalité, ils ne peuvent pas postuler à un emploi formel, ni ouvrir un compte bancaire ou obtenir un permis de conduire.

    Les Peuls sont éleveurs de bétail, sans avoir le droit d’acheter des terres. Le droit de la famille qui s’applique à leurs terres dépend d’un accord privé avec l’ancien propriétaire qui ne leur confère aucune prérogative légale.

    Pour la famille, le chemin vers la citoyenneté est long. Monique Saraka, secrétaire générale de l’Association ivoirienne des femmes juristes, s’est rendue dans la petite ville pour dispenser des conseils à la famille sur leur statut.

    « Beaucoup de Peuls n’ont pas reçu d’éducation formelle et craignent de s’adresser aux autorités », déclare-t-elle. « La plupart n’ont même pas de certificat de naissance. »

    Monique Saraka prédit que, malheureusement, leur chemin vers la nationalité sera difficile ; les membres de la famille devraient déposer une demande de naturalisation.

    « C’est un processus long et lent », concède-t-elle. « Les personnes qui soumettent une demande peuvent attendre 10 ans, ou davantage encore. De plus, il y a la question du coût. Donc, les personnes, surtout dans les régions rurales, sont confrontées à tout cela et se découragent. Elles abandonnent. »

    Son association, avec l’appui du HCR, l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés, plaide depuis 2015 pour que des changements soient apportés au système de demande de naturalisation. Le premier objectif est de faciliter l’obtention des documents de base, comme les certificats de naissance. Le gouvernement est sur le point d’adopter une loi rendant le processus gratuit pendant un an.

    Lever les obstacles à l’obtention de la nationalité ivoirienne prendra beaucoup plus de temps. Une loi temporaire ivoirienne facilitant la naturalisation a expiré en 2016.

    « Nous espérons que cette loi sera réintroduite et ajoutée à celle portant sur la nationalité. Ces personnes sont en Côte d’Ivoire depuis quatre générations », explique Monique Saraka. « Il est difficile de les imaginer avec une autre nationalité qu’ivoirienne. »

    La bonne nouvelle, c’est qu’à l’exception d’Aminata qui a perdu ses papiers après le décès de son mari, toutes les générations de sa famille ont un certificat de naissance. Alors que leur quête de citoyenneté ivoirienne se poursuit, les plus jeunes enfants peuvent au moins aller à l’école et s’imaginer un avenir avec les avantages d’une nationalité.

    « J’aime l’histoire, j’aime apprendre le passé », s’enthousiasme Boukary, 15 ans, qui va à l’école depuis cinq ans. « J’aimerais être policier. Je veux parler aux gens et séparer les bons des mauvais. »

    Adiba et Aïsha ont respectivement 13 et 12 ans, et toutes deux veulent devenir enseignantes. Cependant, sans document d’identité, elles ne peuvent pas poursuivre leurs études au-delà de l’enseignement secondaire.

    Dans sa chambre, Aminata, la matriarche, semble résignée à son statut actuel mais elle garde espoir.

    « Je laisse à mes fils le soin de prendre les décisions concernant les papiers », partage-t-elle. « Les gens peuvent dire ce qu’ils veulent, je ne me suis jamais sentie menacée. Même s’ils disent que je suis une étrangère, je leur pardonne. Je m’en remets à Dieu. »

    https://www.unhcr.org/fr/news/stories/2019/5/5cd52d4fa/cote-divoire-vie-suspendue-temps-eleveurs-peuls.html
    #apatridie #peuls #éleveurs #nationalité #citoyenneté

  • When Home Won’t Let You Stay

    When Home Won’t Let You Stay: Migration through Contemporary Art considers how contemporary artists are responding to the migration, immigration, and displacement of peoples today. We are currently witnessing the highest levels of movement on record—the United Nations estimates that one out of every seven people in the world is an international or internal migrant who moves by choice or by force, with great success or great struggle. When Home Won’t Let You Stay borrows its title from a poem by Warsan Shire, a Somali-British poet who gives voice to the experiences of refugees. Through artworks made since 2000 by twenty artists from more than a dozen countries — such as Colombia, Cuba, France, India, Iraq, Mexico, Morocco, Nigeria, Palestine, South Korea, the United Kingdom, and the United States — this exhibition highlights diverse artistic responses to migration ranging from personal accounts to poetic meditations, and features a range of mediums, including sculpture, installation, painting, and video. Artists in the exhibition include Kader Attia, Tania Bruguera, Isaac Julien, Hayv Kahraman, Reena Saini Kallat, Richard Mosse, Carlos Motta, Yinka Shonibare, Xaviera Simmons, and Do-Ho Suh, among others. A fully illustrated catalogue accompanies the exhibition, with an essay by Eva Respini and Ruth Erickson and texts by prominent scholars Aruna D’Souza, Okwui Enwezor, Thomas Keenan, Peggy Levitt, and Uday Singh Mehta, among others.

    https://www.icaboston.org/exhibitions/when-home-won%E2%80%99t-let-you-stay-migration-through-contemporary-art
    #asile #migrations #frontières #réfugiés #monde #art_et_politique #exposition

  • The two contrasting sides of German refugee policy

    ‘They try to integrate some people while really try to get rid of others.’

    Four years after Chancellor Angela Merkel opened the doors to around one million refugees and asylum seekers, Germany continues to mull over the long-term consequences of its great welcome. It still grapples with fundamental questions about how refugees should integrate and, for the tens of thousands of asylum seekers whose futures remain in limbo, who should be allowed to stay and who will be returned home?

    Mohammad Zarzorie, a Syrian engineer, counts himself a success story. After fleeing to Germany via Greece and the Balkans in 2015, he received his refugee status within months, quickly learned to speak German, and through an employment fair soon found his job at a chromium plating manufacturer on the outskirts of Munich.

    Two years later, his wife followed him, and although a housing crisis means they must live in an apartment attached to the factory, he has found peace and contentment here in the industrial heartland of Bavaria, in southern Germany.

    “From a land that’s under war to (there) being nothing difficult for you to start your life in another safe country, it wasn’t difficult for me,” says Zarzorie, a university teaching assistant before conflict erupted in Syria.

    “There was no challenge,” Zarzorie says. “Here in Germany they have this benefits system. They help you a lot to start integrating with society.”

    Returning to the engineering work he was pursuing in Syria has been the foundation on which he has built a new life, and he eagerly wants more Syrians in Germany to enter employment. “I think they must (work) because you can’t start your life if you don’t work,” he says.

    But not all new arrivals to Germany share his good fortune and have the opportunity to work.

    Bavaria, Zarzorie’s new home, is consistently one of the most conservative and anti-migrant states in Germany. It has deported more than 1,700 people so far this year, and drawn severe criticism from human rights groups for continuing to send hundreds of migrants to Afghanistan, which no other German state considers a safe country for return.

    “The image is deliberately created that refugees do not want to work, or are inactive, and this increases resentment against refugees.”

    “Sometimes you need to make things clear to people who are naive and confused and think that migration is nothing more than making things a bit more multicultural,” Bavaria’s Interior Minister Joachim Herrmann said in August. “Asylum law applies, but we cannot accept everyone. Because that overburdens us.”

    “It’s paradoxical,” says Gülseren Demirel, responsible for migration and integration for the Bavarian Green Party, which opposes Herrmann’s Christian Social Union. “The Bavarian economy is strong and also offers jobs that can’t be staffed. The chambers of commerce and civil society groups try to integrate the refugees, but the political conditions do not allow this.

    “The consequence is that refugees are not allowed to work and can’t develop any perspectives,” she adds. “The image is deliberately created that refugees do not want to work, or are inactive, and this increases resentment against refugees.”
    Rejected, but ‘tolerated’

    Bringing new arrivals into the workforce has been the cornerstone of Germany’s integration efforts since 2015.

    The benefits are two-fold: they can become self-dependent and assimilate socially, while at the same time plugging the country’s severe labour shortage, which has left almost 1.4 million positions vacant and will require 250,000 immigrants per year to address.

    The results have exceeded expectations. Around 36 percent of refugees between 15 and 60 – around 380,000 to 400,000 people – are now in employment, according to Germany’s Institute for Employment Research, which expects that number to rise to around 40 percent before the end of the year. While many remain in low-wage work as cleaners or security personnel, half are in skilled professions.

    But around a quarter of a million migrants who have had their asylum cases rejected remain in the country, despite being required to leave. Of these, 191,000 have been granted a ‘toleration’ – a temporary status meaning their deportation has been postponed for reasons such as illness, family ties to a person with residency, or a lack of travel documents.

    Around 11,500 failed asylum seekers were deported in the first half of this year – a slight decline on 2018. But the possibility of deportation remains a very real fear for those with ‘tolerations’, which are usually provided on a rolling basis, lasting only a few weeks or months at a time.

    Even if they attempt to find work and learn the language, they often find themselves subject to arbitrary decisions at the hands of Germany’s formidable bureaucracy.

    The decision on whether to grant asylum is made at a national level, but once a person’s claim has been rejected what follows is largely determined by state or local administrations, which are granted wide discretion, leading to wildly divergent situations depending on where a person is located.

    “(Local offices) often decide whether you can get a work permit, and you need a work permit for getting an apprenticeship permit, which then is very often the way for consolidating your right to stay,” explains Simon Sperling, a researcher at the University of Osnabruck’s Institute of Migration Research and Intercultural Studies.
    ‘It’s not how I was before’

    Like Zarzorie, Johnson Nsiah, from Ghana, also arrived in Germany after crossing the Mediterranean in 2015. He was sent to live in Kempten, a large town in Bavaria around two hours drive west of Munich.

    After fleeing his home when a local dispute threatened his life, he crossed the Sahara to Libya, where he worked as a builder and painter for two years. There, he met Julia*, a Nigerian woman, and helped her escape from her abusive employer. The employer then threatened to kill them both, forcing them to pay for space aboard an inflatable boat, which was intercepted by an Italian navy ship that brought them to Europe.

    The couple are now married. Julia, along with their two children – a four-year-old born in Italy and a two-year old born in Kempten – have the right to remain in Germany, but Nsiah’s asylum claim has been rejected and he is required to leave the country.

    Because of his family, Nsiah has been granted a ‘toleration’, in the form of a paper slip, valid for six months, which fixes the boundaries of his life. It does not permit him to work, travel outside Bavaria, or live outside the apartment block in which his family resides – a former mental hospital repurposed to house over 100 asylum seekers and refugees.

    The local administrative office has demanded Nsiah return to Ghana to obtain a passport, which he says is financially impossible and would amount to a death sentence due to the continued threats made against him. The restrictions have put a heavy toll on his mental and physical health. Stress has contributed to painful migraines that caused him to drop out of language classes.

    “It’s not how I was before,” he says, gesturing towards the hearing aids protruding from both his ears. “Because of stress, all those things, they make me like this.”

    Nsiah believes his many years of experience should easily lead to a job in construction or painting, and it angers him that that he is limited to cleaning the apartment building for 60c an hour while other Ghanaians he met in 2015 have been working freely in Hamburg and Stuttgart for years.
    Separation by nationality

    In June, the German parliament approved a raft of new asylum laws, including some measures to strengthen the rights of rejected asylum seekers in steady jobs, but also others that lengthened maximum stays in detention centres and streamlined deportations.

    For Sperling, the origins of this contradictory approach date back to 2015, when German authorities quietly began to separate arrivals based on their nationality, which greatly influences their chances of a successful asylum application.

    “The politics is very ambivalent in this sense: they try to integrate some people while really try to get rid of others.”

    Syrians, Iraqis, and Eritreans were all deemed to have good prospects and shuffled quickly into courses to help them integrate and find work. Others, especially those from West Africa and the Balkans, had a less favourable outlook, and so received minimal assistance.

    “Germany invested in language courses and things like that, but at the same time also really pushed forward to isolate and disintegrate certain groups, especially people who are said to not have have good prospects to stay,” he says.

    “The politics is very ambivalent in this sense: they try to integrate some people while really try to get rid of others.”

    But while some have undeniably built new lives of great promise, the lives of many of those 2015 arrivals remain in limbo.

    On the street, Nsiah says, Germans have racially abused him and berated him for refusing to work, a bitter irony not lost on him.

    “It’s not our fault. No refugee here doesn’t want to work,” he says, his voice smarting.

    “The only thing I need to be happy... (is) to work and take care of my family, to live with my family, because my wife doesn’t have anybody and I cannot leave her alone with these children.”
    The two extremes

    The local immigration office in Bavaria has shown a reluctance to grant permits for work or to access to three-year apprenticeships, which if pursued by someone like Nsiah would almost certainly lead to a job offer and a secure residence permit.

    It also frequently imposes restrictions on movement with breaches punishable by heavy fines. An Iraqi man in Kempten showed The New Humanitarian a picture of his seriously ill wife lying on a hospital bed in Saxony, whom he cannot visit because his pass restricts him to Bavaria; while an Iranian man said that for eight years his pass did not permit him to stray beyond the town boundary.

    Moving to another district or state might be beneficial, but these onerous stipulations, combined with a chronic shortage of rental accommodation throughout Bavaria, make it nearly impossible for those on low or non-existent incomes.

    Zarzorie, meanwhile, hopes to find his own house in Munich, raise children and finish the master’s degree he first embarked upon in Aleppo.

    There is still adjusting to do, to what he calls the different “life-cycle” in Munich. Unlike his memories of Syria, in which cafés and streets buzzed with chatter until the early hours of the morning, the boulevards here fall quiet long before midnight.

    That’s why he’s drawn most evenings to Marienplatz, a square in the city’s old quarter where its historic town hall overlooks modern cafes and restaurants, and the crowds stay out late enough that it almost reminds him of home.

    https://www.thenewhumanitarian.org/news-feature/2019/11/11/German-refugee-integration-policy
    #Allemagne #intégration #asile #migrations #réfugiés #renvois #machine_à_expulser #politique_d'asile #réfugiés_syriens #catégorisation #nationalité #réfugiés_irakiens #réfugiés_érythréens #réfugiés_afghans #renvois #expulsion

    ping @_kg_

  • Par le sol et par le sang. Le droit de la nationalité dans le monde

    Quels pays facilitent, quels pays entravent l’acquisition de la nationalité pour les enfants d’immigrés ? Cet essai dresse un état des lieux contrasté, selon l’application du droit du sol ou du sang, avec des conditions ou discriminations particulières.


    https://laviedesidees.fr/Par-le-sol-et-par-le-sang.html
    #ius_soli #jus_sanguinis #nationalité #monde #droit #citoyenneté #droit_du_sang #droit_du_sol #cartographie #visualisation

    ping @karine4

  • En #Inde, près de deux millions de citoyens, la plupart #musulmans, déchus de leur #nationalité

    La Cour suprême exclut de nombreux citoyens des registres d’état civil de l’#Etat_de_l’Assam.


    https://www.lemonde.fr/international/article/2019/08/31/en-inde-pres-de-deux-millions-de-citoyens-la-plupart-musulmans-dechus-de-leu
    #citoyenneté #apatridie #Assam #apatrides

    –---------

    En 2018, le Courrier international titrait :
    Inde. Quatre millions d’habitants de l’Assam considérés comme apatrides
    https://seenthis.net/messages/712102

    • India builds detention camps for up to 1.9m people ‘stripped of citizenship’ in Assam

      Ten centres ‘planned’ across northeastern state after national register published
      The Indian government is building mass detention camps after almost two million people were told they could be effectively stripped of citizenship.

      Around 1.9m people in the north-eastern state of Assam were excluded when India published the state’s final National Register of Citizens (NRC) list in August.

      Those excluded from the register will have to appeal to prove they are citizens. The UN and other international rights groups have expressed concern that many could be rendered stateless.

      The citizenship list is part of a drive to detect illegal immigrants in Assam.

      The Indian government claims that the migrants have arrived from neighbouring Muslim-majority Bangladesh.

      Critics say that the register has upended the lives of Muslims who have lived legally in the state for decades.

      Record keeping in parts of rural India is poor and many, including those building the camps, have been caught out by the NRC’s stringent requirements.

      “We don’t have birth certificates,” Malati Hajong, one of the labourers working at a site near the village of Goalpara, told the Reuters news agency.

      The Goalpara camp is one of at least 10 planned detention centres, according to local media reports.

      It is around the size of seven football pitches and designed to hold 3,000 people.

      Officials plan to have a school and hospital at the centre, as well as a high boundary wall and watchtowers for the security forces.

      Critics have accused the Modi administration of using the NRC to target Assam’s large Muslim community.

      But the government says it is simply complying with an order from India’s Supreme Court, which said the NRC had been delayed for too long and set a strict deadline for its completion.

      Government sources say those excluded from the list retain their rights and have 120 days to appeal at local “Foreigners Tribunals”. If that fails, they can take their cases to the High Court of Assam and ultimately the Supreme Court. What happens to those who fail at all levels of appeal is yet to be decided, they said.

      Last month the local chapter of India’s ruling Bharatiya Janata Party expressed dismay after it became apparent that many Hindus had also been excluded from the list.

      Officials said the government may pass legislation to protect legitimate citizens.

      The government is already in the process of bringing legislation to grant citizenship to Hindu, Sikh and Buddhist immigrants from neighbouring countries.

      Muslim immigrants are not included in the law.

      The nationalist, hardline Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS) group also called for genuine citizens to be included in the list after it emerged that Hindus had been affected. The RSS and BJP are closely affiliated.

      https://www.independent.co.uk/news/world/asia/assam-india-detention-camps-bangladesh-nrc-list-a9099251.html

      #camps_de_détention #détention

    • India Takes Step Toward Blocking Naturalization for Muslims

      A bill establishing a religious test for immigrants has passed the lower house of Parliament, a major step for Prime Minister Narendra Modi’s Hindu-nationalist agenda.

      India took a major step toward the official marginalization of Muslims on Tuesday as one house of Parliament passed a bill that would establish a religious test for migrants who want to become citizens, solidifying Prime Minister Narendra Modi’s Hindu-nationalist agenda.

      The measure would give migrants of all of South Asia’s major religions a clear path to Indian citizenship — except Islam. It is the most significant move yet to profoundly alter India’s secular nature enshrined by its founding leaders when the country gained independence in 1947.

      The bill passed in the lower house, the Lok Sabha, a few minutes after midnight, following a few hours of debate. The vote was 311 to 80. The measure now moves to the upper house, the Rajya Sabha, where Mr. Modi seems to have enough allies that most analysts predict it will soon become law.

      Muslim Indians are deeply unsettled. They see the new measure, called the Citizenship Amendment Bill, as the first step by the governing party to make second-class citizens of India’s 200 million Muslims, one of the largest Muslim populations in the world, and render many of them stateless.
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      “We are heading toward totalitarianism, a fascist state,” said Asaduddin Owaisi, a Muslim lawmaker, who on Monday dramatically tore up a copy of the bill while giving a speech in Parliament. “We are making India a theocratic country.”

      The legislation goes hand in hand with a contentious program that began in the northeastern state of Assam this year, in which all 33 million residents of the state had to prove, with documentary evidence, that they or their ancestors were Indian citizens. Approximately two million people — many of them Muslims, and many of them lifelong residents of India — were left off the state’s citizenship rolls after that exercise.

      Now, Mr. Modi’s Bharatiya Janata Party, or B.J.P., is hoping to expand that kind of citizenship test to other states. And the new legislation would become a guiding principle for who could hope to call themselves Indians.

      Mr. Modi and his party are deeply rooted in an ideology that sees India as a Hindu nation. And since the B.J.P.’s landslide re-election win in May, Mr. Modi’s administration has celebrated one Hindu nationalist victory after another, each a demoralizing drumbeat for Muslims.
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      First came the Assam citizenship tests. Then Mr. Modi stripped away autonomy and statehood for Kashmir, which used to be India’s only Muslim-majority state. And last month, Hindu fundamentalists scored a big court victory allowing them to build a new temple over the ruins of a demolished mosque in the flash point city of Ayodhya.

      With the new citizenship bill, Mr. Modi’s party says it is simply trying to protect persecuted Hindus, Buddhists and Christians (and members of a few smaller religions) who migrate from predominantly Muslim countries such as Pakistan or Afghanistan.

      But the legislation would also make it easier to incarcerate and deport Muslim residents, even those whose families have been in India for generations, if they cannot produce proof of citizenship.

      Under Mr. Modi’s leadership, anti-Muslim sentiment has become blatantly more mainstream and public. Intimidation and attacks against Muslim communities have increased in recent years. And overt displays of Hindu piety and nationalism have become central in pop culture and politics.

      Mr. Modi’s fellow lawmakers in the B.J.P. are unapologetic about their pro-Hindu position.

      “There are Muslim countries, there are Jew countries, everybody has their own identity. And we are a billion-plus, right? We must have one identity,” said Ravi Kishan, a famous action-film hero and member of Parliament who is a central supporter of the citizenship legislation.

      When asked if he was trying to turn India into a Hindu nation, he laughed. “India has always been a Hindu nation,” he said. “The Muslims also are Hindus.” (This is a common Hindu nationalist belief: that India’s Muslims are relatively recent converts, even though Islam arrived in India hundreds of years ago.)

      Even before lawmakers in the Lok Sabha voted, protests were breaking out.

      In Assam, where the citizenship program began last summer, thousands of people have marched in the streets, hoisting placards and torches and shouting out their opposition to the bill.

      People are talking of mass fasts and boycotts of schools and markets. On Monday, some hanged effigies of Mr. Modi and his right-hand man, Amit Shah, the home minister.

      The leaders of the opposition Indian National Congress party are trying to paint the bill as a danger to India’s democracy. After India won its independence, its founding leaders, Mohandas K. Gandhi and Jawaharlal Nehru among them, made a clear decision: Even though the country was 80 percent Hindu, it would not be an officially Hindu nation. Minorities, especially Muslims, would be treated equally.

      Rahul Gandhi, a party leader and great-grandson of Mr. Nehru, said, “India belongs to everybody — all communities, all religions, all cultures.” Shashi Tharoor, the party’s intellectual heavyweight, called the bill an “all-out assault on the very idea of India.”

      But the Congress party is at a low point in its 100-year-plus history. And Mr. Modi’s party has the numbers: With allies, it controls nearly two-thirds of the seats in the lower house.

      Some of Mr. Modi’s critics believe the bill is serving to distract the public from another pressing issue: the economy. For the first time in decades, India’s economy is slowing significantly. It is still huge, but several big industries, like car and motorcycle manufacturing, have seen sales plummet like never before.

      “The economy is in tatters,” said Aman Wadud, a human rights lawyer in Assam. The bill, he said, was “the only issue left to polarize the country and distract people.”

      But forging India into an overtly Hindu nation has been a core goal of Mr. Modi’s party and of the R.S.S., a right-wing volunteer group whose ranks Mr. Modi rose up through and which provides him a backbone of support. And India’s recent moves in Kashmir, along with the Ayodhya temple ruling and the Assam citizenship tests, have been hugely popular with the prime minister’s base.

      Earlier this year, Mr. Modi’s government tried to push similar citizenship legislation. The bill sailed through the lower house but stalled after many politicians in Assam said they did not like the religious dimension the B.J.P. was injecting — or the possibility that a large number of Hindu Bengalis would be made citizens and would be able to legally acquire land in Assam.

      The bill gathered new momentum this fall, after the citizenship test in Assam. Assam has witnessed waves of migration over the years, and many of those people whose citizenship was being questioned were migrants, both Hindus and Muslims, from neighboring Bangladesh.

      Mr. Shah, the home minister and architect of the B.J.P.’s recent political victories, promised to protect the Hindus and other non-Muslims. He has called illegal migrants from Bangladesh “termites,” and along with his other statements made clear that Muslims were his target. Mr. Shah has also promised to impose the citizenship test from Assam on the entire country.

      The citizenship bill is a piece of the campaign to identify and deport Muslims who have been living in India for years, critics of the bill say. It lays out a path to Indian citizenship for migrants from Pakistan, Bangladesh and Afghanistan if they can prove they have been in India for at least five years and ascribe to the specified religions.

      To overcome the resistance from politicians in Assam, who do not want Hindu or Muslim migrants taking their land, the new version of the bill carves out special protections for areas predominated by indigenous people.

      Mr. Modi’s supporters employ a certain logic when defending the bill’s exclusion of Muslims. They say Muslims are not persecuted in Pakistan, Bangladesh or Afghanistan, which is mostly true. They also say that when India and Pakistan were granted independence in 1947, the British carved out Pakistan as a haven for Muslims, while India remained predominantly Hindu. To them, the extension of that process is to ask illegal Muslims migrants to leave India and seek refuge in neighboring, mainly Muslim nations.

      Article 25 of the Indian Constitution says, “All persons are equally entitled to freedom of conscience and the right freely to profess, practice and propagate religion.” Given that, many opponents of the bill say the citizenship legislation is patently unconstitutional. But the Hindu nationalists have an answer for that, as well.

      “We are not talking about citizens,” said Ramesh Shinde, a spokesman for the Hindu Janajagruti Samiti, a Hindu organization that is considered a far-right group. “We are talking about migrants.”

      Both sides agree on one thing: The bill could have far-reaching consequences.

      The Indian government is already racing to build an enormous network of prisons to house thousands of migrants. If immigration law is applied selectively, Hindu migrants who are swept up in raids may be released and allowed to apply for citizenship, while Muslim migrants could instead be sent to detention camps, opponents say.

      “In every state, Muslims are running around for papers,” said Mr. Wadud, the human rights lawyer in Assam. “An environment of fear has been created.”

      Mr. Kishan, the action hero turned politician, said he would next push to change India’s name to Bharat, the traditional Hindi word for India. But he said that he was not anti-Muslim, and that Muslims living in India legally had nothing to fear.

      “How can I be anti-Muslim? My staff in Mumbai is Muslim,” he said.

      “Hindus and Muslims in India are like this,” he said, interlacing his fingers. “But,” he added with a big smile, “I love Hindus.”

      https://www.nytimes.com/2019/12/09/world/asia/india-muslims-citizenship-narendra-modi.html

  • Interior minister says 92,000 Syrians granted Turkish citizenship

    A total of 92,280 Syrians have been naturalized in Turkey, according to a statement from Turkish Interior Minister Süleyman Soylu.

    The minister, who spoke to representatives from Turkish media outlets at the ministry on Friday, said 47,000 of the naturalized Syrians are adults while 45,280 of them are children.

    According to a statement from Soylu in February, 3,644,342 Syrians had fled to Turkey since the start of the civil war in the neighboring country.

    During Friday’s meeting the minister said most Syrians want to return to Syria the moment the country becomes a safe place to live.

    “Some 65 to 70 percent of Syrians, according to surveys, say they will return to Syria if the country becomes safe again. This shows that they will return. For those who want to stay in Turkey, I don’t think there will be a problems for them,” said Soylu.

    In recent weeks Turkish media have reported that some Syrian refugees in the country are being deported even if they are registered. These Syrians are allegedly being forced sign a document saying they are leaving Turkey of their own accord.

    In a move that unsettled Syrian refugees, the İstanbul Governor’s Office on July 22 directed Syrians who are not registered in İstanbul to leave the city by Aug. 20 and return to the cities where they registered and gained temporary protection status.

    The governor’s office said those who do not leave İstanbul by Aug. 20 will be sent back to the cities of their registration in line with an order from the Interior Ministry.

    On Wednesday, Abdullah Ayaz, who heads the Turkish Interior Ministry’s migration management department, denied reports about the deportation of some Syrians from Turkey, saying that such an act would be legally impossible.

    The ruling Justice and Development Party (AKP) government is said to have tightened its policy on Syrian refugees following its loss of İstanbul in the mayoral election held in June to an opposition candidate. Many say the public’s unease with the Syrian refugees is one of the reasons for the AKP’s election loss in İstanbul and some other major cities.

    https://www.turkishminute.com/2019/08/02/interior-minister-says-92000-syrians-granted-turkish-citizenship
    #asile #migrations #réfugiés_syriens #nationalité #Turquie #citoyenneté

    v. aussi les annonces de Erdogan à partir de 2016 sur ce sujet :
    https://seenthis.net/messages/505950
    https://seenthis.net/messages/508084

    Et à mettre en lien avec les renvois de Syriens en Syrie :
    https://seenthis.net/messages/617415

  • La guerre de l’État contre les étrangers. Un extrait du livre de Karine Parrot
    https://www.contretemps.eu/guerre-etat-migrants

    À la rubrique des mécanismes déloyaux déployés contre les pauvres qui arrivent jusqu’en Europe, le «  système #Dublin  » est sans doute un des plus féroces et des plus élaborés. Il montre jusqu’où peut aller le fantasme gestionnaire des gouvernants, cette idée qu’il serait possible de traiter certaines personnes exactement comme des flux, alimentant des stocks à transférer, à se répartir, à tarir. À aucun moment dans le mécanisme Dublin, les personnes ne sont véritablement prises en considération, si ce n’est au prisme de leur volonté présumée de contourner les règles.

    #migration #Union_européenne

    • Carte blanche. L’Etat contre les étrangers

      L’actualité la plus récente a donné à voir une #fracture au sein de la gauche et des forces d’émancipation : on parle d’un côté des « no border », accusés d’angélisme face à la « pression migratoire », et d’un autre côté il y a les « souverainistes », attachés aux #frontières et partisans d’une « gestion humaine des flux migratoires ». Ce débat se résume bien souvent à des principes humanistes d’une part (avec pour argument qu’il n’y a pas de crise migratoire mais une crise de l’accueil des migrants) opposés à un principe de « réalité » (qui se prévaut d’une légitimité soi-disant « populaire », selon laquelle l’accueil ne peut que détériorer le niveau de vie, les salaires, les lieux de vie des habitants du pays). Dans ce cinglant essai, Karine Parrot, juriste et membre du GISTI (Groupe d’information et de soutien des immigrés), met en lumière un aspect souvent ignoré de ce débat : à quoi servent au juste les frontières ? qu’est-ce que la nationalité ? Sur la base du droit, Karine Parrot montre que la frontière et la restriction des circulations humaines, sont indissociables d’une #hiérarchie_sociale des peuples à l’échelle mondiale. La #frontière signifie aux plus aisés que, pour eux, aucune frontière n’est infranchissable, tandis qu’elle dit aux autres que, pauvres, hommes, femmes, enfants devront voyager au péril de leur vie, de leur santé, de leur dignité. De l’invention de la #nationalité comme mode de gestion et de #criminalisation des populations (et notamment des pauvres, des « indigents », des vagabonds) jusqu’à la facilitation de la #rétention, en passant par le durcissement des conditions d’#asile et de séjour, ou encore les noyades de masse orchestrées par les gouvernements, l’Union européenne et leur officine semi-privée et militarisée (#Frontex), Karine Parrot révèle qu’il n’y a aucune raison vertueuse ou conforme au « #bien_commun » qui justifie les frontières actuelles des États. Le droit de l’immigration ne vise qu’à entériner la loi du plus fort entre le Nord et le Sud ; il n’a d’autre fin que conditionner, incarcérer, asservir et mettre à mort les populations surnuméraires que la « #mondialisation_armée » n’a de cesse reproduire à l’échelle du monde.


      https://lafabrique.fr/carte-blanche
      #Karine_Parrot #livre #migrations #frontières_nationales
      ping @karine4

  • Taire la nationalité des prévenus ?

    Afin d’éviter les amalgames, une majorité du parlement est favorable à interdire à la #police genevoise de communiquer à la presse la nationalité des délinquants présumés.

    La #motion, soutenue par la majorité des partis, a de grandes chances d’être adoptée par le parlement cantonal. Elle vise à modifier la pratique de la police genevoise lorsqu’elle communique avec la presse sur des délits commis à Genève ou sur des interpellations.

    A l’avenir, la nationalité des délinquants présumés pourrait ne plus du tout être mentionnée. L’auteure de la motion, la députée verte Delphine Klopfenstein Broggini, entend ainsi lutter contre les amalgames xénophobes.

    Le texte est aussi soutenu par Ensemble à gauche, le PS et le PDC, et doit encore être voté en séance plénière. « La nationalité n’apporte pas d’informations pertinentes sur la question du délit », a justifié Delphine Klopfenstein Broggini en commission.

    Elle cite une étude, menée par le professeur en criminologie André Kuhn, qui montre que des facteurs comme l’âge, le niveau socio-économique, le sexe ou encore le niveau de formation sont les plus déterminants. « La mention de la nationalité ne fait qu’attiser la haine », poursuit l’élue écologiste. Elle estime que ces données peuvent être instrumentalisées par certains groupes à des fins politiques.
    La pratique actuelle

    La motion s’inspire de la pratique mise en place dans les villes de Zurich et de Berne. Elle prévoit des exceptions « si cette information est pertinente dans une situation spécifique ». Delphine Klopfenstein Broggini précise que la police genevoise serait tenue de taire la nationalité, non seulement dans ses communiqués, mais également si des journalistes questionnent son service de presse. « Il faut avoir un cadre strict. »

    Actuellement, la publication de la nationalité des prévenus dans les communiqués de la police est la norme, suivant les recommandations de la Conférence des commandants des polices cantonales de Suisse. Il mentionne aussi l’année de naissance et le sexe des personnes. « Sur demande, il est possible de confirmer une origine étrangère », précise aussi le Service de presse de la police genevoise.

    Toutefois, ce dernier ne communique de loin pas sur toutes les affaires. Dans son bulletin journalier, il fournit des informations sur les cas « de moindre importance », le plus souvent en rapport avec des vols, des infractions à la loi sur les stupéfiants ou au code de la route.

    La police s’abstient lorsqu’il s’agit de délits plus graves, comme les homicides, ou des affaires qui se déroulent dans la sphère privée ou qui concernent des mineurs. Cette communication partielle n’est pas anodine : dans certains domaines, comme celui du trafic de drogues, la part des infractions répertoriées impliquant des étrangers est plus élevée.
    Une proposition « contre-productive »

    La proposition des Verts ne fait pas l’unanimité au Grand Conseil. En commission, les groupes de l’UDC, du MCG et du PLR s’y sont opposés. Pour le député UDC Marc Fuhrmann, dont le parti est connu pour pointer le lien entre populations étrangères et criminalité, « il s’agit d’une obstruction à la liberté de la presse ».

    Il estime que la population a le droit, au nom de la transparence, de connaître ce type d’informations. « Cette motion veut manipuler le public afin de le détourner de la réalité », écrit le député. Il relève notamment que les prisons suisses sont occupées majoritairement par des détenus étrangers. Un constat qui doit être expliqué en prenant en compte d’autres critères (comme l’âge, le sexe, ou la situation socio-économique), rétorque Delphine Klopfenstein Broggini.

    Pour beaucoup d’opposants, le fait de taire l’information de la nationalité serait contre-productif. Une partie du public pourrait avoir l’impression qu’on lui cache quelque chose, ce qui renforcerait des sentiments xénophobes. « Notre culture du fait divers est à revoir, répond Delphine Klopfenstein Broggini. Si une partie de la population recherche ces informations, c’est aussi que les médias les ont fournies pendant longtemps. C’est pour cette raison que la pratique doit changer et que les mentalités doivent évoluer. »

    https://lecourrier.ch/2019/06/18/taire-la-nationalite-des-prevenus
    #nationalité #presse #criminalité #médias #Genève

    Et Le Courrier met quoi comme image ? Photo d’un homme noir...

  • Immigration Checks Used In Schools To De-Prioritise Children Of Undocumented Migrants

    Children in a line, outside the classroom door with their passport in hand, waiting one by one to be checked and let in. Teachers checking pupils’ passports, one by one, wondering when the right to free education started being determined by nationality and place of birth.

    This is not the start to a dystopian novel. This was the original vision of the Home Secretary in 2015, as revealed in leaked cabinet letters, for teachers to conduct immigration checks in the classroom.

    As part of the #hostile_environment master plan, immigration checks in schools were to be deployed to de-prioritise the children of undocumented migrants for school places.

    As this first plan didn’t gain sufficient consensus, the government folded and opted for a simpler and less ‘in the open’ option: collecting pupils’ nationality and country of birth data via the school census.

    https://rightsinfo.org/immigration-checks-in-schools-deployed-to-de-prioritise-children-of-undo
    #écoles #frontières_mobiles #migrations #enfants #enfance #sans-papiers #contrôles_frontaliers #UK #Angleterre #it_has_begun #nationalité

  • New Iraqi citizenship law stirs controversy
    https://gulfnews.com/world/mena/new-iraqi-citizenship-law-stirs-controversy-1.1552822828380

    Dubai - As soon as the Iraqi parliament passed a bill to amend the Nationality Law last week, many Iraqis have taken to social media to express their anger.

    The new law states that any person who enters the country legally — and resides in it for a year legally — can get the Iraqi passport.

    Iraqis saw it as a new “disaster” for their country.

    Iraq, they said, had already suffered so much from the scourge of war and corruption.

    Some see it as a way to change the demography and population of Iraq.

    Others see that the Iraqi identity, which is already suffering from years of war, is being jeoprodised.

    Most of the comments on social media accuses the government of passing the law because of the Iranian influence.

    Le commentaire est écrit à Dubaï... Mais cet autre (https://www.raialyoum.com/index.php/%d9%87%d9%84-%d9%8a%d8%aa%d8%b3%d8%a7%d9%87%d9%84-%d8%a7%d9%84%d8%b9%d9%9), en arabe et depuis Amman, va dans le même sens .

    #irak #nationalité #croissant_chiite #iran

  • Acquisitions de nationalité dans l’UE – Les États membres de l’UE ont octroyé la nationalité à plus de 800 000 personnes en 2017 – Les Marocains, les Albanais et les Indiens en ont été les principaux bénéficiaires

    En 2017, quelque 825 000 personnes ont acquis la nationalité d’un État membre de l’Union européenne (UE), un chiffre en baisse par rapport à 2016 (où il s’établissait à 995 000) et à 2015 (841 000). Si, parmi les personnes devenues citoyens de l’un des États membres de l’UE en 2017, 17% étaient auparavant citoyens d’un autre État membre de l’UE, la majorité était des ressortissants de pays tiers ou des apatrides.


    https://migrationsansfrontieres.com/2019/03/17/acquisitions-de-nationalite-dans-lue-les-etats-membres-de-l
    #Europe #citoyenneté #nationalité #naturalisation #statistiques #chiffres #Eurostat

    v. communiqué Eurostat :
    https://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/9641781/3-06032019-AP-EN.pdf/2236b272-24b1-4b59-ade4-748361331b18

  • À #Mayotte, près d’un habitant sur deux est de nationalité étrangère - Insee Première - 1737
    https://www.insee.fr/fr/statistiques/3713016

    En 2017, 256 500 personnes vivent à Mayotte. Depuis 2012, la croissance de la population est particulièrement dynamique et s’est renforcée (+ 3,8 % par an en moyenne après + 2,7 % sur la période 2007-2012). Elle est principalement portée par un fort excédent des naissances sur les décès (+ 7 700 personnes par an en moyenne). Avec 5,0 enfants par femme à Mayotte, la fécondité augmente et dépasse toujours largement la moyenne métropolitaine (1,9 enfant par femme).

    L’excédent migratoire, redevenu positif, contribue également à l’augmentation de la population (+ 1 100 personnes par an entre 2012 et 2017). D’un côté, de nombreux adultes et leurs enfants arrivent des Comores. De l’autre, de nombreux jeunes de 15 à 24 ans, natifs de Mayotte, partent vers le reste de la France, essentiellement en métropole.

    Du fait de ces flux importants, et en augmentation, la population de nationalité étrangère progresse fortement : près de la moitié de la population de Mayotte ne possède pas la #nationalité française, mais un tiers des étrangers sont nés à Mayotte. Dans les communes du Nord-Est de Mayotte autour de Mamoudzou, la croissance démographique est particulièrement élevée, avec l’arrivée de nombreux habitants originaires des #Comores. La population de Mayotte reste jeune : la moitié des habitants ont moins de 18 ans.

    Le confort global des #logements a moins progressé qu’entre 2007 et 2012 : quatre ménages sur dix vivent encore à Mayotte dans un logement en tôle ou en végétal, et trois sur dix n’ont pas l’eau courante.

    #démographie

  • #Shamima_Begum: Isis Briton faces move to revoke citizenship

    The Guardian understands the home secretary thinks section 40(2) of the British Nationality Act 1981 gives him the power to strip Begum of her UK citizenship.

    He wrote to her family informing them he had made such an order, believing the fact her parents are of Bangladeshi heritage means she can apply for citizenship of that country – though Begum says she has never visited it.

    This is crucial because, while the law bars him from making a person stateless, it allows him to remove citizenship if he can show Begum has behaved “in a manner which is seriously prejudicial to the vital interests of the UK” and he has “reasonable grounds for believing that the person is able, under the law of a country or territory outside the UK, to become a national of such a country or territory”.


    https://www.theguardian.com/world/2019/feb/19/isis-briton-shamima-begum-to-have-uk-citizenship-revoked?CMP=Share_Andr
    #citoyenneté #UK #Angleterre #apatridie #révocation #terrorisme #ISIS #EI #Etat_islamique #nationalité #déchéance_de_nationalité

    • What do we know about citizenship stripping?

      The Bureau began investigating the Government’s powers to deprive individuals of their British citizenship two years ago.

      The project has involved countless hours spent in court, deep and detailed use of the freedom of information act and the input of respected academics, lawyers and politicians.

      The Counter-Terrorism Bill was presented to Parliament two weeks ago. New powers to remove passports from terror suspects and temporarily exclude suspected jihadists from the UK have focused attention on the Government’s citizenship stripping powers, which have been part of the government’s counter-terrorism tools for nearly a decade.

      A deprivation order can be made where the home secretary believes that it is ‘not conducive’ to the public good for the individual to remain in the country, or where citizenship is believed to have been obtained fraudulently. The Bureau focuses on cases based on ‘not conducive’ grounds, which are related to national security and suspected terrorist activity.

      Until earlier this year, the Government was only able to remove the citizenship of British nationals where doing so wouldn’t leave them stateless. However, in July an amendment to the British Nationality Act (BNA) came into force and powers to deprive a person of their citizenship were expanded. Foreign-born, naturalised individuals can now be stripped of their UK citizenship on national security grounds even if it renders them stateless, a practice described by a former director of public prosecutions as being “beloved of the world’s worst regimes during the 20th century”.

      So what do we know about how these powers are used?
      The numbers

      53 people have been stripped of their British citizenship since 2002 – this includes both people who were considered to have gained their citizenship fraudulently, as well as those who have lost it for national security reasons.
      48 of these were under the Coalition government.
      Since 2006, 27 people have lost their citizenship on national security grounds; 24 of these were under the current Coalition government.
      In 2013, home secretary Theresa May stripped 20 individuals of their British citizenship – more than in all the preceding years of the Coalition put together.
      The Bureau has identified 18 of the 53 cases, 17 of which were deprived of their citizenship on national security grounds.
      15 of the individuals identified by the Bureau who lost their citizenship on national security grounds were abroad at the time of the deprivation order.
      At least five of those who have lost their nationality were born in the UK.
      The previous Labour government used deprivation orders just five times in four years.
      Hilal Al-Jedda was the first individual whose deprivation of citizenship case made it to the Supreme Court. The home secretary lost her appeal as the Supreme Court justices unanimously ruled her deprivation order against Al-Jedda had made him illegally stateless. Instead of returning his passport, just three weeks later the home secretary issued a second deprivation order against him.
      This was one of two deprivation of citizenship cases to have made it to the Supreme Court, Britain’s uppermost court, to date.
      In November 2014 deprivation of citizenship case number two reached the Supreme Court, with the appellant, Minh Pham, also arguing that the deprivation order against him made him unlawfully stateless.
      Two of those stripped of their British citizenship by Theresa May in 2010, London-born Mohamed Sakr and his childhood friend Bilal al Berjawi, were later killed by US drone strikes in Somalia.
      One of the individuals identified by the Bureau, Mahdi Hashi, was the subject of rendition to the US, where he was held in secret for over a month and now faces terror charges.
      Only one individual, Iraqi-born Hilal al-Jedda, is currently known to have been stripped of his British citizenship twice.
      Number of Bureau Q&As on deprivation of citizenship: one.

      https://www.thebureauinvestigates.com/stories/2014-12-10/what-do-we-know-about-citizenship-stripping
      #statistiques #chiffres

    • ‘My British citizenship was everything to me. Now I am nobody’ – A former British citizen speaks out

      When a British man took a holiday to visit relatives in Pakistan in January 2012 he had every reason to look forward to returning home. He worked full time at the mobile phone shop beneath his flat in southeast London, he had a busy social life and preparations for his family’s visit to the UK were in full flow.

      Two years later, the man, who cannot be named for legal reasons, is stranded in Pakistan, and claims he is under threat from the Taliban and unable to find work to support his wife and three children.

      He is one of 27 British nationals since 2006 who have had their citizenship removed under secretive government orders on the grounds that their presence in the UK is ‘not conducive to the public good’. He is the first to speak publicly about his ordeal.

      ‘My British citizenship was everything to me. I could travel around the world freely,’ he told the Bureau. ‘That was my identity but now I am nobody.’

      Under current legislation, the Home Secretary, Theresa May, has the power to strip dual nationals of their British citizenship if she deems their presence in the UK ‘not conducive to the public good’, or if their nationality was gained on fraudulent grounds. May recently won a Commons vote paving the way to allow her to strip the citizenship of foreign-born or naturalised UK nationals even if it rendered them stateless. Amendments to the Immigration Bill – including the controversial Article 60 concerning statelessness – are being tabled this week in the House of Lords.

      A Bureau investigation in December 2013 revealed 20 British nationals were stripped of their citizenship last year – more than in all previous years under the Coalition combined. Twelve of these were later revealed to have been cases where an individual had gained citizenship by fraud; the remaining eight are on ‘conducive’ grounds.

      Since 2006 when the current laws entered force, 27 orders have been made on ‘conducive’ grounds, issued in practice against individuals suspected of involvement in extremist activities. The Home Secretary often makes her decision when the individual concerned is outside the UK, and, in at least one case, deliberately waited for a British national to go on holiday before revoking his citizenship.

      The only legal recourse to these decisions, which are taken without judicial approval, is for the individual affected to submit a formal appeal to the Special Immigration and Asylum Committee (Siac), where evidence can be heard in secret, within 28 days of the order being given. These appeals can take years to conclude, leaving individuals – the vast majority of whom have never been charged with an offence – stranded abroad.

      The process has been compared to ‘medieval exile’ by leading human rights lawyer Gareth Peirce.

      The man, who is referred to in court documents as E2, was born in Afghanistan and still holds Afghan citizenship. He claimed asylum in Britain in 1999 after fleeing the Taliban regime in Kabul, and was granted indefinite leave to remain. In 2009 he became a British citizen.

      While his immediate family remained in Pakistan, E2 came to London, where he worked and integrated in the local community. Although this interview was conducted in his native Pashto, E2 can speak some English.

      ‘I worked and I learned English,’ he says. ‘Even now I see myself as a British. If anyone asks me, I tell them that I am British.’

      But, as of March 28 2012, E2 is no longer a British citizen. After E2 boarded a flight to Kabul in January 2012 to visit relatives in Afghanistan and his wife and children in Pakistan, a letter containing May’s signature was sent to his southeast London address from the UK Border Agency, stating he had been deprived of his British nationality. In evidence that remains secret even from him, E2 was accused of involvement in ‘Islamist extremism’ and deemed a national security threat. He denies the allegation and says he has never participated in extremist activity.

      In the letter the Home Secretary wrote: ‘My decision has been taken in part reliance on information which, in my opinion should not be made public in the interest of national security and because disclosure would be contrary to the public interest.’

      E2 says he had no way of knowing his citizenship had been removed and that the first he heard of the decision was when he was met by a British embassy official at Dubai airport on May 25 2012, when he was on his way back to the UK and well after his appeal window shut.

      E2’s lawyer appealed anyway, and submitted to Siac that: ‘Save for written correspondence to the Appellant’s last known address in the UK expressly stating that he has 28 days to appeal, i.e. acknowledging that he was not in the UK, no steps were taken to contact the Appellant by email, telephone or in person until an official from the British Embassy met him at Dubai airport and took his passport from him.’

      The submission noted that ‘it is clear from this [decision] that the [Home Secretary] knew that the Appellant [E2] is out of the country as the deadline referred to is 28 days.’

      The Home Office disputed that E2 was unaware of the order against him, and a judge ruled that he was satisfied ‘on the balance of probabilities’ that E2 did know about the removal of his citizenship. ‘[W]e do not believe his statement,’ the judge added.

      His British passport was confiscated and, after spending 18 hours in an airport cell, E2 was made to board a flight back to Kabul. He has remained in Afghanistan and Pakistan ever since. It is from Pakistan that he agreed to speak to the Bureau last month.

      Daniel Carey, who is representing E2 in a fresh appeal to Siac, says: ‘The practice of waiting until a citizen leaves the UK before depriving them of citizenship, and then opposing them when they appeal out of time, is an intentional attack on citizens’ due process rights.

      ‘By bending an unfair system to its will the government is getting worryingly close to a system of citizenship by executive fiat.’

      While rules governing hearings at Siac mean some evidence against E2 cannot be disclosed on grounds of national security, the Bureau has been able to corroborate key aspects of E2’s version of events, including his best guess as to why his citizenship was stripped. His story revolves around an incident that occurred thousands of miles away from his London home and several years before he saw it for the last time.

      In November 2008, Afghan national Zia ul-Haq Ahadi was kidnapped as he left the home of his infirmed mother in Peshawar, Pakistan. The event might have gone unnoticed were he not the brother of Afghanistan’s then finance minister and former presidential hopeful Anwar ul-Haq Ahadi. Anwar intervened, and after 13 months of tortuous negotiations with the kidnappers, a ransom was paid and Zia was released. E2 claims to have been the man who drove a key negotiator to Zia’s kidnappers.

      While the Bureau has not yet been able to confirm whether E2 had played the role he claimed in the release, a source with detailed knowledge of the kidnapping told the Bureau he was ‘willing to give [E2] some benefit of the doubt because there are elements of truth [in his version of events].’

      The source confirmed a man matching E2’s description was involved in the negotiations.

      ‘We didn’t know officially who the group was, but they were the kidnappers. I didn’t know whether they were with the Pakistani or Afghan Taliban,’ E2 says. ‘After releasing the abducted person I came back to London.’

      E2 guesses – since not even his lawyers have seen specific evidence against him – that it was this activity that brought him to the attention of British intelligence services. After this point, he was repeatedly stopped as he travelled to and from London and Afghanistan and Pakistan to visit relatives four times between the end of 2009 and the beginning of 2012.

      ‘MI5 questioned me for three or four hours each time I came to London at Heathrow airport,’ he says. ‘They said people like me [Pashtun Afghans] go to Waziristan and from there you start fighting with British and US soldiers.

      ‘The very last time [I was questioned] was years after the [kidnapping]. I was asked to a Metropolitan Police station in London. They showed me pictures of Gulbuddin Hekmatyar [former Afghan prime minister and militant with links to the Pakistani Taliban (TTP)] along with other leaders and Taliban commanders. They said: ‘You know these guys.’

      He claims he was shown a photo of his wife – a highly intrusive action in conservative Pashtun culture – as well as one of someone he was told was Sirajuddin Haqqani, commander of the Haqqani Network, one of the most lethal TTP-allied groups.

      ‘They said I met him, that I was talking to him and I have connections with him. I said that’s wrong. I told [my interrogator] that you can call [Anwar al-Ahady] and he will explain that he sent me to Waziristan and that I found and released his brother,’ E2 says.

      ‘I don’t know Sirajuddin Haqqani and I didn’t meet him.’

      The Haqqani Network, which operates in Pakistan’s Federally Administered Tribal Areas and across the border in Afghanistan, was designated as a terrorist organisation by the United States in September 2012. It has claimed responsibility for a score of attacks against Afghan, Pakistani and NATO security forces in Afghanistan and Pakistan. The UN accuses Sirajuddin Haqqani of being ‘actively involved in the planning and execution of attacks targeting International Security Assistance Forces (ISAF), Afghan officials and civilians.’

      E2 says he has no idea whether Haqqani was involved in Zia’s kidnapping, but he believes the security services may have started investigating him when he met the imam of a mosque he visited in North Waziristan.

      ‘The imam had lunch with us and he was with me while I was waiting for my father-in-law. I didn’t take his number but I gave him mine. That imam often called me on my shop’s BT telephone line [in London]. These calls put me in trouble,’ he says.

      If E2’s version of events is accurate, it would mean he gained his British citizenship while he was negotiating Zia’s release. He lost it less than three years later.

      The Home Office offered a boilerplate response to the Bureau’s questions: ‘The Home Secretary will remove British citizenship from individuals where she feels it is conducive to the public good to do so.’

      When challenged specifically on allegations made by E2, the spokesman said the Home Office does not comment on individual cases.

      E2 says he now lives in fear for his safety in Pakistan. Since word has spread that he lost his UK nationality, locals assume he is guilty, which he says puts him at risk of attack from the Pakistani security forces. In addition, he says his family has received threats from the Taliban for his interaction with MI5.

      ‘People back in Afghanistan know that my British passport was revoked because I was accused of working with the Taliban. I can’t visit my relatives and I am an easy target to others,’ he said. ‘Without the British passport here, whether [by] the government or Taliban, we can be executed easily.’

      E2 is not alone in fearing for his life after being exiled from Britain. Two British nationals stripped of their citizenship in 2010 were killed a year later by a US drone strike in Somalia. A third Briton, Mahdi Hashi, disappeared from east Africa after having his citizenship revoked in June 2012 only to appear in a US court after being rendered from Djibouti.

      E2 says if the government was so certain of his involvement in extremism they should allow him to stand trial in a criminal court.

      ‘When somebody’s citizenship is revoked if he is criminal he should be put in jail, otherwise he should be free and should have his passport returned,’ he says.

      ‘My message [to Theresa May] is that my citizenship was revoked illegally. It’s wrong that only by sending a letter that your citizenship is revoked. What kind of democracy is it that?’

      https://www.thebureauinvestigates.com/stories/2014-03-17/my-british-citizenship-was-everything-to-me-now-i-am-nobody-a

  • Data Doubles: Wie Regierungen und Firmen mit unseren digitalen Doppelgängern umgehen
    https://berlinergazette.de/data-doubles-wie-regierungen-und-firmen-mit-unseren-digitalen-doppel

    Algorithmische Staatsbürgerschaft und digitale Staatenlosigkeit: Zum Projekt “Citizen Ex”
    https://berlinergazette.de/algorithmische-staatsbuergerschaft-und-digitale-staatenlosigkeit

    Staatsangehörigkeitsrecht ist eigenartig und komplex, mit einer Reihe von Ausnahmen und Auslassungen, die die gemeinhin gültige Ansicht, dass eine Staatsbürgerschaft im Globalen Norden etwas Stabiles und Absolutes ist, untergräbt. So ist zum Beispiel im Vereinten Königreich die Staatsbürgerschaft erst seit dem frühen 20. Jahrhundert juristisch definiert, und die Geschichte ihrer Definition ist in erster Linie eine des Ausschlusses und der Aberkennung. Denn zunächst trachtete der britische Staat danach, seine Grenzen zu stärken. Danach wurden die früheren (und nun nicht mehr britischen) Untertanen vom Festland vertrieben. Und schließlich “entledigte” man sich jener Menschen, deren scheinbar abscheuliches Verhalten dazu führte, ihnen rechtsstaatliche Verfahren zu versagen. Wie Hannah Arendt in einem berühmt gewordenen Satz sagte: Staatsbürgerschaft sei “das Recht, Rechte zu haben”. Eine Garantie, auf der alle anderen Schutzmaßnahmen beruhen. Daher lohnt es sich, das Staatsbürgerschaftsrecht und seine Anwendungen genauer zu betrachten – als Lackmutest für demokratische Freiheiten.

    Neue Formen der Staatsbürgerschaft im Netz

    Heute gerät das Konzept der Staatsbürgerschaft zunehmend unter Druck. Einer der Orte, an denen man das besonders gut beobachten kann, ist das Internet. Im Netz mit seinen scheinbar grenzenlosen Weiten, fließen Information und Daten fast ohne Einschränkungen über die Grenzen hinweg, von Staat zu Staat. Als Staatsbürger werden unsere Rechte und Absicherungen immer weniger unseren physischen Körpern zugeordnet, sondern unseren digitalen Profilen. Also jenen Datensätzen, die unsere Stellvertreter geworden sind hinsichtlich unserer Beziehungen zu Staaten, Banken und Firmen. Somit entstehen an transnationalen, digitalen Knotenpunkten neue Formen der Staatsbürgerschaft.

    “Ius algoritmi” ist ein Begriff, den John Cheney-Lippold prägte, um damit eine neue, vom Überwachungsstaat hervorgebrachte, Staatsbürgerschaft zu beschreiben.

    Digitale Schnitte: Warum und auf welche Art wir uns von unseren Data-Doubles trennen sollten
    https://berlinergazette.de/warum-wir-uns-von-unseren-data-doubles-trennen-sollten

    Digitale Schnitte können Data Doubles und Datenschatten von verkörperten Subjekten abtrennen oder Schnitte oder Teilungen innerhalb von Data Doubles vollziehen und sie in Datenflüsse verwandeln. Mit dem Konzept der digitalen Schnitte lassen sich sowohl Phänomene beschreiben, in denen diese Aufspaltungen willentlich und wissentlich vonstatten gehen, als auch solche wie die Einspeisung biometrischer Information in Datenbanken der Migrationskontrolle, bei denen von Freiwilligkeit keine Rede sein kann.

    Digitale Schnitte können von menschlichen und nicht-menschlichen AkteurInnen (wie künstlichen Intelligenzen) durchgeführt werden. Mithilfe der Schnitte können Fleisch-Technologie-Informations-Amalgame verschiedenen rechtlichen, technologischen oder biopolitischen Regimen untergeordnet und in deren jeweiligen Logiken weiterverarbeitet werden. Neben landläufigen Akzentuierungen von Hybridität oder Amalgamierung gilt es ebenso zu untersuchen, wo und mit welchen Konsequenzen diese Kopplungen wieder aufgebrochen werden: In manchen Fällen, wie z. B. den quer durch Europa reisenden biometrischen Daten in Hotspots festsitzender MigrantInnen, bleibt mit dem Schnitt eine Referenz auf ein konkretes Individuum erhalten, in anderen, wenn z.B. Potenzialitäten verhandelt werden, ist die Loslösung von konkreten Subjekten programmatisch.

    Antiterrorbekämpfung mittels „risk alerts“ kann hierfür als Beispiel gelten: In deren Rahmen können spezifische Nachnamen, die Religionszugehörigkeit, Sprachkenntnisse oder Reiserouten etc. zu Risikopotenzialen werden. Es sind daher nicht konkrete Individuen, die im Namen von Sicherheit fokussiert werden, sondern fragmentierte Elemente eines angeblichen Risikos. Das potenziell gefährliche, dividuierte Subjekt wird also aus einem Amalgam von Teilelementen anderer Subjekte und Objekte zusammengesetzt, wie Louise Amoore betont.

    In einigen Situationen erweisen sich die Schnittstellen zwischen verkörpertem Subjekt und Data Double gleichzeitig auch als Schnitt-Stelle, als Instanz, die Schnitte durchführt, in anderen – z. B. bei der geheimdienstlichen Überwachung oder der Social-Network-Analyse der Drohnenkriege – haben Interfaces wie soziale Medien selbst wenig mit den Schnitten zu tun. Teilweise liegen agentische Schnitte in der Eigenlogik der jeweiligen Technologien begründet, z. B. entstehen die von Bridle beschriebenen algorithmischen StaatsbürgerInnenschaften aus der Logik des Routings heraus. Ihre Auswirkungen reichen von existenzbedrohenden Einschnitten in die Gestaltbarkeit des einzelnen Lebens bis hin zur banalen Film- oder Produktempfehlung auf Netflix oder Amazon.

    #politique #internet #état #nationalité